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6 - Consiglio Regionale della Basilicata

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6 - Consiglio Regionale della Basilicata
L A PRESSIONE SOCIALE
ALL’ AUTOATTIVAZIONE
NEI TEAM DI LAVORO
Paolo Caputo
TE A M W O R K E
RU O LO D E L LAVO RO O PE R A I O
La letteratura esistente, in maniera pressoché uniforme, concorda nel ritenere che l’organizzazione del lavoro in team costituisce una delle caratteristiche
salienti della lean production. La forma di teamwork che tende a generalizzarsi
all’interno delle fabbriche automobilistiche, e non solo tali, ha come punto di
riferimento di partenza, dal quale poi si sviluppano gli esperimenti concreti di
ibridazione e adattamento, l’esperienza giapponese (Cerruti et al., 1996;
Durand et al., 1999). Ciò che è controverso è se il lavoro in team costituisca
l’espressione di una rinnovata democrazia industriale o, piuttosto, soltanto una
nuova e più accentuata forma di controllo e sfruttamento dei lavoratori.
In effetti, come sottolineato da Yates (1997), tra gli studiosi della lean
production non esiste concetto più controverso di quello di teamwork.
Schematizzando, da un lato, alcuni autori (Kern e Schumann, 1984;
Womack et al., 1990; Wilson, 1995)) parlano di team in quanto gruppo di
lavoro autodiretto, all’interno del quale avviene una qualche ricomposizione delle mansioni, in quanto i lavoratori sono multi-skilled e ruotano tra le
diverse postazioni di lavoro. All’estremo opposto, una tale visione viene
decisamente contrastata dalle analisi di autori quali Rinheart (1997) e
Parker e Slaughter (1998), i quali sostengono che i teams non costituiscono affatto entità autonome ma, piuttosto, unità produttive eterodirette ed
eterodeterminate volte a favorire un aumento del controllo manageriale sul
lavoro e sui lavoratori.
A nostro parere l’origine dell’organizzazione del lavoro in team non può
essere ricercata né in una generica istanza imitativa nei confronti dell’espe-
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Melfi in time
rienza giapponese, né tanto meno in una presunta democrazia industriale,
quanto nelle stesse peculiarità strutturali del nuovo sistema produttivo e nei
vincoli e nelle possibilità operative poste dalle nuove tecnologie applicate alla
produzione. La fragilità intrinseca del sistema produttivo lean, derivante
dalla linearizzazione del ciclo di fabbricazione e dalla presenza di una tecno logia di processo caratterizzata da un elevato grado di interdipendenza e di com plessità, mal sopporta un’organizzazione del lavoro basata (come in passato)
sulla rigida suddivisione dei compiti per mansioni e funzioni ma richiede, al
contrario, una forte collaborazione tra gli addetti, un coordinamento rapido
e flessibile degli sforzi dei lavoratori, nonché l’integrazione di competenze
relative alle diverse funzioni legate alla gestione del macchinario.
Naturalmente tra le nuove esigenze poste dalla tecnologia - e dalla linearizzazione del layout di fabbrica - e il lavoro in team non esiste una relazione
meccanica di stretta necessità, quanto piuttosto un rapporto mediato dalle
strategie manageriali che individuano nel lavoro in team una serie di elementi
favorevoli nella gestione del flusso produttivo lean. Il teamwork costituisce
uno dei più adeguati strumenti di organizzazione del lavoro in grado di soddisfare le esigenze socio-tecniche del just in time e, quindi, del principio ordinatore del processo produttivo complessivo (Durand et al., 1999).
Risulta perciò alquanto difficile parlare di lavoro in team in quanto espressione di forme di autonomia operaia e democrazia industriale. È la fragilità
del nuovo sistema produttivo a richiedere ed esigere una diversa organizzazione e gestione del lavoro, un utilizzo della forza lavoro che non può prescindere da forme di coinvolgimento dei lavoratori rispetto agli obiettivi
aziendali. Parliamo di coinvolgimento e non di partecipazione, in quanto
quest’ultima, dal punto di vista semantico, “(…) rimanda a un’azione positiva, responsabile, nella quale si esercita pienamente la volontà e la capacità
di un individuo; il coinvolgimento nasce da una volontà esterna all’individuo,
una volontà che sceglie e dispone, alla quale si può acconsentire, ma che difficilmente si può guidare, in un quadro certamente più rigido e ricco di limiti del precedente” (Benedetti, 1998: 128). È infatti chiaro come la delega di
responsabilità ai managers di linea, la sostituzione del tradizionale controllo
gerarchico con forme di coordinamento orizzontale ecc., non comporti autonomia d’azione per gruppi di lavoro, ma soltanto alcuni circoscritti spazi di
discrezionalità operativa.
Come sottolinea Ambrosini (1998b), i gruppi di lavoro non costituiscono affatto entità autonome, quanto piuttosto entità eterodeterminate ed ete-
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La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro
rodirette all’interno delle quali il team leader (tanto che sia eletto dai membri stessi del team, tanto che sia designato dall’azienda, come avviene in Fiat),
svolge sostanzialmente funzioni di tipo amministrativo e di supervisione e
controllo del lavoro, applicando una serie di procedure standardizzate, anche
se, nell’ottica del miglioramento continuo, si tratta di procedure soggette a
frequente verifica e ridefinizione, ridefinizione che viene attuata anche attraverso l’apporto dei lavoratori stessi.
Del resto, il processo di delega di responsabilità ai capi intermedi e, tramite questi, ai teams di lavoro, è favorito e reso possibile proprio grazie alle
nuove tecniche capillari di controllo e sorveglianza dell’attività produttiva
connesse all’utilizzo della tecnologia informatica. Alla luce di questa interpretazione, la delega di responsabilità agli stessi operai di linea nell’assunzione di alcune micro-decisioni (che, seppur tendenzialmente standardizzate e,
naturalmente, circoscritte all’interno dei confini definiti dagli obiettivi
aziendali, consentono pur sempre un limitato margine di discrezionalità) è
resa possibile dalle aumentate possibilità di controllo sul lavoro consentite
dallo sviluppo e dall’utilizzo, all’interno della fabbrica, della tecnologia elettronica (Delbridge, 1995; Sewell e Wilkinson, 1992). L’organizzazione fa
affidamento su questi limitati spazi di discrezionalità in quanto consentono
l’adattamento a situazioni problematiche: è il tentativo di catturare e guidare anche gli spazi di informalità che il taylorismo considerava soltanto come
elementi di disturbo, in modo tale da utilizzarli per i fini aziendali
(Thompson, 1998).
Questo cambiamento qualitativo del contesto di controllo manageriale,
reso possibile dal mutamento delle strutture attraverso le quali esso viene perseguito, si traduce in una nuova forma di autocontrollo dei lavoratori sulla
propria attività, autodisciplina interiorizzata che non comporta alcuna forma
di generale, oppure specifica, motivazione al lavoro, in quanto il coinvolgimento richiesto non implica l’interiorizzazione dei valori aziendali, ma soltanto il dispendio di uno sforzo, un’azione verso fini imposti (Thompson e
McHugh, 1995).
Il team costituisce lo strumento fondamentale attraverso il quale il controllo manageriale si trasforma in controllo sociale che si esprime soprattutto attraverso la pressione del gruppo dei pari, finendo per generare comportamenti conformi agli obiettivi aziendali che prescindono da forme di
comando visibile e gerarchico. Le prestazioni del team dipendono dall’integrazione - posta e imposta dalla struttura organizzativa - degli sforzi e del-
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Melfi in time
l’attività dei lavoratori che operano al suo interno: “L’assegnazione di una
responsabilità globale e condivisa, rispetto ad obiettivi spesso contraddittori
tra loro (come accade nel momento in cui si voglia mantenere un buon livello di flessibilità rispetto al mix di prodotti, attraverso frequenti riattrezzaggi
delle macchine, senza avere ripercussioni negative sulla produttività e sul
costo di produzione), è volta a suscitare una pressione organizzativa sui membri del team affinché coordino i loro contributi lavorativi finalizzandoli agli
scopi dell’organizzazione” (Cerruti et al., 1996: 46). Naturalmente ciò non
implica la scomparsa di forme di responsabilizzazione individuale, testimoniate per esempio dall’onnipresente certificazione di qualità, ma queste sono
accompagnate e si combinano con quelle collettive, in modo tale da sopperire e affrontare immediatamente le possibili disfunzioni operative, gli imprevisti ed assicurare la necessaria flessibilità dell’organizzazione. “In ogni caso,
il collettivo viene esclusivamente considerato, da parte aziendale, come gruppo di lavoratori cooperanti (…) senza individuare un ruolo specifico per
organizzazioni e istituti rappresentativi degli interessi dei lavoratori e autonomi rispetto alle gerarchie aziendali” (Ambrosini, 1998: 91).
La lean production implica mutamenti non solo della struttura materiale
di fabbrica, ma anche trasformazioni sociali e culturali. Sviluppatasi all’interno di un contesto sociale caratterizzato da elevati livelli di disoccupazione, di
crescente mobilità dei capitali e di esasperata competizione tra le case automobilistiche, la lean production ha incoraggiato lo sviluppo di una cultura
competitiva, interiorizzata tanto dai managers quanto dai lavoratori, competitività che diviene la base attraverso la quale questi ultimi valutano le proprie decisioni e azioni. La nuova struttura organizzativa di fabbrica, fondamentalmente attraverso la scomposizione cellulare del processo produttivo e
il kanban, internalizza la relazione cliente-fornitore (ossia i meccanismi esterni di mercato), relazione che viene sorretta dal nuovo ethos competitivo portato avanti dal management all’interno della fabbrica e dalle tecniche di
gestione delle risorse umane. Questo non significa che gli operai siano inconsapevoli del fatto che tutto ciò viene creato ad hoc dalla direzione aziendale
in modo tale da favorire un aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro all’interno dei teams, nonostante ciò l’apparente neutralità e naturalità del flusso
produttivo favorisce meccanismi di interiorizzazione della responsabilità produttiva da parte dei lavoratori stessi (Yates, 1997).
Lo scorrere regolare e ininterrotto del flusso di produzione richiede coesione all’interno del team. È inoltre fondamentale che i lavoratori possegga-
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La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro
no comparabili livelli di efficienza, altrimenti l’operaio più efficiente dovrà
svolgere anche il lavoro di quello meno efficiente (Durand et al., 1999). In
tal modo, all’interno del team di lavoro, si viene informalmente a determinare una sorta di standard lavorativo medio, il quale si basa sia sulle necessità imposte dalla velocità del flusso produttivo, sia sul numero di lavoratori
assegnati dal management ad una determinata sezione della linea. La pressione del flusso si impone sul team di lavoro dando vita a meccanismi di peer
pressure, determinando quindi atteggiamenti e norme di autodisciplina all’interno del gruppo le quali prevengono atteggiamenti di devianza in maniera
molto più efficace di quanto possa essere ottenuto attraverso supervisori
gerarchici.
In sintesi, tra produzione snella e lavoro in team esiste una stretta relazione di coerenza e reciprocità in quanto il teamwork costituisce una delle più
efficaci modalità organizzative attraverso le quali affrontare le esigenze tecniche e la vulnerabilità proprie della produzione just in time. Tale conformità
funzionale viene realizzata attraverso strumenti quali quelli della responsabilità collettiva, della socializzazione della conoscenza e delle cognizioni tecniche, della pressione del gruppo dei pari, ecc. (Durand, 1999). Comunque,
anche se il team di lavoro costituisce lo strumento attraverso il quale, e lo spazio all’interno del quale, le nuove tecniche manageriali tentano di generare
un’identità aziendale, esso rappresenta anche il contesto sociale in cui vengono favorite pratiche relazionali e comunicative informali tra i lavoratori che,
attraverso dinamiche di solidarietà, possono rovesciare il senso dell’agire
imposto in senso autogenerato e antagonistico.
NUOVI PRINCIPI ORGANIZZATIVI
TECNOLOGICA ELEMENTARE.
E LAVORO IN TEAM: L’U NITÀ
La logica operativa della Fabbrica Integrata segna il passaggio dalla
centralità delle funzioni a quella dei processi (Costanzo, 1995), caratterizzata dall’integrazione e dall’ottimizzazione interfunzionale. In pratica,
vengono ricondotte all’interno della produzione diretta tutta una serie di
funzioni di servizio/supporto all’attività di fabbricazione che prima erano
separate. Infatti, le funzioni di fabbricazione, qualità, manutenzione e
gestione materiali vengono riaggregate e coordinate all’interno delle
Unità Operative, ma bisogna evidenziare che una tale integrazione fun-
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Melfi in time
zionale si verifica anche all’interno delle UTE. In effetti le UTE costituiscono lo strumento operativo alla base della nuova organizzazione, in
quanto sono formalmente deputate a gestire autonomamente segmenti
sequenziali del processo produttivo e, per questa ragione, devono attivare direttamente le risorse e le competenze necessarie per il loro funzionamento (Benassi, 1994).
Il flusso produttivo è stato cellularmente scomposto in fasi caratterizzate
da processi omogenei (per es. il montaggio delle portiere), oppure da un prodotto definito (per es. gli ingranaggi del cambio, o la plancia). Sulla base del
principio guida dell’integrazione, ogni Unità Tecnologica Elementare, pur
possedendo un relativo grado di autonomia organizzativa interna ed essendo
responsabile della “parte” di processo assegnatole, deve operare in stretta
interdipendenza con le altre UTE poste a “valle” e a “monte”, secondo la
logica del cliente interno.
L’elemento fondamentale è rappresentato dal fatto che ad ogni UTE
viene assegnata la piena responsabilità della porzione di prodotto/processo su cui deve operare. Per questa ragione essa può effettuare in maniera
relativamente discrezionale una serie di attività volte a migliorare la qualità e la produttività del processo produttivo e, inoltre, risolvere i problemi che via via si possono presentare. L’integrazione immediata tra le
diverse competenze è garantita dal fatto che all’interno dell’UTE sono
presenti i diversi “specialisti” necessari per una corretta esecuzione delle
operazioni assegnate.
Le diverse figure presenti all’interno dell’UTE sono costituite, oltre che
dal responsabile (capo UTE) ed ai diversi operatori di linea, dal tecnologo
di UTE, dal manutentore e dal CPI, cioè il conduttore dei processi integrati (figura specialistica che dovrebbe svolgere funzioni di addestramento
della forza lavoro, garantendo la corretta esecuzione delle operazioni). In
pratica agli operai di linea si affiancano alcune figure tecniche specialistiche necessarie per far fronte alle variabili esigenze operative delle diverse
cellule produttive.
Il capo UTE non viene eletto dagli operai presenti all’interno del
team, ma viene nominato dall’azienda ed inserito nella gerarchia di stabilimento. È di sua competenza la responsabilità della gestione delle risorse materiali e dei lavoratori presenti all’interno del proprio team. Deve
operare in maniera da ottimizzare congiuntamente i parametri di efficienza, qualità, volumi e mix produttivo e, inoltre, da garantire una
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La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro
risposta rapida ed appropriata alle eventuali varianze produttive. Al capo
UTE compete l’integrazione sistemica della cellula produttiva di base.
Deve svolgere un ruolo più imprenditoriale e meno gerarchico rispetto
alla precedente figura del capo squadra (Fiat Auto). In sintesi, l’UTE si
presenta come una sorta di “micro-impresa” alla quale spetta, attraverso
la gestione imprenditoriale del capo UTE (che governa sia variabili tecnologiche e sia organizzative), la piena responsabilità del segmento di processo produttivo di sua competenza.
Poiché all’interno della struttura produttiva lean una parte dei compiti dei lavoratori non è direttamente riconducibile a mansioni proceduralizzate, in quanto spesso legati alla gestione di eventi parzialmente imprevedibili, anche i contenuti dell’attività degli operai generici hanno subito un processo di cambiamento (Cerruti, 1993). Gli operai di linea,
infatti, oltre a continuare generalmente a svolgere operazioni parcellizzate e proceduralizzate, devono essere coinvolti attivamente nello svolgimento della propria mansione, ossia è prevista una loro autoattivazione a
prestare attenzione a quel che devono fare. Inoltre sono tenuti ad essere
professionalmente polivalenti; infatti viene praticato un frequente interscambio tra le diverse postazioni. Sono anche responsabili di parte delle
mansioni precedentemente assegnate ai lavoratori indiretti (manutenzione ordinaria, responsabilità del controllo di qualità, pulizia del posto di
lavoro e degli attrezzi). Infine, dato di estrema importanza, vengono
investiti della responsabilità di assorbire, quanto più possibile, le microvarianze, i problemi che si verificano a livello del posto di lavoro.
In sostanza, all’interno della nuova struttura produttiva anche gli operai
sono tenuti a svolgere, oltre alle tradizionali attività di fabbricazione, un’attività di elaborazione e applicazione di micro-decisioni (correlate alle informazioni e alle capacità professionali possedute e, soprattutto, alle responsabilità
e agli obiettivi assegnati). Ciò è dovuto al fatto che la nuova organizzazione
del lavoro è diretta ad assorbire capillarmente, e in tempo reale, eventi produttivi difficilmente prevedibili (e quindi formalizzabili), sia sul piano temporale che su quello delle modalità di intervento.
Se all’interno del sistema produttivo lean le “risorse umane” giungono a
svolgere un ruolo di primo piano, l’organizzazione del lavoro in team si
presenta come la struttura idonea a favorire mobilitazione e impegno da
parte dei lavoratori nella risoluzione dei problemi. All’interno di essa esiste
una forte pressione all’autoattivazione. Tale pressione non è soltanto inscrit-
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Melfi in time
ta all’interno del layout materiale e organizzativo di fabbrica (linearizzazione e cellularizzazione del processo produttivo), cioè non è solo di natura
strutturale (Fiocco, 1997). Essa si viene ulteriormente a combinare e potenziare con una pressione culturale-relazionale (che si esprime attraverso la
forma dell’agire comunicativo di natura consensuale, diretto cioè al reciproco intendersi) volta ad indurre il massimo grado di disponibilità dei
dipendenti alla cooperazione attiva e a riprodurre l’apparente neutralità
della pressione strutturale.
RELAZIONI SOCIALI -PRODUTTIVE ALL’ INTERNO DEL TEAM E PRATICHE QUOTIDIANE DI AUTOATTIVAZIONE.
Nella produzione “senza scorte”, come sottolineano Dohse, Jürgens e
Malsch (1988), i costi delle irregolarità vengono a ricadere direttamente sui
lavoratori (attraverso non-encomi, rimproveri, sanzioni, intensificazione dei
ritmi e dei carichi di lavoro), i quali vengono pertanto pressati ad attivarsi
nella risoluzione dei problemi. All’interno di questo quadro, la pressione
sociale dei compagni, del “gruppo” di lavoro costituisce una parte funzionale del controllo di produzione in quanto fattore di stimolo per la prestazione
individuale:
C’è la persona che ha voglia di lavorare e c’è la persona che non ha
voglia di lavorare, con la persona che è svogliata basta poco per…da fasti dio pure alla UTE ... Se tu acchiappi una persona del genere per una gior nata intera, per sette ore e un quarto tu stai sempre sudato, nel senso che
stai sempre ‘sotto’, mi crea problemi pure a me, per il mio lavoro certo.
Le tradizionali pratiche informali di aiuto reciproco vengono sostenute e
incentivate dal management aziendale in quanto elementi di flessibilizzazione
del sistema. Di solito, nel momento in cui un compagno di lavoro si “imbarca”, viene aiutato dai colleghi:
In generale si cerca di darsi una mano. I CPI ti danno una mano,
quando capita, quando li trovi davanti, se no ti devi aiutare tra colleghi,
se ci riesci, se ci sta l’altro vicino.
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La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro
Sottolineiamo il “ti devi aiutare”. Poiché molto spesso le operazioni sono
di tipo incrementale, accanto all’attivazione dettata dall’aiuto tra colleghi, si
accompagna la pressione reciproca a svolgere operazioni in maniera “corretta”, in maniera tale da non creare problemi ai compagni di lavoro collocati
nelle postazioni successive alla propria (cosa che, comunque, viene ulteriormente sanzionata ufficialmente attraverso la responsabilità individuale, la
certificazione di qualità):
Io ho sempre reagito in questo modo, gli dico ‘cerca di fare le operazio ni come si deve perché se no le devo fare io’. Può capitare che il collega quel
giorno non sta bene e allora ci si aiuta, basta che non è una routine, anche
perché poi chi non lavora bene viene beccato perché mette il timbro.
In tal modo, la produzione snella, non solo sfrutta le pratiche informali di
aiuto reciproco che, del resto, sono sempre esistite, ma le rende necessarie,
strutturali.
Sostanzialmente, attraverso la trasposizione dell’UTE in “gruppo”, o
meglio attraverso l’utilizzo di pratiche gestionali face to face tipiche dei gruppi primari, il management aziendale mira sia ad accedere alle relazioni informali tra lavoratori (quali amicizia e solidarietà da un lato, e pressione del
gruppo dei pari dall’altro), sia a sfruttarle come risorse produttive.
Apparentemente, la composizione numerica delle UTE, che al montaggio
varia tra i 20 e gli 80 operai circa, sembrerebbe impedire la costituzione di
gruppi di lavoro caratterizzati da relazioni di tipo interpersonale. Bisogna
però ricordare che all’interno delle stesse UTE opera, ogni 15-20 operai,
un’ulteriore figura professionale formalmente operaia (il CPI) ma che, di
fatto, si configura come una sorta di vice-capo. Di norma, i CPI sono “persone” aperte al dialogo e disponibili nel “dare una mano”:
Prendono gli ordini dal capo UTE e si mettono a disposizione degli
operai, seguono il processo, se necessario lavorano e, comunque sia, sono
sempre a disposizione degli opera; se hai un problema con un avvitatore ti
arrivano.
La percezione operaia del “gruppo” viene inoltre alimentata dal meccanismo gestionale della rotazione tra le diverse postazioni di lavoro presenti
all’interno dell’UTE. A Melfi esiste infatti la rotazione programmata, che
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attualmente dovrebbe essere effettuata ogni tre giorni (anche se, in realtà, è
relativamente limitata e di solito avviene tra postazioni contigue). La rotazione, oltre a favorire la polivalenza professionale, favorisce la conoscenza
personale e relazioni sociali interpersonali tra tutti i membri dell’UTE:
Con uno puoi avere un’amicizia più accentuata e con un altro meno,
non significa comunque che non si parla, siamo comunque colleghi e poi
domani posso lavorare con lui, dopodomani con un altro, perché comun que noi giriamo.
Le diverse postazioni di lavoro si presentano interrelate tra loro, linearmente e operativamente integrate all’interno di un processo di fabbricazione incrementale e consequenziale che le rende “dipendenti le une dalle
altre”. Tale principio organizzativo diffonde capillarmente, lungo tutta la
linea di produzione, il controllo sui risultati dell’attività di ogni operaio (e
di ogni cellula). Inoltre, attiva meccanismi di feedback tra le diverse postazioni e le diverse cellule di lavoro sugli eventuali scostamenti qualitativi (e
quantitativi) tra le caratteristiche attese del prodotto in lavorazione e quelle reali. Cioè permette, anzi prevede forme di comunicazione diretta tra le
postazioni di lavoro al fine di segnalare le anomalie eventualmente riscontrate, inducendo di conseguenza azioni di miglioramento dirette a fare corrispondere l’input “offerto” a quello “domandato” (nella logica del rapporto cliente/fornitore):
Se io noto degli errori fatti dal collega che mi precede, poiché lavoria mo sulla catena, gli dico ‘guarda che qui c’è qualcosa che non va bene’. Se
lui vuole può venire a vedere. C’è gente che dice ‘a me non me ne frega,
manda avanti’. Allora, giunta la macchina in delibera, la vettura perché
non va bene viene segnata sul foglio delle vetture non deliberate, non OK.
Poi il CPI va a richiamare il suo ragazzo e gli dice ‘guarda che hai sba gliato questo’…
Come si può notare da questo brano di intervista, normalmente il lavoratore si attiva, o dovrebbe attivarsi, nella segnalazione dei problemi, delle anomalie. Soltanto nel momento in cui ciò non si verifica interviene il CPI. La
pratica gestionale attraverso la quale egli manifesta, e deve manifestare il proprio ruolo è di tipo relazionale-consensuale:
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La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro
I rapporti con i CPI e i capi UTE sono buoni, dipende dalle persone.
E ancora:
Con i CPI prima avevamo più problemi, mo’ c’è uno nuovo, da un paio
d’anni, che è una bravissima persona. Abbiamo un paio di CPI che se li
chiami sono comunque a disposizione.
Lo stesso discorso, legato alle pratiche gestionali basate su relazioni di
tipo interpersonale fatto per i CPI, vale anche, naturalmente, anche per i
capi UTE:
Non è che il capo UTE ti impone che devi fare questa cosa per forza. Non
lo so, se escono fuori linea oggi, allora mi dà un compito da fare: ‘mi devi fare
alcuni recuperi a inizio turno’. Se tu lo puoi fare lo fai, se no non è che…
E ancora:
Questo capo UTE che abbiamo adesso è molto disponibile al collo quio, cioè se hai un problema non è che ti dice ‘tu devi fare così e basta’,
ma parla. Che comunque il compito del capo UTE è quello, non ti può
obbligare e dire ‘tu lo devi fare per forza’, lui ti dice ‘per me lo devi fare
così’, e io lo vedo molto disponibile, infatti sta recuperando parecchi di
noi a metterci sulla strada, diciamo, buona.
Per il capo UTE, anzi, l’esercizio del potere “personale” viene spesso interpretato e giustificato dai lavoratori in quanto dettato dalla necessità oggettiva e dalla responsabilità di governo dell’UTE:
Loro comunque hanno la pressione dall’alto e devono avere la pressio ne verso qualcuno, e quelli lì siamo noi, gli operai.
In ogni caso, le pratiche relazionali interpersonali di imposizione del
comando tendono a produrre una percezione di appartenenza al “gruppo” e
un senso per le attività che devono essere svolte:
Io ho un amico intimo che è capo UTE e lui non ha mai detto ad un
operaio “vai più in là”, non ha mai rimproverato una persona, mai. Pensa
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Melfi in time
che tutti quelli della sua UTE un giorno, per i suoi modi di fare, per la
sua gentilezza, si sono permessi di organizzare una cena e di fargli anche
un regalo.
Prima avevamo un capo UTE bravissimo, come posso spiegarti ... met teva i guanti pure lui e scaricava i pezzi, quando c’era da lavorare aiuta va pure lui in linea. Era tutta un’altra persona e da noi operai non veni va valutato come un capo, ma come uno di noi.
... il lavoro non è più come prima, come alla catena, adesso ti fanno
diventare responsabile, cioè ti inculcano fin dall’inizio che la macchina la
fai tu e la devi considerare come se fosse una cosa tua.
Come dichiara un CPI:
... noi dobbiamo andare avanti e indietro a vedere cosa succede, però
ogni tanto ci fermiamo da qualcuno, ci raccontiamo qualche cosa, una
barzelletta, se no le otto ore non passano mai. Oppure un operaio va a fare
una pausa ci prendiamo il caffè insieme, cioè ... che poi alla fine si diven ta amici con tutti, si scherza, si parla e quindi, prima che succeda qual che problema a questo operaio, tu gli dici: “comportati bene, mi racco mando”. Il mio modo di lavorare con le persone è questo, cioè di essere
amici, perché quando si è amici... anche tu stai tranquillo perché sai che
quel lavoratore ti fa bene il lavoro, non ti crea problemi e quindi anche
tu fai bene il tuo lavoro.
Le pratiche reali attraverso le quali gli operai si attivano nella soluzione dei
problemi non comportano necessariamente un apporto ideativo, anzi, nella
maggior parte dei casi si tratta soltanto di prestazioni straordinarie di mansioni da svolgere, di orario di lavoro e competenze: sostituire un compagno
che va in bagno, svolgere due postazioni contemporaneamente, evitare di
mettersi in malattia o di richiedere permessi se non in casi di estrema necessità (perché comunque il peso del lavoro da dover fare ricadrebbe sui compagni di UTE), sostituire un collega di lavoro in permesso facendo lo straordinario, aiutare chi si “imbarca”, recarsi in anticipo sul posto di lavoro per
prepararsi la postazione, evitare l’insorgenza di problemi che possano bloccare la linea, ecc.
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La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro
Se uno deve andare in bagno al di fuori del suo turno di pausa chiede
al compagno vicino di tenergli il posto, la postazione finché non torna.
Cerca di andare più veloce in modo tale da anticipare un po’ la postazio ne e si fa aiutare, sostituire dal compagno di lavoro vicino.
C’è pure chi si arrabbia però, in generale, se uno si imbarca ci si aiuta.
Il lavoratore successivo va nella postazione di quello precedente e lo aiuta
a terminare l’operazione.
La percezione indotta di essere parte di un “gruppo” produce una serie di
ulteriori conseguenze, tra le quali assume grande rilevanza, come già accennato in precedenza, la pressione e la coercizione del “gruppo dei pari” (nella
forma della sorveglianza e della disciplina in caso di non conformità).
Quest’ultima finisce per determinare la formulazione di criteri normativi di
comportamento individuale che, non essendo stabiliti formalmente in
maniera autoritaria e gerarchica dal management, appaiono come se fossero
libera espressione del gruppo stesso, del collettivo dei pari e si traducono,
infine, in meccanismi che favoriscono atteggiamenti di controllo sociale:
Non è che mi metto malato cà tengo o’ raffreddore, oppure oggi sto con
la ragazza e domani non vado a lavorare (…), che poi la mancanza che
facciamo noi la deve coprire un’altra persona.
Il team finisce per esercitare una funzione di controllo orizzontale che si
combina con i meccanismi di supervisione tradizionale (Rinehart et al.,
1997). In questo senso, affinché operino meccanismi sociali di pressione reciproca al lavoro, non è tanto necessaria l’identificazione con gli obiettivi
aziendali, quanto l’interesse e il desiderio dei lavoratori di lavorare meno
duramente del previsto: strutturalmente, poiché la fabbrica snella implica
anche “meno persone”, l’assenza di un membro del team, per qualsivoglia
motivo, deve essere compensata dai compagni di lavoro (come testimoniato
dai lavoratori, a Melfi il meccanismo organizzativo dei “prestiti” di operai da
altre UTE funziona poco e male).
Per com’è adesso la situazione passa pure un’ora prima che arrivi un
prestito. Però la linea cammina lo stesso, si mette pure il capo UTE in
linea, oppure un operaio ricopre due postazioni.
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Melfi in time
Quando manca un operaio, il capo UTE dovrebbe chiedere un presti to a un’altra UTE, ma facendo così, praticamente lui compra la persona,
è un costo. Quindi il mio capo non lo fa volentieri, perciò di solito divide
le operazioni della persona assente tra il gruppo di lavoratori che sta facen do il lavoro in quella zona.
Evidentemente, per il management non si tratta tanto di creare un gruppo coeso, quanto di indurre e sfruttare le sinergie produttive umane che si
vengono a creare all’interno del lavoro di tipo cooperativo svolto in team.
Come argomentato da Parker e Slaughter (1988), il concetto e l’istituzione
dei team di lavoro mira ad incrinare la solidarietà informale che inevitabilmente si sviluppa all’interno delle fabbriche, tentando di incanalare e racchiudere questo sentimento entro le formali, altamente controllate strutture
di team disegnate dall’azienda. Tutto ciò è volto a proceduralizzare il lavoro
di gruppo informale, non tanto per favorire e concedere spazi di autonomia
e autogestione lavorativa, quanto per porlo sotto il governo del controllo
manageriale (Dassbach, 1997).
I capi vogliono sapere tutto di tutti e comunque devono tenere sem pre qualcuno sulle spine. Penso che sia proprio l’impostazione azienda le che chiede di considerare un tot numero di persone come “non
buone”: ci sono i bravi, i meno bravi, quelli che lavorano, quelli che
sanno lavorare ma non vogliono farlo, ecc. Cioè fanno le loro squadre,
dividono i lavoratori in categorie.
La contraddizione insita in questa nuova forma di comando sul lavoro si
esprime nel fatto che la cellula produttiva, oltre a costituire lo spazio il prerequisito strutturale sulla cui base vengono (ri)prodotti atteggiamenti di
autoattivazione, rappresenta contemporaneamente lo spazio concreto all’interno del quale possono generarsi ed emergere pratiche collettive che oltrepassano i limiti del particolarismo imposto e riprodotto dal management. Al
suo interno, infatti, vengono favorite pratiche relazionali e comunicative
informali che, attraverso lo sviluppo di dinamiche di tipo solidaristico,
potrebbero rovesciare il senso imposto, in senso autogenerato.
Un sistema che avevamo noi era quello di mettere l’avvitatore vicino
al gancio, il gancio se lo portava via fino a fine corsa e così si bloccava la
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La pressione sociale all’autoattivazione nei team di lavoro
linea. Gli altri operai facevano finta di non avere visto niente, erano tutti
distratti.
Nella UTE di ... se la macchina scorre un po’ più veloce del dovuto i
ragazzi, tutti insieme, non la montano. In quella UTE il capo ha timore ...
non si fanno recuperi, straordinari, non si fa proprio niente.
CONCLUSIONI
La riflessione sul sistema organizzativo e produttivo di matrice post-fordista, e i mutamenti che quest’ultimo ha comportato nell’utilizzo della forza
lavoro, ci hanno condotto ad analizzare la problematica legata ai teams di
lavoro.
La nuova fase di razionalizzazione del processo produttivo – e il nuovo
ruolo svolto dall’attività lavorativa al suo interno – segna il passaggio dalla
logica della razionalità assoluta, incarnata dall’organizzazione del lavoro taylorista (cioè di quella razionalità che crede di poter ricondurre tutta l’incertezza a certezza), a quella di una razionalità orientata alla gestione dell’incer tezza e della variabilità. Il principio fondamentale attraverso il quale la
Fabbrica Integrata punta alla gestione dell’incertezza è quello dell’integrazio ne, il quale comporta mutamenti fondamentali nell’utilizzo del “valore d’uso”
della forza lavoro, che non può più essere soltanto ricettrice passiva dei dettami e degli obiettivi imposti dalla direzione, ma deve partecipare attivamente alle attività di produzione.
Naturalmente, l’autoattivazione non può essere un qualcosa che viene
demandato alla libera iniziativa dei lavoratori, ma viene indotta attraverso
una serie di meccanismi strutturali (integrazione organizzativa, interfunzionalità, ricomposizione delle mansioni, monitoraggio e controllo capillarmente diffuso delle attività, lavoro in team, maggiore “non proceduralizzazione” del compito lavorativo in una prospettiva di kaizen) che finiscono per
determinante una forte e costante pressione organizzativa all’autoattivazione:
“La linearizzazione del flusso produttivo e la concatenazione sequenziale e
integrata delle tecnologie di processo esercitano una forte pressione organiz zativa affinché i lavoratori conseguano, in modo tendenzialmente continuo
e costante, quei risultati che mantengono il sistema produttivo in equilibrio,
ma poiché tutto ciò è ottenuto attraverso l’esercizio di uno spazio di auto-
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Melfi in time
nomia decisionale, allora i lavoratori sono ‘costretti’ a svolgere quelle attività
discrezionali che minimizzano le oscillazioni dell’output produttivo”
(Cerruti, 1993: 306).
Questi meccanismi strutturali, che definiscono e incorporano una particolare “visione del mondo” (e, pertanto, attribuiscono senso e significato alle
attività che devono essere svolte, inducendo di atteggiamenti di autodisciplina e autoregolazione), si vengono poi a intrecciare – potenziandosi – insieme
alle nuove pratiche gestionali della forza lavoro che, regolando e plasmando i
rapporti sociali interni, agiscono in direzione dell’attivazione di “sinergie
umane”, le sole realmente in grado di garantire il successo del nuovo apparato logistico-produttivo ispirato ai principi della lean production.
La contraddizione connaturata all’attuale forma attraverso la quale si
manifesta il comando sul lavoro è data dal fatto che, comunque, la nuova
strategia manageriale, pur operando tendenzialmente in direzione della
sussunzione della soggettività dei lavoratori, in maniera tale da renderla
funzionale alle esigenze della razionalità d’impresa, si scontra inevitabilmente con dei bisogni e con una razionalità operaia che trascendono i
ristretti limiti imposti dalle necessità di valorizzazione del capitale
(Barchiesi, 1997; Fiocco, 1997).
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