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COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN DOMENICO MAGGIORE IN
BIBLIOTECA DOMENICANA - NAPOLI COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN DOMENICO MAGGIORE IN NAPOLI Guido storico-artistica A Cura di Gerardo Imbriano O.P. SGUARDO STORICO S. Domenico Maggiore, una delle maggiori chiese di Napoli per ricchezza di opere d ’arte e memorie cittadine1, sorge nel cuore del centro storico, sul limitare dei due decumani della città greca, tra una fitta serie di imponenti edifici e semplici case screpolate, tutti accomunati nel ricordare al visitatore il passato della Capitale del Mezzogiorno. I patronati di alcune cappelle e i numerosi sepolcri che vi si possono ancora osservare sono un po’ come le «voci » di una grande enciclopedia della storia di Napoli, di quella del Rinascimento in particolare. I Caracciolo e i Carafa, i Brancaccio e i D’Alagno, i Sangro e gli Orsini, i Pandone e i Spinelli, i Muscettola e i Capece - per fare alcuni nomi - hanno voluto legare a S. Domenico Maggiore parte della loro storia. Regnanti, grandi signori, uomini d ’armi, politici, prelati, religiosi eminenti, noti artisti sono accolti e « convivono » nel grande tempio domenicano, che custodisce inoltre opere di Tino di Camaino, Colantonio, Giovanni da Nola, Tiziano, Caravaggio (attualmente nel Museo di Capodimonte), Mattia Preti, Luca Giordano, Francesco Solimena. La parte posteriore dell’abside sporge sulla scenografica piazza S. Domenico Maggiore, una delle più caratteristiche e romantiche della vecchia Napoli, col suo obelisco sormontato dalla statua bronzea del santo, contornato, come in una fastosa cornice, dai grandi palazzi dei Del Balzo (poi abitato dal famoso animatore della Congiura dei Baroni, Antonello Petrucci), dei Casacalenda, dei Corigliano, dei Sansevero (sede dei di Sangro, il più noto dei quali fu Raimondo di Sangro, cui si deve l’abbellimento della famosa cappella Sansevero, notevole per le sue opere d ’arte)2. I domenicani e S. Domenico Maggiore I domenicani sono a Napoli dalla prima metà del Duecento, l’epoca di Federico II di Svevia. Ad accoglierli è proprio il complesso che poi si chiamerà S. Domenico Maggiore. Sia la chiesa che il convento annesso, costruito poco per volta fino a diventare nel Seicento un grandioso edificio, saranno sempre considerati il centro più importante della loro molteplice attività nell’Italia meridionale. Basterà indicare qualche data e fare alcuni nomi. 1231. - Il papa Gregorio IX invia a Napoli un gruppo di domenicani, anche se la loro prima presenza in città è fatta risalire al 1227. Si tratta di una delle forze più giovani della Chiesa di allora: l’Ordine era stato infatti approvato ufficialmente solo quindici anni prima da Onorio III per ridare vitalità alla compagine ecclesiastica con la povertà evangelica dei suoi frati e la loro dottrina. Il loro compito più delicato e urgente sarebbe stato quello di istruire il popolo cristiano nelle verità di fede, portare avanti gli studi teologici nei grandi centri citta-dini e presso le università, difendere la Chiesa di cui è dalle eresie. È alla loro testa Tommaso Agni da Lentini, successivamente vescovo di Betlemme, vescovo di Cosenza e patriarca di Gerusalemme ( m. 1277). Sono ospiti dei benedettini affidata la chiesa «in vico Fistula » detta di S. Michele Arcangelo a Morfisa3, probabilmente dal nome della famiglia che l’aveva fatta costruire o vi abitava a fianco. Verso la fine dello stesso anno i benedettini, autorizzati dal papa, cedono ai nuovi venuti, tramite il loro abate Marco e l’arcivescovo di Napoli, Pietro II di Sorrento, la chiesa, il convento, l’orto e alcune case adiacenti. 1244. - Il giovane studente dell’Università di Napoli, Tommaso d’Aquino, incoraggiato dal domenicano del posto Giovanni di S. Giuliano, veste l’abito dell’Ordine. Ha allora diciannove anni. Ritornerà a S. Domenico Maggiore due volte: nel 1259, per continuarvi la Summa contro Gentiles (vi resterà fino al 1261), e nel settembre 1272, per fondarvi uno Studio Generale (= Facoltà 1 Se ne veda la pianta in fondo al volumetto. Per facilitare l’identificazione delle numerose cappelle della basilica, si è pensato di porre dei numeri in margine. Essi rinviano ai numeri corrispondenti segnati nella pianta. 2 Gino Doria, Le strade di Napoli: Saggio di toponomastica storica, Napoli, 1943, p. 402 3 Si hanno anche le forme: « S. Arcangelo de Morfisa », « S. Angelo a Morfisa ». teologica) e comporvi la terza parte della Summa Theologìae. Oggetto del corso da lui tenuto sono i Salmi. Per il suo insegnamento gli viene fissata da Carlo I d ’Angiò la somma di un’oncia d ’oro al mese. Nel 1273 tiene la quaresima: parla sui Comandamenti, il Credo, il Padre Nostro, l’Ave Maria. Usa, non il latino della scuola di teologia, ma il volgare inteso dal popolo. Lascia il convento verso l’inizio di febbraio 1274 per partecipare al Concilio di Lione. Morirà, durante il viaggio, nell’abbazia di Fossanova, non lontana da Terracina, il 7 marzo 1274. 1294. - S. Domenico Maggiore diviene il centro della nuova circoscrizione domenicana detta Provincia Regni utriusque Siciliae, o più semplicemente Provincia Regni, che abbraccia in quest’epoca tutta l’Italia meridionale e la Sicilia. 1302. - L’appannaggio annuo che il convento ricevo dal re Carlo II d ’Angiò per il mantenimento dello Studio Generale ammonta a 80 once d ’oro. Gli altri due Studi teologici della città sovvenzionati dal sovrano, S. Agostino Maggiore e S. Lorenzo Maggiore, percepiscono rispettivamente 30 e 40 once d ’oro. Nel frattempo S. Domenico Maggiore diviene un importante centro di diffusione del tomismo. Uno dei suoi frati, Giovanni Regina, si fa un nome come professore negli Studi di Parigi e di Napoli e gode di molta stima presso i sovrani angioini. Tocca a lui difendere a Parigi l’ortodossia della dottrina tomistica. Egli resta il principale rappresentante della nuova corrente teologica, che tanto peso avrà in futuro nella Chiesa. 1311. - Il convento accoglie il primo dei tre Capitoli Generali che vi saranno celebrati. Il secondo avrà luogo nel 1515, sotto il generalato di Tommaso de Vio detto il Gaetano, originario della Provincia Regni. Il terzo nel 1600, mentre è alla testa dell’Ordine Ippolito Maria Beccaria, che vi muore di li a qualche mese. 1391. - Guido Marramaldo, un domenicano di grande prestigio, chiude i suoi giorni nel suo convento di S. Domenico Maggiore. Gli si deve, tra l’altro, la fondazione di alcuni conventi in Dalmazia e l’erezione della omonima circoscrizione domenicana o Provincia. 1493. - S. Domenico Maggiore entra a far parte della Riforma lombarda, che comprende nel Sud altri dieci conventi dell’Ordine, tra cui quello napoletano di S. Pietro Martire. L’esperimento non dura a lungo. 1536. - Il primo giorno dell’anno l’imperatore Carlo V ascolta in S. Domenico Maggiore un discorso di Ambrogio Salvio da Bagnoli, per qualche tempo suo predicatore e confessore, amico di S. Pio V e di S. Filippo Neri, uno dei « figli » più illustri del convento. Egli incita, fra l’altro, il sovrano a prendere provvedimenti contro la Riforma di Lutero. 1565. - Giordano Bruno, al secolo Filippo, è ricevuto nell’Ordine a S. Domenico Maggiore dal priore Ambrogio Pasca, in seguito professore all’Università di Napoli e, unitamente a Marco Maffei da Marcianise, uno dei promotori della Riforma detta della Sanità (1583), che si estenderà ad altri 17 conventi. Il filosofo nolano vi farà il noviziato e gli studi. Abbandonerà il convento e l’Ordine, per iniziare le sue peregrinazioni in Europa, nel 1576. 1595. - Si tenta inutilmente di sostituire i frati del convento con i riformati della Sanità. L’episodio interessa tanto il viceré, la nobiltà e il popolo di Napoli, quanto il papa Clemente VIII e Filippo II di Spagna. Tra i « ribelli » c’è anche il futuro titolare della cattedra del testo di S. Tommaso nell’Università di Napoli e vescovo di Mottola, Serafino Rinaldi da Nocera, grande amico di Tommaso Campanella nel periodo in cui questi, già assiduo frequentatore della ricca e preziosa biblioteca del convento, è in carcere nei vari castelli della città. Negli stessi anni l’atrio di S. Domenico Maggiore, con le tre aule che vi si affacciano, è sede dell’Università di Napoli. 1623. - Ludovico da Maddaloni lascia S. Domenico Maggiore per iniziare nel convento di San Marco dei Cavoti (Benevento) una nuova Riforma, che si estenderà ad altri 14 conventi. 1650. - Al convento, che abitualmente ospita complessivamente circa 180 religiosi o anche più, risultano «affiliati » 133 frati. Di questi, 80 sono sacerdoti, 19 novizi e giovani professi, 34 conversi (= cooperatori). 1742. - Muore Tommaso Maria Alfani, nativo di Salerno, trasferito a S. Domenico Maggiore nel 1712. L’Alfani si occupò della storia dei concili provinciali ed ebbe rapporti di amicizia con Gaetano Argento, Giambattista Vico e Ludovico Antonio Muratori. 1809. - Il convento, sfuggito per poco alla soppressione durante i pochi mesi di vita della Repubblica Partenopea del 1799, viene soppresso da Gioacchino Murat, che destina l’edificio ad opere pubbliche. Il ricco materiale artistico e culturale accumulato da secoli in S. Domenico Maggiore è gravemente manomesso. Parte dell’archivio conventuale si salva col suo trasporto all’Archivio di Stato di Napoli (fondo Monasteri Soppressi, 425-692bis). La biblioteca invece è quasi completamente dispersa, anche se molti libri e manoscritti finiscono col passare a quella che sarà poi detta Biblioteca Nazionale di Napoli. Manoscritti di S. Domenico Maggiore sono oggi reperibili in biblioteche e archivi di Roma (Vaticana, Casanatense, Corsiniana), Berlino, Monaco di Baviera, Vienna, Salamanca, Princeton (Stati Uniti). Una fine peggiore fanno molti pezzi di valore custoditi nella chiesa e nell’annessa sala degli arredi sacri (per es. le teche d ’argento con i cuori di Carlo II d ’Angiò, Ferrante, Ferrandino). 1820. - I domenicani rientrano a S. Domenico Maggiore il 18 gennaio. Provengono da tutto il Mezzogiorno. Grande prestigio godono in questi anni, nei vari ambienti, il P. Luigi Vincenzo Cassitto e il P. Vincenzo Vecchione. Nonostante le difficoltà della ripresa, a tutti i livelli, nei decenni seguenti il P. Tommaso Michele Salzano, successivamente professore, priore, provinciale, vescovo e pro-nunzio pontificio, passato alla leggenda per le sue battute di spirito, e il P. Alberto Radente, priore del convento e ascoltato consigliere spirituale di Bartolo Longo, lasceranno un’impronta profonda in molti spiriti. 1865. - Il 24 settembre - in seguito ai noti avvenimenti che hanno portato nel 1861 all’unità d ’Italia - perviene ai religiosi l’ordine di lasciare nuovamente il convento e la chiesa. Gli ultimi frati abbandonano i locali la sera del 7 ottobre. Vi rimetteranno piede, dopo vari tentativi falliti, venti anni dopo. La chiesa ritornerà infatti all’Ordine solo il 26 aprile 1885, « dopo premurose e reiterate istanze » - è detto in un documento del tempo - del P. Costantino Rossini « presso il governo e gli Eminentissimi Arcivescovi di Napoli ». Particolari benemerenze acquista in questa occasione l’arcivescovo della città card. Guglielmo Sanfelice. 1937. - Si ricostituisce la Provincia Regni, ridotta a vicaria in seguito alla seconda soppressione ottocentesca. I frati sono riusciti intanto a riottenere una parte, sia pure minima, del vecchio, grandioso convento. Sono cosi in grado di ripristinare la vita comune e riprendere il loro posto nella vita religiosa della città. Nel frattempo P. Pio Ciuti affascina il pubblico con la sua oratoria e fa sentire la sua parola anche fuori d ’Italia. 1974. - Un migliaio circa di studiosi, convenuti da ogni parte del mondo per il congresso tomistico internazionale in occasione del settimo centenario della morte di S. Tommaso d ’Aquino, viene a S. Domenico Maggiore per raccogliere sul posto l’eco lontana ma sempre viva e potente della voce del santo. Intanto già da anni, con l’inserimento nella Facoltà Teologica, nell’istituto Superiore di Scienze Religiose e nell’Università statale, nonché con la rivista di filosofia e di filosofia e di teologia Sapienza, a raggio internazionale, la rivista pastorale Temi di Predicazione (passata in seguito al convento di S. Pietro Martire all’Università) e una biblioteca aperta al pubblico, i frati del luogo si sono riallacciati alla loro plurisecolare tradizione religiosa e culturale. 1990. - Si inaugura - sulla strada aperta dallo Studio Generale, ricostituito dai domenicani del Sud nel 1951 - l’istituto filosofico “ S. Tommaso d ’Aquino” col proposito di costituire un nucleo di giovani studiosi del pensiero di S. Tommaso. Vicende della chiesa La basilica attuale sorge in parte sull’area della chiesa di S. Michele Arcangelo a Morfisa, eretta probabilmente prima del secolo X e officiata dai basiliani fino al 1116, anno in cui passò ai benedettini. L’edificio era collegato a un ospedale. Le linee romaniche della vecchia chiesa sono ancora visibili sul prolungamento del braccio destro della crociera. Vi si può accedere anche dalla piazza S. Domenico Maggiore servendosi dell’ampia scalinata in piperno a sinistra di chi guarda l’abside. Nel 1255 papa Alessandro IV, che, consacrato a Napoli il 20 dicembre dell’anno precedente, si trovava ancora in città, dedicò la chiesa a S. Domenico, sotto il cui patronato era stato già posto l’unito convento fin dal 1234, anno di canonizzazione del santo. Nel 1283 Carlo II d ’Angiò - allora ancora principe di Salerno e vicario del Regno, ove sostituiva il padre, in quel momento in Francia per il noto duello con Pietro d ’Aragona - , mosso dal desiderio di abbellire la città e far cosa grata ai domenicani, dei quali aveva illimitata stima, volle ingrandire la chiesa, senza però distruggere l’antica, nella misura almeno in cui poteva essere incorporata nella nuova. La prima pietra, benedetta dal card. Gerardo Bianco di Parma, legato apostolico nel regno, fu posta dallo stesso principe il 6 gennaio 1283. Ma il 5 giugno dell’anno seguente Carlo era catturato dagli Aragonesi nel golfo di Napoli e i lavori o furono sospesi o andarono molto a rilento. Provato dalle sofferenze, l’Angiò, secondo alcuni, avrebbe fatto voto a S. Maria Maddalena, la santa della Provenza, di dedicarle la nuova chiesa, se fosse scampato ai pericoli. Morto il padre e riconosciuto re mentre era ancora in cattività, Carlo II, dopo la liberazione e il ritorno a Napoli nel 1289, rimise mano alla costruzione chiamandovi a lavorare i maestri francesi Pierre de Chaul e Pierre d’Angicourt. La chiesa, i cui lavori si protrarranno fino al 1324, fu dedicata a S. Maria Maddalena, ma i napoletani continuarono a denominarla con l’appellativo primitivo. Il tempio angioino, a tre navate, fu costruito nello stile imperante dell’epoca, ch’era il gotico4. Coll’ascesa al trono, nel 1442, di Alfonso I il Magnanimo il complesso architettonico venne arricchito con l’apertura, alle spalle dell’abside, dell’attuale piazza S. Domenico Maggiore, ricavata dall’abbattimento di alcune costruzioni. Fu l’Aragonese, inoltre, a far eseguire la grande scalinata in piperno cui si è accennato. Nel dicembre 1446 un terremoto danneggiò l’edificio. Il terremoto del 1456, che distrusse mezza Napoli, fece il resto. lIl tempio fu riparato ed abbellito a cura dei nobili del Seggio di Nido, che chiamarono l’architetto Novello da S. Lucano a dirigerne i lavori e i toscani Pietro e Ippolito del Donzello a ornarlo con dipinti e sculture. Purtroppo in questi restauri la chiesa cominciò a perdere la sua linea primitiva. Il 30 dicembre 1506 un pauroso incendio la distruggeva quasi completamente e bisognò restaurarla di nuovo. Nel 1670 il priore del convento Tommaso Ruffo, dei duchi di Bagnara, - in seguito procuratore generale dell’Ordine e arcivescovo di Bari - oltre a far ricostruire con ambiziosi progetti l’annesso convento, curò il rifacimento della chiesa e, cedendo al gusto del tempo, tentò di trasformarla da gotica in barocca. Nel corso di questi lavori - e cosi nel 1732, quando fu rifatto il pavimento su disegno di Domenico Antonio Vaccaro (1681-1750) - molte iscrizioni, lastre tombali, dipinti ecc. andarono dispersi o distrutti. Altri gravi danni subirono la chiesa e il convento durante il Decennio francese (1806-1815), con la soppressione delle corporazioni religiose. Nel 1849 il priore Tommaso Michele Salzano - futuro arcivescovo di Edessa e consigliere di Stato decideva il radicale restauro della chiesa, che venne condotto in porto dal 1850 al 1853 da Federico Travaglini, cui poi furono mossi non pochi appunti, tra cui quello di aver snaturato totalmente il monumento. Si può tuttavia dire che, « nonostante le erronee scelte di restauro compiute dal Travaglini, la struttura della chiesa... è ancora assai vicina a quella iniziale, tipica del gotico 4 La navata centrale misura in altezza m. 26,50, in lunghezza m. 74, in larghezza m. 9 circa. La crociera è larga m. 40 circa. Ciascuna delle navate laterali misura in larghezza m. 5,30. napoletano »5. In seguito all’ultimo conflitto mondiale (1939-1945), durante il quale la basilica subì notevoli danni, particolarmente nella zona del transetto, sono stati eseguiti singoli lavori di restauro. Da menzionare: il ripristino dello splendido soffitto a cassettoni e delle balaustre in marmo nelle varie cappelle; il rifacimento dei pavimenti e dei tetti; il restauro del Cappellone del Crocifisso, che ha permesso di mettere in luce i fini bassorilievi di scuola lombarda che si ammirano nella cappellina Carafa; il ripristino della sala degli arredi sacri e locali adiacenti, della facciata principale, dell’abside; il restauro della terza cappella a destra, che ha portato alla definitiva sistemazione degli affreschi di Pietro Cavallini - da alcuni ritenuti di scuola giottesca e da Ferdinando Bologna restituiti all’artista romano - ; l’attintatura generale della basilica; il restauro delle porte monumentali e del campanile; il restauro e il potenziamento dell’organo settecentesco6. Nel 1974, settimo centenario della morte di S. Tommaso, sono stati eseguiti il restauro delle mura perimetrali della basilica (ciò che ha portato alla riscoperta del tufo originario delle stesse), quello della sala S. Tommaso (con il relativo affresco), e quello dei locali prospicienti il cortile. Negli anni successivi sono stati completati il restauro e la sistemazione di parte della biblioteca (con sala di lettura). Nel 1991 sono stati condotti a termine lo studio e il restauro delle arche funerarie dei re aragonesi, sistemate nella sagrestia monumentale. È stata inoltre allestita una mostra dei libri corali miniati restaurati negli anni precedenti. 5 A. Venditti, in Storia di Napoli, III, 732. Tali interventi sono stati resi possibili grazie all’interessamento dei vari priori domenicani che si sono succeduti alla testa della comunità religiosa cui è affidata la custodia della basilica. 6 ATRIO L’aspetto attuale Dalla piazza S. Domenico Maggiore, per una strada incassata tra vecchi e alti edifici (vico S. Domenico Maggiore), a destra di chi guarda l’abside cui si è fatto cenno, si raggiunge il vasto cortile che funge da atrio della basilica. All’esterno del portale d ’ingresso, in alto, affresco con la Vergine che dà lo scapolare al beato Reginaldo, della scuola di Pompeo Landolfo (seconda metà del ’400), mal ritoccato ed oggi restaurato. All’interno, sullo stesso portale, piccola statua in marmo, molto deteriorata, di Carlo II d ’Angiò seduto in trono. La relativa iscrizione, oggi scomparsa, testimoniava la riconoscenza dei domenicani verso il costruttore del tempio7. A destra di chi entra nel cortile, le tre congreghe: del Rosario (prima e seconda porta a destra), del SS. Nome (terza porta) e del SS. Sacramento (quarta e quinta porta). Di fronte, a sinistra, l’antico ingresso del convento. Sede dell’Università di Napoli Fra queste mura l’intera Università di Napoli — 5000 studenti intorno al 1607 — ebbe per lunghissimi anni (per es. dal 1515 al 1615) la sua sede. Le aule in cui si tenevano le lezioni, tutte a pianterreno, erano tre: la prima, vicina all’ingresso e dirimpetto al tempio, era adibita all’insegnamento del diritto canonico e della lingua greca; la seconda, a lato, era destinata al diritto civile; la terza, corrispondente alla cosiddetta « aula di S. Tommaso », era riservata alle « arti », alla filosofia e alla teologia8. 7 Vi si leggeva: « Carolus extruxit. Cor nobis pignus amoris / Servandum liquit, coetera membra suis. / Ordo colet noster tanto divictus amore / Extolletque virum desuper astra pium ». L ’iscrizione esprimeva i sentimenti dei frati all’indomani della morte del re, quando si trovò che l’Angiò aveva disposto che il suo corpo fosse portato in Provenza e inumato nella chiesa di S. Maria di Nazaret, annessa al convento delle domenicane da lui fondato, ad eccezione del cuore, che, racchiuso in un cuore d ’argento con cristallo, doveva essere invece consegnato ai religiosi di S. Domenico Maggiore. A tergo del cuore d’argento questi fecero incidere la scritta: « Cor regis Caroli II illustrissimi regis fundatoris conventus. A.D. 1309 ». 8 Nel 1513 Ettore Carafa, conte di Ruvo e proprietario dell’edificio, rifece a sue spese dalle fondamenta le prime due aule; fece inoltre costruire su di esse l’infermeria del convento, trasformata nel 1670 in refettorio attualmente fa parte del complesso museale. L’iscrizione a lettere cubitali su una sola riga in cima al fabbricato, in parte illegibile, e lo stemma di famiglia incastrato nel muro, più sotto, ricordano appunto il rifacimento del Carafa. Ecco il testo I primi due locali vennero in seguito divisi in tre vani e assegnati alle congreghe sopra menzionate, che ancora li conservano9. Degno di nota, nella prima congrega, il quadro del Rosario, di Fabrizio Santafede (1560-1634), in quello del SS. Sacramento la Madonna del Rosario, di Massimo Stanzione. dell’iscrizione: « Hector Carafa Ruborum Comes, auditorium hoc duplex, cum valetudinario, a fundamentis erexit. Sacellumque quod ipse nascenti Deo dicarat, addidit cavitque ut in ara ejus sacelli quotidie sacrificaretur, sibique ad tumulum quotannis justa redderentur. VIII kal. Januarii MDXIII ». 9 La congrega del Rosario si radunava un tempo davanti all’altare della Madonna della Rosa, all’interno della basilica. Ma nel 1617 fu tale l’entusiasmo che seppe suscitare per il Rosario il fiorentino P. Timoteo Ricci, fratello di S. Caterina dei Ricci, chiamato a S. Domenico Maggiore per la quaresima di quell’anno e poi rimastovi come predicatore annuale, che gli ascritti salirono di colpo a oltre 4000, il che rese necessario concedere loro questo locale. La congrega del SS. Nome di Gesù cominciò a radunarsi a partire dal 1623 su iniziativa del P. Michele Torres, poi vescovo di Potenza. Gli ascritti avevano il compito di incitare alla recita del Rosario il popolo minuto ammassato nei malsani « fondaci » della città e di accompagnare i Padri nelle missioni che essi tenevano nelle piazze, nelle carceri e sulle galee. La congrega del SS. Sacramento fu istituita nel 1627 dal P. Giovanni Altamura ( t 1675), sepolto nella basilica sotto il pulpito. Composta inizialmente di soli nobili, i suoi ascritti partecipavano ogni terza domenica del mese a una solenne processione, alla quale interveniva lo stesso viceré. L’Altamura riuniva inoltre in questo locale sette diverse categorie di persone, una per ogni giorno della settimana, e cioè i nobili, i sacerdoti, i mercanti, le dame, i magistrati, gli studenti e gli artigiani. In seguito alla rivoluzione di Masaniello (1647) e alla terribile peste del 1656, i componenti di quasi tutti i ceti si assottigliarono. Numerosi rimasero solo gli artigiani, e da allora la congrega prese il nome di « Compagnia degli Artigiani del SS. Sacramento ». L’aula di S. Tommaso Oltrepassando la porta che immetteva nel convento, si osservi, sulla parete destra, la lapide che ricorda l’insegnamento impartito nel salone accanto per oltre un anno da S. Tommaso d ’Aquino ( t 1274) su invito di Carlo I d ’Angiò10. Il fatto è ricordato dall’affresco della parete di fondo del salone, opera di Nicola Russo o Rossi (1675) discepolo di Luca Giordano11. Tra l’ingresso del convento e quello della chiesa, sulla parete, una vecchia iscrizione, ancor oggi oggetto di controverse interpretazioni tra gli studiosi12. 10 Eccone il testo: « Viator, huc ingrediens, siste gradum atque venerare hanc imaginem et cathedram hanc, in qua sedens magnus ille magister Divus Thomas de Aquino, Neapolitanus, cum frequenti, ut par erat, auditorum concursu et illius saeculi felicitate, admirabili doctrina theologiam docebat, accersitus iam a rege Carolo primo, constituía illi mercede unius unciae auri per singulos menses, in anno MCCLXXII. F.V.C.D.S.S.F.F. [= Frater Vincentius conversus de suo sumptu fieri fecit] ». Nella lapide, le prime tre lettere della sigla precedono stranamente la datazione. Il locale fu anche sede dell’Accademia Pontaniana. Tornato ai domenicani dopo la soppressione del 1865, attualmente è sede della Biblioteca e dell’istituto Filosofico S. Tommaso d ’Aquino. 11 Cfr. Pavone M. A., Pittori napoletani del primo settecento: fonti e documenti, Napoli, 1997, pp. 98, 367. 12 Vi si legge: « Nimbifer ille deo michi sacrum invidit Osirim / Imbre tulit mundi corpora mersa freto / Invida dira minus patimur fusamque sub axe / Progeniem caveas troiugenamque trucem / Voce precor superas auras et lumina celo / Crimine deposito posse parare viam / Sol veluti iaculis itrum radiantibus undas / Si penetrat gélidas ignibus aret aquas ». La lapide si trovava in origine in uno dei chiostri del convento, ma i Padri, per non essere molestati dai numerosi studiosi o curiosi che chiedevano di essa, la murarono al posto ove ora si vede. FACCIATA La facciata della basilica aveva in origine tre porte, una per ogni navata. Le due laterali furono chiuse nel Cinquecento per far spazio a due cappelle interne: quella, a sinistra, dei Muscettola di Spezzano, e quella, a destra, dei Carafa di Santaseverina. Anticamente, accanto all’odierna cappella dei Muscettola, c’era anche una torre campanaria in piperno, abbattuta nel Seicento e sostituita con l’attuale, a destra dell’ingresso. La porta lignea e il portale ogivale marmoreo, inclusi entro un pronao settecentesco, sono gli unici avanzi della facciata primitiva. Furono fatti eseguire dal celebre giurista Bartolomeo di Capua, conte di Altavilla, protonotario del regno ai tempi di Carlo II e del successore Roberto d ’Angiò. Il portale fu rifatto nel 1605 da Vincenzo di Capua, discendente di Bartolomeo. NAVATA CENTRALE Entrando nella basilica il visitatore può dare uno sguardo alle due iscrizioni di Francesco Silvestri, a destra e a sinistra della porta principale. Esse ricordano, l’una, le vicende artistiche, l’altra, quelle storiche del complesso monumentale. Il cassettonato della volta - a fregi, stucchi e ori - fu sostituito all’antico13 nel rifacimento del priore Tommaso Ruffo (1670). Venne poi ridipinto e ridorato in quello del Travaglini (1850). Al centro, lo stemma domenicano; ai quattro angoli, le armi della casa d ’Aragona e della corona di Spagna. Sulla porta, tondo con l’immagine di S. Domenico; nei dodici medaglioni fra gli archi, alcuni santi domenicani su fondo oro (cominciando dai più vicini alla porta, a destra: S. Agnese da Montepulciano, S. Caterina dei Ricci, S. Ludovico Bertrando, S. Raimondo di Penafort, S. Vincenzo Ferreri, S. Antonino Pierozzi, a sinistra: S. Rosa da Lima, S. Caterina da Siena, S. Giacinto di Polonia, S. Pietro Martire, S. Tommaso d ‘Aquino, S. Pio V). I medaglioni furono dipinti da Tommaso De Vivo (1787-1884) nel 1850, in sostituzione di altri, fatti dipingere nel 1820 dal P. Vincenzo Vecchione. Il terzo pilastro a sinistra di chi guarda l’altare maggiore non appare allineato con gli altri: a quanto sembra, fu spostato dalla sua base durante il terremoto del 1456. Prima di passare alle singole cappelle delle navate laterali, si osservino i bei confessionali di radica di noce, del 1732. Le balaustre marmoree delle cappelle, con cancelli in ferro battuto, vennero iniziate nel 1744. 13 L’antico soffitto, diviso in due scomparti, recava scolpite in legno dorato, a grandi dimensioni, le immagini di S. Michele (cui era dedicata la primitiva chiesa) e di S. Maria Maddalena (titolare della chiesa angioina). NAVATA DESTRA CAPPELLA S. MARTINO Cominciamo dalla cappella a destra della porta d’ingresso. Già dei Carafa di Santaseverina, poi dei Saluzzo di Corigliano, è dedicata a S. Martino, raffigurato sull’altare con la Vergine, S. Domenico, S. Caterina e personaggi di casa Carafa, nella bella tavola di Andrea Sabatini da Salerno (1480-1545), seguace, tra l’altro, di Raffaello. Il pregevole fregio marmoreo, che dà un senso di nitida eleganza toscana a tutta la cappella, è di Romolo Balsimelli da Settignano (1508). A destra, sepolcro rinascimentale di Galeotto Carafa e Rosata Pietramala (1513). Ne è probabilmente autore il citato Balsimelli. A sinistra, ampolloso sepolcro del generale Filippo Saluzzo, di Giuseppe Vaccà (1846). In alto, tele di Tommaso De Vivo (1787-1884) raffiguranti la creazione della luce, la visita della regina di Saba a Salomone, l’adorazione dei Magi, 1 ’ingresso della famiglia di Noè nell’Arca. Sul pavimento sono tre lapidi sepolcrali marmoree: di Francesco Carafa, e di Elisabetta Wanden Einden. In mezzo vi è un tombino con lo stemma dei Carafa. All’esterno della cappella, sull’arco d ingresso, in alto, lastra quattrocentesca del sepolcro di Bertrando del Balzo (m. 1351), conte di Montescaglioso, gran giustiziere del regno14. CAPPELLA S. MARIA MADDALENA Sull’altare, al centro, Vergine col Bambino, avanzo d ’affresco di ignoto napoletano del ’400, da identificare, secondo alcuni, con Agnolo Franco15. Sotto la mensa dell’altare vi è una scultura in legno del Cristo morto di buon autore di fine secolo XVIII. Nella parte superiore in un riquadro semicircolare vi è il dipinto raffigurante la Sacra Famiglia e santi di ignoto autore (inizio XVII secolo). A destra, tomba di Bartolomeo Brancaccio ( m. 1341), arcivescovo di Trani, nei modi di Tino di Camaino (m. 1337). In alto, tela con la Vergine circondata da santi domenicani, di Francesco Solimena (1730). A sinistra, incassate nella parete, altre lapidi tombali dei Brancaccio (Tommaso Brancaccio, e Boffolo Brancaccio, Giovannella di Montesorio e suo figlio Enrico risalenti al ’300 e al primo ’400). Sempre nella parete sinistra vi è collocato un crocifisso in legno policromo del XVIII secolo, di ignoto scultore napoletano. Nel mezzo del pavimento vi è una lapide dove è incisa l’iscrizione indicante che Giacomo Brancaccio faceva costruire per sé e per i suoi discendenti il sepolcro. 14 Prima dei restauri del 1850 al di sopra di questa cappella, vi era un grande quadro che rappresentava S. Martino, in atto di celebrare l’eucarestia. 15 Ai due lati, vi erano poste due tavole di S. Domenico e della Maddalena all’altro lato. CAPPELLA DEGLI AFFRESCHI (Famiglia Brancaccio) Sulle pareti, affreschi di Pietro Cavallini (1308/1309), attribuiti in passato a scuola umbro-giottesca: a destra, episodi della Maddalena, a sinistra, Gesù in croce tra la Vergine, S. Giovanni e santi domenicani, e scene tratte dalla vita di S. Giovanni Evangelista. Sulla parete di fondo: scene tratte dalla vita di Sant’Andrea, e in alto sono dipinti due figure di profeti. Sulla volta stemmi della famiglia Brancaccio. A sinistra, in basso, sepolcro di Anastasia Ilario ( m. 1934), detta la « santarella di Posillipo ». Sul pavimento vi è la lastra tombale di Giovanni Francesco Brancacci. Da una pia pratica introdotta in questa cappella dal P. Alfonso da Maddaloni ( m. 1618) sarebbe sorta la Novena di Natale, diffusa poi in tutto il mondo cattolico l3. Nel 1737 Carmine Giordano (1690-1750 circa) compose per tale funzione la celebre Ninna-Nanna, eseguita con grande afflusso di pubblico fino al 1966. CAPPELLA DEL CROCIFISSO (Famiglia Capece) Sull’altare, bel Crocifisso su tavola di Giovan Girolamo Capece (1549 circa). Sotto questa tavola in una cornice di marmi commessi poggiante sul ciborio vi è il dipinto raffigurante l’Addolorata, opera del secolo XVIII di Ignoto napoletano. A destra, tomba di Bernardo Capece (m. 1614), di Ludovico Righi. A sinistra, sepolcro di Corrado Capece ( m. 1270), partigiano di Manfredi. Ne è autore il menzionato Righi. La statua è però di Girolamo d ’Auria (1615). Sul pavimento lastra tombale di suor Petronilla Vera dell’ordine dei predicatori della penitenza. CAPPELLA S. CARLO Sull’altare, Madonna del Rosario e S. Carlo Borromeo, tela di Pacecco de Rosa ( m. 1654). Ai lati dell’altare: a sinistra, la Veronica, opera di Ignoto seguace di Massimo Stanzione (secolo XVII); a destra, S. Sebastiano opera di Ignoto (secolo XVII). Sulla parete destra, in basso, Battesimo di Gesù, tavola di Marco Pino da Siena (1520-96); su quella sinistra, Ascensione, di Teodoro Fiammingo (1577-1604). Le due grandi tele alle pareti, in alto, sono di Mattia Preti (1613-99): a sinistra, Cena in casa di Simone; a destra, le Nozze di Cana. Sulla parete frontale di questa cappella si apriva una porta che metteva in comunicazione con uno dei chiostri del convento, ove è ancora visibile il relativo portale in piperno. Accanto alla porta c’era una cappellina dedicata a S. Antonino abate. Di questi è rimasto, in una nicchia, un affresco che fu creduto di Giotto. Sul pavimento, lapide sepolcrale di Antonio Capace. CAPPELLA S. CATERINA DA SIENA II quadro al centro, con S. Caterina da Siena e il B. Raimondo da Capua, è del Formisani (1859). Ai due lati, B. Colomba da Rieti e B. Francesco de Possadas. A destra, in basso, squisita lastra tombale di Dialta Firrao ( m. 1338) su un sarcofago di altra provenienza; in alto a destra vi era collocato il dipinto della Madonna dell’Umiltà16, di Roberto d ’Odorisio (sec. XIV). A sinistra, sepolcro di Feliciana Gallucci ( m. 1636), moglie di Carlo Dentice; in alto, dallo stesso lato, tela della Natività, dell’olandese Matteo Stomer. Sul pavimento, a sinistra dell’altare: lastra graffita di Costanza Dentice (m. 1334), proveniente dalla bottega di Tino di Camaino ( m. 1337), lapide sepolcrale di Carlo Dentice, lastra tombale di Ranuccio Dentice e di Ludovico Dentice. CAPPELLONE DEL CROCIFISSO VESTIBOLO17. A sinistra, piccolo altare dove era collocata una pregevole tavola trecentesca della Vergine, da alcuni attribuita a Simon Martini ( m. 1344). L’immagine, nota col titolo di Madonna della Rosa18, dalla confraternita del Rosario che qui un tempo si radunava, fu in parte deturpata da successivi restauri. Il S. Domenico a lato risale al ’500. A destra e a sinistra, attaccati alle pareti, due notevoli dipinti di ignoto: il primo rappresenta S. Carlo Borromeo, il secondo S. Benedetto. Sulla parete di fronte, affresco raffigurante il celebre Guido Marramaldo (m. 1391), domenicano di S. Domenico Maggiore, di Antonio Solario detto lo Zingaro (m. 1508 circa)19. In basso, aggiuntovi 16 La tavola della Madonna dell’Umiltà oggi si trova pressi il Museo di Capodimonte in Napoli. Può essere considerata una cappella distinta. Come tale, anticamente apparteneva ai Marramaldo, del seggio di Nido. Dopo la loro estinzione passò ai Muscettola. Giovan Francesco Muscettola nel 1563 la concesse a Francesco Antonio Villani, marchese di Polla. 18 Questo dipinto, si trova presso il Museo di Capodimonte in Napoli. 19 II Marramaldo fu sepolto qui nella sua tomba di famiglia. L’effigie è il ritratto che il Solario ne fece non molto dopo la morte. Lo raffigurò con in mano la croce, che soleva portare al collo per benedire i fedeli, e la borsa, a ricordo della 17 nel ’600, il ritratto di Carlo della Gatta (m. 1656), grande benefattore della chiesa e del convento, cui tra l’altro i domenicani debbono il corpo del martire S. Tarcisio (conservato in una cappella della crociera), che il della Gatta ottenne dal papa e donò ai frati. Al di sopra dell’affresco vi è incassata nel muro una lastra di marmo, in cui il papa Gregorio XIII dichiarava privilegiato l’altare del SS. Crocifisso concedendo l’indulgenza alla celebrazione della SS. Messa al suddetto altare. VOLTA. È anteriore al tempio angioino. Gli affreschi sono di Michele Regolia (1640-91): al centro, la Trinità che incorona la Vergine, negli altri scomparti, santi e sante. LATO DESTRO. A destra, appena lasciato il vestibolo, su di un altarino20, pregevole Resurrezione, del fiammingo Wensel Cobergher di Anversa (1561-1634); nei due medaglioni della tomba di Cristo, raffigurata nel dipinto, i ritratti in chiaroscuro di Paolo IV e del nipote card. Alfonso Carafa, arcivescovo di Napoli. Addossati alla parete, sono allineati quattro sepolcri. Il primo, con statua semigiacente della scuola di Giovanni Miriliano da Nola, è di Ferdinando Carafa (1593). Segue quello di Mariano d ’Alagno (1477), conte di Bucchianico - fratello della famosa Lucrezia, favorita di Alfonso il Magnanimo - e di sua moglie Caterinella Orsini, armonioso mausoleo che ha per autore Tommaso Malvito (1506). Accanto, sepolcro di Placido di Sangro, di Tommaso Malvito (1480), con aggiunte posteriori (in alto Nicola di Sangro, morto nel 1750). Notare la caratteristica sovrapposizione degli stili, espressioni di epoche diverse. Il quarto sepolcro, con statua giacente, è di Diomede Carafa (1470), primo conte di Maddaloni ( m. 1487). Ne è autore Jacopo della Pila. L’opera fu però rimaneggiata da Tommaso Malvito. sua grande generosità verso la povera gente. Almeno fino al 1828, sulla fronte del « beato » si notava un raggio luminoso che venne probabilmente cancellato in un successivo restauro. Era tanta la venerazione per le spoglie del frate, che la cappella della Rosa venne designata comunemente come cappella del « beato Guido ». Durante l’assedio del Lautrec (1527-28) i frati, temendo che la città fosse presa e saccheggiata, nascosero le ossa del Marramaldo, cosi come fecero per quelle del B. Raimondo da Capua. Ancor oggi se ne ignora il posto. 20 Questo altare, già dei conti di Montorio, fu ereditato dal card. Giampietro Carafa, poi papa col nome di Paolo IV, che lo restaurò ed abbellì. Alienato dagli eredi, nel 1594 passò nelle mani di Francesco Carafa, che lo restaurò di nuovo aggiungendovi il quadro della Resurrezione. ALTARE. In alto, tavola con Gesù in croce tra la Vergine e S. Giovanni, indubbiamente uno dei migliori dipinti che rimangono in Napoli del Duecento. Da questa immagine Cristo avrebbe rivolto a S. Tommaso d ’Aquino le famose parole: Bene scripsisti de me, Thoma. Il miracolo, rappresentato nell’altorilievo marmoreo del paliotto dell’altare barocco, avvenne però nella cappella di S. Nicola dell’antica chiesa di S. Michele Arcangelo a Morfisa (braccio destro della crociera), da dove il quadro, trasferito nel 1437 nella nuova cappella di S. Nicola, passò qui nel 1524. Ai lati, due notevolissime tavole: a destra, Cristo che porta la croce, di Gian Vincenzo Corso (m. 1545), secondo altri dello PseudoBramantino (sec. XVI); a sinistra vi era la Deposizione, attribuita a Colantonio (sec. XV)21, secondo altri di ignoto napoletano che imita Ruggero van der Weyden (secolo XV). LATO SINISTRO. In fondo, accanto all’altare, tomba di Francesco Carafa (m. 1470), padre dell’arcivescovo di Napoli card. Oliviero, dal Galante attribuita al Miriliano ma più probabilmente di Tommaso Malvito. Le statue originali, che la ornavano, furono asportate dai Francesi e sostituite con le attuali, di data posteriore. Segue la cappellina dei Carafa di Ruvo (o di Andria), con belle decorazioni marmoree di scuola lombarda, alla cui esecuzione non è esclusa la collaborazione di Romolo Balsimelli da Settignano. In basso sul pavimento in una cornice di marmo di diversi colori vi è la lapide sepolcrale, nei cui riquadri formanti gli angoli della cornice sono le parole del salmo 27: Credo videre bona Domini in terra viventium. Il presepe, allestito con pietre portate da Betlemme, è opera di Pietro Belverte da Bergamo (1507), maestro di Giovanni Miriliano da Nola. In origine si componeva di 28 pezzi. Particolarmente degne di nota le statue lignee della Vergine e di S. Giuseppe; il Bambino, già appartenuto a Caterina Benucci ( m. 1692), una suora di santa vita sepolta presso uno dei due pilastri situati di fronte all’ingresso del Cappellone, fu trafugato alcuni anni fa. Nella stessa cappella, tombe di Ettore Carafa (1511), fratello del card. Oliviero, e di suo figlio Troilo su queste, Adorazione dei Magi, affresco attribuito a Belisario Corenzio (1558-1643); nella volta, loggiato in prospettiva, del Bramantino ( m. 1536 circa). 21 Oggi, al Museo di Capodimonte di Napoli. L’altra cappellina che viene subito dopo è dedicata a S. Rosa da Lima. Sull’altare troneggiava un tempo la bellissima Madonna del Pesce di Raffaello, che fu inviata in Spagna dal viceré duca di Medina (1637-44) e si trova ora al Museo del Prado a Madrid22. Alle pareti, tomba di Giovan Battista del Doce, con statua giacente, e altarino con una tavola della Vergine degli angeli, di fattura bizantina. Sul pavimento della navata centrale del cappellone vi sono le seguenti lapidi sepolcrali: di Raffaello Rocca, di Thomas Mazzaccara e tombino con stemma dei Carafa. Nel mezzo del pavimento, lo stemma domenicano, rappresentato da una cane con la fiaccola in bocca. CAPPELLA S. TOMMASO D’AQUINO È tra il Cappellone del Crocifisso e la porta della sagrestia23. Sull’altare, la Madonna col Bambino e S. Tommaso d'Aquino, tela di Luca Giordano (16321705), è stata trafugata nel 1975. Di fronte a destra, in alto, altro medaglione di Benedetto Minichini ( m. 1898); in mezzo, epigrafe con medaglione di bronzo di Tommaso Michele Salzano (m. 1890); in basso lapide di F. Antonino De Luca. Alla parete destra, sepolcro di Giovanna d’Aquino ( m. 1345), moglie di Ruggero Sanseverino; da notare, sotto il baldacchino ogivale, l’avanzo d ’affresco trecentesco raffigurante la Vergine col Bambino, la tomba in basso è di Gaspare d ’Aquino (1530). Sulla parete di fronte, tombe dei due conti di Belcastro, Cristoforo d ’Aquino ( m. 1342), in alto, e Tommaso d ’Aquino ( m. 1357), in basso, di seguace napoletano di Tino di Camaino. Sulla porta che conduce alla sagrestia, lapide e quadro del cardinale Guglielmo Sanfelice (m. 1897), Arcivescovo di Napoli. In mezzo al pavimento è una lapide sepolcrale con scudo in cui è incisa l’arma della Casa d’Aquino. 22 Nel dipinto, di cui si può vedere una copia nel vestibolo della sagrestia di S. Paolo Maggiore, figurano al centro la Vergine col Bambino, da un lato l’angelo Raffaele e il piccolo Tobia col volto di Pico della Mirandola, dall’altro lato S. Girolamo col volto del Cardinal Bembo. 23 La cappella, dedicata attualmente a S. Tommaso d ’Aquino, era anticamente dedicata a S. Maria della Pietà, come mostrano ancora i due angeli dolenti in cima alle colonne. Qui era anche la Deposizione che ora si trova nel Cappellone del Crocifisso. SAGRESTIA Nel piccolo corridoio che collega la cappella precedente alla sagrestia, a sinistra, un S. Domenico di Andrea Falcone (1664). Sul pavimento della sagrestia, poco dopo l’entrata, una lapide ricorda il primo vescovo di New York, Riccardo L. Concanen (+ 1810), domenicano, morto a S. Domenico Maggiore durante il Blocco continentale imposto da Napoleone. In altra lapide, collocata nel braccio destro della crociera, sono segnalati i momenti salienti della sua vita. Nell’ampia volta, grandioso e luminoso affresco di Francesco Solimena (1657-1743), che vi lavorò nel 1709: in alto, circondate da angeli e santi, la Trinità e la Vergine, quest’ultima nell’atto di indicare S. Domenico che riceve sulla fronte una stella staccata dalla sua aureola; in basso, Trionfo della fede sull’eresia ad opera dei domenicani. Da notare gli armadi, in radica di noce, e i tavoloni dei banchi, di quercia di Calabria. Altri monumentali armadi di noce (del 1749) si possono ammirare nella sala del tesoro, un locale che comunica con la sagrestia tramite una porta lignea attribuita al Fanzago. Sull’altare in fondo, tra due pareti sontuosamente dipinte da Giacomo del Po (1652-1726) ed oggi in cattive condizioni, pregevole Annunciazione di Fabrizio Santafede; incorniciati nelle pareti laterali, i ritratti a chiaroscuro di Giovanni Domenico Milano (1712) e Giacomo Milano (m. 1693). Sulla parete di un locale adiacente a destra, in alto, Mose salvato dalle acque, tela di Michele Regolia. Per l’altra bella porta del Fanzago, a sinistra, in passato si accedeva al reparto superiore, ove riposano le spoglie di alcuni personaggi illustri sepolti in S. Domenico Maggiore. Prima di salire la scaletta che porta alla loggia pensile, si noti a destra il frammento di bassorilievo trecentesco su fondo musivo raffigurante la Maddalena. Si sa che gli Aragonesi preferirono in genere S. Domenico Maggiore come luogo di sepoltura e, in pratica, è alla loro epoca che appartengono i feretri più degni di nota. La loro prima sistemazione nei locali della sagrestia risale al 1594, anno in cui le spoglie dei sovrani aragonesi furono qui composte per volere di Filippo II di Spagna dal viceré Juan de Zuniga, conte di Miranda. Il baldacchino ligneo è invece del 1709. Le casse e i bauli, restaurati di recente, risultano avvolti in drappi di broccatello, velluto o damasco. Qualche cassa non contiene più la sua salma, trasportata altrove. Di molte casse si è perduta la tabella che indicava a chi appartenevano le spoglie che vi sono custodite. Si farà cenno solo alle più importanti e conosciute. La cassa che si vede a terra appena giunti sulla loggia si riteneva un tempo di Antonello Petrucci, conte di Policastro, segretario di Ferrante d ’Aragona e animatore della Congiura dei Baroni, decapitato in Castelnuovo il 15 maggio 148724. Segue, sulla parete, la cassa del card. Ludovico Guglielmo di Montalto, morto a Madrid nel 1672 e qui trasportato due anni dopo. Più in là un cartellino indica la cassa con le spoglie di Ferdinando Orsini (+ 1549), duca di Gravina. In fondo, sono sistemate, in basso, la cassa di Maria d ’Aragona, marchesa del Vasto (m. 1568); in alto, quella di Isabella d’Aragona ( m. 1524), moglie del duca di Milano Gian Galeazzo Sforza, fatto sopprimere da Ludovico il Moro. In corrispondenza con l’ingresso della sagrestia, in alto, si scorgono le casse e i ritratti di quattro regnanti: Giovanna IV d ’Aragona ( m. 1518), il nipote e marito Ferrandino (m. 1496) Ferrante (m. 1494), Alfonso il Magnanimo (m. 1458). Le spoglie di quest’ultimo mancano dal 1666, anno in cui furono tutte trasportare in Catalogna dal viceré del tempo25. Girando a sinistra si nota, in alto, una cassa con lo stemma dei Carafa e le lettere L.C. Si tratta indubbiamente di Luigi Carafa, principe di Stigliano. Quella che segue, con ritratto, appartiene a Ferdinando d ’Avalos (m. 1525), marchese di Pescara, vincitore effettivo, per conto di Carlo V, della battaglia di Pavia, in cui venne fatto prigioniero lo stesso re di Francia Francesco I. Sulla cassa26, la spada che il sovrano gli consegnò al momento della resa e l’asta della bandiera francese catturata in combattimento, dalla quale, fino ad alcuni decenni fa, pendeva ancora parte della stoffa. Seguono le casse delle duchesse di Montalto, Maria della Cerda (m. 1572), Maria Enriquez de Ribera (m. 1639) e Caterina di Moncada (m. 1659). In fondo, quattro casse con epitaffi francesi. Contengono le salme della moglie del conte di Mosbourg, Agar, ministro delle finanze sotto il Murat, e di tre suoi figliuoli. Nell’uscire dalla sagrestia, sulla porta d’ingresso, vi era un Cristo morto dipinto di scorcio. Si tratta di una tela del caravaggesco romano Orazio Borgianni (1578-1616). Oggi tale dipinto si trova nei locali del convento. 24 Antonello Petrucci molto probabilmente fu sepolto in S. Domenico Maggiore, dove aveva la sua cappella gentilizia (cfr. più avanti, p. 58), ma si ignora dove. I resti mortali contenuti nella cassa non si possono ritenere del Petrucci perché la testa appare solo rosa dal tempo verso la nuca e non staccata dal busto, mentre si sa che, non solo il Petrucci fu condannato alla decapitazione, ma l’esecuzione della relativa sentenza avvenne su un altissimo palco perché fosse visibile a tutti. Probabilmente ha ragione il Perrotta, per il quale si tratta forse d ’un Antonello de Petrutiis sepolto in S. Domenico Maggiore nel 1585, come si ricavava da un perduto necrologio del convento. 25 La salma di Alfonso I fu trattenuta dapprima in Castelnuovo, venne in seguito trafugata da Carlo di Torella e portata ad Ischia. Ferrante la recuperò e la riportò a Castelnuovo. Le spoglie del primo Aragonese furono infine tumulate, come poi quelle del figlio bastardo, in S. Domenico Maggiore. Le due casse furono qui sistemate, assieme a quella di Giovanna IV d ’Aragona, dal conte di Miranda, come s’è detto. Trascriviamo le iscrizioni che sono sulle casse dei quattro sovrani e nel giro delle cornici che racchiudono i relativi ritratti. Per quanto riguarda Alfonso il Magnanimo: « Alphonsus I. MCCCCLVIII » (cassa', « Alphonsus 1 Aragonus rex regibus imperans et bellatorum victor. Obiit 1458 » (cornice). Per quanto riguarda Ferrante: « Rex Ferdinandus I. MCCCCXCIIII » (cassa); « Ferdinandus Primus Aragonus rex pacificus. Obiit anno Domini 1494 » (cornice). Per quanto riguarda Ferrandino: « Rex Ferdinandus II. MCCCCXCVIII » (!) (cassa); « Ferdinandus Junior Aragonus patriae restitutor. Obiit 1498 » (!) (cornice). Per quanto riguarda Giovanna IV d ’Aragona: « Regina Joanna IIII. MCCCCCXVIII » (cassa); « Regina Joanna catholici regis Ferdinandi Primi filia, ex Joanna catholici regis sorore nata. Obiit 1518 » (cornice). 26 Sulla cassa è apposta la seguente iscrizione: « D. Ferdinandus Avalos de Aquino marchio Piscariae ». Dalla cassa pende una tabella in cui si legge: « Franciscus Ferdinandus d ’Avalos de Aquino, marchio Piscariae, cesareae maiestatis Vicarius generalis Italiae. Obiit anno Domini 1525 ». TRANSETTO E ABSIDE Braccio destro Venendo dalla sagrestia, a destra, su un altare, S. Girolamo nel deserto, bassorilievo attribuito al Miriliano (m. 1558). Sotto la mensa dell’altare, tombe dei Donnorso. CAPPELLA DI S. GIACINTO. Sull’altare, la Vergine e S. Giacinto incorniciati da quadretti che ricordano episodi e miracoli del santo polacco, tavola di Silvestro Morvillo (sec. XVI), secondo altri del fiammingo Mytens. Sulla parete, tomba di Nicola di Sangro (m. 1853), disegnata da Francesco Giaur ed eseguita da Salvatore Irdi. Tra la cappella di S. Giacinto e l’ingresso all’antica chiesa di S. Michele Arcangelo a Morfisa, sulla parete, bella tomba in bassorilievo di Galeazzo Pandone, erettagli nel 1514 e attribuita a Girolamo Santacroce ( m. 1537). Si noti soprattutto l’espressione del ritratto del Pandone. La Vergine che offre un piatto di frutta al Bambino è però di Giovanni da Nola (m. 1558). In alto, lapide sepolcrale appartenente al sarcofago del duca di Durazzo Giovanni d ’Angiò ( m. 1335), figlio di Carlo II, di Tino di Camaino ( m. 1337). Sul sottarco d’ingresso di questa cappella vi è la lapide sepolcrale di fra Aloisio d’Aquino. Sul pavimento lapide sepolcrale della famiglia Gesualdo. CAPPELLA DI S. DOMENICO. Con il vestibolo che le è davanti e la cappella che segue, corrisponde a quella parte dell’antica chiesa di S. Michele Arcangelo a Morfisa che non fu pienamente incorporata nel tempio angioino, chiesa che doveva essere almeno due volte più lunga dell’attuale27. Si noti anzitutto l’elegante pavimento settecentesco a mattonelle maiolicate. Sull’altare, un tempo vi erano le tavole di S. Domenico al centro, S. Giacomo Apostolo a sinistra, S. Tommaso d’Aquino a destra. Le due laterali e i quadretti con episodi della vita di S. Domenico28 sono, secondo alcuni, dei fratelli Pietro e Ippolito del Donzello (sec. XV), secondo altri, di ignoto pittore del ’500, mentre il S. Domenico è del ’200 e sarebbe stato portato a Napoli da Tommaso Agni da Lentini, fondatore del convento, nel 1231, cioè dieci anni dopo la morte del santo. In alto angeli che reggono lo stemma domenicano e la statua in stucco di S. Tommaso d’Aquino. Ai lati dell’altare due quadretti in legno intagliato, raffiguranti i SS. Vincenzo e Tommaso, che un tempo appartenevano all’antico coro ligneo della chiesa. Davanti all’altare macchina delle quarant’ore, una struttura grandiosa per l’esposizione del SS. Sacramento. Sulla parete destra, entrando, monumento a Ippolito Maria Beccaria (m. 27 Lo si deduce, fra l’altro, da un confronto accurato con la cappella di S. Giacinto, il vestibolo della sagrestia e il cappellone del Crocifisso. 28 Undici di questi 14 quadretti furono trafugati dai ladri tra il 1983 e il 1984. Nel 2003 furono recuperati solo tre quadretti. Attualmente le due tavole di S. Domenico e S. Tommaso sono collocate presso il cappellone del Crocifisso. 1600), 51° maestro generale dei domenicani, con ritratto su pietra attribuito a Carlo Sellitto (sec. XVII); a lato, armonioso sepolcro di Tommaso Brancaccio, di Jacopo della Pila (1492); più in là, incassate nel muro, lapidi sepolcrali di Tommaso Caracciolo ( m. 1336) e Gorello Caracciolo (m. 1402) e la lapide di Domenico Cennini. Sulla parete sinistra, al centro, su un altare, Madonna degli Abbandonati, di ignoto spagnolo; a lato, monumento sepolcrale di Pietro Brancaccio (t 1338); all’altro lato, due bassorilievi: S. Tommaso d ’Aquino con la testa del Salvatore sul petto (sostituita poi, nell’iconografia più recente, col sole) e S. Nicola che solleva per i capelli il giovane Basilio. Tra i due bassorilievi, lastra tombale di Giovannella ( m. 1358), moglie di Pietro Brancaccio. Sul pavimento, lastre tombali di Carluccio e Tommaso Vulcano e al centro tondo con emblema dell’Immacolata e simboli dell’Ordine domenicano. Sul pilastro che è fra questa cappella e quella che segue, sepolcro del celebre musicista Nicola Zingarelli (1752-1837), maestro del Mercadante e del Bellini. CAPPELLA S. MARIA DELLE GRAZIE. Fu rinnovata ed abbellita dal famoso segretario di Ferrante, Antonello Petrucci, cui apparteneva. A destra entrando, tomba di Felice de Gennaro (1608); dal lato opposto, tomba del card. Girolamo Alessandro Vicentini ( m. 1728), nunzio apostolico a Napoli, di Matteo Bottiglieri. Sulle due pareti laterali, sepolcri marmorei di Giovanni Andrea e Giovanni Luca Bonito: di quello di destra è autore, pare, Cosimo Fanzago (1593-1678). Sull’altare, Cristo verso il Calvario, di incerto autore; a sinistra, statua in marmo di S. Bonito, del toscano Giuliano Finelli ( m. 1657), che vi lavorò nel 1645. A destra dell’altare affresco della Madonna ed anime purganti. Le due lapidi sepolcrali e il sarcofago incassati nelle pareti, che si vedono a destra nell’uscire dalla cappella, sono rispettivamente di Tommaso Vulcano (m. 1337), Carlo Vulcano (m. 1345) e Giannotto Protogiudice (m. 1385). Sul pavimento lapide sepolcrale con lo stemma della casa Bonito, restaurata dal principe di Casapesenna. II bel portale quattrocentesco dal quale, per l’ampia scalinata, si può scendere in piazza S. Domenico Maggiore, fu rinnovato a spese del Petrucci, proprietario del palazzo a fianco, e di sua moglie Elisabetta Vassallo. Dei due infelici coniugi rimangono gli stemmi (aquila bicipite e tre gigli) sugli stipiti. La scalinata, dovuta, come si è detto all’inizio, alla munificenza di Alfonso il Magnanimo, agli inizi del secolo scorso appariva erta e rovinata dal tempo. Nel 1804 il priore del convento, Luigi Vincenzo Cassitto, la fece rifare a sue spese (5000 ducati), servendosi degli stessi blocchi di piperno. I quattro sepolcri appoggiati al muro prospiciente le due cappelle di S. Domenico e della Madonna delle Grazie appartengono, a cominciare da quello vicino alla porta, a Giovanni Rota (m. 1426), Porzia Capece ( m. 1559), moglie del poeta Bernardino Rota, Giovanni Battista Rota ( m. 1512) e Giovanni Francesco Rota ( m. 1527). Al monumento di Porzia Capece collaborarono Gian Domenico D’Auria (sec. XVI) e Annibale Caccavello ( m. 1570 circa). La lapide sepolcrale che segue ad angolo è di Matteo Capuano. Staccato dal muro, monumento sepolcrale eretto al magistrato Cesare Gallotti ( m. 1860) da L. Pasquarelli (1870) a cura della moglie Carolina Pulieri. CAPPELLA DELL’ANGELO CUSTODE. Sull’altare, scultura lignea di ignoto; ai due lati, bassorilievi marmorei col ritratto di S. Pio V e Benedetto XI, due papi domenicani. Alle pareti laterali, a destra un Angelo addita ad Agar l’acqua d ’un pozzo, a sinistra un Angelo sveglia un frate perche si rechi al coro, due affreschi di Michele Regolia (1640-91) e sotto, lastra tombale Ignazia Hauer. Si osservi l’elegante pavimento settecentesco a mattonelle maiolicate. Sotto l’altare si conservano le ossa del martire dell’Eucarestia S. Tarcisio, qui trasferite dal cimitero di S. Callisto (Roma) da Carlo della Gatta, principe di Monasterace, che le aveva ricevute in dono da Innocenzo X in riconoscimento dei suoi servigi e specialmente per la vittoria riportata ad Orbetello nel corso della Guerra dei Trent’Anni (1646)29. Sul pavimento lastra tombale con l’iscrizione Cedroniorum cineris. CAPPELLA DI S. DOMENICO IN SORIANO30. La tela sull’altare è una buona copia dell’immagine del santo venerato a Soriano in Calabria. La volta è di Francesco Cosenza (sec. XVIII). Le due tele alle pareti, un S. Tommaso d ’Aquino e un S. Vincenzo Ferreri, sono di Luca Giordano (1632-1705). L’artista riprodusse, nel secondo dipinto, la testa di S. Vincenzo che aveva copiato da un ritratto del santo mentre era in Spagna. Sulla parete sinistra sotto il quadro di S. Vincenzo vi è la lapide con lo stemma dei Carafa e al di sotto della lapide vi è inciso: MCCCCLXX. Sulla parete destra al di sotto del quadro di S. Tommaso in un riquadro 29 II della Gatta, del seggio di Nido, modesto quanto generoso, fu un grande benefattore di S. Domenico Maggiore. Oltre a donare il corpo di S. Tarcisio, rifece la cappella di S. Domenico in Soriano e quella del Crocifisso. Il corpo di S. Tarcisio, prima di essere qui sistemato, era nell’attuale cappella di S. Domenico, ove allora si conservava il SS.mo. 30 Questa cappella conservò fino al 1759 lo stile gotico originario ed era considerata una delle più belle della basilica. Ricca di pilastri, colonnette, figure in bassorilievo, aveva anche un ciborio marmoreo, in parte dorato, del romano Bartolomeo Chiarini e Giovanni da Tivoli (sec. XVI). chiaroscuro vi è scritto: A. D. MDCCLX, l’anno in cui fu compiuto il secondo restauro della cappella. Ai lati dell’altare, in alto, due altre pregevoli tele: a destra la Maddalena, a sinistra S. Caterina d’Alessandria. Si tratterebbe di bellissime copie di due quadri donati da Alfonso il Magnanimo. La tradizione vuole che la testa coronata ai piedi di S. Caterina sia il ritratto del re e il volto della santa riproduca le sembianze della sua famosa favorita Lucrezia d ’Alagno. Anche qui, bel pavimento a mattonelle maiolicate del ’700. In mezzo al paliotto dell’altare, in un riquadro circolare, ornato di fogliame vi è scolpito in marmo bianco il busto di S. Domenico. Questo bassorilievo fu fatto per chiudere il vano dove erano collocate le reliquie di S. Tarcisio. Sulla mensa dell’altare, il bel ciborio dove sopra sono tre teste di cherubini e sotto sulla portella è raffigurato il cuore fiammeggiante sorretto da putti e cherubini. Gli affreschi della volta sono di Francesco Cosenza discepolo di La Mura. Essi raffigurano al centro S. Domenico seduto sopra le nubi, poi seguono otto riquadri con figure di donne che simboleggiano le virtù. Nel mezzo del pavimento è posta la lapide con lo stemma dei Carafa duchi di Maddaloni, e davanti alla cappella vi è la lapide sepolcrale. Tra la cappella di S. Domenico e quella dell’Angelo custode, cenotafio del vescovo Richard Luke Concanen. Altare maggiore La balaustra, le cattedre alla base dei pilastri e l’altare — il tutto a tarsie marmoree — sono di Cosimo Fanzago (1593-1678). La data del rifacimento dell’altare (1652) si può leggere, capovolta, in un rosone del secondo gradino, a destra di chi guarda il tabernacolo. Il gradino superiore fu aggiunto nei restauri eseguiti dopo il terremoto del 168831. I due puttini in marmo, a destra e a sinistra, sono di Lorenzo Vaccaro ( m. 1706). Sotto l’altare, in un’urna di bronzo32, le ossa del beato Raimondo da Capua, confessore di S. Caterina da Siena e 23° maestro generale dei domenicani, morto a Norimberga in Baviera il 5 ottobre 139933. 31 I lavori furono diretti da Giambattista Nauclerio (prima metà del sec. XVIII). Disegnata dall’ing. Carnesecchi, venne fusa dalla ditta Laganà di Napoli. 33 Sepolto presso l’altare della Madonna nella chiesa dei domenicani di Norimberga, vi rimase per oltre un secolo. Nel 1525, introdotta a Norimberga la Riforma protestante, i domenicani si credettero in dovere di inviare nascostamente in luogo più sicuro, e quindi a S. Domenico Maggiore, le preziose reliquie, che però non furono sepolte, al pari di quelle degli altri maestri generali, sotto il pavimento del tempio. Qualche anno dopo, intimoriti dall’assedio del Lautrec, i frati, per non esporle alla profanazione, le nascosero e se ne persero le tracce. Si sapeva solo, dalle cronache, che le reliquie si trovavano in un sacrario gotico presso l’altare maggiore, dalla parte dell’epistola, dietro la spalliera degli stalli del coro. Nel 1899, anno in cui Raimondo da Capua venne iscritto nell’albo dei beati, il rettore della chiesa P. Carlo Maiello fece fare varie ed accurate ricerche, ma senza risultati. Finalmente nel 1901, dopo essersi assicurati che nel 1562, ai tempi del priorato del P. Giordano Crispo, il coro era stato spostato dietro e l’altare portato avanti, si fecero nuove ricerche sul posto approssimativo che l’altare aveva occupato fino al ’500. Questa volta i tentativi furono coronati da successo. Dietro l’undicesimo stallo fu infatti trovata la cuspide d ’un sacrario gotico sul fondo del quale erano deposte le ossa del beato frammiste a pezzettini del velluto rosso a ricami in oro nel quale erano state avvolte. Dopo regolare ricognizione canonica, con una solenne cerimonia, il 25 aprile 1902 furono riposte sotto la mensa dell’altare maggiore. Nel parlare dell’altare maggiore è il caso di menzionare pure le fioriere e i candelabri di fattura gotica, fatti eseguire nel secolo scorso dal Salzano, tu tt’ora conservati. Conservati sono pure i paliotti del ’700 che addobbavano l’altare. 32 Sul pavimento del presbiterio, a destra, lapide tombale di Paolo Butigella ( t 1531), 41° maestro generale dei domenicani; a sinistra, quella di Vincenzo Bandello (m. 1508), 36° maestro generale e zio del noto novelliere Matteo Bandello. Sotto l’altare, ma non visibile perché coperta nel 1850 dal nuovo pavimento marmoreo, tomba di Guido Flamochetti ( m. 1451), 28° maestro generale34. A sinistra di chi guarda l’altare, accanto alla balaustra, candelabro pasquale fatto eseguire nel 1585 da Ferdinando di Capua del Balzo, duca di Termoli. In esso furono adoperati elementi scultorei (le Virtù, rappresentate in forma di cariatidi) provenienti dal sarcofago di Filippo d ’Angiò principe di Taranto ( m. 1331), di Tino di Camaino ( m. 1337). I due leoni a destra e a sinistra della balaustra (accanto ai primi gradini delle scale che conducono al vano sotto il coro) sono di Tino di Camaino. Ai lati dell’altare maggiore, due candelabri collocati su due colonne riadattate nel sec XIX su disegno dell’architetto Travaglini. ABSIDE II coro, in radica di noce, è del laico domenicano Giuseppe da Parete (1752). Ancora al suo posto il grande leggio su cui poggiavano i grossi libri corali membranacei trascritti e miniati dagli stessi frati. Se ne conservano alcuni della fine del ’500. Il grande organo addossato alla parete 35 dell’abside risale al 1751 . Restaurato dal noto organaro Zeno Fedeli, di Foligno, alla fine del secolo scorso, è stato nuovamente restaurato e potenziato nel 1975. Ha 1640 canne. Alle pareti, due dipinti di Michele De Napoli (1808-92): a sinistra, S. Domenico che disputa con gli eretici, a destra, S. Tommaso tra i dottori36. Due scale laterali portano alla sottostante cripta ottagonale, il cui pavimento si eleva solo di un gradino sul livello della piazza S. Domenico Maggiore. Si riteneva che la volta della cripta fosse stata affrescata dal Solimena e poi ricoperta di calce; ma diversi saggi fatti dalla Soprintendenza negli anni scorsi non hanno dato alcun risultato. Sull’altarino, un quadro della Vergine delle Grazie, di incerto autore37, è stato trafugato nel 1971. La scala a sinistra permette l’accesso anche ad una cappella sottostante quella del Rosario, cappella che fu rinnovata nel 1769 da Luigi Vanvitelli (1700-73). Sull’altare, bassorilievo della Vergine, di Giovanni Leonardo Siciliano (prima metà del ’600). Intorno, numerose urne funerarie dei Carafa della Roccella. 34 Le iscrizioni delle lastre tombali dei tre maestri generali sono oggi in parte illeggibili. Si veda la trascrizione che ne fece C. D’Engenio , Napoli sacra, Napoli, 1623. 35 II progetto, approntato per sostituire i due organi laterali pericolanti, era stato approvato dal consiglio conventuale del 24 giugno 1749. La cassa esterna dell’organo fu disegnata da Nicola Canale, regio ingegnere, e realizzata da mastro Agostino Grandone. Questi esegui i lavori con la supervisione di fra Giuseppe Monaco, esperto di intaglio, del convento di San Domenico Maggiore, oltre che dello stesso progettista. La costruzione della parte fonica e meccanica si deve ai fratelli organari Carlo e Nicola Nocerino, come risulta da uno strumento del 25 giugno 1751. Napoli, Arch. di Stato, Mon. Soppr., 523, 666, 662, 666. Comunicazione di G. De Luca (Crema) e G. Di Vietri (Vallo della Lucania). 36 Gli stessi soggetti, dipinti dal Regolia allo stesso posto, erano andati cancellati inavvedutamente nei restauri del 1850. 37 Apparteneva al P. Giuseppe Conte da Bagnoli ( t 1686), sepolto tra il cappellone del Crocifisso e la cappella che fa da antivestibolo della sagrestia. Sotto il recente pavimento della cripta, di fronte alla porta d ’ingresso, è sepolta invece la ven. Rosa Giannini ( t 1741), la cui tomba venne ricoperta nei restauri del Travaglini. Braccio sinistro CAPPELLA DEL ROSARIO. È la prima cappella in cui ci si imbatte nel risalire le scale che portano alla cripta sottostante l’altare maggiore. Venne restaurata da Carlo Vanvitelli nel 178838. Il quadro della Vergine, i quadretti che gli fanno corona39 e gli affreschi a chiaroscuro sotto la cupola, sono di Fedele Fischetti (1788). Sulla parete sinistra, Flagellazione di Michelangelo da Caravaggio (1607/1610), attualmente esposta nel Museo di Capodimonte; dirimpetto, pregevole copia della stessa, di Andrea Vaccaro ( m. 1670), secondo altri di Battistello Caracciolo ( m. 1637). Dinanzi a questa cappella sul pavimento la lapide marmorea dove indica la sepoltura dei fratelli della Compagnia del SS. Rosario. Tra questa cappella e la seguente, alla base del pilastro, tomba di Aldo Blundo (1919-34). CAPPELLA DELL’IMMACOLATA. È cosi chiamata dalla tela posta sulla parete di fronte, in alto, che viene attribuita a Pacecco de Rosa ( m 1654). La cappella, costruita secondo alcuni da Annibale Caccavello, è però dedicata a S. Stefano, effigiato sull’altare con S. Pietro Martire forse da Giovanni Battista Benaschi (1636-88). Al centro, Madonna che allatta il Bambino, affresco di ignoto trecentista napoletano, secondo altri di Roberto d’Odorisio. In alto, dipinto raffigurante l’Immacolata Concezione, opera di Paolo Finoglia. A destra, bel cenotafio del card. Filippo Spinelli, di Bernardino Moro da Siena (1546). A sinistra, tomba di Carlo Spinelli, marchese di Orsonovo, di Giammarco Vitale (1634). Tra questo monumento e l’entrata della cappella, statua di S. Stefano. Alle spalle del santo, la lapide con iscrizione a caratteri incisi. CAPPELLA DI S. VINCENZO FERRERI. Sull’altare, tela di S. Vincenzo Ferreri su fondo oro, di ignoto napoletano del ’400 della scuola del Solario. A destra, sepolcro di Francesco Blanch (1610); a sinistra, tomba di Giovanni Tommaso Blanch (m. 1678) e Violante Blanch (m. 1675). Sul paliotto dell’altare al centro, simbolo di S. Vincenzo Ferrer. Sulla parete, tra questa cappella e la seguente, monumento a Rinaldo del Doce, che fu carissimo ad Alfonso il Magnanimo. In alto, lapide del sarcofago del principe di Taranto Filippo d ’Angiò (m. 1331), di Tino di Camaino (m. 1337). CAPPELLA DELL’ANNUNCIAZIONE. Per la linea architettonica e i bassorilievi marmorei di cui è adorna, può essere considerata una delle più belle della basilica. Sull’altare, a Annunciazione del Tiziano (14901576), il famoso artista veneziano. La tela si fa risalire al 1557 circa. Attualmente è in esposizione nel Museo di Capodimonte. Sull’altare che segue, S. Girolamo, bassorilievo di Tommaso Malvito (secc. XV-XVI). 38 Vincenzo Carafa principe della Roccella la fece restaurare dal Vanvitelli. I due angeli in stucco sono collocabili stilisticamente nell’ambito di Salvatore Franco e di Gaetano Salomone. 39 Quasi tutti i quadretti sono stati trafugati dai ladri nel 1984. NAVATA SINISTRA CAPPELLA MADONNA DELLA NEVE È la prima dopo la crociera e fa da vestibolo all’uscita sul vico S. Domenico Maggiore, che si può raggiungere scendendo un piccolo tratto di scale. Sull’altare, Madonna della Neve tra il Battista e S. Matteo, splendido gruppo marmoreo del già tante volte da noi citato Giovanni Miriliano da Nola (m. 1558), che vi lavorò nel 153640. A destra, cenotafio di Giambattista Marino (m. 1625), il famoso poeta secentista, con busto in bronzo, di Bartolomeo Viscontini (1682)41. A sinistra, monumento sepolcrale di Bartolomeo e Girolamo Pepi (1580). Sul pavimento a sinistra lapide sepolcrale di fr. Vincenzo Maria Zaretti. CAPPELLA S. CATERINA D’ALESSANDRIA Sull’altare, Martirio di S. Caterina d ’Alessandria, tavola di Leonardo da Pistoia (1520). A destra, in alto, Visione del Beato Enrico Suso attribuito a Paolo Finoglia (sec. XVII); in basso, tomba di Nicola Tomacelli (m. 1473). A sinistra, tomba di Leonardo Tomacelli (m. 1529). Al centro della cappella, presso i gradini dell’altare, pietra tombale dei Ruffo. Nel sepolcro sotterraneo, la salma imbalsamata del card. Fabrizio Ruffo di Bagnara (m. 1827), il celebre condottiero dell’Esercito della Santa Fede che abbatté la Repubblica Partenopea del 179942. 40 La manina del Bambino fu spezzata e dispersa durante l’ultima guerra da operai che coprivano il capolavoro con sacchi di sabbia per difenderlo dai bombardamenti. Da tener presente che il bellissimo altare, prima del restauro del 1850, era addossato al pilastro della crociera che è di fronte alla cappella del Rosario, dalla parte di questa. Era stato eretto nel 1533 da Fabio Arcella, vescovo di Bisignano e poi arcivescovo di Capua. 41 II corpo del poeta è sepolto nella chiesa dei SS. Apostoli. Il monumento sepolcrale che qui vediamo gli fu eretto dall’amico ed erede Giambattista Manso, marchese di Villa, ed ebbe come prima sede la cappella gentilizia del palazzo che il Manso possedeva accanto alla chiesa di S. Agnello Maggiore a Caponapoli. Più tardi il palazzo fu acquistato dai Chierici Regolari, cui apparteneva il convento di S. Agnello, i quali, per ingrandire la piazza della chiesa, decisero di abbattere il fabbricato con la cappella, ciò che indusse i governatori del Monte dei Mansi, fondato dal marchese, a far trasferire il monumento nel chiostro dello stesso convento. Nel Decennio francese, con la soppressione degli Ordini religiosi, il fabbricato fu venduto a privati e il cenotafio trasferito a S. Domenico Maggiore. Le due iscrizioni ricordano le varie vicende del cenotafio. 42 Nella ricognizione che ne fu fatta alcuni anni fa, si trovò che la salma del cardinale era ben conservata. Il cuore, immerso nell’alcool, è in una teca sigillata, a parte. Addossato al terzo pilastro della navata (a cominciare dall’altar maggiore), il pulpito, costruito nel 1559 e poi più volte ritoccato. Il baldacchino, in legno intarsiato, è del 1771. Sul pavimento lapide con iscrizione in cui Ippolita Ruffo dei Principi di Motta e duchi di Bagnara racchiuse le spoglie mortali degli appartenenti della sua famiglia e fece rifare a sue spese la cappella e l’altare. CAPPELLA S. BARTOLOMEO Sull’altare, Martirio di S. Bartolomeo, tela attribuita a Giuseppe de Ribera detto Lo Spagnoletto (1588-1652); ai due lati, scudi e busti di Muzio e Alfonso Carafa. A destra, addossato alla parete, monumento eretto da Ippolita Carafa nel 1738 al suocero Ettore Carafa, al marito Gherardo e ai suoi tre figli; in alto, tela raffigurante i Domenicani che portano in processione per le vie di Roma l’immagine del Rosario per implorare la vittoria di Lepanto, attribuita a uno dei Bassano; in basso, sarcofago coi resti mortali del domenicano Pio Ciuti ( m. 1953). A sinistra, in basso, tomba trecentesca di Letizia Caracciolo ( m. 1340); in alto, Martirio di S. Lorenzo, pregevole tela di Andrea Sabatini da Salerno (14801545), seguace di Raffaello. Sotto, lapide tombale di Gabriella Chatelet. Nel pavimento, dinanzi all’altare lastra tombale con stemma dei Carafa della Spina. CAPPELLA S. NICOLA Sull’altare, S. Nicola di Bari, pregevole tela di incerto autore. Ai lati dell’altare lapidi di Maria Caterina De Andrea e della famiglia De Andrea. A destra, monumento sepolcrale di Giovanni Francesco De Andrea (m. 1841), ministro delle finanze sotto Ferdinando I di Borbone. A sinistra monumento sepolcrale di Francesco Saverio De Andrea, lastra murale di Maria Eleonora Caracciolo, e lapide di Lucrezia L. Rivera. Sul pavimento lapide con stemma della famiglia De Andrea. CAPPELLA S. GIOVANNI BATTISTA Sull’altare, S. Giovanni Battista, capolavoro dello scultore Girolamo d’Auria (secc. XVI-XVII); nella trabeazione, Madonnina col Bambino, della scuola di Tino di Camaino. Sulla parete sinistra, armonioso sepolcro del poeta Bernardino Rota (1509-75), di Giovanni Domenico d ’Auria (sec. XVI); le due statue laterali raffigurano il Tevere e l’Arno, simboli delle lingue latina ed italiana, in cui il Rota soleva comporre. Sulla parete destra, sepolcro di Alfonso Rota (m. 1565), fratello del precedente, opera di Giovanni Antonio Tenerello (1569). Sul pavimento, lapidi sepolcrali della famiglia Rota. CAPPELLA S. GIOVANNI EV. La tela sull’altare raffigura S. Giovanni Evangelista nella caldaia bollente ed ha per autore Scipione Pulzone da Gaeta (1550-88). Il quadro di S. Lucia che le è davanti si deve invece a Nicola Malinconico (t 1721). Di notevole interesse iconografico il S. Tommaso d ’Aquino del paliotto: il santo reca sul petto la testa del Salvatore, e non il sole, come nelle rappresentazioni più recenti. A sinistra, bella tomba di Antonio Carafa ( m. 1438), detto Malizia per la sua astuzia nei negoziati politici, opera di Jacopo della Pila, che utilizzò un sarcofago del sec. XIV. A destra, in alto, Vergine col Bambino, tavola di incerto autore datata 1518. Sul pavimento stemma dei Carafa. CAPPELLA MADONNA DI ZI’ANDREA Dedicato un tempo a S. Margherita, ne divenne titolare la Madonna di Zi’Andrea, cosi detta dal popolare domenicano Andrea d’Auria di Sanseverino (m. 1672)43, cui si deve l’acquisto della statua parzialmente lignea del Rosario che troneggia sull’altare, di Pietro Ceraso (seconda metà del’600)44. La cappella, già sede della Flagellazione del Caravaggio, poi trasferita nella cappella del Rosario, fu portata alla forma attuale alla fine del Seicento45. La parete di fondo compreso l’altare è opera di Andrea Malasomma e Costantino Marasi e risale al XVII secolo. Ai lati dell’altare due statue lignee argentate raffiguranti santi domenicani. Incastrati nelle pareti, due grossi armadi con reliquie varie. La famiglia De Franchis votò la cappella al culto delle reliquie. A fianco, accanto all’entrata della cappella, le tombe di due noti magistrati e giureconsulti napoletani del Cinquecento: a destra, Vincenzo de Franchis a sinistra, Giacomo de Franchis, alla cui famiglia la cappella apparteneva. Sul pavimento della parete 43 È sepolto nella stessa cappella, a sinistra, sotto il monumento del de Franchis. II Bambino è stato rubato il 9 aprile 1977. 45 In precedenza, dipinta dal Corenzio (1558-1634), era ricca di preziose sculture. 44 destra, lastra tombale suor Maria Rosa Giannini. A sinistra e destra, sono collocate, quattro statue lignee argentate, rappresentanti santi domenicani. CAPPELLA S. GIUSEPPE La cappella — a sinistra della porta d’entrata della basilica — appartenne ai Muscettola. Il frontespizio, di buona fattura (1541), fu qui collocato nel restauro del Travaglini (1850). Sull’altare, S. Giuseppe, tela di Luca Giordano (1632-1705); in alto, l’Eterno Padre, di Belisario Corenzio (1558-1640). A destra, Vergine e S. Elisabetta col Bambino e S. Giovannino, buona copia d’una tela di Fra Bartolomeo della Porta, secondo altri di Raffaello, asportata durante il Decennio francese (18061815). Sopra ritratto di fra Giuseppe Spasiano, dipinto di ignoto napoletano del sec. XVIII. Sotto lapide con iscrizione di Marcello Muscettola A sinistra, in alto, busto del Redentore, dipinto della scuola di Leonardo da Vinci, attualmente in deposito; in basso, Adorazione dei Magi, tavola attribuita al fiammingo Luca da Leida (m. 1533), attualmente in esposizione nel Museo di Capodimonte. Sotto lapide con iscrizione di Marcello Muscettola. Sulla sinistra fonte battesimale, la base su cui poggia il fusto e la vasca è di incerta provenienza e di epoca più antica. Attualmente sulla vasca è appoggiato un tabernacolo ottagonale in legno intagliato e dorato, dipinto in bianco con doratura sugli spigoli. Sul pavimento lastra tombale di Marcello Muscettola. Corridoio e la cella di S. Tommaso Il dormitorio principale del convento, detto di San Tommaso per la presenza della cella del santo venne ristrutturato entro il 1685, dopo questa data si possono datare i venticinque dipinti murali con Storie della Vita di San Tommaso, lungo i due lati del corridoio, sugli ingressi alle celle dei frati,attribuibili al pittore tardo seicentesco Domenico Viola. A seguito dell'intervento di restauro, quelli che sembravano tondi apparentemente “sospesi” sopra le porte d’ingresso alle celle sono risultati essere inseriti in una più complessa decorazione con puttini adagiati su volute architettoniche, racemi e cartigli con epigrammi riferiti alla vita di San Tommaso, che è stato possibile recuperare, seppure parzialmente, nell’ala del corridoio abitata dai frati. Della permanenza di S. Tommaso d’Aquino in S. Domenico Maggiore restano diversi ricordi. Si è già parlato dell’aula in cui insegnò e del Crocifisso che gli avrebbe parlato. Resta da dire qualcosa sulla cella dove abitò per oltre un anno nell’ultimo periodo della sua vita (1272-74) e i cimeli o reliquie che di lui si conservano. La cella di S. Tommaso è al primo piano del convento, e precisamente accanto all’ex biblioteca (oggi museo). Si riconosce dai marmi che ne ornano l’ingresso. Il busto del santo è di Matteo Bottiglieri (1720). La sistemazione attuale complessiva si deve a Muzio Nauclerio (m. 1747). Alterato da pesanti rifacimenti,l'ambiente è stato interamente recuperato dall’attuale restauro che ha consentito il ripristino della bicromia originale dei soffitti lignei laccati e dorati. La cella vera e propria è il piccolo oratorio a destra entrando. Non è facile concordare col Perrotta, per il quale il soffitto ligneo risalirebbe, almeno sostanzialmente, ai tempi del santo; le dorature sono del Nauclerio. Si passa quindi nella stanzetta che funge da sagrestia. Sulla parete sinistra, il dipinto di S. Tommaso d’Aquino, opera di Francesco Solimena. In basso Come reliquiario contenente l’omero sinistro del santo, assegnato al convento dal capitolo generale celebrato nel 1372 a Tolosa, dove sono custodite le ossa dell’Angelico. All’omero manca la testa dell’articolazione del gomito, staccata e rinchiusa nella statua argentea che è in cattedrale, in occasione della proclamazione, nel 1605, di S. Tommaso d ’Aquino a ottavo patrono di Napoli per voto fatto durante la peste del 1600. La reliquia, sistemata in un reliquiario recente, viene esposta nel giorno della festa del santo. Sull'altare è stata collocata la famosa tavola duecentesca raffigurante la Crocifissione di fronte alla quale San Tommaso raccolto in preghiera ebbe la visione di Cristo. Nel piccolo reliquiario presso la finestra, mezza pagina d’un codice autografo di S. Tommaso, che si conserva nella Biblioteca Apostolica Vaticana. Si tratta del commento al terzo libro delle Sentenze di Pietro Lombardo. Sulla parete sinistra, bolla originale con la quale nel 1567 Pio V proclamò l’Aquinate Dottore della Chiesa: tra le firme, quella del papa e di S. Carlo Borromeo. Nel vestibolo, la piccola campana che annunziava l’inizio delle lezioni del santo. Un cenno meritano infine i quattordici arazzi settecenteschi che un tempo erano esposti nei corridoi del convento. Furono donati da Vincenza d ’Aquino (m. 1799), principessa di Feroleto. Sei di essi si riferiscono a episodi della vita del santo, gli altri hanno carattere allegorico46. L’obelisco della piazza Ne fu deliberata l’erezione in occasione della famosa peste del 1656. I lavori iniziarono due anni dopo su disegno di Francesco Picchiatti (1619-94) o, secondo altri, di Cosimo Fanzago (1593-1678). Interrotti, ripresero ai tempi di Carlo di Borbone sotto la direzione di Domenico Antonio Vaccaro (1681-1750), che li portò a termine nel 1737. Ricca di marmi, bassorilievi, medaglioni e statue, la 46 Cfr. “ Napoli Nobilissima” 15 (1906), pp. 62-63. Di questi 14 arazzi, due sono esposti nella sala detta del tesoro e riguardano le allegorie delle virtù della Castità e dalla Sapienza, gli altro sono momentaneamente in deposito. cosiddetta guglia di S. Domenico termina con una piramide sormontata da una pregevole statua bronzea del santo, eseguita su disegno e con l’assistenza dello stesso Vaccaro. Il grande refettorio Il Refettorio venne eretto sugli spazi dell'antica infermeria del convento durante i lavori di ampliamento e ristrutturazione avviati da Fra' Tommaso Ruffo dei duchi di Bagnara, priore di San Domenico dal 1668 al 1672.I lavori, iniziati nel 1669, si protrassero anche dopo il priorato di Ruffo, determinando l'edificazione di spazi caratterizzati da un imponente impianto architettonico. Tra questi spicca per le considerevoli dimensioni questo ambiente, destinato ad accogliere tra il Seicento e il Settecento oltre cento frati , decorato sulla parete di fondo da una prospettiva ad affresco che, come attestano i documenti, fu dipinta nel 1675 da Arcangelo Guglielmelli, noto oltre che come architetto anche come autore di decorazioni murali prospettiche in importanti chiese napoletane. Al centro della scenografia del Guglielmelli è l'Ultima Cena, mentre alla fine dell'Ottocento fu aggiunta sullo sfondo la scena dell'Andata al Calvario. Sull'ingresso è il dipinto murale raffigurante San Tommaso in preghiera di fronte al Crocifisso, firmato dal poco noto pittore Antonio Rossi d'Aversa e datato 1727. Alle pareti laterali del Refettorio erano due lunghe tavole da pranzo con sedile in piperno decorato da una spalliera in legno intagliato che rivestiva le pareti; ai lati dell'ingresso due grandi lavamani in marmo bianco bardiglio, realizzati nel 1675 dal marmoraro Giovanni Camillo Ragozzino. Di questi arredi non restano tracce,andarono perduti negli anni successivi alla soppressione avvenuta nel 1865 quando i frati vennero allontanati dal convento per vent'anni e questo ambiente, assieme a quelli attigui venne dapprima adibito a deposito e successivamente occupato assieme dalla Corte d'Assise fino ai nostri anni '90. Il piccolo refettorio Accanto al grande Refettorio è il piccolo Refettorio che era destinato ai frati infermi, anch'esso realizzato nei lavori di ampliamento del convento avviati nel 1669 dal priore Tommaso Ruffo. L'ambiente, che oggi appare completamente spoglio, presentava come il grande Refettorio tavoli e sedili lungo le pareti con una spalliera decorata da cariatidi e mensolette. Completavano la decorazione dell'ambiente una grande tela raffigurante San Domenico a mensa con i frati servito dagli angeli sulla parete di fondo e dieci quadri alle pareti laterali. La sala della Biblioteca Considerata fin dal XV secolo una tra le più importanti biblioteche napoletane, la “Libraria” di S. Domenico Maggiore si era arricchita nel corso del tempo grazie a donazioni e acquisizioni di privati e di frati del convento. Ospitata in una grande sala al primo piano del convento, accanto alla cella che era stata di San Tommaso, la biblioteca era stata arricchita agli inizi del Cinquecento dal fondo di Gioviano Pontano, donato dalla figlia dell'illustre umanista. Durante la seconda metà del Cinquecento frequentarono la Libraria di San Domenico due illustri confratelli, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. La raccolta libraria, che si andò ad incrementare notevolmente nel corso del tempo comprendeva, accanto a quattro scritti dello stesso Pontano, manoscritti dell’Eneide e dell’Odissea, opere di Senofonte e di Aristotele, le commedie plautine, il De arte amandi di Ovidio, testi di Cicerone, le Epistole di Seneca, il De Trinitate e le Homiliae di Sant'Agostino; tra le opere a stampa figurava la Metafisica di Aristotele. Nel 1685 il consiglio conventuale aveva affidato i lavori di trasformazione del convento all'architetto Francesco Antonio Picchiatti, incaricandolo di rifare la biblioteca “tutta di nuovo a lamia”; l'imponente impianto dell'ambiente rispecchia totalmente le caratteristiche del linguaggio architettonico di Picchiatti che condusse i lavori di trasformazione del convento fino al 1694 . A seguito delle soppressioni del 1809 e del 1865 i volumi della “Libraria” vennero in parte dispersi e i parte confluirono nelle raccolte della Biblioteca Nazionale e della Biblioteca Universitaria. La sala, oltre a contenere le scansie per i libri e i leggii era decorata da una serie di grandi dipinti inseriti nelle incorniciature ovali alle pareti. La sala del Capitolo Nella Sala del Capitolo, uno degli ambienti di maggior spicco tra quelli edificati nei lavori di ampliamento del convento avviati dal priore Ruffo la volta e le pareti sono decorate da stucchi realizzati da maestranze dell'ambito di Cosimo Fanzago e da dipinti murali del pittore siciliano Michele Ragolia, attivo anche alla decorazione della chiesa, che iniziò ad affrescare il Capitolo nel 1677. La decorazione del Capitolo con l’immensa scena del Calvario sulla parete di fondo, i quattro riquadri della volta con Scene della Passione di Cristo, le otto scene più piccole con i Misteri della Passione e dieci tondi con angioletti recanti i Simboli del martirio di Cristo venne ultimata da Ragolia nel 1678. La statica del Capitolo apparve gravemente compromessa sin dal 1686 dal peso del sovrastante dormitorio dei monaci, che causò distacchi in più parti degli stucchi determinando anche il crollo delle parti centrali degli affreschi alla fine dell’Ottocento, che vennero a quei tempi estesamente ridipinti. Un doppio ordine di sedili riccamente intagliati decorava le pareti dell'ambiente destinato ad accogliere i frati nei momenti più importanti della vita comunitaria. Le Congreghe Presso il cortile che funge da atrio alla Basilica vi sono tre Congreghe: del Rosario, del SS. Nome e del SS. Sacramento. Un tempo scuole dell’Università di Napoli poi furono trasformate in oratori. Congrega del Rosario La più antica, quella di S. Maria del Rosario, era costituita dai cosiddetti rosarianti, molti dei quali appartenevano al Terzo Ordine Domenicano; essi solevano riunirsi prima davanti all'altare della Madonna della Rosa all'interno della chiesa, ma ad un certo punto, nel 1617, per l'opera di apostolato svolta dal padre fiorentino fra' Timoteo Ricci, fratello della santa domenicana Caterina de' Ricci divennero così numerosi che fu necessario adibire alle loro riunioni uno dei locali che erano stati precedentemente aule universitarie: sull'altare della Congrega tuttora si ammira un bel quadro di Fabrizio Santafede raffigurante la Vergine del Rosario con S. Domenico, S. Tommaso e altri santi. Congrega del SS. Nome La seconda congrega, quella del SS. Nome, fu fondata nel 1623 sotto la direzione di fra' Michele Torres che divenne poi vescovo in Basilicata : anch'essa era formata da postulatori del Rosario, Questa congrega portava il suo apostolato anche nelle carceri e nelle piazze. Congrega del SS. Sacramento La terza congrega, che occupa i locali prospicienti alla seconda e alla terza volta, è quella del SS. Sacramento, costituita nel 1627 da fra' Giovanni Altamura. Appartenendo egli a famiglia patrizia, ora completamente estinta, tutti i congregati dovevano essere esclusivamente di nascita aristocratica. L'apostolato di questo nobile frate si esplicava per lo più nei palazzi gentilizi e quando la congrega si riuniva per la processione, ogni terza domenica di mese, la seguiva anche il Vicerè. Pur essendo possibile soltanto ai patrizi entrare nella congrega, padre Altamura vi riuniva però anche altre categorie, come sacerdoti, magistrati, artigiani, mercanti e studenti: dopo la peste del 1656 infatti il nome della congrega si trasformò in Compagnia degli Artigiani del SS. Sacramento, poiché essendo morti molti dei suoi nobili congregati ed avendo altri smesso di frequentarla non rimasero che gli artigiani.