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UTILIZZAZIONE DI FATTURE PER OPERAZIONI INESISTENTI: DISCUSSIONI DI SUCCESSIONI E NUOVI SPUNTI DI RIFLESSIONE (a cura Sonia Cascarano) La riforma del diritto penale tributario ha dato, e continua a dare, numerosi problemi, non solo applicativi ma sempre e comunque, interpretativi, in quanto il D.Lgs. 74/2000, emanato sulla scorta delle direttive previste nella legge delega n. 205/99, non contiene alcuna norma c.d. applicativa. Naturale, per tale ordine di motivazione, è stato il far riferimento ai principi generali del diritto ed in particolare all'art. 2 del codice penale, concernente la successione di leggi penali, anche se al riguardo parte della dottrina ha parlato di una sorta di “successione al buio” per i problemi che hanno caratterizzato il periodo di transizione. In proposito, particolare interesse destava il problema della sorte del reato di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, in precedenza disciplinato dall'art. 4.1, lett. d), della Legge 516/82. L’inizio di ogni nuova disciplina desta non pochi spunti di riflessione e si presta, normalmente, a diverse interpretazioni, dando vita ad orientamenti giurisprudenziali non univoci. In vero, la stessa Corte di Cassazione ha, in un primo momento, ritenuto applicabile al caso di specie l'art. 2.3 C.p., per poi precipitosamente ritornare su suoi passi aderendo all'opposto orientamento favorevole all'abolitio criminis. Rebus sic stantibus, appare utile una breve riflessione sull'argomento al fine di orientarsi meglio all'interno di un quadro interpretativo e giurisprudenziale che è stato, nel corso degli anni, dominato dall'incertezza. La sentenza n. 27/2000, ha enunciato il principio di diritto secondo cui "le condotte di utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, www.commercialistatelematico.com prodromiche o strumentali rispetto alla fraudolenta indicazione di elementi passivi fittizi in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, supportata da tali fatture o documenti, non sono più, di per sé, previste dalla legge come reato". Il contrasto riguarda, com'è noto, i rapporti tra l'art. 4, lettera d), della Legge n. 516 del 1982 e l'art. 2 del Decreto Legislativo n. 74 del 2000 con riferimento all'utilizzazione di fatture false che determinano la presentazione di una dichiarazione fraudolenta. In una prima interpretazione, con la sentenza n. 6228 del 27 aprile 2000, il giudice di legittimità ha sostenuto che le disposizioni contenute nell'art. 4, lettera d), della Legge n. 516 del 1982 e nell'art. 2 del D.lgs n.74 del 2000 sono tra loro in successione modificativa e che il fatto normativamente previsto dalla nuova normativa è riconducibile anche alla fattispecie precedente. Tale primo orientamento era supportato dalla valutazione che si era “in presenza di un fenomeno assimilabile alla situazione del tutto differente dall'avvicendarsi di norme interferenti aventi connotati peculiari, sicché, rilevata l'omogeneità normativa della condotta fra la frode fiscale mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti ed il delitto di cui all'art. 2 del D.lgs n. 74 del 2000, il carattere di specialità attribuito all'indicazione di elementi passivi fittizi nella dichiarazione annuale e la centralità di quest'ultima costituiscono gli elementi da cui dedurre la continuità normativa e la specialità". La sentenza n. 6228 del 2000 individuava anche una continuità in relazione all'elemento soggettivo specializzante manifestato dalla volontà di frodare l'erario attraverso la presentazione della dichiarazione, in quanto insito nell'azione posta in essere dall'utilizzatore, almeno a titolo di dolo eventuale, già in un momento anteriore alla presentazione della dichiarazione. Così discorrendo, il delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti costituisce un reato istantaneo con effetti permanenti, anche se tale ricostruzione esegetica determina un differente momento consumativo tra il delitto di cui all'art. 2 e quello previsto dall'art. 8 del D.lgs n.74 del 2000. www.commercialistatelematico.com In senso diametralmente opposto si pronunciava la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8657/2000, nella quale si affermava che la nuova fattispecie criminosa non dava luogo ad alcun fenomeno di successione di leggi penali nel tempo. Tale secondo orientamento leggeva l'art. 2 del d.lgs n. 74/2000 e considerava l’esistenza di un reato "nuovo" poiché si disponeva che le fatture e la documentazione per operazioni inesistenti non dovevano soltanto essere inserite in contabilità ma anche confluire in una dichiarazione dei redditi o Iva che doveva risultare mendace in quanto supportata da detti documenti. La seconda tesi interpretativa della Cassazione affermava che mentre il rilascio di fatture per operazioni inesistenti continuava a configurare gli estremi di reato anche nel nuovo sistema penale delineato dal Decreto Legislativo n. 74/2000, "per converso l'utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti, seppure diretta ad evadere le imposte sui redditi o l'Iva, non è più fatto che configura un’ ipotesi di reato". L'orientamento "depenalizzante" faceva leva essenzialmente sul fatto che il D.lgs n. 74/2000 prevedeva come reato la dichiarazione dei redditi o dell'Iva basata su fatture false e non l'utilizzo di detti documenti mendaci tramite modalità diverse dalla presentazione della dichiarazione annuale. Seguendo tale impostazione la sentenza n. 8657/2000 evidenziava che l'utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti assumeva rilevanza nella nuova fattispecie criminosa di cui all'art. 2 del D.lgs n. 74/2000 quale mezzo del quale l'autore del fatto si avvaleva per indicare nella dichiarazione annuale relativa alle imposte dirette o all'Iva elementi passivi fittizi. Quindi, poiché il nuovo reato si consuma con la dichiarazione fraudolenta e, ai sensi dell'art. 6, non è punibile il tentativo, "risulta evidente che la detenzione di fatture riguardanti operazioni inesistenti o la loro registrazione nelle scritture contabili obbligatorie, è un fatto che, di per sè solo, non è idoneo ad integrare gli estremi di reato". www.commercialistatelematico.com Con la sentenza n. 27 del 7 novembre 2000 le Sezioni Unite, aderendo sostanzialmente alla seconda tesi interpretativa, hanno statuito che la nuova fattispecie delittuosa di dichiarazione fraudolenta prevista dal D.lgs n. 74 del 2000 assorbe l'ipotesi di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti disposta dalla legge n. 516 del 1982, perché, pur contenendo alcuni elementi descrittivi della norma preesistente, presenta tuttavia ulteriori elementi non riconducibili alla precedente figura, postulando in particolare l'indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi, non richiesta invece dall'art. 4, lettera d) della l. n. 516 del 1982. Pertanto, per le semplici condotte prodromiche di "utilizzazione" di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti "è intervenuta una vera e propria abolitio criminis mediante integrale depenalizzazione della fattispecie". La stessa sentenza evidenzia che, in base ad un indirizzo interpretativo consolidato, i fatti integranti reato nel vigore della legge n. 516 del 1982 possono continuare ad esserlo alla stregua del decreto legislativo n. 74 del 2000, "salvo per quanto attiene all'estensione dell'attuale incriminazione alla dichiarazione annuale Iva, rispetto alla quale non è configurabile un rapporto di successione modificativa tra leggi", qualora, in concreto, gli elementi costitutivi del nuovo reato siano stati chiaramente enunciati nell'imputazione contestata all'imputato anche a seguito di rituale modificazione della contestazione. Questo aspetto è particolarmente interessante perché esclude la rilevanza penale delle dichiarazioni fraudolente relative all'imposta sul valore aggiunto prima dell'entrata in vigore del D.lgs n. 74/2000. In buona sostanza, secondo le Sezioni Unite può ravvisarsi una continuità normativa di illecito soltanto tra la vecchia ipotesi dell'art. 4, lettera f) della legge n.516 del 1982 e la nuova ipotesi dell'art. 2, comma 1, del d.lgs n. 74 del 2000, se i dati delle fatture o degli altri documenti per operazioni inesistenti utilizzati in corso d'anno sono poi confluiti nella successiva dichiarazione annuale dei redditi, della quale hanno costituito il supporto fraudolento per la mendace indicazione di componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva. www.commercialistatelematico.com Dopo la presentazione dell’acceso dibattito, una prima considerazione attiene alla mancanza nel D.Lgs. 74/2000 di una fattispecie equivalente al disposto di cui alla menzionata lettera d) dell'art. 4.1 Legge n. 516/82, con la conseguenza che la mera utilizzazione sic et simpliciter di fatture per operazioni supposte inesistenti non è più disciplinata, a differenza di quanto avveniva in passato, come ipotesi di per sé penalmente rilevante. Pertanto, e premesso altresì che l'art. 24.1 del D.Lgs. 507/99 ha espressamente abrogato l'art. 20 della Legge n. 4/29 (che sanciva il principio di ultrattività della norma penale-tributaria), occorre verificare se nel corpus della nuova disciplina sia rinvenibile o meno una norma che ugualmente connoti di disvalore il semplice uso di false fatture. Ebbene, sembrerebbe che la norma "corrispondente" all'art. 4, lett. d) Legge n. 516/82 debba essere individuata nell'art. 2 del D.Lgs. 74/2000, che espressamente recita: "è punito (…) chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi". Di conseguenza, nel caso di specie dovrebbe trovare applicazione l'art. 2.3 C.p. in tema di successione di leggi penali nel tempo, con correlativa applicazione della legge più favorevole al reo. Tale conclusione, tuttavia, non convince. Il presupposto applicativo dell'art. 2.3 C.p., infatti, deve essere individuato, per giurisprudenza pacifica ed anche a giudizio di autorevolissima dottrina nell'omogeneità delle fattispecie che si susseguono nel tempo. In tal senso un primo indizio di omogeneità deve ravvisarsi nella descrizione del comportamento punito, che dovrebbe rimanere sostanzialmente inalterato nei suoi elementi costitutivi. Tuttavia, nel caso di specie è immediatamente percepibile come la fattispecie introduce in realtà un elemento ulteriore (e perciò disomogeneo) rispetto a quella www.commercialistatelematico.com contenuta nella Legge n. 516/82: l'art. 2 del D.Lgs. 74/2000, infatti, postula un contegno aggiuntivo rispetto al semplice utilizzo di fatture false, vale a dire l'indicazione di dette fatture nelle dichiarazioni annuali. Ma, a ben considerare, l'art. 2 non si limita ad un semplice arricchimento dei contorni del comportamento punibile ma, si sostiene, che introduca una fattispecie di reato completamente nuova. Militano in favore di tale considerazione le seguenti osservazioni: a) la stessa rubrica dell'art. 2 è significativamente intitolata "Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti"; b) la relazione governativa al decreto legislativo espressamente precisava che la frode fiscale "resta integrata non dalla mera condotta di utilizzazione ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione"; c) la pena viene rimodulata in base ad un elemento quantitativo, risultando addirittura più elevata rispetto a quella stabilita dalla Legge n. 516/82; d) la stessa relazione governativa, poi, evidenziava come una soluzione di tal fatta fosse stata suggerita dalla stessa legge delega, la quale alla lettera b) dell'art. 9 escludeva la soggezione a soglie di punibilità "di fattispecie concernenti (…) l'utilizzazione di documentazione falsa"; e) in definitiva risulta mutato l'obiettivo della sanzione penale (con tutte le conseguenze general/preventive e special/preventive del caso), in quanto ad essere punito non è solo il mero utilizzo di fatture false, ma il ben più pregnante comportamento concretantesi nella mancanza di veridicità delle dichiarazioni annuali (in armonia con le disposizioni di cui agli artt. 3 e 4 dello stesso decreto, anch'esse concernenti reati in materia di dichiarazioni). Vi è da dire, poi, degli ostacoli che ha incontrato l'operatività, nel caso di specie, dell'art. 2.3 C.p.. www.commercialistatelematico.com Difatti, l'applicazione dell'art. 2 del D.Lgs 74/2000 al comportamento realizzato sotto l'impero della precedente normativa avrebbe implicato una surrettizia estensione “ora per allora” della condotta penalmente rilevante, con conseguente lesione di ben due principi costituzionali: il principio di obbligatorietà dell'azione penale, previsto dall'art. 112 Cost., e quello di irretroattività della norma penale, così come desumibile dall'art. 25 Cost. In ordine all'azione penale, infatti, si sarebbe corso il rischio di un suo esercizio “a posteriori”, in quanto l'intervento del Pubblico Ministero sarebbe stato volto a perseguire comportamenti, quali la redazione delle dichiarazioni annuali, in passato non rilevanti per l'integrazione del reato. Quanto alla lesione del principio di irretroattività, essa sarebbe derivata dalla considerazione che la sanzione penale aveva e, sempre, deve avere, una funzione di orientamento del comportamento dei consociati, con conseguente necessità di delimitare con precisione le condotte illecite da quelle penalmente irrilevanti. Ebbene, se si fosse adattato al passato l'attuale fattispecie di reato, si sarebbe creata una situazione paradossale in quanto ci sarebbe stato il “rimodellamento” dell'elemento soggettivo dell'agente, ed in particolare si sarebbe dovuto sostenere che il disegno del reo si estendeva anche ad un elemento a quell'epoca non necessario ai fini dell'integrazione della condotta rilevante. Infine, appare priva di pregio l'obiezione, che pur è stata mossa, secondo cui l'art. 2 del D.Lgs. 74/2000 avrebbe dovuto trovare applicazione anche alle pregresse ipotesi di mera utilizzazione di fatture false per effetto del disposto di cui al comma 2 (“il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie …”), volendosi in particolare sostenere che l'avvalersi di fatture per operazioni inesistenti determina necessariamente la registrazione di queste nelle scritture contabili obbligatorie. Orbene, tale obiezione, destinata sostanzialmente alla creazione di una sorta di “sussidio dogmatico” per consentire la punizione dell’ipotesi di semplice uso di documenti falsi, in realtà si è risolta in una interpretatio abrogans dello stesso www.commercialistatelematico.com comma 1 dell'art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, giacché, così opinando, non si comprenderebbe per quale motivo il legislatore delegato avrebbe dovuto specificare nel primo comma che la condotta si ritiene integrata con l'indicazione delle poste fasulle nelle dichiarazioni, ben potendo tale assunto desumersi dal capoverso della norma stessa. In realtà, il comma 2 ha la funzione di meglio delimitare l'ambito operativo della fattispecie descritta nel primo comma: quindi il reato si compie quando, avvalendosi di fatture false (dovendosi per queste intendere, ai sensi del comma 2, quelle registrate nelle scritture contabili obbligatorie), si compila una dichiarazione annuale mendace. Altro punto importante è l'esclusione della rilevanza penale dell'Iva. Ciò deriva dalla constatazione che la previgente disposizione contenuta nella lettera f) puniva chi indicava “nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato, ricavi, proventi od altri componenti positivi di reddito, ovvero spese od altri componenti negativi di reddito in misura diversa da quella effettiva utilizzando documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero, ovvero ponendo in essere altri comportamenti fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento dei fatti materiali”. La Corte di Cassazione ha stabilito che “in tema di IVA, costituendo l’emissione di fatture per operazioni inesistenti una condotta sanzionata come delitto da altre norme, la ratio della disposizione di cui all’art. 21, settimo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo la quale, emesse fatture per operazioni inesistenti, l’imposta stessa è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura, è distinta da quella meramente sanzionatoria, avendo lo scopo specifico di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell’IVA, fondato sui principi della rivalsa e della detrazione. Ne consegue che la sua applicazione non contrasta con il principio di specialità di cui all'art. 19, primo comma, del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74”. Con tale pronuncia la Suprema Corte ha inteso escludere l’art. 21, c. 7 del decreto IVA dal novero delle disposizioni aventi www.commercialistatelematico.com natura sanzionatoria, sottraendolo all’applicazione del principio contenuto nell’art. 19, c. 1°, del decreto di riforma dei reati tributari, secondo il quale “ quando uno stesso fatto è punito da una delle disposizioni del titolo II e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, si applica la disposizione speciale”. Il principio di specialità, regolato nell’ambito del diritto penale comune dall’art. 15 del c.p., trova applicazione quando uno stesso fatto appare sussumibile in due o più fattispecie astratte, permettendo di escludere la sussistenza di un concorso di reati e di determinare quale norma debba essere in concreto applicata perché considerata speciale, con l’intento di evitare che il reo possa essere punito per più di una volta in relazione al medesimo fatto. Tale principio è stato recepito nel rapporto tra sanzione penale e amministrativa con la previsione contenuta nell’art. 9, c. 1, della legge 24 novembre 1981, n. 689, e, per il sistema tributario, con la disposizione di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 74 del 2000. L’applicazione del suddetto principio richiede l’analisi della struttura delle disposizioni concorrenti al fine di verificare quale delle due sia speciale rispetto all’altra e, pertanto, risulti applicabile al caso concreto. In campo tributario autorevole dottrina ha sostenuto l’applicabilità, nel rapporto tra la disposizione sanzionatoria amministrativa e quella penale, del criterio della specialità reciproca o bilaterale, secondo il quale una disposizione è speciale rispetto a quella concorrente quando contiene maggiori elementi, quantitativi e qualitativi, specializzanti. Tale orientamento si basa sulla considerazione che le disposizioni tributarie penali e quelle che prevedono sanzioni amministrative il più delle volte non presenterebbero i presupposti per la c.d. “sovrapposizione”, con ciò rendendo difficile il ricorso al criterio della specialità unilaterale, a meno che non si voglia concludere per l’inoperatività della norma di cui all’art. 19 e la congiunta applicazione della sanzione tributaria penale e di quella amministrativa. www.commercialistatelematico.com Altri autori hanno ritenuto che le disposizioni penali tributarie debbano sempre essere considerate speciali rispetto a quelle sanzionatorie amministrative, tenuto conto del fatto che il diritto penale rappresenta il rimedio estremo che il legislatore attiva solo quando le sanzioni previste da altri settori dell’ordinamento siano destinate a fallire. D’altra parte, appare evidente che, al fine di verificare se si possa ricorrere alla norma in esame, assume particolare rilevanza l’indagine volta ad accertare il carattere sanzionatorio o meno delle disposizioni tributarie che hanno ad oggetto condotte rilevanti anche ai fini penali. Con riferimento all’art. 21, c. 7 del decreto IVA, la Suprema Corte già in altre decisioni aveva ritenuto che tale disposizione avrebbe lo scopo di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell’IVA, fondato sui principi della rivalsa e della detrazione, incidendo, da un lato, sul soggetto emittente la fattura, il quale è debitore dell’imposta sulla base dell’applicazione del solo principio di cartolarità, e, dall’altro, in combinato disposto con gli articoli 19, c. 1, e 26, c. 3, dello stesso decreto, anche sul destinatario della fattura medesima, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione in totale carenza del suo presupposto, e cioè dell’effettivo acquisto di beni o di servizi. Quanto sostenuto dalla Cassazione appare contraddittorio, in particolare, per quanto attiene al caso delle fatture fittizie, difettando il presupposto impositivo di cui all’art. 1 del decreto IVA, il regolare funzionamento del meccanismo di rivalsa e detrazione esclude, da un lato, che l’imposta indicata in fattura debba essere versata dall’emittente, e dall’altro, che possa essere detratta dal cessionario. Diversa sarebbe l’ipotesi in cui al cessionario venga consentito di detrarre l’imposta indicata nella fattura falsa, allora sì che risulterebbe necessario ricondurre a coerenza il predetto meccanismo. In merito, si rileva che secondo la giurisprudenza dominante il diritto alla detrazione può essere esercitato solo per l’imposta effettivamente dovuta, intendendosi per tale quella che scaturisce da operazioni di cessioni di beni e di prestazioni di servizi realmente effettuate. www.commercialistatelematico.com Infatti, nelle operazioni fittizie verrebbe a mancare il presupposto dell’imposta che l’art. 1 del d.P.R. n. 633 del 1972, individua nella effettiva cessione del bene dal cedente al cessionario e nell’effettiva prestazione del servizio a favore dell’utilizzatore. Quindi, nel caso in cui l’operazione economica non sia realmente avvenuta verrebbe a difettare il presupposto per applicare l’imposta e, conseguentemente, il diritto da parte del cessionario di detrarla: vero è che in questi casi gli Uffici provvedono sistematicamente a recuperare a tassazione l’imposta indebitamente detratta. In aggiunta, vi è da osservare che il legislatore, al c. 7 dell’art. 21 in esame, stabilendo che l’imposta calcolata sulle fatture emesse per operazioni inesistenti è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni in fattura, sembrerebbe abbia voluto escludere tale imposta dal meccanismo di rivalsa e detrazione, sì da attribuirgli un valore tipicamente sanzionatorio. D’altra parte, quanto appena affermato e il rilievo precedentemente esposto secondo cui in presenza di fatture per operazioni inesistenti il sistema già di per sé esclude qualsiasi pregiudizio al meccanismo di rivalsa e detrazione, inducono a ritenere, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte nella decisione sopra riportata, che l’art. 21, c. 7, del d.P.R. n. 633 del 1972 debba ritenersi disposizione sanzionatoria a tutti gli effetti. Pertanto, il concorso tra la disposizione di cui all’art. 21, c. 7 del d.P.R. n. 633 del 1972 e quella contenuta nell’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000, in applicazione del principio di specialità, si risolverebbe in favore dell’applicazione di quest’ultima; infatti, la disposizione penale richiede, come elemento specializzante, che il soggetto abbia agito al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Qualora, invece, l’elemento psicologico sulla base del quale il contribuente si è risolto alla condotta di emissione della fattura non coincida con quello www.commercialistatelematico.com specificatamente richiesto dalla disposizione incriminatrice, non vi sarebbe alcun concorso di norme e troverebbe applicazione esclusivamente la sanzione amministrativa. Profili di differenziazione con la giurisprudenza europea Secondo la Corte di cassazione, non è possibile, per chi emette fatture per operazioni inesistenti, evitare il pagamento dell'intera Iva indebitamente fatturata, neppure procedendo all'emissione di una nota di credito che azzeri l'operazione; invece, per il destinatario delle fatturazioni relative alle suddette operazioni, hanno pieno valore le note di credito ricevute, per ciò egli non può detrarsi l'imposta indebitamente indicata in fattura. Questo è quanto esposto nella sentenza n. 12353/2005, che conferma un orientamento della giurisprudenza italiana consolidato da tempo. In campo europeo, invece, la situazione appare alquanto diversa. Infatti, la sentenza della Cassazione italiana appare diversamente orientata rispetto alla giurisprudenza comunitaria che, in casi analoghi, ha statuito sulla liceità dell'emissione di note di credito che regolarizzino l'imposta indebitamente fatturata, sia per il soggetto che ha emesso le fatture, sia per chi le ha ricevute. In proposito, appare illuminante la causa C-454/98 conclusasi con la sentenza della Corte di giustizia UE del 19 settembre 2000, che espressamente dichiara: allorché colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di entrate fiscali, il principio della neutralità dell'imposta sul valore aggiunto richiede che l'imposta indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza che una tale regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha emesso la fattura; spetta agli Stati membri definire il procedimento in base al quale l'imposta sul valore aggiunto indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, ammesso che questa regolarizzazione non dipende dal potere discrezionale dell'Amministrazione fiscale. www.commercialistatelematico.com Per giungere a tali determinazioni, la Corte di Giustizia ha percorso un cammino interessante, che vale la pena ricostruire con attenzione per le possibili conseguenze nei diritti interni dei singoli Stati membri. La questione era stata sottoposta ai giudici comunitari dal Bundesfinanzhof, omologo tedesco delle Commissioni tributarie italiane, e verteva su tre questioni pregiudiziali inerenti l'articolo 21, punto 1, lettera c) della sesta direttiva Cee (direttiva 17 maggio 1977, 77/388/Cee), che così stabilisce: "L'imposta sul valore aggiunto è dovuta in regime interno... da chiunque indichi l'imposta sul valore aggiunto in una fattura o in un altro documento che ne fa le veci(...)". Le tre questioni pregiudiziali evidenziate dal remittente la causa erano le seguenti: “1) Se il diritto comunitario imponga che sia consentita la rettifica di un'imposta già indebitamente fatturata nell'ambito del procedimento di accertamento d'imposta, oppure sia sufficiente che gli Stati membri ammettano una rettifica in un successivo procedimento secondo equità (per cosiddette ragioni tecniche). 2) Se la rettifica di un'imposta indebitamente fatturata presupponga obbligatoriamente che colui che emette una fattura dimostri la sua buona fede oppure una rettifica di una fattura sia ammessa anche in altri casi (eventualmente quali). 3) In base a quali presupposti colui che emette una fattura agisca in buona fede”. La Corte europea, esaminando in primo luogo il secondo degli argomenti sottoposti alla sua attenzione, ha statuito che “allorché l'IVA non è stata indicata indebitamente in buona fede, ma in maniera abusiva da colui che emette la fattura poiché quest'ultimo sa sia che non è un soggetto passivo, sia che la cessione di beni o la prestazione di servizi cui si riferisce la fattura non è stata eseguita, il principio di neutralità dell'IVA non richiederebbe che sia offerta una possibilità di regolarizzazione dell'IVA indebitamente fatturata(...). Occorre in secondo luogo constatare che la sesta direttiva non prevede alcuna disposizione relativa alla regolarizzazione, da parte di chi emette la fattura, dell'IVA indebitamente fatturata(...). Alla luce di queste considerazioni, spetta in via di principio agli Stati www.commercialistatelematico.com membri determinare le condizioni in cui l'IVA indebitamente fatturata possa essere regolarizzata(...). Al riguardo, occorre ricordare che i provvedimenti che gli Stati membri possono adottare ai sensi dell'art. 22, n. 8, della sesta direttiva per assicurare l'esatta riscossione dell'imposta ed evitare le frodi non devono eccedere quanto è necessario a tal fine; essi non possono quindi essere utilizzati in modo tale da rimettere sistematicamente in questione il diritto alla detrazione dell'IVA, il quale è un principio fondamentale del sistema comune dell'IVA istituito dalla normativa comunitaria in materia”. Concludendo, “occorre quindi risolvere la questione nel senso che, allorché colui che ha emesso la fattura ha, in tempo utile, eliminato completamente il rischio di perdite di entrate fiscali, il principio della neutralità dell'IVA richiede che l'imposta indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, senza che una tale regolarizzazione possa essere subordinata alla buona fede di colui che ha emesso tale fattura”. Passando, poi, ad esaminare la prima delle tre questioni sottoposte alla sua attenzione, e cioè in base a quale procedimento la regolarizzazione dell'Iva indebitamente fatturata debba aver luogo, la Corte, dopo aver rilevato che, eliminato il rischio di perdite di entrate fiscali, la regolarizzazione di cui si sta discutendo non può essere rimessa al potere discrezionale dell'Amministrazione fiscale, poiché, dalla soluzione fornita alla questione precedente, risulta in maniera chiara che il principio di neutralità dell'Iva richiede che possa procedersi alla regolarizzazione stessa, conclude che “spetta agli Stati membri definire il procedimento in base l'IVA indebitamente fatturata possa essere regolarizzata, ammesso che questa regolarizzazione non dipende dal potere discrezionale dell'amministrazione fiscale”. La Corte ha ritenuto assorbito il pronunciamento sulla terza questione. Fin qui, la giurisprudenza comunitaria. Tornando, invece, alle decisioni della Corte di cassazione italiana, si evidenzia come questa ritenga che la fattura portante fatturazioni inesistenti non possa essere rettificata con note di credito a storno. www.commercialistatelematico.com Secondo la Suprema Corte, dunque, la disposizione dell'articolo 21, comma 7, del DPR 633/72, (secondo cui “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono indicati in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”), obbliga e vincola l'emittente della fattura al pagamento dell'intero ammontare dell'imposta esposta in fattura, senza che possa essere invocata, a difesa dell'emittente, la carenza di uno dei principi generali dell'imposta, cioè l'effettuazione dell'operazione. Dal punto di vista del cessionario, cioè di colui che riceve la fattura portante fatturazioni per operazioni inesistenti, l'ordinamento interno prevede che egli non possa esercitare il diritto alla detrazione dell'imposta perché in completa assenza del presupposto oggettivo (l'effettuazione della relativa operazione), in base ai principi generali regolatori della detrazione sanciti dall'articolo 19 del Dpr 633/72. Traendo le opportune conclusioni da quanto fin qui affermato, avremo che il contribuente che emette fatture per operazioni inesistenti: è obbligato a versare l'intera imposta indicata in fattura, anche se ha provveduto a rettificare l'operazione emettendo, ai sensi dell'articolo 26 del Dpr 633/72, una “nota di credito”; ai sensi dell'articolo 13 del Dlgs n. 471/1997, è punito con una sanzione amministrativa pari al 30 per cento dell'imposta non versata; è soggetto alle sanzioni penali previste dal Dlgs n. 74/2000. Il contribuente che, invece, riceve fatture per operazioni inesistenti: non può portare in detrazione l'imposta indicata in fattura ai sensi dell'articolo 19 del Dpr 633/72 e, qualora riceva una “nota di credito”, deve corrispondere quella eventualmente ivi annotata; oltre a dover corrispondere l'imposta indebitamente detratta, è soggetto a una sanzione amministrativa che va dal 100 per cento al 200 per cento www.commercialistatelematico.com dell'imposta portata indebitamente in detrazione, ai sensi dell'articolo 5 del Dlgs n. 471/1997; è, al pari dell'emittente la fattura, soggetto alle sanzioni penali previste dal Dlgs n. 74/2000. Alla luce di tutto ciò, occorre precisare che, con la sentenza n. 5717/2007, la Cassazione si è nuovamente pronunciata in ordine alla detraibilità dell'Iva riferibile a fatture ritenute emesse per operazioni inesistenti, affermando che, in tema di imposta sul valore aggiunto, la fattura emessa da un soggetto diverso da quello che ha effettivamente eseguito la prestazione economica non è riconducibile all'ipotesi di “omissione dell'indicazione dei soggetti fra cui l'operazione è effettuata”, prescritta dall'articolo 21, comma 2, lettera a), del Dpr 633/1972, ma va, invece, ritenuta fatturazione per operazioni "soggettivamente" inesistenti. La controversia sulla quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte ha alla base una divergenza soggettiva tra il soggetto che emetteva le fattura e quello che effettivamente eseguiva le prestazioni economiche; pertanto, veniva recuperata a tassazione l'imposta illegittimamente detratta dalla società acquirente. In particolare, la Commissione tributaria regionale, ha ritenuto che le caratteristiche delle varie ditte con le quali la ricorrente aveva intrattenuto rapporti commerciali, denotavano che “si trattava di aziende, quando effettivamente esistenti, incerte economicamente, assai poco attendibili fiscalmente e, comunque, tutte contabilmente anomale”. In altre parole, per i giudici era stato violato quanto prescritto dal comma primo, dell'articolo 21 del Dpr 633/1972, secondo cui la fattura deve essere emessa dal soggetto che effettua la cessione del bene o la prestazione del servizio e, quindi, non da soggetti diversi. Al fine di un corretto inquadramento della questione in esame, è utile ricordare che sono definite: “imprese fantasma” (cosiddette cartiere) quelle esistenti solo sotto il profilo formale (in quanto titolari di partita Iva, vera o falsa, ed www.commercialistatelematico.com eventualmente iscritte alla Camera di commercio), ma non sotto il profilo sostanziale, in quanto non svolgono alcuna attività commerciale, ma si limitano a rilasciare a terzi "fatture" per forniture di beni o per prestazioni di servizi in realtà mai eseguiti, mancando la struttura operativa idonea a produrli, a fornirli o a prestarli. In sostanza, si tratta, in questa ipotesi, di organizzazione di attività diretta a frodare il fisco; “imprese effettivamente esistenti e operanti” quelle, prevalentemente a contabilità ordinaria, che utilizzano fatture per operazioni inesistenti al solo fine di esporre un risultato reddituale inferiore a quello reale, attraverso l'esposizione di costi inesistenti. Questa fattispecie si differenzia dalla prima perché rappresenta un'operazione “evasiva”" e fraudolenta leggermente più sofisticata. Detta fattispecie va sottodistinta, in quanto si possono verificare due ipotesi nettamente distinte anche in relazione alla gravità dei comportamenti. Possono, infatti, riscontrarsi nella realtà i seguenti casi: “costi fittizi” per operazioni “soggettivamente” e “oggettivamente” inesistenti, esposti in contabilità al solo fine di comprimere il risultato reddituale; “fatture fittizie” sotto il profilo soggettivo, utilizzate per coprire costi effettivamente sostenuti, ma non documentabili. Tanto precisato, con la sentenza in commento, i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso della società contribuente, affermando il principio secondo cui "la detrazione Iva è ammessa solo in presenza di fatture provenienti dal soggetto che effettua realmente la cessione o la prestazione". La Corte, confermando il suo precedente orientamento, ha, in sostanza, ribadito che, in presenza di fatture per operazioni "soggettivamente" o "oggettivamente" inesistenti, trattandosi di situazioni fraudolente o abusive, il cessionario che utilizza il documento fiscale non può recuperare l'Iva, anche se l'imposta è stata assolta dall'emittente ai sensi dell'articolo 21, settimo comma, del Dpr n. 633/72, secondo cui "se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono indicate in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato o www.commercialistatelematico.com corrispondente alle indicazioni della fattura" (Cassazione, sentenze nn. 14337/2002 e 309/2006). In altre parole, nella specifica ipotesi di costi documentati da fatture emesse da un soggetto diverso rispetto all'effettivo fornitore di beni o di servizi, l'imposta è dovuta dalla società venditrice per l'intero ammontare indicato in fattura, mentre la società acquirente non può usufruire della corrispondente detrazione. Ciò trova giustificazione nel fatto che in presenza di fatture per operazioni: “oggettivamente” inesistenti (operazioni inesistenti in senso assoluto), la detrazione dell'imposta non è ammessa in quanto la cessione dei beni o la prestazione di servizi, cui si riferisce la fattura, non è stata mai eseguita e, quindi, manca l'acquisizione dei beni o dei servizi da parte dell'imprenditore, dell'artista o del professionista; “soggettivamente” inesistenti (ad esempio, se le operazioni sono avvenute tra soggetti diversi da quelli documentalmente apparenti, oppure se gli acquisti di beni o servizi sono avvenuti "a nero" presso altri soggetti, diversi dalle società compiacenti che hanno emesso le fatture), non è ammessa la detrazione dell'Iva fatturata dalla società fittizia, in quanto gli acquisti, proprio perché privi dell'ufficialità, sono avvenuti senza pagamento dell'imposta. In merito a quest'ultima fattispecie, è opportuno precisare che la Corte di cassazione, con la sentenza n. 3550/2002, aveva specificato che “si ricorre alla fatturazione soggettivamente falsa quando si ha necessità di ufficializzare beni o servizi acquistati di contrabbando o da soggetti che non possono o non vogliono apparire. In quest' ultimo caso, è evidente che gli acquisti avvengono senza il pagamento dell'IVA proprio perché privi della ufficialità, né si possono riconoscere le detrazioni per l'IVA fatturata dalle società inesistenti”. Pertanto, sulla base di quanto sopra esposto, la Cassazione ha ritenuto legittimo il recupero a tassazione dell'imposta indebitamente detratta dalla società acquirente. Operazioni inesistenti, società cartiere e frodi intracomunitarie www.commercialistatelematico.com L’Amministrazione finanziaria è sempre più concentrata nel contrasto di operazioni evasive realizzate mediante l’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti. Gli accertamenti di imposta, in tali contesti, scaturiscono dopo una complessa attività investigativa, che permette di individuare l’esistenza di tali tipi di organizzazioni, spesso diffuse sia sul territorio nazionale che su quello estero. Per consentire la realizzazione della frode, le imprese coinvolte assumono diversi ruoli così di seguito specificati: imprese filtro comunitarie: sono collocate all’inizio del percorso della frode per garantire l’estraneità di collegamento da parte del produttore/fornitore. Queste imprese sono spesso collocate in Stati in cui è possibile costituire società anonime, per le quali non è possibile risalire a chi, di fatto, ne abbia la gestione; imprese cartiere: hanno il solo scopo di “inserirsi” nei passaggi della compravendita, non versando poi l'IVA dovuta; imprese filtro nazionali: clienti delle società cartiere, sono inserite per documentare le cessioni a favore delle società commerciali, reali beneficiarie della frode e per garantire la loro estraneità a collegamenti di ogni tipo con il circuito fraudolento; imprese beneficiarie: costituiscono i veri promotori/organizzatori del business illegale. Ricevono la merce direttamente dal fornitore comunitario, ma documentano (fittiziamente) le relative transazioni attraverso il suesposto circuito cartolare. Il percorso documentale prevede di solito che la merce, ceduta dal fornitore all’impresa filtro comunitaria e da questa all’impresa cartiera italiana, giunga successivamente all’impresa beneficiaria, mediante l’interposizione dell’impresa filtro operante sul territorio nazionale. In realtà la merce, reperita presso i fornitori comunitari, è posta nell’immediata disponibilità delle imprese beneficiarie, avvalendosi delle prestazioni fornite da società di trasporto presso le quali vengono creati conti di deposito da parte delle www.commercialistatelematico.com ditte appartenenti al circuito illegale, in modo tale da permettere che la stessa merce risulti aver avuto almeno tre passaggi in Italia prima di essere contabilizzata dai reali destinatari e promotori del traffico illecito. Tali circuiti frodatori contemplano dunque l’utilizzo, quali imprese cartiere o filtro, di società di comodo insolventi, intestate a prestanomi, che non effettuano il versamento dell’imposta dovuta sulle cessioni. La normativa in materia di trattamento IVA negli scambi intracomunitari (DL n. 331 del 1993, convertito nella Legge n. 427 del 1993) prevede, infatti, il criterio della doppia annotazione della fattura (nei registri IVA acquisti e vendite) con conseguente neutralità dell’operazione ai fini fiscali. Le ditte italiane, quindi, cessionarie di beni da operatori comunitari, acquistano in esenzione IVA e, solo successivamente, quando rivendono i prodotti sul territorio nazionale, versano il tributo all’Erario; comunque, se “formalmente” il primo acquirente nazionale è una delle imprese cartiere o filtro suaccennate, nulla sarà versato all’Erario. A ciò si somma l’attività dell’impresa beneficiaria, che acquista dalla cartiera a prezzi particolarmente vantaggiosi, potendo, così, immettere sul mercato nazionale il materiale destinato alla clientela a prezzi concorrenziali, inferiori ai valori di mercato. L’effettività delle operazioni del resto non può certo essere dimostrata invocando l’esistenza dei pagamenti e la registrazione delle fatture, elementi, questi, non sufficienti ad evitare le contestazioni. La Corte di Cassazione (Cass., Sez. Tributaria, n. 15228/2001) ha, infatti, ritenuto che “la produzione degli assegni bancari non aggiunge nulla al quadro probatorio ed ha la stessa efficacia probatoria della emissione della fattura. Se questa di per sé non prova la effettività dell’operazione sottostante, non può ritenersi che tale prova venga raggiunta con la produzione dei mezzi di pagamento utilizzati. La prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni IVA deve essere fornita dal contribuente. Tale prova, però, non può essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento, che normalmente vengono utilizzati www.commercialistatelematico.com fittiziamente, per dare corpo apparente ad una transazione inesistente. Si tratta di un mero elemento indiziario, la cui presenza (o assenza) deve essere letta nel contesto di tutte le altre risultanze processuali”. Si è evidenziata la notorietà del fatto che coloro che utilizzano fatture emesse a copertura di operazioni inesistenti effettuano i pagamenti con assegni bancari per lasciare traccia degli stessi a futura memoria e che, però, si fanno restituire, in contanti, la stessa somma pagata, salvo i costi richiesti dall’emittente. In materia di fatturazione soggettivamente falsa, la Suprema Corte, Sez. Tributaria, sentenza n. 3550/2002, non ha riconosciuto le detrazioni per l’IVA fatturata dalle società inesistenti, specificando che “si ricorre alla fatturazione soggettivamente falsa quando si ha necessità di ufficializzare beni o servizi acquistati di contrabbando o da soggetti che non possono o non vogliono apparire. In quest’ultimo caso è evidente che gli acquisti avvengono senza il pagamento dell’IVA proprio perché privi della ufficialità, né si possono riconoscere le detrazioni per l’IVA fatturata dalle società inesistenti”. In tema di imposta sul valore aggiunto, la fatturazione effettuata in favore di un soggetto diverso da quello effettivo non è riconducibile ad un’ipotesi di fatturazione con indicazioni incomplete o inesatte di cui all’art. 41, co. 3, del DPR 633 del 1972, né a quella di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui l’operazione è effettuata, prescritta dall’art. 21, comma 2, n.1, dello stesso decreto, ma deve essere considerata una fatturazione per operazione soggettivamente inesistente, di cui deve essere versata la relativa imposta in base al citato art. 21, dato che viene ad essere evasa l’imposta relativa al rapporto che si è realmente posto in essere. La Cassazione, del resto, ha già ritenuto, con consolidato orientamento, che, in caso di operazioni inesistenti, l'IVA sia comunque indetraibile. Secondo la Corte Suprema, infatti, la relativa obbligazione “è isolata da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate ed estraniata dal meccanismo di compensazione tra IVA a valle e IVA a monte e ciò anche perché l'emissione di www.commercialistatelematico.com fatture per operazioni inesistenti ha sempre costituito condotta penalmente sanzionata come delitto” (Cass. n. 14337/2002 e Cass n. 3550/2002). Si può analizzare il fenomeno, che si presta ad una suddivisone per fasi, dapprima, dal punto di vista oggettivo. Alla base di tali frodi, c’è un articolato meccanismo frodatorio che parte dalla fase della produzione, infatti la merce commercializzata in Italia viene, di solito, prodotta in Paesi Extra UE. Successivamente si passa alla fase dell’importazione e quindi, se un’impresa italiana importa direttamente dal produttore, questa operazione sarà considerata un’importazione e come tale soggetta ad IVA, da assolvere direttamente in Dogana; se tuttavia l’impresa importatrice acquisisce lo status di “esportatore abituale” e dispone di un “plafond”, allora può importare beni, entro i limiti del plafond, senza applicazione dell’IVA. Per acquisire lo status di esportatore abituale però è necessario raggiungere un congruo volume o di esportazioni dirette extra UE o di cessioni intracomunitarie (almeno il 10% del volume di affari). La società italiana che importa i beni dal Paese Extra UE, per acquisire tale status e poter effettuare le importazioni senza applicazione dell’IVA, vende consistenti partite di merci ad una o più imprese comunitarie create ad hoc (cartiere comunitarie). Ultima fase è quella della ricollocazione, da parte delle succitate imprese, della merce sul mercato nazionale tramite altre società cartiere italiane. In tutto questo, la merce non si sposta mai dal territorio italiano, in quanto, o rimane ferma nel magazzino della società di partenza, o si sposta in un deposito interno del vettore. Esposto il complesso meccanismo di creazione della frode, è indubbio considerare gli illeciti benefici conseguiti dalle società che partecipano all’attività, qui di seguito elencati: www.commercialistatelematico.com conseguimento dello status di esportatore abituale mediante la creazione di un falso plafond e importazione di materiale senza applicazione dell’IVA; rivendita del materiale ad una cartiera comunitaria senza applicazione dell’IVA; possibilità di riacquistare la stessa merce dalla cartiera nazionale ad un prezzo inferiore a quello della sua originaria cessione; con l’ulteriore vantaggio di ottenere, mediante la trasformazione di una parte di imponibile in IVA da esporre in fattura, un’IVA a credito da portare in detrazione; possibilità di effettuare prezzi di vendita concorrenziali a scapito delle imprese “oneste”. Analizziamo, ora, gli aspetti soggettivi della questione come la mancanza di dolo e la rilevanza dello stato soggettivo. A tal riguardo subito, l’attenzione si dirige verso la (presunta) mancanza di “dolo” della beneficiaria finale, opponendo l’eccezione che non esiste un obbligo positivo che imponga all’acquirente di scoprire le metodologie di approvvigionamento dei propri fornitori. In pratica l’affermazione della mancanza di una consapevole partecipazione e accordo con i soggetti che avrebbero operato fraudolentemente può avere un qualche senso in sede penale, ma in sede tributaria ha ben poca valenza giuridica. La Cassazione, infatti, spiega come, a differenza di quanto avviene nel processo penale, il processo tributario si può basare su presunzioni, che, indipendentemente dall’accertamento dello stato soggettivo del contribuente, dimostrino l’ oggettiva infrazione fiscale. La Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, nella sentenza n. 8959/2003, afferma infatti che “l'elemento soggettivo della conoscenza della circostanza relativa alla illegalità o illiceità degli accordi esistenti tra le società variamente interessate alle vendite non viene in rilievo agli effetti del rapporto tributario”. L'infrazione fiscale si configura, infatti, per il solo elemento oggettivo cioè nel fatto che il contribuente, con il proprio comportamento, doloso o colposo che sia, abbia www.commercialistatelematico.com determinato il rischio per l'Amministrazione di non conseguire il pagamento dell'imposta effettivamente dovuta. Agli effetti fiscali rileva il solo fatto oggettivo dell'infrazione, stanti le puntuali e rigorose prescrizioni che disciplinano il regime delle esenzioni, delle detrazioni, delle aliquote e delle compensazioni. I descritti circuiti frodatori sono ormai realtà ben conosciute, così come ben conosciuti sono gli indizi e gli effetti che a tali operazioni conseguono (principio dell’id quod plerumque accidit). La frode fiscale oltre a creare situazioni di concorrenza sleale fra le imprese, comporta un deterioramento della situazione fiscale generale degli Stati membri. Le analisi, effettuate sulla base delle attività di controllo, hanno evidenziato che i soggetti operanti all'interno dei meccanismi di frode hanno in genere vita brevissima (da uno a tre anni al massimo); le società “cartiere” e “filtro” nascono infatti per la gestione di un limitato numero di operazioni illecite e scompaiono, quindi, velocemente, rendendo difficoltosa l'individuazione degli effettivi responsabili di fatti illeciti compiuti. L'esperienza dell’Amministrazione finanziaria, ad oggi, ha posto in evidenza l'utilità dell'applicazione del c.d. "criterio multiplo", risultante dalla combinazione di più indici di pericolosità, contemplati nella Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 158 del 2000. Di seguito si elencano suddetti indici, al fine di evidenziare le articolate basi del sistema: acquisti da società “filtro” cessate e/o fallite; chiusura dell'attività dopo breve periodo dalla costituzione; società in fallimento o curatela fallimentare; età del legale rappresentante o del titolare della società non rispondente ai parametri di normalità (particolarmente giovane o vecchio); nazionalità estera del legale rappresentante o del titolare della società; variazione del numero di partita IVA; www.commercialistatelematico.com situazioni nelle quali il legale rappresentante della società abbia svolto ruoli di rilievo in altre Società che poi siano state dichiarate chiuse, liquidate ovvero fallite; la responsabilità viene attribuita a persone irreperibili o comunque insolvibili; l’impianto contabile (laddove esistente), a seguito della cessazione o del trasferimento di sede, viene distrutto; l’impianto organizzativo e i soggetti (laddove esistenti) vengono trasferiti in blocco in un altro Stato e in una nuova società “vergine”, non conosciuta dalle autorità Fiscali, e che continua, nella stessa identica maniera, la precedente attività illecita. Appare quindi evidente l’unicità e l’univocità delle società così individuate, sia a livello nazionale che a livello estero che, in realtà, costituiscono un’unica entità gestita da organizzazioni criminali dedite all’emissione di fatture soggettivamente false. I supporti tecnico–investigativi, di cui si avvale l’Amministrazione finanziaria portano, spesso, all’esatta individuazione del fenomeno illecito perpetrato, soprattutto passando dalla fase investigativa, fase c.d. a scala “ridotta”, a quella in cui l’organizzazione viene invece valutata nel suo complesso. In sostanza, una volta dimostrata l’inesistenza delle società fornitrici è veramente incontestabile l’inesistenza soggettiva delle operazioni poi fatturate alle beneficiarie finali. Questo è il vantaggio del processo tributario rispetto a quello penale: il poter effettuare una ricostruzione presuntiva dell’accaduto; la ricostruzione più verosimile e probabile secondo il principio dell’id quod plerumque accidit. Sonia Cascarano 12 aprile 2008 www.commercialistatelematico.com