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è una boiata pazzesca - Cultura Commestibile

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è una boiata pazzesca - Cultura Commestibile
[email protected] [email protected]
www.culturacommestibile.com www.facebook.com/cultura.commestibile
direttore
simone siliani
redazione
gianni biagi, sara chiarello,
aldo frangioni, rosaclelia ganzerli,
michele morrocchi, barbara setti
progetto grafico
emiliano bacci
Con la cultura
non si mangia
64
231
N° 1
La tramvia sotto
il centro di Firenze
è una boiata pazzesca
editore Nem Nuovi Eventi Musicali Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012
Da non
saltare
2
APRILE
2016
pag. 2
Simone Siliani
[email protected]
di
D
a un serie di trasmissioni radiofoniche da lui
condotte su Rai Radio3,
Giorgio Van Straten ha tratto un
bel libro su otto libri che sono
stati scritti e che oggi non esistono più, “Storie di libri perduti”
(Editori Laterza).
Un libro doloroso, questo tuo “Storie di libri perduti”. In due sensi:
per noi lettori che abbiamo perso
libri probabilmente importanti
per la storia della letteratura; e soprattutto per gli autori che perdono
una parte di sé. Alcuni di questi
libri erano pronti per essere stampati (come quello di Lord Byron
che lo aveva inviato all’editore),
altri magari ancora non compiuti,
ma per tutti il senso di un dolore
lancinante per la loro perdita mi
sembra il filo rosso di questo libro.
In tutte queste storie c’è un senso
di perdita e le storie di perdita
sono sempre anche delle storie di
dolore. Le potenzialità che non
si sono realizzate. Per fare un
esempio di attualità: per le sette
ragazze morte in Spagna una
parte del dolore è proprio legato
al fatto che qualcosa che avrebbe
avuto un suo sviluppo si è interrotto prematuramente. Questa
cosa che vale per le persone in
modo più accentuato, vale però
per qualsiasi prodotto umano,
quindi anche per un libro. In
molte poi di queste storie, la
perdita di un libro si accoppia
anche alla perdita di vite umane
o comunque a vite dolorose, ad
avvenimenti terribili. In quasi
tutte queste storie la perdita del
libro è pressoché contestuale
alla perdita della vita umana
dell’autore. È un dolore che per
me si accompagna sempre ad un
sentimento che ha anche degli
aspetti positivi, che possiamo
definire della nostalgia. Sono
storie così forti che ti fanno però
sempre pensare che sono vite che
è valso la pena vivere. In questo
senso non è solo un sentimento
negativo.
Molte di queste sono vite drammatiche e per gli scrittori questo è
frequente.
Sì, è non solo perché sono
scrittori, ma perché in molti casi
sono persone che stanno dentro
il dramma del Novecento.
Come Schulz che è uno scrittore
conosciuto dopo la sua morte e il
fatto che il suo “Messia” sia andato
Ricordi
di libri perduti
perduto questo condiziona anche
molto la consapevolezza del suo
ruolo nella storia della letteratura
del secolo scorso.
Ma, raccontaci qualcosa di “Viale”, il libro di Romano Bilenchi che
tu hai avuto il privilegio di leggere.
Mi succede che i libri che leggo
non mi restino nella memoria;
ovviamente più mi sono piaciuti e più persistono. E quando
persistono, sono dei lampi. Per
quanto riguarda il “Viale”, ricordo che era una storia d’amore,
di cui non ricordo bene neppure
gli anni dell’ambientazione.
Ricordo benissimo una scena dei
due protagonisti che sono sotto
Bellosguardo, in una piazzetta,
e iniziano a salire; mi ricordo il
fatto che a lui piace moltissimo
la nuca di lei. Insomma sono
fotogrammi e non mi sembra che
nemmeno gli altri due lettori se
ne ricordino molto di più.
Però il libro doveva essere importante perché interrompe il lungo
periodo di silenzio di Bilenchi e
possiamo immaginare che non fosse
convinto della pubblicazione.
Certo, lui lo aveva messo in
un cassetto e penso che in quel
momento, dal suo punto di
vista, fosse impubblicabile. Lui
era ancora sposato con la prima
moglie ed evidentemente c’erano
delle cose così fortemente riconoscibili che ne impedivano per
lui la pubblicazione. Il silenzio
di Bilenchi è legato anche ad
un altro fattore che è, secondo
me, il suo dissenso ideologico
nei confronti del neorealismo
in letteratura che la sua parte
politica propugnava. Quindi, io
penso che ci sia anche questo nel
suo silenzio e credo che anche
questo libro, scritto circa 10
anni dopo la fine della guerra, si
inserisse in questa logica, avesse
delle caratteristiche non inquadrabili in quel percorso. Lui da
un lato non si è messo a scrivere
come non era in grado di scrivere
e dall’altro si era reso conto che
in quegli anni magari avrebbe
dovuto scrivere un romanzo sulla
Resistenza e invece gli era venuta
fuori una storia d’amore. Vi è
poi il fatto che era un lavoro non
finito perché erano due stesure
diverse: la prima parte era una
seconda stesura e la seconda parte
era una prima stesura e non so
bene neppure perché lui l’avesse
interrotta. Però secondo me era
un libro importante dal punto
di vista dello studio di Bilen-
chi: non c’erano gli elementi,
dunque, per decidere che non
dovesse essere pubblicato. Anche
perché Bilenchi non è Hemingway, quindi non c’era il rischio
che qualcuno lo pubblicasse per
specularvici sopra.
La vicenda di questo primo libro
di cui racconti porta in campo
la tremenda responsabilità di
chi, in assenza dell’autore, decide
se pubblicare o meno il libro e,
soprattutto, se conservare il manoscritto o distruggerlo. È il caso di
Bilenchi e poi di quello che succede
nella stanza dell’editore di Lord
Byron e anche del marito di Sylvia
Plath. Non voglio qui discutere
cosa sia giusto o meno fare e non
so se si possa stabile una regola
rigida. Però questa è un’altra cosa
dolorosa: di chi si trova a prendere
questa responsabilità di uccidere o
meno un libro.
A dire il vero io credo che se un
autore ha lasciato lì una cosa, si
dovrebbe rispettare il suo volere.
Prendiamo il caso di Bilenchi:
un libro scritto 30 anni prima
che lui morisse e lui non l’ha
distrutta, quindi secondo me non
si può distruggere il manoscritto.
Puoi vincolarne l’utilizzo; puoi
dire che non lo pubblichi come
Da non
saltare
2
APRILE
2016
pag. 3
volume autonomo; oppure che
non lo vuoi pubblicare affatto ma
lo lasci consultare agli studiosi.
Ma mi sembra che, distruggere
una cosa che l’autore ha lasciato
lì, sia una cosa inaccettabile. La
stessa Maria Bilenchi la “Vita di
Pisto”, che Romano non aveva
più voluto pubblicare, lei non
l’ha pubblicato come volume
autonomo ma come un testo
nelle opere complete. Io non
penso che si abbia mail il diritto
di distruggere qualcosa scritto
da altri. A meno che non siano
fatti molto personali come, ad
esempio, le lettere che riguardano
i due corrispondenti.
Certamente non l’editore e gli altri
che si trovavano nella sua stanza e
che decisero di bruciare le “Memoirs” di Lord Byron.
In realtà quelli pensano alla propria reputazione e quindi in quel
caso non c’è proprio discussione:
si tratta di persone che ritengono
che la loro reputazione e anche di
quella del morto (ma in quanto
loro parente o comunque legato
a loro in qualche modo), sia
più importante del libro. E, di
nuovo, anche in quel caso puoi
decidere di non pubblicarlo adesso e decidere invece di metterlo
in una borsa e di aprirlo fra 100
anni. Ma nella distruzione vi è
qualcosa di violento e per me di
inaccettabile.
Sempre fiamme, spesso è il fuoco
a distruggere questi libri. Certo,
immagini drammatiche, con tanto
romanticismo e platealità, come
Gogol che, siccome il pacco intero
della sua seconda parte di “Anime
Morte” non bruciava, ne brucia
le pagine una per una. Oggi è più
facile e meno teatrale, distruggere
un lavoro, basta il tasto delete.
Si, ma allo stesso tempo, è più
difficile distruggere qualcosa accidentalmente. In alcuni casi non è
neppure possibile. C’è questa discussione sul diritto all’oblio che
ha a che vedere con questo tema
Ma sul fatto dell’andare perduto
per sbaglio, direi che oggi è più
improbabile perché è facile avere
copie, backup, oppure una stampa del testo, o ancora una copia
di dropbox.
Uno di questi libri, forse, avremo
la possibilità di leggerlo nel 2022
quando gli archivi di Sylvia Plath
si apriranno e potranno rivelare
qualcosa.
In realtà in linea teorica quasi
tutti questi libri potrebbero
Intervista
a Giorgio
Van Straten
“cacciatore”
di libri scomparsi
anche riapparire. Sui libri perduti
si sviluppano leggende, un po’
come sui figli dei Romanov.
C’è la remota possibilità che
negli archivi del KGB vi sia il
dattiloscritto del romanzo di
Schulz; c’è una busta depositata
in una Università americana con
un vincolo di non aprirla fino
al 2022 dove potrebbe trovarsi
“Double exposure” di Sylvia
Plath; forse la vedova di Bilenchi
non ha veramente distrutto il
romanzo e forse ce l’ha qualche parente; forse da qualche
parte il contenuto della valigia di
Benjamin sarà rimasto. In realtà
puoi raccontarti una speranza
di ritrovamento su tutte queste
storie. Tranne che nel caso di
Malcom Lowry; dove però è stata
trovata una prima stesura di “In
the Ballast to the White Sea”. È
vero che esiste una prima stesura
di “Sotto il vulcano” che è molto
differente da quella finale. Però la
prima stesura di “In the Ballast to
the White Sea” era abbandonata
in un posto e lui aveva riscritto
tutto il libro stando in un altro
luogo e quindi non potendosi
basare su quella prima stesura. E,
in ogni caso, una prima stesura
ci dà comunque delle indicazioni
sul contenuto che avrebbe avuto,
sullo sviluppo narrativo. Lui
veramente è stato un seminatore
di pagine. Vale però il discorso di
Gogol, di cui sono rimasti cinque
capitoli della seconda parte di
“Anime Morte”: sicuramente
Lowry non era riuscito a fare
quello che voleva fare in questa
prima stesura e forse, invece,
sarebbe stato più soddisfatto di
quella che è andata bruciata.
Queste sono avventure, ricostruzioni, viaggi alla ricerca di... e
quindi che poi alla fine qualcosa
si trovi, dal mio punto di vista,
aumenta il fascino della vicenda.
Citavi ora Gogol: nella varie ipotesi sul perché della distruzione della
seconda parte di “Anime Morte”,
mi sembra che tu propenda per il
suo proverbiale perfezionismo che
non lo rendeva mai soddisfatto
pienamente del suo lavoro. Una
mania forse accentuata dalla sua
svolta mistica.
Io penso che se lui veramente
voleva fare la sua Divina Commedia – come peraltro anche
Lowry – e quello che lui cercava
di scrivere era il Purgatorio o il
Paradiso, comunque il riscatto,
le due cose andassero insieme:
da un lato lui era un perfezionista, dall’altro la sua stessa crisi
mistica alzava l’asticella. Però
lui era perfezionista da sempre.
Era probabilmente anche un po’
megalolmane.
Quella di Hemingway invece
sembra una storia meno drammatica. Lo stesso Ezra Pound gli dice
che non ha perso un granché; anche
Gertrude Stern giudica negativamente l’altra sua prova giovanile
“Su nel Michigan”.
Hemingway era veramente
giovanissimo quando succede
tutto questo; poco più di 20
anni. Quindi, per quanto precoce, penso che in larga misura
i suoi lavori di quel periodo
fossero davvero dei tentativi.
Magari, come dimostra “Su nel
Michigan” che ha trovato posto
nei “Quarantanove racconti”,
neppure così ignobili. La perdita,
dunque, è certamente molto
forte. Però la differenza sta nel
momento in cui questo accade
perché Hemingway ha tutte le
energie intatte. Non riscriverà
quelle stesse cose, che è impossibile; forse un racconto, sì, ma
non certamente un romanzo.
Però ha tutte le sue potenzialità
intatte. Ed è tutta una storia
più scanzonata. Lui, lì per lì, ci
rimane malissimo, ma quando
ne scrive non tanto tempo dopo,
relativizza la cosa e sembra che
quelli che ci sono rimasti peggio
siano la moglie o il tizio che gli
ha pubblicato il racconto. Perché
è Hemingway: delle otto è sicu-
ramente la storia meno tragica. E
che ha dei tratti anche un po’ di
commedia.
Questi otto libri vengono fuori da
altrettante trasmissioni radiofoniche, che hai fatto facendoti
accompagnare da amici ed esperti.
Forse una cosa interessante da fare
sarebbe dare un seguito a questa
ricerca, magari con un blog o un
sito attraverso il quale catturare
altre storie di libri perduti.
Sì, sarebbe bello. È un po’ come
quando ho scritto “Il mio nome
a memoria”: molte persone che
lo leggevano, mi hanno scritto
dicendo che anche loro avrebbero voluto raccontare la storia
della loro famiglia. Mi piacerebbe
raccogliere altre storie di libri
veramente perduti, non libri
dimenticati o non scritti. Poi c’è
lo sconfinato campo dell’antichità che io ho escluso da questo
mio lavoro perché ovviamente la
perdita perché è talmente enorme. In questo caso, al contrario,
sarebbe bello raccontare come a
volte i libri sono sopravvissuti. È
stato scritto un bellissimo libro
su come è sopravvissuto il “De
Rerum Natura”.
Dei tuoi accompagnatori chi ti ha
divertito di più?
I differenti approcci, in certi casi
stilistici, fra un capitolo e l’altro
nascono anche dall’interlocutore
e dalla tipologia molto diversa del
loro approccio. Penso a Buffoni
su Byron che ha un eloquio che
sembra già scritto mentre siamo
in radio, o ad uno stile spumeggiante come Serena Vitale che
continuamente ti porta da un’altra parte e tu devi continuamente
riportarla in un solco minimamente ordinato della storia. Forse
di tutti questi quello che mi ha
regalato l’aggiunta più straordinaria a quello che avevo in
qualche modo già ricostruito io,
è stato Francesco Cataluccio con
la storia dell’impossibile recupero, attraverso il KGB in dissoluzione, dell’originale del “Messia”
di Schulz. È una storia bellissima
che io del tutto ignoravo. Mentre
gli altri, o perché ne avevano già
scritto o perché in fondo mi hanno accompagnato in un percorso
che già conoscevo, ognuno dato
una intensità emotiva alla storia,
perché ciascuno di loro aveva un
rapporto veramente personale
con il libro e con l’autore. E questo, secondo me, nella trasmissione si avvertiva chiaramente
riunione
di
famiglia
2
APRILE
2016
pag. 4
Le Sorelle Marx
Non c’è verso, li fanno con lo stampino al Governo. Hanno tre o quattro
cliché da seguire e, che si parli della
pace nel mondo o della sagra delle
ficattole, sempre quelle devono usare.
Così è capitato di recente presso
l’Agenzia Spaziale Italiana (collocata in un paesaggio, per l’appunto,
lunare a Tor Vergata nell’estrema
periferia romana, terre che furon
calcate dai Papa Boys di Wojtyla nel
torrido agosto del 2000) di sentire
il sottosegretario allo Sviluppo Economico Antonello Giacomelli, già
anchorman di Canale 10, snocciolarne una serie.
1. Parlando del ritardo dell’Italia
sul digitale e nuove tecnologie, parte
l’immancabile metafora calcistica:
“Noi in UE siamo in zona retrocessione. Al 2020 il nostro obiettivo è
quello di stare in zona Champion
League”. Evvai!
2. Bisogna fare squadra: “Occorre
recuperare uno sguardo di Sistema
Paese”. Non c’è dubbio, è imperativo!
3. L’eccellenza, ça va sans dire:
“Scommettiamo su progetti d’eccellenza come questo. Il Governo vi
è vicino”. Certo, ma come è noto,
Spazio chiama Terra
Vicino non fa provincia.
E poi giù ettolitri di retorica sulla
mancanza di visione sistemica del
Paese in contrasto con una certa vocazione individualistica dell’Italia.
Ora, la critica all’individualismo
pronunciata da uno che sta nel governo di Renzi, non è tanto credibile, ma sia pure! Ma si può lamentare
queste cose, dimenticando da dove
si parla? Siete lì, e Giacomelli anche
da parecchio, dunque fate. O no?
Bobo
Lo Zio di Trotzky
La soluzione maremmana
Evento internazionale a Firenze il
prossimo 8 aprile con dialogo fra
Olivier Roy, intellettuale raffinato
esperto di Islam, e l’on. Andrea
Manciulli, politico di razza, cui
l’Italia delega le relazioni con la
Nato e autore del rapporto Nato
sul terrorismo jiadista. Siamo in
grado di anticipare, per i lettori di
Cultura Commestibile, gli abstract
degli interventi dei due autorevoli
relatori.
Roy: Ne pas chevaucher le Jihad et
les immigrants. Attaquer l’Etat islamique en Syrie et en Irak va bien,
il peut être utile. Mais je voudrais
poser deux questions. Il manque
une stratégie pour le poste. Qu’estce donc que nous allons Mossoul,
Fallujah? Nous partons? Ils seront de
retour. Nous restons? Bonne chance.
Reste alors le problème de la radicalisation de la jeunesse.
Manciulli: Oui, égalité, fraternité, … mais une scie (francesismo
per dire, una sega deh, ndr). Et
surtout... le jambon. Si perchè, caro
il mio Oliviero, io una strategia
per distruggere una volta per tutte
questi barbuti jiahdisti ce l’avrei.
Utilizziamo le forze Nato. Piazziamo una decina di incrociatori
davanti alla Libia e incominciamo
a bombardarli con mortadelle e
prosciutti di maiali di Parma, e poi
vorresti vedere che stanno più calmini! Poi facciamo preparare alla Festa
dell’Unità di Piombino qualche
quintale di pappardelle al cinghiale,
le carichiamo sui bombardieri a
Pisa e andiamo a spiaccicargliele
tutte sulla Siria che così non si rialzano più e gli infestiamo il terreno
a questi islamisti de mes boules. Poi
facciamo alzare in volo uno stormo
di aerei agricoli da Grosseto e irroriamo tutto l’Iraq con il fattore Rosso, cioè qualche damigiana di Rosso
di Montalcino. Infine si fa partire la
squadriglia di caccia dalla base di
Grosseto e mitragliamo tutta la zona
con delle salsiccine di cinghiale belle
tirate che sono un bijoux. Fra maiale, cinghiali e alcool bonifichiamo
tutto il Medio Oriente! Altro che
Calderoli con il maiale al guinzaglio! Noi, caro Oliviero, si fa le cose
industriali! Comprenez-vous?
I Cugini Engels
Egemonia
“Istruitevi perché avremo bisogno di tutta
la vostra intelligenza” recitava l’Ordine
Nuovo gramsciano, probabilmente una
delle poche eredità rimaste del segretario
martire nel nuovo PD dell’era Renzi,
che sforna scuole di formazione, anche se
per ora son passate più alla cronaca per
i mormorii al togliersi della giacca della
ministra Boschi che per le riflessioni di alta
politica; ma si sa che la formazione è un
percorso lungo. Dunque nemmeno il PD
fiorentino poteva rimanere senza la sua
scuola di formazione politica; 5 appuntamenti dai titoli impegnativi: etica dei beni
comuni, col sindaco Nardella, Gramsci,
La Pira, la storia della Costituzione e i
suoi valori di “sinistra”. Quello che però
colpisce, per tornare a Gramsci, leggendo
il volantino è l’egemonia culturale che
traspare in questa scuola. Né ex PCI né ex
DC sono questa volta a farla da padrone
ma niente-popò-di-meno-che il nostro
Eugenio Giani. Come altro leggere, se non
come egemonia gianiana, quel “con buffet”
che accompagna le iniziative su Gramsci
e La Pira? Una conquista delle casematte
del Partito, la tartina come sovrastruttura
che determina la struttura politica della federazione fiorentina; la lodevole iniziativa
come parola d’ordine dell’alleanza tra ceti
produttivi. Tutti bardati di fascia, i democratici fiorentini, verso il sol dell’avvenire.
Le avventure di Nardellik
“Ragazzi allora si fa come dico io. Facciamo un po’ di teatro e ci divertiamo. A
questi fiorentini bisogna pigliargli un po’ pe’ i culo altrimenti un mi diverto più. A
Roma son tutti a rompere le palle: Matteo stai attento qui, Matteo non fare questa.
Matteo ma come si fa con la Merkel? E con i Marò? Ora vi faccio vedere come si
fa a divertirci” Questo era il tono della riunione segreta che si stava svolgendo nel
palazzo del Governo di Sottofaesulum. E il Servitor Cortese era preoccupato. Quando Leader Minimum era di “ruzzo bono” poteva succedere di tutto. E infatti ecco
che dopo alcune pacche sulle spalle il Leader Minimum disse:” Ovvia due tunnel
son troppi. Un ti sembra Dariuccio? Te quale tu vorresti fare? Quello della Tav o
quello della Tranvia sotto il centro?”. Il Servitor Cortese fu preso alla sprovvista ma
un minimo di raziocinio prevaleva ancora e disse:” O Matteuccio per la Tav e s’è
belle speso 300 milioni di euro e per quello di’ tram nemmeno uno. E poi quello di’
tram passa proprio, ma proprio sotto il centro storico. Facciamo la Tav e facciamo
passare i tram sui viali che si risparmia un monte di soldi”. A queste parole il
Leader Minimum guardò con sguardo tagliente il Servitor Cortese e disse:” Lo
sapevo che potevo contare su di te. Allora basta Tav e avanti con i’ tunnel di’ tram.”
La riunione si concluse con il Servitor Cortese accasciato sulla sedia di pelle della
stanza di Clemente VII. Come avrebbe fatto a fare il Sindaco di Sottofaesulum con
i cantieri del tunnel del tram in piazza della Repubblica? Gli toccava a togliere
tutti i suoi amati Dehors. Per fortuna passava nei paraggi Nardellik. Che trovò la
soluzione. “Alla stampa diciamo che per ora non si fa niente ma si studia tutto sia
la Tav sia il Tram. E magari anche che è meglio lo Stadio a Campo di Marte invece
che alla Mercafir, e che per l’aeroporto se ne riparla fra poco.” Insomma prendiamo
tempo tanto fra qualche giorno il Leader Minimum si scorda di tutto. Vi ricordate
di quando voleva spostare la stazione della Tav sotto il viale Strozzi?”. Il Servitor
Cortese si sentì un poco sollevato. Ma non tanto. In fondo era lui il sindaco della
città di Sottofaesulum. E anche se prendeva ordini dal Leader Minimum la faccia
era la sua. E questa vicenda non la poteva risolvere con una sviolinata.
2
APRILE
2016
pag. 5
Danilo Cecchi
[email protected]
di
N
el giorno di Natale del
2015 muore a Tenerife,
in un incidente stradale,
il fotografo belga Marc Lagrange (1957-2015). Lagrange
appartiene a quella categoria
di fotografi che colpiscono da
sempre l’immaginario collettivo, un po’ come Helmut
Newton, Patrick Demarchelier,
Steven Meisel o Peter Lindbergh, per non citare che i
più noti, e che rappresentano
un’idea di fotografo molto
invidiata, ambita e desiderata, specialmente da parte dei
giovani aspiranti professionisti
del settore. Sono tutti fotografi
che, come Lagrange, si muovono in un mondo dorato, in
ambienti raffinati ed alla moda,
circondati da belle donne, abiti
eleganti, automobili di lusso,
personaggi noti e potenti. Un
mondo che i fotografi nelle
loro immagini si preoccupano di raffigurare in maniera
niente affatto realista o peggio
ancora critica, ma al contrario,
in maniera adulatoria, celebrativa, esaltante. Un mondo
di cui forniscono una versione
addirittura falsata ed esagerata, popolandolo di creature
femminili sempre eleganti,
distinte e provocanti, maliziose
ed ammiccanti, seducenti ed
un poco ambigue, abbigliate
con cura, ma più spesso nude o
seminude, collocate in ambienti accuratamente costruiti
ed arredati e sapientemente
illuminati. Fotografie che assomigliano più al cinema che alla
fotografia, realizzate grazie ad
una folta équipe di truccatori,
parrucchieri, sarti, scenografi,
elettricisti ed assistenti, fotografie che mischiano moda e
glamour, fashion e pubblicità,
ma che hanno come comune
denominatore l’erotismo, un
erotismo diffuso e palpabile,
sempre presente, sia che si parli
di scarpe o abiti, occhiali o
gioielli, automobili o profumi.
Le donne di Lagrange hanno
un doppio ruolo, quello di manichini perfettamente costruiti
ed addobbati, ma altrettanto
perfettamente statici ed enigmatici, senza tempo né età, e
quello di femmine fatali, protagoniste disinibite, seduttrici
Omaggio a
Marc Lagrange
e seduttive, apparentemente
distanti e disinteressate, ma allo
stesso tempo evocative e prevaricatrici. Dietro ogni immagine
di Lagrange si intravede una
storia, talvolta improbabile, ma
perfettamente costruita, come
i personaggi che la interpretano, una storia che evoca sogni,
situazioni, fantasie un poco
surreali ed un poco morbose,
giocate sull’equilibrio fra la
sublimazione del reale ed il
concretizzarsi dell’immaginario. Al di là dello sfruttamento
commerciale dell’immagine,
quello evocato da Lagrange è
un universo immaginario, criticabile o desiderabile, secondo i
punti di vista, ma coerente con
se stesso, con la propria logica,
un universo in cui le cose appaiono non come sono, ma come
si vorrebbe che fossero, come
molti desidererebbero che
fossero. Del resto, le fotografie false sono più convincenti
di quelle vere, perché sono
preparate con cura, in ogni
minimo dettaglio, dall’inquadratura al contrasto, fino alle
luci ed alle ombre, proprio
perché sembrino vere, o per lo
meno verosimili. Al di là degli
incarichi professionali, Lagrange alimenta la propria immagine ed il proprio mito con una
serie di mostre-evento che si
concludono con la pubblicazione di splendidi, sofisticati e
preziosi fotolibri, spesso tirati
in edizioni speciali o in pochi
esemplari destinati ai collezionisti. Ricordiamo“Chateau
Lagrange”del 2006, “Lust”
del 2008, “XXML” del 2011,
riproposto anche nel formato
70x100cm, “Diamonds and
Pearls” del 2013 ed “Hotel Maritime - Room 58” del 2014,
per terminare con “Senza parole” nel 2015, con immagini
realizzate anche a Pietrasanta,
e riproposto in una edizione di
soli 25 esemplari firmati. Abile
regista delle proprie immagini,
abile manipolatore e venditore
della propria immagine, perfezionista fino all’estremo, ricco
di idee e di immaginazione,
Lagrange termina bruscamente
la propria attività prima di arrivare a sessant’anni, lasciando
il mondo, e non solo il “suo”
mondo, privo della sua inesauribile creatività.
2
APRILE
2016
pag. 6
Laura Monaldi
[email protected]
di
I
ntorno agli anni Ottanta
del Novecento l’estetica
subì un cambiamento di
rotta epocale. La tendenza reattiva della neoavanguardia e dello
sperimentalismo permase e si
diresse contro l’esasperata astrazione intellettiva della pittura
concettuale. Achille Bonito Oliva giunse alla constatazione che
l’arte stava tornando alla manualità, alla gioia del colore e della
tecnica pittorica, ossia alla riscoperta delle radici dell’arte: «La
transavanguardia ha risposto in
termini contestuali alla catastrofe
generalizzata della storia e della
cultura, aprendosi verso una
posizione di superamento del
puro materialismo di tecniche
e nuovi materiali e approdando
al recupero dell’inattualità della
pittura, intesa come capacità di
restituire al processo creativo il
carattere di un intenso erotismo,
lo spessore di un’immagine che
non si priva del piacere della
rappresentazione e della narrazione». Nelle opere degli artisti
che parteciparono alla sezione
‘Aperto 80’ della Biennale di
Venezia del 1980, si avvertì la
completa simbiosi fra l’emotività
e una nuova visione surreale
della fantasia, fra la totale libertà
espressiva e la realizzazione di
immagini fantastiche che tentarono di interpretare il tempo e la
storia dell’uomo in un panorama
universale ed esistenziale. Si
trattò di un linguaggio intenso,
forte e innovativo, graffiante per
la resa del colore e per la purezza
delle forme.
Sandro Chia si esprime con colori accesi, recuperando i principi
fondanti della pittura come il
tono, il volume e la figurazione colta e ricca degli echi del
passato letterario, filosofico e
artistico. Enzo Cucchi recupera i
mezzi espressivi con installazioni
di materiali diversi che hanno
alla loro base la pittura in tutta
la sua energia ed evidenziando
le possibilità formali della luce
nella creazione della profondità
spaziale. Mimmo Paladino utilizza il colore in senso materico ed
espressivo, insieme alla figurazione come linguaggio caratterizzato da un forte valore timbrico e
allo spazio che si caratterizza per
una netta impostazione relativa.
La transavanguardia è stata la
rivincita dell’autenticità del linguaggio pittorico; ha rappresentato il successo del soggettivismo
e il comune denominatore che
ha saputo legare in modo inedito
tradizione e attualità. La nuova
forma di rappresentazione ha
veicolato la rinascita dell’anima
umana, passionale e sensibile,
dentro la dimensione di un’estetica che mette in primo piano
l’uomo prima della società. Un
pragmatismo narrativo che rivendica lo spazio istintuale della
creazione e dell’ispirazione creatrice, lontana dalla militanza e
aderente alla pittura come prima
forma di espressione pura.
Transavanguardia
Sopra a sinistra Mimmo Paladino, Brindisi
d’eroe, 1985, a destra Enzo Cucchi Senza
titolo, 1989. Sotto a sinistra Mimmo Paladino
Improvvisamente ansioso, 1989, a destra
Sandro Chia, Senza titolo, 1989
Courtesy Collezione Carlo Palli, Prato
2
APRILE
2016
pag. 7
Alessandro Michelucci
[email protected]
di
D
iversi musicisti, pur rimanendo fortemente legati
alla terra d’origine, concepiscono questa appartenenza come
parte di un legame geografico più
ampio. Pensiamo alla valenciana
Mara Aranda, che con le sue musiche abbraccia tutto il Mediterraneo, oppure al danese Kristian
Blak, che vive sulle isole Faroe
ma spazia in tutta l’area nordica,
dall’Estonia alla Groenlandia.
Qualcosa di molto simile accade in
molte aree extraeuropee: America
“latina”, Polinesia, Asia orientale...
È proprio da quest’ultima regione
che viene Jen Shyu, cantante-polistrumentista nata a Peoria (Illinois)
da padre taiwanese e madre
timorese. Pur essendo cresciuta
nel luogo d’origine, Jen ha vissuto
a lungo in alcuni paesi asiatici,
approfondendo la conoscenza del
loro patrimonio musicale e letterario. Generalmente considerata
una jazzista, in realtà propone una
musica difficilmente etichettabile
nella quale le influenze asiatiche
si fondono con influenze jazz e
contemporanee.
Jen Shyu è un’artista versatile e
creativa, sempre in movimento.
Michele Morrocchi
twitter @michemorr
di
La provvidenza rossa è come
un universo parallelo che si
srotola nella Milano del 1977,
un universo in cui al normale
vivere della città si contrappone,
parallelamente convergente, un
mondo regolato dai riti del Partito
Comunista Italiano. Uno Stato
nello Stato che replica le strutture
della società borghese nei suoi pregi e nei suoi vizi. Questo mondo
parallelo è il principale pregio di
“la provvidenza rossa”, giallo di
esordio di Lodovico Festa, che fu
comunista milanese negli anni
narrati nel libro. Un libro in cui
il noir serve da alibi alla narrazione della vita comunista, dove
la pervasività del mondo rosso
si snoda tra personaggi al massimo bidimensionali che in realtà
sono spesso solo maschere delle
loro organizzazioni siano esse il
Partito, la Lega delle Cooperative,
il Sindacato (ovviamente la CGIL)
o l’Arci. Un mondo non autosufficiente ma che dalla società
borghese trae più che donare; un
mondo capace di regolarsi da solo,
ha sviluppato un
linguaggio espressivo più personale,
come conferma The
Imagined Savior is
Far Easier to Paint
(Blue Note, 2014).
L’altro è il violista
Mat Maneri, che
vanta collaborazioni
con i musicisti più
diversi, fra i quali il
pianista romeno Lucian Ban, insieme al
quale ha realizzato
il pregevole Transylvanian Concert
(ECM, 2013).
Nel CD in questione, interamente
composto da Jen Shyu, confluiscono stimoli culturali e spirituali che
spaziano dalla Corea all’Indonesia,
da Taiwan a Timor Est. La maggior parte delle dieci composizioni
è stata concepita durante il primo
viaggio sull’isola che la musicista
ha compiuto nel 2010.
Il disco contiene numerosi riferimenti alla tragica storia dell’isola,
invasa dall’Indonesia nel 1975 e
liberata soltanto nel 1999.
Il testo dell’iniziale “Song of Kwan
Wen” si ispira all’opera della
scrittrice timorese Kiki Ze Lara.
La commovente “Rai Nakukun Ba
Dadauk Ona” è tratta da una poesia di Naldo Rei, scrittore timorese
nato sei mesi prima dell’invasione
e quindi testimone diretto delle
atrocità compiute dal potere indonesiano. Attivamente impegnato
nella resistenza, Rei ha raccontato
la propria esperienza nel libro
Resistance: A Childhood Fighting for
East Timor (University of Queensland Press, 2007). A lui è dedicata
“Song for Naldo”, uno dei brani
più drammatici del disco, segnato
da una forte tensione vocale.
Sounds and Cries of the World
richiede un ascolto attento. Certi
momenti sono ostici e altri sconfinano addirittura nella cacofonia
(“Bloom’s Mouth Rushed In”),
seppure temperata dall’intreccio di
grazia e tensione drammatica che
caratterizza l’artista asiatica.
La varietà culturale che anima il
disco trova riscontro negli strumenti suonati dalla protagonista:
oltre al piano, l’artista sino-timorese è impegnata fra l’altro al
gayageum (cetra coreana a dodici
corde) e al gat kim (liuto taiwanese
a due corde). Come se questo non
bastasse, anche nelle cinque lingue
utilizzate: bahasa indonesia, coreano, giavanese, inglese e tetum, la
lingua autoctona di Timor Est.
e personalistico della politica
dei leader. Invece nella Milano
rossa di festa, il protagonista è
il collettivo, pur se l’autore ci fa
intravedere il futuro (non radioso)
che si avvicina: quella Milano da
bere, che sta appena scaldando i
motori. Una Milano che è l’altra
grande protagonista. Una città
raccontata con amore, seppure di
una città che non
c’è più si tratti. La
consolante Milano
borghese, le cui
architetture sono
raccontate con più
dettagli dei protagonisti, persino quando
le architetture sono
quelle razionaliste del
ventennio. Una Milano che si ricostruisce
e si riscatta nell’azione
del Partito e nelle sue
architetture non ancora
appannaggio di archistar, una
Milano in cui noi contemporanei
forse fatichiamo a immaginare
quanto abbia contato la sinistra
(non solo comunista) e quanto
popolo riuscisse a organizzare
intorno a sé. Festa scrive questo libro con l’affetto della sua
giovinezza alla quale concede però
una lingua troppo da relazione
al comitato centrale, soprattutto
nei dialoghi, e che lo costringe a
una nota finale ed a un artificio
narrativo di cui non si sentiva il
bisogno. Ma il pregio del realismo
della vita e delle prassi comuniste
ripagano ampliamente il lettore,
soprattutto quello che seppur in
un’altra epoca molto successiva
e in altri contesti, si è trovato ad
essere “l’uomo della federazione”
o ad aver comunque vissuto all’interno del vasto mondo comunista
e post comunista italiano. Altro
grande pregio del libro è che
l’autore non riversa nella storia
il proprio giudizio sul PCI, un
giudizio che lo porterà ad altri lidi
e alla vicedirezione de il Foglio,
ma anzi pare riacquistare il fuoco
della passata militanza, soprattutto
quella amendoliana, conservando
per ingraiani e berlingueriani (ma
anche per il migliorista Napolitano) le frecciate più acute.
Riflessi
asiatici
Diplomata in danza e violino, suona il piano e molti altri strumenti;
collabora con jazzisti innovativi
come Anthony Braxton e Steve
Coleman; realizza il monologo
Solo Rites: Seven Breaths, diretto
dal regista indonesiano Garin
Nugroho; cura una stimolante
produzione solistica. Il suo lavoro
più recente è Sounds and Cries of
the World (Pi Recordings, 2015).
Nel gruppo che l’affianca, Jade
Tongue, spiccano due solisti
americani di rilievo. Uno è il
trombettista Ambrose Akinmusire,
che ha suonato con jazzisti quali
Joe Henderson e Joshua Redman.
Inizialmente influenzato da Miles
Davis, nei suoi dischi come titolare
La Milano
dei Rossi
quasi soffocante per i suoi iscritti
che trovano in esso tutto, lavoro,
divertimenti, famiglie, amori;
seppure nella variante meneghina
non arrivi ai tratti dominanti del comunismo emiliano. Mondi
raccontati sinora o da
storie sociali, come il
magnifico “Maison
Rouges” di Marc
Lazar, o dal sarcasmo
musicale di pezzi
come “Robespierre”
degli Offlaga Disco
Pax. Quello di
Festa è invece un
libro, un romanzo,
che ci riporta in
un mondo che non c’è più
ma che conserva traccia di sé nei
profili degli ex militanti rossi, e
in alcune prassi politiche che ci
appaiono oggi tristemente ininfluenti nel mainstream populista
2
APRILE
2016
pag. 8
Andrea Caneschi
[email protected]
di
A
rriviamo ad Hanoi in
perfetto orario. L’aeroporto è moderno e funzionale:
scorriamo rapidamente verso il
controllo passaporti, il recupero bagagli e l’uscita, dove è
ad attenderci la nostra guida e
un pulmino che sarà la nostra
casa per molte ore ogni giorno.
Il sole, che aspettavamo come
corollario obbligato di questa
vacanza tra tropico ed equatore,
è coperto da una nuvolaglia
alta, fatta di umido e polvere; si
affaccerà a tratti e ci farà sentire
calorosamente la sua presenza,
ma per adesso dobbiamo farne
a meno. Ci immettiamo nel
traffico più caotico che ci sia
mai capitato di incontrare, un
flusso ininterrotto di macchine
e soprattutto scooter, in numero
infinito, con uno, due, o più
passeggeri, che si insinuano in
ogni varco, rispettando appena
i semafori ai grandi incroci che
attraversiamo verso la città. Dal
pulmino, sotto i grandi cavalcavia intasati di traffico, ci colpisce
l’immagine di grandi spazi
curati con aiole perfettamente
segnate da piccole siepi geometriche e abbellite da isole alberate e fiorite. Accanto a gruppi di
biciclette raccolte ordinatamente
da una parte, altrettanti cappelli di paglia conici sul capo di
donne intente a strappare con
cura le foglie che turbano la
simmetria dei disegni, a ripulire
e pareggiare il prato, a preparare
altri spazi verdi, o semplicemente sedute a chiacchierare
in una pausa del lavoro, ma
con tranquillità e tempi lenti,
curiosamente in contrasto con il
flusso caotico del traffico che le
circonda, tenuto lontano dalla
precisione del disegno verde
intorno allo spazio che stanno
curando. La città è un casino
gigantesco, scooter dappertutto in un fluire continuo del
tutto alieno da regole che noi
possiamo riconoscere, che si
distribuisce lungo strade invase
da pedoni altrettanto indisciplinati. Ci accorgeremo presto che
non c’è tuttavia possibilità per
qualunque disciplina che non
sia l’abilità di percorrere gli spazi
che si liberano tra i motorini che
salgono a parcheggiare vicino
alle case e le merci e le persone
e le cose che dalle botteghe si
Good morning
Vietnam
rovesciano sulla strada. Dovunque rumore e movimento, non
frenetico ma continuo, confuso,
soverchiante. A tratti, in punti
di
Remo Fattorini
Segnali
di fumo
Li rimandiamo a casa o ce li teniamo? Conviene tenerseli. Tutti
quanti. A dirlo è un rapporto del
Ministero dell’Economia che si è
preso la briga di fare due conti.
Partiamo dagli ingressi. Tra il
2014 e il 2015 l’emergenza umanitaria in Nord Africa ha spinto
170mila persone a sbarcare in
Italia. Mentre l’anno scorso sono
stati 153.842 i migranti arrivati
via mare. Una conferma del fatto
che le migrazioni sono un tema,
stando così le cose in questo
mondo, inevitabile. Un dramma
da affrontare con civiltà e buon
senso: controlli, sicurezza ma anche umanità e solidarietà. Donne,
strategici, altoparlanti innalzati
su pali avvolti di fili elettrici
come ragnatele abbandonate da
ragni giganteschi, fuggiti in cer-
ca di tranquillità, emettono una
voce acuta e frastornante; la voce
del partito, forse, o una pubblicità ossessiva di chi sa cosa: ci
dimentichiamo di chiedere lumi
alla nostra guida e non sapremo
mai se e chi potrà trarre qualche
vantaggio da quella rumorosa
coda sonora che ci portiamo
dietro, lungo la strada, fino al
palo successivo. Viene a mente,
a noi digiuni di estremo oriente,
appena arrivati in questo affascinante universo, il Blade Runner
dirupato, caotico e cacofonico:
un futuro improvvisamente
molto vicino che solo la calda
luce solare del nostro primo
pomeriggio a piedi nel centro
di Hanoi riesce ad illuminare,
avvicinandoci ad un popolo che
ci sembra cortese, sereno, rispettoso. Persino il rumore delle
migliaia di clacson, continuamente impegnati a salutarsi a
vicenda, ci appare adesso meno
arrembante; cominciamo a riconoscere confusamente l’esistenza
di una segnaletica penetrante ma
non aggressiva, che non minaccia, come a casa nostra, ma solo
avverte: ci sono anch’io e vedo
che ci sei, vediamo come fare…
Perfino ci azzardiamo, ancora
con tanta paura, a gettarci nel
traffico per attraversare la strada:
qualcuno si ferma, qualcuno no,
nessuno ci insulta o ci maltratta,
si sta stretti, ma c’è spazio per
tutti.
uomini e bambini sono ospitati
nelle strutture di accoglienza, altri
in quelle temporanee.
Quanto ci costano. Nel 2015 ci
dice il Ministero dell’Economia e
delle Finanze abbiamo speso 3,3
miliardi di euro (al netto dei contributi europei). Più del doppio
rispetto ai due anni precedenti.
Triplicati rispetto all’anno scorso.
Contributi versati dagli immigrati. Nel 2014 gli extracomunitari hanno finanziato le casse
dell’Inps per 8 miliardi di euro. E
hanno incassato pensioni solo per
642 milioni e aiuti non pensionistici per 2,4 miliardi. Presto
detto: c’è un saldo positivo di circa 5 miliardi. Con queste risorse
versate dagli immigrati (al netto
delle spese sostenute) l’Inps ha
pagato la pensione a 600mila italiani. Un piccolo aiuto alla tenuta
del nostro sistema pensionistico.
Più o meno accade anche con
l’irpef e l’Iva. Visto che nel 2014
i contribuenti extracomunitari
hanno dichiarato redditi per
45,6 miliardi, versando nelle
casse dello Stato 6,8 miliardi.
Accade altrettanto anche per
le 525mila imprese gestite da
lavoratori immigrati con i versamenti Iva.
A coloro che urlano tanto e in
continuazione, alimentando la
paura verso una tragedia come
quella dell’immigrazione, consiglierei prima di urlare di contare
fino a dieci. Si accorgerebbero
che il problema, certo serio e
grande, potrebbe essere gestito –
naturalmente in una dimensione
europea e con politiche diverse.
Evitando così sofferenze al limite
dell’umano alle migliaia di persone costrette, per sopravvivere,
a fuggire dal loro Paese. Ottenendo, al tempo stesso, qualche
piccolo vantaggio per tutti.
2
APRILE
2016
pag. 9
di
Marina Carmignani
L
a nostra epoca ha espresso,
come non mai, nell’ambito
dei linguaggi visivi un’apertura verso forme decorative e
materiali diversi da quelli tradizionali, e ha aumentato il valore della
libertà inventiva . Un percorso che
ha interessato a partire dagli inizi
del XX secolo non solo per l’Arte
ma anche il Design e in generale qualunque attività creativa.
Le sperimentazioni costanti, le
nuove modalità esecutive hanno
trasformato il concetto stesso
di arte includendo molti degli
oggetti e degli strumenti di cui
l’attuale civiltà si avvale nelle sue
diverse manifestazioni. È stato
prelevato dal mondo della vita
ogni tipo di materiale nella pittura, nella scultura, come nel design
o nella moda con un progressivo
accelerarsi dalle prime affermazioni futuriste ‘Noi spalancheremo le
porte alle carte al cartone, al vetro,
alla stagnola, all’alluminio, alle
maioliche, al caucciù, alla pelle
di pesce, alla tela da imballaggio,
alla stoppa alla canapa ai gas,
alle piante fresche e agli animali
viventi’. Gli esiti di questo atteggiamento, maturato nell’ambito
delle avanguardie storiche, si sono
mostrati illimitati ed in grado di
assumere di volta in volta significati diversi, che soprattutto dagli
anni ’60 in poi hanno di gran
lunga superato l’intenzione di una
prima protesta contro le modalità artistiche convenzionali. È a
partire da queste considerazioni
che si deve oggi leggere il lavoro
di tanti artisti/designers della
nostra contemporaneità e delle
scelte compiute come riflessi del
mondo in cui si vive, si produce,
si consuma. Ed è in quest’ambito
che si colloca il lavoro d Edoardo Malagigi, artista/designer,
professore emerito all’Accademia
di Belle Arti di Firenze, grazie a
questo, sempre a contatto con le
nuove generazioni, spesso parti
attive dei suoi progetti. Progetti
che lo hanno visto lavorare con i
materiali più vari, dal pane al riso
e tanti altri alimenti (installazioni
commestibili), dalla carta al legno
(mobili per l’infanzia), fino alle
più recenti esperienze con cartoni
per bevande in poliaccoppiato
(generalmento noto come tetrapak). Su questo è stato tenuto un
Workshop presso l’Akademia fur
Gestaltung di Munster, e Edoardo
L’arte
in tetrapak
di Malagigi
Malagigi era uno dei tanti professionisti provenienti da vari centri
europei che hanno sperimentato
con materiali come carta, bambù,
cemento, ferro, legno, tessuti e
fotografie, la possibilità di farne
oggetti d’arte e di design. È bene
riflettere su queste esperienze a
cui non solo l’Europa è attenta.
Edoardro Malagigi infatti è stato
invitato a tenere un workshop
a Pechino dove di nuovo gli
studenti si presenteranno con il
tetrapak recuperato dai molteplici
usi quotidiani e provvisti di forbici
e taglierini, righelli e matite, affronteranno il materiale verificandone le possibilità di riutilizzo,
ma anche di espressioni creative
individuali. Alle forme bizzarre
dei piatti realizzati a Munster, alla
cassetta per la frutta, ai corpi di
burattini danzanti o all’istallazione
di due metri di diametro a forma
di spirale, se ne aggiungeranno
altre che i nuovi studenti ricaveranno una volta entrati in contatto
con il materiale, dopo averne
valutato la consistenza, la varietà
cromatica, la flessibilità o la rigidità necessarie per esprimere una
loro idea. Ecco che si fanno chiare
le molteplici intenzioni di questo
operare : il concetto fondamentale
del riutilizzo, filo conduttore per
Edoardo Malagigi di molti suoi
interventi intesi come momento
di riflessione su temi cogenti delle
nostra società, la produzione, il
consumo, il riciclo, ecosostenibilità, ecocompatibilità. Temi su cui
si vogliono sensibilizzare, educare le nuove generazioni spesso
distratte su prolemi di così ampio
respiro. Ma questa sensibilizzazione deve avvenire all’interno
di un’esperienza personale che
affianchi alla consapevolezza la
capacità di trasformarla attraverso
la creatività individuale. I giovani
sono chiamati cioè a dare ‘risposte
creative ai problemi’ senza dimenticare le conoscenze tecniche, un
saper fare che permetta loro di
inserirsi nel mondo del lavoro e
di porsi in modo progettuale di
fronte alle richieste delle imprese.
Ultimo, ma non meno significativo aspetto del lavoro di Edoardo
Malagigi, è quello di raggiungere
questi obbiettivi con un grande
senso di leggerezza, un giocare con
l’arte, intendendo il gioco nella
sua accezione più alta, un lavorare
insieme, individuale o collettivo,
sempre caratterizzato da libertà e
consapevolezza.
2
APRILE
2016
pag. 10
Cristina Pucci
[email protected]
di
P
er sapere che fine avesse fatto una conoscenza
facebook sparita, ne chiedo
notizie ad una comune amica,
sempre facebook, ed è così che
conosco una persona davvero
speciale. Prima di tutto perché è
una donna dolce, gentilissima e
curiosa e poi perché è un’artista
che costruisce oggetti del tutto
particolari e crea, non disegna
badate bene, accessori di moda,
unici e bellissimi. Osservando la
mia bacheca apprezza che sappia
fare l’uncinetto e mi rivela che è
anche con questo antico strumento che costruisce le sue opere,
fantastici gioielli tessili, borse
e cappelli, non solo, ma anche
installazioni, piccole sculture ed
oggetti d’arte, in cui sempre e comunque entra qualcosa di tessile.
Nel conoscersi, via chat, scopro
che è nipote di Aldo Fabrizi, figlia
della di lui figlia, il nome Cielo
è proprio a questo nonno, pare
poco aderente al ruolo e di tipologia ingombrante, che lo deve. È
cresciuta in una famiglia dove la
creatività era di casa, la nonna era
stata cantante, il nonno paterno
fu un famoso sarto per divi di
Hollywood e non solo... Fu la
mia bisnonna paterna,contadina
romagnola, ad insegnarmi a lavorare all’uncinetto quando avevo 7
anni. È morta che ne avevo 22 e i
momenti passati con lei a scrutare
pezzetti di stoffa recuperati ed
imbastiti per farne qualcos’altro o
studiare punti e trame dal sapore
sontuoso e poverello sono stati
molto importanti per la mia formazione. È da lei che ha ereditato
un patrimonio ...in uncinetti,
contenuti in antichi e chicchissimi
astucci di pelle allungati. Dopo
il Liceo Artistico e l’Università,
Storia dell’Arte e del Teatro, ha
seguito corsi di incisione, stampa
e anche di clown e maschera
neutra. Ha curato per molti anni
l’archivio storico del nonno e
l’associazione culturale ad esso
collegata, gli ha dedicato una
conferenza spettacolo che lo raccontava e ricostruiva la complessità della sua essenza di comico e
di persona, poi ha lasciato Roma
e si è trasferita a Los Angeles
dove essere artista pare molto più
facile. In cinque anni di America
ha fatto più mostre che nel resto
della sua vita a Roma. Diventata
mamma è rientrata in Italia e si è
Cielo, la nipote di sor Aldo
insediata a Porchiano in Umbria
ed ha aperto lì un laboratorio
atelier degno di corso Garibaldi
a Milano dove continua a creare
e spedire le sue opere nel mondo.
Lido Contemori
[email protected]
di
Il migliore
dei Lidi possibili
La mano dei fatti
separata dalla mano
delle opinioni
Disegno di Lido Contemori
Didascalia di Aldo Frangioni
Cielo dice che ha sempre sentito
come il dovere di portare nella
sua vita le passioni che le sono
state lasciate dai suoi familiari,
che ha sempre avuto un approccio “artigianale” all’arte e le è
sempre piaciuto far sì che il suo
cervello parlasse anche attraverso
il fare con le mani. Negli anni 90
ha iniziato a costruire sculture ed
installazioni e nel ‘92 ha creato il
primo “oggetto indossabile”. Ero
influenzata, avevo appena finito
ed esposto una grossa installazione di terra e ferro arrugginito, ma
ancora si agitava dentro di me
una urgenza di espressione... presi
dei filati e costruii qualcosa di
leggero e piccolo, una forma che
poteva essere un ornamento, ma
che, comunque, per me rappresentava una piccola scultura.
Provai ad avvolgerla attorno al
collo... ed ecco, mi si spalancò
una porta, un mondo affascinante e senza fine, nel quale sguazzo
ancora. Otre le splendide collane,
fra esse una serie detta nuvole in
organza acrilica dipinta, e collari
e pettorine dei più vari materiali,
fogge, colori e dimensioni, scelgo
di mostrarvi,una piccola scultura,
esposta a Pasadena nel 2008 che
si intitola Growing, crescendo,
seta, lino, perle di fiume e ali di
insetto, Cielo, avevo in casa le ali
trovate anni prima in un bosco
e le ho applicate a questa piccola
struttura immaginando una Nike
e al contempo una cornucopia.
Figure vincenti e beneauguranti.
2
APRILE
2016
pag. 11
Mai
Paolo Marini
[email protected]
di
M
i incuriosisce, mi perplime, mi arresta. Il
contatto - profondo,
subliminale -, è già innescato
mentre l’occhio fissa “Jamais”
(maggio 1944, olio su tela, cm
165,2x82, Venezia, Collezione
Peggy Guggenheim, foto di
David Heald), opera esposta
alla mostra “Da Kandinsky
a Pollock” di Palazzo Strozzi,
dell’americano Clyfford Still.
E penso che sono io che ho
deciso di raccogliermi, riflettere,
ascoltare; ma può anche essere
che tutto sia partito da lei, che
mi abbia interrogato, trascinato,
costretto: qui, al suo cospetto.
E’ così che l’arte ci interpella,
talvolta, proponendoci quasi
imperiosamente il suo tormento, la sua magia?
E se anche può apparire ingenuo o disdicevole, posso chiedermi che cosa significa questa
tela grigio-scura, ove campeggia
una figura informe che alla base
fa pensare ad un tronco d’albero
perfettamente annerito e poi
salendo si restringe, si stilizza,
si allunga fino alla testa, fino
a sembrare un serpente la cui
bocca si apra per accingersi a
colpire a morte la sua preda?
‘Jamais’ vuol dire ‘mai’ e la
didascalia redatta dal curatore
Luca Massimo Barbero informa
che “il titolo, tra i pochi dati e
mantenuti da Still, incoraggia
a leggere una figura che grida
la propria disperazione contro
un sole al tramonto, ricordando
anche l’esperienza dell’artista
durante gli anni ’30, quando le
pianure americane del nordovest
vennero colpite dalla siccità e
dalla grande depressione.”
Il pittore è ascritto alla corrente
dell’espressionismo astratto e
la tela mi rimanda nemmeno
troppo lontanamente al più
famoso “Urlo” del norvegese
Munch (chi può escludere che
l’artista non vi si sia ispirato)
ma la forma surreale sembra la
sua cifra caratteristica. Il collo
allungato, come estenuato,
può alludere ad un’esperienza
(appunto) lunga, interminabile,
quale verosimilmente è quella di
una grave sofferenza; d’altronde
sono gli occhi quasi impercettibili e bianchi, le lunghe stille
gialle e una quasi-replica della
parte alta della figura (anch’essa
Grido
d’artista
Jamais
Clyfford Still
(Grandin 1904Baltimora 1980),
maggio 1944, olio
su tela, cm 165,2 x
82, Venezia,
Collezione Peggy
Guggenheim,
76.2553.
Foto di David
Heald © Clyfford
Still, by SIAE 2016
di colore giallo) a costituire i
pochi segni di vivacità: gli occhi
come espressione dell’anima
che soffre e che perciò è a suo
modo (tuttora) viva e reattiva; le
Massimo Cavezzali
[email protected]
di
S
cavez
zacollo
stille che rinviano ad un pianto
diffuso, tutto attorno al protagonista; infine, la ‘controfigura’
mi fa pensare all’incredulità
dell’uomo dinanzi al dolore, per
cui egli verosimilmente si domanda: “E’ tutto vero? Sono io
o è qualcun altro che si ritrova
in questa condizione?”
Nel pantano della disperazione
il grido volge in richiesta di
aiuto/attenzione ma intorno è
un ambiente silente, senza vita
(il colore grigio-scuro e il sole
dal rosso spento) tranne che
per il senso di verticalità delle
pennellate, che suggerisce per lo
più la direzione del moto di ri-
volta; d’altronde, il chiarore che
si diffonde verso la parte alta
della tela (opposta alla posizione
del sole, a conferma del segno
di morte), pare moltiplicare la
solitudine e lo straniamento
dell’individuo più che evocare
una pur lontana fonte di luce (e
di speranza).
In tutto questo la datazione
dell’opera mi fa anche dubitare del (mero) riferimento alla
siccità e alla grande depressione
degli anni ‘30... posso? Nel
maggio del 1944 imperversava la guerra, gli alleati erano
in procinto di aprire il fronte
occidentale (il 6 giugno sarebbero sbarcati nelle spiagge della
Normandia): oggi sappiamo
come è andata ma allora, in
quel preciso momento, certo era
che l’Europa e parte del mondo
erano una carneficina e chissà
quanto ancora sarebbe durata.
Potrebbe il dipinto alludere al
conflitto mondiale?
Comunque sia, “Jamais” è esso
stesso un grido - prima che
un titolo – un grido d’artista,
che accetto e faccio idealmente
mio; perché il desiderio e il
sogno (nella vasta gamma dei
sentimenti umani) sono a pieno
titolo nello statuto dell’arte.
Semmai il ‘jamais’ diventa
improponibile in altri contesti,
perché suonandovi come il
rifiuto aprioristico di una realtà
ontologicamente ineludibile
(la sofferenza e le sue possibili
cause, ivi incluse guerre e carestie) predispone l’individuo ad
affrontarla nel modo peggiore e
più vano.
2
APRILE
2016
pag. 12
L’Europa dei Re e delle Regine
può solo perdere
Claudio Gherardini
[email protected]
di
Idomeni tra Waterloo e Dachau, la
fine dell’Europa.
a nostra Europa ha perso
perché non è stata abbastanza
bella e felice e unita e men
che meno solidale. Ha vissuto per
almeno 30 anni nella bambagia
senza nemmeno avere un dubbio
che quel “benessere” non fosse per
sempre. Invece le mafie e la corruzione andavano in metastasi pesante e le comunità anziché evolversi
regredivano. Il tutto appariva
negli anni 80 come il gran ballo
sul Titanic che avrebbe trovato
l’iceberg balcanico prevedibile da
politici consapevoli ma non visto
dai piloti dopati di allora. Dopo il
crollo del Muro di Berlino l’illusione della felicità a buon mercato
era una droga troppo forte per dei
“narcotizzati” tutto discoteca e
parrucchiere.
D’altronde siamo un museo più
che un continente. Abbiamo
ancora i Re e le Regine e siamo
convinti di essere sempre i migliori
mentre il resto del mondo sbalordisce della inettitudine, ignavia,
ignoranza. C’è persino chi pensa
di essere ancora nell’800 e agisce di
conseguenza. Governanti, intendo,
non gente “comune”.
Siamo l’unica terra dove essere
ignoranti è divenuta una virtù.
Da quando è divenuta una virtù il
crollo verticale è iniziato inevitabile.
Come potevamo pensare di essere
immuni dagli eventi biblici e dalle
migrazioni epocali che abbiamo
anche contribuito a provocare ma
che sarebbero comunque arrivate
prima o poi?
Enormi sciacalli attendono il
nostro crollo supportato da nostri
“conterranei” che si nutrono degli
intestini dei loro elettori anziché
elevare loro le menti.
Le potenze anti occidente producono ogni giorno centinaia di
ore di informazione nella quale
siamo descritti, nella migliore delle
ipotesi, come poveretti asserviti
al “mostro americano”. Le varie
enormi reti russe e cinesi spiegano
come noi siamo il male assoluto e
i russofoni vengono informati da
molti anni che il nostro obbiettivo
è distruggere la Russia. Le oligarchie, non certo i popoli, attendono
il nostro crollo per mangiarci al
dettaglio come stanno già facendo
proprio in Ucraina e nei Balcani
da Donesk al Pireo. Seguiti a ruota
L
da Pechino che intanto si sta mangiando a ettari i terreni nientemeno che dell’Africa.
In mezzo al guado è rimasta la
Turchia e qualche milione di persone che sono persone come noi.
I termini come rifugiati, migranti,
emigranti, fuggiaschi, li rendono
diversi da noi e ci fanno sentire
diversi da loro. Ma non lo sono.
Una formazione politica italiana,
solo una in tutto il mondo, da
trenta, dico trenta anni chiede
l’entrata in Unione Europea di
Israele e Turchia. Proviamo a
pensare come sarebbe il Mediterraneo oggi se da trenta anni fossero a
Brussels anche Tel Aviv e Ankara.
Questi voli immaginari servono a
esercitare la Ragione e, appunto,
l’immaginazione. Virtù scomparsa
del tutto in Europa, non essendo
riciclabile per vie demagogiche e
populiste.
L’Immaginazione e la Ragione...
Perché chi ne è dotato e anche il
famoso mondo pacifista, non sono
andati a Varsavia e Budapest, Sofia
e Bucarest a spiegare cosa fosse il
sogno del Manifesto di Ventotene?
Spiegare che essere europei. oggi, è
cosa diversa che essere ex funzionari del Comintern?
La grande occasione del crollo del
muro di Berlino, che poteva davvero creare un continente nuovo e
felice in barba alle democrature e
alle dittature, è stata persa. I popoli
si sentono più sicuri sotto Vladimir Putin che nei nostri staterelli
antichi e arteriosclerotici.
La Democrazia sembra non avere
difese sufficienti e essere destinata alla estinzione tramite delle
trasfigurazioni orrende manovrate
da personaggi mai davvero evoluti
e divenuti ora leader del ritorno al
passato peggiore.
Su tutto regnano i finanzieri e i
fondi comuni che decidono chi
deve vivere e chi deve morire, in
senso allegorico ovviamente. Anche perché sono persone come noi
e siamo noi proprio in molti casi.
In mezzo a questo ingranaggio
marcio e disumano si trovano purtroppo molti milioni di persone,
molte centinaia di persone, eroi
della sopravvivenza. Il “destino” ha
voluto che a smascherare la vera
natura delle nostre democrazie,
una volta per tutte, siano state
delle persone, circa quindicimila,
capitate al momento sbagliato nel
posto sbagliato della Storia.
La spianata dell’innocuo villaggio
di cento abitanti chiamato Idomeni, nella Macedonia greca, già terreno insanguinato nei secoli, come
del resto tutti i terreni europei.
Veramente questi quindicimila
pensavano di aver già lasciato il
posto sbagliato, casa propria, e
di essere in salvo e invece si sono
trovati a affondare nel fango con i
loro bimbi, per settimane.
Che abbiamo fatto alla Macedonia
per essere trattati così? - Abbiamo
cercato di spiegargli che la Macedonia è stata costretta a chiudere il
cancellino davanti a loro perché lo
ha chiuso l’Austria. Che l’Ungheria e la Bulgaria hanno schierato
l’esercito per impedire alle mamme
e ai bambini di filtrare nei loro
territori e che la Polonia, la Ceska
e la Slovacchia non vogliono musulmani nel loro terreno.
Allora questi quindicimila hanno
aspettato, sempre meno pazientemente, di capire se esistesse un
governo europeo e cosa avrebbe
deciso.
Il risultato delle decisioni è
stato qualcosa di molto simile alla
famosa frase “se non hanno pane
mangino briosce”.
“Se vogliono andare al Nord,
tornino in Turchia. Se vogliono
fuggire dalla guerra, tornino
nelle zone vicine alla guerra”. Se
vogliono la Libertà siano rinchiusi
in centri militari.
E per ora sono sempre nel fango i
quindicimila, come in un osceno
reality show, uno zoo, paradiso di
fotografi e videomaker che possono documentare come riportare
alla inciviltà un grande gruppo
di persone civili e in larga parte
istruite. Come far ammalare bimbi
sani e ammattire gli adulti.
E alla fine sono arrivati venti
autobus, i primi venti, e in tanti
con aria rassegnata, si sono decisi
a salirci e tornare a Sud. Duemila
a settimana saranno riportati verso
l’Egeo e sistemati in campi militarizzati dove non potranno entrare
che in pochi per controllare come
verrano trattati.
Ma in tanti non vogliono salire sui
bus e in diversi si allontanano la
notte per cercare falle nel recinto
sistemato dalla Macedonia e si
sta pensando anche di entrare in
Albania dove sono già in attesa.
Albania e Italia, come nel 90,
quando gli albanesi furono portati
nello stadio di Bari, alla sudamericana.
E la Grecia c’entra poco e non ha
soldi ma qualcosa fa. Un ministro
del governo di Atene è andato a
vedere Idomeni è ha pronunciato
il nome Dachau.
Ora con l’estate arriveranno altre
masse anche in Sicilia. Cosa accadrà ancora?
Dopo la sconfitta sul campo di
Idomeni, la sorte dei quindicimila
come potente propaganda contro
l’occidente, l’Unione Europea
finisce nell’ombra della ignavia e
per ricostruirne una immagine e
una sostanza un poco più vicine
al sogno di Ventotene ci vorranno
decenni anche se si cambiasse
direzione subito.
ciclostilatoinproprio.blogspot.it
2
APRILE
2016
pag. 13
Simonetta Zanuccoli
[email protected]
di
D
opo essere stata presentata nel 2015 al Palazzo
Ducale di Venezia con il
titolo Il candore arcaico, la stessa
mostra, ampliata con l’aggiunta
di altre venti opere, viene riproposta fino al 17 luglio al museo
d’Orsay a Parigi con il titolo
L’innocence archaique. La mostra
è un omaggio a Henri Julian
Felix Rousseau, pittore autodidatta, sofisticato e originale, a
suo tempo deriso dal pubblico
e ferocemente stroncato dalla
critica che considerava il suo
stile naif frutto di scarso talento
e di poca preparazione artistica.
In effetti è noto che Rousseau, nato nel 1844, cominciò
a dipingere a 40 anni come
evasione dal suo monotono
lavoro di esattore delle tasse. Le
passeggiate al Jardins des Plantes
con le soste davanti alle gabbie
del vecchio zoo, i feroci animali
impagliati del vicino museo
d’Histoire naturelle e i racconti
di alcuni soldati reduci dalla
campagna francese in Messico, cominciarono a proiettare
Henri in un mondo incantato
fatto di giungle dalla vegetazione lussureggiante e misteriosa
con lune splendenti e soli rossi
nascosti da grandi foglie verdi,
popolate da bestie esotiche
e personaggi fuori misura.
Nelle tele l’atmosfera è onirica
quasi surrealista e il disegno, dai
colori vivi, minuzioso. Manca
la prospettiva, mancano le proporzioni, mancano i riferimenti
temporali e spaziali. Domina
l’incongruenza dei dettagli, alcuni realistici e altri totalmente
fantasiosi. Una pittura inclassificabile, arcaica e rivoluzionaria
nello stesso tempo, che con una
libertà assoluta (o innocenza,
secondo il titolo della mostra)
si allontana dagli stili in voga al
tempo, l’impressionismo e l’arte
“colta”, per rinnovare profondamente il linguaggio pittorico.
Nella mostra al d’Orsay questo
arcaismo diventa percorso verso
la modernità e filo conduttore
per un confronto tra le opere di
Rousseau e quelle, provenienti
dai più importanti musei internazionali, degli allora giovani
astri nascenti delle avanguardie
pittoriche. E così, i quadri
dell’autodidatta, incompreso
dai suoi contemporanei e oggi
Lo sdoganatore di sogni
come l’aveva scherzosamente
chiamato una volta a una festa a
casa del giovane Picasso, ricordandogli il suo antico mestiere:
Nous te saluons, laisse passer
nos bagages en franchise à la
porte du ciel/ Nous t’apporterons de pinceaux, des couleurs,
des toiles/ afin que tes loisirs
sacrés dans la lumière réelle/ tu
les consacres à peindre comme
tu tires mon portrait/ la face des
étoiles. (Noi ti salutiamo, lascia
passare i nostri bagagli senza
pagar dazio dalla porta del cielo.
Ti porteremo i pennelli, i colori,
le tele affinché il tuo sacro tempo ozioso lo consacri a dipingere nella luce del reale, come
hai fatto con me, il ritratto delle
stelle.).
definito “perè de la modernité”,
con i loro mondi ricchi di sorprese vengono considerati fonte
d’ispirazione di grandi artisti,
come Gauguin, Serat, Redon,
Picasso, Delaunay, Kandisky,
Frida Kahlo, Diego Rivera...
Muore a Parigi nel 1910 per
una cancrena alla gamba. Apollinaire, grande ammiratore ed
amico, scrisse l’epitaffio per la
tomba di Henry, il doganiere,
Sara Chiarello
twitter @ Sara_Chiarello
Middle East, now
di
Cinema, arte e musica per raccontare la vita di oggi nei paesi mediorientali. Una vita complessa, spesso
buttata in prima pagina, che non
sempre riusciamo a capire. Cerca
di darci le giuste coordinate la
settima edizione Middle East Now,
il festival/evento che si svolgerà a
Firenze dal 5 al 10 aprile (principalmente presso il cinema Odeon
e il cinema Stensen). Racconterà le
storie, affascinanti e dalle tinte forti, i personaggi, e affronterà i temi
di l’attualità attraverso i film più
recenti provenienti da Iran, Iraq,
Kurdistan, Libano, Israele, Libia,
Palestina, Egitto, Giordania, Emirati Arabi, Yemen, Afghanistan,
Siria, Bahrein, Algeria e Marocco.
Con lo spirito, fondamentale e
coraggioso in un momento come
questo, di andare oltre ai pregiudizi, ai fatti di cronaca e ai luoghi
comuni con cui spesso vengono
rappresentati. In programma più
di 40 film, prevalentemente in
anteprima, che saranno proiettati
alla presenza di 30 personalità del
panorama culturale del mondo
arabo, tra registi, attori, produttori,
fotografi, artisti, chef, scrittori, coreografi e danzatori. A inaugurare
il festival la storia di dodici donne
intrappolate in un salone di un
parrucchiere a Gaza, per la prima
italiana del film “Degradé” dei
fratelli palestinesi Tarzan & Arab
Nasser. Dalla Palestina arriva anche
“Idol” di Hany Abu-Assad, il
regista premio Oscar nel 2006, che
racconta la vera storia di Mohammad Assaf, il ragazzino di Gaza
vincitore del talent show Arab Idol.
Viene dalla Siria, invece, il documentario “A Syrian Love Story” di
Sean McAllister, girato nell’arco
di cinque anni, che fa rivivere la
storia d’amore di una coppia di
attivisti minacciata dagli orrori
della guerra. Il tema, scottantissimo, dell’uguaglianza sui diritti
umani dei gay sarà invece al centro
di “Mr. Gay Syria” della regista
turca Ayse Toprak, un viaggio alla
ricerca di un siriano che partecipi
al concorso di bellezza Mr. Gay
World. Dall’Arabia Saudita arriva
la commedia “Barakh meets Barakah” di Mahmoud Sabbah, girato
nel paese in cui il cinema è stato
bandito nel 1972. In programma
anche il documentario “Speed
Sisters” di Amber Fares, sui sogni
di un gruppo di donne palestinesi
che affermano le loro libertà come
piloti automobilistici, mentre,
ospite d’onore di quest’anno, sarà
la regista Yesim Ustaoglu, una delle
più importanti autrici del cinema
turco di oggi, a cui sarà dedicato
un omaggio con la proiezione delle
sue pellicole più celebri. Chiude
il festival il palestinese ’Eyes of
a Thief’ che ha con l’interprete
Souad Massi, cantante algerina che
si esibirà al festival. Tre le mostre: ‘Our Limbo’ della fotografa
libanese Natalie Naccache su un
gruppo di giovani donne siriane
in fuga dal proprio paese poco
prima dello scoppio della guerra;
‘Live, Love, Refugee’ di Omar
Imam sui rifugiati siriani e ‘My
Lebanon’, un colorato e ironico
progetto d’illustrazione dedicato al
Libano. La musica è protagonista
con il perfomer iraniano Makan,
e la danza contemporanea con
“Love-ism” del giovane coreografo
israeliano Mor Shani. Infine, molti
gli ncontri giornalieri insieme a
esperti, saggisti, scrittori e affermati corrispondenti per disegnare
una mappa dell’informazione sul
Medio Oriente. Biglietti delle proiezioni euro 5-6, per informazioni
3389868969, info@middleastnow.
it e il sito internet www.middleastnow.
2
APRILE
2016
pag. 14
Claudio Cosma
[email protected]
di
A
ngelo Barone è sempre stato
un esploratore di forme
architettoniche. Le sue ricerche si indirizzano in due direzioni
che al loro interno ne contengono
numerose altre, la prima è una
ricerca introspettiva che produce
sculture simili ad unità abitative
organiche, città vicine al mondo
degli insetti, elaborate con materiali naturali come paglia, legno,
cotone, pigmenti, terre.
Questo periodo lascia nelle strutture grandi aperture destinate alla
comunicazione e alla vita al loro
interno.
La seconda ricerca tende alla
elaborazione culturale di strutture
già esistenti, ma sempre collegate
ad una forma di uso specializzata,
come le costruzioni ecclesiastiche,
gli edifici pubblici, le architetture
militari.
Questi manufatti prescindono
quasi sempre la abitabilità civile.
Negli elaborati artistici del primo
periodo le strutture di Barone
hanno forme naturalistiche nelle
quali si può immaginare una costante presenza animale, laboriosa,
produttiva e altamente funzionale.
Grandi alveari, termitai, nidi
complessi, tutti brulicanti di vita,
ronzanti di ali trasparenti e di elitre cornee riflettenti, all’esterno ed
con un interno misterioso e forse
scavato all’interno degli alberi a
cui si appoggiano o estendentesi
in cunicoli sotterranei che possiamo solo intuire.
Nelle sculture del secondo periodo, che dura fino ad ora, le forme
sono chiuse, il colore è parzialmente perduto, la vita impossibile.
Nella mostra alla Fondazione Sensus sono visibili tutti gli sviluppi
compiuti dalla creatività di Angelo
Barone a partire dagli anni del suo
esordio nel 1980.
La parte che d’ha il titolo alla
mostra è raccolta in una grande
stanza dove è ricostruita un’isola
frastagliata e rocciosa, con insenature, fiordi e montagne, realizzata
con due tonnellate di sabbia da
costruzione.
Le coste dell’isola sono presidiate
nel suo perimetro da una continua
linea di bunker. Le immagini che
si sovrappongono nella mente
dell’osservatore sono di un’isola
dei morti, oramai abbandonata e
vissuta nel passato remoto da una
setta di religiosi o da abitata da
persone di cui resta difficile immaginarne un attività sensata.
Vengono anche alla mente gli esodi umani degli esuli e dei migranti
che lasciano il loro paese reso
inabitabile dalle continue guerre
in atto e incerti dalla accoglienza
che viene loro accordata.
I bunker di Barone rimangono in
bilico tra la difesa impenetrabile
e quindi alla funzione militare
tutt’ora attiva e la mistica presenza
di costruzioni moderniste, religiose come cappelle e pagode o
parodie di ville sul mare.
Le interpretazioni si moltiplicano
e si complicano ulteriormente per
il materiale esterno delle sculture,
ricoperte come sono di una pellicola vellutata che sembra smorzarne la rigorosa geometria.
L’esegesi dei bunker si sviluppa
anche, in parte, da una ricerca
filosofica e architettonica dello
scrittore francese Paul Virilio
che negli anni ‘70 ha percorso la
Normandia, mappando tutte le
tipologie di bunker che costituivano il Vallo Atlantico durante la
seconda guerra mondiale.
Ora si mostrano come il titolo del
suo libro: Bunker Archeology, in
un abbandono reso imperituro dal
calcestruzzo usato per costruirli,
monoliti inclinati dalle maree che
erodono la sabbia sulla quale sono
poggiati secondo le regole costruttive militari che per aumentarne la
resistenza erano privi di fondamenta.
Nelle architetture di Barone, se
fossero realizzate con proporzioni
monumentali, non si potrebbe
vivere una vita comune, forse
ci si potrebbe affacciare da una
finestrina o da una feritoia ma più
Bunker’s
Island
Angelo
Barone
ragionevolmente si potrebbe solo
girarci intorno come si fa con i
templi, i mausolei del passato.
Non ci rimane che amarne le
forme così come lo scultore ce
le mostra, girare intorno alla sua
isola e godere delle suggestioni che
ci offrono e riflettere.
Alla Fondazione Sensus a Firenze.
Viale Gramsci 42a Firenze,
5 aprile 2016 dalle 18 alle 20.
Dal 6 aprile visitabile
solo su appuntamento
email [email protected]
Un bunker di Angelo Barone è visibile 24 ore al giorno nella vetrina di
Sensus a Fiesole in piazza Mino 33.
lectura
dantis
2
APRILE
2016
pag. 15
Disegni di Pam
Testi di Aldo Frangioni
Non è che noi farem dell’allarmismo
se d’un dannato il nome io ometto,
sensibili noi siam dell’arabismo,
ma a tempi miei egl’era una manìa,
pur fra i cristian v’eran de’ crudeli,
i boni stavan solo in abbazìa.
l’innominato misi in questa serra
chi fosse, a voi, lascio ripensare
prudenzia vuol chè deo tornar in terra.
per farvelo capire non scommetto,
né son certo sia giusto che qui stìa,
posso sbagliarmi e subito l’ammetto,
I diversi da me non erano infedeli,
ma siccome eravamo in una guerra
dalla lingua mi tolsi tutti i peli
Posso dir che lo vidi sanguinare
tutto tagliato dalla testa all’ano
vistosi visto cominciò a parlare:
in oriente ci feci un gran baccano,
voi non eravate certo a me migliori,
ed il mio dire non era poi balzano.
Te sta’ attento agli ammiratori
dillo anche ’gli amici ancor viventi
che si aspettan per lor degli orrori.
Canto XXVIII
9° cerchio
8a bolgia
Seminatori di discordia
e di scisma,
Un demone brandisce
una grande spada
e taglia a pezzi il corpo
dei dannati, come loro
hanno fatto in vita,
seminando divisione,
paura e morte. Le profonde lacerazioni
si rimarginano,
si ricompongono i corpi
per essere poi dilaniati
ancora e così per
l’eternità.
2
APRILE
2016
pag. 16
Con profondo afffetto e ammirazione per Paolo Poli pubblichiamo il testo da lui scritto su
Palazzeschi inserito, dietro sua
autorizzazione, nel catalogo “...E
lasciateli divertire!” Mostra di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
alla galleria La Corte di Firenze
del 5 giugno 2015.
da Alfabeto Poli,
a cura di Luca Scarlini
P
alazzeschi è stato uno
dei governanti della mia
infanzia ed è una delle
voci più limpide del Novecento.
Lo rivedo come negli ultimi
anni, quando stava alla finestra
e faceva cenno con la mano.
L’ho conosciuto nel 1949, avevo
vent’anni. Lo incontrai grazie ad
Alfredo Bianchini.
Palazzeschi mi ha tenuto quasi
a battesimo sulle sue ginocchia; studiavo Lettere e facevo
l’attore. Avevo compilato un
recital con delle sue ricostruzioni di salotti d’epoca, una cosina
modesta, ma di qualità, che
recitavo all’ora del tè e dei pasticcini in un albergo di Firenze.
A cinquant’anni, era un po’
obeso per la bassa statura. Aveva
una furba aria di gallina decorosa, una vecchia gallina che aveva
già dato le sue uova d’oro, le
poesie dal 1905 al 1914, le sue
più belle. Venne a vedermi e mi
disse due parole. Era più bravo a
scrivere che a parlare.
Bussavo a lungo a casa sua, lui
non apriva perché aveva paura
dei ladri. Era gentile e generoso
e capitava che lo derubassero.
Era molto timido, perché le
checche dell’epoca non erano
vittoriose. Lui era l’amico di
De Pisis. Ora è uscito postumo
Interrogatorio della contessa Maria. Non lo ha pubblicato mai
perché tutti avrebbero capito
che la contessina Maria era il
pittore, che quando tromba
col carbonaio torna a casa tutta
nera, la volta invece che tromba
col fornaio torna tutta bianca.
Quando negli anni Sessanta
a Torino ho messo in scena Il
suggeritore nudo, una commedia
di Marinetti, sono andato a
trovarlo per sapere l’umore dei
tempi del futurismo. Facemmo
qualche sciocco pettegolezzo,
sciocco per modo di dire, in realtà illuminante e leggero come
tutto quello che lui diceva. “Eh,
caro mio, si spaccava in quattro
Illustrazione di Paolo della Bella
un capello che non c’era”. Aveva
sfiorato tutte le mode culturali, senza rimanere invischiato,
sapeva di essere un classico.
Ci siamo incontrati tante volte
nel corso del tempo, a Venezia,
nella sua casa romana all’ultimo
piano di via dei Redentoristi
9 dove avevano abitato Gioacchino Belli e Adelaide Ristori.
In pantofole, a passettini, quasi
pattinando, per stanzoni un po’
bui pieni di quadri. Si lamentava dei giovani d’oggi che non
erano poi così buoni.
Che bello quel suo romanzo,
Perelà uomo di fumo, lo aveva
tanto amato Luigi Baldacci, mio
compagno di scuola. Sembrava
nuovissimo, mentre la letteratura inciampava nel grande
scalino chiamato D’Annunzio,
in cui tutti hanno battuto la
testa. Palazzeschi per fortuna
sua era autodidatta, non aveva
fatto studi letterari, era ragioniere. Prendeva dalla vita, la
sua era una poesia periferica,
un po’ malinconica, con tutti i
suoi Freud nascosti, con tutti i
suoi ragguagli di Parnaso. Nelle
due zitelle sorelle Materassi ha
messo molto della sua tenerezza, delle sue paure, e delle sue
umiliazioni. Il risultato era un
verismo poetico che piacque
pure al pubblico meno preparato. Il testo aveva anche un
valore di documento sui luoghi
della mia infanzia, perché era un
tempo in cui il ricamo fiorentino cominciava già a diminuire.
Le ragazze non volevano perdere
gli occhi, ma uscire la sera a ballare. Poi ci fu un altro fatto: la
sciocca porcella del romanzo era
americana, come la Simpson,
che aveva fatto abdicare il re.
Mentre la fama dei contemporanei di Palazzeschi si affievoliva,
lui ha azzeccato qualcosa, poi
ha ritentato il colpo nel dopoguerra con I fratelli Cuccoli:
l’esito però fu meno fortunato.
Quando ero bambino ho visto
il film di Poggioli con le due
sorelle Grammatica e l’ho molto
amato. So che Palazzeschi aveva
detto ai riduttori di togliere i toscanismi più efferati, per evitare
problemi nelle altre regioni. Io
non capivo quasi nulla, ma mi
piaceva vedere al cinema la mia
città. Comunque parteggiavo
per le zitelle e non certo per
quel coglione del nipote, che
nel film era bellissimo: Massimo
Serato.
Palazzeschi era un nanetto
birichino che possedeva uno
stile solo apparentemente semplice. Per questo non piaceva
ai tromboni scolastici degli
anni Trenta, che gli preferivano
autori mediocri, più idonei alla
scarsa fantasia del regime. La
sua ironia era impareggiabile,
descrive molte tipologie umane
surreali, che poi si ritrovano nei
film di Fellini. Gigantesse, nani,
ballerine, scorreggioni, gobbi,
ladri, morfinomani, porcellone.
Oggi c’è un momento di remi
in barca, per cui c’è di nuovo
un finto pudore in un’epoca in
cui le bambine ammazzano la
mamma col coltello, come si faceva nel più bieco Cinquecento
o Ottocento. Ci sono di nuovo
le professoresse che mi dicono:
“Belle le poesie di Palazzeschi,
purtroppo troppe parolacce!
In un momento difficile come
questo per la scuola non ci
prendiamo la responsabilità di
portare a teatro degli allievi di
diciotto o diciannove anni”, che
ovviamente ne fanno di tutti i
colori.
2
APRILE
2016
pag. 17
Roberto Mosi
[email protected]
di
V
alerio Giovannini, giovane
artista fiorentino, espone
a Cortona presso il Museo
dell’Accademia Etrusca e della
Città, opere che rappresentano
significativi passaggi della sua
ricerca: ri-leggere nel presente il
fascino e la scrittura degli Etruschi. L’artista ha sviluppato in più
anni un approfondito percorso
di ricerca semiotica e pittorica
sulla cultura dell’antico popolo e,
attraverso lavori che intrecciano
con sensibilità e ironia le dimensioni del tempo e dello spazio, ci
mostra vicende di persone e archetipi che divengono narrazione
e citazione quotidiana dell’oggi.
Il titolo della mostra “Tular Dardanium”- Confine dei Dardani
– aperta fino al 31 luglio 2016,
riprende la figura mitica di Dardano che partì da Cortona per andare a fondare la città di Troia ed
è lo stesso titolo di una delle opere
esposte in cui si vedono i migranti
del Mediterraneo superare, al
pari degli Etruschi di una volta, i
confini di oggi alla ricerca di una
nuova terra che li possa accogliere,
capace di consentire l’incontro fra
popoli diversi, di far germogliare
nuove vitalità culturali.
Il sottotitolo della Mostra “Scritture anteriori presenti”riporta alla
di
Gianni Pettena
[email protected]
Dal 1975 ho insegnato presso la
Facoltà di Architettura di Firenze,
dopo essere stato assistente di
Eugenio Battisti. Dal ‘75 ho
insegnato anche alla Architectural
Association.
Dalla Architectural AAssociation
passavano in quegli anni a fare
conferenze, tra gli altri, Buckminster Fuller, Hans Hollein, Peter
Eisenman etc. Uno splendido
porto di mare dove approdava la
migliore, fresca intelligenza del
tempo dedicata all’architettura.
Zaha aveva trent’anni, era anche
lei laureata all’A.A come tutti gli
altri, e nel 1982 la invitai a fare
la sua prima mostra in Italia, a
Fiesole, insieme a tre miei altri
studenti londinesi della A.A:
Peter Wilson, Jenny Lowe e
Nigel Coates. Già allora Zaha
produceva i progetti che poi,
qualche decennio dopo, avremmo conosciuto in tutto il mondo,
disegnandoli con colori vivaci su
I confini visti
dalla parte
degli Etruschi
mente il pensiero di Walter Benjamin che invitava a riflettere su
come le immagini e le narrazioni
ci aiutino a liberare le energie racchiuse nel mito e a darne forma e
significato nell’oggi.
Così l’autore “ri-disegna” la Tabula Cortonensis – il quadro “Cur-
La prima
Zaha
Hadid
a Fiesole
tum Fonts”- e nel dipinto “Malna
Turan”, ecco apparire – prodigio
della creatività – l’alfabeto etrusco
in una tastiera postmoderna, di
un computer!
Un perla della Mostra – che come
si usa dire “vale un viaggio”- è
il video “Janela” (in portoghese,
“Soglia”) che Valerio Giovannini
ha realizzato in questo periodo
a Lisbona, dove risiede per un
periodo di formazione, intrecciando in maniera fascinosa, immagini e messaggi da tempi e spazi
diversi. La storia con-turbante del
personaggio “Janela”, ancora una
volta nella fertile ricerca di Valerio
Giovanni, si rifà alle categorie del
“confine”, del superamento delle
divisioni, all’incontro fra diversi,
superando le soglie del tempo e
dello spazio.
La visita alla Mostra cortonese
“Gli Etruschi maestri di scrittura”,
aperta il 19 marzo, ci presenta, come è noto, documenti di
eccezionale valore culturale e
storico, come il “Liber Linteus”
(dalle fasce della “Mummia di
Zagabria”) o la cosiddetta “Tabula
Cortonensis”, a fondamento dello
straordinario progredire degli
studi sulla scrittura etrusca. L’incontro, d’altra parte, con le opere
di Valerio Giovannini presenti
in una sezione del Museo, ci fa il
dono di chiavi di interpretazioni intriganti, che arricchiscono
il nostro sguardo e la nostra
consapevolezza, rappresenta come
“un’oasi in cui si armonizzano
temporalità differenti e in cui è
possibile prendere una pausa dai
drammi di un mondo scosso da
trasformazioni incomprensibili”
carta trasparente.
Furono questi i disegni che io
raccolsi nel suo studio nel giugno
del ‘82 che, arrotolati in un tubo,
portai a Fiesole insieme a tutti
gli altri. Lei venne per l’inaugurazione, con agli altri tre, e
passammo ancora magnifiche ore
insieme. Abbiamo continuato
a vederci e sentirci sia a Londra
che, spesso, a Venezia in occasione delle Biennali di Architettura,
tra cui quella del 1996 co-diretta
insieme ad Hans Hollein. Avere
la notizia che Zaha non c’era più
è stato traumatico. Sapevo da un
po’ di tempo che non stava bene
ma non mi aspettavo una sua
scomparsa così improvvisa.
Chissà che bei progetti continuerà a fare insieme a Hans
Hollein che l’ha preceduta di un
paio di anni.
Zaha non aveva famiglia, la sua
famiglia eravamo tutti noi, e
soprattutto il suo vero grande
amore è stata sempre l’architettura cui dedicava ogni sua energia.
30.03.2016
GIOVANNI OZZOLA
finissage solo show
Cercando nella notte persa
Wednesday, 30 March 2016, 6pm
in
2
Dialogue between Giovanni Ozzola
and Davide Ferri
APRILE
giro
2016
Accademia delle Arti
del Disegno
Spazio 9 Aposa
Via Val D’Aposa 1C, Bologna, Italy
. 18
www.spazio9aposa.com
pag
è lieta di invitare la S.V. all’inaugurazione della mostra
30.03.2016
CHARLAS CONtINuAS
ARTIST’S TALkS
ELIZABET CERVIñO:
‘De la acción al rito o del rito al gesto’
Elizabet Cerviño, Manzanillo 1986, Elí
Wednesday, 30 March 2016, 3-5pm
GALLERIA CONTINUA / Habana
Águila de Oro, Rayo 108 entre Zanja y
Dragones, Barrio Chino de la Habana,
Cuba
www.galleriacontinua.com
ELIZABET CERVIñO ‘LA EXTENSIÓN DE LA LLUVIA’ 2015
Photo: Paola Martinez Fiterre
6 April 2016 - Reynier Leyva Novo
16 April 2016 - Susana Pilar Delahante
Matienzo
31.03 - 01.04.2016
MICHELANGELO PIStOLEttO,
PASCALE MARtHINE tAYOu
Forum d’Avignon, culture is future
venerdì 8 aprile
- ore- 17.30
31.03.2016
01.04.2016
Bordeaux, France
Saletta Espositiva dell’Accademia
delle Arti del Disegno
www.forum-avignon.org
Via Orsanmichele 4 - Firenze
/fr/forum-davignon-bordeaux
Intervengono
prof.ssa Cristina Acidini
Presidente dell’Accademia delle Arti del Disegno
PASCALE MARTHINE TAYOU ‘Boomerang Christianity,
Boomerang Islam, Boomerang Judaism‘ 2014
prof. Domenico Viggiano
Segretario Generale dell’Accademia delle Arti del Disegno
02.04.2016
LORIS CECCHINI
Accademia delle Arti del Disegno - Via Orsanmichele 4 - 50123 Firenze - tel. 055 219642 - e-mail [email protected] - www.aadfi.it
solo show
SISTEMI DI VISIONE / SISTEMI DI
REALTA
Opening: Saturday, 2 April 2016,
4.30pm
02.04.2016 - 08.05.2016
LORIS CECCHINI ‘Wallwave vibration‘ 2012
Villa Pacchiani Centro Espositivo
Piazza Pier Paolo Pasolini,
Santa Croce sull’Arno, Pisa, Italy
Curated by Ilaria Mariotti
02.04.2016
GIOVANNI OZZOLA
solo show
SISTEMI DI VISIONE / SISTEMI DI
REALTA
Opening: Saturday, 2 April 2016, 7pm
02.04.2016 - 08.05.2016
GIOVANNI OZZOLA ‘Routes Ibn Battuta‘ 2013
Centro Espositivo per le Arti
Contemporanee SMS
San Michele degli Scalzi,
Viale delle Piagge, Pisa, Italy
Curated by Ilaria Mariotti
02.04.2016
SABRINA MEZZAQuI
XX1T - 21st Century. Design After
Design.
XXI TRIENNALE ESPOSIZIONE
INTERNAZIONALE MILANO 2016
02.04.2016 - 12.09.2016
Milano, Italy
Nicomp Laboratorio Editoriale, in collaborazione con la Biblioteca delle
Oblate
invitano alla presentazione del libro
DE AMICITIA
www.21triennale.org
dedicato a Maria Cristina Landi, a cura di Sandra Landi, Nicomp
2016
SABRINA MEZZAQUI ‘Il mantello della Regina delle Nevi’ 2014
Photo: piier.net
giovedì 7 aprile 2016, ore 17,00
05.04.2016
CARStEN HöLLER
Biblioteca delle Oblate, Sala conferenze – piano terra – Via dell’Oriuolo 24, Firenze. solo show
Doubt
07.04.2016 - 31.07.2016
Press conference: 5 April 2016,
11:30am
CARSTEN HöLLER ‘Y’ 2003 (detail)
Photo: Attilio Maranzano. Courtesy the artist and
Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, Vienna
Opening: Wednesday 6 April 2015,
7pm
Pirelli HangarBicocca
Via Chiese 2, Milano, Italy
www.hangarbicocca.org
05.04.2016
ANDRÉ KOMAtSu
solo show
CONCRETE THAT MAkES US
05.04.2016 – 26.04.2016
Intervengono
Aldo Frangioni redattore della rivista culturacommestibile.com
Sandra Landi scrittrice e saggista
Proiezione delle opere di
Vittoria Bartolucci, Kiki Franceschi, Aldo Frangioni, Daniela Piegai,
ESP. Elena Salvini Pierallini, Giovanna Ugolini Letture di
Gladys Basagoitia Dazza, Mariella Bettarini, Ruth Cárdenas, Liliana
Ugolini
Informazioni: Riccardo Nicoletti – [email protected] – tel. 3287544996
NICOMP
Laboratorio
editoriale
L
immagine
ultima
2
APRILE
2016
pag. 19
Dall’archivio
di Maurizio Berlincioni
[email protected]
S
embrava proprio di essere in Italia! Due pensionati italo americani sono seduti in un piccolo parco, non ricordo quale, mentre stanno facendo una bella partita a carte. Come succede spesso anche da noi il loro gioco viene seguito con molta attenzione da un paio
di amici che controllano la situazione e trattengono a stento l’impulso di suggerire le loro strategie di gioco. Era quasi commovente
vedere come certe abitudini si fossero trasferite pari pari al di là dell’oceano. Per un momento ho avuto l’impressione di trovarmi all’interno
di un circolo dei postelegrafonici da qualche parte in Toscana.
NY City, agosto 1969
Fly UP