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Capitolo Quinto I procedimenti di volontaria giurisdizione

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Capitolo Quinto I procedimenti di volontaria giurisdizione
Capitolo Quinto
I procedimenti di volontaria giurisdizione
Con tale espressione ci si riferisce a quelli che il Codice denomina, agli artt.
737 e ss., procedimenti in camera di consiglio.
Le norme generali che regolano i procedimenti in camera di consiglio sono
le seguenti:
— l’atto introduttivo ha la forma del ricorso, presentato al giudice competente;
— la decisione avviene, senza contraddittorio, in camera di consiglio, con decreto;
— il decreto è reclamabile al giudice superiore, sia dalle parti, sia dal P.M.: il reclamo, però, deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto;
— il decreto diviene efficace con lo scadere di detto termine; ma il giudice, se
vi è urgenza, può disporne l’efficacia immediata;
— i decreti sono modificabili e revocabili in ogni tempo, salvi i diritti dei terzi acquistati in buona fede.
Sono caratterizzati dall’assenza di contenziosità e quindi di contraddittorio: non esistono, infatti, per questi procedimenti, interessi giuridici contrapposti.
Si ricorda, infine, che l’art. 50bis, introdotto dal D.Lgs. 51/98 ha confermato la competenza del tribunale in composizione collegiale nelle cause di cui
agli artt. 737 e ss., salvo sia diversamente disposto in specifiche prescrizioni.
1. Separazione personale fra coniugi (artt. 706-711)
Il procedimento per la separazione personale tra coniugi tende ad ottenere una sentenza che ordini la separazione dei coniugi, con gli effetti previsti
dall’art. 156 c.c.
Essa può essere di due tipi:
a) Separazione giudiziale, se è richiesta da una parte nei confronti dell’altra. In tal caso il procedimento è contenzioso, e si conclude con sentenza.
Giudice competente (trattasi di competenza funzionale) è il tribunale del
luogo dell’ultima resi­denza comune dei coniugi — a far data dall’1-3-2006,
per effetto del D.L. 35/2005 conv. in L.80/2005 — ovvero ove il coniuge convenuto ha residenza o domicilio.
Il processo si distingue in due fasi: una presidenziale, ed un’altra — eventuale — che si svolge davanti al giudice (giudice istruttore e Collegio).
Nella prima fase il presidente ha la funzione anzitutto di conciliare le parti; poi — se la conciliazione non riesce — di dare, con ordinanza, i provve-
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Parte Quarta - I procedimenti speciali
dimenti temporanei ed urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole; nonché di nominare il giudice istruttore, fissando l’udienza di comparizione delle parti avanti a costui. La causa prosegue, quindi,
con le forme ordinarie.
b) Separazione consensuale, se è chiesta da entrambe le parti; in tal caso
sarà competente facoltativamente il Tribunale dei luoghi di residenza (o di
domicilio) di entrambi i coniugi, qualora diversi. In tal caso il procedimento, dopo una fase presidenziale, si svolge in camera di consiglio e si conclude con la omologazione della separazione predisposta e concordata dai coniugi, da parte del Collegio.
2. Interdizione e inabilitazione (artt. 712-720)
La domanda si propone con ricorso diretto al tribunale del luogo in cui la
persona da interdire, o da inabilitare, ha la residenza o il domicilio (competenza funzionale) da parte del coniuge o della persona stabilmente convivente, o dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo, del tutore
o curatore ovvero del pubblico ministero.
L’istruttoria consiste soprattutto nell’esame dell’interdicendo, diretto a determinare quali siano le sue facoltà intellettuali; nell’assunzione del parere delle persone citate; ed infine nella raccolta di tutte quelle prove ritenute utili ai fini del giudizio.
Esaurita l’istruzione, la causa viene rimessa al collegio ed il procedimento si chiude con sentenza.
La prima fase del procedimento si svolge davanti al Presidente, che deve verificare la fondatezza dell’azione, per non dare inizio ad un procedimento infondato. Il presidente, se non rigetta il ricorso, nomina il giudice istruttore e
fissa l’udienza di comparizione dei ricorrenti, dell’interdicendo e di altre eventuali persone di cui ritenga utili le informazioni.
Il ricorso e il decreto sono notificati a cura del ricorrente, entro il termine
fissato nel decreto stesso, alle persone indicate. Il decreto è comunicato al P.M.
3. Amministrazione di sostegno
Il procedimento dell’amministrazione di sostegno è stato introdotto dalla
L. 9-1-2004, n. 6, che pur non avendo operato una revisione generale degli istituti di protezione degli incapaci, ha disposto alcune modifiche a quelli già esistenti (interdizione ed inabilitazione) sia nell’ambito del codice civile che di
procedura civile.
Per quanto riguarda quest’ultimo, le modifiche hanno riguardato l’art. 51
con l’aggiunta — tra i casi di astensione — dell’ipotesi che il giudice sia amministratore di sostegno di una delle parti e l’aggiunta dell’art. 720bis che prevede l’applicabilità ai procedimenti in materia di amministrazione di sostegno degli artt. 712 (Forma della domanda), 713 (Provvedimenti del presidente),
716 (Capacità processuale dell’interdicendo e dell’inabilitando), 719 (Termine per
l’impugnazione) e 720 (Revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione). Dispone
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inoltre l’art. 720bis che contro il decreto del giudice tutelare è ammesso reclamo alla Corte d’appello ex art. 739 e che contro questo provvedimento è ammesso ricorso per cassazione.
L’istituto è strumento valido per sostenere una situazione grave e lunga
di incapacità, ma non definitiva e totale, anche derivante da menomazione
fisica (portatori di handicap; anziani; lungodegenti) o da tossicodipendenza; è prevista anche la possibilità che un soggetto, in previsione della propria futura incapacità, indichi il nome (o più nomi nell’ipotesi che questi
non accetti) della persona che desideri come proprio amministratore di sostegno.
Per il resto il procedimento si interseca con quello per l’interdizione o inabilitazione, sia utilizzando i medesimi meccanismi (domanda proposta con
ricorso, esame del soggetto, capacità e autorizzazione del designato, revoca
della pronuncia) sia intervenendo sugli stessi, modificandoli (nomina preventiva del tutore e del curatore, ampliamento delle persone legittimate attive).
Infine, viene ricompreso, tra i procedimenti che devono essere trattati nel periodo feriale, anche quello relativo all’amministrazione di sostegno (art. 92 Ord.
giudiz.).
4. Ordini di protezione contro gli abusi familiari
La L. 4-4-2001, n. 154 è intervenuta in un delicato settore qual è quello della violenza domestica ed ha previsto misure rapide, di carattere cautelare
e provvisorio sia ad opera del giudice penale, sia ad opera di quello civile. A
questo scopo ha introdotto nel codice di procedura civile un nuovo Capo, il
Capo Vbis che all’art. 736bis elenca i «Provvedimenti di adozione degli ordini
di protezione contro gli abusi familiari».
Ai sensi dell’art. 342bis c.c., quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica e morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice su istanza di parte può adottare
con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’art. 342ter c.c.
Preliminarmente occorre osservare che la tutela in sede civilistica può essere ancor più tempestiva di quella penale in quanto la valutazione del giudice nel disporre la misura prescinde da indizi di colpevolezza per un fatto di
reato, pur basandosi su comportamenti specifici (grave pregiudizio per l’integrità psicofisica e per la libertà dell’altro coniuge o convivente).
Il giudice, pertanto, con il decreto di cui all’art. 342bis c.c. ordina la cessazione della condotta pregiudizievole e dispone l’allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto tale condotta, ordinandogli, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante (luogo di lavoro, domicilio della famiglia d’origine etc.) salvo che questi non
debba frequentarli per esigenze di lavoro.
Il giudice, inoltre, può disporre il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dell’allontanamento rimangono
prive di mezzi adeguati, fissando modalità e termini di versamento.
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Parte Quarta - I procedimenti speciali
La durata dell’ordine di protezione, che non può essere superiore a sei mesi,
può essere prorogata, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per
il tempo strettamente necessario.
La competenza ratione materiae è del tribunale. Dispone, infatti, l’art. 736bis
c.p.c. che l’istanza di cui all’art. 342bis c.c. si propone con ricorso al tribunale del luogo di residenza o di domicilio dell’istante, che provvede in camera di
consiglio in composizione monocratica.
Il giudice designato, sentite le parti, procede agli atti di istruzione necessari e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte ove occorra sommarie informazioni, può adottare immediatamente l’ordine di protezione fissando l’udienza di
comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni ed assegnando all’istante un termine non superiore a otto giorni
per la notificazione del ricorso e del decreto.
Contro il decreto con cui il giudice adotta il decreto di protezione o rigetta il ricorso è ammesso reclamo al tribunale, il quale provvede in camera di
consiglio, in composizione collegiale.
L’elusione dell’ordine del giudice civile è penalmente sanzionata ai sensi
dell’art. 388 c.p.
Tutti i procedimenti civilistici, compresi quelli esecutivi e cautelari, diretti ad ottenere la corresponsione dell’assegno di mantenimento, sono esenti
dall’imposta di bollo e da ogni altra tassa.
5. Altri procedimenti di volontaria giurisdizione
Il nostro ordinamento prevede numerosi altri procedimenti di volontaria
giurisdizione, disseminati nel codice civile, ed in quello di rito.
Tra i più importanti meritano di essere ricordati:
1) dichiarazione di assenza e di morte presunta (art. 722);
2) provvedimenti relativi a minori ed incapaci (artt. 732; 320 c.c.);
3) autorizzazione alla vendita di beni ereditari (art. 747);
4) apposizione e rimozione di sigilli (artt. 752 e ss.);
5) formazione di inventario (art. 769);
6) provvedimenti relativi ad accettazione dell’eredità con beneficio di inventario (artt. 778 e ss.);
7) provvedimenti relativi al curatore dell’eredità giacente (artt. 781 e ss.).
Capitolo Sesto
Gli altri procedimenti speciali
1. Il procedimento di scioglimento di comunione
Ogni partecipante alla comunione ha il diritto di chiederne lo scioglimento (artt. 713 e 1111 c.c.). Se la divisione non si effettua con l’accordo dei partecipanti, ciascuno di essi può sperimentare l’apposita azione (actio communi dividendo).
Questa inizia con citazione di tutti gli interessati (caso tipico di litisconsorzio necessario); se non sorgono contestazioni, la divisione è disposta con
ordinanza dal g.i. (art. 785).
Se invece le parti non si accordano si procede nelle forme ordinarie del
contenzioso: in quest’ultima ipotesi il giudizio si conclude con la sentenza del
collegio che decide sulle contestazioni sorte.
2. Il procedimento di liberazione degli immobili dalle
ipoteche
Il terzo acquirente di beni ipotecati, che ha trascritto il suo titolo e non è personalmente obbligato, ha facoltà di liberare i beni da ogni ipoteca iscritta anteriormente alla trascrizione del suo titolo di acquisto, offrendo ai creditori il
prezzo stipulato nel contratto o, in mancanza, il valore dei beni (art. 2889 c.c.).
Il procedimento per la liberazione è previsto dagli artt. 792-795.
3. Riconoscimento di provvedimenti giurisdizionali stranieri previsto dalla L. 218/95
La legge 218/1995, sulla riforma del diritto internazionale privato, ha assolutamente rivoluzionato il meccanismo precedentemente previsto dal legislatore per il riconoscimento delle sentenze straniere nel nostro ordinamento.
Infatti gli artt. da 796 a 805 che sono stati abrogati (a decorrere dal 31-1296), imperniavano tale riconoscimento su di un apposito procedimento di controllo (cd. di delibazione).
La domanda andava proposta con citazione davanti alla Corte d’Appello del luogo ove la sentenza doveva avere attuazione (art. 796). Era necessario l’intervento del P.M. Normalmente al giudice
italiano era precluso l’esame sul merito: accertata l’esistenza delle condizioni (ad es.: regolare costituzione del contraddittorio, passaggio in giudicato della sentenza, non contrarietà della stessa all’ordine pubblico), la pronuncia del giudice straniero era senz’altro ricevuta nel nostro ordinamento.
La L. 218/95, tranne alcune eccezioni espressamente previste, prevede l’automatico ingresso e riconoscimento delle sentenze straniere nel nostro ordinamento.
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Parte Quarta - I procedimenti speciali
I requisiti richiesti perché ciò avvenga e che riprendono in gran parte quanto stabilito dalle
disposizioni abrogate, sono previsti dall’art. 64, L. 218/95 cit.:
— pronuncia della sentenza da parte di un giudice che avrebbe potuto conoscere la causa secondo i principi sulla competenza giurisdizionale dell’ordinamento italiano;
— salvaguardia dei diritti di difesa e regolare instaurazione del contraddittorio;
— regolare costituzione in giudizio delle parti ed eventuale dichiarazione di contumacia, in conformità alla legge del luogo in cui è svolto il giudizio;
— passaggio in giudicato della sentenza (secondo le regole dell’ordinamento di provenienza);
— assenza di contrasto con una sentenza contraria, già passata in giudicato, pronunciata da un
giudice italiano;
— non pendenza di un processo davanti ad un giudice italiano per il medesimo oggetto e fra le
stesse parti, che sia iniziato prima del processo straniero;
— assenza di contrarietà fra gli effetti della sentenza straniera e l’ordine pubblico.
Se, di regola, la sentenza straniera è riconosciuta in Italia senza necessità
di fare ricorso a procedure particolari, può accadere che il possesso, da parte
del provvedimento giurisdizionale pronunciato all’estero, dei requisiti analiticamente indicati dall’art. 64 sia contestato ovvero che, comunque, la sentenza non sia adempiuta spontaneamente con conseguente necessità di procedere ad esecuzione forzata.
In tali casi, chiunque abbia interesse all’esecuzione della sentenza straniera
potrà chiedere, alla Corte d’Appello del luogo in cui la sentenza dovrà essere
eseguita, l’accertamento dei requisiti del riconoscimento (art. 67, L. 218/95).
È evidente l’analogia tra tale procedimento ed il giudizio di delibazione regolato dalle disposizioni del c.p.c. ormai abrogate.
Mentre, peraltro, il giudizio di delibazione costituiva lo strumento indispensabile per consentire l’ingresso nel nostro Paese di ogni sentenza straniera, questo nuovo giudizio di accertamento rappresenta un momento soltanto
eventuale e patologico della fase esecutiva.
Al giudizio di accertamento può procedere anche un giudice diverso dalla
Corte d’Appello quando il riconoscimento della sentenza straniera non costituisce l’oggetto principale del processo, ma un suo aspetto incidentale. È il caso,
ad esempio, del riconoscimento di una sentenza straniera di divorzio avente
ad oggetto l’annullamento, per mancanza dello stato libero, del nuovo matrimonio contratto da uno dei divorziati.
In tal caso, però, gli effetti del riconoscimento sono limitati al processo in
corso (art. 67, comma 3, L. 218/95).
La notificazione degli atti delle autorità straniere, rispetto alla formulazione dell’art. 805, presenta come elemento di novità la possibilità di osservare
le modalità previste dall’autorità straniera, se compatibili con i principi previsti dal nostro ordinamento e che, in ogni caso, l’atto può essere consegnato
al destinatario che lo accetti volontariamente.
4. L’arbitrato (artt. 806-840)
L’arbitrato è uno strumento di risoluzione delle controversie, al quale, però,
il legislatore ha dedicato un minimo di norme (gli artt. 806 e ss.) per discipli-
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narne la struttura (ossia il modo in cui esso deve instaurarsi, svolgersi ed essere definito) e gli effetti (sia sostanziali, che processuali).
Quando le parti si accordano, mediante apposito negozio detto convenzione d’arbitrato, per far decidere una controversia ad arbitri secondo la disciplina suddetta, tale arbitrato viene definito rituale e produce le conseguenze stabilite dalla legge (si pensi, ad es., agli effetti del lodo tra le parti, alla possibilità dell’omologazione, al regime dell’impugnazione etc.).
Soprattutto a causa degli oneri fiscali che sono connessi all’arbitrato rituale, si è diffuso, però, nella prassi un’altra forma di arbitrato, quello cd. irrituale o libero, che con l’introduzione nel codice di rito dell’art. 808ter (ad
opera del D.Lgs. 40/2006), è stato espressamente riconosciuto.
L’arbitrato irrituale è una forma di risoluzione convenzionale delle controversie, che si caratterizza per il fatto che le parti, con convenzione d’arbitrato, conferiscono agli arbitri il compito di comporre una lite mediante determinazione contrattuale, impegnandosi a considerare come espressione della
propria volontà quanto viene deciso dagli arbitri (in tal caso cioè la decisione
degli arbitri — il lodo — non avrà efficacia di sentenza giudiziaria).
Differenze
La distinzione, dunque, tra l’arbitrato rituale e quello irrituale si deve rinvenire nella volontà delle parti:
— con l’arbitrato rituale le parti intendono attribuire agli arbitri una funzione giurisdizionale e desiderano ottenere una decisione destinata ad acquistare efficacia pari a quella di una
sentenza del giudice;
— con l’arbitrato irrituale le parti conferiscono agli arbitri un mandato per risolvere una controversia mediante un atto negoziale: il tipo di negozio che gli arbitri possono porre in essere per eseguire l’incarico può essere, a seconda dei casi, una transazione, una rinuncia,
un negozio di accertamento etc.
L’arbitrato irrituale non va confuso con il cd. arbitraggio.
Con l’arbitrato le parti incaricano l’arbitro di risolvere una controversia; con l’arbitraggio le parti
conferiscono al terzo arbitratore il compito di determinare uno degli elementi del contratto in formazione, ad es. l’oggetto dedotto in contratto (cfr. l’art. 1349 c.c.) o il prezzo (cfr. art. 1473 c.c.).
Nell’arbitraggio, insomma, non si conferisce alcun potere decisorio su questioni controverse.
Assai frequente nella prassi, ad es., è il caso in cui le parti ricorrono al cd. biancosegno, ossia provvedono alla sottoscrizione in bianco di un foglio conferendo agli arbitri il potere di riempirlo con quella che sarà la decisione della controversia: è evidente che la scrittura, una volta completata si presenta formalmente come un negozio stipulato dagli stessi interessati.
La convenzione d’arbitrato può avere due «forme»: compromesso (art.
807) e clausola compromissoria (art. 808). Il primo è un contratto che le parti stipulano dopo l’insorgere della controversia. La clausola compromissoria,
invece, è una clausola che le parti inseriscono in un contratto o in un atto separato, prima dell’insorgere della controversia.
In tal modo la lite non sarà più di competenza del giudice ordinario.
Gli arbitri devono, normalmente, decidere entro duecentoquaranta giorni
dall’accettazione della nomina (salvo un diverso termine previsto nella convenzione d’arbitrato).
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Parte Quarta - I procedimenti speciali
La decisione va resa secondo le norme di diritto, salvo che le parti controvertenti abbiano autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità (art. 822).
La decisione arbitrale (cd. lodo) viene comunicata alle parti e quella di esse
che intende ottenerne l’esecuzione deve depositarla nella cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’arbitrato. Il lodo ha dalla data della
sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità
giudiziaria (art. 824bis introdotto ex D.Lgs. 40/2006).
Il codice di rito prevede contro il lodo, anche non depositato, l’impugnazione per nullità, revocazione e opposizione di terzo (art. 827). La più frequente
ed importante è l’impugnazione per nullità (che va proposta alla Corte d’appello nel cui distretto è la sede dell’arbitrato, per invalidità formale, vizi del procedimento, errori di diritto commessi dagli arbitri nel decidere, salva l’ipotesi
di autorizzazione a pronunciare secondo equità). L’autorità giudiziaria adìta,
quando accoglie l’impugnazione, dichiara la nullità del lodo con sentenza.
Con la riforma del giudice unico (dal 2-6-1999), la competenza è del Tribunale in composizione monocratica. Quindi, sia il reclamo contro il decreto che
nega l’esecutorietà al lodo, che l’impugnazione per nullità sono di competenza della Corte d’Appello (artt. 825, 828).
5. Il processo societario
Il D.Lgs. 17-1-2003, n. 5 (Procedimenti in materia di diritto societario) aveva introdotto una disciplina processuale di settore diretta ad assicurare una più
rapida ed efficace definizione dei procedimenti in materia societaria, di intermediazione finanziaria, bancaria e creditizia e suscettibile di integrazione da
parte del Codice di rito in via del tutto residuale. In realtà il processo societario si configurava quale nuovo rito speciale a cognizione piena aggiungendosi agli altri riti speciali già esistenti quali il rito del lavoro (artt. 409 ss. c.p.c),
il rito delle locazioni (art. 447bis, artt. 657 ss. c.p.c.). Tuttavia la L. 18-6-2009,
n. 69 (Riforma del processo civile 2009) ha soppresso il rito societario che
continuerà ad applicarsi in via residuale alle sole controversie pendenti alla
data di entrata in vigore della riforma (4-7-2009), tranne che per la parte di
norme che regolano l’arbitrato e la conciliazione societari.
Le caratteristiche di tale rito si possono così sintetizzare:
1) il Tribunale in questa materia decide in composizione collegiale, ad eccezione delle ipotesi
relative alle controversie promosse da una banca nei confronti di un’altra ovvero da o contro
associazioni rappresentative di consumatori o camere di commercio;
2) il rito societario si caratterizza per la presenza di una fase precontenziosa introdotta con il
deposito in cancelleria di un atto di citazione che è privo dell’indicazione dell’udienza e contiene la fissazione di un termine per la comunicazione della comparsa di risposta da parte
del convenuto. Quest’ultimo a sua volta fissa all’attore un termine per la replica: la parte alla
quale spetta la facoltà di replica può rinunciarvi chiedendo immediatamente al giudice la fissazione dell’udienza. È possibile però esercitare nuovamente la facoltà di replica fino al terzo scritto in cui ciascuna delle parti è tenuta a rispettare un temine non più minimo, ma massimo;
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3) le parti gestiscono in modo esclusivo la fase introduttiva del giudizio con la conseguente fissazione del thema decidendum e del thema probandum, senza la collaborazione del giudice che così si riappropria del suo ruolo di organo decidente;
4) è previsto un istituto processuale nuovo — il procedimento sommario di cognizione — in
alternativa al rito ordinario di cui agli artt. 2 e ss., d.lgs. 5/2003 cit., applicabile alle controversie societarie aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro o la consegna di una
cosa mobile determinata ed è caratterizzato dal fatto che non tende all’accertamento del diritto, ma all’emanazione di un provvedimento esecutivo;
5) il procedimento in grado di appello è, come nel rito civile, un mezzo di impugnazione diretto a provocare una nuova decisione sulla controversia e la cui disciplina non si discosta, in
sostanza, da quella codicistica;
6) è prevista anche la possibilità di ricorrere al procedimento cautelare, con rinvio alla normativa comune del codice di rito solo se compatibile con quella speciale;
7) per il procedimento in camera di consiglio è stato elaborata una specifica normativa che,
senza compromettere la rapidità, assicuri il rispetto dei principi del giusto processo;
8) sono altresì previsti l’arbitrato ed la conciliazione stragiudiziale, quali strumenti alternativi di soluzione delle controversie (che resteranno in vigore anche dopo l’abrogazione del rito
societario).
Il D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 60 della L. 18 giugno 2009, n. 69 ha disciplinato la mediazione
finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (v. cap. 8).
A tal fine, il D.Lgs. 28/2010 cit. ha abrogato gli artt. da 38 a 40 del D.Lgs.
5/2003 cit. che si riferivano, appunto, al procedimento di conciliazione stragiudiziale.
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