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utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti: discussioni di
UTILIZZAZIONE DI FATTURE PER OPERAZIONI INESISTENTI:
DISCUSSIONI DI SUCCESSIONI E NUOVI SPUNTI DI
RIFLESSIONE
(a cura Sonia Cascarano)
La riforma del diritto penale tributario ha dato, e continua a dare, numerosi
problemi, non solo applicativi ma sempre e comunque, interpretativi, in quanto il
D.Lgs. 74/2000, emanato sulla scorta delle direttive previste nella legge delega n.
205/99, non contiene alcuna norma c.d. applicativa.
Naturale, per tale ordine di motivazione, è stato il far riferimento ai principi
generali del diritto ed in particolare all'art. 2 del codice penale, concernente la
successione di leggi penali, anche se al riguardo parte della dottrina ha parlato di
una sorta di “successione al buio” per i problemi che hanno caratterizzato il
periodo di transizione.
In proposito, particolare interesse destava il problema della sorte del reato di
utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, in precedenza disciplinato
dall'art. 4.1, lett. d), della Legge 516/82.
L’inizio di ogni nuova disciplina desta non pochi spunti di riflessione e si presta,
normalmente,
a
diverse
interpretazioni,
dando
vita
ad
orientamenti
giurisprudenziali non univoci.
In vero, la stessa Corte di Cassazione ha, in un primo momento, ritenuto
applicabile al caso di specie l'art. 2.3 C.p., per poi precipitosamente ritornare su
suoi passi aderendo all'opposto orientamento favorevole all'abolitio criminis.
Rebus sic stantibus, appare utile una breve riflessione sull'argomento al fine di
orientarsi meglio all'interno di un quadro interpretativo e giurisprudenziale che è
stato, nel corso degli anni, dominato dall'incertezza.
La sentenza n. 27/2000, ha enunciato il principio di diritto secondo cui "le
condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti,
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prodromiche o strumentali rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi
fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore
aggiunto, supportata da tali fatture o documenti, non sono più, di per sé, previste
dalla legge come reato".
Il contrasto riguarda, com'è noto, i rapporti tra l'art. 4, lettera d), della Legge n.
516 del 1982 e l'art. 2 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000 con riferimento
all'utilizzazione di fatture false che determinano la presentazione di una
dichiarazione fraudolenta.
In una prima interpretazione, con la sentenza n. 6228 del 27 aprile 2000, il
giudice di legittimità ha sostenuto che le disposizioni contenute nell'art. 4, lettera
d), della Legge n. 516 del 1982 e nell'art. 2 del D.lgs n.74 del 2000 sono tra loro
in successione modificativa e che il fatto normativamente previsto dalla nuova
normativa è riconducibile anche alla fattispecie precedente.
Tale primo orientamento era supportato dalla valutazione che si era “in presenza
di un fenomeno assimilabile alla situazione del tutto differente dall'avvicendarsi di
norme interferenti aventi connotati peculiari, sicché, rilevata l'omogeneità normativa
della condotta fra la frode fiscale mediante utilizzazione di fatture per operazioni
inesistenti ed il delitto di cui all'art. 2 del D.lgs n. 74 del 2000, il carattere di
specialità attribuito all'indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione
annuale e la centralità di quest'ultima costituiscono gli elementi da cui dedurre la
continuità normativa e la specialità".
La sentenza n. 6228 del 2000 individuava anche una continuità in relazione
all'elemento soggettivo specializzante manifestato dalla volontà di frodare l'erario
attraverso la presentazione della dichiarazione, in quanto insito nell'azione posta
in essere dall'utilizzatore, almeno a titolo di dolo eventuale, già in un momento
anteriore alla presentazione della dichiarazione.
Così discorrendo, il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti
costituisce un reato istantaneo con effetti permanenti, anche se tale ricostruzione
esegetica determina un differente momento consumativo tra il delitto di cui
all'art. 2 e quello previsto dall'art. 8 del D.lgs n.74 del 2000.
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In senso diametralmente opposto si pronunciava la stessa Corte di Cassazione,
con la sentenza n. 8657/2000, nella quale si affermava che la nuova fattispecie
criminosa non dava luogo ad alcun fenomeno di successione di leggi penali nel
tempo.
Tale secondo orientamento leggeva l'art. 2 del d.lgs n. 74/2000 e considerava
l’esistenza di un reato "nuovo" poiché si disponeva che le fatture e la
documentazione per operazioni inesistenti non dovevano soltanto essere inserite
in contabilità ma anche confluire in una dichiarazione dei redditi o Iva che doveva
risultare mendace in quanto supportata da detti documenti.
La seconda tesi interpretativa della Cassazione affermava che mentre il rilascio di
fatture per operazioni inesistenti continuava a configurare gli estremi di reato
anche nel nuovo sistema penale delineato dal Decreto Legislativo n. 74/2000,
"per converso l'utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, seppure diretta ad
evadere le imposte sui redditi o l'Iva, non è più fatto che configura un’ ipotesi di
reato".
L'orientamento "depenalizzante" faceva leva essenzialmente sul fatto che il D.lgs
n. 74/2000 prevedeva come reato la dichiarazione dei redditi o dell'Iva basata
su fatture false e non l'utilizzo di detti documenti mendaci tramite modalità
diverse dalla presentazione della dichiarazione annuale.
Seguendo
tale
impostazione
la
sentenza
n.
8657/2000
evidenziava
che
l'utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti assumeva rilevanza nella nuova
fattispecie criminosa di cui all'art. 2 del D.lgs n. 74/2000 quale mezzo del quale
l'autore del fatto si avvaleva per indicare nella dichiarazione annuale relativa alle
imposte dirette o all'Iva elementi passivi fittizi.
Quindi, poiché il nuovo reato si consuma con la dichiarazione fraudolenta e, ai
sensi dell'art. 6, non è punibile il tentativo, "risulta evidente che la detenzione di
fatture riguardanti operazioni inesistenti o la loro registrazione nelle scritture
contabili obbligatorie, è un fatto che, di per sè solo, non è idoneo ad integrare gli
estremi di reato".
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Con la sentenza n. 27 del 7 novembre 2000 le Sezioni Unite, aderendo
sostanzialmente alla seconda tesi interpretativa, hanno statuito che la nuova
fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta prevista dal D.lgs n. 74 del
2000 assorbe l'ipotesi di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti disposta
dalla legge n. 516 del 1982, perché, pur contenendo alcuni elementi descrittivi
della
norma
preesistente,
presenta
tuttavia
ulteriori
elementi
non
riconducibili alla precedente figura, postulando in particolare l'indicazione in
dichiarazione di elementi passivi fittizi, non richiesta invece dall'art. 4, lettera d)
della l. n. 516 del 1982.
Pertanto, per le semplici condotte prodromiche di "utilizzazione" di fatture o di
altri documenti per operazioni inesistenti "è intervenuta una vera e propria abolitio
criminis mediante integrale depenalizzazione della fattispecie".
La stessa sentenza evidenzia che, in base ad un indirizzo interpretativo
consolidato, i fatti integranti reato nel vigore della legge n. 516 del 1982 possono
continuare ad esserlo alla stregua del decreto legislativo n. 74 del 2000, "salvo per
quanto attiene all'estensione dell'attuale incriminazione alla dichiarazione annuale
Iva, rispetto alla quale non è configurabile un rapporto di successione modificativa
tra leggi", qualora, in concreto, gli elementi costitutivi del nuovo reato siano stati
chiaramente enunciati nell'imputazione contestata all'imputato anche a seguito di
rituale modificazione della contestazione.
Questo aspetto è particolarmente interessante perché esclude la rilevanza penale
delle dichiarazioni fraudolente relative all'imposta sul valore aggiunto prima
dell'entrata in vigore del D.lgs n. 74/2000.
In buona sostanza, secondo le Sezioni Unite può ravvisarsi una continuità
normativa di illecito soltanto tra la vecchia ipotesi dell'art. 4, lettera f) della legge
n.516 del 1982 e la nuova ipotesi dell'art. 2, comma 1, del d.lgs n. 74 del 2000, se
i dati delle fatture o degli altri documenti per operazioni inesistenti utilizzati in
corso d'anno sono poi confluiti nella successiva dichiarazione annuale dei redditi,
della quale hanno costituito il supporto fraudolento per la mendace indicazione di
componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva.
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Dopo la presentazione dell’acceso dibattito, una prima considerazione attiene alla
mancanza nel D.Lgs. 74/2000 di una fattispecie equivalente al disposto di cui
alla menzionata lettera d) dell'art. 4.1 Legge n. 516/82, con la conseguenza che la
mera utilizzazione sic et simpliciter di fatture per operazioni supposte inesistenti
non è più disciplinata, a differenza di quanto avveniva in passato, come ipotesi di
per sé penalmente rilevante.
Pertanto, e premesso altresì che l'art. 24.1 del D.Lgs. 507/99 ha espressamente
abrogato l'art. 20 della Legge n. 4/29 (che sanciva il principio di ultrattività della
norma penale-tributaria), occorre verificare se nel corpus della nuova disciplina
sia rinvenibile o meno una norma che ugualmente connoti di disvalore il semplice
uso di false fatture.
Ebbene, sembrerebbe che la norma "corrispondente" all'art. 4, lett. d) Legge n.
516/82
debba
essere
individuata
nell'art.
2
del
D.Lgs.
74/2000,
che
espressamente recita: "è punito (…) chiunque, al fine di evadere le imposte sui
redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte
elementi passivi fittizi".
Di conseguenza, nel caso di specie dovrebbe trovare applicazione l'art. 2.3 C.p. in
tema di successione di leggi penali nel tempo, con correlativa applicazione della
legge più favorevole al reo.
Tale conclusione, tuttavia, non convince.
Il presupposto applicativo dell'art. 2.3 C.p., infatti, deve essere individuato, per
giurisprudenza pacifica ed anche a giudizio di autorevolissima dottrina
nell'omogeneità delle fattispecie che si susseguono nel tempo.
In tal senso un primo indizio di omogeneità deve ravvisarsi nella descrizione del
comportamento punito, che dovrebbe rimanere sostanzialmente inalterato nei
suoi elementi costitutivi.
Tuttavia, nel caso di specie è immediatamente percepibile come la fattispecie
introduce in realtà un elemento ulteriore (e perciò disomogeneo) rispetto a quella
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contenuta nella Legge n. 516/82: l'art. 2 del D.Lgs. 74/2000, infatti, postula un
contegno aggiuntivo rispetto al semplice utilizzo di fatture false, vale a dire
l'indicazione di dette fatture nelle dichiarazioni annuali.
Ma, a ben considerare, l'art. 2 non si limita ad un semplice arricchimento dei
contorni del comportamento punibile ma, si sostiene, che introduca una
fattispecie di reato completamente nuova.
Militano in favore di tale considerazione le seguenti osservazioni:
a) la stessa rubrica dell'art. 2 è significativamente intitolata "Dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti";
b) la relazione governativa al decreto legislativo espressamente precisava che la
frode fiscale "resta integrata non dalla mera condotta di utilizzazione ma da un
comportamento
successivo
e
distinto,
quale
la
presentazione
della
dichiarazione";
c) la pena viene rimodulata in base ad un elemento quantitativo, risultando
addirittura più elevata rispetto a quella stabilita dalla Legge n. 516/82;
d) la stessa relazione governativa, poi, evidenziava come una soluzione di tal fatta
fosse stata suggerita dalla stessa legge delega, la quale alla lettera b) dell'art. 9
escludeva la soggezione a soglie di punibilità "di fattispecie concernenti (…)
l'utilizzazione di documentazione falsa";
e) in definitiva risulta mutato l'obiettivo della sanzione penale (con tutte le
conseguenze general/preventive e special/preventive del caso), in quanto ad
essere punito non è solo il mero utilizzo di fatture false, ma il ben più
pregnante comportamento concretantesi nella mancanza di veridicità delle
dichiarazioni annuali (in armonia con le disposizioni di cui agli artt. 3 e 4 dello
stesso decreto, anch'esse concernenti reati in materia di dichiarazioni).
Vi è da dire, poi, degli ostacoli che ha incontrato l'operatività, nel caso di specie,
dell'art. 2.3 C.p..
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Difatti, l'applicazione dell'art. 2 del D.Lgs 74/2000 al comportamento realizzato
sotto l'impero della precedente normativa avrebbe implicato una surrettizia
estensione “ora per allora” della condotta penalmente rilevante, con conseguente
lesione di ben due principi costituzionali: il principio di obbligatorietà dell'azione
penale, previsto dall'art. 112 Cost., e quello di irretroattività della norma penale,
così come desumibile dall'art. 25 Cost.
In ordine all'azione penale, infatti, si sarebbe corso il rischio di un suo esercizio “a
posteriori”, in quanto l'intervento del Pubblico Ministero sarebbe stato volto a
perseguire comportamenti, quali la redazione delle dichiarazioni annuali, in
passato non rilevanti per l'integrazione del reato.
Quanto alla lesione del principio di irretroattività, essa sarebbe derivata dalla
considerazione che la sanzione penale aveva e, sempre, deve avere, una funzione
di orientamento del comportamento dei consociati, con conseguente necessità di
delimitare con precisione le condotte illecite da quelle penalmente irrilevanti.
Ebbene, se si fosse adattato al passato l'attuale fattispecie di reato, si sarebbe
creata una situazione paradossale in quanto ci sarebbe stato il “rimodellamento”
dell'elemento soggettivo dell'agente, ed in particolare si sarebbe dovuto sostenere
che il disegno del reo si estendeva anche ad un elemento a quell'epoca non
necessario ai fini dell'integrazione della condotta rilevante.
Infine, appare priva di pregio l'obiezione, che pur è stata mossa, secondo cui l'art.
2 del D.Lgs. 74/2000 avrebbe dovuto trovare applicazione anche alle pregresse
ipotesi di mera utilizzazione di fatture false per effetto del disposto di cui al
comma 2 (“il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti
per operazioni inesistenti quando tali fatture sono registrati nelle scritture contabili
obbligatorie …”), volendosi in particolare sostenere che l'avvalersi di fatture per
operazioni inesistenti determina necessariamente la registrazione di queste nelle
scritture contabili obbligatorie.
Orbene, tale obiezione, destinata sostanzialmente alla creazione di una sorta di
“sussidio dogmatico” per consentire la punizione dell’ipotesi di semplice uso di
documenti falsi, in realtà si è risolta in una interpretatio abrogans dello stesso
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comma 1 dell'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, giacché, così opinando, non si
comprenderebbe per quale motivo il legislatore delegato avrebbe dovuto
specificare nel primo comma che la condotta si ritiene integrata con l'indicazione
delle poste fasulle nelle dichiarazioni, ben potendo tale assunto desumersi dal
capoverso della norma stessa.
In realtà, il comma 2 ha la funzione di meglio delimitare l'ambito operativo della
fattispecie descritta nel primo comma: quindi il reato si compie quando,
avvalendosi di fatture false (dovendosi per queste intendere, ai sensi del comma
2, quelle registrate nelle scritture contabili obbligatorie), si compila una
dichiarazione annuale mendace.
Altro punto importante è l'esclusione della rilevanza penale dell'Iva.
Ciò deriva dalla constatazione che la previgente disposizione contenuta nella
lettera f) puniva chi indicava “nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o
rendiconto ad essa allegato, ricavi, proventi od altri componenti positivi di reddito,
ovvero spese od altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quella
effettiva utilizzando documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero,
ovvero ponendo in essere altri comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare
l'accertamento dei fatti materiali”.
La Corte di Cassazione ha stabilito che “in tema di IVA, costituendo l’emissione di
fatture per operazioni inesistenti una condotta sanzionata come delitto da altre
norme, la ratio della disposizione di cui all’art. 21, settimo comma, del d.P.R. 26
ottobre 1972, n. 633, secondo la quale, emesse fatture per operazioni inesistenti,
l’imposta stessa è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle
indicazioni della fattura, è distinta da quella meramente sanzionatoria, avendo lo
scopo specifico di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell’IVA, fondato sui
principi della rivalsa e della detrazione. Ne consegue che la sua applicazione non
contrasta con il principio di specialità di cui all'art. 19, primo comma, del d.lgs. 10
marzo 2000, n. 74”.
Con tale pronuncia la Suprema Corte ha inteso escludere l’art. 21, c. 7 del
decreto
IVA
dal
novero
delle
disposizioni
aventi
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natura
sanzionatoria,
sottraendolo all’applicazione del principio contenuto nell’art. 19, c. 1°, del decreto
di riforma dei reati tributari, secondo il quale “ quando uno stesso fatto è punito
da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una
sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”.
Il principio di specialità, regolato nell’ambito del diritto penale comune dall’art. 15
del c.p., trova applicazione quando uno stesso fatto appare sussumibile in due o
più fattispecie astratte, permettendo di escludere la sussistenza di un concorso di
reati e di determinare quale norma debba essere in concreto applicata perché
considerata speciale, con l’intento di evitare che il reo possa essere punito per più
di una volta in relazione al medesimo fatto.
Tale principio è stato recepito nel rapporto tra sanzione penale e amministrativa
con la previsione contenuta nell’art. 9, c. 1, della legge 24 novembre 1981, n. 689,
e, per il sistema tributario, con la disposizione di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 74 del
2000.
L’applicazione del suddetto principio richiede l’analisi della struttura delle
disposizioni concorrenti al fine di verificare quale delle due sia speciale rispetto
all’altra e, pertanto, risulti applicabile al caso concreto.
In campo tributario autorevole dottrina ha sostenuto l’applicabilità, nel rapporto
tra la disposizione sanzionatoria amministrativa e quella penale, del criterio della
specialità reciproca o bilaterale, secondo il quale una disposizione è speciale
rispetto a quella concorrente quando contiene maggiori elementi, quantitativi e
qualitativi, specializzanti.
Tale orientamento si basa sulla considerazione che le disposizioni tributarie
penali e quelle che prevedono sanzioni amministrative il più delle volte non
presenterebbero i presupposti per la c.d. “sovrapposizione”, con ciò rendendo
difficile il ricorso al criterio della specialità unilaterale, a meno che non si voglia
concludere per l’inoperatività della norma di cui all’art. 19 e la congiunta
applicazione della sanzione tributaria penale e di quella amministrativa.
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Altri autori hanno ritenuto che le disposizioni penali tributarie debbano sempre
essere considerate speciali rispetto a quelle sanzionatorie amministrative, tenuto
conto del fatto che il diritto penale rappresenta il rimedio estremo che il
legislatore attiva solo quando le sanzioni previste da altri settori dell’ordinamento
siano destinate a fallire.
D’altra parte, appare evidente che, al fine di verificare se si possa ricorrere alla
norma in esame, assume particolare rilevanza l’indagine volta ad accertare il
carattere sanzionatorio o meno delle disposizioni tributarie che hanno ad oggetto
condotte rilevanti anche ai fini penali.
Con riferimento all’art. 21, c. 7 del decreto IVA, la Suprema Corte già in altre
decisioni aveva ritenuto che tale disposizione avrebbe lo scopo di ricondurre a
coerenza il sistema impositivo dell’IVA, fondato sui principi della rivalsa e della
detrazione, incidendo, da un lato, sul soggetto emittente la fattura, il quale è
debitore dell’imposta sulla base dell’applicazione del solo principio di cartolarità,
e, dall’altro, in combinato disposto con gli articoli 19, c. 1, e 26, c. 3, dello stesso
decreto, anche sul destinatario della fattura medesima, il quale non può
esercitare il diritto alla detrazione in totale carenza del suo presupposto, e cioè
dell’effettivo acquisto di beni o di servizi.
Quanto sostenuto dalla Cassazione appare contraddittorio, in particolare, per
quanto attiene al caso delle fatture fittizie, difettando il presupposto impositivo di
cui all’art. 1 del decreto IVA, il regolare funzionamento del meccanismo di rivalsa
e detrazione esclude, da un lato, che l’imposta indicata in fattura debba essere
versata dall’emittente, e dall’altro, che possa essere detratta dal cessionario.
Diversa sarebbe l’ipotesi in cui al cessionario venga consentito di detrarre
l’imposta indicata nella fattura falsa, allora sì che risulterebbe necessario
ricondurre a coerenza il predetto meccanismo.
In merito, si rileva che secondo la giurisprudenza dominante il diritto alla
detrazione può essere esercitato solo per l’imposta effettivamente dovuta,
intendendosi per tale quella che scaturisce da operazioni di cessioni di beni e di
prestazioni di servizi realmente effettuate.
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Infatti, nelle operazioni fittizie verrebbe a mancare il presupposto dell’imposta che
l’art. 1 del d.P.R. n. 633 del 1972, individua nella effettiva cessione del bene dal
cedente
al
cessionario
e
nell’effettiva
prestazione
del
servizio
a
favore
dell’utilizzatore.
Quindi, nel caso in cui l’operazione economica non sia realmente avvenuta
verrebbe a difettare il presupposto per applicare l’imposta e, conseguentemente, il
diritto da parte del cessionario di detrarla: vero è che in questi casi gli Uffici
provvedono sistematicamente a recuperare a tassazione l’imposta indebitamente
detratta.
In aggiunta, vi è da osservare che il legislatore, al c. 7 dell’art. 21 in esame,
stabilendo che l’imposta calcolata sulle fatture emesse per operazioni inesistenti è
dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni in
fattura, sembrerebbe abbia voluto escludere tale imposta dal meccanismo di
rivalsa e detrazione, sì da attribuirgli un valore tipicamente sanzionatorio.
D’altra parte, quanto appena affermato e il rilievo precedentemente esposto
secondo cui in presenza di fatture per operazioni inesistenti il sistema già di per
sé esclude qualsiasi pregiudizio al meccanismo di rivalsa e detrazione, inducono a
ritenere, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte nella decisione sopra
riportata, che l’art. 21, c. 7, del d.P.R. n. 633 del 1972 debba ritenersi
disposizione sanzionatoria a tutti gli effetti.
Pertanto, il concorso tra la disposizione di cui all’art. 21, c. 7 del d.P.R. n. 633 del
1972 e quella contenuta nell’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, in applicazione del
principio di specialità, si risolverebbe in favore dell’applicazione di quest’ultima;
infatti, la disposizione penale richiede, come elemento specializzante, che il
soggetto abbia agito al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi
o sul valore aggiunto.
Qualora, invece, l’elemento psicologico sulla base del quale il contribuente si è
risolto alla condotta di emissione della fattura non coincida con quello
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specificatamente richiesto dalla disposizione incriminatrice, non vi sarebbe alcun
concorso di norme e troverebbe applicazione esclusivamente la sanzione
amministrativa.

Profili di differenziazione con la giurisprudenza europea
Secondo la Corte di cassazione, non è possibile, per chi emette fatture per
operazioni inesistenti, evitare il pagamento dell'intera Iva indebitamente fatturata,
neppure procedendo all'emissione di una nota di credito che azzeri l'operazione;
invece, per il destinatario delle fatturazioni relative alle suddette operazioni,
hanno pieno valore le note di credito ricevute, per ciò egli non può detrarsi
l'imposta indebitamente indicata in fattura.
Questo è quanto esposto nella sentenza n. 12353/2005, che conferma un
orientamento della giurisprudenza italiana consolidato da tempo.
In campo europeo, invece, la situazione appare alquanto diversa.
Infatti, la sentenza della Cassazione italiana appare diversamente orientata
rispetto alla giurisprudenza comunitaria che, in casi analoghi, ha statuito sulla
liceità dell'emissione di note di credito che regolarizzino l'imposta indebitamente
fatturata, sia per il soggetto che ha emesso le fatture, sia per chi le ha ricevute.
In proposito, appare illuminante la causa C-454/98 conclusasi con la sentenza
della Corte di giustizia UE del 19 settembre 2000, che espressamente dichiara:

allorché colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato
completamente il rischio di perdite di entrate fiscali, il principio della
neutralità
dell'imposta
sul
valore
aggiunto
richiede
che
l'imposta
indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza che una tale
regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha
emesso la fattura;

spetta agli Stati membri definire il procedimento in base al quale l'imposta
sul valore aggiunto indebitamente fatturata possa essere regolarizzata,
ammesso che questa regolarizzazione non dipende dal potere discrezionale
dell'Amministrazione fiscale.
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Per giungere a tali determinazioni, la Corte di Giustizia ha percorso un cammino
interessante, che vale la pena ricostruire con attenzione per le possibili
conseguenze nei diritti interni dei singoli Stati membri.
La questione era stata sottoposta ai giudici comunitari dal Bundesfinanzhof,
omologo tedesco delle Commissioni tributarie italiane, e verteva su tre questioni
pregiudiziali inerenti l'articolo 21, punto 1, lettera c) della sesta direttiva Cee
(direttiva 17 maggio 1977, 77/388/Cee), che così stabilisce: "L'imposta sul valore
aggiunto è dovuta in regime interno... da chiunque indichi l'imposta sul valore
aggiunto in una fattura o in un altro documento che ne fa le veci(...)".
Le tre questioni pregiudiziali evidenziate dal remittente la causa erano le
seguenti:
“1) Se il diritto comunitario imponga che sia consentita la rettifica di un'imposta già
indebitamente fatturata nell'ambito del procedimento di accertamento d'imposta,
oppure sia sufficiente che gli Stati membri ammettano una rettifica in un
successivo procedimento secondo equità (per cosiddette ragioni tecniche).
2)
Se
la
rettifica
di
un'imposta
indebitamente
fatturata
presupponga
obbligatoriamente che colui che emette una fattura dimostri la sua buona fede
oppure una rettifica di una fattura sia ammessa anche in altri casi
(eventualmente quali).
3) In base a quali presupposti colui che emette una fattura agisca in buona fede”.
La Corte europea, esaminando in primo luogo il secondo degli argomenti
sottoposti alla sua attenzione, ha statuito che “allorché l'IVA non è stata indicata
indebitamente in buona fede, ma in maniera abusiva da colui che emette la fattura
poiché quest'ultimo sa sia che non è un soggetto passivo, sia che la cessione di beni
o la prestazione di servizi cui si riferisce la fattura non è stata eseguita, il principio
di neutralità dell'IVA non richiederebbe che sia offerta una possibilità di
regolarizzazione dell'IVA indebitamente fatturata(...). Occorre in secondo luogo
constatare che la sesta direttiva non prevede alcuna disposizione relativa alla
regolarizzazione, da parte di chi emette la fattura, dell'IVA indebitamente
fatturata(...). Alla luce di queste considerazioni, spetta in via di principio agli Stati
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membri determinare le condizioni in cui l'IVA indebitamente fatturata possa essere
regolarizzata(...). Al riguardo, occorre ricordare che i provvedimenti che gli Stati
membri possono adottare ai sensi dell'art. 22, n. 8, della sesta direttiva per
assicurare l'esatta riscossione dell'imposta ed evitare le frodi non devono eccedere
quanto è necessario a tal fine; essi non possono quindi essere utilizzati in modo tale
da rimettere sistematicamente in questione il diritto alla detrazione dell'IVA, il quale
è un principio fondamentale del sistema comune dell'IVA istituito dalla normativa
comunitaria in materia”.
Concludendo, “occorre quindi risolvere la questione nel senso che, allorché colui che
ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite
di entrate fiscali, il principio della neutralità dell'IVA richiede che l'imposta
indebitamente
fatturata
possa
essere
regolarizzata,
senza
che
una
tale
regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha emesso
tale fattura”.
Passando, poi, ad esaminare la prima delle tre questioni sottoposte alla sua
attenzione, e cioè in base a quale procedimento la regolarizzazione dell'Iva
indebitamente fatturata debba aver luogo, la Corte, dopo aver rilevato che,
eliminato il rischio di perdite di entrate fiscali, la regolarizzazione di cui si sta
discutendo non può essere rimessa al potere discrezionale dell'Amministrazione
fiscale, poiché, dalla soluzione fornita alla questione precedente, risulta in
maniera chiara che il principio di neutralità dell'Iva richiede che possa procedersi
alla regolarizzazione stessa, conclude che “spetta agli Stati membri definire il
procedimento in base l'IVA indebitamente fatturata possa essere regolarizzata,
ammesso che questa regolarizzazione non dipende dal potere discrezionale
dell'amministrazione fiscale”.
La Corte ha ritenuto assorbito il pronunciamento sulla terza questione.
Fin qui, la giurisprudenza comunitaria.
Tornando, invece, alle decisioni della Corte di cassazione italiana, si evidenzia
come questa ritenga che la fattura portante fatturazioni inesistenti non possa
essere rettificata con note di credito a storno.
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Secondo la Suprema Corte, dunque, la disposizione dell'articolo 21, comma 7, del
DPR 633/72, (secondo cui “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti
ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono
indicati in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero
ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”), obbliga e
vincola l'emittente della fattura al pagamento dell'intero ammontare dell'imposta
esposta in fattura, senza che possa essere invocata, a difesa dell'emittente, la
carenza
di
uno
dei
principi
generali
dell'imposta,
cioè
l'effettuazione
dell'operazione.
Dal punto di vista del cessionario, cioè di colui che riceve la fattura portante
fatturazioni per operazioni inesistenti, l'ordinamento interno prevede che egli non
possa esercitare il diritto alla detrazione dell'imposta perché in completa assenza
del presupposto oggettivo (l'effettuazione della relativa operazione), in base ai
principi generali regolatori della detrazione sanciti dall'articolo 19 del Dpr
633/72.
Traendo le opportune conclusioni da quanto fin qui affermato, avremo che il
contribuente che emette fatture per operazioni inesistenti:

è obbligato a versare l'intera imposta indicata in fattura, anche se ha
provveduto a rettificare l'operazione emettendo, ai sensi dell'articolo 26 del Dpr
633/72, una “nota di credito”;

ai sensi dell'articolo 13 del Dlgs n. 471/1997, è punito con una sanzione
amministrativa pari al 30 per cento dell'imposta non versata;

è soggetto alle sanzioni penali previste dal Dlgs n. 74/2000.
Il contribuente che, invece, riceve fatture per operazioni inesistenti:

non può portare in detrazione l'imposta indicata in fattura ai sensi dell'articolo
19 del Dpr 633/72 e, qualora riceva una “nota di credito”, deve corrispondere
quella eventualmente ivi annotata;

oltre a dover corrispondere l'imposta indebitamente detratta, è soggetto a una
sanzione amministrativa che va dal 100 per cento al 200 per cento
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dell'imposta portata indebitamente in detrazione, ai sensi dell'articolo 5 del
Dlgs n. 471/1997;

è, al pari dell'emittente la fattura, soggetto alle sanzioni penali previste dal
Dlgs n. 74/2000.
Alla luce di tutto ciò, occorre precisare che, con la sentenza n. 5717/2007, la
Cassazione si è nuovamente pronunciata in ordine alla detraibilità dell'Iva
riferibile a fatture ritenute emesse per operazioni inesistenti, affermando che, in
tema di imposta sul valore aggiunto, la fattura emessa da un soggetto diverso da
quello
che
ha
effettivamente
eseguito
la
prestazione
economica
non
è
riconducibile all'ipotesi di “omissione dell'indicazione dei soggetti fra cui
l'operazione è effettuata”, prescritta dall'articolo 21, comma 2, lettera a), del Dpr
633/1972, ma va, invece, ritenuta fatturazione per operazioni "soggettivamente"
inesistenti.
La controversia sulla quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte ha alla base
una divergenza soggettiva tra il soggetto che emetteva le fattura e quello che
effettivamente eseguiva le prestazioni economiche; pertanto, veniva recuperata a
tassazione l'imposta illegittimamente detratta dalla società acquirente.
In
particolare,
la
Commissione
tributaria
regionale,
ha
ritenuto che
le
caratteristiche delle varie ditte con le quali la ricorrente aveva intrattenuto
rapporti
commerciali,
denotavano
che
“si
trattava
di
aziende,
quando
effettivamente esistenti, incerte economicamente, assai poco attendibili fiscalmente
e, comunque, tutte contabilmente anomale”.
In altre parole, per i giudici era stato violato quanto prescritto dal comma primo,
dell'articolo 21 del Dpr 633/1972, secondo cui la fattura deve essere emessa dal
soggetto che effettua la cessione del bene o la prestazione del servizio e, quindi,
non da soggetti diversi.
Al fine di un corretto inquadramento della questione in esame, è utile ricordare
che sono definite:

“imprese fantasma” (cosiddette cartiere) quelle esistenti solo sotto il
profilo formale (in quanto titolari di partita Iva, vera o falsa, ed
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eventualmente iscritte alla Camera di commercio), ma non sotto il profilo
sostanziale, in quanto non svolgono alcuna attività commerciale, ma si
limitano a rilasciare a terzi "fatture" per forniture di beni o per prestazioni di
servizi in realtà mai eseguiti, mancando la struttura operativa idonea a
produrli, a fornirli o a prestarli. In sostanza, si tratta, in questa ipotesi, di
organizzazione di attività diretta a frodare il fisco;

“imprese effettivamente esistenti e operanti” quelle, prevalentemente a
contabilità ordinaria, che utilizzano fatture per operazioni inesistenti al solo
fine di esporre un risultato reddituale inferiore a quello reale, attraverso
l'esposizione di costi inesistenti. Questa fattispecie si differenzia dalla prima
perché rappresenta un'operazione “evasiva”" e fraudolenta leggermente più
sofisticata. Detta fattispecie va sottodistinta, in quanto si possono verificare
due ipotesi nettamente distinte anche in relazione alla gravità dei
comportamenti.
Possono, infatti, riscontrarsi nella realtà i seguenti casi:

“costi fittizi” per operazioni “soggettivamente” e “oggettivamente” inesistenti,
esposti in contabilità al solo fine di comprimere il risultato reddituale;

“fatture fittizie” sotto il profilo soggettivo, utilizzate per coprire costi
effettivamente sostenuti, ma non documentabili.
Tanto precisato, con la sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno
rigettato il ricorso della società contribuente, affermando il principio secondo cui
"la detrazione Iva è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto
che effettua realmente la cessione o la prestazione".
La Corte, confermando il suo precedente orientamento, ha, in sostanza, ribadito
che, in presenza di fatture per operazioni "soggettivamente" o "oggettivamente"
inesistenti, trattandosi di situazioni fraudolente o abusive, il cessionario che
utilizza il documento fiscale non può recuperare l'Iva, anche se l'imposta è stata
assolta dall'emittente ai sensi dell'articolo 21, settimo comma, del Dpr n. 633/72,
secondo cui "se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella
fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono indicate in misura
superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o
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corrispondente
alle
indicazioni
della
fattura"
(Cassazione,
sentenze
nn.
14337/2002 e 309/2006).
In altre parole, nella specifica ipotesi di costi documentati da fatture emesse da
un soggetto diverso rispetto all'effettivo fornitore di beni o di servizi, l'imposta è
dovuta dalla società venditrice per l'intero ammontare indicato in fattura, mentre
la società acquirente non può usufruire della corrispondente detrazione.
Ciò trova giustificazione nel fatto che in presenza di fatture per operazioni:

“oggettivamente” inesistenti (operazioni inesistenti in senso assoluto), la
detrazione dell'imposta non è ammessa in quanto la cessione dei beni o la
prestazione di servizi, cui si riferisce la fattura, non è stata mai eseguita e,
quindi, manca l'acquisizione dei beni o dei servizi da parte dell'imprenditore,
dell'artista o del professionista;

“soggettivamente” inesistenti (ad esempio, se le operazioni sono avvenute
tra soggetti diversi da quelli documentalmente apparenti, oppure se gli
acquisti di beni o servizi sono avvenuti "a nero" presso altri soggetti, diversi
dalle società compiacenti che hanno emesso le fatture), non è ammessa la
detrazione dell'Iva fatturata dalla società fittizia, in quanto gli acquisti,
proprio
perché
privi
dell'ufficialità,
sono
avvenuti
senza
pagamento
dell'imposta.
In merito a quest'ultima fattispecie, è opportuno precisare che la Corte di
cassazione, con la sentenza n. 3550/2002, aveva specificato che “si ricorre alla
fatturazione soggettivamente falsa quando si ha necessità di ufficializzare beni o
servizi acquistati di contrabbando o da soggetti che non possono o non vogliono
apparire. In quest' ultimo caso, è evidente che gli acquisti avvengono senza il
pagamento dell'IVA proprio perché privi della ufficialità, né si possono riconoscere le
detrazioni per l'IVA fatturata dalle società inesistenti”.
Pertanto, sulla base di quanto sopra esposto, la Cassazione ha ritenuto legittimo
il recupero a tassazione dell'imposta indebitamente detratta dalla società
acquirente.

Operazioni inesistenti, società cartiere e frodi intracomunitarie
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L’Amministrazione finanziaria è sempre più concentrata nel contrasto di
operazioni evasive realizzate mediante l’utilizzo di fatture soggettivamente
inesistenti.
Gli accertamenti di imposta, in tali contesti, scaturiscono dopo una complessa
attività investigativa, che permette di individuare l’esistenza di tali tipi di
organizzazioni, spesso diffuse sia sul territorio nazionale che su quello estero.
Per consentire la realizzazione della frode, le imprese coinvolte assumono diversi
ruoli così di seguito specificati:

imprese filtro comunitarie: sono collocate all’inizio del percorso della frode
per garantire l’estraneità di collegamento da parte del produttore/fornitore.
Queste imprese sono spesso collocate in Stati in cui è possibile costituire
società anonime, per le quali non è possibile risalire a chi, di fatto, ne abbia la
gestione;

imprese cartiere: hanno il solo scopo di “inserirsi” nei passaggi della
compravendita, non versando poi l'IVA dovuta;

imprese filtro nazionali: clienti delle società cartiere, sono inserite per
documentare le cessioni a favore delle società commerciali, reali beneficiarie
della frode e per garantire la loro estraneità a collegamenti di ogni tipo con il
circuito fraudolento;

imprese
beneficiarie:
costituiscono
i
veri
promotori/organizzatori
del
business illegale. Ricevono la merce direttamente dal fornitore comunitario,
ma documentano (fittiziamente) le relative transazioni attraverso il suesposto
circuito cartolare.
Il percorso documentale prevede di solito che la merce, ceduta dal fornitore
all’impresa filtro comunitaria e da questa all’impresa cartiera italiana, giunga
successivamente all’impresa beneficiaria, mediante l’interposizione dell’impresa
filtro operante sul territorio nazionale.
In realtà la merce, reperita presso i fornitori comunitari, è posta nell’immediata
disponibilità delle imprese beneficiarie, avvalendosi delle prestazioni fornite da
società di trasporto presso le quali vengono creati conti di deposito da parte delle
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ditte appartenenti al circuito illegale, in modo tale da permettere che la stessa
merce risulti aver avuto almeno tre passaggi in Italia prima di essere
contabilizzata dai reali destinatari e promotori del traffico illecito.
Tali circuiti frodatori contemplano dunque l’utilizzo, quali imprese cartiere o
filtro, di società di comodo insolventi, intestate a prestanomi, che non effettuano
il versamento dell’imposta dovuta sulle cessioni.
La normativa in materia di trattamento IVA negli scambi intracomunitari (DL n.
331 del 1993, convertito nella Legge n. 427 del 1993) prevede, infatti, il criterio
della doppia annotazione della fattura (nei registri IVA acquisti e vendite) con
conseguente neutralità dell’operazione ai fini fiscali.
Le ditte italiane, quindi, cessionarie di beni da operatori comunitari, acquistano
in esenzione IVA e, solo successivamente, quando rivendono i prodotti sul
territorio nazionale, versano il tributo all’Erario; comunque, se “formalmente” il
primo acquirente nazionale è una delle imprese cartiere o filtro suaccennate,
nulla sarà versato all’Erario.
A ciò si somma l’attività dell’impresa beneficiaria, che acquista dalla cartiera a
prezzi particolarmente vantaggiosi, potendo, così, immettere sul mercato
nazionale il materiale destinato alla clientela a prezzi concorrenziali, inferiori ai
valori di mercato.
L’effettività delle operazioni del resto non può certo essere dimostrata invocando
l’esistenza dei pagamenti e la registrazione delle fatture, elementi, questi, non
sufficienti ad evitare le contestazioni.
La Corte di Cassazione (Cass., Sez. Tributaria, n. 15228/2001) ha, infatti,
ritenuto che “la produzione degli assegni bancari non aggiunge nulla al quadro
probatorio ed ha la stessa efficacia probatoria della emissione della fattura. Se
questa di per sé non prova la effettività dell’operazione sottostante, non può
ritenersi che tale prova venga raggiunta con la produzione dei mezzi di pagamento
utilizzati. La prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni IVA deve
essere fornita dal contribuente. Tale prova, però, non può essere costituita dalla
sola esibizione dei mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati
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fittiziamente, per dare corpo apparente ad una transazione inesistente. Si tratta di
un mero elemento indiziario, la cui presenza (o assenza) deve essere letta nel
contesto di tutte le altre risultanze processuali”.
Si è evidenziata la notorietà del fatto che coloro che utilizzano fatture emesse a
copertura di operazioni inesistenti effettuano i pagamenti con assegni bancari per
lasciare traccia degli stessi a futura memoria e che, però, si fanno restituire, in
contanti, la stessa somma pagata, salvo i costi richiesti dall’emittente.
In materia di fatturazione soggettivamente falsa, la Suprema Corte, Sez.
Tributaria, sentenza n. 3550/2002, non ha riconosciuto le detrazioni per l’IVA
fatturata dalle società inesistenti, specificando che “si ricorre alla fatturazione
soggettivamente falsa quando si ha necessità di ufficializzare beni o servizi
acquistati di contrabbando o da soggetti che non possono o non vogliono apparire.
In quest’ultimo caso è evidente che gli acquisti avvengono senza il pagamento
dell’IVA proprio perché privi della ufficialità, né si possono riconoscere le detrazioni
per l’IVA fatturata dalle società inesistenti”.
In tema di imposta sul valore aggiunto, la fatturazione effettuata in favore di un
soggetto diverso da quello effettivo non è riconducibile ad un’ipotesi di
fatturazione con indicazioni incomplete o inesatte di cui all’art. 41, co. 3, del DPR
633 del 1972, né a quella di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui
l’operazione è effettuata, prescritta dall’art. 21, comma 2, n.1, dello stesso
decreto,
ma
deve
essere
considerata
una
fatturazione
per
operazione
soggettivamente inesistente, di cui deve essere versata la relativa imposta in base
al citato art. 21, dato che viene ad essere evasa l’imposta relativa al rapporto che
si è realmente posto in essere.
La Cassazione, del resto, ha già ritenuto, con consolidato orientamento, che, in
caso di operazioni inesistenti, l'IVA sia comunque indetraibile.
Secondo la Corte Suprema, infatti, la relativa obbligazione “è isolata da quella
risultante dalla massa di operazioni effettuate ed estraniata dal meccanismo di
compensazione tra IVA a valle e IVA a monte e ciò anche perché l'emissione di
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fatture per operazioni inesistenti ha sempre costituito condotta penalmente
sanzionata come delitto” (Cass. n. 14337/2002 e Cass n. 3550/2002).
Si può analizzare il fenomeno, che si presta ad una suddivisone per fasi,
dapprima, dal punto di vista oggettivo.
Alla base di tali frodi, c’è un articolato meccanismo frodatorio che parte dalla fase
della produzione, infatti la merce commercializzata in Italia viene, di solito,
prodotta in Paesi Extra UE.
Successivamente si passa alla fase dell’importazione e quindi, se un’impresa
italiana importa direttamente dal produttore, questa operazione sarà considerata
un’importazione e come tale soggetta ad IVA, da assolvere direttamente in
Dogana; se tuttavia l’impresa importatrice acquisisce lo status di “esportatore
abituale” e dispone di un “plafond”, allora può importare beni, entro i limiti del
plafond, senza applicazione dell’IVA.
Per acquisire lo status di esportatore abituale però è necessario raggiungere un
congruo volume o di esportazioni dirette extra UE o di cessioni intracomunitarie
(almeno il 10% del volume di affari).
La società italiana che importa i beni dal Paese Extra UE, per acquisire tale
status e poter effettuare le importazioni senza applicazione dell’IVA, vende
consistenti partite di merci ad una o più imprese comunitarie create ad hoc
(cartiere comunitarie).
Ultima fase è quella della ricollocazione, da parte delle succitate imprese, della
merce sul mercato nazionale tramite altre società cartiere italiane.
In tutto questo, la merce non si sposta mai dal territorio italiano, in quanto,
o rimane ferma nel magazzino della società di partenza, o si sposta in un
deposito interno del vettore.
Esposto il complesso meccanismo di creazione della frode, è indubbio considerare
gli illeciti benefici conseguiti dalle società che partecipano all’attività, qui di
seguito elencati:
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
conseguimento dello status di esportatore abituale mediante la creazione di
un falso plafond e importazione di materiale senza applicazione dell’IVA;

rivendita del materiale ad una cartiera comunitaria senza applicazione
dell’IVA;

possibilità di riacquistare la stessa merce dalla cartiera nazionale ad un
prezzo inferiore a quello della sua originaria cessione; con l’ulteriore
vantaggio di ottenere, mediante la trasformazione di una parte di imponibile
in IVA da esporre in fattura, un’IVA a credito da portare in detrazione;

possibilità di effettuare prezzi di vendita concorrenziali a scapito delle
imprese “oneste”.
Analizziamo, ora, gli aspetti soggettivi della questione come la mancanza di dolo
e la rilevanza dello stato soggettivo.
A tal riguardo subito, l’attenzione si dirige verso la (presunta) mancanza di “dolo”
della beneficiaria finale, opponendo l’eccezione che non esiste un obbligo positivo
che imponga all’acquirente di scoprire le metodologie di approvvigionamento dei
propri fornitori.
In pratica l’affermazione della mancanza di una consapevole partecipazione e
accordo con i soggetti che avrebbero operato fraudolentemente può avere un
qualche senso in sede penale, ma in sede tributaria ha ben poca valenza
giuridica.
La Cassazione, infatti, spiega come, a differenza di quanto avviene nel processo
penale,
il
processo
tributario
si
può
basare
su
presunzioni,
che,
indipendentemente dall’accertamento dello stato soggettivo del contribuente,
dimostrino l’ oggettiva infrazione fiscale.
La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, nella sentenza n. 8959/2003, afferma
infatti che “l'elemento soggettivo della conoscenza della circostanza relativa alla
illegalità o illiceità degli accordi esistenti tra le società variamente interessate alle
vendite non viene in rilievo agli effetti del rapporto tributario”.
L'infrazione fiscale si configura, infatti, per il solo elemento oggettivo cioè nel fatto
che il contribuente, con il proprio comportamento, doloso o colposo che sia, abbia
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determinato il rischio per l'Amministrazione di non conseguire il pagamento
dell'imposta effettivamente dovuta.
Agli effetti fiscali rileva il solo fatto oggettivo dell'infrazione, stanti le puntuali e
rigorose prescrizioni che disciplinano il regime delle esenzioni, delle detrazioni,
delle aliquote e delle compensazioni.
I descritti circuiti frodatori sono ormai realtà ben conosciute, così come ben
conosciuti sono gli indizi e gli effetti che a tali operazioni conseguono (principio
dell’id quod plerumque accidit).
La frode fiscale oltre a creare situazioni di concorrenza sleale fra le imprese,
comporta un deterioramento della situazione fiscale generale degli Stati membri.
Le analisi, effettuate sulla base delle attività di controllo, hanno evidenziato che i
soggetti operanti all'interno dei meccanismi di frode hanno in genere vita
brevissima (da uno a tre anni al massimo); le società “cartiere” e “filtro” nascono
infatti per la gestione di un limitato numero di operazioni illecite e scompaiono,
quindi,
velocemente,
rendendo
difficoltosa
l'individuazione
degli
effettivi
responsabili di fatti illeciti compiuti.
L'esperienza dell’Amministrazione finanziaria, ad oggi, ha posto in evidenza
l'utilità dell'applicazione del c.d. "criterio multiplo", risultante dalla combinazione
di più indici di pericolosità, contemplati nella Circolare dell’Agenzia delle Entrate
n. 158 del 2000.
Di seguito si elencano suddetti indici, al fine di evidenziare le articolate basi del
sistema:

acquisti da società “filtro” cessate e/o fallite;

chiusura dell'attività dopo breve periodo dalla costituzione;

società in fallimento o curatela fallimentare;

età del legale rappresentante o del titolare della società non rispondente ai
parametri di normalità (particolarmente giovane o vecchio);

nazionalità estera del legale rappresentante o del titolare della società;

variazione del numero di partita IVA;
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
situazioni nelle quali il legale rappresentante della società abbia svolto ruoli
di rilievo in altre Società che poi siano state dichiarate chiuse, liquidate
ovvero fallite;

la responsabilità viene attribuita a persone irreperibili o comunque
insolvibili;

l’impianto contabile (laddove esistente), a seguito della cessazione o del
trasferimento di sede, viene distrutto;

l’impianto organizzativo e i soggetti (laddove esistenti) vengono trasferiti in
blocco in un altro Stato e in una nuova società “vergine”, non conosciuta
dalle autorità Fiscali, e che continua, nella stessa identica maniera, la
precedente attività illecita.
Appare quindi evidente l’unicità e l’univocità delle società così individuate, sia a
livello nazionale che a livello estero che, in realtà, costituiscono un’unica entità
gestita da organizzazioni criminali dedite all’emissione di fatture soggettivamente
false.
I supporti tecnico–investigativi, di cui si avvale l’Amministrazione finanziaria
portano, spesso, all’esatta individuazione del fenomeno illecito perpetrato,
soprattutto passando dalla fase investigativa, fase c.d. a scala “ridotta”, a quella
in cui l’organizzazione viene invece valutata nel suo complesso.
In sostanza, una volta dimostrata l’inesistenza delle società fornitrici è veramente
incontestabile
l’inesistenza
soggettiva
delle
operazioni
poi
fatturate
alle
beneficiarie finali.
Questo è il vantaggio del processo tributario rispetto a quello penale: il poter
effettuare una ricostruzione presuntiva dell’accaduto; la ricostruzione più
verosimile e probabile secondo il principio dell’id quod plerumque accidit.
Sonia Cascarano
12 aprile 2008
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