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PARTE I. NOZIONI INTRODUTTIVE. DISPOSIZIONI GENERALI
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CAPITOLO 3
LA GIURISDIZIONE
S OMMARIO : §1. Giurisdizione. – §2. Il momento determinante della giurisdizione. –
§3. Questioni di giurisdizione. – §4. Il regolamento di giurisdizione. – §5. Norme
di diritto internazionale privato. Le fonti sovranazionali. – §6. [Segue] la Legge
218/95.
1. Giurisdizione
In prospettiva processuale, con il termine giurisdizione si indica il potere, in capo al giudice adito, di decidere sulle questioni concretamente
sottopostegli.
La coesistenza di giudice ordinario e giudici speciali rende prospettabile, per vero, l’insorgenza di confl itti positivi di giurisdizione, conseguenti all’affermazione di competenza da parte di giudici diversi, ovvero
di (forse più gravi) confl itti negativi, ove più giudici si assumano incompetenti, negando di fatto la tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche sottese delle parti.
Il provvedimento emesso dal giudice carente di giurisdizione è impugnabile con ricorso per Cassazione, ex art. 360 c.p.c.; i provvedimenti che
attestano la ricorrenza del confl itto, positivo o negativo, tra giudici speciali ovvero tra un giudice speciale ed uno ordinario sono denunciabili
con ricorso per Cassazione in ogni tempo (art. 362, co. 2, n. 1, c.p.c.).
2. Il momento determinante della giurisdizione
Il giudice adito deve verificare di avere giurisdizione in ordine alla vicenda sottopostagli; tale accertamento esige in primo luogo che il giudice
individui gli elementi di fatto rimessi alla sua attenzione e le norme che
regolano il riparto di giurisdizione, vigenti in quel frangente.
Va da sé che l’una e l’altra verifica hanno carattere precario; tanto la
cornice normativa di riferimento, quanto la ricostruzione in fatto della
vicenda possono infatti evolvere, dopo la presentazione della domanda,
o perché il legislatore intervenga modificando i criteri di riparto della
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giurisdizione previgenti o perché il deposito di nuove memorie o l’intervento in causa di terzo modifichino il thema decidendum.
È di tutta evidenza che un tale regime potrebbe condurre alla paralisi del sistema giudiziario, obbligando il giudice a vagliare continuamente la persistenza del proprio potere, rischiando anche continue trasmissioni di fascicoli tra giudici ed infl azionando i
ricorsi per Cassazione per ragioni di giurisdizione.
Riconoscere rilevanza in prospettiva di giurisdizione (e competenza) ai sopravvenuti
mutamenti in fatto consentirebbe alle parti di eludere il principio di precostituzione del
giudice naturale, di cui all’art. 24 Cost., per esempio cambiando residenza in corso di
causa.
L’inconveniente è ovviato dall’art. 5 c.p.c., il quale, derogando al brocardo tempus regit actum, introduce il principio di perpetuatio della giurisdizione e dispone che “la giurisdizione e la competenza si determinano con
riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti
della legge o dello stato medesimo”.
A fronte della dichiarata irrilevanza dei mutamenti in fatto ed in diritto
sopravvenuti e per le stesse ragioni di economia processuale, gli interpreti
attribuiscono viceversa rilevanza alla c.d. competenza sopravvenuta;
si dice cioè che la carenza di giurisdizione, al tempo di proposizione della
domanda, sia sanata quando possa dirsi sussistente in un momento successivo, per effetto di accadimenti intervenuti in corso di causa (in questi termini si sono più volte espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione,
con le sentenze 8273/08, 18126/05, 15885/02, 453/00, 516/99).
È inoltre pacifico tra gli interpreti che, nel caso in cui la norma attributiva della competenza sia dichiarata costituzionalmente illegittima,
ovvero sia dedotta in un decreto legge non convertito, il giudice
debba dichiarare la propria carenza di potere e rimettere al giudice competente gli atti di causa (così, tra le altre, Cass. civ., sent. 14993/07,
10875/07, 4032/07, 27040/06).
Il momento di proposizione della domanda varia in relazione alla
forma dell’istanza; ove si tratti, come di regola accade in ambito civile, di citazione a giudizio, la litispendenza consegue alla notifica
dell’atto alla controparte, implicante l’instaurazione del rapporto giuridico processuale.
In ipotesi di ricorso (introduttivo, ad es., del procedimento col rito lavoro ovvero dell’iter monitorio) la domanda si intende proposta, ex art.
5 c.p.c., al tempo del deposito dell’atto presso la cancelleria del giudice,
anche se la vocatio interverrà successivamente, con la notifica del ricorso e
del decreto giudiziario in calce; riferitamente ai procedimenti di separazione e divorzio, pur proposti con ricorso, la giurisprudenza ritiene
invece che la proposizione della domanda intervenga con la notifica del
ricorso alla controparte (Cass. civ., sent. 551/89).
PARTE I. NOZIONI INTRODUTTIVE. DISPOSIZIONI GENERALI
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3. Questioni di giurisdizione
“Il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali” deve essere rilevato dal giudice, “anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo” (art. 37 c.p.c.).
Qualora rilevi in corso di causa la sussistenza di questioni afferenti alla giurisdizione, il giudice può rimettere anzitempo la causa al collegio, affi nchè la risolva anticipatamente, salvo preferisca che venga decisa unitamente al merito (art. 187, co.
3, c.p.c.).
La questione di giurisdizione integra una pregiudiziale di rito;
ogni questione afferente alla giurisdizione, diversa da quelle espressamente indicate dall’art. 37 c.p.c., dà luogo ad una semplice quaestio iuris, la cui errata soluzione importa una violazione di legge, adombrabile
tramite gli ordinari mezzi di impugnazione (e non per regolamento di
giurisdizione).
In proposito la giurisprudenza ha recentemente affermato che non costituisce questione di giurisdizione, rilevante ex art. 37 c.p.c., la violazione delle norme sulla cognizione civile e penale, poiché il giudice penale e civile costituiscono meri snodi
della stessa magistratura ordinaria (Cass. civ., Sez. Un., 10959/05).
Allo stesso modo non comporta alcuna questione di giurisdizione l’eventuale confl itto insorto tra giudice ordinario e sezioni specializzate, poiché le ultime costituiscono organi degli uffici giudiziari ordinari.
La mancata impugnazione nei termini di legge della sentenza che si limiti a dichiarare il difetto di giurisdizione, senza pronunciarsi nel merito, importa il giudicato formale sulla giurisdizione (Cass. civ., sent.
12002/03, 6940/03). La mancata impugnazione del capo della sentenza
che affermi la giurisdizione ne comporta invece il passaggio in giudicato
sul punto e ne esclude la rilevabilità successiva, anche a mezzo di ricorso
per Cassazione.
4. Il regolamento di giurisdizione
Sino a che la causa non sia defi nita nel merito, ciascuna delle parti ha facoltà di sollecitare le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, affinchè si pronuncino, con decisione definitiva e vincolante, sulla questione
di giurisdizione (artt. 41 e 374 c.p.c.).
Il deposito del ricorso per regolamento di giurisdizione non presuppone che il giudice del merito si sia già pronunciato sulla questione; il regolamento di giurisdizione non è, infatti, un mezzo di
impugnazione.
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Manuale del nuovo processo civile
Gli interpreti hanno tuttavia puntualizzato che il regolamento può essere esperito
ancorchè il giudice adito abbia già affermato o negato con sentenza la propria giurisdizione (CONSOLO).
Il regolamento di giurisdizione è strumento riservato alle parti, ivi
compreso lo stesso attore o ricorrente che ritenga di aver radicato la controversia presso il giudice errato; viceversa, il regolamento non può essere
sollecitato d’ufficio dal giudice.
Posto che il regolamento di giurisdizione interessa, come detto, solo le questioni di
cui all’art. 37 c.p.c., le parti non vi possono ricorrere per risolvere questioni afferenti alla
competenza del giudice straniero ed in particolare:
a) alla litispendenza comunitaria di cui alla Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968, oggi superata dall’art. 27, reg. 44/01 (Cass. civ., sent. 26109/07, 37/01);
b) alla litispendenza internazionale, di cui all’art. 7, L. 218/95;
c) alla carenza assoluta di giurisdizione, per mancanza di posizioni giuridiche tutelabili.
La domanda di regolamento di giurisdizione non è soggetta a termini
decadenziali; il ricorso tuttavia non può essere depositato qualora sia già
intervenuta una pronuncia nel merito, anche se non definitiva (art. 41, co.
1, c.p.c.).
Quanto alla procedura, il regolamento è promosso con ricorso, da depositarsi, a pena di improcedibilità, presso la cancelleria della Corte di
Cassazione, ex art. 369 c.p.c., nonché presso il giudice di merito davanti al
quale pende il procedimento e va notificato a tutte le parti, presso il procuratore costituito.
Non è richiesto che il ricorso indichi il giudice ritenuto competente ad avviso
dell’istante, nè si considera necessaria l’indicazione dei motivi e delle norme di diritto
che si ritengono violate (Cass. civ., Sez. Un., sent. 8527/07); è sufficiente che alleghi la
carenza di giurisdizione ex art. 37 c.p.c.
In ottica procedurale, il regolamento di giurisdizione non conosce
istruzione probatoria; la giurisprudenza di legittimità ha tuttavia puntualizzato che pur non essendo acquisibili prove testimoniali, sia comunque dato alle parti di produrre documenti, non operando il divieto di cui
all’art. 372 c.p.c.
In seguito alla riforma dell’art. 367 c.p.c., apportata dalla L. 353/90,
il regolamento di giurisdizione non sospende di diritto il relativo
procedimento di merito; tanto si doveva, per frenare il ricorso
abusivo ricorso allo strumento con funzione prettamente dilatoria.
L’attuale regime contempla un potere discrezionale del giudice del merito di sospendere il procedimento pendente avanti a sé, ove ritenga la
questione di giurisdizione sollevata non manifestamente inammissibile
ovvero infondata.
PARTE I. NOZIONI INTRODUTTIVE. DISPOSIZIONI GENERALI
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Qualora opti per la prosecuzione del procedimento, gli sarà consentito
di pronunciare sentenza definitiva, salva la sua caducazione, in caso di sopravvenienza della sentenza di Cassazione che, con effetto rescindente, ne
disconosca la giurisdizione.
In tema di questioni di giurisdizione e di conseguenze delle sentenze
declinatorie, è intervenuta la legge di riforma.
L’art. 60 della legge di riforma, raccogliendo gli orientamenti del
giudice delle leggi (Corte cost., 12-03-2007, n. 77) e della S.C. (Cass.,
S.U., 22-02-2007, n. 4109), in tema di translatio iudicii applicata anche
al caso di difetto di giurisdizione, detta una disciplina che richiede
qualche chiarimento interpretativo.
Ma, per intendere la portata della disposizione, destinata a rimanere
all’esterno del Codice di procedura civile, è indispensabile un agile
excursus delle decisioni che hanno condotto il legislatore ad adottare la
soluzione in commento.
Le Sezioni Unite, in via interpretativa, avevano infatti nel 2007 affermato che sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., n. 1 –
previsto per il solo giudizio ordinario e poi esteso ex art. 111 Cost. a
tutte le decisioni, assumendo la veste di ricorso per contestare innanzi
alle Sezioni Unite la giurisdizione del giudice che ha emesso la sentenza impugnata – sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile innanzi al giudice ordinario, ma anche innanzi al
giudice amministrativo, contabile o tributario, deve poter operare la
translatio iudicii. In tal modo si consente al processo, iniziato erroneamente davanti ad un giudice che non ha la giurisdizione indicata, di
poter continuare – così come è iniziata – davanti al giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di
merito che conclude la controversia processuale, comunque iniziata,
realizzando in modo più sollecito ed efficiente quel servizio giustizia,
costituzionalmente rilevante (Cass. 4109/2007).
La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 30 L. 6 dicembre 1971 n. 1034 (istituzione dei tribunali amministrativi regionali), nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo
di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione,
nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.
Sollevando la questione in esame, il giudice rimettente si fa interprete del diffuso disagio, per i gravi (e, non di rado, irreparabili) inconvenienti provocati da una disciplina che, in sostanza, parte dal
presupposto che l’atto introduttivo del giudizio rivolto ad un giudice
privo di giurisdizione sia affetto da un vizio che lo rende radicalmente
inidoneo a produrre gli effetti, sia sostanziali che processuali, che la
legge collega ad un atto introduttivo che violi le regole sul riparto di
competenza.
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Tale disagio è accresciuto, in primo luogo, dalla circostanza che
una così rigorosa disciplina concerne un vizio dell’atto introduttivo
che scaturisce da una estremamente articolata e complessa regolamentazione del riparto di giurisdizione: sicché non solo è tutt’altro
che agevole il compito della parte attrice, ma altrettanto disagevole
è quello del giudice il cui eventuale errore, tuttavia, ricade interamente sulla parte (si pensi al caso del giudice che erroneamente
declini la propria giurisdizione con nuova proposizione della domanda al giudice indicato come munito di giurisdizione, il quale, a
sua volta, la declini: la domanda riproposta al primo giudice non potrebbe «ancorarsi» alla prima e far risalire ad essa gli effetti sostanziali e processuali).
La Corte costituzionale aveva poi approfondito il tema, giungendo
alla declaratoria di illegittimità dell’art. 30 L. 6 dicembre 1971 n.
1034, nella parte in cui non prevede che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel
processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.
Il giudice delle leggi s’è mostrata consapevole della grave situazione
di incertezza prodotta dalla dichiarazione dell’illegittimità costituzionale di talune norme che, secondo il criterio dei «blocchi di materie»,
ripartivano la giurisdizione tra autorità giudiziaria ordinaria e giudice
amministrativo (Corte cost., 06 luglio 2004, n. 204): l’inapplicabilità,
secondo la giurisprudenza assolutamente dominante, all’ipotesi di sopravvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale del principio
della perpetuatio iurisdictionis codificato nell’art. 5 c.p.c., ha certamente
acuito la diffusa sensazione della sostanziale ingiustizia della disciplina
vigente in quanto, nonostante la domanda fosse stata rivolta al giudice
munito di giurisdizione secondo la legge vigente al momento della sua
proposizione, la sopravvenuta carenza di giurisdizione ne impediva o
pregiudicava la tutela giurisdizionale.
La Corte ha poi ricordato le conclusioni raggiunte dalle Sezioni
Unite nella decisione 4109/2007, ma ha ritenuto di non condividere il
principio per il quale mancherebbe nell’ordinamento «un espresso divieto della translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice
speciale».
Al riguardo, s’è rilevato che l’espressa previsione della translatio con
esplicito ed esclusivo riferimento alla «competenza» – ciò che costituiva una novità del Codice del 1942, auspicata (ma limitatamente
all’incompetenza) fi n dal c.d. progetto CHIOVENDA, non a caso resa
possibile da una articolata disciplina (art. 42-50) totalmente assente
per la «giurisdizione» – non altro può significare se non divieto di applicare alla giurisdizione quanto previsto, esplicitamente ed esclusivamente, per la competenza; il che avrebbe reso superfluo, nell’asciutta
essenzialità delle norme codicistiche, l’«espresso divieto» di applicare
PARTE I. NOZIONI INTRODUTTIVE. DISPOSIZIONI GENERALI
alla giurisdizione le molte norme esplicitamente dedicate (sia nelle rubriche che nel testo) alla sola competenza.
D’a ltra parte, come attentamente sottolineato dalla Corte
Costituzionale, il suo intervento era stato sollecitato da parte del giudice remittente non per l’assenza di un meccanismo processuale che
consenta la trasmigrazione del processo ad altro giudice fornito di giurisdizione, bensì per l’impossibilità che, a seguito della declinatoria
della giurisdizione, siano conservati gli effetti prodotti dalla domanda
proposta davanti ad un giudice privo di giurisdizione.
La trasmigrabilità del processo è strumento necessario, ma non sufficiente perché il giudice ad quem possa giudicare della domanda dinanzi a lui riassunta come se essa fosse stata proposta davanti a lui nel
momento in cui lo fu al giudice privo di giurisdizione.
In tale contesto, la Corte ha osservato che il principio dell’incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi – comprensibile in
altri momenti storici quale retaggio della concezione c.d. patrimoniale
del potere giurisdizionale e quale frutto della progressiva vanificazione
dell’aspirazione del neocostituito Stato unitario (legge sull’abolizione
del contenzioso amministrativo) all’unità della giurisdizione, determinata dall’emergere di organi che si conquistavano competenze giurisdizionali – è certamente incompatibile, nel momento attuale, con
fondamentali valori costituzionali.
Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto
alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero
che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione
di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e
speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività,
o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che
indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti – per
giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed
articolato – è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito
di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può
risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un
esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale.
Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto
alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì l’esistenza di una pluralità di giudici,
ma la riconosce affi nché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già
affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga
data risposta.
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Al principio per cui le disposizioni processuali non sono fi ni a sé
stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito,
si ispira pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito –
il vigente Codice di procedura civile, ed in particolare vi si ispira la
disciplina che all’individuazione del giudice competente – volta ad assicurare, da un lato, il rispetto della garanzia costituzionale del giudice
naturale e, dall’altro lato, l’idoneità (nella valutazione del legislatore) a
rendere la migliore decisione di merito – non sacrifica il diritto delle
parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al
«bene della vita» oggetto della loro contesa.
Al medesimo principio gli art. 24 e 111 Cost. impongono che
si ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini
diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro
giudice.
La Corte, in conclusione, per un verso, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non
prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo
proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al giudice munito di giurisdizione, ispirandosi essa, viceversa, al principio
per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l’esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino
nel nuovo giudizio; per altro verso – e il punto assume particolare
significato in sede interpretativa della disciplina introdotta dalla riforma – ha sottolineato che “la disciplina legislativa che, con l’urgenza
richiesta dall’esigenza di colmare una lacuna dell’ordinamento processuale,
verrà emanata, sarà vincolata solo nel senso che essa dovrà dare attuazione al
principio della conservazione degli effetti, sostanziali e processuali, prodotti
dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione nel giudizio ritualmente riattivato – a seguito di declinatoria di giurisdizione – davanti al giudice che ne è munito”.
La Corte costituzionale ha poi precisato che “il legislatore ordinario
– ferma l’esigenza di disporre che ogni giudice, nel declinare la propria giurisdizione, deve indicare quello che, a suo avviso, ne è munito – è libero di disciplinare nel modo ritenuto più opportuno il meccanismo della riassunzione
( forma dell’atto, termine di decadenza, modalità di notifi ca e/o di deposito,
eventuale integrazione del contributo unifi cato, ecc.) sulla base di una scelta
di fondo a lui soltanto demandata: stabilire, cioè, se mantenere in vita il principio per cui ogni giudice è giudice della propria giurisdizione ovvero adottare l’opposto principio seguìto dal Codice di procedura civile (art. 44) per la
competenza”.
Ciò posto, il co. 1 dell’art. 60 della legge di riforma comincia con
il disporre che il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali (sic), dichiara il proprio difetto di
PARTE I. NOZIONI INTRODUTTIVE. DISPOSIZIONI GENERALI
giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene
munito di giurisdizione.
Ora, la pronuncia sulla giurisdizione resa dalle sezioni unite
della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per
le parti anche in altro processo.
Nel caso di sentenza declinatoria della giurisdizione da parte dei
giudici di merito, il co. 2 pone a carico delle parti un onere di riproposizione della domanda entro il termine perentorio di tre mesi
dal passaggio in giudicato della pronuncia. La norma testualmente si
riferisce alla “pronuncia di cui al co. 1”, che pure menziona la decisione delle Sezioni Unite, ma aggiunge anche in tal caso (ossia nel
caso di proposizione della domanda nel termine di tre mesi), nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono
fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe
prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse
stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le
preclusioni e le decadenze intervenute.
Ora è chiaro che il vincolo per le (sole) parti contrasta con l’affermazione generale contenuta nel co. 1, a proposito della decisione delle
Sezioni Unite, che invece vincola anche il giudice.
Ma, se tale interpretazione fosse esatta, dovrebbe escludersi che,
fermo l’effetto dell’irretrattabilità della conclusione raggiunta in punto
di giurisdizione, le parti, dopo la pronuncia delle Sezioni Unite, siano
tenute, per conservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda, a rispettare il termine trimestrale.
Il che però contrasta con il carattere generale che il legislatore ha
voluto assegnare alla disciplina e con l’ampio riferimento alla “pronuncia di cui al co. 1”.
Sembra perciò di poter dire che quando il co. 2 dispone che “le
parti restano vincolate” all’indicazione della sentenza declinatoria (di merito) passata in giudicato, miri soltanto a non pregiudicare
il potere del giudice indicato di proporre regolamento d’ufficio di
giurisdizione.
Ed, infatti, come chiarisce il co. 3, se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le sezioni
unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa
è riassunta può sollevare d’uff icio, con ordinanza, tale questione
davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, ma
in questo caso sino alla prima udienza f issata per la trattazione
del merito.
Nonostante la diversa formulazione adoperata, ci sembra che il
termine ultimo per il rilievo si identifichi nell’udienza di cui all’art.
183 c.p.c., richiamata dall’art. 38 novellato, a proposito anche del rilievo dell’incompetenza per materia, per valore e per territorio di cui
all’art. 28.
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La riforma resta però sul punto a metà del guado, se la si osserva
nella prospettiva del rispetto del principio della ragionevole durata del
processo. Infatti, resta immutato l’art. 37 c.p.c., a mente del quale il
difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio,
in qualunque stato e grado del processo.
Ciò comporta un’asimimmetria nei poteri del giudice investito della
controversia, il quale, se adito in prima battuta, può, fermi i limiti del
giudicato anche implicito sulla questione (Cass. S.U., 09 ottobre 2008,
n. 24883), rilevare il difetto di giurisdizione anche in sede di decisione, mentre, se è chiamato a decidere la controversia dopo il passaggio in giudicato della sentenza declinatoria, deve operare il suo rilievo
entro l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.
La differente disciplina delle due ipotesi si può giustificare nel senso
che nel secondo caso, essendo ormai la questione di giurisdizione stata
esplicitamente affrontata, il giudice ha un dovere di tempestiva verifica della sua potestas judicandi.
Tuttavia, resta un difetto di coordinamento, puntualmente rilevato
dalle Sezioni Unite (Cass. 24883/2008 cit.), rispetto all’art. 38 c.p.c.,
dal momento che, se il problema della competenza sorge dopo la soluzione in senso affermativo della questione sulla giurisdizione, non è
ragionevole, anche nella prospettiva del contenimento dei tempi processuali, consentire il rilievo del difetto di giurisdizione, quando la
competenza è ormai ferma.
In tale contesto, il co. 3 dell’art. 60 fa comunque salve le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione.
Quanto poi al contenuto della norma, al fi ne di evitare un’interpretazione restrittiva che vanificherebbe l’esigenza di conservazione
dell’attività processuale compiuta e, in defi nitiva, i principi costituzionali posti a base degli orientamenti giurisprudenziali che hanno
sollecitato la svolta legislativa, deve ritenersi che le preclusioni e le decadenze fatte salve sono quelle intervenute all’interno del processo e
non quelle che attengono alla sua instaurazione. Il riferimento è, in
particolare, al termine decadenziale previsto per la proposizione del
processo amministrativo che evidentemente, ove rispettato in occasione della proposizione della domanda dinanzi ad altro giudice, deve
reputarsi, ai fi ni che qui interessano, osservato.
Il co. 2 dell’art. 60 aggiunge che la riproposizione della domanda
deve avvenire, per garantire la salvezza degli effetti sostanziali e processuali, con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio
davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile.
La mancata osservanza del termine perentorio per la riproposizione
della domanda dopo il passaggio in giudicato della sentenza determina, ai sensi del co. 4 dell’art. 60, l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza.
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L’estinzione non preclude la proposizione di una nuova domanda,
ma l’inosservanza del termine perentorio impedisce, sempre ai sensi
del co. 4, la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della
domanda.
A differenza dell’art. 50 c.p.c., che prevede la continuazione del processo, davanti al giudice, a seguito di sentenza declinatoria di competenza, l’art. 60, ult. comma, dispone che in ogni caso di riproposizione
della domanda davanti al giudice di cui al co. 1, le prove raccolte nel
processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova.
Quanto poco tale limitata soluzione sia rispondente al principio di
economia processuale e di ragionevole durata del processo è agevole
avvertire, ove si consideri che si tratta di prove raccolte nel contraddittorio delle parti, sicché non si comprende per quale ragione l’essere il giudice originario sfornito del potere di decidere nel merito la
questione possa pregiudicare la piena efficacia dimostrativa dei mezzi
assunti.
Va solo precisato che l’esigenza di economia processuale che governa la disciplina in esame riguarda tutte le ipotesi di proposizione
del processo davanti al giudice indicato come fornito di giurisdizione e pertanto l’utilizzabilità delle prove raccolte, sia pure come
argomenti di prova, opera in ogni caso e, quindi, anche nelle ipotesi
in cui la riproposizione non sia avvenuta nel termine trimestrale sopra ricordato.
5. Norme di diritto internazionale privato. Le fonti sovranazionali
La giurisdizione italiana può doversi arrestare, qualora il caso concreto
presenti profi li di estraneità al nostro ordinamento.
Le norme di diritto internazionale privato interessanti l’Italia sono oggi
non solo quelle di cui alla riforma disposta con L. 218/95, bensì pure
quelle di matrice pattizia, che prevalgono sulle fonti interne, in ragione
della previsione di cui all’art. 10 Cost. e dell’applicazione del brocardo
“pacta sunt servanda”.
Si richiama pertanto l’attenzione in primo luogo sulla Convenzione
di Bruxelles del 1968, oggi sostituita tra tutti gli Stati membri, con la
sola eccezione della Danimarca, dal Regolamento comunitario 44/01
e concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
Per espressa previsione, il Reg. 44/01 non si occupa del riparto di giurisdizione in
materia fiscale, doganale ed amministrativa dei rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, status, testamenti e successioni, sicurezza sociale, fallimenti ed arbitrato, che sono
perciò esclusi dalla “materia civile e commerciale”.
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