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CAPITOLO I LA GIOVINEZZA DI JJ. Dopo tanto tempo, JJ si sentiva di nuovo sereno. Le rivelazioni di colui che aveva amato come un padre e rispettato come un maestro, sembravano ormai lontane, avendo perso quasi tutta quell'enorme importanza, che il giovane aveva attribuito ad esse, almeno fino a qualche giorno addietro. Eppure, in un primo momento, JJ aveva avuto una sensazione strana e dolorosa: come se il suo universo fosse esploso, sbriciolando le pareti di vetro che lo rinchiudevano in una scatola lucida e pulita e mostrandogli un mondo, il vero mondo, quale esso veramente era. Buio, ingiusto, cattivo e nemico. Invece, fino a quel momento, tutto era filato liscio, nella sua ancor giovanissima esistenza. Le sollecitazioni, che gli erano giunte da più parti, ed una certa qual inclinazione della sua conformazione mentale, gli avevano suggerito, e forse, a sua insaputa, quasi indicato, la via del seminario, come la strada per lui più confacente, per raggiungere uno scopo nella vita. Poi, all’improvviso, il dramma. Era ancora vivido, e presente nella sua mente, il ricordo di quel giorno grigio, in cui, chiamato da una telefonata concitata, aveva raggiunto, nel più breve tempo possibile, la casa che l'aveva visto crescere. " Tu, Jean Jacques, non sei il figlio della mia povera sorella che, pure, ti ha tirato su come una madre. I tuoi veri genitori erano due ebrei disperati, che vennero nella mia canonica durante la guerra e ti consegnarono a me perché, almeno tu, ti salvassi. No, non so altro di loro, essi non ebbero il tempo di dirmelo. Mi dettero solo una catenina ed un ciondolo con su impressa una stella di Davide ed un nome, Mario Ferrara; il tuo vero nome, forse. Sul retro era incisa una serie di numeri e lettere dell’alfabeto ebraico, di cui non ho mai potuto decifrare l’effettivo significato. Se quello fosse stato il tuo vero nome, d’altronde, non mi fu rivelato, forse nell'eccitazione del momento, dai tuoi genitori. Del resto, io non li vidi per più di una mezzora, in tutto. Tua madre era così straziata, che non pronunciò nemmeno una parola; dovemmo quasi strapparti dalle sue braccia. Tuo padre invece, da buon credente della religione di Abramo, m'avvertì delle circostanze eccezionali che s'erano venute a verificare dal momento della tua nascita. Esse, quasi accavallandosi come onde di un mare in tempesta, avevano impedito di compiere sul tuo corpicino il rito, che la stirpe di Abramo esegue da tempo immemorabile sui suoi figli maschi, per suggellare il patto che la lega all'Onnipotente1. Il fatto, pur doloroso per un ebreo praticante, era però, nella situazione attuale, un'insperata fortuna, in quanto non avrebbe permesso ai boches 2 d'accorgersi immediatamente della religione e della razza di quel bambino. Infatti la spallata improvvisa, la guerra lampo, come l'avevano chiamata i generali di Hitler, dopo mesi di stasi sul fronte francese, aveva portato i tedeschi, in pochissimi giorni, fino a Dunkerque, nel giugno del 1940. Così fu tagliata fuori, oltre che l'esercito inglese, anche tutta una lunga teoria di disperati, che si trovò preclusa, in questo modo, la via della fuga per mare. Tua madre, che t'aspettava proprio per quei giorni, fu la causa involontaria del ritardo, che impedì ai tuoi genitori di salvarsi. Finita la guerra, c'eravamo talmente affezionati a te, che non avemmo il coraggio d'abbandonarti, dopo che fummo certi che entrambi i tuoi genitori erano morti in campo di concentramento e che tu, per quante ricerche io abbia fatto fare discretamente, non avevi altri parenti prossimi. Per fortuna, dal male può nascere il bene e tu, non solo sei potuto sfuggire alla sorte che travolse la tua famiglia, ma, tramite me, hai conosciuto il vero Dio e t'incammini sulla strada per essere un suo buon sacerdote. La cara Claudine, mia sorella, è stata per te una vera madre, e fu per lei una consolazione sapere, prima di morire, che tu avevi scelto, in piena libertà, la strada del Seminario. Ecco, io ti rendo questa catenina, che è tua, e ti prego di perdonarmi, se non ti ho rivelato prima quanto ti ho detto ora. Se te ne avessi parlato, forse la tua vocazione religiosa sarebbe stata distorta da questa rivelazione ed io sarei stato causa d'immenso danno per la persona cui più ho voluto bene, nella mia vita. Per questo, ho preferito assumermi il peso della colpa di non averti rivelato, a suo tempo, la verità della tua nascita. Si allude alla “ Amilah “, la circoncisione rituale, praticata dagli Ebrei entro l’ottavo giorno dalla nascita. 2 Dispregiativo con cui i Francesi chiamano i Tedeschi. 1 2 Ma, adesso che sto morendo, voglio andare al giudizio che mi riguarda senza pesi sulla coscienza". Quelle parole, pur dette in buona fede da un uomo morente, che era stato, fino allora, per JJ, il più importante punto di riferimento della sua vita, distrussero in un attimo il tranquillo mondo del giovane seminarista. JJ era rimasto colpito, qualche tempo prima, dalla lettura di un'intervista ad uno scampato, dal massacro compiuto dai Nazisti, ed il suo urlo, riportato dalla foto, che lo mostrava piangente: "Tu, Dio, dove eri, quando si compiva quell'abominio?" era rimasto a lungo senza risposta. Ora la domanda non si rivolgeva più solo alla sua mente: il dolore e la rabbia, centuplicati, gli squassavano l’animo. Inoltre, gli accadeva una cosa strana: quelle furie sembravano suscitate in quel momento, perché in quel momento egli ne aveva avuto conoscenza. Suo padre e sua madre non erano le due brave persone, che pure aveva amato, ma due infelici, che erano stati uccisi nel più atroce dei modi, ed il saperlo dopo quasi vent’anni non riduceva per nulla la sua pena. Così, con l'animo sconvolto, sepolto il vecchio prete, JJ non se la sentì più di tornare al seminario; segnato dalla rivelazione che aveva avuto, cercò di saperne qualcosa di più. Si rivolse all'ufficio di stato civile del paese in cui figurava nato, Epernay appunto; ma tutto sembrava in regola, nero su bianco. Lui era effettivamente, per il Comune, Jean Jacques Thomas Fernays, nato, in contrada Aubusson, il ventitré giugno 1940, da Fernand Fernays e da sua moglie, Claudine Pascal, entrambi deceduti. La sua residenza risultava, fin dalla nascita, ad Epernay, nella casa sulla strada per Montmirail, accanto alla canonica in cui era stato, per lunghi anni, prevosto suo zio, l'abbè Gerard Pascal. Anche il vecchio messier Roland, che per tanti anni aveva retto l'ufficio di stato civile di Epernay, gli aveva raccontato la stessa solfa, aggiungendovi particolari nuovi, che rendevano più credibile la versione ufficiale. Era stato proprio lui a ricevere dal buon Fernand Fernays, che era stato un suo caro amico, la dichiarazione della nascita del piccolo Jean Jacques, durante la guerra. Solo il medico condotto, il dottor Legier, per anni inseparabile compagno d'interminabili partite a carte dell'abbè Gerard, dopo avergli assicurato che la storia s'era svolta proprio nel modo che tutti sapevano, aveva borbottato, parlando quasi tra di sé: 3 "Glielo avevo detto mille volte, a quella testa dura di tuo zio, di lasciare in pace i morti ed i vivi. Ma, ultimamente, lui s'era incaponito nel credere che fosse suo dovere farti conoscere fatti, che non potranno essere, per te, di nessun aiuto. Egli mi spiegò le circostanze straordinarie che permisero a lui e a tua madre (Vedi, io continuo sempre a chiamarla tua madre perché, effettivamente, per te, Claudine fu una vera madre), di tenerti come un figlio. Per prima cosa bisognò convincere tuo padre (anche lui continuo a chiamarlo tuo padre, perché come tale si comportò nei tuoi confronti, facendoti conservare, sotto il suo nome, quella vita che, pure, lui non t’aveva realmente data). Insomma non fu difficile far si che il buon Fernand tenesse il bordone di tutta quella vicenda. L'unica questione su cui s'impuntò Fernand fu la storia del tuo nome: diceva che, in quell'ambiente clericale, ti doveva dare un minimo di salvaguardia. Anzi, a questo riguardo, mi ricordo dell'astuto trabocchetto che egli mise in atto, per poterti imporre un nome che non sapesse troppo di sacrestia. Tutti, almeno confusamente, sapevano i rischi che stavano correndo, con la sostituzione del loro figlio naturale, con quel bambino portato dalla guerra e minacciato dall'odio. Forse, proprio per evitare, con una futile discussione, di pensare ai pericoli reali cui stavano andando incontro, i membri della tua nuova famiglia rimasero lungamente alle prese con un problema, non certo determinante: quale sarebbe dovuto essere il tuo nome. Infatti, dopo molti conciliaboli, pur nella gravità del momento, i coniugi Fernays, insieme con le altre due persone al corrente del fatto, presero una decisione. Fernand, come capofamiglia, avrebbe scelto il tuo nome, ma l'avrebbe dovuto individuare nella rosa dei nomi degli apostoli di Cristo. Quando tutti furono d'accordo su questi termini, Fernand poté fare la sua scelta. Egli t'impose i nomi di Giovanni, Giacomo, Tommaso, in modo che tu fossi chiamato Jean Jacques, in memoria del grande filosofo ginevrino3 e, come secondo nome, Tommaso, l'apostolo dell'incredulità. Si tratta, evidentemente, di Jean Jacques ROUSSEAU- scrittore e filosofo svizzero, 1712/1778. 3 4 Ciò suscitò grave scandalo dello zio prete, il quale, però, ebbe la prudenza di fare buon viso a cattivo gioco, vista la situazione drammatica in cui tutti si trovavano, all'epoca in cui succedevano questi avvenimenti. D’altronde, pur avendoti dato un nome per il Comune, nessuno osò, per il momento, battezzarti nella fede di Cristo, in ossequio agli accordi presi con i tuoi veri genitori. E adesso ti racconto i fatti. Erano i tempi bui dell'invasione nazista e tutti noi eravamo preoccupati per la piega che la guerra andava prendendo, ma eravamo sicuri che la Maginot 4 avrebbe arrestato i nazi per sempre. Invece, proprio nel mese precedente, i tedeschi avevano aggirato la Maginot, avevano invaso il Belgio e l’Olanda, avevano sfondato le loro linee ed erano arrivati fino a Dunkerque. Tuo zio ed io ci stavamo prodigando con tutte le nostre povere forze, per dare un aiuto a quelle lunghe fila di sbandati che l'avanzata dei boches spingeva innanzi a se, come un'onda di piena che porta sulla sua cresta tutti i detriti, che incontra sul proprio cammino. Claudine, che, come tu certamente ricordi, era la levatrice più brava di Epernay, era incinta di sei mesi quando cadde per le scale della canonica di tuo zio, mentre gli andava a fare quella visita che era solita compiere tutte le sere, dopo aver sbrigato le faccende quotidiane nella sua casa. Anche quella sera Claudine aveva compiuto il tragitto di un centinaio di metri, che separa la casa, in cui lei abitava, dalla canonica di tuo zio. Tu non puoi ricordarlo, ma quelli erano i due unici edifici al di là del ponte, prima della guerra e prima che costruissero tutti quei brutti palazzoni che ci sono oggi. Così, al sommo della scala ripida e stretta che immette nella stanzetta in cui abitava tuo zio, ella mise un piede in fallo e precipitò per tutti i gradini . Claudine, aiutata dalla vecchia perpetua di tuo zio, con le acque rotte, riuscì a sgravarsi del feto, che, naturalmente però, nacque morto. Era una donna forte, tua madre, e, anche in quella situazione drammatica, non perse la calma. Essa aveva fiducia solo in me, come medico. La linea Maginot era una linea difensiva fortificata francese, tra il confine tedesco e quello francese; ritenuta insuperabile, essa fu invece aggirata dai Tedeschi che, passando dal Belgio e dall’Olanda, la neutralizzarono, prendendola alle spalle. 4 5 Saputo che ero fuori paese, per quelle incombenze che ti ho narrato prima, e che sarei tornato di lì a poco, Claudine accettò di attendere il mio ritorno, in quanto era capace, per il momento, di cavarsela da sola, con l'aiuto della perpetua. La sera stessa dell'aborto, la canonica di tuo zio ebbe la visita, improvvisa e tragica, dei tuoi veri genitori. Il mio povero amico era veramente un’anima retta, prima di essere un buon prete; per questo, non fece alcuna difficoltà alla richiesta insolita delle due anime in pena. Essi t'affidarono a lui, che era giunto a casa sua prima di me. Così, quando io arrivai finalmente alla canonica, trovai una puerpera ed un bambino. Invece tu eri nato, in realtà, già da tre giorni, ma eri gracilino e malmesso e, nel giro di poco tempo, nessuno si sarebbe più accorto della differenza. Questo mi dissero tutti, coinvolgendomi nella situazione, dopo avermi spiegato le straordinarie circostanze di quella notte. Per un mese, Claudine rimase chiusa in camera sua, con la scusa di complicazioni per il nascituro, complicazioni che io stesso avevo divulgato tra tutte le buone donne della zona. Al settimo mese della gravidanza di Claudine tu nascesti per il Comune, ufficialmente settimino, e per qualche tempo ancora, cercammo ogni scusa possibile, per non farti avvicinare da nessuno. Noi tutti sapevamo di rischiare grosso, se i nazi, che nel frattempo avevano occupato il nostro paese, avessero avuto sentore di quello che era accaduto. Sarebbe bastata una semplice radiografia delle ossa del bambino, per smascherare l’inganno. Rischiavo soprattutto io, che non avevo notificato l'aborto di tua madre ed avevo dichiarato il falso, sottoscrivendo il tuo atto di nascita; ma nessuno di noi voleva abbandonarti al tuo destino. Claudine, perché t'aveva, dopo pochi giorni, accolto come il figlio che aspettava. Tuo padre, per amore della moglie. Tuo zio, perché era la cosa più giusta e moralmente accettabile, in quella situazione. La vecchia perpetua, perché anche lei non avrebbe mai permesso di farti consegnare ai boches. Io, ..beh io ero solo e non rischiavo che di mettere me nei guai. Ma, a quel tempo, ero già abbondantemente compromesso con i nazi; come tu sai, io, di lì a poco, sarei divenuto il capo della resistenza di Epernay. Il fatto che la casa di Claudine e la canonica fossero allora così isolate, i momenti difficili in cui ogni persona di Epernay e 6 della Francia si trovavano a vivere e una buona dose di fortuna, fecero il miracolo. Tutti noi sapemmo mantenere il silenzio, soprattutto perché, in quella maniera, toglievamo una creatura, te, dalle grinfie di quelle bestie, che t'avrebbero certamente ucciso. Nessuno, oltre a me, tuo zio, i tuoi genitori e la vecchia perpetua della canonica, che era come una madre per tuo zio, seppe mai nulla. Nel giro di pochi mesi, il fatto era così rientrato nella normalità, che io autorizzai i tuoi a farti fare le prime uscite sul carrozzino, in mezzo ai rari passanti dei boulevards di Epernay, quando tua madre scendeva in città per fare compere. Per soprammercato, la circostanza che tu non fossi stato circonciso ci dava un sufficiente motivo di tranquillità, per cui rimandammo questo problema a dopo la guerra; cioè ad un tempo che allora ci sembrava, purtroppo, lontanissimo. Poi, dopo la fine della guerra, non avendo nessuno fatto parola di quegli avvenimenti e non trovandosi più alcuna traccia di tuoi parenti, anche lontani, il problema del farti conoscere le tue origini, reintegrandoti nella religione dei tuoi padri, scolorì sempre di più, fino a perdersi nella tua decisione d'abbracciare la vita del seminario. Infatti tuo zio, che, per regolarità t’aveva iscritto nel registro dei battezzati, pur non avendoti comminato effettivamente quel Sacramento, quando fu sicuro delle tue intenzioni, provvide ad impartirti battesimo, prima comunione e cresima, con un’unica cerimonia. Questo è tutto, ma io non sono ancora sicuro che il reverendo Pascal, che Dio l'abbia in gloria, abbia fatto bene a dirti queste cose, che ti hanno naturalmente scosso, senza darti nessuna possibilità di fare nulla al riguardo. Ma tant'è: tuo zio aveva un culto ossessivo della verità, anche quando questa è superata dai fatti e non serve più a nessuno. Cerca di non pensarci più e non fartene una croce". JJ era stato lungamente a meditare su quanto aveva appreso. La straordinarietà del fatto, che era stato all'origine della sua vita, l'aveva sconvolto, impedendogli di continuare la propria esistenza come se nulla fosse accaduto. La sua forma mentis, severa soprattutto verso se stesso, gli impediva di scaricare sugli altri la causa e le responsabilità dei suoi problemi. Quindi JJ non stette a recriminare sull'operato del buon parroco che l'aveva sì salvato in circostanze tanto drammatiche, ma che s'era arrogato il diritto di decidere quale Dio egli dovesse servire 7 o, almeno, in quale categoria di ministri del culto egli si sarebbe dovuto inserire. Questo, se non altro, aveva imparato dall'assidua frequentazione del corso di teologia, e cioè che il Dio dei cristiani altri non era che il vecchio Jahvè della Bibbia ebraica. Come tale era riconosciuto, dal prefetto del seminario, che era pure il loro insegnante di teologia. In realtà, il buon prefetto, sia pure a denti stretti e con infiniti distinguo, che diventavano insormontabili barriere per il Dio dei Protestanti e veri e propri baratri per lo stesso Dio, quando era invocato dall'alto di un minareto, doveva però accomunare tutte quelle religioni sotto la categoria delle religioni monoteiste. Il punto dolente era che, tra le religioni monoteiste, era giocoforza dare, almeno per motivi storici, la primogenitura alla religione ebraica. Questo fatto suscitava sempre l'accendersi delle domande più impertinenti, rivoltegli da quei ragazzi, forse al solo scopo di metterlo in difficoltà. Oltre a quella storica, era infatti difficile stabilire una preminenza, tra le varie forme in cui gli uomini si sono immaginati il concetto del Dio unico. L’Essere perfetto, per definizione, non poteva accettare una scala di priorità, in quella sua perfezione, ma solo una coincidenza. Tuttavia, non era certo la dialettica e la volontà di portare a compimento la sua opera di educatore che faceva difetto al buon padre gesuita, il quale aveva, come compito primario, il controllo dell'ordinato sviluppo delle vocazioni, affidate alla sua esperienza. Quella classe di giovani seminaristi, di cui JJ era stato il capo incontrastato, per quel certo carisma che era, e sarebbe stata nel tempo, un sua caratteristica costante, era pronta a seguire JJ in tutti i suoi più spericolati ragionamenti. Il Padre gesuita doveva tener conto di questo, se voleva tenere in pugno quella banda di piccole pesti, e le discussioni sulle varie raffigurazioni della divinità, che l’uomo si era immaginato nel corso dei secoli, suscitavano sempre un certo ribollire, nella classe capeggiata da JJ. Eppure egli, per tornare alla storia della sua vita, non fu nemmeno scalfito dal dubbio che tutta quella vicenda avesse avuto altri protagonisti, e responsabilità che non fossero le sue. Era la sua storia e tanto valeva assumerla in prima persona, senza recriminazioni inutili e lamenti vuoti. Così, quella tempesta di rivelazioni, che lo aveva colpito, dette un micidiale scossone alla vita del giovane, tanto da fargli, alla fine, abbandonare il seminario. 8 JJ s'immerse nella realtà del mondo di fuori, per tentare d'aggredire l'esistenza, da una parte diversa da quella che aveva finora sperimentato: la ricerca della conoscenza, mediante lo scavo, faticoso e doloroso, nella propria anima. Nel momento in cui aveva chiuso, o almeno soffocato in una qualche maniera, l'aspro dialogo, che aveva finora avuto tra la coscienza e l'intelletto, era venuta a galla, prepotente, l'altra passione. Essa definiva completamente il suo modo d'essere: un acuto bisogno d'interessarsi degli altri, di partecipare, assieme al proprio prossimo, alle vicende, quasi sempre tristi, qualche volta terribili, raramente liete, che noi tutti chiamiamo vita. Queste interessano veramente la massima parte degli uomini, solo se riguardano noi stessi; ma perdono, a mano a mano, d'intensità, quanto più si discostano dalla cerchia ristretta delle persone a noi più vicine e della cui esistenza c'importi veramente. Ci sono invece degli individui, rari, quasi unici, che non sanno vivere senza quel difficilissimo sentimento che ti fa piangere con l'uomo che ti sta vicino, anche se lo vedi per la prima volta, o ti fa gioire con lui. Questo accade, solo perché riesci a sentire, dentro di te, quella che gli antichi chiamavano "compassione" e che noi potremmo tradurre, un po’ liberamente, come il saper riconoscere l'Umanità che è fuori di te. JJ era una di quelle non comuni persone che hanno in sommo grado quella facoltà, preziosa e terribile, perché essa costringe ad assumere su di se tutte le vicende umane in cui ci s'imbatte. Così, ritornato a mostrare i pantaloni ed abbandonata quella tonaca antiquata, che mal celava la robusta "quantità vitale" che abbondava nelle sue membra giovanili, JJ si buttò nel “mondo di fuori“. Egli si ritrovò a vivere le esperienze comuni ai ragazzi della sua età, che non disponevano di ricchi genitori e che s'affacciavano alla vita, sul finire degli anni 50: la fabbrica, il motorino o, come si diceva allora, la motoretta; insomma la vita di tutti i giorni. Qui JJ incontrò le altre due esperienze, che avrebbero segnato la sua esistenza: la politica e le ragazze, anzi, la donna della sua vita; dando a quella parola, donna, l'antico significato, ormai perso, di signora e padrona del proprio animo. E sì, la compassione, cui abbiamo accennato prima, non poteva esplicarsi nel giovane se non nell'ideale politico, per tentare di dare una risposta a tutta quella serie di domande dolorose, che i casi della vita portavano alla sua conoscenza. 9 Egli non poteva cercare di risolvere le tristi verità in cui s'imbatteva se non appunto in chiave politica, tentando cioè di suscitare una proposta comune o di far intervenire qualcuno, di quelli che potevano, anche se ciò accadeva molto raramente. Ma, quando ciò avveniva, JJ considerava la sua piccola vittoria come la dimostrazione più evidente di quella che veniva chiamata: solidarietà di classe. Assolvere a quest'obbligo era diventato, per il giovane ex seminarista, un valido sostituto della sua precedente vocazione religiosa, perchè entrambi questi sentimenti derivavano appunto, come abbiamo già visto, dalla sua conformazione mentale. Questa cercava, attraverso una dura lotta, di raggiungere un minimo di equità logica, che servisse a dare un senso alla propria esistenza. Così, nonostante la sua giovane età, JJ si tuffò nella lotta politica nella banlieue parigina, in cui si era trasferito, in cerca di fortuna. In breve tempo, per quel suo carisma che già conosciamo, egli divenne un ascoltato capetto sindacale, uno di quelli che dovevano decidere se e come fare uno sciopero, nelle grandi officine in cui era entrato a lavorare, e come doveva essere gestita l'unità dei lavoratori. Egli, in questo modo, faceva da interprete, e non solo da cinghia di trasmissione, delle direttive che il Partito, l'onnipotente e mitico Partito, dettava secondo suoi imperscrutabili disegni. JJ si stava facendo notare proprio per questo, per la sua riconosciuta abilità nell'opporsi a decisioni che potevano pure esser prese dall'alto, ma che dovevano esser rese note e spiegate, a coloro cui toccava di agire e che avrebbero pagato di persona, tutte le conseguenze dei loro atti. Per questa forma d'aderenza più all'uomo che alle vuote formule, JJ era riuscito ad avere un seguito invidiabile, nonostante la giovanissima età, tra la massa degli operai della fabbrica in cui aveva cominciato a lavorare, ed essi l’avevano eletto loro rappresentante. Questo fatto non era passato inosservato ai politici che, a ragione, ritenevano la classe operaia, il bacino d'utenza per il Partito. Così, JJ era stato contattato per frequentare una scuola di quadri sindacali, in cui sgrossare prima ed affinare poi, le sue indubbie qualità, che, allo stato attuale, erano purtuttavia alquanto grezze. Egli aveva aderito di buon grado, perché s'era accorto che il suo retroterra culturale difettava, in maniera preoccupante, di tutti quei termini operativi e di quelle conoscenze teoriche, che erano 10 ormai patrimonio comune di tutti i giovani emergenti in campo politico e sindacale. Infatti anche se lui poteva sostenere un assalto sulla patristica e, forse, sul tomismo 5, l'unica cosa che gli ricordava quello, che ora stava apprendendo sul campo, era quell'Enciclica, che, ai tempi del seminario, aveva letto sul giornale che arrivava al Padre prefetto, e che era stata presentata come "sociale". Alla sua domanda di che cosa dovesse intendersi per sociale, il vecchio padre prefetto aveva affermato che la dottrina sociale di Santa Madre Chiesa avrebbe occupato l'ultimo anno della loro permanenza in seminario e che non era il caso d'accavallare i problemi, se si voleva avere una chiara ed ordinata percezione degli stessi. Quindi, ora, alla scuola del Partito, l’ex seminarista sentiva parlare, per la prima volta in modo organico, benché non certo con un notevole rigore logico e scientifico, di razionalismo ed empirismo, di Rousseau e della rivoluzione francese, di Hegel e di Marx, di Engels e di Darwin, di Freud e di Sartre. Ma tutto quello che imparava ora, sembrava essere una materia completamente differente, da quanto aveva appreso dai buoni padri gesuiti, che tenevano il seminario. Anche se confusamente, JJ s'era accorto che, in entrambi i casi, s'aveva a che fare con la filosofia; in altre parole, con lo studio delle idee che gli uomini s'erano andati facendo del Creato, del mondo, e dei problemi connessi. Sembrava però una ben strana materia, quella che per tanti anni gli avevano propinato in seminario, completamente diversa da quella che ora, al Partito, gli facevano ingurgitare, sempre a dosi massicce. O meglio, la materia aveva forse gli stessi termini, ma non gli stessi scopi. Anzi, ora che ci pensava, JJ non poteva far a meno di ricordare quanto aveva appreso su quei primi filosofi a pagamento dell'antica Grecia, i retori. Essi s'esercitavano a dimostrare, la mattina, una verità che, per mezzo delle loro parole, sembrava incontrovertibile; salvo poi, il pomeriggio, dimostrare l'esatto opposto di quella stessa verità, anch'esso in maniera indiscutibile. Proprio su questo problema, se cioè fosse possibile distorcere completamente una verità, pur rimanendo in buona fede, JJ aveva avuto una lunga discussione con il padre che, ai tempi ormai lontani del seminario, teneva loro il corso di filosofia. La Patristica è quella parte della Teologia che studia la dottrina dei padri della Chiesa; il Tomismo è il sistema filosofico e teologico di San Tommaso d’Acquino. 5 11 Il vecchio prete nero, pur apprezzando, o facendo finta d'apprezzare, la forza polemica del giovane Jean Jacques, aveva posto fine alla discussione dicendo: "Vedrà, caro giovane, come sarà facile, e qualche volta persino necessario e giusto, usare l'antico metodo dei retori, per risolvere le intricate questioni, in cui si cacciano le anime degli uomini. Il nostro compito non è quello d'esser logici, perché la logica è una qualità squisitamente umana, mentre noi dobbiamo perseguire e propagandare la Fede, che è l'unica possibilità di salvezza per l'anima. Facendo questo, noi ci comportiamo come chiede il nostro ordine, " Ad maiorem Dei gloriam " 6 . JJ aveva accettato la frase latina, che chiudeva invariabilmente ogni discussione, ma non era stato per nulla convinto da quell'idea, che il vecchio prete voleva instillare nella sua mente. Ora, mentre termini antichi prendevano posto, in una forma nuova, nella sua organizzazione mentale, JJ non poteva far a meno di riflettere su questa considerazione. Entrambi gli indirizzi di studio, che aveva percorso, non ponevano l'Uomo ed i suoi bisogni reali, come oggetto d'indagine e di riflessione, per cercare di risolvere i numerosi problemi a questi attinenti, ma ambedue si preoccupavano, soprattutto, di dare validità alle loro tesi, come se queste fossero il fine ultimo della vicenda umana. Dopo un anno di corso alla scuola di partito, JJ aveva fornito così buona prova di sé, da esser cooptato nelle strutture centrali dell'organizzazione sindacale, con un incarico che gli avrebbe permesso, a parità con il suo vecchio salario, d'avere il tempo d'ottenere, prima il diploma e poi frequentare l'università. In questa maniera il Partito sapeva scegliere i suoi elementi migliori e li addestrava per le battaglie future. A ben considerare, questa prassi non era molto differente da quella usata da Santa Madre Chiesa. Essa, infatti, destina i migliori, tra i suoi figli, alla Segreteria di Stato in Vaticano, quelli di seconda scelta li avvia alla carriera politica in quei partiti che riconoscono il magistero della Chiesa e gli altri li affida, come gregge, alle prime due categorie di uomini. “ Per la maggior gloria di Dio “. Il motto, preso come simbolo dai Gesuiti e riportato nelle loro pubblicazioni, spesso con le sole iniziali ( A.M.D.G.) risale a Gregorio Magno ( Dialoghi, 1,2,21). 6 12 CAPITOLO II MONIQUE All'Università JJ incontrò la sua seconda grande esperienza: Monique. Erano fredde le aule di sociologia, ma, in esse, lo spirito delle parole degli epigoni di Sartre portavano l'atmosfera al calor bianco. Era infatti quello il luogo, dove si stavano coniando gli imperativi, che avrebbero permeato delle loro richieste, di lì a pochi anni, tutto l'universo giovanile. Come si ricorderà, l'esistenzialismo dei maitres-a-penser dei primi anni cinquanta, aveva infiammato gli animi dei giovani, molto di più delle parole, ormai stantie, della cultura ufficiale. Quell’idea, inoltre, aveva iniziato un’opera di scollamento tra l'intellighenzia più fertile, perché più giovane, e le direttive, mai prima messe in discussione, del partito comunista. Il Partito, in Francia, era poi la quintessenza del monolitismo più assoluto nei confronti dei dettati del Cominform, il patto che univa i partiti comunisti dei vari paesi. Esso non aveva neppure la copertura di una veste scientificamente valida e storicamente corretta, come invece cercavano di fare i comunisti in Italia, sotto la guida efficace di Palmiro Togliatti. Alla fine, quando, la mattina del 25 ottobre del 1956, Budapest insorse, la frattura tra Partito e la coscienza degli spiriti, si consumò: il partito non era più il detentore del Dogma, la discussione era lecita, anzi doverosa. 13 Allora le menti più fertili ricordarono il primo trattato di filosofia, "L'immagination", scritto dal nanerottolo guercio 1, frequentatore delle caves alla moda. Sartre era infatti dotato di un pensiero talmente affilato, da ipnotizzare le intelligenze, che avevano posto mano alla ricostruzione, anche ideologica, avvenuta in Francia, subito dopo la guerra. Il fuoco covava sotto la cenere. Non essendo più un delitto sottoporre ad indagine critica l'operato del partito, le menti più aperte, in genere quelle più giovani, si dettero ad un nuovo sport: rifare le bucce alle direttive, e quindi alle idee del Partito. Questa era l'atmosfera, che si viveva nei circoli intellettuali francesi, nei primi anni sessanta. Di lì a poco, il nuovo grido di battaglia sarebbe stato, appunto, “l'immagination au pouvoir". Questo fu il compito storico dell'esistenzialismo. Esso, dopo aver dato voce e validità al dissenso nella sinistra, si spense nella miriade di " ismi ", che invasero la cultura europea. Dopo Dio, infatti, stava morendo, in Europa, anche la Ragione. Se non ci si fosse opposti a ciò, sarebbe riapparsa la buia cappa del sonno delle idee, che, periodicamente, intorpidiva l’Europa, generando mostri. In quel sonno s'apprestavano a far la loro comparsa altri mostri: il terrorismo, la teorizzazione della droga ed infine, più grave di tutti, il rifiuto d’impegnarsi sul campo della ragione stessa. Delitto questo, che è il massimo, tra tutti i delitti che possono essere compiuti dalla mente dell'uomo; e quel crimine divenne comune, negli anni a venire. Ma procediamo con ordine. JJ, accompagnato da Bernard, il suo amico del cuore, stava osservando le ragazze che si distinguevano per la partecipazione appassionata ai dibattiti filosofici, che inevitabilmente divenivano accapigliamenti politici. Quella partecipazione s'estrinsecava quindi in un baccano confuso ma piacevole. JJ però, snobbava con il silenzio l'opera di quelle suffragette che sarebbero state, almeno per la Francia, le antesignane di quello che verrà riconosciuto come il movimento femminista. Ad esso, la stragrande maggioranza dei maschi dava allora spago perche, in questa maniera, si riusciva a familiarizzare con qualche ragazza. 1 Jean Paul SARTRE -scrittore e filosofo francese 1905-1980. 14 Infatti Bernard, diversamente da JJ, considerava quelle aule un vero e proprio terreno di caccia, così come fa il leone, quando s'apposta presso l'abbeverata, per acciuffare qualche preda. Quando evocava questa, per lui, brillante immagine esplicativa, Bernard non poteva fare a meno di sghignazzare in modo feroce. " Ciao Geraldine, ti diverti come il solito a portare i maschietti al calor bianco, con la tua mania di fare delle raffinate seghette al cervello di chi ti ascolta, non è cosi ?". Apostrofata in maniera tanto cameratesca, anche se la beffarda figura retorica, evocata da Bernard, stava diventando comune tra i giovani del tempo, per evidenziare la ricerca di un tentativo d'intesa che superasse il lungo divario che, allora, ancora esisteva tra i sessi, Geraldine reagiva con lo stesso tenore: " Solo uno zotico come te non riesce a perdere il profumo della porcilaia, per quanti sforzi faccia il Partito, non è vero, Bernard? Va bene, ormai è finita, per questa mattina; portateci tutte e due a prendere un aperitivo. Ah, già, voi non conoscete Monique; lei non appartiene allo zoo di sociologia, ma studia seriamente a Lettere. Attenzione, giovani di belle speranze, vi avverto: questa ragazzina deve diventare una brava professoressa, per sposare un valente professore. Lui, poi, diverrà presto preside e forse guadagnerà, giovanissimo, una cattedra universitaria. Ma, per ora, nessuno lo conosce, se non come l'ignoto sposo". Queste parole, rivolte evidentemente alla ragazza che era accanto a Geraldine, ne provocarono un immediato scarto, come fa una puledra quando sente un pericolo al suo fianco: "Ma che stai dicendo, Geraldine?". L'improvvisa e rapida rotazione del capo di Monique aveva costretto la gran massa dei suoi lunghi e biondi capelli ad allargarsi, come una grande onda marina, che avanzava, lanciando bagliori. Sarà stato il rossore che portò improvvisamente i colori del sangue sulle guance, altrimenti perlacee, della giovane, sarà stata la grazia selvaggia del movimento improvviso del suo busto, che s'era girato di scatto a quelle parole, sarà stato l'attimo straordinario del sole, che attese proprio quel momento esatto, 15 per passare attraverso i suoi capelli, prima che l'immagine in controluce di Monique fosse messa a fuoco da JJ. Fatto sta che quel lampo colpì violentemente il giovane, lasciandolo, per un lungo istante, stordito. Egli non avrebbe mai più dimenticato quel lampo di luce, che aveva reso unica tutta la scena; per quanto improvviso e rapidissimo, esso sarebbe rimasto, per sempre, scolpito nel suo inconscio. Poi, fuori, nel sole, Bernard continuava le sue avances con Geraldine, sussurrando scherzosi doppisensi al suo orecchio; lei faceva finta di non accettare, ma si vedeva benissimo che gradiva. Le due coppie andavano alla ricerca di un bistrot, che accogliesse amichevolmente il loro bisogno di stare vicini. Eppure, per JJ e per Monique, tutto era sparito: loro due, soli, erano rinchiusi in una bolla colorata, che respingeva fuori di se il resto del mondo, lasciandolo in una confusa caligine, grigia ed indistinta. "Che nome è JiJì, è il diminutivo di che cosa?" Anche il suono, la modulazione di quella voce, colpiva in modo strano il povero JJ, che, evidentemente, era sotto attacco del più dolce dei virus, che possano assalire un uomo. Infatti, anche se egli era ancora un ragazzo, pure viveva con sentimento ed impegno il suo tempo, ponendo in esso uno zelo ed una passione, che rasentavano l'austerità, almeno fino all'istante precedente l’incontro con Monique. Ora invece, egli si sentiva simile a quel buffo cucciolo di cane che scorazzava abbaiando, nel tentativo di catturare l'attenzione del proprio padrone, nell'erba del prato su cui le due coppie s'erano rifugiate. Questo era appunto quello che JJ voleva fare, sia pur inconsciamente, nei confronti di quella ragazza, che entrava così prepotentemente nella sua vita. "Mi chiamo Jean Jacques Fernays, per gli amici JJ, sono nato non so dove, anche se sui miei documenti è riportato l'indirizzo di chi mi ha allevato, sottraendomi alla stessa sorte che ha sicuramente colpito i miei veri genitori, ebrei. Essi, durante la guerra, mi consegnarono ad un prete per salvarmi. Ho iniziato i miei studi in seminario, ma ora seguo la religione del popolo, cui sto dedicando tutta la mia azione. 16 Adesso parlami di te". "C'è poco da dire, se non che, forse, mi fa piacere sentirti raccontare che sei di razza ebrea, anche se il tuo tipo non corrisponde assolutamente allo stereotipo, che tutti hanno dell'ebreo. Vedi, nonostante i miei capelli biondi, benché la mia pelle denunci origini nordiche, mia madre era ebrea, venuta in Francia, in vacanza nel 35, dagli Stati Uniti, dove allora risiedeva. Ritornata a Parigi per rivedere il proprio padre, mio nonno, che non aveva voluto abbandonare l'Europa, mia madre ha conosciuto mio padre e qui si sono sposati, andando ad abitare, per loro fortuna, negli Stati Uniti, a Detroit, dove mio padre lavorava come ingegnere meccanico, alle fabbriche Ford. A Detroit, nel 43, sono nata, ed ho trascorso i primi anni della mia vita. Quando i miei morirono in un incidente automobilistico, io ritornai in Francia per vivere con mio nonno paterno. Egli, durante la guerra, era fuggito avventurosamente da Parigi, raggiungendo mia madre in America, ma, subito dopo la fine della guerra, era tornato alla sua città d'elezione, dove continua a fare l'eterno giovanotto, sempre in caccia sui campi Elisees. Tutto qui. Però devo ricordarti che, come tu saprai, i figli di un'ebrea sono ebrei, secondo la legge di Mosè. Mi fa piacere che anche tu sia in questa condizione, che non posso chiamare razza, né stirpe, né in alcun altro modo. Forse ha ragione quel pensatore ebreo, il quale affermava che l'ebraismo è una forma mentis. Ma, ora che tu me li hai fatti ritornare alla mente, sento di nuovo, fortissimi, i legami che m'univano a mia madre. Questi legami spesso si manifestavano nella rievocazione di vecchie favole dei suoi parenti, che provenivano dalla Polonia, nella celebrazione di riti e di cerimonie familiari in occasione delle festività ebraiche: il Rosh Hashanah2, lo Yom kippur3, la Pesach4, la festa di Shabuot5, i Tabernacoli, detti anche le capanne 6. Il capodanno ebraico. Il giorno dell’espiazione. 4 La Pasqua ebraica,che ricorda l’uscita dall’Egitto. 5 La Pentecoste ebraica, che ricorda la promulgazione del Decalogo sul monte Sinai 6 SUKKOTH, si commemorano i quaranta anni trascorsi dagli Ebrei nel deserto. 2 3 17 In quelle occasioni, mia madre si sforzava di ricreare l'atmosfera della sua famiglia d’origine, che proveniva dall’Europa dell’Est. Essa era stata distrutta dalla guerra, la prima guerra mondiale, quella che, allora, chiamavano la grande guerra. Già, anche allora gli ebrei avevano pagato un prezzo alto alla stupidità degli uomini, anche senza arrivare agli orrori dello shoa, l'olocausto. Interi gruppi di famiglie ebree furono spazzati via, come agnelli sacrificali, già nella grande guerra. Solo lei e suo padre, della sua numerosa famiglia, s'erano salvati. Mia madre aveva poi potuto raggiungere un suo vecchio zio, rabbino alla sinagoga di Detroit, che l'aveva accolta bambina in casa sua, nel ‘25. Più tardi, mio padre, che non era ebreo, osservava sorridendo tutte le manovre di mia madre, per farmi crescere nella religione di Abramo, come diceva lei. Egli accettava che me ne parlasse e mi facesse partecipe di quelle cerimonie, ma non volle, come era desiderio di lei, farmi presentare al Tempio. Diceva che i parenti di mia madre avevano già passato troppi guai per quella religione e che, se io ne fossi stata coinvolta, sarebbe stata una discriminazione che mi sarei portata appresso per tutta la vita. Questa decisione fu accettata da mia madre, sia pur molto a malincuore. Per questo, tutto quello che concerne l'ebraismo, mi riporta in mente sensazioni dolci e struggenti". Il tempo sembrava esser uscito dal loro universo, lasciandoli in un limbo indifferenziato e chiuso, in cui esistevano solo loro due. In quell’atmosfera magica, ogni parola era semplicemente un pretesto per sentire la voce dell'altro, mentre, per capirsi e per comunicare, non avevano certo bisogno di parlare. Durò, durò a lungo e sempre più intensamente . Si rividero altre volte ed ogni volta che s'incontravano, di nuovo raddoppiava, in loro, l'ansia che li prendeva, quando dovevano separarsi. Per cui finirono con lo stare, praticamente, sempre insieme. Questa situazione, dopo le prime ore dell'amore ideale, fu rapidamente superata dalla loro giovinezza, che, coniugandosi con il desiderio, li portava a cercare di conoscersi sempre più 18 intimamente, ad esplorare, nel loro corpo, quella misteriosa pulsione, che gli uomini chiamano amore. Pure Monique, benché ponesse una forza quasi sovrumana nel tentativo di resistere a quella tempesta che li aveva sorpresi e quasi travolti, seppe trovare le parole giuste, per porsi e porre dei limiti alle loro effusioni. "JJ, per me è estremamente difficile resistere, vicino a te, a quell'ansia di conoscerti sempre più profondamente: tu sai quanto io ti desideri, quanto io desideri il tuo corpo, la tua mente, la tua anima. Però ho sempre presente quel vecchio rabbino di Warsawa, lo zio di mia madre. Lo ricordo ancora vividamente, con la lunga palandrana, il cappello nero a tesa larga, i riccioli che gli uscivano dal cappello, la lunga barba bianca. Povera piccola ebrea nascosta - mi diceva - ricordati sempre, che, chi nasce da madre ebrea, è ebreo, anche se gli altri non lo sanno. Lo sa l'Altissimo, e ciò basta. Tu dovrai vivere in un mondo senza regole, perché tuo padre non vuole che tu conosca le regole del nostro mondo. Esse sono state consegnate ai nostri padri nel patto dell'Alleanza, per cui io non ti parlerò di religione, ma ti darò alcune norme di comportamento che ti saranno utilissime, per quando dovrai decidere da sola. Ora tu hai appena undici anni, sei ancora una bambina ma presto sarai donna, conoscerai le delizie descritte da re Salomone, nel cantico dei cantici. Ecco, non disperdere le tue ricchezze con il primo venuto. Devi esser ben sicura del tuo uomo. Non permettere che il tuo amore venga sporcato, fuori dal patto stipulato davanti a Dio; perché, in quel momento, in qualunque modo tu lo chiamerai, Egli sarà l'Altissimo, Colui che è, L'unico Dio. Non perdere, al suo cospetto, il rispetto per la tua vita. Ricorda che, se dolce è il godere del proprio corpo, ancora più dolce è il saper attendere il momento migliore". JJ faceva fatica a fermarsi davanti a quei ragionamenti, quando il suo corpo esprimeva tutta la sua necessità di sciogliere la propria forza vitale, nella femminilità dolce e terribile della sua compagna. Gli sembrava quasi d'essere escluso dal Paradiso, dando ragione inconsciamente a Platone, quando questi spiegava che, in 19 origine, le creature umane avevano, nello stesso corpo, le caratteristiche maschili e femminili. Gli Dei, infatti, invidiosi dello stato di felicità che questa situazione comportava, avevano separato con la spada quegli esseri fortunati, creando, in tal modo, i maschi e le femmine. Da allora i maschi e le femmine non facevano altro che cercare di ricongiungere quello che l'invidia degli Dei aveva separato. Quella ricerca, spesso vana, sempre dolorosa, per le rinunce che, quasi ogni momento, comportava, talvolta tragica, fino a spezzare l'esistenza, ma, in qualche rara occasione, dolcissima e comunque sempre insopprimibile, veniva, dagli uomini, chiamata Amore. Pure, il costume di quel tempo non permetteva ai giovani con la testa sulle spalle di superare un tabù che, allora, era fortissimo. Anche JJ era stato educato con quei princìpi. Per la sua conformazione mentale, egli, così attento e sollecito dell'altrui sentire, mai avrebbe permesso alla propria volontà di fare la minima violenza alla volontà altrui, specialmente in questo caso in cui la volontà era di chi, ai suoi occhi, rappresentava la persona più importante al mondo. Insomma, per tutte queste ragioni, JJ e Monique non avevano ancora compiuto quello che, a quei tempi, si soleva ancora chiamare "l'irreparabile". Beata gioventù; la vita si sarebbe ben presto accollato l'onere di presentare il vero "irreparabile". Questo però non evitava di far nascere, tra di loro, un senso d'insoddisfazione, un sentire come qualcosa d’incompiuto, la necessità di sbloccare quella situazione. JJ prese una decisione: "Monique, non posso più fare a meno di te, sposiamoci subito". "No, JJ, o almeno non ancora. Voglio essere sicura di te, di me, della necessità di quest'unione. Sono cosi confusa e non voglio sbagliare. Come vorrei avere mia madre vicino, per potermi confidare con lei". Anche JJ sentiva il bisogno di confidarsi con qualcuno, non fosse altro che per capire quello che stava loro succedendo, per confrontare, fuori di se, quell'enorme grumo di sentimenti, sensazioni, pulsioni, speranze, desideri; insomma, per tirare fuori tutto quello che aveva nell'animo, per poterlo esaminare dettagliatamente. Entrambi erano alla ricerca di un confidente, di una guida spirituale che sapesse mettere ordine nel coacervo dei propri 20 sentimenti e delle rispettive pulsioni, spiegando loro le decisioni più opportune da prendere. "Vedi Monique, noi dobbiamo parlarne con qualcuno. Nessuno di noi due ha più i genitori, i nostri amici se ne riderebbero, non possiamo rivolgerci se non ad una guida spirituale. Io non posso andare, per ovvii motivi, da un prete; tu saresti propensa a chiedere l'aiuto di un rabbino?". Così fecero, di comune accordo. 21 CAPITOLO III Il dottor Bubber. Elia Bubber era un uomo piccolo ed insignificante, quando l'incrociavi per la strada, le rare volte che usciva dalla sua stanza piena di libri accatastati in montagne dall'equilibrio instabile. Ma bastava parlargli per pochi minuti per sentire d'essere di fronte ad un gigante del pensiero, un uomo che sapeva scrutarti fin nelle viscere e tirare fuori, dalla tua anima, il ferro rovente che non ti dava pace. Li aveva indirizzati a lui, proprio Bernard, il fatuo Bernard, il ragazzo che non se ne lasciava scappare una, quando si trattava di mettere in mostra l'eleganza fredda di una mente lucida e "moderna", come lui stesso era solito dire e, soprattutto, cercare di dimostrare a tutti. Bernard aveva visto JJ svagato e non più determinato come un tempo, quando metteva lo stesso impegno, serio ed inflessibile, sia nel proteggere un apprendista che veniva messo sotto dal suo caposquadra, sia in qualsiasi altra occasione della sua vita. Una volta, ad esempio, accadde che Bernard lo sorprendesse ad allenarsi per ore, a quel nuovo gioco importato dall'America, il basket, che, adesso, era di gran moda, tra i giovani che volevano essere a la page. In quell'occasione, JJ se ne era stato ossessivamente a provare un tiro, mentre nessuno lo guardava, se non Bernard; il quale, ad un certo momento, non poté fare a meno di dirgli: " Guarda, JJ, tu devi solo far finta che questo gioco scemo ti piaccia, per far colpo sulle ragazze. 22 Non è necessario spendere tempo e fatica, per uno sport che, come tutti gli sport inventati in America, manca d'anima e d’intelligenza. Questo poi è particolarmente cretino, perché innalza a propri eroi, pezzi di carne, che hanno, come unica eccellenza, il fatto d'essere dei fenomeni da baraccone, dei giganti mal cresciuti". Ora, invece Bernard trovava JJ assorto, quasi assente ad ogni sollecitazione che l'amico metteva in essere, per suscitare in lui una qualche reazione. "Merde, JJ, ti vuoi svegliare? Che ti sta capitando? Monique sta facendo la difficile e non te la dà, oppure quella ragazzina ti sta spremendo come un limone, senza lasciare nulla per gli amici?". A quest'uscita di Bernard, JJ sembrò ravvivarsi di colpo, ma poi annuì con un sorriso triste: "Sei il solito porco, Bernard, ma questa volta hai quasi fatto centro. Io e Monique abbiamo dei problemi, o meglio i problemi li ha Monique, che non riesce a vivere tranquillamente il nostro amore e cerca la luna, senza lasciarsi andare". "Accidenti, la faccenda si fa seria; se Monique ti pone dei problemi, scaricala, è meglio per te". " Ma no, ho preso una cotta tremenda, non mi ci vedo, senza Monique". "Ahi, ahi, è sempre la vecchia solfa: Monique ha adocchiato il “ ragazzo serio “ e ti sta pilotando verso i fiori d'arancio. Ben fatto piccola, sei riuscita a mettere il sale sulla coda di un buon partito, anche se ora non ha un franco. Ma Monique, come tutte le brave ragazze, ha un sesto senso per capire quando il pollo è buono e come si deve cuocerlo a puntino". "Come il solito, fai il bruciato e poi non capisci un accidente. Ho già proposto parecchie volte a Monique di sposarla, ma proprio qui viene l'intoppo; mentre, secondo il tuo ragionamento, tutto dovrebbe filare liscio, dopo che mi sono impegnato". 23 "E allora, dov'è l'intoppo, che cosa ti ha detto, quale scusa ha tirato fuori?”. "Non penso che sia una scusa, lei dice di non sentirsi preparata. Sai, Monique ha perso la mamma che era quasi una bambina, e queste uscite sono comprensibili, in un tipino delicato come lei. Adesso va dicendo che vorrebbe parlare con un rabbino, o almeno con una persona di razza ebrea, per avere un consiglio che le ricordi quello di sua madre.". " Se non è che per questo, ti posso presentare mio zio, rabbi 1 Bubber, un sant'uomo molto venerato in sinagoga, anche se io non ci parlo molto volentieri, con lui". JJ rimase molto meravigliato che Bernard l'agnostico, l'amico che si divertiva a cachinnare ogni volta che il discorso cadeva su problemi che avessero anche lontanamente a che fare con la fede o la morale, provenisse da una famiglia che aveva, tra i suoi componenti, un rabbino, un uomo cioè che viveva per lo studio e l'applicazione di quei problemi. Ma, come dovrà in seguito rendersene conto, ciò avviene molto più facilmente di quel che si pensi. Qualche giorno dopo, mentre saliva insieme con Monique le strette scale che conducevano alla modesta abitazione di rabbi Bubber, JJ non poté fare a meno di lottare con uno sgradevole senso di colpa. Gli sembrava di tradire quei princìpi che erano stati i suoi per tanti anni, anche se, per il momento, li aveva messi da parte ed un po’ nascosti dietro l'impegno sociale, ma che non aveva mai tradito o rinnegato, almeno fino a quel momento. Eppure la promessa fatta a Monique, la voglia di confrontarsi con un pensiero religioso che aveva studiato essere distante da quello che gli avevano inculcato nell'infanzia e nella primissima giovinezza, ed anche una certa curiosità di conoscere le sue radici più lontane e più vere, lo spinsero ad andare avanti. La porta era socchiusa ma JJ bussò lo stesso; una voce disse loro d'entrare. In un angolo, dietro una piccola scrivania sommersa da libri e pacchi di fogli, tenuti dentro copertine color marrone, sedeva, quasi circondato da pile di carte, un piccolo uomo dai capelli brizzolati. Rabbi, o Rabbino:in ebr. “mio maestro“. Il Rabbino è un dottore della legge ebraica; dopo la diaspora il titolo fu attribuito ai capi spirituali di una comunità ebraica. 1 24 Un pizzetto a punta incorniciava una faccia arguta su cui era stampato un sorriso dolce, che rendeva ancor più penetranti gli occhi mobilissimi. Il dottor Bubber, lo zio di Bernard. "Entrate, ragazzi, vi stavo aspettando". Quasi intimoriti, i due stentavano ad avanzare; il piccolo rabbi allora s'alzò e li accompagnò ad una poltrona, che, insieme con la scrivania e qualche sedia, erano il povero arredamento della stanza. Un poco alla volta, rassicurati dalla figura di quell’anziano signore, essi incominciarono a parlare, dapprima molto genericamente, poi, sotto le abili domande del rabbi, sempre più dettagliatamente. Monique, in particolare, finì per raccontargli tutta la sua storia, non nascondendogli nemmeno quell'oscuro senso d'incertezza che l'aveva, da qualche tempo, presa, impedendole di vivere tranquillamente il suo amore con JJ. "Poveri, piccoli ebrei nascosti, che pena deve essere stata, per voi, non poter vivere al calore di una vera famiglia. Essa vi avrebbe protetto, vi avrebbe fatto conoscere le mille piccole astuzie necessarie per sopravvivere e, soprattutto, vi avrebbe insegnato la legge morale, senza la quale nessun uomo si può sentire, come veramente si deve sentire un essere umano. L'uomo non è nient'altro che una foglia secca, se non è piantato e custodito nell'insieme della sua famiglia; egli si sente un deracinè, se non è abbarbicato alle proprie radici. Questo, anche se voi non lo sapete, è un tipico sentimento ebreo: noi custodiamo scrupolosamente, come il nostro patrimonio più grande, la memoria di quelli da cui proveniamo. Pensate che alcune famiglie ebree del Medio Oriente o di Roma possono risalire, per più di duemila anni, sull'albero genealogico che i capofamiglia, che si sono succeduti nei secoli, hanno trascritto e tramandato metodicamente e fedelmente! Ma non voglio far opera di conversione, lascio volentieri questa attività ai preti cristiani, che sono molto più interessati ed attrezzati di me, per questo. 25 Vedete, io non sono uno di quegli ebrei ortodossi che riportano tutto al Talmud 2 e che attendono ancora il Messia, che li libererà con la spada in pugno. In ogni religione esistono spiriti che si rifugiano nella regola, bloccando ogni possibilità d'evoluzione, che pure è il destino dell'uomo. L'Ebraismo liberale, che è l'altra, grande, forma di ebraismo di cui si compone Israele, non pensa più all'avvento di un Messia personale. Esso postula l'instaurarsi di un era "Messianica", quando tutti gli uomini avranno ben compreso che veramente importante è la regola morale, quella che deriva dall'impronta che l'Altissimo ha voluto dare personalmente ad ogni uomo. Non è, quindi determinante in che maniera voi chiamiate l'Altissimo, sia essa Jhvh, Adonai o Elohim, oppure "il Santo", come talvolta usano fare i gentili 3, almeno nel momento culminante della loro funzione religiosa, o anche "il Misericordioso", come sono soliti recitare i versetti del Corano. L'importante è che, dall'idea di Dio, discenda, in ciascuno di noi, la legge morale, che è uguale per tutti gli uomini e che ci permette, attraverso l'osservanza di essa, d'onorare realmente, e non solo a parole, il concetto stesso di Dio". La conversazione andava avanti, sempre più interessante ed avvincente; i tre s’erano immersi in una sfera di pensiero che s'andava come progressivamente dilatando. Ormai i due ragazzi non si sentivano più nella buia stanzetta, in cui pure i loro corpi ancora si trovavano, ma lo spirito andava dietro alle domande che, talvolta anche inconsciamente, ciascuno d'essi s'era poste e che, fino allora, avevano trovato unicamente risposte sbilenche ed insufficienti. Il piccolo uomo sembrava avere il nutrimento che i due stavano cercando. Con la tecnica della levatrice, la maieutica, cara a Socrate, per mezzo di essa, egli traeva dalla mente stessa dei due ragazzi quelle verità che essi avevano in sé, ma che non erano capaci di far emergere da soli. Vasta e composita opera della letteratura religiosa giudaica, formatasi in un periodo di più di otto secoli, dal III a. C. al V-VI d.C.- Scopo essenziale del Talmud è quello di far conoscere la Legge orale, complemento indispensabile della Torah, la Legge scritta della Bibbia. Esso è composto dalla MISHNA e dalla GHEMARA. 3 In ebraico:“Goyim”. Termine con cui gli Ebrei chiamano coloro che non sono ebrei, ma appartengono ad una gens del mondo greco-romano; in senso generale, i cristiani vengono così chiamati dagli ebrei. 2 26 Fu poi la volta di JJ di verificare la potenza e la limpidezza di quella mente, quando, dall'analisi dei fatti contingenti, propri di ciascuno di loro, si passò alle grandi, eterne domande, che ogni uomo si pone, quando riflette un poco su se stesso: io, Dio e la Natura. JJ, che pure aveva conosciuto la dialettica dei padri gesuiti, sottile come un coltello ben affilato ed, allo stesso modo, capace di tagliare le carni, seguiva, affascinato, il rabbi che lo conduceva per mano, nel tentativo di mostrargli la norma, la regola per raggiungere la retta via. Poi, dopo molte ore, mentre già da parecchio era calata la notte, il piccolo rabbi li congedò, dicendo: "Non abbiate paura di quello che vi sta succedendo: state superando un altro gradino della vita, un momento importante e meraviglioso, ed è normale che tu, mia piccola ebrea nascosta, priva dell'aiuto di tua madre, ti sia sentita turbata e quasi persa, senza di lei. Anche gli animali, se sono privati delle cure che loro danno i genitori, fanno fatica a districare, fuori dall’istinto, che pure dovrebbe essere meccanico, le regole, che i loro simili apprendono facilmente dai parenti. E tu, piccolo rabbi, che hai voluto abbandonare la regola, ma che non l'hai dimenticata, perché tu sei stato creato per essa, cerca di non disperdere i doni, di cui è piena la tua anima. Tornate, tornate presto: parlare a giovani come voi è una gioia che ringiovanisce la mia mente. Soprattutto, giovani amici, spero d'aver risolto i vostri dubbi riguardo al vostro amore. Non abbiate paura di esso, è la cosa più naturale che possa capitarvi, ma non offendetelo, vivendolo fuori della regola. La sua forza è la forza più potente dell'Universo: essa potrebbe distruggervi, se voi non saprete viverlo correttamente ". Uscendo da quella casa, sotto le stelle di un cielo che sembrava messo apposta, per ricordar loro il motivo più urgente che li aveva spinti a quel colloquio, ognuno dei due restava muto, seguendo il filo dei propri pensieri. Entrambi sapevano d'aver vissuto un episodio importante. Esso avrebbe fatto loro superare le difficoltà che erano sembrate, fino a quel momento, frapporsi tra di loro. Monique cercò la mano di JJ ed egli le passò il braccio sulle spalle: senza parlare, ciascuno voleva dire all'altro che era felice. 27 CAPITOLO IV DIALOGHI SUI MASSIMI SISTEMI. Il colloquio con il dottor Bubber aveva rassicurato Monique e l'aveva liberata dalle sue ansie e paure, ma, nello stesso tempo, aveva insinuato, nella mente di JJ, un pensiero nuovo. O meglio, quel colloquio aveva nuovamente fatto emergere la propensione del suo intelletto a considerare, come importanti, tutte le domande che esulano dal quotidiano e che rappresentano, alla fine, l'essenza dell'uomo. JJ, che si sentiva attratto irresistibilmente dallo spirito del dottor Bubber, aveva necessità di confrontarsi di nuovo con quella mente. Essa aveva riacceso in lui un interesse che credeva spento, ma che, invece, era solo nascosto sotto la sua ansia di giustizia. Così, quasi per caso, anche se quell'occasione fu accuratamente, se pur non consciamente, preparata, JJ incontrò di nuovo il rabbi. Infatti, una settimana circa dopo il loro primo incontro, sul finire di un pomeriggio, il dottor Bubber, mentre si dirigeva a passetti svelti verso la propria abitazione, fu incrociato da un sorpreso JJ, che diceva, senza che nessuno gli chiedesse nulla, come lui stesse passando di lì per combinazione. Rabbi Bubber, con il suo solito sorriso, che in quell'occasione sembrava ancor più furbo, gli rispose a tono: " Era ora; stavo appunto chiedendomi quanto ci avresti messo, prima di trovare il coraggio di " intercettarmi " in una qualche maniera. Va bene, accompagnami a casa, chè dobbiamo parlare". JJ, con tutte le sue arie di filosofo in erba, molto attento alla considerazione di se stesso, considerazione che ogni persona seria supponeva dovesse avere, fu colto di contropiede. Quell’ometto sapeva leggergli nel profondo, doveva stare attento, ma non poteva permettersi d'abbandonarlo. Poi, nella famosa stanzetta, dopo che JJ si fu accomodato nella vecchia poltrona e mentre il rabbi armeggiava nel tentativo di 28 liberare almeno una parte della sua scrivania dalle carte, il dottor Bubber cominciò ad entrare nel vivo: "Ragazzo mio, non ci vuole molta più perspicacia di quella che normalmente dona un'età avanzata come la mia, per capire che tu ardevi dal desiderio di continuare una conversazione interrotta, per te, ed anche per me, troppo presto. Mi sono accorto subito che tu sei una di quelle rare persone che non vivono di solo pane, come ben dice quel grande rabbi ebreo, che tu conosci con il nome di Gesù. Dunque cominciamo". Così, mentre il cielo, fuori, si colorava dei caldi colori del tramonto, i due s'immersero nel dibattito che aveva, come tema, le domande eterne che ogni uomo, se è tale, si pone nel proprio intimo. " Vedi, JJ, quando tu vuoi capire che cosa è l'ebraismo, per andare alla radice da cui parte, storicamente, la ricerca del Dio unico, incontri la prima difficoltà: nell'ebraismo non esiste un Credo. In questa religione non c'è una dichiarazione ufficiale, una summa di quello in cui si crede e che tutti i suoi aderenti debbono accettare acriticamente, senza poterlo sottoporre al vaglio della propria ragione, come ad esempio, i trentanove articoli di fede della Chiesa Anglicana o il Credo NicenoCostantinopolitano della Chiesa cattolica. Il grande filosofo ebreo spagnolo Maimonide, che, come spero che tu sappia, visse nel dodicesimo secolo e morì al Cairo nel 1204, compilò un Credo di tredici articoli, che fu inserito nel libro delle preghiere degli ebrei ortodossi, ma quest'enunciazione, peraltro preziosa, non ha autorità ufficiale1. I tredici articoli di fede di Maimonide sono i seguenti: Dio è il Creatore e la Provvidenza del mondo. Egli è uno e unico. Egli è spirito e non si può rappresentare sotto alcuna forma. Egli è eterno. Dobbiamo rivolgere le nostre preghiere soltanto a Lui. Tutte le parole dei profeti d’Israele sono veritiere. Il più grande di tutti i profeti è stato Mosè. La Legge, tale e quale è conosciuta dagli Ebrei , è stata dettata da Dio a Mosè. Nessuno ha il diritto di sostituirla o modificarla. Dio ricompensa chi obbedisce ai suoi comandamenti e punisce i trasgressori. Egli conosce tutti i pensieri e tutte le azioni degli uomini. 1 29 Né potrebbe averla, perché l'Ebraismo ha, per sua natura, idee ben definite, ma non ha, né potrebbe avere, quelli che i gentili chiamano Dogmi, cioè verità di fede, imposte da una qualche Autorità e che, pertanto, debbono rimanere, per sempre, inalterate. Quindi l'Ebraismo, almeno quello che noi chiamiamo Ebraismo liberale, è una religione in continuo sviluppo. Esso assegna un posto importante agli insegnamenti che derivano dalla Bibbia e dal Talmud, ma non sostiene che se ne debbano accettare tutte le idee od osservare tutte le pratiche, solo sulla scorta della tradizione e dell'Autorità. Questa religione inoltre, attribuisce, al complesso delle cerimonie, un posto secondario e subordinato, conferendo valore ed importanza solo a quelle che esprimono appunto lo spirito dell'Ebraismo. Ciò che invece è fondamentale, in questa religione, è la fede in Dio, fede che si esplica su tre piani. Sul piano intellettuale: è necessario credere con la mente. Sul piano emozionale: il credere implica la nostra partecipazione emotiva, non è relegato alla sola sfera della conoscenza. Ad esempio, noi, sul piano della conoscenza, sappiamo che esiste l'imperatore del Giappone, ma la cosa non ci tocca sul piano del sentimento. Invece, se pensiamo, come francesi che esiste la Francia, ci sentiamo partecipi di tutta una serie d'emozioni e sentimenti che ci coinvolgono direttamente. Infine deve essere presente l'elemento personale. Quando diciamo che esiste, o è esistita nostra madre, un fiume di ricordi, di sensazioni, di sentimenti, sommerge quasi il puro fatto conoscitivo, scuotendoci nell'intimo. Questo è il modo corretto d'avvicinarci a Dio. Ma come si fa a provare che Dio esiste? A questo proposito si racconta una vecchia storia ebrea 2. Si narra che l'imperatore romano Adriano chiedesse una volta, a Rabbi Joshoua ben Chananiah, con parole dure: "Mostrami il tuo Dio" minacciandolo di morte se non l'avesse saputo o potuto fare. Il folle ordine era pur sempre un ordine dell'Imperatore e non ammetteva repliche, ma Rabbi Joshoua seppe rispondere in maniera semplice e, allo stesso tempo, sublime. Dio invierà il Messia , annunziato dai profeti. Egli riporterà in vita i morti. 2 Riportata nel libro di Israel I. MATTUCK “L’essenza dell’Ebraismo liberale” -GUANDA 1951 30 Poiché s'era a mezzogiorno di un giorno di sole, con l'astro sfolgorante allo zenit, il Rabbi chiese all'Imperatore: "Se vuoi vedere il nostro Dio, fissa il sole". Ma l'Imperatore rispose che il sole era accecante e quindi non si poteva guardare. Allora il rabbi replicò: "Come puoi tu osare di guardare il nostro Dio, se non puoi nemmeno alzare lo sguardo su una delle sue opere?" Invece risulta più difficile, anzi impossibile, definire Dio: Dio è, per definizione, l'indefinibile. Egli non può essere costretto in una spiegazione, che, per quanto razionale, è pur sempre una limitazione. Per questo la religione Ebraica condanna la raffigurazione visiva, anche sul piano estetico, del concetto di Dio, come idolatria. Questa proibizione è ben presente nella religione islamica, ed anche il Cristianesimo, nei suoi primordi, l'accettò. Ma, dopo, poiché quella religione s'era accostata al Potere per ottenere l'Autorità, questo fatto divenne motivo d'attrito tra due fazioni: gli iconoclasti, che non ammettevano la raffigurazione pittorica in campo religioso e coloro che vedevano in ciò, un utile motivo, perché faceva presa sui fedeli; essi furono detti iconoduli. Nei secoli ottavo e nono dell'era volgare, molte guerre, alcune scomuniche e qualche concilio ebbero, come oggetto, proprio la questione della liceità o meno della raffigurazione di Dio. Figlio mio, quando il potere mette il proprio grugno porcino 100 nelle dispute della fede, che dovrebbero essere tenute esclusivamente sul piano80delle idee, accade che ogni nefandezza 60 giustificazione, per nascondere la sua s'ammanti di una qualche Est vera essenza. 40 Ovest La volontà di potenza, come diceva un grande pensatore dei Nord gentili, essendo un atto 20 d'orgoglio verso Dio, è estrinsecamente 0 il male, in quanto rappresenta l'allontanamento da Dio". 1 2 3 4 Trim. Trim. Trim. Trim. JJ ascoltava affascinato il piccolo uomo, che giganteggiava in quella penombra. "Ma Lei, Rabbi, - si sorprese a dire, usando un termine per lui inconsueto, ma che sentiva essere molto appropriato, - come se lo raffigura, nel suo pensiero, Dio?" "Vedi, stiamo entrando su un terreno estremamente difficile e pericoloso. 31 Questa tua domanda, che pure è LA DOMANDA che si pone ogni uomo, può celare un grave pericolo. Infatti, se è un atto d'amore cercare Dio in questa maniera, essa può anche divenire un gesto d'orgoglio, perche Dio è, per definizione, l'INCOMPRIMIBILE in alcuna formula, soprattutto in un concetto che tenda a raffigurarlo. Ricorda che la cacciata dall'Eden fu la punizione proprio per questo peccato, perché Adamo volle gustare il frutto dell'albero della conoscenza, e non, come fanno credere gli epigoni di Saulo 3, perché fu tentato dalle grazie della propria compagna. Anzi, su questa mania sessuofobica di coloro che modificarono profondamente la semplice adesione alla religione Ebrea del buon Rabbi vissuto in Palestina duemila anni or sono, ci sarebbe molto da dire, non fosse altro che per i patimenti, le paure, i complessi di colpa, le distorsioni che essa ha provocato, nell'inconscio personale e collettivo di tutta la civiltà occidentale. Aver fatto del peccato sessuale, che è peccato solo in presenza d'abuso o d'offesa al diritto altrui, il PECCATO per definizione, quello da cui derivano quasi tutti i mali e le sventure degli uomini, dimostra solo che la tarda società ellenistica, di cui Saulo fu l'espressione finale, prima di precipitare nel ghirigoro mentale del Bizantinismo, era una società ormai devitalizzata e, per questo, sessuofobica". "È strano - l'interruppe JJ - che un rabbi ebreo si senta in grado di dare lezioni sulla continuità tra la grande tradizione del pensiero classico e la cultura moderna, che è cristiana e cattolica, mentre la cultura ebrea è sempre vissuta appartata e quasi rinchiusa su se stessa". "Come si vede, nel tuo modello d'organizzazione mentale, l'impronta di quei grandi combattenti per la loro fede, che sono i Gesuiti. Essi non rinunciano a nulla, neppure ad inculcare un così clamoroso falso storico nelle giovani menti che si trovano ad avere in loro potere. Ti risponderò con le parole di un grande filosofo dei gentili, di famiglia luterana, Friedrich Nietzsche. Egli, nelle pagine di un suo saggio, ”Umano, troppo umano“, dice testualmente: " Alla febbrile attività ebraica, al suo disincantato pensiero, dobbiamo se l'anello di civiltà che oggi ci congiunge con la cultura dell'antichità greco-romana non fu spezzato, mentre il Cristianesimo ha fatto di tutto per orientalizzare l'Occidente". 3 San Paolo 32 Ma torniamo alla tua domanda: come io m'immagino Dio. Fatti salvi i distinguo appena accennati, non voglio sottrarmi alla tua richiesta, ma devo fare ancora un piccolo excursus storico. L'idea del Dio unico, come tu sai, nacque in Israele tra i tremila ed i quattromila anni or sono. In principio però, il Dio d'Israele era, appunto, il Dio solo di Israele, l'unico vero Dio di un popolo, che si contrapponeva agli dei, falsi e bugiardi, dei nemici dei figli d’Abramo. A questa concezione quasi patronimica del concetto di Dio, venne a mano a mano a sostituirsi l'idea di Dio come Dio di tutti gli uomini, anche se Egli aveva stabilito un patto speciale con Israele e, quindi, era attento e sollecito alle vicende del suo popolo. Ma era pur sempre un Dio riferito alle vicende degli uomini e l'uomo, da poco, relativamente, ha messo il naso fuori dal piccolo recinto, che noi chiamiamo sistema solare. La scienza, in questi ultimi tempi, ci ha però fatto balenare un modello di universo, enormemente dilatato nel tempo e nello spazio. Le vicende di un piccolo pianeta che gira intorno ad una stellina di quart'ordine, in un momento scarsamente significativo per la vita della galassia, che gli ultimi studi sembrano definire in una maniera enormemente più grande di quanto si supponeva solo pochi anni or sono, ci mostrano almeno la non centralità del fenomeno UOMO. Appare ormai chiara, soprattutto, la possibilità che la sua unicità non sia tale, nello spazio o nel tempo, e questo fatto dilata, in maniera incommensurabile, il campo d'azione in cui si trova a dover operare il principio divino. Cerca di seguirmi nel ragionamento. So bene che non si tratta di una dilatazione dello spazio o del tempo, che possa mettere in crisi il concetto di Dio. Penso però che occorra considerare più attentamente il rapporto personale con il popolo eletto. Voglio dire che, razionalmente parlando, nulla vieta d'ipotizzare, nelle profondità dello spazio e del tempo del nostro Universo, se pure questo è il solo reale e possibile, altri percorsi verso l'autocoscienza, simili a quello compiuto finora da quell'essere che noi chiamiamo UOMO. Ti dirò di più; io personalmente non sono neppure convinto del tutto che l'uomo rappresenti lo stadio finale dell'evoluzione, qui ed ora. Infatti la famosa frase del Genesi: 33 "Facciamo ora dunque l'uomo a nostra immagine e somiglianza" è evidentemente attribuibile al solo principio logico che, sulla nostra terra, è presente unicamente nell’uomo e che, perciò, ci fa ad immagine e somiglianza del principio divino. Sono ben ridicole quelle ingenue rappresentazioni popolaresche dei gentili, che, nel tentativo sciocco d’ immaginare la forma di Dio, lo raffigurano come un vecchio burbero, con una gran barba bianca, con il triangolo dietro la testa per ricordarci quella contorsione mentale che è il concetto della Trinità, con una specie di grembiule bianco e con i piedi nudi. Se l'elemento divino presente nell'uomo è il principio logico, esso può, come indicano le più moderne teorie degli scienziati che studiano questa materia, essere non dato una sola volta e per sempre, ma rappresentare il frutto di un processo evolutivo lunghissimo, che essi scienziati chiamano appunto: "Processo di ominazione". In tal caso, il processo è ancora in corso e non è detto che esso s'arresti nella forma Uomo, che attualmente conosciamo e che, converrai, non è assolutamente perfetta. Anzi molta strada dovrà esser fatta al riguardo. Se s'accetta l'evoluzionismo di Darwin, la mia ipotesi è altamente plausibile, e non c'è cosa peggiore che quella di rifiutarsi di vedere; grave errore d'orgoglio che fece, per esempio, la chiesa di Roma ai tempi di Galileo. Se non si ha paura della realtà, nulla vieta d'ipotizzare un'evoluzione dell'uomo verso forme più razionali, che, per questo, sono anche più giuste. Qui io vedo la supremazia dell'Ebraismo liberale su quelle religioni che, imponendosi dei dogmi immutabili per definizione, s'imprigionano in sofismi difficilmente districabili. Ad esempio, se ipotizzi l'intervento personale di Dio nella storia degli uomini, al di là della rozzezza del concetto di un Dio raffigurato come individuo, come puoi conseguentemente esimerti dal postulare la necessità che l'azione di Dio debba esser ripetuta all’infinito? Questo fatto ne svilisce l'intenzione, a meno di non considerare l'intervento di Dio come l'adempimento automatico di una legge. Mi spiego: teniamo ferma la storia degli uomini che conosciamo, ed inoltriamoci ad ipotizzare l'esistenza di un'altra civiltà autocosciente, poniamo su Marte o su un possibile pianeta della stella del mattino, Sirio. Se abbiamo prima postulato che l'uomo non può, da solo, arrivare alla salvazione, perché i nostri progenitori si sono macchiati del peccato originale, da cui, per dogma di fede, ci ha 34 liberati lo stesso Dio, che si è fatto uomo per redimerci da quel peccato, come la mettiamo per quelli di Marte o della stella Sirio? Se anche loro hanno peccato, si dovrebbe ipotizzare, anche per loro, un intervento divino. Intervento che, considerato il numero quasi infinito di mondi che si possono razionalmente supporre abitati, finirebbe con il diventare un fatto così ripetitivo, da divenire di routine. A meno che non lo si consideri, al solito, un rapporto di causaeffetto, senza potere discriminatorio della volontà, cosi come è appunto l'obbedienza ad una legge. Se invece quegli ipotetici, felici abitatori di quei mondi lontani non hanno peccato, quando sono stati sottoposti alla prova, rimanendo come Adamo nel paradiso terrestre, come i gentili chiamano l'Eden, essi allora sono in uno stato completo di grazia, quasi angeles, e quindi loro sarebbe il dominio dell'Universo. E allora, noi? Mi sembra d'averti dato una chiara dimostrazione di come, costruendosi dei Dogmi invalicabili, si possano frapporre difficoltà insormontabili al pensiero logico. Per questo l'Ebraismo liberale accetta un solo dogma, o meglio un solo Credo, cioè la fede in un Dio unico, senza alcun'altra limitazione. Consideriamo ad esempio un’idea comune all'Ebraismo ed al Cristianesimo, che appunto dall'Ebraismo l'ha ereditata: il concetto di Messia. Come tu sai, il Messia era un'antica speranza ebrea, che auspicava la venuta di un "Unto del Signore" (questo è il significato della parola Messia). Egli avrebbe liberato quel popolo dalle sue sofferenze. I cristiani pensano che il Messia sia già giunto duemila anni or sono, e l'individuano in Gesù di Nazareth. Gli Ebrei ortodossi ritengono che questa figura superumana debba ancora manifestarsi. Naturalmente, ti parlo senza scendere nei particolari più ostici, come l'ipotizzare due Messia, uno della stirpe di Davide ed uno di quella di Levi, come postulano i rabbi più intransigenti 4. L'Ebraismo liberale, questa religione della fede, ma anche, soprattutto, della ragione, giunge perfino ad ipotizzare che il Messia possa essere immaginato non come l'avvento di una persona reale, che libererà il popolo Ebreo, ma come l'instaurarsi di un'epoca messianica. Tesi riportata nel libro ” I manoscritti del Mar Morto “,di J.A.SOGGIN -Newton Compton ed. ott. 1994. 4 35 In quell’epoca felice, la fede e la ragione libereranno tutti gli uomini dalle proprie ossessioni, instaurando così, finalmente, un'era di pace e di giustizia universale. Ora, dopo averti portato per mano a considerare l'intima ragionevolezza della mia fede, posso rispondere alla tua domanda, su come mi raffiguro Dio. Pongo però un ultimo distinguo: la mia idea, per le ragioni che ti ho spiegato, è valida solo per me e, forse, solo adesso, perché potrebbe anche mutare in futuro. Io dunque, m'immagino Dio come la legge originaria del nostro Universo, che trascende anzi il nostro Universo, in quanto Dio comprende l'Universo e non viceversa. Questa legge razionale, questo LOGOS, come direbbe Saulo, è però anche Volontà, aspirazione all'ordine logico in un Universo che, al di fuori del principio divino, tenderebbe al Caos, al caso probabilistico, che è una degenerazione, o almeno una estremizzazione del concetto di ordine. Quanto poi al perché del Creato, esso è inconoscibile per l'Uomo. Io tento un'ipotesi ardita: ne cerco il perchè quasi sul piano estetico. Quale è il fine di un artista? Creare un'opera bella. Questo è, forse, lo stesso fine di Dio: il Creato è la bellezza. L'aspirazione al bello, che noi tutti sentiamo, è l'eco lontana dell'infinita bellezza del Creato. Solo l'artista, tra gli uomini è in grado di raggiungere con la sua opera, ahimè per un solo attimo, l'Assoluto. Per questo uno spirito fortissimo, che nacque sulla radice ebraica, anche se esso, alla fine, si proclamò cristiano, di un cristianesimo però molto particolare, al di fuori d'ogni confessione storica, Simone Weil, parla ripetutamente, nella sua opera, della bellezza come " incarnazione di Dio "5. Nel modello che ho cercato di descriverti, l'uomo è la forma più concreta e, al momento, più alta, di quest'aspirazione all'ordine logico, così come noi la conosciamo o, meglio, la percepiamo. Non è detto però che questa forma sia l'unica o la più alta possibile, in assoluto. Per questo, l'uomo deve poter vincere la propria battaglia. Simone WEIL ( Parigi 1909-Londra 1943) Scrittrice e pensatrice francese. Laureata in filosofia, abbandonò l’insegnamento per lavorare in fabbrica,come operaia alla Renault. Combattè a fianco dei repubblicani spagnoli. Morì di consunzione a 34 anni. Nata da una famiglia ebrea agnostica, si proclamò cristiana, senza però aderire ad alcuna confessione. La sua caratteristica principale fu un’appassionata partecipazione alle miserie degli “ oppressi “. 5 36 Perciò l'uomo è libero e non condizionato in uno schema, che non gli lasci scelta. Se egli sarà in grado di farcela, o almeno di dare origine ad una specie, più adatta di lui, a seguire l'imperativo morale e l’aspirazione al bello che il Creato gli grida silenziosamente, per compiere il proprio compito, che è il volere di Dio, allora l'uomo avrà raggiunto lo scopo per il quale è stato creato. Altrimenti, un’altra vita autocosciente scaturirà dal magma vitale di questa terra, o di un altro pianeta del nostro Universo, per compiere quel destino, che l'uomo non ha saputo vedere. Ecco, spero d'essermi spiegato abbastanza chiaramente, anche se io stesso non sono del tutto certo d'aver correttamente enunciato il problema. Dio, nel modello che la mia mente ha tracciato, pur con tutte le inadeguatezze possibili, è volontà, nella legge, per giungere ad un fine, forse per mezzo dell'Uomo. L'Uomo trova, nell'aderenza a questa legge, il fine ultimo della sua esistenza. Insomma il Principio Divino, che ha creato l'Universo come soddisfacimento di un'istanza forse estetica, è lo stesso Principio che permette all'Universo di non collassare nel Caos. Questo avviene, non perché l'Universo, opera di Dio, non sia perfetto, ma perché nell'idea di Dio, esso trova il proprio motore immobile, come diceva Aristotele, il proprio perché, la propria necessità d'espandersi nella realtà. Lontano da Dio inizia il Caos, l'incoerente, quello che anche la Chiesa dei gentili chiama il Male. L'Uomo, o meglio, l'intelligenza logica, è il messo posto da Dio nel suo Universo per portare, sempre più innanzi, la frontiera del vero, del bello, del razionale; in una parola, per aumentare la sfera del Creato, che si riconosce razionalmente in Dio. Il compito, affidato da Dio all'intelligenza logica, ha bisogno di un'etica che lo sorregga nel proprio estrinsecarsi: quella è la nostra morale. Ma come sono più vere, più facili, direi quasi più logicamente eleganti, le parole del quarto versetto del sesto capitolo del Deuteronomio: "SHEMA YISRAEL ADONAI ELOHENU ADONAI ECHAD" "ASCOLTA ISRAELE, IL SIGNORE NOSTRO DIO, IL SIGNORE E’ UNO". Sono passati più di tremila anni, innumerevoli menti si sono arrovellate su quel problema, ma nessuna è riuscita a trovare 37 una formula più soddisfacente, per definire la professione di fede che un ebreo credente evoca, quando recita lo SHEMA. Quella è la preghiera che milioni di ebrei hanno recitato quotidianamente e finalmente, per l'ultima volta nella loro vita, quando si sono trovati di fronte alla morte. Essa è, contemporaneamente, una preghiera, un atto di fede, un enunciato teologico ed una dichiarazione d'appartenenza ad un popolo. Come vedi, ho detto un popolo e non una razza, anche se i gentili, nei secoli, hanno sparso la voce che noi saremmo stati gli inventori del concetto di razzismo, con l'enunciazione dell'idea del popolo eletto. Quale ignobile accusa, quale mostruoso distorcimento della verità, imputare al popolo che più ha sofferto, nei secoli, le tragedie dovute all'immonda idea del razzismo, la causa di tali tragedie, l'ultima delle quali, lo Shoah, l'Olocausto, griderà, per sempre, vendetta innanzi all'Onnipotente! L'Ebraismo è un'idea, compiutamente e completamente racchiusa nello Shema, ma non vi è, in esso, alcuna traccia di componenti biologiche o razziali: tutti possono essere ebrei, basta che professino lo Shema. Abbiamo Ebrei etiopi, di pelle nera, i Falasca, ed ebrei ariani, come l'antico popolo dei Cazari, una stirpe d'origini turche, stanziata nella Russia meridionale, che si convertì in blocco all'Ebraismo. Anche gli Ebrei Ashkenazim, cioè gli ebrei che provengono dall'Europa del nord, ben poco hanno, in termini di stigmate razziali, in comune con lo stereotipo del Semita dalla pelle scura e dal naso adunco. Eppure tutte queste genti appartengono al popolo Ebreo, alla stirpe di Abramo, che stabilì il patto con l'Onnipotente. Un unico legame li unisce: lo Shema. Un'unica legge li rende partecipi di quell'Alleanza: la Legge professata nella Bibbia 6 e chiosata nel Talmud. Un'unica idea li rende Ebrei: la professione di fede in un solo Dio. Lungi da me l'idea di tentare di riportarti alla fede dei tuoi padri. Questa è un'opera che solo tu puoi tentare, se ne senti, autonomamente, il bisogno. Per semplicità, dovendo tra poco trattare della Bibbia, sia concesso adottare, ove non specificamente accennato, la ripartizione e la nomenclatura cristiana dei suoi vari libri, onde evitare confusioni con la ripartizione e la nomenclatura ebrea. 6 38 Solo quella religione che persegue il Potere, crede di divenire più potente, quanti più adepti essa abbia e, per questo, s'adopera e si sforza, nel fare opera di proselitismo. I rabbi ebrei, invece, sono molto gelosi della loro religione, molto sospettosi, quando si tratta di mettere in piazza il proprio tesoro e, quindi, sono assai restii a fare opera di proselitismo. Essi controllano attentamente coloro che vogliono aderire alla religione dei nostri padri. Questa, finora ha permesso che infinite sventure colpissero i propri figli. Essa non è stata certo un lascito facile e redditizio, ma ha riempito i nostri cuori della certezza d'essere nel giusto, proprio perché Dio mette alla prova coloro che ama. Rifletti a quanto ti ho detto, figlio mio, coltiva nella tua mente, ma soprattutto nel tuo cuore, queste verità e falle fiorire". Molte altre volte, ormai non più per mezzo di uno stratagemma, JJ incontrò il vecchio rabbi e le loro discussioni s'avventuravano nei campi sempre più impervi del pensiero religioso. I temi delle loro discussioni erano difficili, ma entusiasmanti: il libero arbitrio, la volontà di Dio, la necessità dell'Uomo nel disegno del Creato, il concetto di male e quello di peccato, l'escatologia finale, cioè i fini ultimi dell’universo e dell’umanità, la vita oltre la morte, la morte dell'Universo ed il suo possibile risorgere, il rapporto tra pensare e fare. A tutte le domande del giovane, il rabbi rispondeva, cercando d'esporre chiaramente la versione che ne dava il pensiero ebraico, come s'era andato evolvendo nei secoli. Egli riportava altresì i modelli che, di tali problemi, avevano le altre religioni monoteistiche e le religioni del rifiuto, come il saggio rabbi chiamava quelle religioni orientali. Queste, infatti, vedevano l'unica realtà dell'Uomo nel ritorno al gran fuoco di Shiva o nel superamento delle passioni, tipico del Bhudda, non concedendo alcuna validità, per il cammino dell’uomo. Venivano anche esaminate le argomentazioni di coloro, che si professavano atei. Anzi, a questo proposito, il dottor Bubber aveva rivolto gran parte della propria ricerca filosofica, nel tentativo di stabilire le ragioni che possono indurre un uomo a definirsi ateo. Dall’impossibilità teorica, per l’uomo, d'arrivare a conoscere il “Noumeno”, la “ Cosa in se”, cioè come veramente è quest'universo, che appare, si mostra, come fenomeno, ne discende che le varie prove dell’esistenza di Dio abbiano sempre avuto un carattere indiziario. Ma, come si sa, ogni processo indiziario offre spunti ad entrambe le tesi. 39 In definitiva, le motivazioni, di coloro che si definiscono atei, si potevano ridurre in due grandi filoni. La più seria argomentazione si poteva far risalire alla posizione di Kant, che non riteneva indispensabile, nel suo concetto di Universo, la necessità d'ipotizzare un Dio, da cui derivasse il tutto, la Natura e l'Uomo, ma bastava: "Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me" 7. Erano indispensabili cioè solo l'ideale estetico e quello morale, per definire il nostro mondo, come recitava l'iscrizione posta sulla tomba del filosofo di Konigsberg, il quale, d'altronde, non aveva mai fatto professione d'ateismo, anzi aveva concluso la suo ricerca filosofica, arrivando appunto alla teorizzazione di Dio. L'altro grande filone si deduceva dalla filosofia di Epicuro, che recitava: "Gli Dei, se pure esistono, sono così lontani dai nostri affanni, così presi dalle cure dei loro problemi, che non s'interessano minimamente a noi". Dalla commistione di queste due tesi derivano tutte le possibili posizioni atee. Una di queste, particolarmente interessante per la sua consequenzialità logica, è quella scientifico-razionalista, propria di coloro che fanno scienza e che, per questo, sgomberano il campo d'analisi, da ogni elemento non misurabile con la loro scienza. Un’altra, molto in voga nel campo della politica, è quella scientifico-sociale, che definisce le religioni "l'oppio dei popoli", cioè lo strumento, per mezzo del quale, il potere ha finora brutalmente tenuto a freno l'unico, vero depositario del potere stesso, e cioè il popolo. Eppure entrambe queste posizioni, che, pure, sono le teorie atee più razionali, s'accalorava il dottor Bubber, mettono da parte il concetto di Dio, ma non possono assolutamente negarlo. Anzi, in questa contrapposizione, se cioè erano possibili le blasfeme enunciazioni che recitavano: "Dio è morto", oppure "L’Uomo non ha più bisogno di Dio", era implicito un pericolo mortale. Su di esse, secondo il vecchio Rabbi, si sarebbe giocato il destino dell'Uomo nel prossimo millennio, e quindi nei secoli a venire. Si sarebbe infatti determinato un grave handicap per la missione dell'uomo nell'Universo, qualora esse non fossero rapidamente superate. 7 Come e’ noto , questa e’ l’iscrizione posta sulla tomba di Kant. 40 Anche JJ, secondo quanto captava nell'atmosfera che gli facevano respirare i suoi nuovi capi, avanzava il proprio modello di realtà: "Il caso ha indirizzato il Caos primigenio secondo leggi probabilistiche, inducendolo ad autoorganizzarsi in sistemi sempre più complessi, ma omogenei alle leggi che regolano quest'universo, in quanto coerenti con il modello probabilistico del caso stesso. La legge base, la legge costituente dell’ universo, è la matematica in senso lato, o meglio il metodo matematico, che tende esteticamente a soluzioni sempre più raffinatamente semplici, ma che consentono di estrapolare un sistema coerente di leggi che descrivono questo stesso universo. In un universo così definito, l'autocoscienza è il fine ultimo, il prodotto che potrebbe tendere a superare i confini stessi dell'universo in cui si è sviluppato e dietro cui, o, oltre il quale, vi è, per il momento, l'ignoto. Quindi, nel nostro universo, occorre distinguere un primo momento aggregante, che è il caso; un momento propulsore necessario, che è dato dall'organizzarsi di quest'universo secondo uno schema matematico-scientifico ed un momento finale, che inizia con l'autocoscienza. Essa rende esplicito uno svolgimento ed intraprende uno sviluppo, che condurrà infine i portatori dell’autocoscienza, alla conoscenza della necessità di questo universo ed al superamento possibile dei suoi limiti”. "Bravo - gli faceva eco il dottor Bubber - non t'accorgi che, così facendo, hai inventato la macchina? Pensi veramente che una macchina calcolatrice possa essere più complessa del più semplice degli uomini? E come inserisci, nel tuo modello, la Volontà, il fiat lux originario, il motore immobile che origina e mette in moto il tutto, come già aveva ipotizzato Aristotele?. Inoltre, a ben guardare, il tuo modello differisce dal mio, solo perché, in questo, viene postulata la volontarietà, che è sempre stata espressa nel concetto di PERSONA, di Entità autocosciente, libera d'operare, e non solo d'adempimento automatico ad una legge. Ricordi? “Io sono colui che è".8 Questa è la risposta che Dio diede, quando Mosè chiese chi Egli fosse. (Es 3,14). 8 41 Naturalmente quelle dispute non portavano ad alcuna conclusione, perché è nella natura dell'Uomo non poter rompere la crosta del fenomeno, per riuscire a vedere che cosa è veramente il noumeno, la cosa in sé, che si nasconde sotto l'apparenza del fenomeno stesso. Ma non erano vuote discussioni, quelle che s'accendevano tra il rabbi ed il giovane desideroso di conoscere; non erano inutili esercitazioni cerebrali. Seghe al cervello, come avrebbe impudentemente detto il buon Bernard, amico dell'uno e nipote dell'altro, il quale si credeva un "libero pensatore" ed era soltanto uno che pensava poco. Egli, infatti, non amava esercitare, negli ardui campi del sapere più impervio, quella qualità umana, il pensiero, che, sola, ci permette d'avvicinarci all'Assoluto, l’unica che ci porta a contatto con Dio. 42 CAPITOLO V IL PARADISO E L'ESTASI. Il continuo esercizio in un campo per lui così congeniale, faceva bene alla mente del giovane JJ, che stava vivendo un momento straordinario. Tutto sembrava andare per il verso giusto; amore, lavoro, soddisfacimento del proprio ego per le affermazioni che andava raccogliendo, appagamento personale, per la sua opera a tutela dei militanti più umili e più bisognosi. JJ si rendeva conto della stima, che sentiva montare a suo favore tra i propri colleghi, era conscio della sua rapida ascesa, all'interno del partito e del movimento sindacale. Tutte queste attenzioni della fortuna per la sua persona erano vissute da JJ come una naturale conseguenza del proprio valore, che, finalmente, cominciava a farsi strada, tra la moltitudine di giovani ingegni, presenti ed operanti nella Parigi degli anni sessanta. Anche la laurea in sociologia, conquistata a passo di corsa, gli aveva aperto ulteriori possibilità, facendogli balenare l'eventualità d'intraprendere la carriera accademica, come molti dei suoi professori gli andavano proponendo. Così JJ si sentiva, ed era, al massimo delle sue potenzialità, ben caricato e deciso a conquistare tutti quei doni, che la vita sembrava offrirgli, pur non rinunciando a ritenersi ed a comportarsi come un genuino difensore dei più indifesi. A questo proposito è interessante osservare la metamorfosi, che può accadere a giovani, pur molto validi, quando questi iniziano la propria opera in difesa degli altri. Mossi da un genuino senso di giustizia, per mezzo di questa loro azione, essi si trovano ad esercitare un potere che assomiglia a quello antico, che praticavano, nella Repubblica Romana, i tribuni della plebe. Trascinati da quelle sollecitazioni, spinti a quel potere, molti di quei giovani, nel corso della loro opera, incontrano il Potere tout court, quello senza altri attributi se non il danaro, che è un modo differente per descrivere lo stesso potere. Quell'incontro diventa un cancro per il loro spirito, che è divorato, dal di dentro, da Mammona. In tal maniera, essi perdono completamente di vista le motivazioni da cui erano partiti; così, gli stessi divengono anime dannate di quel potere che volevano combattere. Ma questo non era il caso di JJ. Pur nel lento trasmutarsi dei propri sogni giovanili nelle solide realtà di un'età che stava per confrontarsi con la maturità, JJ non 43 aveva abbandonato per nulla quel suo spirito, che lo faceva partecipe dei patimenti del suo simile. Per mezzo di quella sua rara qualità, egli rimaneva strettamente fedele agli ideali che avevano impresso un sigillo particolare, alla propria anima. Quegli ideali mostravano, ancora una volta, come appunto l'anima nasca originariamente con delle qualità, delle virtù o dei difetti; essi marcano indelebilmente il carattere, formando così un unicum, la cui estrinsecazione agli altri è definita: persona. Appena Monique si laureò a sua volta, i due si sposarono con una semplice cerimonia nel loro arrondissement 1, davanti al delegato comunale, culminata poi in una gioiosa festa campagnola, in una masseria poco fuori Parigi. A quell'allegra baraonda parteciparono tutti i giovani ingegni emergenti tra quella corbeille d'intelligenze, che s'apprestavano a dare un solenne scrollone a tutto l'establishment europeo. Era apparsa singolare, a JJ, questa risoluzione di Monique, di voler prima raggiungere la laurea e poi sposarsi, quasi un ricordo di una mentalità piccolo borghese, anche se quella sua piccola, deliziosa, assennata donnina l'aveva rigirata in chiave quasi femminista. "JJ, non pensare che io rimanga a rammendare i calzini del mio Signore e Padrone, interessata solo a far stufati e bambini, mentre tu spieghi la potenza creatrice di Bergson ad una schiera di ragazzine adoranti. Io voglio avere un mio lavoro autonomo, che possa far crescere la mia personalità e mi dia possibilità concrete di affermazioni, per vedere quello che valgo". JJ aveva sorriso, a quello che riteneva un capriccio della sua Monique, ed era stato al gioco. Tutto era filato liscio come l'olio e la loro naturale ansia di vivere era stata confortata da una serie di tranquille, ma non per questo, meno esaltanti vittorie. Infatti, in breve tempo, JJ aveva infilato importanti traguardi: la sua nomina a professore associato alla cattedra di filosofia, il suo primo libro di successo, "Sisifo e l'Occidente", la richiesta di collaborazione alle più importanti riviste, che lo consacravano ingegno brillante nel cielo della Francia. Tutti quei riconoscimenti gli davano un risarcimento per la momentanea eclisse che JJ s'era, nel frattempo, guadagnata nel partito, per le sue posizioni non ortodosse sulla linea politica e Ripartizione amministrativa di Parigi. Corrisponde, grosso modo, alle circoscrizioni delle città italiane. 1 44 gli fornivano, per soprammercato, anche l'aureola del perseguitato, perché ribelle. Tra l'altro, quell'aureola gli stava così bene perché era in linea con il suo personaggio e con la sua più intima natura: il difensore di coloro che non avevano altri difensori, appunto. Tutto andava, perciò, nel migliore dei modi. Questo pensava JJ mentre vedeva avanzare la sua Monique, agghindata come la Primavera tra le ancelle, sull'aia in cui stavano festeggiando il loro matrimonio. Anzi, il quadro complessivo che era davanti ai suoi occhi, rimandava imperiosamente al dipinto del Botticelli. Eppure quel quadro, come tutti i capolavori, diceva nascostamente qualcosa, che soltanto le menti più avvertite sapevano leggere. Forse proprio per questo, un leggero velo di malinconia, avresti detto un presentimento, s'impossessò di JJ, senza che egli ne sapesse il perché. Infatti, solo un esperto ed avvertito osservatore della scena che ricorda “Quanto è bella giovinezza, che si fugge tuttavia“, poteva aver chiaro il senso di struggente tristezza, che permea di se quel capolavoro; soltanto in quella chiave si sarebbe potuto leggere compiutamente il disagio di JJ. Egli occupava, sull'aia in cui festeggiava il suo matrimonio, lo stesso posto che, nel quadro degli Uffizi, era tenuto da Giuliano dei Medici, la vittima della congiura dei Pazzi, il più bello, il più fortunato, il più felice degli uomini: quello che, per primo, pagherà il suo debito all'invidia degli Dei. Ma la nube leggera dello spleen fu rapidamente scacciata dal cielo di quella festa, che doveva esser per loro indimenticabile, dalla rumorosa combriccola dei comuni amici. Essi avevano iniziato tutte le rituali sciocchezze, che sono proprie dei matrimoni e che, anche tra giovani di sicura intelligenza e di maniere ammodo, non mancano mai di ricordare i fescennini, con cui, nell'antica Roma, si soleva dare il placet sociale alle nuove coppie. Cominciò Bernard, che si riteneva il nume tutelare e pronubo dei due sposi, anche se lui tendeva a considerare pubblicamente il matrimonio, come una resa ipocrita al perbenismo piccolo borghese. "Adesso la finirai, piccola gattina tutta smorfie, di riempire il nostro JJ di sensi di colpa, tutte le volte che esce dal tuo letto, o dalla vostra scassata "deux chevaux", mandandogli in vacca quei pochissimi attimi di beatitudine, che gli dei concedono ad un uomo giovane e sano, prima che il desiderio ricominci a dare l'arsura al suo spirito. 45 Speriamo che, finalmente soddisfatta per la preda ormai tua, tu possa goderti in santa pace il tuo drudo possente, senza riempirgli la testa di miagolii". Monique, dall'alto della sua sprovveduta innocenza, seppe rispondergli a tono: "Povero Bernard, assomigli sempre di più ad una macchietta, al Capitan Fracassa della commedia des Italiens. Dovrò per forza trovarti una brava ragazza, che ti rimetta in riga e salvi quel poco di buono, che è rimasto della tua anima". Ma non c'era astio nelle loro parole e la disputa si stemperò nel bailamme generale. Più tardi, molto più tardi, riuscirono a rimanere finalmente soli nel piccolo monolocale con bagno e cucinino che, fino allora, era stato il luogo di riposo di JJ, sotto i tetti di un alto palazzo, in un quartiere operaio. JJ aveva aggiunto un'altra brandina al suo scarno lettino da scapolo e, con l'aiuto di un paio di lenzuola a due posti, dono di una vecchia prozia di Monique, la stanza aveva acquistato l'aspetto di una vera camera matrimoniale. Monique se ne stava rannicchiata sul letto, nella sua vestaglia da sposa, che aveva preparato da lungo tempo, ricamandola personalmente. La giovane donna, mentre il suo uomo finiva di lavarsi i denti, ripensava al battibecco scherzoso con Bernard, durante la sua festa di nozze. JJ aveva finito d'armeggiare nel bagno e le si stava avvicinando con intenzioni ben precise e l'occhio velato dal desiderio, ma Monique stava pensando ad altro: "Quello scemo di Bernard pensa che noi ci siamo lasciati andare fino ad essere, già da parecchio, marito e moglie. Ma, allora, che senso avrebbe avuto la cerimonia di questa mattina? Certo non è stato facile, ci siamo andati molto vicini, perché per entrambi era difficile fermarsi, quando le circostanze lo permettevano. Però, per me, la prova migliore del tuo amore è stata appunto la padronanza che tu hai saputo avere del tuo istinto. Esso, ben più potente del mio, era difficile da dominare, se tu non avessi avuto un forte autocontrollo e, soprattutto, un grande amore per me. Anzi questa tua forza mi spinge a chiederti un'altra prova d'amore. 46 Vorrei che tu mi dedicassi questa prima notte della nostra vita in comune, senza chiedermi altro. Domani il soddisfacimento del nostro desiderio sarà ancora più bello, perché moltiplicato dall'attesa". Grande era il desiderio di JJ ma più grande era il suo amore per Monique e quella sua richiesta non fu per lui difficile a soddisfare, perché questa è la radice dell'amore: non sentire il peso della volontà dell'altro, ma essere grato per poterla esaudire. Così i due giovani passarono il resto di quella notte magica, abbracciati, contando le stelle nel cielo e le luci lontano, mentre JJ arrotolava e srotolava i biondi capelli di Monique e Monique s'addormentava tra le braccia del suo JJ. L'indomani mattina, di buon'ora, entrambi dovettero faticare parecchio per interrompere quel certo lor discorso, che già avevano, di comune accordo, lasciato a metà la sera prima e che, appena aperti gli occhi, trovandosi già una nelle braccia dell'altro, stavano finalmente per concludere. Ma l'aria era frizzante, loro dovevano partire subito per Epernay, dove li attendevano per un'ora decente, e poi, c'era quella promessa che Monique aveva strappato a JJ e che lui non voleva rompere. Per cui ... via, sulla loro macchina scassata, verso i luoghi della sua infanzia. JJ aveva una gran voglia di presentare Monique a Roland ed a quella che era stata, da sempre la sua famiglia. Infatti egli continuava a considerare Roland, il figlio vero di sua madre, il proprio fratello, perché a lui l'univano gli anni della giovinezza ed un affetto sincero; la famiglia di questi era dunque, per JJ, la propria famiglia . È strano, ma non difficile a capire, questo rapporto che lega gli uomini e che diventa più forte dei legami di sangue. Esso è l'esempio più evidente del fatto che la famiglia è un bene primario per l’uomo. Quando questo legame non c'è, allora gli uomini se ne costruiscono uno succedaneo, che esprima comunque i vincoli forti, necessari all'uomo per non sentirsi solo e per mantener vivo quel sentimento, gli affetti familiari, così importante per la nostra specie. Arrivarono quando il tramonto aveva ceduto da un pezzo le sue luci all'oscurità della notte, e l'accoglienza di Roland e di sua moglie fu all'altezza delle attese. Dopo un pasto pantagruelico, in mezzo a tutti i testimoni della sua prima età, JJ si sentiva di nuovo a casa. 47 Lentamente, la nuvola nera di quanto aveva combinato il vecchio abbè Gerard, che Dio l'abbia in gloria, stava scomparendo, al chiuso della sua casa, in mezzo alla sua gente. JJ non dimenticava quello che era successo, ma non vi attribuiva più alcuna importanza: le cose erano andate come erano andate, e, forse, a ben considerare, anche lui si sarebbe comportato come il vecchio prevosto, se avesse dovuto decidere un caso analogo. Era ormai iniziato effettivamente il nuovo giorno, quando Roland e sua moglie accompagnarono i due sposi alla stanza, che era stata la camera nuziale di Claudine e Fernand Fernays e che odorava ancora del loro profumo e della loro presenza. Il letto altissimo, i materassi enormi, riempiti di foglie di granturco, che, quando ti ci rigiravi sopra, facevano un rumore carico di ricordi. I due alti comodini con il ripiano di marmo; il grande rosario nero sulla spalliera del letto. Il canterano in un angolo, con sotto la brocca d'acqua della vicina sorgente, che la mamma si premurava di mettere fuori, sul terrazzino della stanza, perché la luna s'incaricasse di togliere tutte le impurità, soprattutto quelle malefiche, dall'acqua della brocca. Il comò con il ripiano dello stesso marmo dei comodini; i ritratti dei due nonni materni disposti simmetricamente sopra il comò. Tutto era rimasto identico a quel ricordo che JJ custodiva nella sua memoria. Anche gli odori erano gli stessi. Con un sorriso represso, JJ individuò subito quello metallico del letto, proveniente dalle reti, che lui sapeva oliate per l'occasione. Egli ricordava perfettamente la sua povera madre che diceva essere sconveniente offrire ospitalità a due sposi in viaggio di nozze, per poi costringerli in un letto cigolante. JJ rammentava ancora il lavoro che aveva dovuto compiere in tutta fretta il buon Fernand, suo padre, quando erano venuti in visita un suo cugino e la giovane moglie, sposata il giorno prima. Il marito di Claudine aveva avuto l'ordine perentorio d'oliare le molle delle reti, cosa che lui aveva fatto di buon grado, prima che fossero venuti gli ospiti, non senza alcuni commenti, che avevano procurato le proteste della moglie. JJ, entrando, riconobbe subito gli altri odori, quello penetrante delle palline di canfora, nascoste nelle tasche dei vestiti dentro l'armadio enorme, con il grande specchio sul davanti; quello caldo e diverso, proveniente dai differenti legni presenti nella camera; quello dolce e affascinante delle spighe di lavanda nascoste tra la biancheria, per trasmetterne il profumo. 48 Poi, mentre stava per essere sommerso dall'onda dei ricordi, si girò e vide Monique; s'accorse di lei e tutto sparì. Monique non era più la bambina desiderosa di protezione che gli aveva chiesto il sacrificio di un giorno, ma s'era quasi magicamente trasmutata nella giovane donna che lo stordiva del suo profumo di femmina, anche se non aveva mai usato profumi, e che era pronta, fremente, nell'attesa del suo uomo. La bocca semiaperta, il viso spostato all'indietro come per rendere più evidente il seno che s'intravedeva dalla scollatura più generosa del solito, la voce più bassa di una buona ottava, che denotava la disposizione del suo animo; tutto dimostrava che Monique non avrebbe più chiesto altre deroghe, anzi che non vedeva l'ora d'invocare Imeneo 2. Cosi, appena la porta si chiuse dietro i due, essi si ritrovarono una nelle braccia dell'altro e l'impegno, che ponevano nel non fare rumori evidenti, fu sopraffatto dall'urgenza del loro amore. Entrambi esplorarono tutti i sentieri della loro passione; ma ogni loro attenzione, ogni loro azione, ogni loro voglia, erano mosse non dal soddisfacimento egoistico del desiderio personale, bensì dalla volontà di donare all'altro un nuovo piacere. Per tutto il resto della notte, le foglie di granturco suonarono le dolci canzoni dell'amore. Tutta l'esperienza dei due amanti fu esplorata e percorsa, anche se era quasi nulla, quella pratica. Ma JJ aveva pur sempre presente quella, che si poteva desumere dai libri e dai racconti mirabolanti delle bravate degli amici. Per Monique, dal canto suo, quel poco che ne sapeva al riguardo, consisteva unicamente nelle confidenze, confuse ed esagerate, delle amiche. Così il canto del gallo si levò invano e solo nella tarda mattinata i due sposi emersero dalle nebbie del loro sonno ristoratore, dopo aver conosciuto il paradiso del soddisfacimento pieno dei loro sensi, che è il primo regalo dell'amore. Monique era di buon umore e JJ si sentiva come svuotato dal di dentro. La sua famosa disposizione al combattimento, per una volta, aveva lasciato posto ad una calma soddisfatta: JJ era, eccezionalmente, in pace con il mondo ed il merito di questo miracolo proveniva tutto da Monique. "Ma sei sicuro che noi siamo stati insieme, completamente? Che noi siamo ormai, veramente, marito e moglie?" sbottò Monique ad un certo momento, lasciando JJ di gesso. Che passava in quella testolina, pur così deliziosa? 2 Il dio della mitologia greca che presiedeva agli sponsali. 49 " Vuoi vedere che io non so comportarmi da uomo? Mah! Misteri delle donne; più sono carine e più sono incomprensibili". Questi grigi pensieri di JJ furono interrotti da un robusto bussare alla porta. Suo fratello e la moglie, avendo sentito che i due sposi s'erano svegliati, venivano a trascinarli di nuovo in cucina, dove era apparecchiata una colazione fumante che, da sola, li avrebbe generosamente saziati, se questo non fosse già stato abbondantemente fatto la sera precedente, con quella cena d'altri tempi. Cominciarono così a parlare delle novità di Epernay, mentre spilluzzicavano tra le tante ghiottonerie. Roland chiese al fratello se sapeva chi fosse il prevosto, che avevano mandato a reggere l'incarico che fu del loro vecchio zio, dopo che il parroco, che l'aveva sostituito, era stato a sua volta trasferito altrove. Saputone il nome, JJ ne fu interessato e soddisfatto: era un suo antico compagno di seminario, un amico fraterno e buono, una mente non sfiorata dal dubbio che ci fa uomini ma completamente aperta a quella che lui chiamava la volontà di Dio, Alain Drouet, anzi padre Alain, il nuovo prevosto della loro parrocchia. JJ rammentava che, da ragazzo, in seminario, egli si divertiva a cercare di far arrotolare Alain nelle spire della patristica, senza riuscire mai, però, a far nascere, nel suo animo, la pianta del dubbio, che invece JJ riteneva l'unico legno, con cui si potesse costruire la croce del Cristo. “Devo ricordarmi d'andarlo a trovare, prima di ritornare a Parigi” - disse tra se JJ. Già la notizia del suo arrivo era piombata nel piccolo universo dei suoi amici di Epernay. Tutti volevano salutare l'antico compagno che si stava facendo onore a Parigi e la cui fama era giunta di riflesso fino al mondo, piccolo e chiuso, della loro cittadina di provincia. È strano, anche se perfettamente comprensibile, come, procedendo sulla strada della notorietà, si ritrovano molti amici che, volendo farsi perdonare l'assoluta indifferenza, da essi mostrata alla tua partenza, s'affannano a rammentare quanto loro fossero stati legati a te, nei bei tempi andati. Essi, perciò, raccontano mirabolanti episodi, che ti vedevano attore insieme con loro, e di cui tu non ricordi quasi nulla. 50 Quel pomeriggio, le donne della sua casa avevano requisito Monique per mostrarle i piccoli tesori che, per il solo fatto d'aver sposato JJ, ora appartenevano anche a lei. Intere casse di vecchi, deliziosi corredi; poveri gioielli che avevano, quasi come unico pregio, un certo buon gusto e poi il casale verso Montmirail che, nelle sue vigne, custodiva il segreto del miglior vino della zona e che Monique non poteva esimersi dal visitare. Così, mentre i suoi parenti scortavano Monique verso quelle che avevano chiamato pomposamente "le nostre terre", JJ si recò dal suo antico compagno di studi e caro amico. Alain era stato l'unico che avesse saputo, ai vecchi tempi, tener testa al suo carisma di capo, di quel gruppo di giovani esistenze ristrette in una tonaca, che avrebbe avvolto la maggioranza di loro come un sudario, fino alla morte. Anche se rari, esistono alcuni di quei giovani, i quali danno l'impressione di ritenere la vita che hanno intrapreso, come la migliore possibile; l'unica che avrebbe potuto portare la loro anima alla contemplazione dell'Assoluto. Nel loro gruppo JJ riconosceva a due sole persone queste stigmate, quel signum che contraddistingue "l'unto del Signore": Alain Drouet appunto, e se stesso. Ma lui, JJ, come Lucifero, aveva permesso alla pianta spinosa dell'orgoglio di produrre, allignando nel suo animo, quelle crepe in cui s'era riversato l'amaro distillato della propria mente, il dubbio. Questo liquore incendiario aveva fatto esplodere le ordinate certezze che dovevano costituire l'involucro della fede di JJ. Alain invece, era considerato, dagli altri seminaristi, come l'arcangelo Gabriele, la spada di Dio, su cui si spaccavano tutti i capelli e si scioglievano tutti i nodi, che la fragilità della mente umana frapponeva, nella comprensione del mistero della divinità. Tutto questo avveniva con una facilità di ragionamento ed una tranquillità d'animo stupefacente, tale da far nascere il sospetto che quella di Alain non fosse una qualità propriamente umana, ma un segno del sacro. Mentre percorreva i pochi passi che separavano la casa della sua famiglia dalla canonica, che era stata di suo zio, JJ compiva, nel proprio animo, una rivoluzione copernicana. Egli stava infatti facendo emergere, dentro di se, quell'analisi che, pur sempre indistintamente presente nel suo subconscio, si presentava, improvvisamente nitida, alla sua percezione. Per la prima volta, il percorso seguito dalla sua mente gli spiegava chiaramente il perché della sua defezione dalla fede di Cristo, per quella, che lui chiamava, la fede nell'Umanità. 51 Così l'episodio della confessione del suo vecchio zio e maestro si riduceva a quello che era effettivamente stato, cioè un semplice episodio scatenante un effetto che, in ogni caso, sarebbe esploso, prima o poi. Mentre pensava a questo, JJ non sentiva però alcun complesso di colpa o d'inferiorità, per come lui aveva gestito quel momento così importante della sua vita; anzi riteneva d'essere, comunque, nel giusto e nel vero. Questo non gli impediva di riconoscere lo speciale carisma del suo vecchio amico, cui, nel passato, pur dopo estenuanti battaglie polemiche ed innumerevoli tentativi d'imporre la propria supremazia intellettuale, aveva attribuito generosamente la qualifica di avversario leale e quasi invincibile, perché sorretto da una fede incrollabile. Quando, di li a poco, ebbe di fronte Alain, entrambi si trovarono stretti in un abbraccio maschio e fraterno. JJ si sorprese a pensare che l'amicizia è paragonabile all'amore tra due menti ed è un sentimento che, come l'amore, può raggiungere la sfera dell'assoluto o, come diceva un poeta italiano è "celeste dote negli umani “ 3. Eppure, come nell'amore, anche nell'amicizia può nascere la gelosia. "Perché non sei venuto a salutarmi, se hai saputo che ero venuto qui ad Epernay?" cominciò a punzecchiare JJ, come faceva sempre, due minuti dopo che rivedeva Alain. "Non sei, anche tu, contento del "famoso concittadino che si sta facendo onore a Parigi?" "Non so che farmene di quell'onore, e non credo che quello, che tu chiami onore, soddisfi completamente nemmeno te, che, pur corrotto dall'idolatria del tuo libero arbitrio, ancora conservi una certa qual onestà mentale. Essa, se ti fa dire delle corbellerie come la famosa “immaginazione al potere" e te ne fa retoricamente magnificare le implicazioni “splendide e progressive", è sperabile che, nel chiuso del tuo animo, ti mostri il vuoto intellettuale e, soprattutto morale, che sta dietro la facciata. Ma questo, per te, è ancora peggio. Non ricordi la pena cui sono condannati i cattivi maestri? Così, sei tu l'errante, il pentito che deve ritornare all'ovile, non io che devo accostarmi alla tua gloriuzza". 3 Ugo FOSCOLO nell’ode “ I sepolcri ”. 52 "Oh bella! Vi hanno cambiato la catechesi; non è più il pastore che deve andare alla ricerca della pecorella smarrita, ma è questa che deve presentarsi all'ufficio del pastore. Ecco a cosa porta la burocratizzazione della vita moderna: anche il pastore riceve esclusivamente dalle nove alle undici". Il battibecco, anche se pungente, non era cattivo. Ambedue i vecchi antagonisti cercavano di misurare la loro forza, comparandola a quella dell'altro, nel tentativo di riconoscerne l'antica suggestione, così cara ad entrambi. "Come stai, Alain, con la tua anima ancora racchiusa in quella nera pellicola che t'isola dal mondo?" "Come stai tu, JJ, che, senza quella pellicola, sembri scorticato; forse perché strusci così pazzamente nel tuo mondo?". Le loro anime s'immersero nuovamente nella competizione scintillante delle idee, come se si fossero lasciate solo qualche minuto prima. Eppure i loro cuori ricavavano, da quel confronto, il beneficio di sempre: il ravvivarsi della loro amicizia. Quando JJ si risollevò da quella gara ristoratrice, era ormai pomeriggio inoltrato. Monique doveva esser tornata dalla visita di cortesia alla tenuta di famiglia e lui voleva portarla a farle vedere i luoghi della sua infanzia, che, come accade ad ogni uomo, avevano un posto speciale nel bagaglio dei suoi ricordi. "Si, JJ, ho voglia d'uscire, di vedere un poco la tua città". Poi, mentre JJ la accompagnava, Monique confessò: “JJ cerca un medico, ho bisogno di parlargli". Il giovane era preoccupato per quelle parole e per questo non cominciò con la sua solita tiritera che non era nulla e che erano solo fantasie di una bambina viziata, ma s'affrettò a chiamare telefonicamente il vecchio dottor Legier, per avere l'indirizzo di un ginecologo. L'ora successiva JJ la passò girando ossessivamente intorno alla torre, quadrata ed un po' cupa, che era al centro della piazza, in cui esercitava il medico, indicatogli dal dottor Legier. Monique non aveva voluto che JJ assistesse alla sua visita: la faccenda doveva essere veramente grave. Poi, quando l'oscurità aveva da tempo reso ancora più tetro il panorama di quella piazza, riemerse, dal portone che l'aveva inghiottita, una Monique ritornata di nuovo tranquilla. 53 JJ, con l'animo sospeso, chiese il responso del medico e Monique, come se niente fosse, rispose: "No, è tutto regolare. Il medico mi ha detto: signora, lei è stata regolarmente deflorata, il suo matrimonio è consumato". "Ma, scusa, ne dubitavi? E poi, perché sei andata da un medico, per farti dire una cosa che t'avrei tranquillamente potuto dire io?". "JJ, io avevo sentito tante storie sul dolore che prova una donna, quando sta per la prima volta con un uomo. Io questo dolore non l'ho sentito per niente e quindi pensavo che non l'avessimo saputo fare. Non saresti stato certo tu, quello che poteva fugare i miei dubbi". Mentre le luci della piazza entravano finalmente nella percezione di un allibito JJ, lo stesso assaporava, per la prima volta, il gusto di che prodezze sarebbe stata capace quella ragazzina, che era divenuta la sua più importante preoccupazione. Eppure, nonostante quelle nuances, che, anzi, servivano a rendere un po' saporito e piccante un menage, altrimenti troppo dolce, tutto scorreva come in un sogno, nel rapporto di JJ e Monique. Entrambi cercavano, in ogni maniera, di stare vicino e, quando stavano vicino, sembrava loro d'aver raggiunto l'unica condizione di vita possibile. Il mito di Ermafrodito, le due parti della stessa persona che gli dei invidiosi avevano separato, ritornava a vivere e quella vita era, come assicuravano gli antichi, gioia assoluta. Passarono così sei mesi, sei mesi indimenticabili per i due giovani amanti, che avevano lasciato tutto il resto del mondo e vivevano nella chiusa sfera del loro amore. Una mattina Monique riuscì a far salire il suo JJ in una dimensione ancora più grande, quando gli annunciò che essi avrebbero avuto, dopo il tempo stabilito, un figlio. 54 CAPITOLO VI HYBRIS. La notizia ubriacò JJ. Egli non riusciva a pensare ad altro; credeva d'aver raggiunto il cielo più alto delle sue speranze. Aveva già tracciato, più e più volte, possibili e diversi scenari in cui suo figlio, con il suo aiuto, avrebbe rapidamente percorso i più difficili gradini di una luminosa carriera. Insomma era caduto, lui così logico e freddamente raziocinante, nelle dolci sciocchezze in cui cadono tutti quegli uomini, che vedono l'amore per la propria donna, coronato dalla conseguenza più naturale. Un figlio, infatti, è l’unica possibilità che può far dimenticare quella costante di fondo della natura umana che risponde al nome di egoismo; anzi, ne è la sublimazione, in quanto incarna, nel figlio, le aspettative, i desideri, le illusioni del padre. Quella benefica frustata d'ottimismo si riversò in tutta la sua vita, in ogni suo aspetto. Monique non era più soltanto la meta indispensabile del proprio amore, ma anche, e forse soprattutto, il tempio più sacro di quanto egli avesse di più sacro. Il proprio lavoro non era più soltanto l'estrinsecazione del suo valore, ma l'occasione ed il prodromo delle possibilità, che egli avrebbe saputo preparare per suo figlio. Insomma JJ non si sentiva più un deracinè, un homo novus slegato da ogni vincolo sociale, ma aveva acquisito di colpo il senso d'appartenenza ad una realtà che lo trascendeva. Come aveva predetto il dottor Bubber, egli si sentiva finalmente foglia, di un albero che affonda le proprie radici nell'eternità e che trova la sua giustificazione non solo in un pensiero razionale, ma si rifà alle ragioni più profonde della metafisica, quella parte dell'esperienza umana, che Aristotele aveva posto oltre la barriera delle conoscenze fisiche. Per mezzo di suo figlio tornavano i grandi interrogativi, Dio, l'Io e la Natura; appunto quei concetti che l'assetto mentale della filosofia imperante nel tempo, il marxismo, aveva relegato negli angoli meno importanti del suo pensiero. Questo gli aveva fatto notare il piccolo rabbi, quando lui, trionfante, gli era andato a portare quella notizia, che riteneva così importante. "Vedi, mio povero ebreo nascosto, l'Altissimo rinnova con te, il patto che egli stipulò con il tuo popolo. 55 Per questo tu hai ragione di ritenere così importante l'avvenimento che ti è capitato: esso è veramente il culmine, nella vita d'ogni uomo giusto, in quanto ne cambia radicalmente punti di vista, speranze, desideri, aspirazioni, insomma tutto. Sappine esserne degno e comportati come le tue nuove responsabilità impongono. Tieni però sempre presente una considerazione: non sei tu che hai un figlio, ma è tuo figlio che ha un padre. Voglio dire che un figlio è assunzione di responsabilità e non soddisfacimento del proprio ego". Ma egli non badava a questo. Infatti, nell'animo di JJ, una nuova selvaggia vitalità s'era impadronita di lui ed egli la riversava tutta nella lotta per la vita. Si era ormai in quel maggio del 1968, che doveva rimanere famoso nella storia della Francia, e non solo nella sua storia. Le tensioni accumulate dal vecchio ordine che, come tutti i vecchi ordini, non era stato capace di provvedere ad un'evoluzione guidata, epperciò soft, verso nuovi assetti della società, non potevano più esser incanalate in maniera razionale, ma necessitavano, per essere sbloccate, di una spallata violenta. Questo avveniva in tutti i campi. Nel campo filosofico, in cui i baroni del pensiero accademico erano ancora quelli che avevano visto la guerra. Nel campo politico, dove partiti ormai sclerotizzati stavano progressivamente perdendo quella presa sulle masse che era stata, fino a quel momento, ferrea. Nel campo economico, in cui le multinazionali avevano perpetuato una visione totalizzante del metodo capitalistico, senza approfondire le contraddizioni di fondo. Queste sarebbero esplose molto più tardi e avrebbero portato alla luce i guasti, che tale visione delle attività dell'uomo stavano apportando, appunto, allo sviluppo della società. Infatti una società evoluta, ormai doveva diventare globale, perdendo così quei caratteri di neo colonialismo, che essa aveva ereditato dall'anteguerra. Anche nel campo religioso le speranze del concilio Vaticano II, che s'era ufficialmente chiuso nel dicembre del 1965, pur con molte ed importanti dichiarazioni di principio, non s'erano estrinsecate in una decisa virata di bordo della navicella di Pietro, verso le ragioni concrete degli umili e dei deboli. Non era stata formulata chiaramente la richiesta, ora e subito, di tutte quelle azioni che avrebbero permesso, almeno sul piano teorico, di conoscere chiaramente verso chi ed a favore di chi, la Chiesa di Roma intendeva rivolgere la buona novella. 56 Insomma, s'era registrata quella confusa aspirazione, che già da tempo aveva, tra l’altro, dato vita ad un movimento, portato innanzi con l'esperimento, soprattutto in Francia, che prese nome dai preti operai 1, ma non se ne erano tratte tutte le possibili conseguenze. Così, quel movimento aveva preso una strada autonoma, fuori dalla Chiesa ufficiale, radicalizzando le proprie esperienze. Esso, infatti, negli Stati più deboli, si stava presentando come teoria della liberazione dei popoli, mediante anche la lotta armata. Quella teoria però, non sarà mai condivisa dalla chiesa ufficiale, che avrebbe invece potuto smussarne le asperità più ostiche, se solo ne avesse accettato, in via di principio, la validità sul piano morale. E via via, in ogni campo del pensiero e dell'azione degli uomini, ogni teoria e prassi avevano cessato di procedere liberamente. Per questo, ci si doveva attendere l'inevitabile reazione; così come, quando il mare si ritira per molte miglia, s'attende l'onda del maremoto, lo tsunami, che spazzerà l'esistente, in tutta la sua estensione. In quei giorni di maggio lo tsunami mostrava la sua onda mugghiante. Centinaia di migliaia di giovani procedevano travolgendo, davanti a loro, ogni potere costituito e la parola d'ordine era appunto quella delle elites, che avevano proclamato l'immaginazione al potere. In quella tempesta, JJ svettava come uno dei leaders più seguiti. Ma in quel frangente, tra quei marosi, egli perse il favore degli dei. Narrano, coloro che hanno studiato la civiltà degli antichi, come costoro considerassero essenziale la sintonia tra l'uomo e la divinità. Movimento nato in Francia dalle esperienze del padre domenicano Loew, che aveva lavorato come scaricatore al porto di Marsiglia, nel 1941. Dopo la guerra il movimento si estese a tutta la Francia, raggruppando oltre un centinaio di sacerdoti, anche di altre nazioni. L’intenzione del movimento era quella di fare azione missionaria e portare la buona novella nel mondo del lavoro, mandando preti, operai tra gli operai, nei cantieri e nelle fabbriche, senza alcun legame con le parrocchie o le altre organizzazioni cattoliche. A partire dal 1951 la Chiesa limitò sempre piu’ gravemente questo movimento che, alla fine, si spense. 1 57 Enea, ad esempio, era stato l'archetipo dell'uomo benvoluto dagli Dei, perché egli era "pìus". Questa sua "pietas" si manifestava nell'assoluta aderenza, una vera e propria remissione, alla volontà divina; lo stesso concetto che si ritroverà, più tardi, come principio informatore dell'Islam. Quelli che, invece, avevano voluto forzare la mano, coloro che avevano rivendicato l'autonomia dell'Uomo di fronte alle leggi divine, mediante la possibilità, squisitamente umana, di scegliere tra il bene ed il male, i figli di Prometeo, erano inesorabilmente colpiti. Il colpo distruttore cadeva soprattutto su quelli che si credevano tanto baciati dalla fortuna, da essere praticamente al riparo dall'ira degli dei. Ira che gli antichi chiamavano, appunto, nemesis, la vendetta degli stessi Dei contro chi s'opponeva alla legge divina commettendo hybris, la punizione per il peccato degli uomini, contro il volere della divinità. Peccano dunque gli eroi ma il loro peccato fa progredire il mondo, come ci ricorda Prometeo; eppure, questi eroi trovano, nel loro peccato, la ragione della loro caduta. In pratica, che cosa stava avvenendo? La volontà diffusa di cambiare, ormai insopprimibile ed ineludibile in tutto il mondo, si era incanalata, già da qualche tempo, nei campus universitari americani. I giovani protestavano energicamente, prendendo spunto dal loro rifiuto ad essere usati come carne da cannone, nella guerra che l'America stava combattendo nel Vietnam. Non è questa la sede per analizzare le numerose, contrastanti spinte, politiche, sociali, ideologiche, umanitarie, perfino dovute ad una propaganda sottile ed efficace, che, per la prima volta, mettevano i giovani americani contro i loro governanti. Fatto sta che, quella sommossa, partita dai campus USA, accese di colpo anche le università europee, iniziando proprio dalla Francia. La protesta partì, incendiando l'università di Nanterre e, subito dopo, con una virulenza inarrestabile, la Sorbona a Parigi. La miccia fu il Vietnam ma la miscela esplosiva fu la necessità, per i giovani, di dare una formidabile spallata all'ordine costituito, per poterne creare un altro, meno sclerotico. Come abbiamo visto, JJ era appunto al centro di quel terremoto, anzi ne costituiva uno dei cardini principali, uno dei riferimenti più importanti: egli era un capo, del ristretto gruppo che decideva le mosse, in quei momenti. E così, i più esagitati, tra quei giovani caporioni, decisero che la situazione doveva esser portata all'estremo, arrivando perfino ad 58 ipotizzare la possibilità che ci "scappasse il morto" per "radicalizzare la lotta" che "doveva liberare la Francia, dalle cariatidi che la soffocavano". JJ, in cuor suo sapeva che la violenza poteva esser "la levatrice della storia", pur essendo certo che, quasi mai, dalla violenza, si potesse giungere ad una maggiore giustizia. Così egli non seppe e non volle opporsi, ma cercò, a posteriori, ragioni, che giustificassero logicamente il proprio operato. Forse la sua ragione poteva esser appagata da tali ragioni, ma il suo animo, nel profondo, non poteva accettarle. Per cui, quando effettivamente si versò del sangue comunque innocente, JJ non poté fare a meno di pensare che quel delitto era stato programmato freddamente, per ottenere uno scopo, per quanto esso fosse importante. Egli non s’era opposto con tutte le sue forze, per evitare che fosse commesso, appunto, un delitto e questa era colpa grave, per la propria coscienza. Sembrava ben poca cosa al momento, ma quella era la prima volta che JJ aveva considerato l'uomo come mezzo e non come fine e questo pensiero, benché affondato nelle più profonde pieghe della sua mente, non lo lasciava in pace con la propria anima. Così il giovane, felice, baciato dalla fortuna, innamorato corrisposto e quindi pago della sua condizione, in attesa di un figlio fortissimamente voluto, e, per questo, beato nell'intimo, cominciò a sentire un tarlo, che minava il suo stato di grazia. La maggior parte degli uomini avrebbe sepolto quella sensazione, se mai fosse venuta a galla nei loro animi, sotto le più svariate giustificazioni. Chiunque, avrebbe pensato di non essere stato lui a proporre quella risoluzione; chiunque, avrebbe trovato ogni appiglio filosofico, storico, sociale, perfino morale, per tacitare la propria coscienza. Ma esistono uomini che non riescono a seppellire le conseguenze delle loro azioni, in nessuna maniera. Per quante giustificazioni essi possano gettarvi sopra, la legge violata si erge, più forte che mai, nel loro spirito e chiede giustizia, mediante il sacrificio della riparazione. Mentre JJ usciva da una riunione, in cui era stato salutato come il capo delle nuove forze che avrebbero preso, di lì a poco, in mano i destini della Francia, il suo personale destino fu spezzato. Bernard, piangendo, gli urlò di correre all'ospedale di Clamart, sulla strada dell'aeroporto di Villacoublay. 59 Monique era andata a trovare una sua amica e, nel ritorno, era stata investita in pieno, da un'auto proveniente, a tutta velocità, dal vicino aeroporto. Ora si trovava ricoverata in quell'ospedale. JJ non saprà mai come arrivò dalla sua Monique, ma quei momenti saranno sempre presenti nella sua anima, come un ferro incandescente. Quel ferro gli brucerà, in eterno, ogni sensazione, ogni pensiero, ogni esperienza, togliendo dalla sua vita, per sempre, ogni felicità. Arrivò che Monique era ancora viva, ma i medici non dettero nessuna speranza, nemmeno in un miracolo. Volle vederla e tutto il suo essere urlò in silenzio chiedendo appunto un miracolo a Dio, all'inferno, al Caso, alla ragione, a chiunque, essere razionale o divino, angelo o demone, sapesse o volesse compierlo. Fu tutto inutile. Monique, in coma, gli strinse debolissimamente la mano per due volte, come faceva nei momenti d'intimità, quasi mimando il suo nome, JJ, come per inviargli un ultimo messaggio d'amore, o almeno così parve al suo disperato sentire, e morì. La mazzata, durissima, insopportabile, sembrò distruggere l'animo di JJ: gli Dei avevano saputo colpire. Nulla sembrava scuotere il povero giovane, che d'improvviso aveva perso amore, moglie, figlio e speranze, ed era stato gettato in un inferno gelido, in cui non giungeva, nè poteva giungere, alcun conforto dall'esterno. Abbandonò tutto; amici, carriera, posizione sociale, studio, lavoro. In tre mesi, l'orgoglioso, brillante giovane, sicura promessa e probabile gloria per la Francia, si trasformò in un barbone istupidito dalla sofferenza, incapace di trovare la forza per superare il proprio dolore. Esempio tangibile di quanto poco sicura possa essere la fortuna di un uomo, specialmente quando questi viola la legge della propria coscienza. Egli, perciò, si ritiene responsabile delle disgrazie che il destino si accanisce ad inviargli, come sacrificio per la propria colpa. 60 CAPITOLO VII UNA DIFFICILE DECISIONE Un solo uomo poteva spezzare il blocco di ghiaccio con cui JJ difendeva il proprio dolore ed in cui egli si era incapsulato, per addormentare le ferite dell'animo ed impedire che la sofferenza, risvegliandosi al calore della vita, potesse distruggere la propria mente. Così, una mattina, il dottor Bubber venne a far visita a quell'antro informe che era diventato l'appartamento di JJ, da quando una mano di donna non aveva più reso vive e felici quelle quattro mura. Il disordine e la sporcizia testimoniavano il degrado, anzitutto morale, di colui che occupava quella che era stata, una volta, una casa e che, ora, era solo una tana di un animale ferito nel profondo. Il piccolo rabbi aveva visto JJ ai funerali di Monique e non aveva detto parola. Ora, dopo tre mesi, in cui JJ aveva raggiunto pericolosamente il fondo, tanto da far temere che la condizione del suo dolore fosse ormai irreversibile, l'uomo della Legge si ripresentava. " Scusami se non mi sono fatto vivo prima, ma il dolore è come il vino: deve fermentare in silenzio ed in solitudine, per tutto il tempo necessario, perché dia un buon frutto e non sia solo un accidente ". Finalmente JJ si scosse ed accettò il contatto: "Quale frutto può dare il dolore, che non sia la morte? Mio rabbi, sapesse quante volte, in tutto questo tempo, ho invocato la morte e l'ho quasi cercata, ma non sono stato 61 capace neppure di provocarla, forse per vigliaccheria o perché, in questa maniera, avrei dato ragione al nulla che mi soffoca e che mi impedisce di trovare una via d'uscita a questa disperazione. Il perché, di quel che è accaduto, io lo cerco mille volte al giorno, tanto che ormai sono stanco perfino di pensare e spero solo di scivolare in un limbo senza pensiero. Solo la consapevolezza che quello che mi è capitato è accaduto perché io fossi costretto a fare espiazione di una mia grande colpa, impedisce alla mia mente di perdersi nel nulla. Io debbo pagare, ma il prezzo, la mia sofferenza, è insopportabile". JJ dovette spiegare perché si riteneva responsabile di quanto era successo e confessò quella che pensava fosse la sua colpa: il non essersi opposto ad una decisione, che pur considerava ingiusta e che aveva provocato la morte di uomini innocenti. "Vedi, JJ, tu commetti l'errore tipico delle menti dotate di una grande consapevolezza morale. Quando esse sbagliano, e nulla si addice di più all'uomo, ad ogni uomo, anche il più giusto, che ritrovarsi nell'errore, tanto più quelle persone pensano di dover pagare, per questo errore. Il massimo della pena che compete ad un uomo lo colpisce nei sentimenti, nella carne che ama di più: quella dei suoi cari; e tu, sapendo che hai commesso una colpa grave, pensi di essere la causa di quello che ti è accaduto. Non è così. Il principio divino che regge l'Universo non può essere un Dio vendicativo e maligno, che trova piacere nel dolore di una sua creatura. Tu hai sbagliato, e questo tuo errore è tanto più grave quanto tu, con la tua cultura, con il tuo senso morale, con la tua ragione, non hai saputo opporti alle circostanze che ti spingevano all'errore, anzi al delitto. Come vedi non sono tenero verso il tuo comportamento, ma proprio per questo ti dico che non esiste un rapporto di causa ed effetto, una consequenzialità tra i due episodi. Monique è morta ed il suo bambino non ha neppure visto la luce non perché tu hai commesso un atto riprovevole, ma perché il destino ha stabilito così ". Quelle parole, così diverse dalle semplici frasi di circostanza che si era sentito ripetere da tutti, colpirono la mente di JJ, che riprese a funzionare logicamente. Come sempre, l'intelligenza e la sapienza del dottor Bubber sapevano come intervenire in ogni situazione, anche le più 62 terribili, quelle che hanno bisogno di dare una staffilata per ottenere uno scopo. "Quello che Lei mi dice è ancora più grave. Se i miei cari non sono stati sacrificati perché io ricevessi la più pesante delle pene, allora perché? Se questo è stato un atto gratuito, uno scherzo del caso, allora veramente il caso è il principio informatore dell'universo, e la legge morale non ha altro scopo se non quello di impedire che, in sua assenza, gli uomini si massacrino tra di loro, nel tentativo di stabilire chi è il più forte. Ma se la morale ha lo scopo di regolare la vita sociale degli uomini, quindi ha un fondamento utilitaristico, non può essere quella morale autonoma che sgorga autonomamente dalla mente di ogni uomo, come andava dicendo Kant. Allora, in ultima analisi, Caso ed Utilità, personale o, al massimo, sociale, sono i fondamenti dell'esistente". "Stai compiendo un errore facilissimo a farsi ma che porta completamente fuori strada: stai confondendo la causa con l'effetto. Poiché tu non vedi la ragione di un fatto, concludi che non esiste ragione e che tutto è sottoposto al caso, facendone, per questo, il tuo Dio. In questo universo orribile, che ti sei creato, poni la legge della giungla, come sola fonte del contratto sociale. Ti risponderò con le stesse parole di Dio, dette per un caso analogo al tuo, quando Giobbe 1 chiese ragione all'Altissimo, del perché delle sue disgrazie. "Dove eri tu quand'Io stabilivo le fondamenta della terra? ” (Giobbe 38-4). Dalle parole dell'Altissimo, Giobbe riconosce che non può pretendere di ricevere ogni spiegazione su quanto all'uomo non è dato di intendere e quindi si dichiara convinto della imperscrutabilità dei decreti divini. Questo è il modo corretto d'impostare e risolvere il problema. Come uomini, limitati nell'intelletto e nell'amore, non possiamo scrutare nel volere divino, ma solo adeguarci ad esso. Noi possiamo solo esser sicuri che Dio non può volere il male e quindi, quello che a noi appare male o è compiuto per evitare un male peggiore o genererà un bene superiore". Si tratta evidentemente del libro di Giobbe,uno dei libri didattici della Bibbia. 1 63 Continuarono a lungo a parlare su questi argomenti, ma il saggio rabbi sapeva che, più della consequenzialità del proprio ragionamento era importante che il giovane JJ, così provato, iniziasse nuovamente a ragionare. Come, al disgelo, man a mano che il ghiaccio si trasforma in acqua, questa, dapprima in maniera quasi impercettibile, a causa della sua scarsità, poi, sempre più abbondante, trascina con se ampie lastre di ghiaccio con cui spezza, con sempre maggior forza, gli ostacoli che si frappongono al suo corso, così la mente di JJ ricominciava a percorrere le strade della ragione e della consapevolezza. Tanto imponente era stato questo fenomeno che JJ non smise di pensare, anche dopo che il dottor Bubber lo aveva salutato, lasciandolo solo. Sapeva, l'uomo dalla fede razionale, di aver fatto quello che andava fatto. Il resto doveva essere compito del giovane, strappato dal suo stato di istupidimento; posizione in cui le menti più potenti si chiudono quando non vogliono misurarsi con la realtà. Eppure JJ non riusciva a raggiungere una qualche forma di serenità. Quella prova, subita nelle carni ed in quello che aveva di più caro, gli aveva lasciato una rabbia in corpo, che non era per lui abituale. Il brillante professore a cui tutti riconoscevano una spiccata eleganza intellettuale, l'uomo di mondo dall'aureola di Maitre a penser, il capo dotato di un carisma fortissimo a cui nessuno poteva resistere, era divenuto uno spirito inquieto, un uomo divorato da una gelida furia, un essere consumato da una ricerca di qualcosa, che ancora non aveva potuto capire cosa fosse. Ricominciò a vivere. Si rivide in facoltà ma qui non esercitava più la sua naturale funzione di maestro, a lui così congeniale. Fu anche visto al sindacato, ma era evidente a tutti che ormai JJ non considerava più quell'impegno come la carica tribunizia di un capopolo, con cui portare innanzi la propria stella, ma solo un modo per rendersi utile agli altri, avendo perso ogni stimolo per se. Non comparve più al partito, in cui, tra l'altro aveva, già prima della sua disgrazia, diradato drasticamente la sua presenza e la sua azione, tanto da ritenersene ormai fuori. Tagliò nettamente tutti quei legami di conoscenze, relazioni, contatti, così importanti nel suo mondo, essenziali per non essere esclusi dalla vita sociale. 64 Anche gli amici si dimostrarono semplici conoscenti, non indispensabili per ritrovare il proprio equilibrio e quindi furono lasciati da parte, senza rimpianto. Solo Bernard aveva ancora accesso alla sua amicizia e si poteva permettere di mostrarsi più cinico del solito. "Allegro JJ, ormai il periodo vedovile sta per finire e possiamo ricominciare ad andare a caccia di ragazze. Non fai una buona propaganda alla tua Monique, che riposi in pace insieme al suo piccolo nel seno di Abramo, se continui a farti vedere insensibile alla bellezza delle parigine". Quelle uscite, che, dette da chiunque altro, avrebbero provocato una violenta reazione da parte di JJ, pronunciate da Bernard, non avevano neppure raggiunto il loro scopo, quello cioè di accendere in qualche modo una ribellione. L'unico che sapeva stimolare violentemente l'intelligenza di JJ era, al solito, il dottor Bubber, ma anche nei suoi confronti JJ aveva cambiato atteggiamento mentale. Mentre prima il loro rapporto era quello di due intelletti che si confrontano, di due anime che si capiscono, ora l'approccio di JJ era mutato. Sembrava che il giovane avesse acquisito, per la disgrazia capitatagli, una carica fortissima di rabbia, una ricerca disperata di un qualcosa che non riusciva ancora a mettere a fuoco. Il fatto era che JJ, se pur aveva ricominciato a ragionare, non riusciva ancora a farsi una ragione, per quello che era accaduto. Egli temeva, nel proprio inconscio, di non essere capace di riuscire mai a farsela, questa benedetta ragione; per cui la sua vita sarebbe ormai trascorsa senza un attimo di pace. Nella sua mente continuava ad essere scolpita una sola parola: "PERCHE’?" e questa parola gli impediva perfino di pensare. Si, egli aveva compreso razionalmente il ragionamento del piccolo rabbi. Non si poteva pretendere di poter conoscere le infinite concatenazioni, se non si voleva ipotizzare il caso, che avevano permesso, e perfino reso necessario, quell'orribile sacrificio, che era stato richiesto a lui. Ma proprio questa feroce necessità, se non era da considerarsi come espiazione per quello che aveva commesso, lo lasciava deluso della vita. In tale situazione, JJ si sentiva furente verso il principio informatore della vita stessa. Altre concatenazioni sussidiarie venivano a gettare sale sulla sua ferita, rendendola quasi impossibile a sopportare, quando gli 65 tornava in mente il viso dolce della sua Monique e le fantasticherie, ormai impossibili, che aveva immaginato per quel piccolo seme della sua carne, che non era potuto nemmeno nascere. "Perché lei? Perché loro? Perché non me? Quale può essere la ragione?". Anche se il dottor Bubber cominciava pazientemente a prendere un'altra via per giungere allo stesso risultato, che portasse un pò di pace a quella mente, quella mente poteva pure seguire logicamente i ragionamenti del piccolo rabbi, ma non riusciva a soddisfare, con essi, la propria anima. Così la vita del giovane, mutata la fortuna più splendente nella più nera disgrazia , procedeva a strappi, nel doloroso tentativo di ricerca di un nuovo punto di equilibrio, che non prescindesse però dalla memoria della tragedia, di cui era stato vittima. La sua volontà di non buttarsi dietro le spalle il terribile accaduto rendeva anzi il ricordo sempre presente e gli impediva di superarlo, ma, nello stesso tempo, lo costringeva a pensare che doveva trovare una soluzione, se non voleva impazzire. Decise quindi di lasciare per un certo tempo Parigi, rifugiandosi nella casa paterna, ad Epernay, dove sperava che i dolci fantasmi di un'infanzia felice avrebbero sbiadito gli affanni dell'età presente. Tutti, ad Epernay , avevano partecipato coralmente alla sua tragedia e tutti gli si strinsero attorno, in una maniera più affettuosa e più vera, di quanto non avessero fatto quando era tornato la prima volta. Il dolore di JJ non era esibito. Lui non aveva fatto il minimo accenno nè aveva mostrato le manifestazioni evidenti che rappresentano alla comunità, di cui si è parte, lo stato d'infelicità, che segue necessariamente una disgrazia di tale fatta. Però tutti si sentivano più vicini al giovane professore, che aveva perso, proprio per quello che gli era accaduto, la fama, sempre antipatica, del fortunato vincente, che è, come tutti sanno, la maggior colpa, di cui si possa macchiare un uomo, presso il proprio gruppo. Pure JJ non si curava di ciò; la sua unica preoccupazione era sciogliere il nodo esistenziale, che affanna coloro che si sentono vittime dell'accaduto. Se non risolveva questo problema , che gli attanagliava l'anima e gli impediva di pensare razionalmente, non avrebbe saputo 66 superare il punto di crisi della sua esistenza e si sarebbe trovato fatalmente richiuso su se stesso, senza possibilità di uscirne fuori. Questa era la ragione ultima, della rabbia che gli divorava la mente, e questo doveva risolvere razionalmente, se voleva uscirne. Di ciò, appunto, si trovò a parlare con il suo vecchio amico, padre Alain, il prevosto della canonica di Epernay. "Come tu sai, mio caro Alain, dopo il trauma della mia uscita dal seminario, io avevo trovato un equilibrio nella ricerca di un riscatto sociale che postulava il Paradiso, non nelle nebbie dopo la morte, ma in un progresso, lento ma costante, che assicurasse agli uomini un minimo di giustizia su questa terra e non nei cieli. In tale ottica, ho seguito le teorie dei grandi del materialismo storico, che intravedevano la nascita del tutto e l'organizzazione dell'Universo secondo uno schema casuale. Quello schema, nei miliardi di combinazioni possibili, sceglieva, con il solo aiuto del caso, le condizioni realizzabili e, tra queste, mediante un continuo affinamento, che alcuni chiamano legge dell'evoluzione, traduceva in realtà le situazioni migliori. Concordavo con Leibniz che il nostro è "il migliore dei mondi possibili" non perché pensassi, come credeva il filosofo di Lipsia, che il mondo avesse ricevuto da Dio, al momento della creazione, un'armonia prestabilita. Essa, per Leibniz, riduceva il male, presente nell'Universo, alla minima quantità compatibile per gli esseri autocoscienti o, come lui li chiamava, le monadi, che lo abitano. Io ritenevo invece che il caso, nelle innumerevoli combinazioni possibili, avesse scelto la combinazione che era divenuta, così, reale. Essa era, evidentemente, quella statisticamente più accettabile, visto che, attuando quella, non si era arrivati ad un blocco dell'intero processo. Come spero di aver chiaramente evidenziato, evitavo, in questa maniera, un Universo organizzato meccanicisticamente e, quindi, postulavo l'intrinseca libertà dell'autocoscienza, che si è sviluppata nell'Universo. Non bastandomi, forse per gli antichi studi, la posizione Marxiana, che pone tutto l'interesse umano nel mondo, avevo cercato, soprattutto per me stesso, di trovare un raccordo tra la logica e la fisica, come è prassi costante, per ogni filosofo che aspiri a costruire un sistema logicamente compiuto. 67 Perciò, avevo postulato un modello di Universo continuamente riproponentesi come possibilità di realtà, che fosse altresì coerente con le mie convinzioni logiche. In questo Universo, il Caso aveva indirizzato il Caos secondo leggi probabilistiche, inducendolo ad autoorganizzarsi in sistemi sempre più complessi, ma omogenei, in quanto coerenti con le leggi che regolano lo stesso Universo. La legge base, la legge costituente l’Universo da me ipotizzato, è la matematica, o meglio, il metodo matematico. Esso tende a raggiungere, quasi esteticamente, soluzioni sempre più raffinatamente semplici le quali, tra l'altro, consentono di estrapolare un sistema integrato di relazioni che descrivono l'Universo, nella sua globalità 2 . In tale modello, l'autocoscienza è il fine ultimo, fine che potrebbe perfino tendere a superare i confini stessi dello spazioTempo, postulando, alla fine dell’intero processo, l’organizzazione di un modello dsi universo migliore dell’esistente, per mezzo appunto dell’intervento dell’autocoscienza. Infatti quest’autocoscienza, divenuta padrona di tutte le leggi in giuoco, potrebbe ipotizzare e porre in essere un tipo di Universo più razionale, intervenendo appunto sulle sue leggi. Insomma , ponevo l'autocoscienza come un Dio, ma non all'inizio del processo, bensì alla fine, o meglio, nell'intervallo, come ti spiegherò appresso. Postulavo ciò, per poter concepire un modo migliore di organizzare un nuovo modello di Universo, in un susseguirsi imprecisabile di nascita, vita e morte, di quello che noi chiamiamo "l'Universo mondo". Questa teoria ha, come puoi chiaramente constatare, molti punti di contatto con la filosofia stoica la quale, a sua volta si rifaceva, non sappiamo quanto logicamente o inconsciamente, a preesistenti teorie persiane, a loro volta desunte da idee del buddismo indiano. Infatti, come ricorderai, erano stati gli stoici, nella nostra civiltà, che avevano per primi immaginato il "grande anno" da A.EINSTEIN: “ Come io vedo il mondo ”1975 Newton Compton ed. pag 45: “ ...Abbiamo il diritto di essere convinti che la natura è la realizzazione di tutto ciò che si può immaginare di più matematicamente semplice. Sono convinto che la costruzione puramente matematica ci permette di scoprire questi concetti che ci danno la chiave per comprendere i fenomeni naturali ed i principii che li legano tra di loro. ....è nella matematica che si trova il principio veramente creatore”. 2 68 loro chiamato “Eone", ricavandolo forse dalla teoria buddista, che vede la storia del mondo come una grande ruota. Essa gira per l'eternità, senza possibilità di un reale progresso. Infatti, in quella visione, gli eoni furono postulati dagli stoici come una serie indefinita e senza contatto di ere, o età dell'Universo, che essi avevano stabilito, bontà loro, della durata di diecimila anni, cioè di un tempo, fuori perfino dalla memoria collettiva dell'uomo. Per essi dunque il fuoco divino, il pneuma, o, come loro altrimenti lo chiamavano, il Logos, la Ragione seminale, è l'anima dell'Universo; esso guida ogni cosa dalla nascita alla morte. Così l'intero Universo nasce dal Caos, si organizza in un tempo definito, viene guidato da una specie di superiore provvidenza di origine divina, tutta racchiusa però all’interno di quell’universo, senza possibilità di uscirne. Esso è destinato a distruggersi in un'esplosione totale, per tornare al caos del fuoco primigenio, in una serie indefinita, o infinita, di eoni, differenti, ma sempre uguali a se stessi. Prima e dopo l'orizzonte del nostro eone, quello che contiene il nostro universo, è, per noi e per ora, l'ignoto. Che cosa cambia nell'organizzazione generale dell'Universo, così ipotizzato se, invece, noi postulassimo che ogni avvenimento che accade nel nostro Universo si riproponesse, non più identico, in un eone successivo? Non potrebbe esser accolta la possibilità probabilistica, che un Universo possa, in qualche maniera, influire, in meglio o in peggio, sull'organizzazione dell'Universo successivo? E, in questo caso, quale sarebbe lo strumento indispensabile, perché ciò avvenisse? Se non si vuol ipotizzare una Divinità continuamente costretta ad intervenire, per raddrizzare un percorso, che non si vuol supporre meccanicistico, si può postulare un solo strumento: l'autocoscienza. Essa, nata in una qualche maniera, in un determinato momento temporale, all'interno di quell'Universo, acquisisce tutto lo scibile contenuto in esso, prima che tutto ritorni al fuoco primordiale. Per mezzo di questa conoscenza, l’autocoscienza, che è sorta nell’universo, stabilisce le regole affinchè l'eone successivo abbia un andamento più logico ed una organizzazione più soddisfacente del precedente. Solo in questa maniera, le entità, in cui si è sviluppata l'autocoscienza, avranno adempiuto al loro compito, che non sarà cosi meccanicisticamente determinato, ma ubbidirà alla legge del libero arbitrio. 69 Questo, altrimenti, contrasterebbe con un Universo in cui tutto è già stato scritto e determinato, fin dall'inizio. Qualora poi l'autocoscienza egemone di quell'eone fallisse al proprio scopo, l'eone successivo potrebbe rinascere dalle ceneri del precedente. Esso avrebbe la stessa organizzazione universale dell’eone precedente, che l’autocoscienza, nata in esso, non ha saputo migliorare, ma solo distruggere. Per semplificare l'intero processo, il principio divino era da me postulato come volontà di ricerca di fattibilità, senza altro intervento. Il caso era visto come momento aggregante, la necessità matematica era il momento propulsore e l'autocoscienza ne era il momento finale. Un'autocoscienza non però limitata a quella umana, ma con la possibilità di espandersi, in maniera per noi neppure immaginabile. Questo era il percorso, in cui eravamo stati plasmati ed immessi a correre; dipendeva solo da noi se potevamo rimanere in gara o passare ad altri il testimone. Questa bella costruzione logica, questo sistema in linea, in massima parte, con le teorie marxiste e progressiste, era stato però messo in discussione una prima volta da un piccolo rabbi, un uomo dalla logica eccezionale. Egli, partendo dalla enunciazione dei principi dell'ebraismo, che era la sua religione, mi fece perdere molte certezze. Saranno state le comuni radici della nostra carne, ma non mi sono potuto scrollare di dosso molte delle tesi dell'uomo della legge, che mi incantava, con la sua parola. Ad esempio, nel mio schema non potevo inserire il "Fiat lux", la volontà, che aveva dato inizio a tutto il progetto, ed un progetto non finalizzato da una volontà ideatrice porta fatalmente allo scetticismo più totale, perché nega un fine, qualunque esso sia. Ammettevo cioè che un progetto possa percorrere un cammino probabilistico, ma non potevo ipotizzare un Universo senza senso logico. Sarebbe stato preferibile a ciò perfino un Universo prodotto da una volontà malefica, che si nutrisse del dolore delle creature che aveva fatto sorgere, per suoi imperscutabili, ma logici, scopi. L'unica possibilità di superare lo scetticismo, che era nascosto nelle ultime pieghe del mio percorso mentale, era data dalla posizione di Sartre, l'esistenzialismo. 70 L'uomo, come già aveva postulato Heidegger3 , era condannato al finito, perché non poteva raggiungere l'infinita verità dell'essere. Questo suo scacco, che giunge dopo venticinque secoli di indagine, rappresenta, per l’uomo, il naufragio della sua esistenza e della sua ricerca filosofica. Ma l'uomo non può rinunziare alla sua aspirazione alla conoscenza della verità; quest’ansia insoddisfatta genera angoscia. Questo è, appunto, il sentimento della nostra epoca, giunta ad una conclusione alienante. Da una tale situazione disperata se ne può uscire in due soli modi. O si ritorna ad ipotizzare illusioni di comodo, quali la religione o la scienza, come la intendono, coloro che se ne fanno officianti e quasi sagrestani. Essi si adattano cioè a qualunque metafisica, che allontani in un futuro non nostro, addirittura oltre la nostra vita, il momento della verità. Oppure si riconosce che il mondo, così come si presenta a noi, è privo di senso, e tocca a noi, a ciascuno di noi, dargliene uno. Nel primo caso avremo una "coscienza soddisfatta" che, nel suo intimo, avverte però "la malafede" della sua posizione. Essa è tipica della borghesia, di ogni borghesia, intesa, nel suo termine più sprezzante, come classe al servizio dell'esistente, al mantenimento interessato dello statu quo. Conosciamo molti tipi di borghesia soddisfatta, di sistema di Potere; dai preti che distrussero il sogno monoteistico del faraone Amenofi IV, ai tronfi farisei che ridussero la Legge all'esteriorità, ai"benpensanti" attuali. Essi sono, infatti, gli eterni farisei, che non gridano più l'esteriorità della loro legge; ma ciò si scorge chiaramente nei loro modi, nei loro sguardi, nei loro pensieri. Oppure possiamo accettare l'angoscia della nostra posizione, immersi in una Natura che vorremmo conoscere , ma che ci è intrinsecamente inconoscibile, in contatto con un Universo, privo di senso per noi. Partiamo da questo dato di fatto, riconoscendoci liberi da tutte le sovrastrutture e gli idola 4, che hanno per tanto tempo Martin HEIDEGGER -Filosofo tedesco- 1889/1976- diede l’avvio all’esistenzialismo. 4 Gli idoli. “ Bacone chiama così le classi di errori più generali e più profondamente radicati, contro la cui resistenza od influenza è necessario premunirsi in anticipo se si vuole effettuare l’opera di instaurazione delle scienze “ dal 3 71 affollato la nostra mente, impedendoci di vedere il mondo come veramente è, cioè senza senso per l'uomo. Consideriamo, alla vecchia maniera di Aristotele, la realtà una tabula rasa, in cui l'uomo può scrivere le leggi, che sa trovare nel suo intimo, per dare un senso al mondo stesso, magari facendosi guidare dalla morale autonoma di Kant. Solo in questo caso potremo cercare di dare noi un senso al mondo, misurandolo con il metro dell'Uomo. Questa rivoluzione copernicana, questo novello Umanesimo, che pone nuovamente l'Uomo come misura dell'Universo, ci rende, nel contempo, liberi dall'angoscia che ci attanagliava, proprio nel momento in cui avevamo raggiunto la certezza della impossibilità di arrivare a trovare un senso al mondo. Tutto questo postula l'esistenzialismo, che non è, come vorrebbero far credere alcuni orecchianti, la filosofia dell'angoscia, ma esattamente il suo contrario. E’, questo, un sistema, che permette appunto di superare l'angoscia esistenziale, rendendo l'uomo libero di impegnarsi, anche sporcandosi le mani, a dare un senso al mondo. Di nuovo, avevo così raggiunto un equilibrio mentale soddisfacente o almeno tale da dare un significato alla mia vita e per questo combattevo, per portare innanzi le mie idee. Per questo ero entrato in rotta di collisione con il Partito, che vedevo ormai come una chiesa, piena di dogmi indimostrabili. Per questo, pensavo di essere approdato all'ultima spiaggia della razionalità. Poi tu sai che cosa mi è capitato. Chi ha distrutto la mia vita? Dio? Il destino ? Il caso? Io stesso? E, soprattutto, perché? In un primo tempo, mi ero ritenuto responsabile di quanto era successo, temendo l'Hybris, per una colpa che avevo commesso. Ma il dottor Bubber, così si chiama quel rabbino di cui ti ho parlato, mi ha dimostrato come sia illogico postulare un Dio vendicativo e sinistro, che si nutre del dolore delle sue creature. Allora, il caso, il destino cieco che brucia statisticamente alcune sue probabilità, sull'altare dei grandi numeri. Se questo è il metodo, allora l'universo è senza metodo, senza legge, anche se inconoscibile per l'uomo, perché una legge è tale, se è costruita con metodo razionale. Se accettiamo che tutto, anche all'ultimo minuto, può essere completamente capovolto, senza ragione e senza rimedio, allora stiamo giuocando una partita truccata, in cui non ci sono regole. DIZIONARIO CRITICO DI FILOSOFIA di A.LALANDE ISEDI 1971 72 Forse veramente Dio gioca a dadi, e bara .5 Come vedi, lo scetticismo, a cui avevo rinunciato vincendo l'angoscia, postulata da Kierkegaard 6 , mediante l'accettazione del valore finito dell'essere umano ma con la contemporanea scoperta del valore autentico, e per questo unico, del suo esistere, viene rimesso in gioco. Questa constatazione, unita al mio dolore, è, per me, insopportabile. Anche l'ultima ipotesi, benché il dottor Bubber si sia battuto con le più acute sottigliezze della sua logica, non ha dato una risposta al mio problema. Come può, se si postula un Dio unico, essere perfettissimo, come può questo Dio esigere il dolore dalle sue creature? Posso anche concedere una prova come quella di Abramo, anche se non del tutto accettabile, ma il dolore senza speranza e senza rimedio, che senso può avere? È la vecchia tesi espressa, in maniera sublime, nel libro di Giobbe. Colpito, senza colpa, negli affetti più cari egli non sa darsi pace, come me, per quello che gli è accaduto. Ma Dio gli si rivela e gli dimostra l'impossibilità, per l'uomo di conoscere o anche solo logicamente immaginare, i voleri divini. E noi siamo stati a gingillarci venticinque secoli, per arrivare alla stessa conclusione. Giobbe si accontenta, io no. So di essere strutturato in modo da non intendere il Disegno divino, ma proprio per questo debbo essere rassicurato sulla razionalità di quel progetto. Per potervi aderire, debbo prima accettarlo logicamente; se no, l'unica alternativa è lo scetticismo più assoluto". Il giovane prevosto era stato a sentire quella disperata confessione del suo amico più caro, senza aprire bocca. Il fiume di parole che aveva sentito, era violento come quello di un torrente in piena , e, alla stessa maniera, trasportava i segni di una grande tragedia, i frantumi di una costruzione, che faceva onore al genio dell'uomo ma che, nel contempo, ne mostrava la sua eterna fragilità. A quel punto, Padre Alain non poté trattenersi : Viene qui capovolta la nota affermazione di Einstein: Dio non gioca a dadi. S. KIEKEGAARD filosofo danese-1813/1885- Teorizzò che, dall’angoscia , si può uscire o rifugiandosi nella dimensione estetica o nella dimensione etica. Entrambe queste posizioni possono poi esser superate con un “salto“ nella fede. 5 6 73 " Povero JJ, povera anima che cerca, senza sapere, ferendosi con il suo stesso sapere; che conosce gli hazar persiani 7 e le più sottili minuzie del Talmud, ma non vede la verità semplice, che gli sta davanti. Eppure, proprio tu dovresti ricordare: "Beati coloro che non hanno veduto ed hanno creduto"8 . Però Tommaso non viene scacciato. Infatti è facoltà di ogni uomo sottoporre alla propria ragione ogni evento che lo riguarda. Il pericolo è che, usando solo la ragione umana, che, come tutte le facoltà dell'uomo è imperfetta e limitata, si arrivi a dei vicoli ciechi, in cui la sola ragione non è più d'aiuto e la mente si perde. Ma tu, nuovo Tommaso, vuoi toccare con mano, vuoi vedere “il disegno". Come puoi non vedere, come puoi non ricordare? Il disegno ha un nome: noi cristiani lo chiamiamo, da duemila anni, la Provvidenza. Il disegno ha una conclusione logica: chi crede in me vivrà in eterno. Il disegno ha un Autore: il Principio Divino, che si è sustanziato come uomo, per venire a noi con la buona novella. Non ricordi? Certo, il Vangelo non toglie all'uomo il suo dolore, ma ne da una spiegazione. Le vie misteriose, che, spesso, ai sensi limitati dell'uomo, appaiono dure e perfino crudeli, sono un progetto: il disegno della Provvidenza per la salvezza degli uomini. Povero Tommaso, perché hai dovuto soffrire così tanto, per giungere ad una verità così facile, ben visibile sotto gli occhi di tutti? Ma, già, è sempre il solito vecchio difetto, l'orgoglio intellettuale che, come per Satana, il più dotato degli angeli, è la rovina dei migliori. Per questo sta scritto La concezione persiana della storia, fin dall’antichità, “ ...immaginava la storia del mondo come una serie di evoluzioni, a ciascuna delle quali presiede un profeta. Ogni profeta ha il suo HAZAR, o regno di mille anni (chiliasmo); di queste età successive, analoghe a milioni di secoli devoluti ad ogni Budda dell’India, è composta la trama degli avvenimenti che preparano il regno di Ormudz. Alla fine dei tempi, esaurito il circolo dei chiliasmi, verrà il definitivo Paradiso”. E. RENAN: Vita di Gesu’. pag 31 Newton Compton ed. 1994 Il millenarismo è presente anche in alcuni autori cristiani. 8 Gesù risponde così (Gv.20, 29 ) a Tommaso, l’apostolo incredulo. 7 74 " Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli"9 . JJ sentiva quelle parole, che pure aveva udito tante altre volte nella sua giovinezza e che aveva rinnegato in nome della fede nella ragione dell'uomo. Questa l’aveva portato al punto un cui si trovava. Egli dunque sentiva quelle parole, che, per la prima volta davano una risposta razionale alla sua tragedia, sentiva quelle parole e capì. Infatti, si doveva escludere lo scetticismo più inconcludente. Non si poteva accettare il determinismo più cieco. Non era possibile ipotizzare un probabilismo mancante di un impulso iniziale e di una conclusione logica finale, come un corpo mostruoso senza capo né conclusione. Si riscontrava, sulla propria carne, l'impossibilità dell'uomo a sostenere la parte del soggetto della storia e bisognava rassegnarsi ad esserne l'oggetto. Se si accettava tutto questo, e se, soprattutto, si voleva vedere, nell'intero progetto, il segno della razionalità, ammettendo l'unica risposta logica, al tremendo perché, che gli aveva sconvolto la vita, allora bisognava accogliere il messaggio, vecchio di duemila anni. Non era, JJ, incline alla retorica. Non cadde da cavallo, non sentì squillare le trombe. Accettò che la razionalità, non potendo fare da motore alla sua ricerca di Dio, facesse almeno da timone, indirizzando la sua mente, il suo cuore, la sua anima su quella rotta che la sua intelligenza aveva trovato essere la più plausibile e, quindi, la più razionale. PRIMA ANTIFONA 9 Mt. 5,3. 75 La storia, che abbiamo fin qui seguita, è naturalmente inserita, come ogni accadimento degli uomini, nella più grande storia dell'Umanità. Questa li comprende tutti, li amalgama, ne svela i sapori complementari e le cause, spesso misteriose, talvolta, invece, fin troppo evidenti, per essere le sole. Le diverse storie, come fiumi in piena, portano dentro i vortici dell'esistenza le misere creature, che si credono artefici di tutto quel turbine, da loro chiamato: vita. Per capire appieno le ragioni, che stanno dietro le azioni degli uomini, non si può prescindere, quindi, dal risalire, nella storia, fino a metterne a nudo radici e fondamenta, motivi ed origini. Benché le tendenze storiografiche del nostro tempo tendano ad avvantaggiare lo studio dell'esistenza d'ogni giorno delle varie comunità umane, non vi è dubbio che i punti chiave, gli snodi più significativi, in tutta la storia dell'Umanità, siano dati dagli scontri tra i vari gruppi degli uomini. Tali scontri, se accadono tra fazioni diverse di uno stesso gruppo, si suole chiamarli rivoluzioni o rivolte, oppure guerre intestine o civili; se invece essi avvengono tra gruppi distinti, prendono nome di guerre, tout court. Caratteristica singolare, propria dei soli uomini, è questa, di coalizzarsi in gruppi per portare reciprocamente distruzione e morte in un altro gruppo di esseri della stessa specie. Caratteristica difficilmente riscontrabile tra gli altri animali del Creato, che, pure, si sottopongono al duello individuale per raggiungere la supremazia nel proprio gruppo, ma difficilmente, quasi mai, si dividono in due gruppi, accomunati, per una qualche ragione, per farsi vicendevolmente guerra. Come abbiamo già visto, Platone, il grande filosofo, aveva individuato, in un suo scritto1, questa peculiarità, propria degli uomini. Egli aveva, infatti, notato come l'insieme degli uomini legati dai vincoli sociali (polis), lo svolgimento dell'azione della polis (politica) e l'impresa, propria degli umani, quando si combattono in gruppi (polemos), avessero una tale contiguità logica da mostrare, nell’etimo delle stesse parole, una radice comune. Ma qualcosa era andata mutando in quei concetti, nel corso dei duemilacinquecento anni, che noi chiamiamo storia. In antico, un gruppo non aveva bisogno di giustificazioni per muovere guerra ad un qualsiasi altro gruppo. Basta leggere gli orgogliosi cartigli, lasciatici da tutti i re dell'antichità più remota, per trovare una formula di questo tenore: 1 Dal PROTAGORA, dialogo giovanile scritto tra il 396 ed il 388 a.C. 76 "Ho conquistato tutti i popoli ai quattro angoli della terra ed ho reso vassalli tutti i loro re". In questa dichiarazione di potenza, gridata all’eternità, non vi sono quasi mai espresse altre cause se non il desiderio assoluto d'imporre la propria volontà; cioè quel desiderio di primeggiare, da cui era nato il concetto di regalità. Da siffatto concetto, che faceva assumere la funzione di Capo, all'individuo capace di dominare i propri simili e, per mezzo di essi, spingere il proprio imperio oltre i confini del proprio gruppo, era derivata poi un’assoluta certezza. Il Capo, il Sovrano, aveva raggiunto tale status, perché favorito dagli Dei; figlio prediletto di questi, anzi, Dio egli stesso. In tale maniera, a causa di quell'attività, propria degli uomini, che essi chiamano guerra, s'era compiuto il distacco tra il suddito, elemento insignificante di una massa informe, ed il Sovrano, della stessa natura degli Dei. Eppure, nelle mitologie di tutte le genti, anche in quelle dei popoli che iniziarono la civiltà occidentale, Atene e Roma, risuona il lamento per un'età bella e perduta. Essa viene, per questo, chiamata età dell'oro: un tempo remoto ed immobile in cui gli uomini erano tutti uguali, perché non conoscevano guerra. Quel mito fu probabilmente fuori del tempo reale, epperciò da intendersi solo come un'aspirazione dell'uomo per un'età senza guerre. In essa, l’umanità favoleggiava d'aver vissuto, immobile e fuori dalla storia, governata da demoni di stirpe divina, che s'incaricavano di provvedere ai bisogni degli uomini, senza che questi s'affannassero 2. Però, solo con la nascita del concetto di genio di un popolo, si mette in moto quel meccanismo che, se da un lato porterà al fiorire di quella che noi, ora, chiamiamo Civiltà Occidentale, d'altro canto darà inizio ad una sequenza tragica di guerre, una origine e causa dell'altra, che, da allora in poi, farà da contrappunto alla storia dell'Uomo. Non si vuole affermare che, prima, non esistessero guerre. Si rileva però che, nel mondo antecedente la Civiltà Occidentale, le guerre erano determinate solamente o da esigenze di difesa o da volontà di potenza, del potente di turno. Questi credeva fermamente che, una volta conquistato quello che ambiva prendere, avrebbe cessato quello stato drammatico, Massimo CACCIARI, nel suo libro GEO-FILOSOFIA DELL’EUROPAAdelphi 1994, ne enumera alcuni, quali: PACE ( Eirene ), PIETAS ( Aidos), LEGGI GIUSTE ( Eunomia ), GIUSTIZIA ESENTE DA INVIDIA (Aphtonia Dikes ). 2 77 ma momentaneo, e si sarebbe acquietato, per godersi la sua preda. La condizione ottimale era, dunque, ritenuta, da tutti, quella in cui non si dovevano portare le armi. In altri termini, si può affermare che era già nato il concetto di guerra, profondamente connaturato con l'animo umano, fin quasi a rappresentare la parte preponderante della sua natura; ma esso non s'era ancora affinato nel concetto di politica, come arte del rapporto tra gli uomini. Quando la "Politica", invenzione della nostra civiltà, comincerà ad insediarsi nei rapporti umani, essa userà la guerra come una delle scelte possibili, dando così origine alla storia che, da allora, sarà storia della politica, uscendo dalle nebbie della preistoria. Infatti, con l'instaurarsi della nostra civiltà, la guerra acquista un carattere di necessità, che prescinde dalla volontà dei singoli, per diventare opzione politica. Questo nuovo modo di considerare i rapporti tra i vari gruppi umani inizia appunto con la nostra civiltà, la civiltà greco romana, che attualmente si suole definire "Occidentale". Essa, per ottenere ciò, ha introdotto nella storia il concetto del "Genio di un popolo". Quest'idea, che i Greci, per primi, avvertirono e che i Romani assunsero a divinità dello Stato, il "Genius Romae", si compiace di riconoscere, nelle gesta degli antichi del proprio gruppo, il segno premonitore di un grande destino. Esso è così forte e marcato, da assegnare di prepotenza il primato, la necessità di comandare, tra tutti gli uomini della terra, proprio a quel gruppo, in virtù delle idee che esso, come gruppo, esprime. Per dimostrare l'assoluta peculiarità del proprio gruppo, forte di una caratteristica che è soprattutto predestinazione, si favoleggia quindi di discendenze mitiche o, comunque, speciali, inventandole o promuovendole a posteriori. E’ chiaro che quest’ingenuo tentativo fu compiuto, per dare una necessarietà retroattiva alle ragioni della forza. Sotto la favola, si riconosce però, come carattere distintivo della nostra civiltà, il fatto che la guerra non sia più un capriccio o una specifica volontà del Capo del momento. Essa viene invece giustificata come necessità d'adempiere alle leggi peculiari della propria gente. Di questa necessità se ne fa un Dio, il genio di Atene che spinge i suoi figli sul mare, o il genio di Roma, raffigurato, nelle grandiose rappresentazioni scultoree dell'Ara pacis augustea, a fianco di Augusto stesso. 78 Anche Virgilio proclamava, nell'Eneide, che il compito dell'impero romano era "Parcere victis et debellare superbos"3, che, poi, erano quelli che non si volevano far conquistare con la forza, a quei tempi particolarmente violenta ed oltremodo pesante, non essendo riconosciuta, ai vinti, se non la possibilità d'esser uccisi o assimilati come schiavi. Questo modo d'intendere la necessità storica dell'azione umana, come si è visto, porterà alla nascita della polis ma, soprattutto, darà inizio a quella che si suole chiamare "politica", cioè l’esigenza di classificare gli avvenimenti alla luce d'idee base, costanti storiche, che permeano di se il fatto, offrendo, così, una chiave di lettura per tutta la storia. Il semplice fatto acquista, in questa maniera, una valenza più complessa, in un processo logico, e non è più un episodio isolato, accadimento fine a se stesso. In pratica, era nato il concetto che si potesse, anzi che fosse moralmente più giusto, muovere guerra, non solo per appropriarsi delle cose altrui, ma anche per portare innanzi e fare sempre più forte una propria idea, un proprio modo di vivere. Insomma l'uomo, dopo aver visto come è esaltante combattere e rapinare per impossessarsi delle proprietà materiali, vuole anche impadronirsi delle menti, di coloro che aveva vinto. Un siffatto modo d'intendere il rapporto tra i differenti gruppi della specie umana ebbe un ulteriore affinamento, quando si cominciarono a studiare "scientificamente" le varie idee, che erano alla base delle diverse forme politiche, nel diciassettesimo e, soprattutto, nel diciottesimo secolo del nostro tempo. Così, nella Costituzione degli Stati Uniti d'America del 1787, non si parla più del riconoscimento del diritto di un particolare popolo ad una qualche cosa, ma s'afferma esplicitamente, ad esempio, che: "Tutti gli uomini hanno diritto alla ricerca della felicità". Così la rivoluzione francese non si rivolge ai soli Francesi, per proclamare: "Libertè, Egalitè, Fraternitè". Così il manifesto del partito comunista del 1848, di Marx ed Engels, è indirizzato ai "Lavoratori di tutto il mondo". Nell'ambito della civiltà occidentale, che già era sorta per portare innanzi, con tutti i mezzi, con ogni politica, l'ideale di un gruppo, si scopre che una particolare idea può aver valore per tutti gli uomini. Era così nata l'ideologia politica universale, valida cioè per tutta l'umanità. Perdonare i vinti e sconfiggere i superbi, intesi come quelli che, per superbia, non accettavano la Legge di Roma. 3 79 In tale ottica, un'idea politica non apparteneva più ad un gruppo, ad un popolo, ad una gens; lo stesso concetto di classe, in Marx, avrebbe dovuto, alla fine, stemperarsi, per comprendere tutti gli uomini della terra. Questa fu, forse, la causa "filosofica" del travolgimento del fascismo e del nazismo, oltre alle altre cause, certo più importanti, nel campo dei fatti, se non in quello delle idee, da ricercare nel settore economico, industriale e produttivo. Il fascismo ed il nazismo, insieme con l'alleato giapponese, che professava un'analoga posizione, erano politiche aderenti ancora all'idea del "genio" di un gruppo limitato, di un popolo, per quanto grande e potente, di una parte dell'Umanità. Tali sistemi politici, che pure seppero usare in modo egregio il vettore classico dell'ideologia, cioè la propaganda, non potevano giungere a tutti gli uomini; anzi, per il loro particolare contenuto, non volevano parlare a tutti, ma solo agli "eletti". Anche per questo furono cancellati dalla storia. Ma l'ideologia, se pure ha il pregio di parlare "erga omnes", per tutti, non per questo è esente, come ogni cosa umana, da difetti ed imperfezioni. La più grave di queste tare deriva dal vecchio vizio dell'animale uomo, una volta che si trova a discutere con i propri simili, su un determinato problema. Il vizio, cioè, a prescindere da ogni altra considerazione, di dividersi in due fazioni ed iniziare, così, il suo gioco preferito: farsi guerra per gruppi. Questo è stato, finora, il carattere distintivo dell’animale Uomo. Questo era appunto quanto era continuato ad accadere negli anni in cui è situato il nostro racconto; ma riassumiamone brevemente gli antefatti. Subito dopo la seconda guerra mondiale, l'Umanità s'era schierata, in nome dell'ideologia, su due campi contrapposti, entrambi pronti all'olocausto atomico. Essa si mostrava, così, immemore dei trenta milioni di morti, che erano stati immolati nella follia della guerra, appena terminata. Né la stessa umanità si curava del fatto che la propria scienza era riuscita a scoprire nuove armi, che avrebbero provocato danni tali, da far considerare la guerra recentemente conclusa, una rissa da osteria, al confronto della distruzione d'ogni essere vivente; probabilità, questa, resa possibile, anzi praticamente certa, per la comparsa delle armi nucleari negli arsenali di entrambi i gruppi contendenti. 80 Insomma, al solito, l'Umanità s'era andata ad infilare, nel diverbio di due gruppi che hanno ciascuno la propria parte di ragione, in una disputa senza uscita. Quasi sempre, infatti, nessuno dei due gruppi intende le ragioni dell'altro. Esso quindi porta la sua azione alle estreme conseguenze, perdendo così, alla fine, anche i frutti attinenti alla propria ragione e raccogliendo solo lutti e rovine. In questa maniera, subito dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, gli uomini avevano scelto, ancora una volta, di battersi, in nome di contrapposte ideologie, anziché cercare di risolvere i propri problemi reali. Pure, questi problemi si potevano superare con i capitali, che s'andavano sperperando in quel modo folle , e per mezzo della scienza, che, invece, usata come serva della guerra, andava immiserendo la sua funzione di promozione umana. L'ideologia, attraverso il proprio vettore, la propaganda, portava ad una lotta senza esclusione di colpi, rendendo particolarmente faticoso il compito dei pochi uomini di buona volontà, che tentavano di fare, comunque, qualcosa. Erano trascorsi gli anni sessanta del nostro secolo, gli anni che avevano visto il pericolo mortale dello scontro atomico, per la crisi di Cuba ed il sogno infranto di una nuova frontiera, propugnata dal presidente Kennedy. L'altro sogno, quello espresso dai giovani del sessantotto, fu facilmente tenuto a bada dall'establishment mondiale. Per questo, quegli stessi giovani, rifugiandosi nelle favole ingenue del maoismo, da allora acquisirono una repulsione quasi inconscia per il mondo organizzato, che essi riconoscevano come “l'impero delle multinazionali". I più deboli di questi giovani si perderanno nelle paludi della droga, giungendo, quando giungevano, ad altri, più disperati inferni. Stavano scoccando gli anni settanta. 81 CAPITOLO VIII RINASCITA Steso, prono sul marmo nudo della cattedrale, che, come tutte le chiese dell'ordine di Sant'Ignazio, attraverso il barocco prorompente da ogni suo angolo, piuttosto che stupire aveva il compito d'incutere timore e rispetto, JJ attendeva il "signum", che l'avrebbe reso "Sacerdos in aeternum". Ormai egli non rispondeva nemmeno più, a quel suo nome allegro ed al suo scanzonato diminutivo. Per allenarsi all'obbedienza e per rammentarsi di vincere, o almeno tenere a bada, quella sua forma mentis, che poteva esser riassunta con due parole, orgoglio intellettuale, egli aveva chiesto di farsi chiamare con il suo secondo nome: quello di Tommaso. Come padre Tommaso Fernays, noi continueremo a seguirne il cammino umano. Ciascuno di noi prende decisioni che possono esser reputate improvvise, se non si considera il lavorio mentale, che sta nascosto dietro quelle decisioni. La conversione repentina di colui che s'era chiamato JJ, avrebbe potuto far pensare ad una fulminazione, come quella di Saulo, sulla strada per Damasco. Ma, a ben vedere, proprio le fulminazioni sono l'atto finale di un aspro percorso mentale. Esso è sempre doloroso, perché fatto contro la propria volontà. Spesso tortuoso, perché si cerca d'esplorare, quando non si è sicuri della strada, ogni vicolo, che possa nascondere una possibile scappatoia. Quasi mai agevole, perché costringe a rimettere in discussione le nostre più intime e radicate convinzioni, ed ad estirparle dalla nostra mente, quando si scoprono non più rispondenti al nostro pensiero. Tra l'altro, operando in questa maniera, talvolta ci procuriamo un dolore peggiore di quello che potremmo farci, se ci strappassimo pezzi della nostra carne. Però questo percorso mentale, che si conclude con uno shock violento e, per questo, visibile, ha, per coloro che vi s'avventurano in buona fede, un effetto simile all'elettroshock. La loro anima raggiunge la pace perduta, la cui ricerca aveva dato appunto inizio ad un viaggio avventuroso nei segreti della propria mente. Ciò aveva avuto, come conseguenza, il rigetto della precedente forma mentis. 82 Così padre Tommaso, cominciamo pure a chiamarlo come lui ha voluto, era disteso bocconi sul freddo marmo della chiesa. Solo; perché i suoi Ordini avevano dovuto attendere un ben strano percorso, rispetto a quello compiuto dai suoi coetanei e colleghi dei tempi del seminario. Prono davanti a quell'uomo; il suo vescovo, paludato in antichi panni, che ora lui, Tommaso, riteneva fermamente essere il successore degli apostoli del Cristo. Come abbiamo visto, la conclusione che padre Alain aveva saputo porre alla disperazione di quello che, allora, era JJ, aveva fatto da detonatore contro le sue più radicate convinzioni. Queste erano però già minate alla radice, dalle considerazioni che ne avevano distrutto ogni certezza, allorché la vita s'era divertita a scompaginarle. Ora, dopo l'uragano del dubbio totale, era venuta la certezza e, con la certezza, la calma. Nella calma della propria anima, egli aveva portato alle più estreme conseguenze la sua decisione. Aveva ripreso gli studi per diventare sacerdote, aiutato grandemente dalle sue precedenti esperienze; esse gli permettevano di valutare, da opposte prospettive, i problemi che andava esaminando. Le gerarchie ecclesiastiche non si volevano lasciar sfuggire il caso umano: troppo interessante era la conversione di un uomo, che era stato quasi un simbolo, di quanto contraddiceva la religione di Cristo. Ma colui che non si chiamerà più JJ era stato irremovibile: silenzio assoluto sul suo caso, che era noto, tra chi lo conosceva, solo a padre Alain ed al dottor Bubber. Proprio con il dottor Bubber padre Tommaso ebbe un colloquio forte e dolce. "Mio buon rabbi, Lei ha di fronte un uomo che ha l'animo dell'apostata. Non sono stato allevato nella fede dei miei padri. Ho abiurato una prima volta alla fede in cui sono stato educato. Ho rigettato le posizioni, che possiamo tranquillamente definire anch'esse una fede, in cui credevo all'epoca della mia giovinezza. Sono tornato alla fede della mia infanzia. In tutti questi contorcimenti, ho conosciuto anche la Sua fede per mezzo della Sua dottrina, che è immensa, ma non ho saputo trovare, in essa, la buona novella, la certezza del perché, quello che io andavo cercando". Il tono del piccolo rabbi era comprensivo ed amichevole: 83 "Non te la prendere, mio caro figlio, tu non sei un apostata. Sei solo un'anima che cerca. Questo è il tuo compito, questo è il tuo destino; cerca, cerca, figlio mio. L'Altissimo, nella Sua onnipotenza, ha senz'altro stabilito un compito alla tua opera. Cerca con il cuore, come stai ora facendo, ma non dimenticare mai di soddisfare anche il tuo intelletto. E poi, ora siamo divenuti quasi parenti: abbiamo lo stesso Dio, le stesse Scritture, o almeno parte di esse; la tua nuova religione non ci considera più deicidi, gli uccisori del principio divino. Pensa che, già da parecchio tempo, il vostro Papa, il Pontefice della chiesa di Roma, non c'impone più di ricevere un ceffone per quest'accusa; quindi, stai allegro. Un vecchio proverbio latino recita: "Ommnia munda mundis"1 e tu sei l'uomo più mundus, intellettualmente più pulito, che io conosca. Perciò, non aver paura della strada che il tuo animo percorre: l'Altissimo veglia sul tuo spirito". Anche il vescovo, che gli aveva imposto il signum del suo nuovo stato, era stato esplicito: "Santa Madre Chiesa esulta, perché una della sue più belle anime, che sembrava ormai perduta, ritorna alla vera fede. L'Ordine riconosce d'aver trovato in te, padre Tommaso, una delle sue migliori lame, nella battaglia che i soldati di Sant'Ignazio combattono ogni giorno. Per questo, l'Ordine t'immergerà, più e più volte, nell'acqua fredda e buia delle sventure umane. Ne uscirai temprato in maniera eccellente, per diventare quello cui sei destinato: uno strumento per combattere "ad maiorem Dei gloriam". Fu inviato a Marsiglia, presso l'Istituto del Cristo Re, dove i gesuiti avevano costituito un osservatorio per studiare i flagelli che attentano ad un'ordinata vita sociale. Forse occorre spendere qualche parola sull'opera di quell'Ordine, il cui solo nome suscitava, e suscita, sentimenti non proprio amichevoli. La Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio da Loyola nel sedicesimo secolo, organizzata come corpo militare a 1 “Tutto è puro per i puri“, epistola di San Paolo a Tito (1,15 ). 84 disposizione del Papa, attraverso un modo d'intendere la dottrina e d'esplicare la prassi al solo scopo di sconfiggere i nemici del cattolicesimo, era stata tra i massimi artefici di quel movimento filosofico, morale e, soprattutto, politico, che i posteri hanno chiamato Controriforma. La sua opera, in definitiva, tendeva a ricostituire la supremazia politica, che il Papato aveva perso, per due grandi serie di ragioni. La prima di queste, fu colpa della stessa azione del Papato, con le miserande vicende legate alla vendita simoniaca delle indulgenze. Fatto estremamente riprovevole, che aveva provocato l'assoluto biasimo ed, in seguito, era stata causa non ultima del distacco delle popolazioni dell'area tedescofona dalla Chiesa di Roma. Ma il colpo mortale, assestato al potere temporale dei Papi, era venuto da un’altra parte. Le Nazioni, che s'erano venute consolidando in Europa nel quindicesimo e sedicesimo secolo, avevano constatato, e poi teorizzato, la non necessità, anzi l’intima contraddizione, al concetto stesso di Nazione, che veniva dall'esistenza del potere temporale del Papato o, meglio, della sua pretesa d'essere il punto di snodo tra Potestà divina e umano potere. Questo concetto, infatti, per sua costituzione, ove lo si fosse accettato, avrebbe limitato e subordinato il potere dello Stato, che, invece, anch'esso per definizione, si postulava assoluto. Per questa ragione, nei secoli precedenti, quasi tutti gli Stati avevano messo fuori legge i Gesuiti, simbolo della volontà del Papato di riconoscersi autorità superiore allo Stato, incamerandone i beni. Quando poi il Papato perse il fardello del potere temporale, vi fu grande battaglia, nella Compagnia di Gesù, tra chi s'ostinava a darsi da fare, per una restaurazione impossibile e, tutto sommato, neppure molto vantaggiosa per l'immagine di Santa Madre Chiesa, e chi, invece, considerava la perdita del potere sovrano, come una grande opera dello Spirito Santo. Questo fatto rendeva, in tal modo, la Chiesa affrancata e redenta dalla sua aura di potere, attaccato ai traffici terreni. Nel suo complesso però, fin dagli inizi del nostro secolo, pur con varie motivazioni e diverse soluzioni, la Compagnia di Gesù, per prima, tra tutte le grandi organizzazioni della Chiesa, intese il valore rivoluzionario e la grande occasione, che la nuova situazione offriva al Cattolicesimo Romano. Si aveva, in questo modo, l'occasione per rientrare nel grande gioco dei rapporti internazionali, da cui, nel diciannovesimo secolo, Santa Romana Chiesa era stata brutalmente estromessa, 85 come soggetto politico, pur con tutte le gentilezze formali possibili. Per ottenere ciò, occorreva attuare il mutamento del concetto del potere temporale del Papato con quello, ben più attraente per l'animo dei singoli fedeli, e non in rotta di collisione con l'autorità dello Stato, che poteva esser perseguito, attraverso l'affermazione del magistero della Chiesa, reso ineccepibile da una rinnovata e salda autorità morale. Depurato da occasioni di potere, libero da tentazioni di sovranità, riaffermato nel suo più autentico motivo morale, il Cattolicesimo, attraverso il concilio Vaticano II, riproponeva la sua indispensabilità nel mondo moderno. Punta di lancia di questa politica era appunto, al solito, la Compagnia di Gesù. I suoi uomini, da lungo tempo, anzi da sempre, avvezzi ad un severo tirocinio di studio e d'esperienze sul campo, preparatissimi in ogni piega dello scibile umano, cercavano d'occupare ogni testa di ponte, ogni anfratto, ogni appiglio, per arrivare al loro scopo: ricucire fede e scienza nella vita moderna, per ristabilire la necessità, anzi la centralità del Papato, nella civiltà dell'Uomo. La componente più avveduta della Compagnia aveva capito, inoltre, che non si poteva lasciare al marxismo montante, la cura e la rappresentanza dei bisogni dell'uomo, se non si voleva perdere, anche sul piano morale, quella priorità, che la Chiesa aveva perduto sul piano politico. Insomma il Papa, se voleva far presa sull'uomo moderno, doveva staccare la propria attenzione dalle sole condizioni della vita oltre la morte, per definire, in maniera più accettabile, le condizioni della vita in questa vita. Certo, la Chiesa di Roma, dopo le posizioni intransigenti che aveva tenuto nel secolo scorso con l'enciclica "Quanta cura" ed il Sillabo, entrambi del 1864, sotto Pio IX, molte altre volte aveva enunciato il proprio magistero, con accenti completamente diversi su questi problemi. Papa Giovanni XXIII aveva promulgato, il 15 luglio del 1961, l'enciclica "Mater et Magistra", contenente un messaggio di giustizia sociale, rivolto non ai soli cattolici, ma a tutti gli uomini. Lo stesso Papa, l'11 ottobre di quell’ anno, aveva aperto i lavori del concilio VATICANO II, in un'atmosfera completamente differente e con scopi del tutto opposti, a quelli che si prefiggeva il papato nel 1861, con il concilio VATICANO I. La Chiesa riconosceva che, nel frattempo, Essa aveva perso ogni traccia del potere temporale, ma accettava la sfida nel campo dell'etica. 86 In quest'ottica, con queste premesse, la Compagnia di Gesù era presente in ogni campo di battaglia, in cui era in gioco il destino dell'uomo. A Marsiglia molto v'era da fare. La città mediterranea, centro di traffici non sempre puliti, era il punto di partenza, di smistamento e d'arrivo per un grande flagello: la droga. Essa, oltretutto, era il prodromo, la ragione e la causa di una miriade spaventosa d'altri mali: la criminalità, la prostituzione, il gioco d'azzardo, l'usura. Marsiglia era, inoltre, il terminale europeo di un altro fenomeno: la salita degli uomini più intraprendenti di tutto il Magreb nordafricano verso le meraviglie del continente europeo; per loro, un'ascesa al paese delle fate. Per tutte queste ragioni, quella città, ormai frontiera tra il mondo ricco e la marea dei poveri della terra, era il terreno ideale per combattere la battaglia, che la Compagnia di Gesù aveva intrapreso. Lì essa stava, infatti, gettando i suoi uomini migliori. A Marsiglia, Tommaso era arrivato già da qualche settimana e s'andava ambientando tra le varie situazioni che costituivano quella realtà così sfolgorante, nel clima, nel tenore di vita dei più abbienti, nella ricchezza e nel lusso, che trasudavano dai boulevards in cui vivevano i ricchi. Ma Tommaso aveva cercato altri contatti. Per prima cosa, egli s'era preoccupato di conoscere i capi delle comunità nordafricane. Costoro gli avevano mostrato una realtà più cruda, di quanto lui stesso immaginasse, benchè si fosse documentato in precedenza. Lo sfruttamento dell'uomo sul proprio simile ha un'antica storia. Nei casi più modesti s'arriva a negare quanto giustamente si chiederebbe per se, se pure avessimo lo stomaco di praticare quei lavori, che demandiamo ai più disperati. Facilmente si scivola, poi, in forme sempre più aberranti, che finiscono per essere vere e proprie storie di schiavismo. In queste, l'uomo moderno impone, inoltre, quel malinteso senso del possesso, che gli proviene dalla sua società sessuofobica. Oltre ai contatti, che riteneva utili, Tommaso s'era messo subito al lavoro. Con l'aiuto di un pugno di ragazzi in gamba, che aveva prontamente individuato e radunato per intervenire in questi 87 casi, egli s'era rivolto a raccogliere ed assistere i colpiti da quel nuovo flagello, i drogati, che, in numero sempre più massiccio, si ritrovavano buttati tra i rifiuti della città. Qui occorre fare un'altra digressione: la droga, perché? Molte sono le ipotesi, svariate indagini sociologiche sono state prodotte al riguardo, ma forse è bene riassumere alcuni punti fermi. La droga è sempre esistita, fin dai tempi più antichi; ma essa non aveva quasi mai raggiunto, in maniera così significativa, tutti gli strati della popolazione, come stava accadendo in quegli anni. Vediamo d'esaminare alcuni fatti. Per la prima volta, dopo la seconda guerra mondiale, la mentalità nordamericana invade il comune sentire di tutti i popoli. Una mentalità che ha, come punto centrale, un unico ideale: la ricchezza, ottenuta in ogni modo, con qualunque mezzo. Films, giornali, televisione, amici, conoscenti, nemici; tutti predicano e perseguono un solo comandamento: arricchitevi. Per la prima volta, le grandi nazioni europee non hanno più un modello, da proporre ai propri figli. Liberalismo, nazionalismo, marxismo, imperialismo, fascismo, nazionalsocialismo, comunismo: gli ideali che, in tutti i campi, l'Europa era andata propugnando nell'ottocento e nel novecento, avevano mostrato la loro inconcludenza, nel tentativo di definire una civiltà armonicamente costruita. Nessuna di queste dottrine aveva saputo individuare quei valori ideali, che potessero soddisfare completamente i giovani, mentre essi stavano vivendo gli anni sessanta e settanta del nostro secolo. Quando, poi, nel sessantotto, i giovani tentarono di scrollare dal potere le cariatidi che lo detenevano, essi furono sconfitti dall'ingenuità. Le cariatidi, che, per lunga abitudine con il Potere, sapevano come gestirlo, ingaggiarono i più furbi di quei giovani, cooptandoli, solo loro, al vero potere, ed attuarono così, con questa manovra, una vera e propria controrivoluzione. In questo modo, l'immaginazione al potere era divenuta l'immaginazione dei pochi, affinché il Potere si perpetuasse. Ritornava, su scala europea, la vecchia manovra del gattopardo2 affinché nulla si muovesse davvero. Questo i giovani l'avevano capito, più o meno confusamente; così come s’erano accorti che l'altra metà del cielo, i paesi marxisti, non erano poi il sogno realizzato della giustizia sulla Da “ IL GATTOPARDO “ di Tomasi di Lampedusa, è famosa la proposizione che vuole “ Cambiar tutto per non cambiar nulla “. 2 88 terra, quali erano stati prefigurati negli anni quaranta e cinquanta; anzi erano divenuti il regno della burocrazia e del paradosso. Per questo, i giovani, senza ideali, senza punti di riferimento concreti, s’aggrapparono ad un'ingenua infatuazione per le favole, quale fu il maoismo, mentre i più deboli già cadevano nella menzogna della droga. Dopo un'ultima fiammata per ideali disperati, quali furono quelli che sfociarono nel terrorismo, quegli stessi giovani avrebbero avuto una sola aspirazione, non certo un ideale: fare soldi, in ogni modo, e non curarsi né d'altri né di altro. Ma la cosa tragica, che impedirà ogni possibilità di resistenza a quella catastrofe, ciò che spingeva i giovani in maniera irreversibile, era il comportamento dei propri genitori. Anch'essi figli del loro tempo, scomparso ogni riferimento ideale, coloro che avrebbero dovuto educare la propria discendenza, pensavano invece solamente ad arricchirsi, quelli che potevano. Gli altri erano così occupati nella lotta per la vita, da non vedere che un'esistenza che non si curi dei propri figli, mettendoli in second'ordine dopo il successo personale, è un'esistenza che non vale la pena di vivere. Ma questo doveva ancora accadere, negli anni settanta; andiamo per ordine. Avevamo lasciato padre Tommaso, o Tommaso, come preferiva farsi chiamare, alla ricerca di quei rottami umani, che sarebbero divenuti una terribile costante delle città, le nostre, e, per un fenomeno di sciagurato scimmiottamento, di tutte le città della terra, anche perché le cause erano, alla fin fine, le stesse. Un giorno, un tuffo al cuore. Ancora più giovane, di come la portava impressa nella sua mente, sporca, con i capelli lunghissimi e non curati affatto, con un buffo paio di jeans tutti rotti, ma era lei, Monique. Quando si riprese dall'annebbiamento che l'aveva colpito, Tommaso s'accorse mentalmente che non poteva essere lei: i miracoli, quando e se accadono, tendono a mutare in meglio una situazione disperata. Se pure era stata disperata la sua storia con Monique, non era certo quella disgraziata creatura che poteva rinnovare il miracolo. "Oh, bello, ti piaccio, eh? Guarda che si può combinare, non costo troppo; per duecento franchi ti faccio godere come vuoi". 89 Tommaso era impietrito. Quella sventurata copia di Monique aveva percorso tutti i gradini su cui può ruzzolare un essere umano. Eppure aveva lo stesso volto, lo stesso modo di muovere le labbra, la stessa figura complessiva, anche se l'abiezione che l'aveva conquistata, ne rendeva duri i lineamenti e volgari le pose. La giovane aveva scambiato il suo turbamento con altri motivi: "Come non detto, devi essere frocio. Ciao". "No, aspetta; sono un prete, voglio parlarti". "Puoi essere anche il Papa, ma la mia tariffa è quella, non credere che sprechi il mio tempo gratis". "Aspetta, c'è anche un altro motivo, mi ricordi una persona..." "Ah, così va meglio, ma sono sempre duecento franchi, anticipati". Mentre riponeva in uno sdrucito borsello, che teneva nascosto tra la cintura e la pelle, i duecento franchi, che erano tutte le sostanze di Tommaso in quel giorno, la ragazza non si negò un'ultima battuta: "Ma sei sicuro che, mentre parli, non vuoi che ti faccia un bel servizietto? Ci so fare, sai". Tommaso era inebetito; le parole uscivano false e vuote, i pensieri s'accavallavano come le onde del mare in tempesta. Una parte di se cercava di mettere ordine alle sue sensazioni, tentando d'imporre la verità: non è Monique, è solo una povera anima che le somiglia e che ha bisogno d'aiuto. Un'altra parte non ragionava più. Come la preda, affascinata dal dondolio del serpente, egli andava ripetendo, dentro di se: Monique, Monique. "Parlami di te. Come hai potuto ridurti in questo stato, che cosa posso fare per aiutarti..." Non riuscì a finire. La figura che aveva a fianco, finora indolente e quasi assente, ebbe uno scatto, come di una molla, e cominciò ad urlare: 90 "Oeh! Prete, da te mi faccio fare tutto, anche bruciare le tette con la sigaretta, basta che paghi bene; ma non voglio prediche, intesi? Se no, aria". Non era quello il modo d'agganciarla, occorreva un metodo più sottile. "Hai ragione, scusami; ma, sai, distorsione professionale. Noi preti, non avendo guai nostri perché specie protetta, c'interessiamo ai guai degli altri ed, in questo, troviamo il nostro compenso". Che, poi, anche se detto in termini un po’ crudi e non certo canonici, era, in definitiva, la verità. "Veramente ti faresti bruciare i capezzoli? E quanto vuoi?" "Solo appoggiare la sigaretta mille franchi; spegnerla cinquemila, fa un male boia. Ma va che tu non sei il tipo, anche se sei un prete. Li conosco bene, quelle bestie lì; hanno tutto un altro modo di fare. Guarda". Così dicendo, si scopri la camicetta. Quello che una volta era stato un seno di bambina e che non ne differiva ancora molto, era tutto piagato da ferite e bruciature che lo rendevano insostenibile alla vista di una persona sana di mente. "Lo sanno quasi tutti, ormai, che ho la sifilide e nessuno viene più con me; riesco a trovare lavoro solo al porto o con i marocchini. Dovrei farmi ricoverare al dispensario, ma lì non è possibile procurarsi la "roba" e non posso stare nemmeno un giorno, senza farmi. Così sono diventata il giocattolo di alcuni viscidi gentiluomini, che sfogano su di me la loro impotenza". La corazza si stava incrinando, quel povero essere parlava di se, il contatto si poteva stabilire. "Vediamo quello che si può fare, accompagnami". Un altro scatto furioso: "Dove vuoi portarmi? No, con te non ci vengo". "Stai tranquilla, non ti porto da nessuna parte, camminiamo. 91 Del resto, ho pagato, no? Ho diritto ad un poco del tuo tempo; e, poi, come ti ho detto, noi preti viviamo sulle storie degli altri". La giovane sembrò rassicurata. "Ho capito, tu sei uno di quelli che se ne vengono nel sentirsi più bravi degli altri, contento te! Anzi, se questo è il tuo gusto, allora ti racconto anche la mia vita, così vedi quanto sei stato più bravo di me; basta che non mi fai prediche, però. Dunque, fino ai tredici anni sono vissuta in una casa in cui non mancava nulla, una vita da signori. Mia madre era una donna molto bella, la nostra casa era molto bella, la nostra auto era molto bella, tutto era molto bello, perfino la mia scuola. Anche il signore che, ogni tanto, ad intervalli regolari, capitava per casa, era un gran signore, mi portava sempre qualche regalo e molti cioccolatini. Mia madre mi diceva che dovevo chiamarlo zio, pure se non portava il cognome di mio padre e mia madre era figlia unica. A quattordici anni, quando divenni donna, attiravo l'attenzione di parecchi ragazzi. Il garzone del fornaio, che aveva ventitré anni, cercò di fare delle avances grossolane, ma mia madre s'accorse di qualcosa e fece una scenata furibonda, imponendo al suo principale che lo licenziasse e descrivendolo a me, come il diavolo. Un giorno l'incontrai, perché mi stava aspettando all'uscita della scuola. Era un ragazzo bellissimo ed io volevo far colpo con le compagne di classe. Incominciammo, così, una relazione innocente. Qualche tempo dopo, anche lo "zio" tentò di mettermi le mani addosso; ma, quella volta, mia madre, che pure allora s'accorse del fatto, mi si rivoltò contro, chiamandomi “viscida puttanella”. Quando io raccontai piangendo quello che era accaduto, il mio ragazzo mi propose di fuggire al sud, dove avrebbe trovato lavoro e ci saremmo potuti sposare. A Marsiglia, invece, il lavoro non si trovava e non sapevamo come fare. Mi rivolsi a mia madre; lei, però, disse che io avevo fatto una scelta e che, a questo punto, lei non avrebbe più potuto far nulla. La verità era che mia madre non aveva voglia d'altri scandali ed aveva detto in giro che io ero andata a studiare a Parigi. Fu il mio ragazzo che mi propose di fare la vita, ma: 92 "solo per un po’, fino a quando non trovo un posto e ci possiamo sistemare". Così, quando un cliente più depravato del solito mi propose di sniffare un po' di cocaina per "farlo meglio", io non dissi di no, anche se non sapevo neppure come si faceva. Dalla cocaina all'eroina il passo è breve ed ora non mi faccio meno di due pere al giorno; anche tra le dita dei piedi, se non riesco a trovare una vena buona. Naturalmente, la clientela, che, procuratami dal mio ragazzo, nei primi tempi era veramente up, dopo che lui scomparve, è andata via via imbastardendosi, fino a che non ho trovato quel maledetto, che mi ha inguaiato definitivamente. Fine della storia. Se ne vuoi un'altra occorre un altro gettone". "Non ho più una lira", dovette confessare Tommaso, costernato. "Allora ciao, sarà per un'altra volta". Così dicendo, quello spiritello scomparve tra la folla, lasciando Tommaso bloccato, come un pugile suonato. Egli ebbe solo il tempo di dire: "Vienimi a trovare al centro per i diritti sociali..." Ma non era affatto sicuro che lei avesse capito. La sera, mentre, come ogni uomo, il giovane prete faceva il riassunto della propria giornata, gli ricomparve in mente il fantasma della sua Monique. Quel doppio aveva scatenato di nuovo in lui una tempesta, che credeva ormai placata. Però la sua intelligenza aveva già convinto il suo cuore che non potevano esserci stati miracoli, ma solo una dolorosa coincidenza. Questa accomunava in destini diversi, seppur ugualmente miserevoli, due creature tanto simili d'aspetto, da sembrare la stessa persona. Nuovamente, suscitato da quei fatti che l'avevano così colpito, il vecchio problema tornava al vaglio del suo dubbio. Perché era permesso che atrocità simili potessero accadere? Perché il principio divino esplorava campi tanto desolati? Come poteva nascere un alcunché di valido, da questa desolazione? Eppure la risposta era ancora quella. 93 Non esiste ipotesi più valida, di fronte al male, che ipotizzare un principio finalizzato al bene. Questo, comunque, alla fine, prevarrà su tutto, anzi riportando tutto nel bene di Dio. La sua forma mentis gli diceva perfino che questo percorso è più intelligibile logicamente che accettabile attraverso un processo volontaristico dell'animo. Cioè, il cuore può non reggere, arrivando a concepire che la fede passi per le terre del male, per raggiungere i propri obbiettivi. L'intelletto, invece, può fare questo viaggio attraverso l'inferno ed uscirne indenne, anzi rafforzato nel proprio convincimento. Eppure, il cuore, a volte, ne rimane stroncato. Prima d'addormentarsi, un altro pensiero: fino a che punto si può addossare ad una povera ragazza senza esperienza, la colpa di quello che aveva dovuto subire ? Quanta parte di responsabilità era la sua e quanta era degli altri, di tutti? E se la responsabilità di chi sbaglia è spesso minima, come può esplicarsi su di lui la giustizia di Dio, come si potrà emettere un giudizio di colpevolezza, il giorno del Giudizio? Ma, se tutti gli imputati non sono colpevoli, perché ognuno avrà uno o più testi a suo completo discarico, chi saranno i colpevoli, come sarà fatta la scelta? La risposta a questa domanda, tuttavia, era facile: l'uomo giudica in base alle sue leggi, che possono essere carenti o false o ingiuste. Dio giudicherà in base a principi di giustizia e bontà infinite. Se il Suo procedimento, alla fine, dovesse lasciare vuoto l'inferno, ci saranno sempre le moltitudini dei teologi, che disputano su questi problemi, per riempirlo. Infatti, se la somma Maestà di Dio avesse, per soprammercato anche un pizzico di spirito arguto, potrebbe destinare costoro, per il ripopolamento di quei luoghi desolati. Con quella buffa idea, che gli era servita per allentare la desolazione del proprio pensiero, quando arrivava a trovarsi a tu per tu con il mistero, Tommaso riuscì, per quella notte, ad addormentarsi. CAPITOLO IX SPORCARSI LE MANI 94 La mattina successiva Tommaso voleva darsi da fare per tentare di risolvere in qualche modo la questione che aveva toccato il suo animo, per cercare di portare un qualche aiuto a quella povera disgraziata. Quel fantasma gli aveva brutalmente riportato alla memoria, in maniera disperata, la sua personale tragedia. Essa, se non era stata superata, era però, in un certo qual senso, attutita e nascosta, quasi incapsulata nell'angolo più buio e gelato del proprio animo, ormai impegnato in vari fronti, nel tentativo, appunto, di dare un senso positivo alla sua vita. "Non so nemmeno come si chiama e dove la posso ritrovare" pensò, tra sé. Con quest'idea, Tommaso cercò qualcuno che potesse dargli una mano al riguardo. Anche nella sua nuova identità, pur con la fama del convertito, anzi forse proprio per questo, Tommaso aveva riacquistato in poco tempo quella naturale predisposizione, che lo collocava in una posizione privilegiata rispetto agli altri. Questa sua qualità innata si manifestava in ogni suo rapporto umano non per una sua voluta imposizione, ma perché esiste negli uomini quest'attitudine ad emergere, quel sentimento che la parola carisma descrive bene, ma non compiutamente. Il suo carisma aveva, come componenti principali, una forte personalità; una serietà di comportamento che non aveva nulla di serioso; una profondità di concetti, indice di lunga dimestichezza nei percorsi della ragione; un animo in cui la volontà, l'intelletto e l'immaginazione avevano veramente un libero gioco, come diceva Schiller 1. Ognuno di noi, dopo poco tempo che tratta con un suo simile, sa valutare il rapporto che si è instaurato con questi. Esso può essere d'amicizia o di odio, ma sempre ognuno riconosce, o almeno inconsciamente percepisce, se colui che gli sta davanti è più o meno forte di lui, in tutti i campi; da quello più rozzamente fisico a quello intellettuale, a quello esistenziale e volitivo, fino a quello morale, che li riassume tutti. Quando poi un uomo, senza che egli faccia minimamente nulla per suscitare attenzione, riesce ad entrare nell'inconscio collettivo di un gruppo, per una sua marcata predisposizione, al bene o al male, allora egli, e tutti i componenti del gruppo, sentono che lui solo ha una forte presa sugli altri. Se costui la usa nel bene, sarà ricordato come un uomo degno di rispetto. 1 Poeta, scrittore e drammaturgo tedesco -1759/1805. 95 Se s'indirizza al male, avrà ancora diritto al ricordo, anche se questo sarà un cattivo ricordo. Ma torniamo al nostro Tommaso, che cercava aiuto. Come spesso accade, egli venne invece contattato per primo dall'uomo cui si voleva rivolgere, perché costui doveva chiedergli, a sua volta, un favore. Si trattava di un confratello, padre Robert. Egli era uno spirito inquieto, con un’esperienza in quel particolare campo, in cui avevano operato i cosiddetti preti operai. Furono costoro uomini che, nella fede di Cristo, avevano trovato il messaggio sempre rivoluzionario, sempre presente nella storia della Chiesa e sempre in questa combattuto ferocemente, perché quel messaggio si contrapponeva frontalmente con la politica di potenza, da sempre perseguita dal soglio di Pietro: "È più facile che un cammello...".Gli eremiti 2, i Catari, le innumerevoli sette comuniste del medio evo francese ed italiano (i poveri di Lione, i Begards, i buoni uomini, gli umiliati, i fraticelli, i poveri evangelici) gli ordini mendicanti, gli stessi Francescani, i seguaci di fra Dolcino, gli albigesi e quasi tutte le sette eretiche che percorsero le fila cristiane nei secoli fino ad approdare alla riforma protestante, puntavano diritto a quella verità incontrovertibile. Essa era stata pronunciata dal Cristo, e solo i contorcimenti dei dotti, al servizio del potere papale, potevano offuscarla con sofismi, masturbazioni dell'intelletto ed anatemi. Addirittura, dal vocabolo con cui gli ebrei del tempo di Cristo indicavano i poveri -ebionim-, si volle riconoscere un eretico, Ebion, mai storicamente individuato. Questi avrebbe introdotto un'eresia, l'ebionismo, con cui si chiamarono coloro, che ritenevano inconciliabile la dottrina di Cristo con la ricchezza 3. Da sempre, quella era stata la gran piaga da cui erano usciti gli spiriti che non potevano perdonare, alla Chiesa di Cristo, il tradimento verso il proprio fondatore. Ma, nel porsi contro la gerarchia, essi si venivano automaticamente ad escludere dall'"Ecclesia". Tutte queste varie sette o disposizioni dell’animo predicavano la povertà evangelica, spingendosi su posizioni di assoluto rigetto del concetto di proprietà, comunque inteso. Tutte, quando posero questa loro posizione in campo teologico, furono sconfessate dalla Chiesa e dichiarate eretiche, ad eccezione dei Francescani, come si vedrà più innanzi. 3 cfr. RENAN op. cit. pag 84. 2 96 Solo i francescani avevano saputo coniugare la fedeltà a quell'ideale con l'obbedienza alla gerarchia, ma avevano dovuto, e dovevano sempre, camminare sul filo del rasoio. Eppure in ogni ordine, in ogni famiglia, tra le molte della Cristianità, l'antico dilemma, la vecchia antitesi, spuntava con una forza incoercibile ed esso era causa di drammi e rinunce. Adesso toccava ai Gesuiti. L'ordine, nei secoli, era stato al servizio specifico del Papa, e non della Cristianità in generale, con un sentimento che ben era riassunto nella frase che ne definiva compiutamente la posizione: "Perinde ac cadaver", cioè come un corpo morto, uno zombie, senza altre idee se non quelle del volere papale. Però, nella prima metà del secolo ventesimo, la Compagnia di Gesù aveva fatto la scelta di combattere affinché il Papa, che era stato sollevato dal potere temporale, fosse universalmente riconosciuto come la massima Autorità, nel campo della morale. Da quel momento, l'Ordine dei Gesuiti aveva posto con forza, anche se nella sua maniera congeniale, cioè in modo molto felpato, la tesi che la Chiesa dovesse interessarsi ed, anzi, porsi alla testa dei movimenti che chiedevano, a gran voce, la liberazione dell'uomo, per primo dalla povertà, dalla sopraffazione, dalla politica di potenza. Molte intelligenze, per questa ragione, erano uscite dall'Ecclesia ed avevano fondato, nei paesi più poveri, quel Movimento di Liberazione, che non era altro, se non l'esplicazione politica del vecchio dilemma, croce pesante della Cristianità. Esso asseriva non potersi servire contemporaneamente due padroni. Molti ingegni, pur formalmente ancora nei limiti della dottrina, s'erano schierati, nel loro animo, su quelle posizioni, che Santa Romana Chiesa riteneva non in linea con il suo magistero. Uno di quegli ingegni era appunto padre Robert. La sua esperienza tra i preti operai l'aveva posto in contatto con quegli ambienti cristiani, in cui l'adesione al concetto di povertà si coniugava con un integralismo, chiamiamolo proto-cristiano. Esso non accettava i secoli di storia europea, per ricollegarsi al rigore delle prime comunità, che, nelle catacombe, mettevano in comune tutto, e, per prima cosa, i beni della comunità. Questi gruppi, che postulavano una specie di comunismo povero e cristiano, quale era stato il cristianesimo dei primordi, venuti a contatto con le ideologie più spinte, derivate dal pensiero marxista, dettero origine ad una miscela esplosiva, che aveva lo scopo, e forse anche la potenzialità, di far saltare il mondo capitalista europeo. Si voleva così contrapporre, sia pur molto confusamente, al capitalismo ebreo e protestante dell'America del nord un 97 cristianesimo cattolico, finalmente attento ai bisogni terreni dell'uomo. Questi, naturalmente, erano in rotta di collisione, in tutto il mondo dei poveri, con il capitalismo della società dei ricchi. Infatti gli storici sono concordi nel considerare la matrice di quel particolare tipo di cristianità, come una delle componenti, anche se minoritarie, del terrorismo europeo, negli anni settanta. Ciò è verificabile, in special modo, nel movimento che, in quegli anni, avvampò l'Italia, con il nome di "Brigate Rosse". In esso, non era raro trovare elementi, che provenivano proprio dalle fila di un cattolicesimo particolare, il quale si rifaceva alle origini del messaggio del Cristo. Uno dei fiancheggiatori nascosti di quel movimento era appunto padre Robert. Del resto la Chiesa cattolica aveva, nel merito, una lunga tradizione. I più accondiscendenti la facevano derivare dall'imperativo cristiano d'aiutare chi si trovasse in gravi difficoltà ed i più obbiettivi la facevano risalire alla politica di potenza, da sempre perseguita da Santa Romana Chiesa. La politica del prete, da sempre, giocava a coprire i vinti del momento, per essere l'arbitro della situazione e per precostituirsi benemerenze con i vincitori di domani. Come non ricordare gli ebrei e gli altri fuoriusciti salvati in Vaticano, al tempo della seconda guerra mondiale, senza peraltro prendere, nel contempo, una posizione netta di condanna, che avrebbe forse fatto perdere la vita al "Vicario" di Cristo, ma avrebbe altresì testimoniato una scelta di campo inoppugnabile e ben chiara per tutti? Come non rammentare i criminali nazisti, avviati, a guerra finita, su canali ecclesiastici, come è stato sussurrato da più parti, verso luoghi sicuri in Sud America? E poi, gli uomini del basso clero di Roma, che si schieravano con i movimenti rivoluzionari, mentre le gerarchie dello stesso clero benedicevano i soldati inviati a combatterle. Salvo, ritrovarsi di nuovo con i rivoluzionari, o almeno comprendere le loro posizioni, fino a farsi uccidere sull'altare, come sarebbe accaduto, di li a qualche anno, nel 198O, all'arcivescovo Romero, primate del San Salvador. La politica di Santa Madre Chiesa è vecchia di duemila anni e, in tutto questo tempo, la Chiesa è divenuta l'organizzazione sociale più accorta ed efficiente che noi conosciamo, cavalcando sempre con i piedi in due staffe, ma ricercando un unico obbiettivo: il riconoscimento universale della propria autorità per l'accrescimento del proprio potere. La storia ha molti esempi di ciò. 98 Il "Constitutum Constantini" del 753 4, con cui i Papi pretendevano di far riconoscere la superiorità del potere papale su quello temporale, oltre che tentare la frode d'appropriarsi di diritti di proprietà, mai concessi. La lotta secolare tra Papato ed Impero. La lunghissima battaglia di retroguardia, per non mollare, comunque, il potere, quando gli Stati nazionali teorizzarono che non esisteva, in politica, alcun altro potere, oltre il proprio. I vari Concordati con cui il Vaticano si è sforzato di far passare, negli stati cattolici, il principio che la Chiesa di Roma non è solo un'autorità morale, ma l'anello di congiunzione tra il potere divino e quello politico. La battaglia, ora splendida ora abbietta, ma sempre con un unico scopo, combattuta dal Papato, aveva perpetuato, nei secoli, la scelta della Chiesa di Roma, d'avvinghiarsi al potere, per meglio esprimere la propria volontà di potenza. Ma torniamo alla nostra storia. Questa rotella di un disegno più ampio, padre Robert, stava cercando appunto Tommaso, perché aveva bisogno che lui, con il suo carisma e le sue possibilità di contatti, che Tommaso s'era creato in così poco tempo, potesse risolvere un problema spinoso, senza coinvolgere le gerarchie, come è prassi comune tra i preti. "Tommaso, devo chiederti un favore. Un perseguitato per le proprie idee, un uomo di cultura italiano, accusato d'aver teorizzato la necessità di ribellarsi con la forza alla violenza del mondo moderno, un filosofo accusato solo per "delitti" d'opinione, ha bisogno d'aiuto. Egli deve esser nascosto, perché anche la Francia, il paese che ha, per primo, riconosciuto il valore della libertà, sente il peso dei gruppi politici ed economici in guerra con il popolo, mentre questi vuole scrollarsi di dosso la maledizione, che lo tiene schiavo. Tu, che hai una lunga tradizione d'aderenza ai valori della libertà, potrai tenere quest'uomo nascosto nel tuo gruppo, senza che nessuno lo sappia, soprattutto tra i nostri superiori". Il famoso falso storico, redatto a Roma intorno al 753,con cui la Chiesa pretese di dare validità oggettiva al suo tentativo, d’altronde riuscito fino al 1870, di fornire un qualche fondamento storico al suo potere non solo religioso, ma anche civile sugli “ Stati della Chiesa “.cfr.C. RENDINA “ Storia dei Papi “ Newton Compton ed. 1993, pag. 62. Il falso fu dimostrato tale da Lorenzo Valla, già nel 1440, nel trattato “ DE FALSO CREDITA ET EMENTITA CONSTANTINI DONATIONE LIBELLUS” 4 99 Padre Robert conosceva i trascorsi di Tommaso, quando JJ era il professor Fernays della Sorbona, idolo dei suoi studenti ed ideologo della lotta per la libertà dell'uomo. Del resto, presentandogli quel fuoriuscito come un martire dell'idea ed un uomo che non s'era macchiato di delitti di sangue, per stessa ammissione dell'Autorità inquirente del proprio Paese, padre Robert riteneva d'aver trovato un alleato prezioso, perché il gruppo diretto da Tommaso faceva capo solo a lui e non era sottoposto al controllo d'altri. Tommaso accettò il nuovo venuto e l'ospitò nel bugigattolo che aveva a disposizione, come propria base, per le sue incursioni nel mondo del dolore. Altri uomini, intellettuali magrebrini e poveri diavoli senegalesi, donne perse, che venivano dalla provincia francese più profonda e studenti di sociologia delle università più altisonanti in Europa, costituivano il mondo variopinto, che frequentava quel centro. Esso era già divenuto famoso, come osservatorio delle malattie della società moderna e come nucleo di studio e di cura per le stesse. Su tutti e per tutti vigilava e dava la propria copertura, padre Tommaso, ben conosciuto dalle Autorità di Marsiglia. Queste, infatti, si rivolgevano a lui sempre più spesso, quando le frizioni tra i vari gruppi di disperati cominciavano a divenire incandescenti. Una sera, tra quell'umanità composita, Tommaso s'accorse che era entrata anche la figura, a lui ben stampata nella memoria, che gli aveva rammentato, in modo impressionante, la sua Monique. "Ti ringrazio d'essermi venuta a trovare, come t'avevo proposto. In che cosa posso esserti utile?" "Hai soldi?" fu la risposta impertinente, e forse anche pertinente, che la giovane gli sparò a bruciapelo. "Se ne avessi, mi servirebbero per mandare avanti meglio questa baracca, e poi, tu sai che non sono uno che sa spendere soldi per le tue prestazioni. Se vuoi rimanere, resta. Potrai trovare qualcosa che t'interessa e ti serve. Come ti chiami?" 100 "Puoi chiamarmi come ti pare, basta che non fischi; quando mi vuoi, sai la tariffa". Ma osserviamo meglio la scena in cui si stavano muovendo i nostri amici. Come diceva un vecchio proverbio, nato forse a Napoli, ma sicuramente conosciuto anche a Marsiglia: "Tre sono i potenti: il Papa, il Re e chi non ha niente". La Suretè locale preferiva non inimicarsi nessuno di quei tre potenti, se ne poteva fare a meno e se trovava qualcuno che toglieva, per essa, le castagne dal fuoco. Quindi quel centro, che raccoglieva i rottami e le scorie del mondo ricco, mescolandoli ai disperati del mondo povero, che facevano così anticamera per entrare nel loro paese delle fate, era tollerato, anzi ben visto dalla polizia. Essa, in questo modo, aveva qualche grattacapo in meno e qualche possibilità di controllo in più, anche se padre Tommaso non si sarebbe mai prestato a praticare quell'ingrato mestiere. Ma il solo fatto d'avere un luogo in cui si radunavano tanti soggetti interessanti era un fatto, anch'esso interessante, per le autorità che vigilavano sull'ordine pubblico. Però, pur in mezzo ai bisogni reali ed immediati di quei disperati, forse per un desiderio più o meno inconscio di frequentare nuovamente le frontiere dello spirito, mettendo in gioco la sua attitudine al dibattito e la sua famosa compassione verso ogni individuo in difficoltà, Tommaso si sentiva attratto dal suo ospite più importante e più nascosto. La statura intellettuale del professor Angeli, dell'Università Cattolica di Milano, intrigava non poco l'intelligenza di Tommaso, che si trovò, quasi inconsciamente, a misurarsi con lui. Così, la sera, stanchi, dopo una giornata di duro lavoro, speso a favore di povere anime, per dirimere le loro misere beghe, per riaffermare i loro inalienabili diritti, per sottrarre un granello di giustizia all'ingiustizia che domina il mondo, Tommaso ed il professor Angeli, che pur conosceva, alla lontana, i trascorsi del prete, si confrontavano sul piano intellettuale, nella teoria e nella prassi. "Caro Tommaso - era l'invariabile conclusione del professore, uomo di gran mondo, appartenente ad una famiglia della migliore aristocrazia milanese, ricca da sempre, con una lunga consuetudine con Parigi, che riconosceva come patria dell'anima ed in cui aveva anche un lussuoso appartamento, accuratamente evitato per non farsi individuare - la prassi non può essere adeguata, se non è valida la teoria. 101 Tu, ad esempio. Ti agiti, ti muovi come un forsennato, per riparare torti ed inseguire la giustizia, ma non affronti alla radice il problema. Solo una rivoluzione totale potrà vincere il potere delle multinazionali, questo superstato nato agli inizi del nostro secolo, come aveva ben compreso Lenin. Esso ormai non ha più alcuna possibilità d'essere sconfitto in maniera democratica, perché ha occupato tutto: il potere politico, quello economico, l'informazione, i partiti, tutti quanti, ed ogni altro potere, anche quello religioso, che ha cooptato nei suoi ingranaggi economici. La rivoluzione totale non potrà essere innescata se non da alcune avanguardie estremamente politicizzate, che facciano scoppiare le contraddizioni interne a questo potere. Tali avanguardie, che pure esistono e sono tante, ne rieducheranno, con azioni esemplari, i servi idioti che, nati dal popolo, hanno dimenticato le loro origini, e colpiranno il potere dove esso è maggiormente sensibile, cioè nella produzione e nell'accumulo della ricchezza. Avanguardie nascoste tra il popolo e dal popolo, esse dovranno propagandare quali sono i veri bisogni del popolo e vivere in mezzo ad esso, come i pesci nell'acqua. Certo, per fare ciò, dovrà scorrere molto sangue, soprattutto del popolo, affinché s'inneschi quella reazione a catena, che distruggerà questo mondo marcio e ci porterà ad una società senza classi". Tommaso si sentiva riproporre l'antica maledizione, che aveva scatenato la hybris nel suo animo, quando si chiamava JJ; ma non voleva controbattere con gli argomenti della sua ricerca spirituale, argomenti che non sarebbero stati certo ritenuti validi, dall'intelligenza che aveva di fronte. "Quando leggevo i tuoi articoli, che erano ripresi, dalle riviste italiane, anche sul Figarò, m'ero fatto un'idea che tu fossi un seguace di Kant, anzi il caposcuola dei neoKantiani in Italia. Adesso, in pochi anni, l'obbiettivo si è capovolto: l'uomo non è più il fine di ogni legislazione, anche di quella personale, è diventato un mezzo?". "Kant è l'origine, il metodo; Hegel è il colpo d'ala che percepisce la dialettica dell'intero sistema; Marx è il compimento logico e la rivoluzione mondiale è la tappa obbligata, sulla via dell'ottimizzazione del fattore umano nella storia universale". 102 "Ma come potrai evitare la stessa tragica contraddizione di fondo che sta minando alle radici il comunismo sovietico? Rammenta che i Soviet sono stati strutturati sull'equivoco della costruzione dell'"Uomo nuovo", Stachanov 5. Questo “uomo nuovo” avrebbe saputo trovare in se, secondo le direttive del Partito, la forza per superare ogni difficoltà, ogni ristrettezza, ogni rinuncia materiale. Spero che tu t'avveda di come questo equivoco stia portando alla paralisi l'Unione Sovietica. Infatti sembra che si dica, tra gli operai di quell’infelice Paese: "Noi facciamo finta di lavorare, mentre lo Stato fa finta di pagarci". Questo perché non si può costruire un sistema politico sulle illusioni, non si può forzare la realtà, cercando di farla sembrare quello che noi vogliamo che essa sia. Da questo punto di vista l'uomo non è per nulla cambiato, nel corso della storia. Egli è sempre lo stesso animale, per lo più attaccato ai propri particolari interessi, per quanto bassi e personali essi possano essere, anche se qualche individualità o un intero gruppo, in situazioni particolari, può essere capace di comportamenti sublimi. Ma, una volta cessata la straordinarietà del fatto, l'animale uomo scende dal cavallo bianco dell'ideale e cerca un lavoro poco faticoso o, almeno, gratificante, una compagna che lo soddisfi e dei figli che ne perpetuino il nome. Come tu ben sai, questo scenario, che è la rappresentazione dell'"aurea mediocritas", non solo è la posizione più confacente all'uomo e più giusta sul piano filosofico, come ci ricorda Cicerone, ma è anche, su qualsiasi campana statistica, il tratto su cui s'addensa la gran massa dei consensi. Come farai ad evitare il rischio della burocratizzazione della rivoluzione, sempre presente, ed ad indirizzare le masse, per ottenerne il consenso? Forse tenendole sempre sulla corda dell'ideale, come non è riuscito mai a nessuno, oppure costruendo uno stato di polizia talmente onnipresente, da far invidia ai Khmer rossi 6 cambogiani, di cui, in questi giorni celebriamo i generosi Aleksej Grigor’evic STACHANOV, minatore sovietico, stabilì straordinari records nell’estrazione del carbone, divenendo un esempio del sistema di incentivazione sovietico, noto con il nome di STACANOVISMO. 6 Khmer rossi, le sanguinarie truppe, al comando di Pol Pot, ultramarxiste e filocinesi, che, nel tentativo di estirpare i “Controrivoluzionari “ in Cambogia, provocarono milioni di morti. 5 103 tentativi di distruggere il proprio popolo, per farlo star meglio?". "Tu non ricordi che già Marx aveva teorizzato come la rivoluzione sarebbe dovuta scoppiare, tra le masse più politicizzate degli Stati all'avanguardia del progresso. Tali masse avrebbero avuto in se l'autocoscienza per ben dirigere la loro rivoluzione secondo schemi logici, con il minimo dispendio d'energie e di sangue. L'accidente storico, che ha visto la rivoluzione vincere tra le masse dei paesi meno preparati a tale evento grandioso, si paga, nella rivoluzione russa con il suo imborghesimento e la sua burocratizzazione e, nei paesi ancor meno preparati, con il sangue del popolo. Questa è la cruda realtà ma questo non impedirà lo scoppio della rivoluzione mondiale, da uno o più, dei mille fuochi accesi nei vari paesi; è inevitabile". Di fronte ad una simile dichiarazione dogmatica Tommaso non replicò. La sua forma mentis, che rifuggiva da ogni dogmatismo, s'alleava alla sua filosofia, che gli impediva di poter considerare giusta un'azione moralmente riprovevole, perché fonte di spargimento di sangue e perciò discendente da una teoria perversa. Quella che considerava l'Uomo come mezzo e non come fine. Il dubbio, il suo eterno consigliere, non l'aveva abbandonato neppure nella scoperta del suo nuovo intendere il perché dell'esistenza, ma aveva voluto esser placato con il riconoscimento della necessarietà del percorso logico, che aveva accompagnato Tommaso nella rivelazione della sua nuova fede. Quella notte, quel dubbio aveva ripreso a spingere venti di tempesta nell'animo del prete. Come accettare un maestro che, forse, materialmente neppure si sporca le mani per mettere in pratica la sua teoria, ma che, proprio in virtù del carisma personale sui suoi discepoli, li spinge su un percorso mentale che, oltre ad essere concretamente pericoloso per essi, è, in ogni caso, moralmente condannabile? Infatti egli li costringe, con il proprio insegnamento, che può essere più forte di qualsiasi imposizione, a considerare l'uomo come un mezzo e non più come un fine, cancellando la 104 conquista del più gran filosofo laico dell'Umanità 7, se pure non si vuol tener conto della dottrina del Cristo. No, quei maestri, anche se avevano un seguito sempre più consistente tra la gioventù più accesa e politicamente più vivace, non potevano vincere, non dovevano vincere, perché la loro vittoria avrebbe significato una nuova barbarie, più atroce dell'ultima, il nazismo. Infatti il sistema che essi volevano attuare, la teoria delle avanguardie capaci di pensare per tutto il popolo, unita al possesso e l'uso di tutti i ritrovati tecnici in grado d'orientare e dirigere i mass media, senza nemmeno darlo a vedere, sarebbe stato estremamente raffinato e suadente. Ma ciò avrebbe reso gli uomini degli idioti ubbidienti, e felici d'esserlo. Ad una più attenta analisi, si trattava della solita, vecchia scorciatoia che, ogni tanto, qualcuno proponeva, per vincere le debolezze della democrazia. Questo era dunque il grande pericolo. L'uso indiscriminato della propaganda, come già aveva tentato di fare Hitler, avrebbe reso superfluo il controllo democratico, perché le masse sarebbero state orientate con metodi subliminali8, imponendo loro quello che dovevano pensare. La mattina successiva, Padre Robert sembrò accettare la tesi che Tommaso gli andava esponendo, circa l'impossibilità morale, per lui, di coprire, ed avallare così, la posizione del professor Angeli. Sembrò accettarla; ma il gelido sorriso che era stampato sul suo volto, non prometteva nulla di buono, specialmente se si considerava che quella era la massima espressione di disappunto che poteva essere espressa da un prete, gesuita per giunta. CAPITOLO X DAGLI AMICI...... Il professor Angeli era stato avvisato discretamente che Tommaso non poteva più offrire un rifugio sicuro, in quanto la polizia di Marsiglia aveva deciso di mettere ordine nei quartieri Immanuel KANT Königsberg 1724-1804. Stimoli inviati ad un soggetto, senza che questi ne abbia conoscenza, perché al di sotto della soglia di percezione cosciente. Tali stimoli, benchè non avvertiti consciamente, possono creare, con tecniche apposite, sensazioni e bisogni reali. 7 8 105 di quella città, che assomigliavano sempre di più ad un suk 1 tunisino. La mattina, all'ora della preghiera, le strade si riempivano di islamici osservanti che stendevano il loro tappetino, per invocare il rituale "Hallah Hac bar", Dio è grande. Questo poteva anche essere tollerato da un europeo, ma era il seguito del versetto "e Maometto è il suo profeta" che metteva in agitazione, chi vedeva risvegliarsi il pericolo di una marea umana, già ben conosciuta dalla civiltà occidentale. Era stata quella, un'onda che, pur sconfitta quattro secoli prima, al momento della sua massima potenza, si ripresentava ora, con la forza della disperazione, ad insidiare il benessere dei paesi ricchi. Così era cominciato un controllo, all'inizio discreto, per non offuscare il nome della Francia, che aveva una lunga tradizione di apertura verso i profughi, da qualsiasi parte essi provenissero, e, soprattutto, per non guastare i rapporti con i paesi mussulmani, che avevano le mani sui rubinetti del petrolio. Tali paesi possedevano, a metà degli anni settanta, una cosi abbondante liquidità di danaro, da far scendere goccioline di saliva e di goduria dalle labbra dei mercanti d'armi; primi tra tutti l'apparato politico, industriale, militare che, anche in Francia, aveva in mano quel commercio, come accadeva, del resto, in ogni Stato ad economia avanzata. Dovrà pur essere scritto, una volta per tutte, lo scempio fatto nel Medio Oriente, in Africa ed in Asia, nel tentativo riuscito, da parte dei paesi ricchi, di neutralizzare lo shock petrolifero. Infatti, dopo l'ennesima guerra arabo israeliana, era stato messo in atto dai paesi arabi, un contingentamento nell'estrazione del petrolio, per mantenerne sempre più alto il prezzo. I paesi arabi avevano preso quella decisione, nella speranza di piegare, in tal maniera, l'aiuto che l'Occidente forniva alla determinazione ad esistere, che mostrava Israele, visto che essi non erano stati capaci di riuscirvi con la forza. La contromossa, posta in atto dall'Occidente nei confronti dei paesi produttori di petrolio, radunati nell'OPEC2, era semplice nelle intenzioni e crudele nel risultato. Il mondo progredito tendeva a pagare sempre meno o, addirittura, a sostituire con prodotti sintetici, le materie prime che provenivano dai paesi meno ricchi, facendo terra bruciata attorno a quei territori in cui, invece, più abbondante era il petrolio. tipico mercato nordafricano. Organization of the Petroleum Exporting Countries - Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, costituitasi nel 1960 con sede a Vienna. 1 2 106 Ai paesi produttori di petrolio veniva poi offerta, in quantità enormi ed a prezzi salati, una vasta panoplia d'armi e di oggetti altrettanto inutili per un vero sviluppo di quelle terre, evitando accuratamente però di fornire l'unica arma risolutrice, l'atomica. In questo modo, il petrolio, che avrebbe potuto significare il riscatto di interi continenti, divenne un motivo di spese folli ed inutili, senza alcuna possibilità d'instaurare un vero cambiamento, nelle infelici regioni in cui sgorgava. Quelle terre, invece, sarebbero state in grado, proprio per mezzo del petrolio, di raggiungere le nazioni più progredite ed essere il motore trainante per tutte le zone sottosviluppate del mondo. Ma, poi, attraverso il giochetto prima ricordato, l'arma del petrolio non fece più paura, perché s'era riuscito a render vano il cartello dell'OPEC; cioè si era finalmente fatto saltare il contingentamento del petrolio stesso, che stabiliva quote fisse per la sua estrazione in ogni paese produttore. Per pagare le cose inutili o quasi, che l'Occidente dava in cambio, s'erano rese disponibili le enormi somme di danaro che il petrolio forniva, fino a che esse, per quanto enormi, non bastarono più. Infatti il petrolio, estratto in quantità sempre più massicce, crollò nel prezzo, e così anche i paesi produttori di petrolio si trovarono indebitati, in maniera devastante per la loro economia. Il sogno da mille ed una notte di quei paesi si rivelò per quello che, in effetti, era: un incubo, che aveva lasciato quelle popolazioni più povere e più disperate di prima. In tal modo, sul finire degli anni settanta, la normale pressione dei disperati dei paesi sottosviluppati, interessati a cercare d'andare nell'Europa ricca per praticare quei lavori, che gli abitanti d'Europa non volevano più fare, si sarebbe trasformata in una vera e propria invasione. Questa diventerà, nel decennio successivo, un'autentica alluvione, che avrebbe scatenato le ansie xenofobe, presenti in ogni popolazione, quando essa sente minacciato il proprio tenore di vita dall'arrivo dello straniero, del diverso, epperciò, del nemico. I prodromi di questa situazione s'incominciavano ad osservare negli anni del nostro racconto. Quindi era plausibile la scusa trovata per allontanare il professor Angeli: la polizia di Marsiglia voleva veder chiaro nel numero e nella qualità di tutti quegli ospiti, che iniziavano ad essere troppi e, perciò, indesiderati. Non ci riuscirà mai, ma, con questa nuova direttiva, si dette l'avvio ad un controllo sul territorio, che fece fuggire il professor Angeli dal suo nascondiglio. 107 Era infatti accaduto che, tra le prostitute che lavoravano al porto, stesse serpeggiando la paura. Già la terza di loro era stata sgozzata, dopo torture terribili, tipiche della cultura magrebina verso le prostitute, se pure si può usare il termine "cultura" per indicare riti così barbari e feroci. Già alcuni dicevano d'aver visto dei “negri” trafficare con donne bianche. Quest'affermazione, da sola, mostrava quali guai stesse producendo il razzismo, che s'accompagna sempre a situazioni del genere. Le donne in questione erano prostitute. Esse andavano abitualmente con tutti, bianchi, neri, gialli o rossi; bastava che pagassero, e quindi il fatto non doveva suscitare meraviglia. Poi dare del "colorato" ai nordafricani, prima d'essere un insulto, per loro gravissimo, era una castroneria scientifica. Ma questo bastava a far cadere sull'intera città un'atmosfera pesante, mentre la polizia faceva il proprio mestiere: retate, interrogatori, soffiate, pestaggi più o meno regolamentari. Insomma era messo in opera quello che, in linguaggio burocratico, si chiama tenere sotto pressione un ambiente, per far uscire il colpevole o, almeno, qualche indicazione giusta. In una di queste "operazioni" era saltato fuori il nome di Yussuf Salah, un berbero oppositore del regime algerino, studente di medicina veterinaria, che si manteneva agli studi lavorando al porto. La voce popolare lo diceva famoso tra le donne, anche le francesi, ma soprattutto insaziabile sessualmente. I suoi studi poi di veterinaria rendevano plausibili le complicate, orride ferite, che venivano riscontrate sui corpi delle povere vittime dell'assassino che stava terrorizzando Marsiglia. La sua origine berbera ne faceva, per forza, un conoscitore, se non un praticante, di quelle amputazioni rituali; esse attraevano tanto e, allo stesso tempo, inorridivano i lettori dei giornali locali della sera, che s'erano buttati a corpo morto sullo scoop. Inoltre Yussuf era uno dei molti frequentatori del circolo di Tommaso, anzi era un buon amico del prete, che testimoniò in suo favore, asserendo che il magrebino era con lui la sera in cui avvenne l'ultimo delitto. La polizia interrogò tutti coloro che frequentavano il circolo; anche padre Robert, che, a causa della presenza del professor Angeli, era venuto a bazzicare, con una qualche frequenza, tra quei disperati. Padre Robert trovò il modo di sdebitarsi con Tommaso: 108 " Si, quella sera ero presente al centro gestito da padre Tommaso, ma sono sicuro di non aver visto Yussuf, che pure conosco. Forse Padre Tommaso si è confuso o forse egli è convinto dell'assoluta estraneità del suo amico magrebino e sa che non può aver commesso il fatto, come anch'io credo. Le vie del Signore sono infinite". Quest'uscita, nel più puro stile gesuita, mise ovviamente la polizia in allarme e quando risultò evidente che Yussuf non si trovava, apparve chiaro che qualcuno lo stava proteggendo. I luoghi del Potere hanno tutti una caratteristica: sono vasi comunicanti, perché il potere si manifesta in molte forme, prende diversi aspetti, si camuffa in differenti posizioni ma, se si riesce ad arrivare alla fine, alla radice, alla fonte stessa del Potere, ci si accorge che esso è, essenzialmente, uno. Così noi abbiamo il deputato all'Assemblea Nazionale, il prefetto, il sindaco, l'arcivescovo, il giudice, l'industriale che tiene in mano il potere economico della città, il capo della Polizia e, via via, tutte le qualifiche, che gestiscono porzioni sempre più esigue di potere. Ma tutti questi detentori del Potere si praticano, si conoscono, s'imparentano tra di loro, formando appunto quella classe che, sola, detiene il potere e che, gestendo il potere, sente, parla, agisce, decide in maniera autonoma, dimostrando, in modo evidente, che il Potere è uno. Così, il Potere, che per mille rivoli sconosciuti viene a sapere tutto quello che c'è da sapere, proprio per perpetuare il suo potere, emette anche sentenze più dure, e molto anteriori a quelle, che saranno poi pronunciate nelle aule dei tribunali. Una delle peggiori sentenze comminate dal Potere è l'ostracismo, cioè l'allontanamento dalla vita sociale, perché la voce comune, che di solito è la voce del Potere, ha già emesso il proprio verdetto di condanna. Quello è un verdetto inappellabile, perché non esiste un tribunale di grado superiore, che giudichi quello che ha giudicato il Potere . Anche in questo caso la sentenza era stata emessa, prima che la causa venisse discussa nei tribunali: padre Tommaso era stato giudicato colpevole di aver dato aiuto ad un assassino, per giunta straniero, per sovrammercato africano. Ce n'era in abbondanza per scatenare una bella caccia all'uomo, per dare una vittima in pasto ai mostri, che la mente fa tracimare dal buio delle proprie ossessioni, quando la ragione dorme. 109 E, a proposito di mostri, non c'è peggior mostro del razzismo che non è una prerogativa di un popolo, anche se i Tedeschi, come popolo, ne avevano fornito una convincente interpretazione, nel recente passato. Esso è, invece, una debolezza dell'animo umano, di ogni società, che esplode quando ci si trova di fronte al diverso, allo straniero, all'esotico, il quale viene sempre percepito come un pericolo da distruggere. Così quando il povero Yussuf fu trovato dentro un vecchio battello in disarmo, nella parte più abbandonata del porto, con un coltello piantato nella schiena, evirato, la città sembrò sollevata. Il pericolo era stato neutralizzato e, cosa molto importante per placare il senso di paura, giustizia era stata fatta. Ma il sentimento di vittoria che una simile, gloriosa impresa aveva instillato, in buona parte dei "benpensanti", durò poco. Di lì a tre mesi un'altra vittima di quell'assassino, che, evidentemente non poteva esser più considerata come opera dell'africano, massacrato per questo, fu trovata in una via dell'angiporto. Essa era tutta insanguinata; le ferite si sovrapponevano, mettendo a nudo la povera e disgustosa materia di cui ciascuno di noi è fatto. Si potevano riconoscere, nella carne, i virtuosismi del coltello con cui l'assassino aveva tentato di placare i propri personali demoni. Ma era ancora viva. L'autore di una simile opera era stato disturbato nel momento finale della sua esecuzione e non l'aveva potuta completare. Quel povero fagotto di dolore ebbe la forza di chiedere di poter parlare con padre Tommaso, dopo che fu ricoverata al pronto soccorso dell'ospedale. Il prete, subito accorso, riconobbe a malapena, in quell'essere stravolto dalla violenza, quella ragazza che gli aveva ricordato la sua antica tragedia, il doppio di Monique. "Ciao bello, hai visto come ci si riduce, a non seguire i consigli di un prete buono, come te? Peccato, però, che così mi ha ridotta un prete cattivo, quel tuo amico, che ho incontrato qualche volta, nel tuo covo. Mi ha fermato ieri sera, mentre stavo per entrare proprio lì e mi ha detto che mi voleva parlare. Quando ha saputo del prezzo, come faccio sempre, non ha battuto ciglio, anzi è stato molto esplicito. Voleva venire con me ma non poteva portarmi in nessun posto, perché era conosciuto. 110 Io sono stata molte volte con dei preti e conosco le loro manie. Gli ho detto che si poteva fare in macchina e così abbiamo fatto. Il risultato lo vedi ". Un ultimo sussulto pose fine a quelle parole smozzicate che, con la spavalderia e la rabbia di sempre, quel povero essere aveva voluto lanciare alla gente, quella gente che non aveva fatto nulla per fermarla, mentre lei distruggeva la propria vita. Ma Tommaso seppe leggere oltre il fatto; quell'essere umano, cosi provato, aveva avuto l'ultimo pensiero per lui, ed egli rappresentava un qualcosa di ben definito. "Io sono la verità e la vita; chi crede in me vivrà in eterno". Questo bastava, per la sensibilità di quell'uomo giusto, che la sua religione aveva posto accanto alla giovane donna morente: " Ego remitto peccatis tuis...". Nuovamente una stretta di mano di un corpo martoriato, nuovamente un dolore acutissimo, quasi insopportabile, mentr’egli accompagnava un'esistenza verso il mistero, nuovamente quel senso di desolazione, nel sentirsi solo. Uscendo da lì, Tommaso incontrò il commissario che aveva seguito il caso fin dall'inizio. Egli lo conosceva; l’aveva lungamente interrogato, per l'episodio conclusosi con la morte di Yussuf Salah. Il poliziotto voleva sapere se quell'infelice gli avesse confidato un qualche indizio, utile per le indagini. Ma padre Tommaso non poteva parlare; per lui, quella era stata una confessione regolamentare. Il commissario, che qualcosa doveva aver subodorato, per mestiere o forse per qualche altra labile traccia, che suggeriva una pista nota solo a lui, ebbe un'uscita che si doveva rivelare vincente. "Va bene, Padre. Però Lei dovrà dire che quella ragazza si è confessata, ma che non è morta, anzi che non è in pericolo di vita. La Polizia aspetta che esca da sotto i ferri per poterla interrogare. È possibile?" Tommaso guardò lungamente negli occhi quell'uomo, abituato a pescare nel fango della natura umana e che anzi, di quella triste 111 necessità aveva fatto il proprio mestiere, essenziale, per porre un ostacolo a tutto quanto vi è di sbagliato, nel comportamento degli uomini, poi annuì. Nell'uscire, il prete si rivolse al poliziotto: "Non so nemmeno come si chiamasse; l'avevo vista quattro o cinque volte ma non ero riuscito a stabilire un contatto, che potesse essere per lei d'aiuto". Il commissario provvide a quella curiosità: " Si chiamava Monique Duval, aveva ventidue anni, era la figlia di un ricco medico di Tolosa. La moglie separata di questi è, a quanto pare, l'amante ufficiale di un ex sottosegretario alla Difesa nazionale". La realtà, a volte, sa essere macabramente umoristica e fornisce reminiscenze ed assonanze che lasciano l'uomo di sale. La mattina successiva Padre Robert Youet fu trovato morto, impiccato nel suo bagno. Le Autorità non dettero nessun commento all'accaduto né collegarono i due fatti, ma la voce popolare ricamò lungamente sull'avvenimento in cui, correttamente, erano stati riuniti i due episodi. Padre Tommaso, che, a torto o a ragione, veniva collegato a quanto era successo, non poteva rimanere più a Marsiglia; lo imponevano le rigide regole dell'ordine di Sant'Ignazio. Tommaso, con dolore, ubbidì. CAPITOLO XI GLI ANNI DEL LEONE Dicono in Germania che, nella vita di un uomo, gli anni che vanno dai trenta ai cinquanta, siano gli anni del leone, il periodo in cui l'individuo mette in gioco tutte le sue capacità, le sue possibilità, la sua fortuna. Anche Tommaso, pur nella sua specialissima umanità, che ne faceva un caso singolare tra gli uomini del suo tempo, stava vivendo gli anni del leone. 112 La maturità gli stava acquietando non l'energia, che anzi risultava più matura e piena, ma la reazione immediata, quasi esplosiva, che tale energia metteva in moto, quando era innescata da un'azione, da lui ritenuta nefasta, perché poneva l'Uomo, come mezzo e non come fine. Insomma, quando l'azione degli uomini o delle circostanze si scontrava con il suo grande senso di giustizia, ciò faceva subito scattare, al meglio, quella compassione universale, che era stato l'elemento caratteristico dell'animo di Tommaso, sin da quando si chiamava JJ. Poi, Padre Tommaso aveva ottemperato, senza recriminazioni, all'ordine d'allontanarsi, senza neppure accennare alla sua buonafede ed al suo integro buon nome, lasciando così che la sua ritirata mettesse la sordina ad un episodio, comunque doloroso per tutto l'Ordine. Le menti raffinate, che presiedono alla Compagnia di Gesù, avevano valutato il suo comportamento, nell'episodio occorsogli a Marsiglia. Esse avevano vagliato i fatti, avevano pesato tutte le implicazioni relative, si erano compiaciute dell'ubbidienza del giovane prete battagliero, ed avevano deciso. Padre Tommaso doveva raggiungere al più presto l'Università cattolica di Lovanio, in Belgio. Lì, egli avrebbe occupato uno dei pochi posti riservati ai gesuiti francesi, in quel tempio del sapere cattolico, in cui si cercava di superare le incongruenze del liberalismo e del socialismo, elaborando le idee guida del pensiero politico-sociale del cattolicesimo moderno. Prono dinanzi al proprio Superiore, come è costume dei Gesuiti, Tommaso faceva testimonianza di umiltà personale e di ubbidienza all'Ordine; il che, in una natura così intrisa d'orgoglio intellettuale, come la sua, non era sacrificio dappoco. Tra le professioni umane, solo quelle che sconfinano nel sacrificio ed abbisognano di una carica passionale, che le faccia prefigurare come una missione, hanno di queste brusche svolte. Esse tagliano completamente la vita di un uomo, recidendone gli usi, le abitudini, le amicizie, talvolta gli affetti. Le professioni, che usano questo trattamento in maniera più netta, sono appunto quella del prete e del soldato e Tommaso, da buon gesuita, si sentiva prete e soldato di Cristo. Per questa ragione, qualche giorno dopo, egli si ritrovava ad ammirare la bella torre campanaria, che svettava solitaria, su quel centro intellettuale famoso. Lovanio, fin dalla fine del quattrocento, racchiudeva tanta sapienza e tanto grandi sforzi, per cercare di raggiungere un 113 continuo rinnovamento dottrinario negli studi teologici, così da rappresentare, da cinque secoli, uno dei punti focali del pensiero cattolico. Tommaso guardava in silenzio e pensava. Come era sua consuetudine, aveva saccheggiato ogni enciclopedia specialistica, s'era immerso in svariati libri, aveva consultato polverose pandette. Egli voleva impadronirsi di tutto quello che serviva sapere su quella fucina d'idee, dove il volere dei suoi capi l'aveva mandato, a fortificare la propria dottrina. Egli doveva apprendere, fin nei minimi particolari, le idee con cui la Chiesa intendeva rendere più forte il proprio magistero e più sicuro il percorso, teso alla ricerca del consenso di tutti gli uomini di buona volontà. Per prima cosa egli aveva ripercorso sui libri e riassunto nella propria mente, tutto il cammino, compiuto tra la fine del sedicesimo e l'inizio del diciassettesimo secolo, quando tra quelle mura solenni insegnavano e studiavano Leys 1 e Giansenio 2. Quei maestri avevano centrato il cuore del problema che travaglia ogni teologo, allorché si accinge a studiare, con le deboli forze dell'intelletto umano, i grandi interrogativi, che pone il rapporto tra la Grazia ed il libero arbitrio. In altre parole, come sia concettualmente difficile conciliare la libertà e l'autonomia dell'uomo con la necessarietà della Grazia; in definitiva, dell'opera di Dio nel mondo. Come noi ormai sappiamo, quello era stato anche il problema, il nodo centrale, del percorso di Tommaso verso la religione del Cristo. Abbiamo anche visto come Tommaso avesse risolto questo problema, postulando la necessità d'accettare la Grazia, poiché solo questa procedura rende evidente la Provvidenza, ove non si voglia cadere nel più cupo ed assoluto scetticismo, senza possibilità di riscatto, e neppure di movimento, per l'avventura umana. Proprio tra quelle antiche mura s'era combattuta un'aspra guerra tra le posizioni rigide di Giansenio e della scuola di Port Royal 3 e l'atteggiamento più morbidamente possibilista della Compagnia di Gesù. Leendert LEYS, 1554-1623, uno dei maggiori teologi del XVII secolo. Cornelis JANSEN detto latinamente GIANSENIO ,1585-1638,avversario di LEYS e dei gesuiti, fondatore del GIANSENISMO, dottrina che affonda la propria tematica nel rapporto tra Grazia e Libero Arbitrio dell’uomo. 3 Dal monastero di Port Royal, in Francia, vennero i piu’ fermi sostenitori delle teorie di Giansenio. 1 2 114 Questa, infatti, rifiutava, quasi per impossibiità genetica, morbidamente ma inflessibilmente, ogni tesi che odorasse, anche alla lontana, di riforma protestante 4. Considerato sotto un differente punto di vista, tornava l'antico dilemma tra la scienza dell'uomo, tutta racchiusa nel rigido determinismo scientifico delle leggi della natura, come si pongono all’esperienza ed all'analisi umana, ed un confuso sentire, anch'esso presente nel profondo personale d'ogni creatura pensante. Quel sentire non può essere soddisfatto solo dal come, svelato dalle leggi, ma cerca disperatamente il perché; cosa questa fuori dall'esperienza umana. Per questo, Lovanio, ormai roccaforte della Compagnia, aveva condannato Cartesio 5 nel 1662 ed era divenuta il bastione cattolico verso le terre della Riforma. I giansenisti, scacciati da Lovanio, si rifugiarono ad Utrecht, dando origine ad uno scisma, consumato nel 1724, da cui nacque la Chiesa scismatica giansenista di Utrecht. Essa non riconosce il primato del Papa, né i dogmi dell'Immacolata Concezione, dell'Assunzione e dell'infallibilità pontificia, assumendo così il ruolo di ponte verso le tesi riformistiche più nette, proprie del nord Europa. In questo modo, le due Università, dalle opposte sponde, non potendo naturalmente proporre l'ultima parola sul punto capitale del destino dell'Uomo, hanno continuato, da allora, ad esplorare tutti i meandri della teologia, questa pallida dottrina umana, che sa, a priori, di non poter mai nemmeno avvicinare l'oggetto della propria ricerca. Dio, infatti, per definizione, non può mai neppure esser posto come oggetto e l'Uomo dovrebbe accostarsi a Lui come facevano i patriarchi biblici, col capo coperto, in segno d'umiltà, riconoscendolo dalle sue manifestazioni, il fuoco del roveto o il vestito dei gigli, senza azzardarsi a disquisire della sua essenza. D'altronde, chi segue più i ghirigori dei teologi, quando i loro percorsi mentali, spesso ricercati come pretesti di ben più terrene dispute, sono lasciati lungo i sentieri abbandonati della Storia? Chi ricorda più, ad esempio gli adozionisti, che postulavano Cristo come un uomo "adottato“ da Dio per compiere il suo straordinario cammino; gli iconoclasti, che reputavano non potersi riportare in immagine l'immensità del principio divino Il rapporto tra Grazia e predestinazione è uno dei punti cruciali nello scontro tra Cattolicesimo e riforma protestante. 5 Rene’ DESCARTES, latinamente CARTESIO, 1596-1650, grande filosofo francese; affermò, tra l’altro, che la ragione è in grado di pervenire alla verità senza il bisogno di ricorrere a cause soprannaturali. 4 115 senza ricadere nell'idolatria, o gli utraquisti, che chiedevano la comunione sotto entrambe (utraque) le specie del pane e del vino? Se poi andiamo a ritroso, arrivando all'inizio di tutta la storia della teologia cristiana, c'imbattiamo in un episodio che fa sorridere la nostra moderna sensibilità. Così ci racconta lo stesso Pietro, l'Apostolo, il Capo della Chiesa, il primo dei Papi, come è riportato nelle "Costituzioni Apostoliche" del IV secolo, quando egli si scontrò con Simon Mago che, appunto, per mezzo di magia, era riuscito a volare. Per questo: "con le seduzioni della sua arte magica, cominciò la lotta contro la Chiesa, facendo perdere la fede a molti fratelli". Al che Pietro, dopo un'ardente preghiera, esclamò: "Se io sono veramente l'uomo di Dio, il vero apostolo di Gesù, il dottore della sincera pietà e non un impostore come te, miserabile Simone, ordino alle potenze del Male, che sono complici della tua perversità, che ti sostengono in questo volo, d'abbandonarti subito. Cadi da quelle altezze e vieni a sentire le risate della folla sedotta dai tuoi prestigi". Dopo queste parole Simon mago cadde, fratturandosi la gamba e slogandosi le dita dei piedi, e la folla diceva: "Il solo vero Dio è quello annunciato da Pietro" 6. Certo, le eresie, che pur costellano la storia della Chiesa, s'adeguano al comune sentire del secolo che le origina. Dalle eresie cristologiche dei primi tempi del Cristianesimo (lo Gnosticismo7, il Montanismo8, l'Arianesimo9, il Nestorianesimo10, il Monofisismo 11 e le infinite altre che da queste derivarono) si passò alle eresie che contemplavano i rapporti tra il Bene ed il Male (i Manichei, i Catari, gli Albigesi e quante altre, da queste, presero le mosse). Ma già Pelagio, nel V secolo, aveva posto in discussione il problema della libertà umana ed Abelardo, nel XII secolo, aveva riportato da C.RENDINA op.cit. pag 16 Sistema di filosofia religiosa, che pretende di essere depositario della “Verità“. Lo gnosticismo cristiano ebbe, come principale autore, Origene. 8 Eresia cristiana del II secolo, ad opera di Montano,che preannunciava la fine del mondo e la “ Parusia “, l’apparizione definitiva del Cristo. 9 L’eresia di Ario nega la divinità del Verbo. 10 Nestorio, patriarca di Costantinopoli nel 428, non accettava la dizione: “Maria, madre di Dio “. L’eresia nestoriana divenne la dottrina ufficiale della chiesa persiana. 11 Eresia che sosteneva l’esistenza di una sola natura nel Cristo. 6 7 116 riproposto la questione del libero arbitrio, infondendo così nuovo vigore alla disputa filosofica . Essa poteva essere superata solo con il Dogma, cioè con l'imposizione di una verità data per indimostrabile, eppure centrale, se si voleva rimanere nel solco del magistero della Chiesa. Inoltre, dagli inizi di questo millennio, l'eresia tese ad investire prevalentemente l'ecclesiologia: si moltiplicarono i tentativi di ricondurre la Chiesa alla "Purezza evangelica". Wyclif 12 , Hus 13 , Girolamo da Praga 14 , furono i precursori di Lutero 15 , Calvino 16 e Zwingli 17 . Essi rappresentarono la radice, da cui sorse la grande separazione del XVI secolo, quella che la Chiesa di Roma continua a ritenere l'eresia Luterana, il Protestantesimo. Ora infine, l'eresia colpisce eminentemente il pensiero sociale dell'Uomo: le ultime posizioni dichiarate eretiche sono state appunto il Giansenismo, che, con il suo rigore morale, rammentava troppo la posizione protestante ed il Modernismo, condannato l'8 dicembre 1864, con l'enciclica "Quanta cura". Evidentemente molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere da quando, nel 1864, erano apparsi sia l'enciclica "Quanta cura" sia l'elenco degli errori della nostra età o, come aulicamente recita il testo latino, il "Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores", rimasto nella storia della Chiesa con il nome di Sillabo. In quell'elenco, Santa Romana Chiesa enumerava, divise in dieci paragrafi, le ottanta proposizioni con cui venivano condannate tutte le dottrine del mondo moderno: panteismo, naturalismo, razionalismo, assoluto e moderato, indifferentismo, latitudinarismo. Era poi la volta della condanna per il socialismo, il comunismo, le società segrete e le società bibliche, che osavano accostarsi ai sacri testi senza passare per il magistero della Chiesa, ponendo in essere una delle più pericolose posizioni verso la necessarietà del sacerdozio cattolico. John WYCLIF-1320/1384- teologo inglese, concepì una chiesa staccata Papato. 13 Jan HUS -1369/1415- Riformatore religioso Boemo, si scagliò contro le malefatte del clero. 14 GIROLAMO da Praga -1380/1416- Discepolo di Hus. 15 Martin LUTERO-1483/1546- Teologo e riformatore tedesco, dette inizio alla riforma protestante. 16 Giovanni CALVINO -1509/1564-Riformatore religioso di origine francese, fondò il Calvinismo che informò di se, attraverso le comunità puritane, il nascente capitalismo protestante. 17 Huldreich ZWINGLI -1484/1531- Riformatore religioso svizzero, rifiutò il magistero dogmatico di Roma e fondò un filone del protestantesimo. 12 dal 117 Procedendo nel Sillabo, si stigmatizzavano le dottrine che tendevano a limitare la posizione ed i privilegi della Chiesa. Non si riconosceva la società civile come fonte autonoma di diritto, facendo discendere, come ai tempi del Papato medioevale, ogni autorità dalla divina Potestà. Quindi la Chiesa era riproposta come necessario snodo e cardine d'ogni autorità terrena. Infine si lanciavano anatemi contro il riconoscimento del matrimonio civile, ritenuto dalla chiesa semplice concubinato; contro coloro che invocavano la fine del potere temporale dei Papi, contro il liberalismo, contro la sovranità popolare, contro la separazione tra Stato e Chiesa, contro l'eguaglianza d'ogni religione di fronte alla legge. Come si vede, semplicemente scorrendo il titolo delle proposizioni, la Chiesa, proprio quando aveva perso ormai da qualche secolo il primato sui Re e sui Principi della Cristianità, come le era riuscito fino a prima che si formassero le moderne nazioni europee, e poco tempo prima che perdesse l'ultima vestigia del potere temporale, lanciava un anatema contro tutto quello che era moderno. Essa, nel tentativo di rimettere indietro le lancette, anzi addirittura di distruggere l'orologio del tempo, proclamava orgogliosamente la sua natura d'istituzione fuori del tempo e, per questo, eterna. L'opera fu completata qualche anno più tardi, l'otto dicembre 1869, quando venne aperto il Concilio Vaticano I. La grande assise della Chiesa Cattolica veniva convocata di nuovo, dopo più di tre secoli dall'ultimo Concilio, quello di Trento. Per capire a fondo il concilio Vaticano I, occorre riandare un attimo al Concilio precedente, quello tridentino, appunto. A quel tempo, la volontà riformatrice delle Chiese dell'Europa del nord aveva criticato giustamente le posizioni, del tutto contrarie allo spirito evangelico, che il Cattolicesimo aveva assunto, dal Rinascimento in poi. Quel Concilio aveva visto l'inflessibile posizione della Chiesa di Roma di sottrarsi non alla volontà riformatrice, ma alle conseguenze che tale fatto avrebbe fatalmente provocato, in primis negando ogni validità al magistero ecclesiale, in quanto la posizione protestante postulava il colloquio diretto tra uomo e Dio. Trento fu un grande concilio. Pose le basi della Controriforma, che ridette vigore e validità alla Chiesa di Roma, bloccando la riforma protestante. 118 Definì, in maniera esatta, il ruolo della Chiesa e la validità del Sacramentum sacerdotale. Stabilì l'enunciato della professione di fede, creando il "Simbolo tridentino", che determinava più chiaramente la proposizione di fede, necessaria per esser considerato appartenente alla Chiesa cattolica. Rafforzò e riorganizzò l'uso del Latino nelle preghiere dei fedeli, fornendo un'esatta ridefinizione dello svolgimento della Santa Messa. Anche se le masse, che recitavano tali preghiere in latino, di solito non capivano quello che stavano dicendo, esse, pure, venivano coinvolte nell'aura sacrale suscitata dall'antico linguaggio, che era stato imposto, come lingua eterna di Roma, nelle Nazioni moderne, dove ormai non lo parlavano più. Trento vide però una grande, sgradita, novità. Per la prima volta, la Cristianità europea, o almeno quella delle Nazioni più progredite d'Europa, se si vuol considerare la Chiesa ortodossa come Chiesa europea, quella Cristianità europea che si faceva vanto di aver resistito e vinto dinanzi al turco maomettano e che si riteneva il centro del mondo civile, aveva definitivamente sanzionato la propria spaccatura. Come sempre accade, pur prendendo le mosse da situazioni di fatto che si sarebbero potute sanare sul piano della logica, le due parti si lasciarono trascinare dalle loro conformazioni caratteriali, queste sì veramente distanti, portando così il motivo del contendere sul piano teologico; fatto questo che rendeva il dissidio formalmente irreversibile. I contendenti si cristallizzarono così nella Riforma protestante e nel Cattolicesimo Romano ed il Papa, il vescovo di Roma, non fu considerato più il Capo di tutti i Cristiani. Anzi una buona parte dei Cristiani europei, quelli, tra l'altro, che avrebbero compiuto il cammino più lungo sulla strada del progresso civile, prese a considerare il Papato, come l'esempio dei vizi, in cui era caduta la Chiesa di Cristo. Questa era la situazione in cui si trovava la Chiesa di Roma, a metà del diciannovesimo secolo: un'impasse, che stava progressivamente tagliando fuori il Vaticano, come soggetto della grande politica. Già, infatti, era stato perso l'antico potere, che discendeva dal sentirsi il tramite tra il potere divino ed il potere regale. Inoltre il Cattolicesimo era scosso dalle aperte invettive di quella parte della Cristianità, che si riconosceva nella Riforma, affermatasi negli Stati che, oltretutto, s'avviavano ad essere i centri propulsori del progresso umano. 119 Il Papato era messo in dubbio persino nel suo stesso potere temporale, che, se era stato ricercato fraudolentemente con la "Donazione" di Costantino, ormai sfidava il tempo da più di millecinquecento anni. Santa Romana Ecclesia viveva anni veramente difficili. Ma Pio IX, che pure aveva iniziato come Papa aperto alle istanze liberali, non sentì ragioni. Abituato a considerare Roma il centro della Cristianità e la Cristianità il centro del mondo, stimando dunque regno della barbarie tutto quello che non era Roma, sognando quindi di ripetere il miracolo di Trento, che aveva saputo ricompattare il Cristianesimo anche a prezzo dell'ecumenismo, Pio IX volle compiere un atto di forza. Quell'atto di forza, come accade quasi sempre, celava però l'estrema debolezza della posizione papale e, per un soffio, non travolse del tutto la politica Vaticana. Infatti, agli inizi del Concilio, si arrivò a proporre la trasformazione in Dogma delle ottanta proposizioni del Sillabo. Se ciò fosse stato sanzionato, la Chiesa di Roma si sarebbe messa fuori del mondo moderno, in quanto essa avrebbe scagliato il suo anatema contro tutte le posizioni politiche attuali. In questa maniera si sarebbe altresì impedita una qualsiasi collaborazione esterna con quelle forze, collaborazione che invece sussiste, nonostante il Sillabo, proprio perché esse, pur considerate non appartenenti all'esperienza cattolica, non sono state colpite dal divieto conciliare. Ma il Concilio affrontò anche due nodi cruciali per la sopravvivenza del Papato come istituzione: il rapporto tra Chiesa e Stato ed il rapporto tra Papa e Concilio. Due nodi che già erano stati discussi e particolarmente aggrovigliati, nei Concilii precedenti e negli atti intercorsi tra il potere politico e quello ecclesiastico, nel corso dei secoli. Nel rapporto tra Chiesa e Stato, Pio IX cercava una rivincita su tutte le tendenze centrifughe che, postulando Chiese nazionali, ne avrebbero sottratto al Papato il controllo diretto. Quelle Chiese, fatalmente, potevano così cadere sotto la giurisdizione del potere politico delle varie Nazioni in cui esse si trovavano. Le Nazioni, a loro volta, come si erano venute sviluppando in Europa nei secoli precedenti, ambivano ad inglobare, nelle loro strutture, quelle istituzioni , come le Chiese nazionali, che, continuando a dipendere da Roma, in definitiva, erano dei corpi estranei allo stesso potere politico. 120 Tali strutture, quindi, venivano intese quasi come escrescenze anomale, sul corpo delle Nazioni e degli Stati, che le Nazioni avevano formato. La Chiesa anglicana era nata così, pur partendo dal casus belli dell'intemperanza amorosa di Enrico VIII, definito, per ironia della sorte, da Papa Leone X "Defensor Fidei" ed, in Francia, il Gallicanesimo 18 costituiva un serio pericolo di separazione da Roma. Per tagliare entrambi i nodi, che vertevano sulla supremazia papale all'esterno ed all'interno della Chiesa, Pio IX pensò di usare un'unica spada. L'arma sarebbe stata la proclamazione del Dogma dell'infallibilità Papale. Il pandemonio che suscitò una tale proposta, nelle Cancellerie di tutti gli Stati europei, ma principalmente in Francia ed in Germania, fece arretrare il manipolo dei cardinali più integralisti. Si arrivò persino alla minaccia del riconoscimento delle Chiese nazionali ed al disconoscimento diplomatico del Pontefice romano. La minaccia sortì l'effetto desiderato. L'infallibilità papale fu ristretta alle sole questioni dottrinali e quindi solo all'interno della Chiesa, glissando così, prudentemente, sul primato del Papa nei rapporti con il potere politico. L'ordine" dotto", i Domenicani, schierati tradizionalmente contro i Gesuiti, che sostenevano il Papa sulle sue posizioni estreme, si scagliarono contro una tale asserzione, anche sul piano dottrinale. I domenicani, a ragione, argomentavano che il Papa è infallibile quando Questi esprime e si fa portavoce dell'opinione dei vescovi, i successori degli Apostoli, ma non può esser considerato "infallibile" quando presume da solo, pena la condizione di superfluità di ogni Concilio, come assise della Chiesa, presieduta dal Papa. Infatti, nell’ottica dell’infallibilità papale, se il Papa è contrario alle decisioni dei vescovi, questi debbono sottostare al volere papale, mentre se il Papa è d'accordo con le loro decisioni, esse sono vane, perché bastava la sola volontà del Papa, per renderle vincolanti. GALLICANESIMO complesso di dottrine,formatesi nei secoli, che, pur ancorando la Chiesa di Francia all’obbedienza papale, tendevano a rivendicare una serie di diritti propri di quella Chiesa, entrando spesso in conflitto e limitando così le prerogative giurisdizionali della Santa Sede. 18 121 Ma fu tutto inutile. Alla domanda rivolta ai padri conciliari se ritenevano: "Ab errore immunem esse Romani Pontificis Auctoritatem" la maggioranza rispose affermativamente. Così, il 18 luglio 1870, monsignor Valenziani, vescovo di Fabriano, lesse, nel braccio destro della basilica vaticana, adattata ad aula conciliare, il testo della proposizione dogmatica. I Padri presenti, a grandissima maggioranza espressero il loro "Placet", mentre, dal cielo, un pauroso uragano sembrava evidenziare la collera divina. Il dogma dell'infallibilità Papale era stato ratificato. Due mesi più tardi, i bersaglieri entravano a porta Pia e mettevano fine al potere temporale dei Papi. Il Concilio, sospeso, rappresentava la tragica impasse in cui si era venuta a mettere la politica Vaticana. Per ritrovare un Papa che sappia parlare a tutto il mondo occorrerà attendere Benedetto XV, il Pontefice che, nel 1917, tra lo sgomento della Curia, legata ai provincialismi della situazione italiana, proclamerà "la perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti, quale si conviene a chi è " padre comune ". Bisognerà aspettare Giovanni XXIII che, sotto le spoglie del prete campagnolo, saprà dare vita ad encicliche fondamentali, quale la "Pacem in terris" e la "Mater et Magistra"; saprà distinguere tra errore ed errante; ardirà rimettere mano al Concilio , per cambiarne radicalmente gli scopi e le conclusioni. Ma, soprattutto, si dovrà considerare il cambiamento di rotta di centottanta gradi, compiuto dalla Compagnia di Gesù dagli inizi di questo secolo, per superare l'impasse della politica pontificia, al tempo del primo concilio Vaticano. Questo cambiamento di rotta fu compiuto nella maniera tipica dei Gesuiti, senza scagliarsi contro un ostacolo; prendendola molto alla lontana, procedendo da un punto dottrinalmente difficile da difendere ed allargando sempre più la curva della loro rotta, fino a che il punto difficile si perde all'orizzonte, mentre il loro ragionamento acquista sempre di più in ampiezza e profondità. Il grande orgoglio intellettuale, tipico dei Gesuiti, suole definire questo capolavoro di metodo, come “la piccola via”. Perciò, al momento attuale, la Chiesa doveva cercare d'allevare una robusta generazione di teologi che supportassero, in maniera adeguata, la posizione del Papa. Per questo Lovanio era chiamata, ancora una volta, a fornire i suoi uomini migliori. Per questo, nell'ambito della scuola di Lovanio, s'era formata una corrente di pensiero economico e sociale d'ispirazione 122 cattolica, che si rifaceva alle grandi tradizioni di quella Università. In essa si stavano elaborando le idee fondamentali per il superamento del capitalismo e del socialismo, definendo, così, le linee guida del pensiero politico-sociale del cattolicesimo moderno. Per questo Padre Tommaso era là. Poiché era chiaro che la partita politica nel nostro continente, e quindi, in tutto il mondo, si giocava sul campo economicosociale, questo era il vero significato di Lovanio e della scuola politico-sociale che, da essa, prendeva nome. Questo era altresì l'obbiettivo di Padre Tommaso e dei gesuiti che, come lui, s'accingevano a farsi esperti di quei problemi, sempre "ad maiorem Dei Gloriam". Non sembri strano che, nella culla degli studi sociali della Chiesa, ci si potesse specializzare in tutto quel fascio di dottrine, che va dalla teologia all'esegesi biblica, dallo studio dell'aramaico alla storia della Chiesa. Tutto era necessario per portare innanzi il tema che Santa Romana Ecclesia s'era prefisso d'abbracciare. Si sa; Essa, quando affronta le questioni, le prende molto alla larga, non essendo preoccupata dall'ansia del secolo, ma badando all'eterno. Evidentemente le correnti di pensiero più avvertite, all'interno della Chiesa cattolica, s'erano accorte dell'impasse in cui si era cacciata l'orgogliosa politica papale che aveva continuato la fallimentare posizione di Pio IX. Ritorniamo un attimo a quel momento storico, per leggerne più dettagliatamente gli sviluppi. Papa Mastai, spogliato dei possedimenti della Chiesa, si chiude, prigioniero volontario, in Vaticano e proclama che il Papa non consente, "Non expedit", al fatto che i cattolici partecipino alla vita politica. Nè altrimenti faranno i suoi successori Leone XIII e Pio X. Solo Benedetto XV cercherà, come abbiamo visto, di rivolgersi a tutte le nazioni cristiane, per rendere evidente lo strazio del padre che vede i suoi figli dilaniarsi in una guerra fratricida, la grande guerra del 1914. Quando lo Spirito Santo sceglie, può scegliere un grande Papa che sappia parlare e, soprattutto, farsi capire da tutto il mondo, ma talvolta si trova a scegliere dei modesti curati, chiusi nelle loro Curie, ancora più modeste, che non sanno, col pensiero, neppure attraversare il Tevere. Ma le grandi istituzioni, le magnifiche scuole che sono il vanto della Cristianità, gli Ordini religiosi, eserciti del Papa nel campo delle idee, gli uomini di cultura che continuamente fioriscono 123 nella Chiesa di Cristo, a testimonianza della sua necessità logica, non potevano rimanere bloccate dal veto papale. Al centro di quella navigazione pericolosa, ma esaltante, verso un coinvolgimento della Chiesa nella vita moderna, vi fu dunque l'insieme della parte viva del Cattolicesimo e, in prima fila, era la Compagnia di Gesù, o, almeno, un pugno dei suoi uomini migliori. Visto che il Papato s'era cacciato in una via senza uscita, a pena di una perdita impossibile di credibilità, la Compagnia di Sant'Ignazio si assunse l'ingrato compito di ricucire lo strappo con il mondo moderno. Infatti i gesuiti procedettero in ogni campo della scienza, con la loro navigazione lenta ma sicura, che faceva perdere di vista il porto vietato, da cui erano partiti. Così Teilhard de Chardin, scienziato, filosofo e teologo francese, gesuita, accademico di Francia, dalle sue ricerche paleontologiche, che lo portarono a scoprire il Sinantropus, l'uomo di Pechino, si sollevò a teorizzare un sistema, che riportava in pieno la teologia cattolica nel solco della scienza moderna. Teilhard ipotizzò, su basi che non sono inconciliabili con la scienza, un tragitto fecondo. La vita era una costante naturale del Cosmo. Essa si sviluppava ovunque trovasse condizioni adatte. Scopo della vita era il raggiungere, attraverso successive mutazioni, l'autocoscienza. L'autocoscienza non si fermerà all'uomo ma raggiungerà la completa conoscenza, perdendo via via, ogni residuo di materialità. Inoltre, tutta l'evoluzione globale dell'Universo, la sua cosmogenesi, tende ad un punto finale, ad un punto "Omega", che il filosofo francese identifica con il Cristo, motore dell'evoluzione, dopo esserne stato l'" alfa ", l'inizio, il principio divino che ha ordinato il "Fiat lux ". In un sol colpo Teilhard recupera l'evoluzionismo e tutte le scienze umane al campo del pensiero cristiano, offrendone, per soprammercato, una valutazione logica del perché e ponendo così l'ispirazione cosmologica ed escatologica del Cristianesimo nel solco della scienza dell'uomo. Non altrimenti si muoverà la scuola di Lovanio. Dopo una lunga ed attenta valutazione della situazione del mondo moderno, gli uomini, che in essa lavorano e studiano, concludono che la partita si gioca sul campo sociale. Occorre quindi valutare attentamente le teorie che le scienze dell'uomo hanno elaborato in questo campo, per confrontarle 124 con il magistero della Chiesa, senza le aprioristiche chiusure, messe in opera con il Sillabo e con il Vaticano I. Usando le medesime armi della scienza, cioè le dottrine sociali e i mezzi scientifici di misurazione e di studio delle stesse, la scuola di Lovanio giunge ad alcune conclusioni. Il comunismo, come metodo di produzione, si basa sull'equivoco di Stakanov, l'operaio russo, morto per battere sempre di più i records di produttività assegnatigli, tragica prova di come non sia possibile costruire una dottrina economica basandosi sui valori massimi e non su quelli medi. Inoltre si valuta esattamente l'impossibilità d'organizzare dall'alto ogni più minuto momento della vita sociale, anche se, mediante quest’accorgimento, si vuole estirpare dalla società ogni forma d'interesse personale. Se poi si nega anche l’interesse, legittimo, di migliorare, si cade così in una società che, privata della molla della concorrenza, s'adagia in un burocraticismo, che assomiglia sempre di più al gelo della morte sociale. Il socialismo, a sua volta, non ha saputo trovare una teoria economica che traduca in azione politica le sue linee di tendenza, senza cadere nell'utopia o nelle manovre di avventurieri, che di quell'utopia si servono, per i loro scopi. Lo stesso capitalismo, pur rigorosamente teso alla creazione di ricchezza, può fare, di questa sua meta, un incubo che schiaccia la peculiarità dell'uomo, la sua coscienza, in definitiva la sua libertà. Questo è appunto ciò che accade, quando la ricerca di una sempre maggiore ampiezza dei mercati, invece d'essere intesa come un mezzo per l'elevazione di un numero sempre crescente di uomini, divenga un fine autonomo e, perciò, ostile all’umanità. Per sua natura, il capitalismo si presta quindi ad essere quella dottrina, per cui un gruppo sempre più ristretto di persone schiacciano una parte sempre più rilevante di umanità. Le prime due teorie considerano dunque l'uomo come dovrebbe essere, e non come esso è, allo stato attuale di civiltà. L'ultima pone il mito del vincente e non concede alcuna chance a chi perde, non sapendo elevarsi dalla legge della giungla, dall’”Homo homini lupus". Il magistero della Chiesa invece, sempre più sollecitato da quanto le sue teste pensanti andavano elaborando al riguardo, ritrova nella propria dottrina il potente anelito a considerare gli uomini figli del Padre e perciò fratelli, senza alcuna distinzione, con quell'impulso, che deve intervenire tra fratelli, e che la Chiesa chiama solidarietà. 125 Ma per arrivare a questa conclusione la Chiesa dovrà affrontare una lunga e rischiosa navigazione. Essa dovrà abbandonare nelle nebbie, le posizioni senza speranza del Sillabo e dell'enciclica "Quanta cura". Dovrà sporcarsi le mani lasciando i potenti, avvicinandosi, anzi compenetrandosi con gli umili. Dovrà soffrire dolorose amputazioni, perdendo alcuni tra i suoi figli più generosi. Essi, infatti, nell'ansia d'avvicinarsi agli umili, si staccheranno dall’Ecclesia, in maniera non più ricomponibile. Santa Madre Chiesa, per tornare ad essere cardine del pensiero umano, dovrà, soprattutto, darsi una dottrina credibile, al di là delle sue stesse fila, e dovrà viverla in maniera assolutamente coerente. Questa dottrina credibile, venne iniziata il 15 maggio 1891 da Leone XIII con l'enciclica " Rerum novarum ". In quel documento, forse per contrastare le classi liberali, anticlericali, al potere in tutta Europa, sicuramente spaventata dalla presa che le teorie socialiste e comuniste stavano facendo tra le masse proletarie, operaie e contadine, la Chiesa, comunque, trovò la forza per inviare un messaggio, alto e forte. L'Enciclica infatti, propone agli uomini di governo di osservare non solo la forza del diritto, ma anche la legge morale della giustizia, evitando con ogni sforzo la lotta di classe, dando un aiuto concreto ai poveri, ponendosi come necessario raccordo tra le esigenze dei padroni e le necessità degli operai. Con quest'enciclica fu finalmente accettato dalla Chiesa il diritto allo sciopero e la costituzione di sindacati operai cattolici. La dottrina sociale della Chiesa fu affinata e sviluppata, in seguito, con l'enciclica " Quadragesimo anno " di Pio XI, nel 1931, in cui, tra l'altro, fu definita la posizione della Chiesa in merito alla proprietà privata, e soprattutto con le encicliche "Mater et magistra" del 1961 e "Pacem in terris" del 1963, di Giovanni XXIII. Delle due encicliche giovannee, la prima è una summa del pensiero cattolico in campo sociale. La seconda è indirizzata non solo ai cattolici ma a tutti gli uomini di buona volontà, per promuovere una pace fondata sulla ragione, sulla giustizia, sulla carità, sulla libertà. Famoso, a questo riguardo, rimane l'episodio con cui quel gigante dello spirito, travestito da curato di campagna, che fu Giovanni XXIII, scongiurò lo scontro, che stava per aver luogo di fronte a Cuba nel 1961, tra U.S.A. ed U.R.S.S. Il suo messaggio al premier russo Krutchev concludeva: 126 " Se avrete il coraggio di richiamare le navi portamissili, proverete il vostro amore per il prossimo non solo per la vostra Nazione, ma verso l'intera famiglia umana. Passerete alla storia come uno dei pionieri di una rivoluzione di valori basata sull'amore. Potete sostenere di non essere religioso, ma la religione non è un insieme di precetti, bensì l'impegno all'azione nell'amore di tutta l'umanità che, quando è autentico, si unisce all'amore di Dio, per cui anche se non se ne pronuncia il nome, si è RELIGIOSI". Anche Paolo VI, pur così immerso nelle questioni italiane, ebbe modo di compiere un altro passo nella definizione della dottrina sociale della Chiesa. Nel 1967 l'enciclica "Populorum progressio" rappresenta un passo impressionante, un momento drammatico di un Papa drammatico. La Chiesa lancia un'invettiva contro il potere che opprime; incoraggia a reagire alla sopraffazione. In un certo qual modo, Essa evoca quella "teologia della liberazione" che, quando si scatenerà, verrà però rigettata dalla stessa Chiesa, spaventata dalle implicazioni che quella teoria fa balenare. Ma, ormai i tempi sono maturi: un nuovo gigante viene insediato sul trono di Pietro. Sotto il suo regno, il comunismo cesserà d'esistere, almeno come sistema politico reale. Tommaso era ormai da due anni a Lovanio e s'accingeva a vivere gli anni ottanta, i suoi anni del leone. 127 CAPITOLO XII NEI CAMPI DEL LEONE Non fu particolarmente difficile per Tommaso inserirsi fruttuosamente e con rapidità in quell'ambiente, pur così austero e riservato. Dopo pochi giorni, tutti i francofoni presenti, e non solo i Gesuiti, furono conquistati dalla voglia di fare, dall'impeto razionale, dalla finezza intellettuale, dal caldo spirito simpatetico che promanava da quel giovane prete, pronto ad interessarsi a tutto ed ad elargire la sua già cospicua dottrina, per superare un ostacolo teorico od una difficoltà pratica. Entro qualche mese dal suo arrivo, al solito, Tommaso era divenuto uno dei punti di riferimento per i giovani che affrontavano quel duro periodo di studio e di disciplina. Tutto questo non passò inosservato al rettore di quell’università, il vescovo Van der Groe, famoso scienziato di esegesi, introduzione e storia del Vecchio Testamento, professore emerito di metodologia biblica, ispirazione ed ermeneutica, geografia ed archeologia. Tutta questa mole di difficili specializzazioni, d'altronde, rappresentava solo una piccolissima parte degli interessi di quel prelato di circa sessant'anni, piccolo, rubicondo, continuamente in moto, sempre gioviale ed alla mano. Ma, sotto quella complessione, certo poco adatta ad una figura che, per le sue alte qualità, si sarebbe voluta più ieratica ed imponente, Monsignor Van der Groe nascondeva una fede assoluta ed una singolare capacità di battersi per essa. Quella fede suscitava ammirazione e rispetto in tutti coloro che ne venivano, in qualche maniera, a contatto. Ben lo sapevano quanti avevano dovuto scontrarsi con la sua dottrina e che, forse mal consigliati dalla modestia del suo aspetto, l'avevano duramente attaccato, ai tempi del Concilio Vaticano II, quando Van der Groe, allora, era semplice segretario del Cardinal Bea 1, il gesuita capofila dei padri conciliari non tradizionalisti. In quei giorni di attività frenetica si affrontarono coloro che aspiravano a portare la navicella di Pietro fuori della secca del primo Concilio Vaticano, capeggiati appunto dal cardinal Bea e coloro che si ostinavano a ritenere la Chiesa un'istituzione che, per sua natura, dovesse esser destinata a rimanere fuori dal mondo, capitanati dal cardinal Ottaviani. Furono compiuti passi che fecero gridare allo scandalo. Agostino BEA -1881/1968- Cardinale gesuita, fu uno dei più attivi propugnatori del dialogo tra tutte le confessioni religiose. 1 128 Si organizzò il primo incontro tra il Papa Giovanni XXIII ed il dottor Fisher, arcivescovo di Canterbury e primate d'Inghilterra. S'intesserono fitte ragnatele di contatti, lettere, visite ecumeniche con autorità non cattoliche. Si misero le basi per togliere l'ingiusta accusa di "deicidi", rivolta tradizionalmente agli ebrei. Si cercò persino una qualche forma d'aggancio con coloro che si erano proclamati filosoficamente atei. In pieno Concilio ci si oppose, con una dura battaglia, allo schema sulle fonti della rivelazione, presentato e poi, per l'appassionata e profonda critica, portata sul piano prima teologico e quindi dell'esegesi biblica, da parte del cardinal Bea e, dietro di lui, da Van der Groe, alla fine ritirato dal cardinal Ottaviani. Tutte queste iniziative non potevano esser rimproverate formalmente al cardinal Bea, figura carismatica del Cattolicesimo, e quindi le critiche si riversarono sul suo segretario, dipinto dai tradizionalisti come un omuncolo, che istigava e confondeva il Principe della Chiesa, per suoi cedimenti all'eresia protestante. Ma Van der Groe, benché piccolo e grassottello, divenne un gigante, quando si trattò di difendere sul piano dottrinale le tesi del suo Cardinale, che erano anche le sue, sorrette da una dottrina affilata come una spada e da una sapienza che affondava nelle radici stesse del Cristianesimo. Ne uscì vittorioso, come le tesi a lui care, ed il premio fu l'anello vescovile di un'antica sede titolare "in partibus " 2 e la più prestigiosa cattedra dell’università di Lovanio, dove, dopo qualche anno, divenne rettore. Oltre a tutto ciò, il vescovo rappresentava, nell'Università, la più alta autorità dell'Ordine di Sant'Ignazio, e, perciò, era il superiore diretto di Tommaso. Le cariche onorifiche ed i riconoscimenti reali, pur così rari nei confronti di un Gesuita, che la tradizione voleva, per umiltà, lontano dalle vanità del mondo, servivano al piccolo prete, che tale Van der Groe si sentiva, anche dopo aver ricevuto la dignità vescovile. In questo modo egli poteva coltivare e portare innanzi, all'interno del proprio Ordine, uomini la cui intelligenza e La dizione completa: Vescovo titolare “in partibus infidelium“ (nei paesi degli infedeli) indica un vescovo onorario di regioni occupate da musulmani o pagani, cioè un Vescovo privo di Diocesi, che esercita potere di ordine ma non di giurisdizione. La dizione, cassata da Papa Leone XIII nel 1882 e sostituita con il termine di vescovo “ titolare “, viene però mantenuta nel linguaggio colloquiale. 2 129 struttura mentale erano in sintonia con il proprio modo di concepire la missione della Chiesa nel mondo moderno. Così l'acume di Van der Groe s'era ormai liberato da quei nemici, così usuali tra preti, che si combattono aspramente con il sorriso sulle labbra e con voce tanto soave da sembrar quasi che si chieda scusa, per il fatto di non esser d'accordo. Egli, ora, era tutto dedito alla ricerca di giovani intelligenze innestate su un robusto patrimonio culturale, non alieno, anzi improntato, dal metodo scientifico, in modo da poter sopportare lo scontro tra ragione e fede e ricondurre quello scontro ad incontro. Infatti, quella lotta, che quattro secoli di storia avevano provveduto a rendere quasi insanabile, doveva esser appianata e ricondotta nei suoi giusti termini. Le menti più avvertite dell'esercito di sant'Ignazio stavano appunto lavorando duramente, per rimettere la storia della Chiesa non più in antitesi con la storia dell'Uomo. Il famoso filo della spada, come veniva chiamato il metodo logico della dialettica del Rettore dell'Università di Lovanio, aveva tagliato molte diatribe, aveva separato molto grano dal loglio, ed ora teneva impercettibilmente, ma molto accuratamente, sotto stretta vigilanza, Padre Tommaso Fernays. Tutto era stato controllato, ogni azione era stata vagliata. Oltre al fatto in se stesso, che pure era importante, monsignor Van der Groe aveva voluto capire anche le intenzioni e le motivazioni, che avevano spinto quel prete atipico sul percorso della propria vita, così travagliata e diversa, rispetto a quella degli altri preti. Per questo, spesso, Tommaso era chiamato "a rapporto" dal proprio superiore e ciò non era un’occasione da lui mal sopportata, anche se non era una faccenda di tutto riposo, tener testa a quella mente affilata. Essa nascondeva la propria fede dietro una sapienza profonda, anche nel campo più confacente alla visione "laica" della vita. Tommaso vedeva, in quei "duelli", un modo di rendere più completa la propria conoscenza del mondo e di tener in esercizio, a sua volta, il suo acume mentale. "Così tu, figlio mio, hai conosciuto le gioie del matrimonio, la legittima necessità del sesso. Non credi che esso possa arricchire anche chi ha ricevuto il signum?" "Il sesso è un momento importante, direi capitale nella vita di un uomo. Esso è una grande ricchezza. Se ben vissuto, può essere un modo per raggiungere per un attimo l'eternità e per sperare in essa. 130 Ma noi abbiamo ricevuto un dono incommensurabilmente più grande, per cui non potremmo perdere questo per desiderare l'altro. Come vede, Monsignore, non ne faccio una questione teologica, che d'altronde non sarebbe storicamente difendibile, ma una pura ragione di convenienza. Le due ricchezze sono entrambe grandi e non sono antitetiche. Sono antitetiche le strade che portano ad entrambe: ove ci si voti alla legittima ricerca della propria continuità attraverso i figli, non si può pretendere di dare tutto se stesso agli altri e viceversa". "Parlami ancora della tua personalissima interpretazione della Fede, del tuo percorso per giungere alla Grazia. Sento odore di eresia o, almeno, di "ottica" protestante, in quel tuo arrivare alla Fede mediante un processo logico che, per escludere lo scetticismo, postula una visione cristiana del mondo". "Non posso che risponderle con le antiche parole: "In interiore hominis habitat veritas ". Ogni uomo ha un proprio percorso, per arrivare alla verità, e questo fatto non inficia il magistero della Chiesa, la quale è appunto l'insieme di tutti coloro che hanno raggiunto la verità e che ritengono la Chiesa di Pietro la pietra angolare della costruzione di quella realtà, su cui le forze del male non prevarranno. Possiamo noi dubitare della fede di coloro che l'hanno raggiunta, vedendo Pietro far precipitare Simon mago? Possiamo dubitare della fede acquisita di fronte ad un miracolo? Perché dobbiamo dubitare di una fede che si è conquistata sul campo della pura speculazione filosofica? E coloro che giungono alla fede osservando la meraviglia del Creato? Non hanno questi fatto una scoperta emozionante, ma tutta racchiusa nel campo della Natura? Certo la Dottrina ci assicura che la ragione non basta per raggiungere la fede, così come non basta avere un solo biglietto per vincere la lotteria, ma talvolta può anche accadere di vincere con un solo biglietto. Non occorre scomodare la predestinazione, così cara ai nostri amici protestanti, ma solo un elementare calcolo delle probabilità che, spero, Ella, Monsignore non vorrà disconoscere". Dopo questi assaggi, fatti quasi al solo scopo di delimitare il campo di gara, i due contendenti s'accapigliavano, con la fredda determinazione che usano i preti e gli uomini di scienza nelle 131 loro dispute, fatte senza accaloramenti ma con l'unica intenzione d'incrociare le lame delle loro menti, per vedere quale è la più affilata. Gli argomenti divenivano sempre più ostici e specialistici, fino ad arrivare al punto che le loro parole sarebbero potute esser comprese completamente, solo da una sparuta pattuglia d'uomini, in tutto il mondo. Uomini che potevano capire, in ogni possibile implicazione, termini come intermundia, verità o essenza del noumeno, punto omega nella teoria di Teilhard, consustanzialità, il "sehnsucht" o aspirazione all'Assoluto, che è alla base del concetto di misticismo, la necessità del dogma dell'Immacolata Concezione. Solo su di un punto essi non riuscivano a trovare un equilibrio che valesse, per il loro orgoglio intellettuale, come un accordo: la necessità e la convenienza logica, per la Chiesa, del dogma dell'infallibilità papale. Ma un fatto curioso s'avvertiva nella loro dialettica. Il giovane prete procedeva per schemi logici e con argomenti logicamente stringenti. Il suo capo metteva, nel controbbatterne le tesi, un accanimento che talvolta superava la disposizione logica del ragionamento e faceva balenare, sotto i continui richiami teologici, una sofferenza intellettuale a sottostare a quegli schemi, per controbattere la tesi di Tommaso. Quella sofferenza era un sicuro indice che, nel più profondo del proprio ragionamento, Monsignor Van der Groe nascondeva una personale, anche se non espressa, adesione del suo spirito a quella tesi. Era stato un grave errore, anzi peggio, una sciocchezza sul piano della logica, aver definito una teoria ed una prassi, in una maniera così brutalmente netta, senza alcun accenno alla fallibilità dell’uomo, quando egli si sforza di leggere nelle oscure leggi del Creato e nella volontà imperscrutabile del Creatore. Quell’accenno all’intrinseca fallibilità umana, ove fosse stato posto, avrebbe lasciato aperto lo spiraglio alla ragione dell’uomo. Si era invece trascinata a forza la navicella di Pietro in un porto fortemente esposto alle tempeste dottrinarie ed a quelle, molto più violente, del mondo laico. Eppure, quest'oscuro sentimento, quella sofferenza anzidetta, non avrebbe mutato di una virgola la fede nella Chiesa dell'anziano monsignore, qualora un qualche miracolo l'avesse reso evidente,. Egli si sarebbe allora salvato in corner, come dicono gli sportivi amanti del calcio, attribuendo alla propria limitatezza 132 intellettuale, l'impossibilità di controbattere le tesi del giovane prete che gli era di fronte. Ma la piega della discussione faceva capire all’anziano prelato che, al solito, aveva avuto buon fiuto, quando aveva intravisto in Tommaso una lama che poteva tener testa alla sua. Nondimeno, nulla trapelava dalla sua voce, dai suoi modi, dal suo atteggiamento, nei confronti di Tommaso. Monsignor Van der Groe, così affabile con tutti, così alla mano con chiunque gli si avvicinava per una qualche ragione, non poteva permettere che colui che aveva scelto come suo alter ego e successore, avvertisse quest'investitura e ne fosse distolto dal suo attuale compito. Egli, se il piccolo vescovo aveva visto giusto, molto presto, doveva esser in grado di succedergli onorevolmente, nella battaglia che Van der Groe stava portando innanzi, all'interno ed all’esterno del proprio Ordine, affinché la Chiesa avesse un futuro, nella civiltà dell'Uomo, anche nel terzo millennio. La Chiesa non si poteva ridurre a fare da freno al cammino dell'Umanità, per esser così relegata tra i relitti della Storia. Padre Tommaso Fernays era stato tacitamente designato, dal piccolo vescovo, come suo erede spirituale. Perciò egli doveva, almeno per il momento, rendersi inattaccabile sul campo della dottrina, mediante lo studio attento, assiduo, meticoloso e completo di tutto quello che valeva la pena sapere, per quella battaglia difficilissima. Quel suo pupillo entrava così, a far parte di quella piccola schiera d'uomini che doveva scrollare, da Santa Madre Chiesa, tutte le incrostazioni, tutte le superstizioni, che appesantivano la lucida logica del Cristo. Dovevano esser tolte, scrollate via, abrase, distrutte col ferro e col fuoco, ma soprattutto con la ragione e l’esempio, tutte le false credenze, o meglio le distorsioni mentali, accumulate in duemila anni di storia. Dovevano esser eliminate fermissimamente tutte le posizioni di comodo e di privilegio, che avrebbero fatto resistenza al loro abbattimento, se si voleva portare avanti il tentativo di riconciliare, anche su questa terra, la ragione con la Fede. Per questo Van der Groe era particolarmente duro con Tommaso, senza neppure fargli balenare il motivo di tanta durezza. Egli pretendeva dal suo discepolo che si fortificasse al massimo per la lotta che, a suo tempo, avrebbe dovuto intraprendere, senza sapere, al momento, neppure che era stato scelto. Ma Tommaso non aveva bisogno d'investiture: a lui bastava sapere che stava impegnandosi al massimo nello studio e che quel vecchio prete, esigente e mai contento, era però in sintonia con il suo intelletto e, soprattutto, con il suo animo. 133 Così, quando, nel 1982, proprio mentre s'apprestava a consegnare la propria tesi di laurea: "Il rapporto tra le radici bibliche del concetto di povertà evangelica e la dottrina sociale della Chiesa nel mondo capitalistico moderno", Tommaso fu chiamato dal proprio superiore, che gli ordinò di seguire da vicino, come sua longa manus, le trattative segrete tra i due sindacati belgi, cattolico e socialista, fino a quel momento aspramente rivali. Era quello un ulteriore motivo di frizione che, oltre alla tradizionale rivalità tra Fiamminghi e Valloni, rischiava di far esplodere il piccolo, ricco paese, cerniera e simbolo dell'Europa. In breve, si trattava di questo: nei primi anni ottanta, il Belgio era scosso da due grandi problemi. Da una parte doveva far fronte all'invadenza delle multinazionali; esse mal sopportavano il crescere di un'Autorità, che sarebbe stata in qualche maniera d'ostacolo, alla loro necessità d'aver mani libere, nella loro corsa verso il capitalismo più sfrenato. Dall'altra parte, la piccola Nazione, proiettata sul mare del nord, doveva contrastare il greve peso dell'orso sovietico. Questo, sebbene stesse perdendo colpi, o forse proprio perciò, tentava d'entrare sempre più pesantemente nelle questioni europee, per cercare di modificarle a proprio vantaggio, nella guerra non dichiarata, ma senza quartiere, che si stava combattendo, su scala planetaria. Il risultato, la componente di queste forze che spingevano il paese da più parti, era sotto gli occhi di tutti. Il governo Martens, espressione della destra economica, aveva bloccato la scala mobile e stava attuando una dura politica economica e sociale, fidando sul fatto che mai, in Belgio, per ragioni storiche, politiche e religiose, i sindacati cattolici s'erano accordati con i sindacati socialisti. D'altro canto erano evidenti le manovre della sinistra eversiva, che tentava di mettere a ferro e fuoco il cuore della NATO e del capitalismo europeo e che l'anno seguente, nel 1984, avrebbe portato l'attacco delle proprie "cellule comuniste combattenti" contro partiti politici, sedi di multinazionali ed obbiettivi NATO in Belgio. Il paese era sull'orlo della spaccatura: le menti più avvertite dovevano trovare una via d'uscita. Il risultato di quelle trattative, segrete quanto febbrili, fu clamoroso. 134 Nel febbraio del 1983 il miracolo 3, che tale era sembrato a molti, si compì: i due sindacati, espressione delle due etnie del Paese, strinsero un accordo d'azione comune, che ruppe il disegno delle forze, che avevano portato a quella situazione. Pur tra i sussulti di una condizione politica e sociale incandescente, il Belgio aveva saputo trovare la via di scampo tra i due giganti nemici, il capitalismo ed il comunismo, che, nella loro lotta mortale, stavano schiacciando il piccolo paese. Per fortuna, perché proprio nel Belgio stava nascendo una nuova realtà politica, anzi un'antica realtà, che ritrovava, nella storia e nella civiltà, le ragioni d'esistere e di ritornare ad essere soggetto attivo sulla scena del mondo: l'idea Europa. Le trattative che portarono al risultato clamoroso della ritrovata pace sociale per il Belgio furono segrete, ma chi doveva sapere, seppe. La mente che le aveva dirette con mano ferma, con infinita pazienza e grande sapienza era quella del rettore dell'Università di Lovanio. Lo strumento da lui messo in campo era un prete, non più molto giovane, ma che ricordava il vescovo Van der Groe, nei suoi momenti migliori. Presto giunse il riconoscimento da Roma: Van der Groe, per i suoi meriti scientifici e per il suo alto carisma raggiunto nella Chiesa in Belgio, fu nominato primate di quella Nazione, che era, contemporaneamente, confine tra due culture e centro di quella civiltà che stava per nascere. Quando Santa Romana Chiesa parla, esprime un verdetto che contiene e deriva da venti secoli di storia e poco importa se le ragioni addotte per spiegare un suo intendimento non siano quelle più importanti. In realtà tutti sapevano, anche se nessuno lo diceva esplicitamente, che Van der Groe aveva guadagnato la berretta cardinalizia per aver sottratto il proprio paese da sotto i due contendenti che, nel tentativo diuturno di colpirsi, avrebbero distrutto, senza alcun rimpianto, una delle terre più civili d'Europa. E Tommaso? Stava tornando finalmente alla sua tesi, quando la Provvidenza, il disegno, interferì di nuovo con il suo bisogno di quiete. 3 Episodio storicamente avvenuto. 135 CAPITOLO XIII IL LEONE ALL'ATTACCO Tommaso aveva appena finito di discutere la sua tesi ed aveva avuto l'alto onore, anche se pagato con una battaglia che s'era rivelata durissima, d'avere, come capo degli esaminatori, proprio il cardinal Van der Groe. Infatti il Presule, ormai in procinto di prender possesso della sua altissima carica, aveva praticamente lasciato l'insegnamento. Se qualcuno avesse voluto vedere un segno della benevolenza del nuovo cardinale per quel suo pupillo, che non aveva esitato a posporre di un anno la conclusione dei suoi studi, già abbondantemente fuori tempo per i normali parametri di studio, per obbedire ad un difficile ordine, si sarebbe dovuto ricredere. Sotto le alte navate dell'aula magna, in cui si discutevano le tesi, s'affrontarono, per nove ore, due intelletti scintillanti. La tesi divenne un pretesto, mentre i due s'addentravano nei campi più ostici in cui la teologia cercava certezze, quelle certezze che essa, comunque non può dare, ma che l'uomo non può esimersi dal cercare. Sembrava veramente, miracolosamente, rinata, in quel dibattito, Haghia Sophia, la Santa Sapienza che si rivolge a Dio, cui, nei primi secoli del Cristianesimo, fu eretta una grandiosa cattedrale a Costantinopoli, che il Turco mutò in moschea. Ma la Sapienza rivolta a Dio rimase, per secoli, una costante del pensiero cristiano; essa può ancora esser ricercata, almeno nelle sue ultime, decadenti, manifestazioni, nel pensiero ortodosso. Al termine di quella maratona estenuante, ma che nessuno dei presenti avrebbe voluto perdere, per tutto l'oro del mondo, il cardinal Van der Groe s'alzò e disse: "Ella, Padre Fernays, ha saputo mostrare d'esser ben pronto a percorrere tutti i campi della scienza di Dio, dalla Teologia dogmatica a quella naturale, dalla Teologia morale alla Teodicea, dalla Teologia positiva alla Teologia scolastica 1. Tra le varie forme della Scienza di Dio si distinguono: la Teologia rivelata (detta sacra o dogmatica) che si basa sulla parola di Dio, espressa nei Libri Sacri la Teologia naturale (luce naturale o teodicea), che si basa solamente sull’esperienza e sulla ragione. la Teologia fisica, quella che dimostra l’esistenza di Dio e la sua sapienza, con l’ordine che regna nell’universo materiale. la Teologia morale,che dimostra l’esistenza di Dio con i fini morali dell’uomo. 1 136 Ma rammenti sempre questo: Ella, prima di tutto, è un prete e quindi, prima della sua sapienza, viene la Parola del Cristo. Mi ripeta, qui, adesso, il nucleo centrale della buona novella". E Tommaso, messosi in ginocchio davanti al suo Cardinale, scandì a voce alta, a memoria: "Dal Vangelo secondo Giovanni 13-34, 35. Gesù disse: vi do un nuovo comandamento, che vi amiate gli uni con gli altri come Io ho amato voi, anche voi amatevi gli uni con gli altri. Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri". Il cardinale rispose: "Amen" Poi, aiutando Tommaso a sollevarsi, lo baciò, proclamandolo dottore in teologia morale e dogmatica. Ora Tommaso poteva prendersi finalmente un po’ di riposo, nell'attesa di gettarsi nuovamente nella mischia, come era nel suo carattere. Ritornò nella sua patria del cuore, in quella Parigi che l'aveva visto, più di quindici anni prima, brillante professore, giovane capopopolo e, soprattutto, sposo felice e futuro padre trepidante. La vanità del mondo non faceva più presa sul suo animo, se mai ne aveva fatta, e quindi il neo professore di teologia non cercò di riallacciare legami, ormai definitivamente strappati, ma andò a cercare una voce del suo passato, che non aveva dimenticato. Il professor Bubber viveva sempre in quella stanzetta piena di libri fino all'inverosimile, aveva la stessa andatura e lo stesso sorriso enigmatico sul volto; solo la barbetta era divenuta, se possibile, ancora più bianca. Perfino il numero di telefono era identico a quello che Tommaso conservava nel suo taccuino, ed il calore del loro incontro fu, al solito, un piacere per entrambi. "Eh, ormai non posso più chiamarti "mio giovane amico", ma "esimio collega" e lasciarti il passo, se c'incontriamo in una riunione accademica. la Teologia positiva, la scienza dei documenti e monumenti, che i teologi accettano come autorità nelle loro argomentazioni. la Teologia scolastica è una sistemazione razionale, fatta soprattutto da un punto di vista aristotelico e secondo la terminologia tomista, al fine di spiegare e sfruttare i dati controllati ed ordinati dalla teologia positiva. dal DIZIONARIO CRITICO DI FILOSOFIA op.cit. 137 Il tuo titolo, in quella prestigiosa fabbrica d'idee, tenuta da voi Gesuiti, te ne da diritto e ti pone in una posizione particolare, in quel grande ordine di combattenti per la Fede. Anch'io, nel mio piccolo, devo riconoscere che ormai il papa nero, come tradizionalmente è chiamato il vostro Generale, non punta più la dura prora del suo vascello su noi, poveri discendenti dei "Deicidi", deicidi a nostra volta. Anzi proprio i Gesuiti sono stati i promotori, al tempo del Vaticano II, dell'abolizione di quell'accusa falsa ed infamante. Ricordo bene, all'epoca di quel Concilio, le riunioni che tenemmo con esponenti autorevoli dei Gesuiti, per avvicinare le posizioni delle due grandi religioni monoteiste. Rammento l'opera silenziosa, ma appassionata e lungimirante, portata innanzi dal Cardinal Bea e dal suo assistente, di cui non ricordo più il nome, ma solo la grande, immensa sapienza ed il coraggio freddo, che gli faceva trovare strade altrimenti impraticabili, per la Chiesa dei gentili". "Mio buon rabbi, Lei sarà per me, sempre, un riferimento spirituale ed una guida morale e, per quanto concerne le precedenze, Lei sicuramente saprà il titolo preteso dai pontefici Romani: "Servus servorum Dei". Come posso io, ultima rotella di quella grande costruzione, pretendere di non cedere il passo ad un'Autorità come la sua, che ho trovato citata molte volte, nel corso dei miei studi? Io trovai memoria della sua scienza profonda proprio negli scritti di quel piccolo prete, che Lei conobbe come segretario del Cardinal Bea, di venerato ricordo, l'attuale Cardinal Van der Groe, primate della Chiesa in Belgio, mio insegnante, mio preside, mio maestro". "Ah, ecco da dove ti viene quell'aura di sapiente autorevolezza, quel Karma che ormai t'accompagna e ti fa riconoscere come dottore della Legge. Fuori dagli scherzi, come sta il mio buon amico, che non vedo da tanti anni ma che è ben presente al mio spirito? Quando penso a lui, la mia mente ristabilisce in modo automatico un contatto che è fonte di piacere spirituale, al di la del tempo e del sangue." "È un uomo eccezionale, che nasconde ancora la sua grande cultura sotto un'affabilità ed una giocondità, che ne fanno dimenticare l'altezza mentale. Solo con coloro che sono a Lui più vicini, diventa un maestro esigente al massimo grado ed un avversario intellettuale che 138 non lascia quartiere, capace di sbranarti, se tu non dai il massimo, in assoluto". "Quando lo rivedrai porta i miei omaggi al Principe della Chiesa di Roma, ma soprattutto ricordagli un oscuro amico che lo rammenta sempre, con grande affetto e vicinanza di cuore. Eh, si, il nostro ambiente è proprio piccolo e da qualunque gradino s'inizi a salire verso la Legge, alla fine ci troviamo tutti aggrappati a quella scala, e conosciamo i nostri percorsi e ci becchiamo per le nostre povere idee, mentre il limite è lì, più in alto di tutti, fuori dalla nostra portata. Ma come tu ormai hai appreso, quella è l'unica strada che vale la pena percorrere. Anzi, a proposito di quanto è piccolo il mondo, lo sai che, poco tempo fa, parlavo proprio di te con un mio buon amico? Si, un autorevole rabbino che per parecchi anni è stato il rabbino capo della comunità di Livorno, in Italia, mi è venuto a far visita, in occasione di un recente pellegrinaggio sui luoghi dell'olocausto, cui sfuggì miracolosamente. Parlando con lui del tempo che fu e dei fatti terribili che accaddero allora, raccontai la tua storia e feci il tuo vero nome. Egli mi ha assicurato che conosceva la tua famiglia d'origine e le vicende, a suo dire singolari, che la riguardano. Se ti capita d'andare in Italia, ti darò il suo indirizzo; egli ora, avendo cessato l'ufficio per l'età, è rientrato nella sua città d'origine che è Roma. Poiché tu, in virtù della tua carica, potresti recarti in quella città, se vuoi sapere fatti che ti riguardano, potrai soddisfare il tuo desiderio. Un'ultima cosa: se te la senti, cerca di fare una visita a quel disgraziato di mio nipote. Con le sue scombinate idee sul sesso, è riuscito a prendersi quella nuova malattia, di cui tutti parlano, ed i medici non gli danno più molta speranza di vita. Certo, se l'è andata a cercare, ma la legge dell'amicizia, prima di quella divina, t'impone d'andare da lui". Tommaso fu stupito ed addolorato di quanto gli stava rivelando il dottor Bubber. Da parecchio tempo non aveva più notizie di Bernard; sapeva solo che era andato a New York per seguire i suoi interessi nel campo della moda, dopo che aveva definitivamente abbandonato l'idea di laurearsi. Ora, evidentemente era tornato, portando in se quel male mortale; doveva assolutamente andare a trovarlo. Con quella promessa, dopo essersi fatto dare l'indirizzo di colui che diceva di sapere qualcosa dei suoi veri genitori, senza però 139 mostrare che la cosa fosse per lui di grande interesse, salutò affettuosamente il vecchio rabbi, ripromettendosi di tornare appena possibile. Aveva in mente di fare una di quelle sue grandi battaglie intellettuali sui rapporti tra l'idea di giustizia nella tradizione talmudica e l'idea della carità nel pensiero cristiano. Il dottor Bubber sarebbe stato senz'altro un contraddittore del suo stesso livello e, soprattutto, una fonte inesauribile di sapienza, non solo rabbinica ma, quel che più conta, umana. Nell'uscire da quella piccola abitazione, ornata solo dai segni di un grande amore per i libri, un lampo percorse dolorosamente la mente di Tommaso. Il flash back gli aveva riportato dinanzi agli occhi, nitida, come se stesse avvenendo in quel momento, l'immagine della vecchia poltrona verde, nell'angolo del povero salotto. Su di essa si raggomitolava la sua Monique, mentre i due uomini s'affrontavano nelle loro discussioni, tanto animate da sembrar strano che, poi, potessero tornare amici generosi, dopo esser stati avversari implacabili. Mentre si perdeva lo sfolgorante abbacinare di quel ricordo, che pure aveva stretto il proprio cuore in una morsa di gelo, Tommaso si sorprese a pensare: "Che grande opera è il cervello dell'uomo. Uno scienziato aveva ipotizzato come esso sia il modello più attendibile, per raffigurare l'universo, ma il paragone più calzante mi sembra essere quello che descrive la mente umana come il capolavoro di Dio, l'"opificium Dei", molto più che le altre creazioni della Natura. Questo capolavoro del Creato, questo gioiello d'incommensurabile complessità, ingloba nei suoi neuroni quelle sensazioni che si producono così violente, da essere impossibili a sostenersi, se fossero sempre presenti alla sensibilità dell'uomo. Ma non le perde, non le distrugge e, anche quando le riporta alla superficie dalle profondità dell'inconscio, le soffonde con la nebbia del tempo, che smussa la lama del ricordo e rende sopportabile quello che, in altri tempi, sarebbe stato insopportabile". Così, con l'amaro sapore del ricordo, che pure gli era caro, Tommaso si congedò dal suo antico precettore e maestro, per andare a far visita al compagno della sua gioventù, all'amico del periodo più felice della sua vita. Trovò la larva di colui che era stato uno dei più brillanti giovani di Parigi, dell'idolo delle ragazze della Sorbona prima, e poi delle strade più alla moda della capitale della moda. 140 Con la pelle gialla, tutta chiazzata di macchie bluastre, con il teschio che sporgeva dal volto, quasi a rendere visibile quello che sarebbe accaduto presto, con i capelli radi e resi stopposi dal progressivo indebolirsi della forza vitale e, soprattutto, con gli occhi stralunati ed i movimenti estremamente ritardati di chi, nello stadio finale, non riesce più a controllare il proprio corpo, Bernard giaceva sotto una tenda ad ossigeno, che gli faceva quasi da sudario. Era di una magrezza impressionante, lui che era stato sempre orgoglioso del suo corpo, che definiva "statuario", per darsi delle arie, ma non senza ragione. Adesso, invece, Bernard non sembrava nemmeno rendersi conto della realtà che lo circondava. Quell'infelice, appena riuscì a mettere a fuoco l'ombra che gli s'era messa dinanzi, non fece alcun movimento: solo due grandi lacrime cominciarono a rigargli i solchi delle gote; ultima, estrema testimonianza che il suo spirito era ancora rinchiuso in quella spaventevole prigione. Poi, con una voce che non era la sua, filo esile, sottile ed estremamente lento, lui che aveva avuto una voce tonante, un rombo sonoro che mitragliava tutti i presenti e si faceva sempre largo su tutte le altre voci, che invano tentavano di togliergli la parola, con quel sospiro che gli era rimasto, si rivolse al suo amico: " Hai visto che fregatura è la vita, JJ? Noi, i re di Parigi, ridotti l'uno a mendicare la pietà di un Dio che, se esiste, è la causa del suo dolore e l'altro che ha schifo del proprio corpo, che era il suo orgoglio. Costretto a sperare che il nulla venga presto a fare il proprio dovere, per seppellire il naufragio di un'esistenza che sembrava dovermi dare tutto, ed anche qualcosa di più. Eppure, io che rimpiango la vita, la rifarei tutta alla stessa maniera, con gli stessi errori, le stesse esperienze, gli stessi interessi. Dove ho sbagliato? Forse in nulla; non sono io che ho sbagliato, ma è l'esistenza che è tutta un errore di un Dio che non sa fare il proprio mestiere o, peggio, gode, nutrendosi del dolore delle proprie creature. A questo punto non credo più nemmeno al caso, alla probabilità, perché essa, non dico una volta su due ma, almeno ogni tanto, dovrebbe far uscire, sulla ruota della fortuna, una vita che valga la pena d'esser vissuta. Ma io ho vissuto la mia come volevo viverla; ero il ragazzo più invidiato di Parigi e lo stilista più corteggiato di New York prima e di Los Angeles dopo. 141 Avevo tutte le donne che volevo e tutti gli uomini che mi volevano. Ho raccolto e dissipato fortune, che la maggior parte degli uomini non immagina neppure. Ho distrutto matrimoni saldissimi ed ho costruito imperi di carta. Uomini e donne si sono uccisi per me; eppure ho avuto un solo amico, mio povero JJ, e con te piango sulle macerie della mia vita". Tommaso, incurante di quella fragile barriera, rappresentata del foglio di plastica, sollevandola, abbracciò l'amico e, commosso al contatto di quella larva di un corpo, una volta così armonioso e potente ed ora così debole e leggero, lo tenne vicino a se, in silenzio. La compassione, quel sentimento principe nell'animo di Tommaso, non bastava più; occorreva fare qualcosa. Ed allora il prete parlò; non come parlano i preti in questa circostanza, ma come ciascuno vorrebbe che essi parlassero. "È bella la vita, vero Bernard? Pensa solo a questo, a quel dono che hai goduto. Nessuno, in questo mondo, ottiene di fare nulla d'eterno, ma, qualche volta, gli spiriti più avvertiti riescono a raggiungere, per un attimo, il bello, e di questo godono. Se tu hai avuto quell'attimo, allora la tua vita non è passata invano. Non c'è miglior giudice di noi stessi, solo noi possiamo sentire la verità che è in noi". "Ma io voglio ancora vivere, non vegetare in questo modo schifoso; invece ho paura e non so più cosa pensare". Parlarono per lungo tempo; riandarono ai momenti felici che avevano vissuto insieme. Risero anche, e Bernard, mentre s'appisolava, stremato da quello scampolo di vita donatogli dall'amico, sembrò più consolato e più lontano da quella linea grigia e paurosa, che è l'anticamera della morte. Tommaso andò via, ripromettendosi di tornare l'indomani. La mattina successiva, ritornato all'ospedale, Tommaso trovò l'amico morto, con il volto finalmente sereno, libero da quel ghigno che il dolore e la paura avevano impresso, plasmandolo come una maschera della sofferenza umana. In quel momento entrò il dottor Bubber, che abbracciò Tommaso dicendogli: "Grazie, figlio mio. È merito tuo se mio nipote è morto in pace. Ieri sera mi ha fatto telefonare, per potermi parlare. 142 Sono venuto subito e l'ho trovato stranamente calmo e sereno. Mi ha detto che aveva ricevuto la tua visita e che tu, come il solito, avevi scavato nella sua anima, recuperando il significato della sua vita, che lui credeva perduto. Bernard ha ammesso che il senso della vita è duplice: riconoscere quelle rare occasioni in cui s'arriva in contatto con l'Assoluto, un vero e proprio momento estetico, e, attraverso quello, giungere alla prova della realtà di quell'Assoluto che, d'altra parte, parla dentro di noi, imponendoci la legge morale. Per questo mi ha detto di ringraziarti, perché, senza prediche ma solo scavando nel suo animo, gli hai permesso di riconciliarsi con la religione dei suoi padri e, quindi, poter ritornare nel seno di Abramo. Abbiamo recitato insieme lo SHEMA ISRAEL e le ultime sue parole sono state di ringraziamento per te. Poi è morto, finalmente sereno". Durante il tragitto di ritorno dall'ospedale, Tommaso non poteva staccare il suo pensiero dal ricordo del proprio amico, grato soltanto che questi avesse, in extremis, raggiunto la pace interiore, pur senza poter scacciare tutte quelle idee che la morte di una persona cara lasciano nella mente di un uomo. Così, con quei sentimenti e con quella condizione psicologica non certo favorevole, quasi per distrarsi, prese il giornale che qualcuno aveva lasciato nell'autobus, sul posto vicino al suo, e lesse. Nella pagina letteraria, in grande evidenza, l'Arcivescovo di Reims, sollecitato da un intervistatore, dichiarava essere la sindrome di immunodeficienza acquisita, che il mondo aveva cominciato a conoscere come AIDS e che la Francia chiamava SIDA, un giusto castigo per i peccati dell'Uomo. Tommaso fu preso da un impeto freddo e feroce, una specie di furore interno, così raro in lui, che riuscì a placare solo dopo aver scritto di getto una lettera all'alto prelato. "Eccellenza permetta ad un povero prete di non essere in grado d'esercitare la virtù dell'obbedienza nei Suoi confronti, dissentendo da quanto Le ha attribuito la stampa, in una recente intervista. Avevo un amico fraterno, splendido giovane, stroncato da quello che Ella avrebbe definito un giusto castigo per i peccati dell'Uomo. Nel nostro ultimo colloquio, il mio amico si lamentò con me, dicendomi di considerare Dio, come un'entità malvagia, che si nutre del dolore delle proprie creature. Ma poi convenne d'aver sbagliato nel giudizio, perché, comunque, ad ogni uomo è dato di raggiungere, almeno una volta, la visione del bello, e, quindi, dell'Assoluto, da cui far 143 discendere l'assoluta bellezza di Dio, e, per questo tramite, riconoscere la sua assoluta bontà. Come può, questo, conciliarsi con il sentimento di vendetta che traspare dal suo ragionamento? Come può Dio vendicarsi su esseri innocenti, sui figli ancora non nati? Come può pensare questo, una mente che, pure, non è obnubilata dal dolore e dalla paura? Come può affermare ciò, un Ministro di quel Cristo che, innanzitutto, è amore? La bellezza, la necessità di Dio, è prima di tutto morale. Ipotizzare un Dio, che si nutre del pianto delle sue creature, significa scendere, con il pensiero, al livello degli antropofagi più deviati dal cammino dell'uomo e questo nulla ha a che fare con la buona Novella che, ripeto, innanzitutto, è amore. Mi creda, Suo in Cristo Sac.Tommaso FERNAYS S.J. P.S. la virtù dell'obbedienza mi spingerebbe ad inviarLe questa mia in privato ma l'obbligo della testimonianza mi costringe a mandarla a quel giornale che ha potuto, sono sicuro, stravolgere in maniera tanto assurda, il Suo pensiero. Tommaso sapeva di cacciarsi in un ginepraio. Lui, un gesuita, studioso di teologia, mettersi contro una così alta Autorità della Chiesa di Roma, non solo per questioni teologiche ma soprattutto su fatti inerenti il Magistero. Che cosa ne avrebbe detto il suo cardinale, così attento a non provocare scandali inutili, al solo scopo di mettersi in mostra? Infatti, dopo pochi giorni, la bufera scoppiò, violenta: il giornale era andato a nozze, con la pubblicazione della sua lettera, e la discussione s'era accesa, aspra e feroce, sotto le parole mielate che i preti usano, quando vogliono colpire a morte qualcuno. Le voci sottili, il fumus, così conosciuto da chiunque frequenti l'ambiente della gerarchia cattolica, mandava eloquenti volute. Quel Sacerdote, quel gesuita, come poteva attaccare un Arcivescovo, una Dignità così importante, pubblicamente, dando scandalo al mondo, incrinando in maniera così evidente il principio d'Autorità? Che voleva dire? Chi era dietro di lui? Chi lo difendeva? E, se era solo, era l'uscita solitaria di un insubordinato o v'erano altre motivazioni? Tommaso non si curava del fuoco della polemica, che era divampata dopo il fumo, anche se aveva registrato nel proprio 144 animo tutte le volute che quel fumo aveva eseguito, e, quindici giorni dopo, al suo ritorno in Belgio, si presentò tranquillamente al suo Cardinale. "Eminenza, riconosco d'aver peccato di presunzione, ma, quando è necessario, "oportet ut scandala eveniant" 2 . "Il riconoscimento della propria colpa è l'atto iniziale del processo del perdono. Ora bisogna però stabilire la pena relativa e tu la sconterai duramente questa pena, Padre Fernays". Così dicendo il Cardinal Van der Groe prese una busta sigillata da dentro un tiretto e la consegnò a Tommaso. Essa conteneva due brevi cardinalizi: il primo nominava il Padre Tommaso Fernays, professore di teologia morale all'Università di Lovanio, la stessa cattedra che era stata dell'attuale Cardinale. Il secondo innalzava Tommaso alla dignità vescovile, investendolo del titolo di Vescovo ausiliare dello stesso Cardinal Van der Groe. " E non credere che queste due croci bastino per il tuo peccatoconcluse il piccolo Cardinale - da oggi, sarai il mio confessore, su cui potrò riversare i miei peccati, le mie pene e le mie cure. Certo che te la sei andata a cercare. Avevo già una mezza idea di non lasciarti tranquillo a gingillare con le placide discussioni teologiche, che impegnano la mente, ma non la volontà di un giovane prete da battaglia, come sei tu. Sapevo di poter contare sulla tua sapienza, sulla tua obbedienza e sulla tua acutezza d'ingegno; aspettavo solo un segno del tuo coraggio nel difendere la Parola del Cristo. Ora non ho più dubbi". Il nuovo Vescovo sembrava di sale, impietrito, nella vasta sala, che faceva da studio al suo maestro, il Cardinal Van der Groe, Primate cattolico del Belgio. 2 E’ cosa opportuna che gli scandali vengano alla luce. Mt.18,7. 145 SECONDA ANTIFONA È cosa assai interessante notare le interrelazioni che occorrono tra la vita dei singoli uomini e la più complessa vita delle società, di cui quegli uomini sono le unità elementari, esaminando le idee guida che, spesso maturate per seguire il filo logico del disegno di un solo individuo, raggiungono altresì l'inconscio collettivo. Quelle idee, per questo, divengono poi determinanti per tutti gli uomini, fino ad assumere una loro validità che le svincola dalla dipendenza, quasi dalla discendenza di un'unica mente, per apparire nate già perfettamente compiute e logicamente efficaci, senza l'intervento cosciente di alcuno, come Atena dalla mente di Giove. Per questo, quella parte del sapere umano che indaga su come si sono svolti i fatti degli uomini, la storia appunto, non può prescindere dall'esaminare, in primo luogo, coloro che l'hanno determinata. La storia studia, così, gli uomini, le loro idee, le loro pulsioni, la loro fortuna e, soprattutto, le reciproche modificazioni che tutti questi fatti, interagendo tra di loro, hanno provocato nelle loro stesse vicende, prima di fissarle nel definitivo rapporto storico. Occorre che un uomo sopporti realmente nella propria sensibilità quell'esperienza, spesso dolorosa, raramente lieta, sempre però indimenticabile nella propria vita, che dà origine ad un'idea. Quest'idea, se è contemporaneamente avvertita da molti, si fissa nel comune sentire e diviene così patrimonio di tutti, rendendo, inoltre, vano il ricercare se fu un uomo ad averla concepita o fu quell'idea a generare quel particolare tipo di uomo. Perciò già Erodoto, il padre della storia, proclamava che uno storico veramente imparziale si sarebbe dovuto limitare a riportare le sole date degli avvenimenti accaduti, e, forse, nemmeno questo sarebbe bastato per giungere ad un'assoluta imparzialità. Quando poi la storia che si esamina è talmente vicina a noi da riconoscere in essa brandelli della nostra vita, allora la famosa imparzialità dello storico serve soltanto a dare, mascherandola, una patina di validità oggettiva ai nostri desideri, alle nostre pulsioni, alle nostre aspirazioni. Eppure l'Uomo non può esimersi dal fare storia, perche questa è una di quelle attività dello spirito che maggiormente definiscono il nostro essere uomini, l'intima proclamazione della nostra autocoscienza, il nostro segno distintivo, una di quelle facoltà che ci fa unici, molto più della scienza o della matematica. 146 Infatti la scienza e la matematica sono mezzi, strumenti sempre uguali a se stessi, la cui struttura non dipende dall'uomo, e mal si confanno a definire l'essenza umana. Invece, per poter giungere a questa definizione, occorre cercare nelle più profonde motivazioni e, se si vuol rimanere nel solo campo della scienza e della matematica, investigare nella storia o nella filosofia della scienza o della matematica, ritornando così nell’ambito delle attribuzioni distintive dell'Umanità. Tutto questo lungo discorso ci riporta a considerare quella straordinaria caratteristica dell'Uomo, che troverebbe la propria validità esclusivamente al di la del conosciuto, ma non può varcare le soglie del conoscibile, arrivare metà ta phisicà, perché, appunto, la metafisica è inconoscibile, per definizione. Ma se questo è il nostro limite, il volerlo superare è il nostro peccato d'orgoglio, quel peccato originale che ci fa appunto uomini, ed il cercare risposte nella storia, che sapremo non arriveranno mai, è la nostra unica attività possibile, se non si vuole abdicare, come appunto fa una gran parte degli uomini, alla propria condizione umana. Consideriamo dunque le idee dominanti la società degli uomini nella seconda metà degli anni ottanta del nostro secolo, non guardandole però, solamente nella bruta esposizione degli avvenimenti. Noi, invece, scaveremo oltre la superficie delle cose, leggeremo tra le linee, come ci consiglia l’etimo del verbo latino “intelligo”, cioè “inter lineas lego”, leggo tra le righe, da cui viene la parola intelligenza. Facendo ciò, compiremo un’operazione che, nel tentativo d'affondare la nostra indagine nel perchè dell’avvenuto, ci permetta di leggere più chiaramente il fatto tra le linee dell'accaduto, facendoci così compiere un'azione intelligente. Dunque, in quegli anni, la lunga avventura della civiltà occidentale s'era venuta cristallizzando in alcune posizioni, molto distanti tra di loro. Una prima concezione, la più aggressiva, quella che si credeva e si diceva proceduta, in linea diretta, dalla smania ateniese e romana di conquistare non solo tutto il mondo conosciuto, ma perfino le anime che popolano quel mondo, aveva modellato una precisa posizione teorica. Tale dottrina, mutuando i propri capisaldi dal concetto protestante della predestinazione delle anime e dalla tradizione talmudica del giusto, che, per questo, riceve la ricompensa da Dio, aveva elaborato una propria tesi. 147 Questa tesi, a ben esaminare, non era altro che la riedizione, in forma riveduta e corretta, della legge della giungla o, se si preferisce, della teoria dell'evoluzione della specie. Questa teoria, come ormai è quasi universalmente accettato, porta, attraverso successivi aggiustamenti e modificazioni, a rendere alcuni individui d'ogni specie e, quindi anche dell'Umanità, sempre più idonei a sostenere la lotta per l'esistenza, spazzando via necessariamente, per questo motivo, l'esistenza di coloro che rimangono soccombenti e vinti. Anzi, il capitalismo, perché è chiaro che di questa teoria si sta trattando, proprio negli anni che stiamo esaminando, sta compiendo un colossale sforzo di razionalizzazione. Esso sta riorganizzando le proprie linee di produzione, al fine di liberare ulteriori, enormi risorse, che, gettate nella fornace della lotta contro la teoria avversaria di quel momento, il marxismo, ne faccia esplodere le contraddizioni interne e ne provochi il collasso. Il marxismo invece, aveva avuto finora una lunga stagione di grandi vittorie in molti campi. Ma, ora, quel sistema politico, con la palla al piede della propria concezione dell'economia pianificata, che, togliendo agli uomini il gusto del rischio, ne addormenta le capacità vitali, si trova, per l'attutita disponibilità della propria società, a competere, sul piano economico, in posizione di grave pericolo. Quello era lo scontro che si combatteva in quel momento storico ed i campi di battaglia, più che nel fumo delle guerre guerreggiate, si potevano intravedere nelle felpate ed eleganti sale delle riunioni internazionali, nelle azioni coperte delle spie e di tutto un mondo di trafficanti nell'ombra, nelle stanze segrete della diplomazia internazionale, nel chiuso delle multinazionali e delle grandi banche. Uno dei punti nodali, dei principali campi di battaglia di questa guerra mondiale, era il Belgio. In quella piccola, civilissima Nazione erano presenti sia il cervello della potenza militare del capitalismo, la NATO, sia la culla di quella nuova idea di Europa che, pure, stentava a nascere, in un mondo stretto nella morsa del bipolarismo, sia infine, la sede europea delle più importanti multinazionali. Queste realtà, più degli Stati nazionali, rappresentavano gli attori del dramma che si stava consumando sotto gli occhi di tutti, benché pochissimi ne conoscessero le implicazioni segrete e le reali conseguenze. 148 CAPITOLO XIV PIANI ALTI Tommaso, pardon, Sua Eccellenza il Vescovo Fernays, titolare della stessa sede "in partibus" che fu del suo maestro e capo, sembrava muoversi nell'acqua torbida della diplomazia internazionale con la stessa sicurezza ed abilità del più consumato prelato che avesse compiuto tutto il corso degli incarichi presso la Segreteria di Stato in Vaticano, dal semplice minutante fino al più smaliziato nunzio apostolico. Eppure Tommaso non era il Nunzio apostolico, ma solo uno dei sostituti del Primate, il Cardinal Van der Groe, senza un compito ben preciso, e molto defilato. Situazione questa che gli assicurava il più ampio movimento e la più grande possibilità di manovra, in quel mare, che permetteva solo ai più manovrieri di reggersi a galla, sfuggendo alle luci della notorietà che, immancabilmente, bruciavano l'incauto, che ne fosse attirato. D'altronde la sua naturale statura morale, immediatamente avvertibile, gli conferiva una presa sull'animo dei suoi interlocutori che vedevano in lui un esempio molto diverso dal comune prete diplomatico. Per questo Tommaso, non ce ne vorrà il nostro eroe se noi continuiamo a chiamarlo familiarmente così, era ormai divenuto una presenza costante e ricercata nella vita sociale, che si svolgeva tra le sedi delle ambasciate, le sale di riunione delle multinazionali, i circoli delle varie organizzazioni europee e gli stages che la NATO teneva periodicamente, per diffondere particolari concetti operativi in campo economico o sociale. Tutta questa attività aveva due conseguenze: per prima cosa permetteva alla Chiesa di Roma di avere un osservatore attentissimo nei luoghi del potere e, per questa ragione, consentiva altresì a Tommaso di stabilire solidi agganci con la Segreteria di Stato, benchè non fosse questa l'intenzione del giovane vescovo. L'altra opportunità era data dalla frequentazione delle intelligenze più raffinate, che si confrontavano, in quel momento, in Europa sui temi più attuali e scottanti. Così Tommaso aveva conosciuto il dottor Gottfried Wilhelm Stollemberg, ultimo rappresentante di una grande casata tedesca, che aveva però iniziato il suo cursus politico nel partito socialdemocratico. Stollemberg andava portando avanti la sua concezione politica: l'Europa che doveva nascere, non poteva essere un puro fatto economico, ma doveva coinvolgere i popoli, se si voleva che 149 quella costruzione fosse vitale e procedesse con la forza della propria idea e non con i soldi dei potentati economici che, al momento, parevano i soli interessati a diffonderla. Quest'idea, nel 1985, non era del tutto pacifica, soprattutto perché l'ideale europeo non aveva ancora coinvolto la maggioranza dei popoli d'Europa o, meglio, le motivazioni della necessità di un'Europa unita erano più sentite in campo economico che in campo politico. Un altro grosso personaggio cominciava a quel tempo a farsi notare nell'ambito della comunità internazionale che gravitava intorno a Bruxelles: era l'assistente del capo delegazione inglese presso il Segretariato internazionale del Consiglio Atlantico, il giovane avvocato Peter Withe. La posizione inglese era stata sempre sospettosa dell'idea Europa, per svariati motivi. Il primo di questi motivi era da ricercarsi nell'ambito della storia della politica e poteva esser riassunto nella dottrina di Monroe 1, che, all’inizio del XIX secolo, recideva gli ultimi tentativi d’ingerenza degli stati europei nelle Americhe, ma non negava i vincoli della comunità anglosassone con il mondo americano, in antitesi con gli altri popoli europei. Questa posizione aveva perfino una giustificazione filosoficosociale: l'orgogliosa consapevolezza che gli altri popoli europei non avevano saputo imitare il modello democratico inglese. Non erano neppure assenti, qualche volta, preconcetti meramente razziali, che ponevano l'accento sulle diversità dell'Homo Brittannicus rispetto ai propri simili, dimoranti in Europa. Ma ormai l'impero s'era dissolto da un pezzo e l'altera sicurezza d'essere il centro del mondo civile cominciava a ricevere duri colpi, anche se Londra era ancora uno dei gangli più importanti del mondo economico internazionale. Per questo, le menti più avvertite del Regno Unito cominciavano ad interessarsi seriamente alle problematiche europee, pur non abbandonando quel sano pragmatismo, per cui va famosa la terra d'Inghilterra. Anche la Francia era ben rappresentata in quelle sedi prestigiose: uno dei giovani che stavano scalando la ripida erta Dottrina politica, enunciata il 2 dicembre 1823, che prende il nome da James MONROE, quinto Presidente degli Stati Uniti. Essa stabilisce che la politica di tutte le Americhe sono un fatto interno degli americani in cui non verrà accettata alcuna ingerenza europea. Questa enunciazione non ostacolò che si creasse, in seguito, un regime speciale nelle relazioni tra Inghilterra ed U.S.A. 1 150 della notorietà, in quel campo cosmopolita, era il dottor Paul Mercier, che Tommaso conosceva dai tempi lontani del 68 e che aveva perfino invitato al suo matrimonio. Il giovane Mercier, capopopolo delle plebi universitarie ai tempi del maggio parigino, era rientrato nei ranghi. Dopo la laurea in giurisprudenza, aveva seguito i corsi dell'Ecole Nationale d'Amministration, la famosa ENA, ed era entrato nella Pubblica amministrazione, bruciando le tappe con una progressione impressionante, tanto da fargli conquistare, ad un'età inconsueta, l'incarico di capo delegazione francese al Consiglio d'Europa. Tutte queste intelligenze, ed il mondo che le conteneva, erano in grande eccitazione in quel 1985, che s'annunciava come un anno di svolta dopo un periodo di stasi politica e d'immobilità concettuale, che aveva raggelato i primi anni del decennio. Infatti la morte dell'ultimo segretario generale del Partito comunista dell'URSS, Cernenko, aveva portato alla ribalta un nome che sarà ricordato a lungo nella storia d'Europa: Michail Sergeevic Gorbacev. Inoltre, sempre in quell'anno, il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, aveva ricevuto dagli scienziati del proprio Paese l'assicurazione della fattibilità di un progetto avveniristico, ma costosissimo. Esso prevedeva la possibilità d'intercettare i missili nucleari fuori dell'atmosfera, prima che questi potessero entrare nel cielo americano. Il presidente Reagan aveva lanciato quindi il progetto strategico, conosciuto come "SDI" (Iniziativa di Difesa Strategica). Questa nuova filosofia d'impiego, nell'uso di strumenti atti a conquistare la supremazia militare, che sostituiva la dottrina del "secondo colpo", s'avvaleva di un sistema di satelliti orbitanti, difensivi-offensivi, armati con Laser ed altri sofisticati congegni, in grado di stendere un "ombrello elettronico", impenetrabile alle armi avversarie. Per la prima volta s'era riuscito quindi a trovare il sistema di neutralizzare, almeno teoricamente, un missile nucleare, dopo il suo lancio. Questa rivoluzione, nel campo della strategia globale dei due contendenti al dominio del mondo, impose due reazioni, entrambe d'enorme portata per il futuro. L'Europa, fino allora, era stata un puro enunciato economico che non prevedeva, come fattore importante, la partecipazione popolare, al di là delle posizioni propagandistiche o degli ingenui attestati di solidarietà. Questi erano espressi al solo scopo di fuggire in avanti dalle condizioni del presente, evocando una nuova, futura e, per 151 questo, poco probabile età dell'oro, che si celava, a detta degli entusiasti, sotto il concetto dell'unità del continente europeo. Insomma quell’unità, finora, era stata intesa come una normativa che riguardava più le tasse o il sistema bancario che non gli uomini, anche se si era infiocchettata con i più sgargianti ed improbabili gadgets. Ora invece, dopo che l'America si fosse realmente dotata dello scudo spaziale e della capacità d'uscire indenne da un confronto atomico, l'Europa si sentiva nuda ed indifesa, anzi diveniva il solo perdente in un possibile scontro tra i due colossi. La constatazione accelerò grandemente la tesi che voleva l'Europa come soggetto autonomo di politica, in quanto entità capace di competere alla pari con le altre due, in tutti i campi. Ma, per far questo non bastava un semplice aggregato economico. Il soggetto che si doveva far nascere, era una figura squisitamente politica, in grado d'avere un'anima che fosse immediatamente riconoscibile agli uomini che la dovevano vivere. L'idea di un'Europa politicamente unita cominciava così ad avere una sua necessità obbiettiva. L'altra reazione a quel progetto, voluto da Reagan, che fu pittorescamente denominato, dai mass media, "guerre stellari", ebbe un effetto ancora più esplosivo. L'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, come aulicamente s'era definito l'impero russo, già da tempo faticava, come abbiamo visto, a seguire l'Occidente nella sua corsa verso un sempre miglior tenore di vita. Ciò era dovuto all'effetto della caratteristica più saliente del sistema capitalistico. In altre parole, quella corsa è un fenomeno indotto principalmente dalla concorrenza, in quanto l'espansione dei mercati, frutto appunto di una sana concorrenza, produce una sempre maggior ricchezza. Questa, a sua volta, moltiplica geometricamente l'espansione degli stessi mercati. Al contrario, un sistema basato sulla negazione del mercato, produce inevitabilmente una burocrazia, che non conosce alcuno strumento di misurazione della propria validità. Perciò quella burocrazia tende a crescere con le stesse regole del cancro dentro un organismo, che, pure, una volta era sano. Alla fine, l’organismo non riesce a resistere all'attacco e quindi, si blocca. Quando, sulle industrie del complesso economico-militare si cominciarono a riversare i primi assaggi, dei molti miliardi di dollari, che l'America aveva previsto di spendere per le guerre 152 stellari, il valore di tutto il mercato dell'Occidente ricevette un impulso inarrestabile. L'URSS non poteva rimanere a guardare una situazione che l'avrebbe comunque travolta: con la forza della disperazione, Gorbacev si accinse ad introdurre correttivi liberistici nel sistema economico sovietico. Questo fu l'inizio della fine per l'impero russo. La perestroika portò alla paralisi del sistema dirigistico russo e la glasnost 2, l'altra buona intenzione del premier russo, s'incaricò di dimostrare come appunto le buone intenzioni lastricano la strada che porta all'inferno. Infatti, la trasparenza impedì al sistema di nascondere il dramma che l'economia russa stava vivendo, mutandolo rapidamente in tragedia non più risolvibile. Ma andiamo con ordine, soffermandoci un poco di più sulle vicende del 1985. In quell'anno il Consiglio d'Europa promosse un convegno aperto a tutti gli Stati europei, dal tema emblematico: "Quale Europa?". Naturalmente, a quel convegno parteciparono solo rappresentanti degli Stati occidentali, ma aderirono ad esso anche alcuni fuoriusciti polacchi e d'altre nazioni del blocco orientale, che erano stati eletti al Parlamento Europeo nelle liste dei partiti della sinistra socialdemocratica europea, ed era presente tutta la stampa accreditata presso i vari organismi internazionali di Bruxelles. Tra i principali attori di quel convegno v'erano appunto gli uomini prima ricordati, Stollemberg per la Repubblica federale Tedesca, Withe per il Regno Unito, Mercier per la Repubblica Francese e molti altri politici emergenti sul piano europeo. Anche Tommaso partecipò, come osservatore personale del Cardinal Van der Groe e così, dopo le prime battute, le varie posizioni s'andarono rapidamente delineando. Nell'attesa d'entrare nel vivo della conferenza, iniziarono le solite schermaglie sulle generali, che sono attuate al solo scopo di saggiare il vento che tira. Nell'aula, i vari convitati cominciarono a tastare il polso dell’assemblea, prima delle dichiarazioni ufficiali; ma non in maniera così riservata, da non arrivare all'attenzione, ben viva, del folto gruppo di giornalisti presenti. L'atteggiamento Tedesco fu sapientemente e generosamente enunciato dal dottor Stollemberg, che ipotizzò, come sola via d'uscita dal sistema binario che soffocava l'Europa, la nascita di una vera entità forte: l’unione politica europea. 2 Perestrojka, in russo significa “ nuovo corso “ e Glasnost, “ trasparenza ”. 153 Essa avrebbe saputo aggregare a se, con la forza della moneta unica europea, le regioni dell'Est, sempre più sottoposte alla penuria di tutto, problema questo derivante dal pugno di ferro sovietico, che vietava a sé, ed ai suoi satelliti, l'esistenza di un qualsiasi libero mercato. A siffatta impostazione ribatté efficacemente Peter Withe per l'Inghilterra, il quale, con ironia tutta britannica, domandò se l'espressione, che era scritta come "moneta unica europea", in realtà si dovesse leggere "Marco tedesco". Inoltre il rappresentante inglese chiese pragmaticamente d'essere informato di quali vantaggi si poteva parlare per il suo paese, per indurlo ad abbandonare una posizione, quel rapporto privilegiato appunto, che era stata il perno della propria politica da cento anni. "Con la scomparsa dell'Impero Britannico, il rapporto privilegiato con gli U.S.A., che all'inizio era un patto di mutuo soccorso tra due potenze d'ugual peso, è ora divenuto la legittimazione di un processo che porterà sempre più velocemente la Gran Bretagna a trasformarsi in una colonia della sua antica colonia. S'avrà così, una specie di zoo protetto, dove, nel migliore dei casi, i ricchi americani verranno per fare l'inchino alla Regina inglese alla loro maniera, in altre parole per provare l'emozione di compiere un tuffo nel loro passato. L'adesione dell'Inghilterra all'idea Europa significherebbe invece un suo ingresso in una realtà che sta sorgendo ora e che può avere enormi sviluppi e non il tramonto, nemmeno molto dorato, che ha già avvolto il Regno Unito". La puntualizzazione del rappresentante francese, nel suo pizzico d'animosità, dimostrava come fosse difficile far procedere un'idea che, pure, aveva più di duemila anni di vita. Il fatto è che l'idea Europa sottintende un equivoco di fondo: né Giulio Cesare, né Attila, né Carlo Magno, né Napoleone, né, tantomeno Hitler, in verità avevano voluto "Fare l'Europa". Ciascuno di essi, più esattamente, intendeva "conquistare" l'Europa facendola diventare, di volta in volta, romana, barbara, carolingia, cioè barbara ma con influenza e leggi romane, francese o tedesca, suscitando sempre il timore degli esclusi, che si sentivano oggetti non partecipi di quel progetto. Ora, invece, si cercava di giungere all'Europa non con la spada, ma spinti principalmente da motivazioni economiche e, per ultimo, dalla paura, mai sopita, che le due superpotenze potessero trovare un accordo qualsiasi, che avrebbe permesso loro di spartirsi il mondo. 154 Eppure i duemila anni di scontri che quell'idea evocava, non inducevano certo i rappresentanti di quei popoli, che erano stati gli autori ed, insieme, le vittime di quegli scontri, ad abbassare la guardia. Certo, la prospettiva di un mercato di più di duecento milioni di utenti solleticava le fantasie dei potentati economici di tutto il continente, ma la memoria collettiva di ciascuno era bloccata, soprattutto a livello inconscio, dai veti incrociati che la Storia aveva impresso nel ricordo di tutte le genti europee. "Permettete al rappresentante di un'idea che trascende i vostri ideali nazionali - esordì Tommaso, quando toccò il suo turno di cercare di far il punto della situazione, per trovare una soluzione al vostro, al nostro problema. Tutti voi siete concordi nel ritenere fattibile e vantaggiosa una Europa che sia un'unica entità in campo politico, sociale, economico, finanziario; insomma, in una parola, un’Europa nazione. Eppure tutti voi, anche e soprattutto a livello inconscio, ponete remore e distinguo, che ostacolano il percorso di quell'idea, fino a bloccarlo. Io non nego validità ai vostri timori, anzi riconosco che essi sono il frutto e l'eco, più o meno lontana, di terribili episodi, che hanno coinvolto i nostri popoli, ma dico che questa strada è impercorribile. Se ritenete quest'idea vantaggiosa, ma siete bloccati dai fantasmi del vostro passato, dovete pensare non a quello che vi divide ma a quello che vi unisce. Che cosa significa Europa? Essa è un'idea che si è andata sviluppando da duemila cinquecento anni, cercando un insieme di valori, che permettano all'Uomo di conquistare l'Universo che lo circonda, compresi i popoli che egli incontra nel suo espandersi, al fine di conoscere le tre realtà che egli ha individuato, in tutta l'infinita varietà del Cosmo: il proprio Io interiore, la natura, Dio. Che cosa intendo dire? Affermo che l'idea Europa ha dei connotati estetici che indirizzano tutti noi verso un ideale morale: esso, infatti, è alla base del nostro modello di vita. Quest'ideale non è in contrasto, entro certi limiti, con il modulo di razionalizzazione che abbiamo adottato, quasi un linguaggio informatico in campo economico, per arrivare appunto ad una sempre maggior espansione di quello che, prima, abbiamo definito come nostro modello di vita". "Alt, vedo già dove andiamo a parare - l’interruppe il dottor Mercier, che, in virtù dell'antica amicizia, aveva mantenuto, di 155 comune accordo, il tu colloquiale con Tommaso - caro amico, riconosco, sotto l'elegante clergyman, che indossi con molto charme, il nero del tuo vero abito. Allo scopo della "maiorem Dei gloriam" t'accontenti di qualunque appiglio, anche quello estetico, per ricondurre l'idea del potere al concetto della Divinità, in modo da rilanciare la posizione della Chiesa di Roma, che si ritiene il punto di snodo e di congiunzione tra il potere divino ed il potere politico. Non riuscirete mai a ricordare, voi preti, che vi è stato, in Europa, un grande momento costitutivo, che va sotto il nome di rivoluzione Francese. Ormai si sono formati gli Stati nazionali in Europa e questi Stati traggono da loro stessi il principio di legittimità. La Rivoluzione francese ha dato nuove norme al potere politico, definendo il concetto d'uguaglianza di fronte alla legge dello Stato, unica legge in campo civile. Da essa traggono origine tutti quei movimenti liberali, di destra, di centro o di sinistra, che, benché condannati dal vostro Sillabo, saranno alla base, una volta cancellata dall'Europa l'ignominia della dittatura, di tutte le Costituzioni europee". La sparata del dottor Mercier non smosse di un millimetro la calma di Tommaso: " Mio caro Paul, mio buon amico - fu la replica, esposta con calcolata calma - non posso certo fare colpa a te di non aver seguito il travaglio che ha accompagnato in questo secolo il percorso intellettuale di chi, sentendosi profondamente cristiano, non per questo non si riconosca, allo stesso modo, un cittadino attento ed ossequiente alla legge dello Stato. Tu parli come uno spettatore del tempo del Concilio Vaticano I e forse per questo hai nominato il Sillabo. La parte intellettualmente più attiva della Chiesa, già da lungo tempo, ha dimostrato ai vertici, ed i vertici della Chiesa hanno già da tempo recepito e definito, nei loro documenti ufficiali, che il potere temporale dei Papi è irrimediabilmente finito, e che esso non tornerà mai più. Quello, più che un potere, era un impaccio alla diffusione della Parola, unico impegno "politico" irrinunciabile del Cristianesimo. Per giungere a ciò, abbiamo dovuto compiere un lungo cammino, molte nostre intelligenze si sono consumate per trovare la strada, molti hanno perfino osato sfidare l'Autorità, che noi riteniamo, come tu sai, infallibile, quando parla " ex Cathedra ". Alla fine abbiamo trovato l'avallo della parola del Cristo, che era là, semplice ed immutabile, mentre noi la guardavamo senza vederla: " Date a Cesare... “. 156 Ti posso quindi assicurare che, ove lo Stato rispetterà quel comandamento, che c'impone d'essere testimoni della Parola, noi rispetteremo lo Stato. Noi, in quello Stato, ci poniamo come cittadini modello all'interno delle istituzioni, assoggettandoci di buon grado alle sue leggi, dando ogni contributo lecito allo sviluppo della vita civile della Nazione, abbandonando ogni posizione integralista, che contrasti il diritto degli altri. Il nostro unico compito, all'interno dello Stato, rimane quello di testimoniare la buona novella, che rinnova ai credenti il patto con Dio. Facendo ciò, noi daremo ogni nostro contributo possibile, in accordo con i nostri Comandamenti, per amare il nostro prossimo. Cercheremo infine ogni possibile azione di miglioramento della vita degli uomini su questa terra, in modo da permettere loro di non peccare per bisogno. Triste necessità questa, che rende più difficile anche il raggiungimento della condizione ottimale nell'altra vita. Come vedi, non vi è altra ambizione nel mio ragionamento se non quella di migliorare le condizioni della "Societas". Quanto poi ai connotati estetici che ricordavo prima, so bene che l'idea di Europa nasce con lo stimolo verso i traffici, in pratica con l'imperialismo espansionistico di Atene e Roma. Ma quella civiltà, la nostra civiltà, se ha in sé queste stigmate, possiede anche altri concetti. Il bello, il bene, il dovere. La necessità di conquistare ogni realtà, e quindi, la scienza. La possibilità di un reale miglioramento negli standard di vita per tutti gli uomini, e perciò il progresso. La possibilità, che io per fede ritengo certezza, di raggiungere uno stadio che ci riporti nel divino, da cui proveniamo. Si tratta, come tu puoi constatare, di rendere sempre più razionale il cammino dell'uomo e, su questa strada, sappi che tu troverai, già da qualche tempo, come compagna di viaggio, anzi come guida e consigliera, la Chiesa di Roma". "Ecco un'ottima esplicitazione di come il Vaticano si sia convertito al capitalismo più osservante, facendone evidentemente la propria dottrina in campo economico. Eppure, i sacri testi ci ricordano che quella dottrina è nata o, almeno, ha avuto il suo maggiore sviluppo e la sua convalida sul piano filosofico, in campo ebraico e protestante". Il dottor Withe rientrava così in gioco, contrattaccando. 157 "Mi permetta di dissentire, dottor Withe; - ricambiò Tommaso la Chiesa non si è convertita ad alcuna dottrina economica. Essa lascia appunto la piena libertà in un campo, che riconosce come non suo. Naturalmente, non fosse altro che per i suoi duemila anni d'età, essa sa guardare e vedere i risultati che possono essere più o meno apprezzabili, anche per coloro che non sono del ramo. Quando questi risultati sono buoni, la Chiesa non ha difficoltà a prenderne atto. Rimane però una precisazione fondamentale: la Chiesa accetta i buoni risultati, in altre parole il progresso nella vita del popolo, dovuto all'applicazione del capitalismo, ma ritiene questo solo un mezzo, un modo per attuare quel progresso. Nel momento in cui il capitalismo cessa d'essere considerato un mezzo e s'inizia a ritenerlo un fine, la Chiesa non può che disapprovare. Il fine è sempre l'uomo ed il mezzo non può prevaricare il fine. Ogniqualvolta ciò dovesse accadere, e certe volte succede, quando le ragioni del capitale prevalgono su quelle dell'uomo, allora la Chiesa fa udire, alto, il proprio dissenso, che può arrivare fino all'anatema". Nel pronunciare quelle parole Tommaso s'era tanto accalorato nel suo discorso da alzare, in una maniera per lui inconsueta, il tono della sua voce. Il mormorio che accolse il suo intervento, gli fece però intendere che aveva colto l'interesse del folto pubblico che stava ascoltando. "Mi tolga un ulteriore dubbio, Eccellenza - riprese Withe, all'indirizzo di Tommaso, pronunziando correttamente il titolo che a questi competeva - se anche la Chiesa ritiene che la democrazia parlamentare, espressione ultima del capitalismo, sia il modello definitivamente vincente nella società umana, come mai lo stesso modello non viene adottato nell'organizzazione medesima della Chiesa, che, dopotutto, è anch'essa una società umana?" "Perché la Chiesa non è una società esclusivamente umana. Essa si basa su un principio divino che non può esser messo in discussione e pertanto non può sottostare alle regole della democrazia". Subito dopo iniziò, con la prolusione di un illustre relatore, il dibattito vero e proprio sul tema del convegno. 158 Tommaso, nel suo intimo, non si ritenne soddisfatto della risposta, che aveva dato ad una domanda non pertinente al tema della discussione in atto, e molto insidiosa. Ma quella domanda, non per questo, era meno vera, ed ad essa, prima o poi, si sarebbe dovuta trovare una risposta più articolata e, soprattutto, più convincente. 159 CAPITOLO XV IL LEONE E L'ORSO Effettivamente, anche Tommaso pensava che uno dei pochi scenari percorribili, in quel lasco di tempo che separava l'umanità dalla fine del millennio, fosse l'ulteriore razionalizzazione della vita sociale, mediante l'aggregarsi delle Nazioni in entità più complesse. Solo così si sarebbero potuti contrastare tutti quei fenomeni di disgregazione che le relazioni umane, sempre più complicate, avevano innescato. Questi fenomeni, ove non si fosse trovata una soluzione per essi, avrebbero inevitabilmente spinto gli uomini in una china molto pericolosa e, forse, senza ritorno. In verità è sempre esistita, tra gli uomini, una particolare corrente di pensiero, che ritiene che, mai, nulla di veramente nuovo appaia sotto il sole. Quest’ipotesi postula che la cosiddetta civiltà umana abbia, in realtà, un andamento ciclico o, peggio, che essa sia senza una meta, ma vada vagolando, nel suo procedere, con frequenti ritorni verso il passato, con ricadute possibili in epoche di forte arretramento della civiltà stessa; insomma che essa sia assolutamente priva di un destino finale e prestabilito. Naturalmente questa non era l'idea di Tommaso, che aveva fatto sua, come la parte migliore della Compagnia di Gesù, la tesi di Teilhard De Chardin. Il grande scienziato gesuita, come abbiamo visto, aveva definito un percorso evoluzionistico verso il punto Omega, il Cristo, meta finale dell'Umanità, ed aveva inserito questa tesi sul pensiero storico del proprio cristianesimo. Per questa teoria, il processo di razionalizzazione, che è alla base dell'evoluzione, diviene un processo altamente morale: esso rappresenta il progressivo liberarsi, da parte dell'Uomo, di tutte quelle scorie, che sono il portato della sua animalità. L’appartenenza dell’uomo al mondo animale è la condizione necessaria per iniziare il processo, ma essa, inevitabilmente, ad un certo momento, deve esser abbandonata, se si vuol concludere il processo nella meta prevista. Un punto però, in questo ragionamento, è per Tommaso irrinunciabile: l'uomo può perdere i suoi istinti animali razionalizzandoli, ma non può perdere la propria identità intellettuale, che rappresenta il fine ultimo di tutta la Creazione. 160 L'uomo è, quindi, per Tommaso, il metro ed il paragone di tutto il Creato, il suo fine ultimo, cui debbon esser sottomesse "tutte le altre creature" e tutti gli altri fini. Questa visione proponeva evidentemente un nuovo umanesimo, facendolo così divenire, al contrario dell'umanesimo prerinascimentale, parte integrante del pensiero cristiano. Questa è, in definitiva, la parte più originale del pensiero di Tommaso e di coloro che, nella Chiesa, hanno saputo cercare ed attuare una rivoluzione così completa ed esemplare. Essa è stata compiuta, come abbiamo avuto modo di considerare, non gettandosi a corpo morto contro l'ostacolo da abbattere, ma facendo vela, nel mare del sapere, con la prua rivolta magari a tutte altre direzioni, ma con la navigazione segnata da un'intelligenza duttile e lungimirante, che era riuscita ad evitare, su quella rotta, le insidie e gli scogli più pericolosi. Ovviamente questa tesi, ponendo una validità oggettivamente insormontabile al concetto del Cristo, limita il campo delle ipotesi possibili. Viene così accettata a priori l'ideazione, la costruzione e l'escatologia finale del mondo dell'Uomo, che porta necessariamente al Cristo e che, per questo, non può più esser messa in dubbio. Nell'universo, l'Uomo, e necessariamente solo l'uomo, perché creato, per questo, da Dio, percorrerà un sentiero, sorretto necessariamente dal Logos, lo Spirito Santo. Questi agisce nel mondo mediante la Provvidenza, fino ad arrivare necessariamente al momento ultimo, in cui il Cristo giudicherà il comportamento dei singoli uomini e procederà alla palingenesi finale. Impostato in siffatto modo, il ragionamento permette molteplici ed importanti considerazioni. Oltre a recuperare tutte le parti di verità presenti nelle religioni, anche in quelle politeistiche, considerate un momento necessario, ma transeunte sul percorso dell'evoluzione, questa dottrina getta un ponte anche verso coloro che si professano atei. Infatti le due posizioni hanno molti elementi in comune. lo stesso inizio: il big bang 1. Lo stesso sviluppo: l'evoluzione della vita verso l'autocoscienza. La stessa ansia di conoscenza. Gli stessi ideali estetici: la ricerca, il contatto, ahimè fugace, con l'Assoluto. Le stesse regole morali: l'antico patto di sangue, divenuto il patto sociale tra gli uomini, che regoli l'ordinata esistenza degli individui, in nome di una comune origine. 1 L’esplosione che, a detta degli scienziati, ha dato origine al nostro universo. 161 Essa li fa, in qualche modo, partecipi dello stesso destino, o, addirittura fratelli. Questa comunanza genera altresì un comune sentire, anzi un imperativo categorico che detta le regole dell'etica per tutti. Riconoscendo tutto ciò, gli uomini che professano le due tesi possono compiere lo stesso tragitto storico sugli stessi binari. Uno è sicuro di dove lo porterà il vettore, cioè la storia; l'altro non sa quale sia la destinazione, se sarà lui ad arrivare o se quel veicolo arriverà mai a qualche destinazione. Intanto però, nulla vieta che il viaggio sia pacificamente compiuto dai due viaggiatori, che possono trarre perfino reciproco vantaggio dalla loro vicinanza. Ad esempio, un grande vantaggio per entrambi può esser dato dal fatto che, conoscendo e comparando uno le ragioni dell'altro, ambedue non si chiuderanno, se saranno sufficientemente intelligenti, in posizioni assolute di reciproco rifiuto. Così facendo, essi non si troveranno assolutamente spiazzati, qualora il percorso prendesse una piega, non confacente con le proprie posizioni. In questo modo riconosceranno la necessità dialettica d'entrambi. Come tutti coloro che sanno d'essere portatori di una nuova, grande idea, Tommaso si batteva affinché quella rivoluzione fosse riconosciuta ed accettata da tutti, per entrare nel patrimonio comune. In pratica, si trattava di un cambiamento di non poco conto, anzi di una vera e propria rivoluzione copernicana, che veniva postulata e portata avanti sul venerando corpo di Santa Madre Chiesa. La Chiesa fuori della storia, incurante della storia, contro la storia, veniva calata in un percorso storico che ipotizzava l'uomo come l'animale, ultimo figlio del mondo animale, su cui si posa l'alito divino. Esso infonde all’uomo quell'unico elemento, l'intelligenza divenuta autocoscienza, che lo rende partecipe del principio divino stesso, in altre parole capace di distinguere il bene ed il male. Per questo l'uomo è creato da Dio, come atto finale e conclusivo di tutta la creazione. Egli è però necessario fin dal momento del "Fiat lux", come attore principale del gran dramma cosmologico. Per questo, l'uomo opera, nel Creato, mediante quell'unico signum, aiutato dal sollecito interessamento di Dio, la Provvidenza, che non nega il libero arbitrio individuale. 162 Essa pone solo le condizioni favorevoli, lo scenario, affinché l’uomo, liberatosi via via della sua animalità, possa compiere il suo destino in quest'universo, per ricongiungersi, alla fine, al principio divino. Non sono stati sfiorati i dogmi, non è stato toccato il magistero, non viene in alcun modo inficiata la tradizione. Cambia solo il punto di vista, l'ottica, ma il mutamento è fondamentale. La Chiesa non si cura più solamente del regno di Dio, fuori di questo mondo. Essa non pone più l'altezzosa chiusura alla scienza dell'uomo, già giudicata incapace di raggiungere la cosa in se, il noumeno, e, per questo, ritenuta non idonea alla ricerca del perché, la ragione ultima del Creato. Essa non contiene più, immutabili, anche se riconosciute via via, nel corso dei duemila anni del suo percorso terreno, solamente le regole che sono state il suo fondamento. La Chiesa, dal Concilio Vaticano II, rovescia completamente non le sue posizioni, ma la sua lettura del mondo, s'apre alla scienza ed alla storia, si mette in cammino sullo stesso percorso dell'uomo, compagna, madre e maestra, per sorreggerlo nei momenti bui, per consigliarlo nella crisi, per additargli la meta. Non sembri facile né agevole il percorso di quella particolare concezione del Cristianesimo, nel più vasto alveo della Chiesa di Roma. Troppe incrostazioni dovevano esser rimosse, troppi privilegi, alcuni antichissimi, altri scandalosi, dovevano esser denunciati e tolti. Soprattutto, troppe menti dovevano esser ricondizionate, per permettere di giungere ad una visione più razionale del problema, che fosse capace di far arrivare l’uomo ad un gradino più alto di spiritualità e di semplicità logica. Ad esempio, porre l'accento sulla centralità dell'Uomo nella religione del Cristo significa non accettare passivamente tutte quelle situazioni di malessere che affliggono l’uomo. Esse, oltretutto, sono anche il prodromo di una non perfetta realizzazione dei singoli individui su questa terra e quindi inficiano gravemente la salvezza di quelle anime, nella vita futura. Per questa ragione, quel particolare tipo di Cattolicesimo ritiene suo compito primario combattere le ingiustizie contro l'uomo, ovunque si verifichino ed in primo luogo in campo sociale. Suo frutto è stato il successivo affinamento della dottrina sociale della Chiesa, che, in meno di un secolo, ha ribaltato posizioni antichissime. 163 Esse avevano ben rappresentato la lunga stagione in cui l'Altare veniva in aiuto del Trono, nel tener comunque sottoposta quella che era considerata massa amorfa e senza diritti. Un altro esempio illuminante si può trovare nella differente ottica con cui sono considerati, dalle due diverse posizioni cattoliche, i rapporti degli individui con il proprio corpo ed i rapporti interpersonali. Si vuole qui accennare a tutta quella problematica, che si suole definire sessuale, anche se, in essa, occorrerebbe considerare anche buona parte di quella comportamentale, come ha insegnato, ormai in maniera incontrovertibile, la psicoanalisi. Si consideri, ad esempio, la posizione esemplare di Paolo di Tarso, che dette il via a tutta la visione sessuofobica del Cattolicesimo. Egli infatti, ritenendo il sesso opera del Demonio e momento degradante per le anime elette, l'accettava come male minore, solamente al duplice scopo di perpetuare la razza umana e d'impedire alle passioni d'esplodere, distruggendo così la "Civitas Dei". Ora, dalla primitiva posizione della Chiesa, che giustificava l'atto sessuale come rivolto al solo scopo della perpetuazione della specie, si giunge, ad opera di quell'altra visione della Dottrina, all'esplicita accettazione del soddisfacimento sessuale dei coniugi. Finalmente questo viene riconosciuto come momento importante e "benedetto" della vita dell'uomo, cioè si accetta l’intrinseca, positiva validità del sesso, purché compiuto nell'ambito del matrimonio, per accrescerne la valenza sociale. In questa maniera, si supera il precedente atteggiamento del Cattolicesimo, che aveva ricevuto stigmate tanto indelebili, da averlo segnato, nei secoli, come la religione che poneva tutto il male dell'uomo tra le gambe della sua femmina. Purtroppo, da questo antico atteggiamento, il Cristianesimo aveva concepito una teoria della vita, da cui erano nate buona parte delle storture psicologiche che affliggono l'uomo moderno. Questo concetto faceva il paio con l'altro, ben radicato nel pensiero cristiano, per cui la condizione permanente dell'uomo deve esser quella del dolore e del patimento, per meritare la ricompensa, una volta nel regno dei cieli. L'antica maledizione ebraica: "Tu, donna, partorirai nella sofferenza e tu, uomo, ti guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte" veniva intesa, dal vecchio Cattolicesimo, non come una condizione modificabile per mezzo dell'intelligenza, migliorabile nel corso dell'evoluzione, ma come uno stato 164 immutabile della natura umana, anzi come un requisito necessario per esser un buon cristiano, per imitare il Cristo. Essa deriva dalla constatazione, più o meno inconscia, che il Cristo non ride, che il cristiano deve esser immerso nella paura, che la Chiesa chiama “timor di Dio”. Il Cristianesimo, infatti, ha sempre represso il momento ludico, che è una forma edulcorata, si potrebbe dire civilizzata, dell'istinto panico. Quello è momento in cui l'uomo si perde nell'abbandono nella Natura, riconoscendosi elemento calato in essa completamente e completamente sottoposto alle sue motivazioni istintive. Per questo, il vegliardo cieco del romanzo di Eco, il monaco Jorge, fa bruciare tutta la biblioteca dell'abbazia, per distruggere il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello che analizzava il riso. Per questo, nel romanzo "il nome della rosa", frate Guglielmo da Baskerville esprime le seguenti considerazioni: “Il diavolo è l’arroganza dello spirito, la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio”. ..."Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, far ridere la verità perché l'unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità". Infatti, quando coloro che ritengono d’essere gli unici depositari della verità si trovano dinanzi una realtà che contraddice la loro verità, essi, piuttosto che mutare questa, tentano di nascondere quella, cadendo in quel delitto, che, a ragione, può esser descritto come “passione insana per la verità”. Se i seguaci del "Matto di Dio", i francescani, sul finire dell'anno 1327, potevano ricoprire il ruolo dei dissacratori della realtà imperante in quel tempo, allo scopo d'arrivare, in questa maniera alla realtà più vera, che si nasconde sotto l'aspetto delle cose, quel ruolo non può esser ricoperto, al momento, se non dagli uomini della Compagnia di Gesù. Essi, nel nostro tempo, sono gli unici che, oltre alla competenza ed al rigore, hanno una cattiva fama così consolidata, da non attribuire ad essa alcuna importanza, anzi da usarla come elemento di rottura, sempre al solo fine della maggior gloria di Dio. Questo, appunto, s'accingevano a fare, questo stavano attuando i gesuiti, prima facendo maturare le condizioni che portarono al Vaticano II e poi sostenendo le loro tesi in ogni tribuna, in ogni agone, in tutte le sedi. Quella posizione, non certo facile, né accettata da tutti, all’interno stesso della Compagnia di Gesù, s'andava però esplicando su molte direttrici. 165 Da "Civiltà Cattolica"2 all'azione politica, da Lovanio alle altre grandi università del sapere moderno, dalle regioni insanguinate del terzo mondo, che anelava ad una teologia della liberazione dall'oppressione, alle stanze felpate e molto comode, dove si decidevano i destini del mondo dei ricchi ed, a maggior ragione, di quello dei poveri. Insomma, così come era accaduto all'ebraismo in cui, accanto alla tradizione più ortodossa s'era venuta instaurando, quasi come portato di una lettura più logica ed intelligente del Creato, una posizione che i suoi stessi aderenti avevano chiamato "Ebraismo liberale" (Progressive Judaism), , agli inizi di questo secolo, si assiste contemporaneamente, in campo cattolico, ad un fatto nuovo. Si vuole qui far riferimento al nascere ad allo svilupparsi di posizioni, all'interno della Chiesa cattolica, che non si definiscono esplicitamente liberali, per non cozzare di colpo, contro la visione comune, ed ormai esausta sul piano delle idee, del Cattolicesimo, che, dal Concilio di Trento aveva condotto la Chiesa fino al Vaticano I . Tali posizioni hanno però chiaramente le stigmate dell'idea liberale, ricercando esse la libertà e la realizzazione dell'uomo anche nella sua civiltà e non solo nella sua vita ultraterrena. Naturalmente questo modo nuovo d'intendere il Cattolicesimo ha suscitato non poche resistenze, tra cui, ultima, quella, aperta, di cui fu, a suo tempo, portabandiera il vescovo francese Marcel Lefebvre. Costui dette vita al movimento di contestazione del Vaticano II, dal nome emblematico "Pro fide catholica", comunemente definito “movimento tradizionalista“. Egli però finì sospeso "a divinis"3 nel 1977, per la pretesa contraddittoria d'essere più assolutista del Papa, dopo aver sostenuto, sul piano teorico, la necessità dell'assolutismo papale. Ma il nemico più subdolo, di quello che abbiamo chiamato il Cattolicesimo liberale, s'annidava, e s'annida, nella particolare forma mentis con cui vengono forgiati i sacerdoti cattolici. Questo è stato il frutto di due millenni d'obbedienza, e di quattro secoli di dottrina, che dell'obbedienza faceva il proprio cardine e la propria necessità primaria. È talmente inusuale un prete, che non faccia dell'obbedienza la sua prima virtù, che, ove questo avvenisse, quel prete scadrà La rivista bimestrale dei gesuiti. La sospensione canonica “ dagli atti divini “ del culto priva il sacerdote che vi è incorso della possibilità di esercitare le proprie funzioni. 2 3 166 facilissimamente nella contestazione, quando non nell'aperta ribellione, ponendosi così fuori dell'Ecclesia. Solo la Compagnia di Gesù forgiava uomini, la cui duttilità mentale fosse effetto non dell'abitudine all'obbedienza, ma della facoltà a far ben funzionare un cervello allenato al ragionamento. Solo un seguace di Sant'Ignazio poteva correlare il dubbio su una particolare idea, con l'incrollabile certezza della sua totale aderenza alla fede, cioè alla convinzione assoluta di un destino per l’uomo, chiaramente definito dal Cristo, nel momento in cui Egli aveva individuato Dio come padre. Solo un Gesuita poteva usare il dubbio, sempre "ad maiorem Dei gloriam". Ma è tempo di tornare alle vicende che il nostro Tommaso stava vivendo. Così, quando, nel corso di quella famosa conferenza, in cui si discutevano le possibili configurazioni che potevano dar vita all'idea dell'Europa, Tommaso fu incrociato da un misterioso ed elegante signore, che pareva conoscere tutti e tutti sembravano ricambiare, il giovane vescovo stette al gioco. Effettivamente si sarebbe potuto ritenere che l'incontro fosse del tutto casuale, uno di quei mille approcci che si fanno molte volte al giorno, tra chi vive in un determinato ambiente sociale. Anche il discorso non s'era allontanato dalle battute banali che infarciscono tali occasioni, eppure l'invito per l'indomani, in un tranquillo ed aristocratico club, al riparo più completo da occhi indiscreti, fu subito accettato. Dopo le prime battute di circostanza, l'interlocutore di Tommaso si scoprì: "Eccellenza, come Lei avrà certamente intuito, il mio compito è quello di contattarLa, per aprire un canale assolutamente fuori dai canoni. Il mio Istituto ha riconosciuto in Lei l'elemento idoneo a far pervenire alcune richieste alla sua organizzazione; richieste che giungano al vertice senza che l'intera linea di trasmissione ne sia informata e senza dare alcuna veste d'ufficialità alle nostre chiacchierate. Il punto è questo. Dopo che il vostro Capo polacco ha posto così gravi difficoltà alla politica del mio Paese, in occasione della crisi in Polonia, giungendo anche a minacciare di lasciare il suo incarico a Roma per mettersi alla testa dei rivoltosi polacchi, adesso egli manda segnali di segno opposto. 167 Il Papa di Roma fa intendere di cercare un riavvicinamento, o almeno, di volere un raffreddamento della tensione, tale che si possa giungere ad un modus vivendi, specialmente in Polonia. Abbiamo apprezzato come il vostro rappresentante religioso, il cardinal Glemp, abbia frenato Walesa, imponendogli una condotta responsabile. Il punto è se questa posizione sia dovuta ad una ritrosia nel non tentare ulteriori, pericolose, avventure oppure se essa sia indice di un cambiamento, seppur impercettibile, di rotta. I nostri analisti si sono spaccati esattamente a metà sul problema, per cui la cosa più semplice è chiedere il vostro parere e valutare le relative argomentazioni, senza che questo esca dal nostro ambito e che sia conosciuto da altri ". Se qualcuno pensa di mettere nel sacco un gesuita, costui deve avere molto coraggio e molta faccia tosta. Tommaso non si lasciò coinvolgere minimamente, non mostrò alcun sentimento, mentre il suo animo urlava che il Cristianesimo è amore, amore anche per l'errante, come aveva detto Papa Giovanni, e che la politica della Chiesa era sempre un mezzo, per portare la buona novella. La sua risposta fu un capolavoro di diplomazia: "Riferirò". La mattina successiva, come ogni mattina, mentre si recava dal Cardinal Van der Groe, Tommaso ripassava mentalmente la sequenza degli avvenimenti per dare le novità al suo capo. Invece, mentre baciava l'anello come faceva, per obbedienza, ogni volta che si presentava al suo Primate, egli si sentì dire: "E allora, hai combinato qualcosa con il capo del KGB per gli affari europei, il generale Kirov?". Anche questa volta, di fronte alla dimostrazione d'efficienza che gli veniva data, Tommaso non mosse un muscolo: "Ho un messaggio personale per la Segreteria di Stato". "Bene, Roma t'aspetta; è tanto che tu non vai “ ad Limina “ 4. “Ad limina Apostolorum “, alle soglie (alle tombe) degli Apostoli (Pietro e Paolo) cioè a Roma. 4 168 CAPITOLO XVI CAPUT MUNDI Non era la prima volta che Tommaso si recava alla sede di Pietro, al centro della Cristianità. Sotto il piccolo executive che una multinazionale metteva generosamente, e, a ben pensarci, un po’ misteriosamente, a disposizione degli uomini che contano e che lavorano per la Segreteria di Stato nell'Europa del nord, scorreva la sagoma inconfondibile della città eterna, Roma. Dopo la pioggia sottile di Bruxelles, la sfolgorante primavera romana sembrava inebriare del proprio profumo fin all'interno del piccolo aereo, che s'apprestava ad atterrare a Ciampino, aeroporto alternato della capitale italiana. Nella saletta VIP di quell’aeroporto l'attendeva un giovane minutante 1 della Segreteria di Stato, in abiti civili. Egli sbrigò in un attimo le formalità burocratiche e s'incaricò di scortarlo fino alla macchina che li avrebbe portati in Vaticano. L'auto percorreva velocemente, per quanto lo permettesse il traffico intenso, la strada verso Roma. Sui bordi, oltre la striscia di sicurezza, grandi cespugli di oleandri, variamente colorati, sembravano vistosi mazzi di fiori messi in onore degli ospiti che s'apprestavano ad entrare nella città' eterna. Tommaso si lasciò sfuggire un sospiro: "Che bella accoglienza! Roma è sempre una meta desiderabile". Il giovane, che l'aveva ricevuto all'aeroporto, e che ora era alla guida della grossa berlina blu, con la quale si stavano dirigendo alla loro destinazione, sorrise, come se il complimento fosse stato rivolto a lui. Funzionario laureato, al gradino iniziale della carriera nelle varie congregazioni della curia; il nome viene dal compito di redigere le minute delle lettere e dei documenti che verranno emessi dalla congregazione. 1 169 "Questo e nulla, Eccellenza, se Ella vuol vedere un ingresso a Roma veramente eccezionale, la posso accontentare senza allungare la strada". Così, senza attendere l'assenso del suo ospite, girò al primo incrocio, sulla sinistra. Dopo pochi metri l'auto imboccò una strada, evidentemente molto antica, con il fondo composto da grosse pietre levigate. Il traffico era svanito come per incanto; la strada s'inoltrava in un paesaggio campestre costellato di ruderi e d'antichi reperti, che avrebbero fatto la felicità di qualunque archeologo. La campagna, quasi a render più affascinante la scena, esplodeva nei colori, che nessun potente della terra avrebbe mai saputo imitare. Il silenzio avvolgeva la scena di un'atmosfera irreale. Tommaso non poté fare a meno d'esclamare: "È splendido; dove siamo?" "Eccellenza, questa è l'Appia antica, la "regina viarum", la strada più importante dell’antica Roma. Su questa strada troveremo importanti vestigia: la tomba di Cecilia Metella, quella degli Scipioni, la chiesetta del "Quo vadis?", dove Pietro fu fermato, mentre si stava allontanando da quella che sarebbe poi divenuta la sua città, le catacombe. Ma, soprattutto, questo è uno di quei luoghi in cui si può veramente respirare il profumo dei secoli, l'odore della vita e della morte che ci fa uomini". Il suo giovane, dotto accompagnatore aveva ragione: quel pulviscolo d'oro, che trapassava dagli alti pini, rendeva del tutto irreale una scena che, già di per sé, era magica. Sembrava di rivivere un sogno ad occhi aperti e Tommaso dovette resistere all'impulso sciocco, ma irresistibile, di voltarsi a vedere se stesse arrivando una biga al galoppo. Nè l'incanto era finito, quando rientrarono nel traffico moderno. Di li a poco, pur circondati da un numero impressionante di auto, si trovarono di fronte alle antiche mura di Roma. Poi, proseguendo per splendidi viali, costeggiarono imponenti rovine. "Queste sono le terme di Caracalla" annunciò il suo accompagnatore, che s'era assunto volontariamente il compito di fargli da cicerone. "Adesso facciamo una piccola digressione, perché non si può venire a Roma, senza conoscere quello che Le sto per far vedere". 170 Infatti, di lì a poco, alla fine di un viale maestoso, Tommaso scorse la sagoma di un grande arco di trionfo e, subito dietro, la mole imponente del più rappresentativo monumento romano. "L'arco di Costantino ed il Colosseo - si lasciò sfuggire Tommaso - caro amico, io conosco Roma, ma la ringrazio d'avermi dato la possibilità di rinnovare i miei ricordi. Ritornare nei luoghi sacri di Roma è come ritornare in famiglia, riaffermare con orgoglio: civis romanus sum, sono sempre cittadino di Roma, perché sono figlio della sua cultura". Proseguirono quel tour incantato, reso più emozionante dagli accenni del suo accompagnatore: "Questi sono i fori imperiali. Adesso giriamo per una stretta via in cui si trova il carcere Mamertino, dove fu rinchiuso Pietro, prima della crocifissione. Sopra di noi è la rocca del Campidoglio". Così, di ricordo in ricordo, di meraviglia in meraviglia, arrivarono finalmente al cortile di San Damaso, sul fianco sinistro della basilica vaticana. Quel viaggio, che più che svolgersi nello spazio, sembrava a Tommaso, ogni volta che lo compiva, dipanarsi a ritroso nel tempo, era finito; occorreva rimettersi al lavoro. Lo stesso pomeriggio egli fu ricevuto dal Cardinal Casaroli, il Segretario di Stato. Il piccolo prete, che dal 1979 guidava la Segreteria di Stato vaticana, era fatto della stessa pasta del suo maestro, il cardinal Van der Groe. Entrambi non imponenti, come forse le loro rispettive cariche avrebbero richiesto, divenivano dei giganti quando, con la loro esile voce, con la loro incommensurabile sapienza, con la loro fredda logica, nascosta come una lama sotto l'aspetto dimesso ed innocente, dovevano combattere per la loro fede. Quando poi erano sicuri che il loro interlocutore fosse un fedele collaboratore dell'idea, che quelli come loro stavano imprimendo nel gran corpo della Chiesa di Cristo, abbandonavano anche la posizione dimessa, che era la loro forza nel mondo dei prepotenti. Essi così mostravano la loro vera, dura natura di combattenti indomiti, che, come prima cosa, chiedeva ai loro adepti una dedizione totale, non concedendo neppure il beneficio di un momentaneo abbandono ad un qualche moto di familiarità. 171 "So che Ella, Monsignore, è il più attento servitore dell'opera di Sua Eminenza, il cardinal Van der Groe, mio fratello in Cristo. Conosco i risultati della Sua opera in quella Nazione, e quindi Le faccio credito di una notevole abilità nel condurre gli affari della Chiesa. Ho saputo della ragione del Suo viaggio al soglio di Pietro; ora vorrei conoscerne i particolari". L'immenso tavolo, dietro cui stava seduto, ne rendeva ancora più minuta la figura. Egli appariva senza neppure quel particolare sorriso, per cui andava famoso il cardinal Casaroli, ma con uno sguardo in cui era riflessa tutta la fatica mentale, che era necessaria a quell'uomo per dominare i fatti del mondo, disponendoli in modo che servissero, al meglio, alla politica del soglio di Pietro. Di fronte a quell’Autorità, Tommaso ebbe un momento d'esitazione, non dovuto certo al timore, ma al rispetto. Poi il suo orgoglio intellettuale ebbe il sopravvento: "Eminenza, forse la mia inesperienza diplomatica m’ha fatto sopravvalutare un episodio che mi è accaduto, ma la mia forma mentis m'impone d'avvertire del fatto, chi ha la competenza per valutarlo. Ella saprà poi discernere se mi sono mosso senza ragione o se ne valeva la pena". Quindi, con rapide, ma circostanziate parole, Tommaso riferì ogni particolare che ritenne importante, di quel famoso incontro. Il cardinal Casaroli era il Segretario di Stato, come abbiamo visto, dal 1979, ma quasi tutta la sua vita sacerdotale era trascorsa nella diplomazia pontificia, fin da quando era stato nominato docente d'affari diplomatici all'Accademia Pontificia. Dal 1963 aveva iniziato quella politica d'apertura e di distensione verso i regimi comunisti, prima in Ungheria, poi a Praga e, finalmente, a Mosca nel 1971. Divenuto, nel 1967, Segretario del Consiglio per gli affari Pubblici della Chiesa, il Ministero degli esteri del Vaticano, egli aveva potentemente contribuito a portare avanti quella particolare visione del Cristianesimo che non si rinchiudeva nei propri dogmi, ma che riteneva suo compito essenziale portare ovunque la buona Novella. Questo, naturalmente, s'inseriva nel tentativo di far compiere imponenti progressi a quell'idea, di una sempre più evidente razionalità nei rapporti umani, che, soli, avrebbero assicurato all'Umanità una pace duratura ed un progresso reale. 172 Ora, avvicinandosi al momento in cui stava per compiere la propria opera, dovendo gli uomini della Chiesa cessare dalle loro cariche, quando oltrepassavano i settantacinque anni, il piccolo prete, al vertice della diplomazia della Santa Sede, fatto Cardinale da Papa Giovanni Paolo II, poteva contemplare l'immane opera, che era stata compiuta sotto la sua guida. Il mondo dell'est, l'impero sovietico che, al tempo di Stalin, si domandava con scherno di quante divisioni disponesse il Papa, l'ideologia che aveva espresso il concetto più aspro d'ateismo, considerando la religione l'oppio dei popoli, la struttura politica che aveva imprigionato la componente più mistica delle religioni che si rifanno al Cristo, la Chiesa Ortodossa, ora era disposto a trattare. L’URSS era ora pronta a riconoscere che non di solo pane vive l'Uomo e che “ta metà phisicà“, il mondo oltre il sensibile, non può esser distrutto con uno slogan, ma deve comunque esser tenuto presente, se si vuol procedere sulla strada della razionalità. D'altronde, la sua formazione diplomatica gli faceva esplorare tutte le ipotesi, più o meno plausibili, che potessero inquadrare, nella propria giusta luce, l'episodio riportatogli da quel vescovo del Nord. Fatto irrilevante a prima vista, ma che doveva esser sviscerato in tutte le sue possibili implicazioni, per vedere se si potesse usarlo nella gigantesca partita a scacchi, che si giocava sul piano internazionale. Il vecchio cardinale stette, per un periodo che a Tommaso parve lunghissimo, ad osservarlo, senza vederlo. Egli era tutto preso, nel compito gigantesco di considerare contemporaneamente tutte le variabili che erano a sua conoscenza, quelle che erano probabili e quelle che erano possibili, che dessero un qualche significato logico all'accaduto. La vicenda in sé, era poi chiaramente risibile. Se il Cremlino avesse voluto comunicare con il Vaticano, non erano certo i canali d'informazione che mancavano. Anzi il problema, caso mai, sarebbe stato nel fatto che esistevano troppi canali, il cui rumore di fondo avrebbe potuto nascondere il messaggio in codice che Tommaso aveva riportato, senza evidentemente conoscerne la chiave, né la valenza politica possibile. Neppure l'ipotesi che i sovietici avessero voluto aprire un canale riservato, impenetrabile agli altri soggetti politici che affollavano la scena internazionale, era sostenibile; non era quello il modo, la prassi universalmente usata dalle Cancellerie di tutto il mondo. Che voleva dire, allora? 173 E, soprattutto, come si poteva leggere quell'episodio, nel contesto dell'intera situazione politico-diplomatica? Era possibile che il generale Kirov, una delle menti più sofisticate del KGB, avesse compiuto un'azione stupida, cioè senza senso logico? Finalmente gli occhi del Cardinale sembrarono accorgersi nuovamente del suo interlocutore. La sua attenzione, già concentrata nell'esame di tutte quelle variabili che dovevano servire a render più chiara la situazione, avendo stabilito la propria opinione, ritornava dal mondo del razionale al mondo reale. "Monsignore, se collego quanto da Lei riferito ai fatti che io conosco, debbo esprimere un'opinione, che mi sta divenendo sempre più plausibile. Il mondo comunista sta per entrare in un momento di forte crisi e perciò lancia segnali, che dovrebbero rassicurare i propri avversari. Ma, al tempo stesso, quei segnali possono esser letti come un tentativo di rassicurazione, soprattutto ad uso interno, e, quindi, un indice di debolezza. Proprio nei momenti di crisi occorre esser più aperti possibile, per evitare di far compiere all'avversario mosse inconsulte. Lei tornerà al suo paese e incontrerà il generale Kirov, riferendogli che la Chiesa di Roma non ha nemici, ma solo fratelli che possono sbagliare. Tuttavia essi, pur nell'errore, sono quelli più presenti al nostro cuore. Noi infatti condanniamo l'errore, ma siamo sempre disposti ad aiutare il fratello errante, poiché la nostra scelta di campo è il Cristo e non le mode dell'uomo. Siamo quindi a sua disposizione per portare il bene ovunque sia possibile. Le sembra strano che il massimo della scaltrezza politica coincida con la verità più a lungo proclamata? Se avessi tempo Le farei conoscere le illazioni, dalle più assurde alle più sciocche, che la CIA 2 si permise di fare, sulla politica di Sua Santità Giovanni XXIII, ritenendolo perfino un agente dormiente dell'Unione Sovietica, fatto arrivare al soglio di Pietro per portare innanzi la sua politica. Avveniva questo, solo perché quel Papa santo proclamava, semplicemente e fortemente, le verità che ogni libro, su cui è stampato il Santo Vangelo, contiene. Naturalmente tutta l'intera questione, e le connessioni relative, dovranno esser condotte tra di noi, senza intermediari. Central Intelligence Agency: il servizio segreto di spionaggio statunitense, che opera all’estero. 2 174 Nemmeno il suo Primate, il quale ha l'intelligenza e l'avvedutezza per non intralciare un lavoro delicato, deve sapere; così vogliono coloro che conducono il gioco e noi ci adeguiamo. Per ora è tutto. Sappia solo che Ella è precettato per essere usato, come dice l'Ordine, ad maiorem Dei gloriam; del resto Ella dovrebbe esser uso ad obbedire a quest'ordine. Mi saluti caldamente il mio fratello, il Cardinal Van der Groe". Non c'era altro da dire, per cui Tommaso, dopo aver baciato l'anello dell'alto presule, si ritirò lasciando quel piccolo prete alle prese con un altro problema, che aveva già catturato tutta la sua attenzione. La ragione principale del viaggio era stata soddisfatta; ma abbandonare Roma in tutto il suo splendore, per tornarsene nella nebbia e nel freddo, non era una prospettiva seducente. Tommaso aveva fatto il proprio dovere; ora egli si poteva prendere un sia pur breve periodo di vacanza per godersi quelle meraviglie, che ad un italiano sembrerebbero cose ovvie, ma che ad un uomo che vive sulle sponde del mar del Nord sembrano autentici miracoli, degni del Paradiso. Per aiutarlo in questa sua decisione, l'inconscio gli venne in aiuto, rammentandogli quanto gli aveva detto il dottor Bubber e cioè che a Roma viveva un uomo, il quale avrebbe potuto diradare, in qualche modo, il mistero della sua origine. Difatti, guardando nel suo taccuino, ritrovò un indirizzo ed un nome: dottor Mario Funaro, vicolo delle grotte a campo dei fiori. Così, dopo qualche rapida informazione, si risolse a chiedere aiuto ad un religioso, che teneva i contatti con la comunità ebraica di Roma, al quale era stato indirizzato da uno dei padri che gestivano l'albergo per religiosi, in cui egli alloggiava. Il vecchio frate, di un ordine mendicante, conosceva gli ebrei romani uno per uno, sia perché anche lui era romano, nato nella zona in cui, per antica tradizione, abitava la comunità ebrea, sia perché durante la guerra aveva salvato molti di loro nascondendoli nelle più svariate e, qualche volta, perfino pittoresche maniere. Famosa era rimasta, nel ricordo non solo degli ebrei di Roma, quella sua impresa audace e beffarda, in cui egli occultò, con la complicità della maîtresse del luogo, sua fedele benefattrice, tre belle ragazze ebree negli scantinati del postribolo, che un tempo esisteva in via Mario dei fiori, salvandole da una fine terribile. Il frate conosceva bene l'indirizzo ed anche l'uomo che vi abitava. 175 Si trattava di un vecchio rabbino ebreo, che era tornato nel luogo della sua prima giovinezza, come spesso fanno gli uomini, quando sentono approssimarsi la fine della propria esistenza e non hanno altri legami che li trattengano. Dopo una rapida telefonata, fu stabilito un appuntamento per la sera stessa; il frate e Tommaso si sarebbero incontrati sotto il monumento eretto a Giordano Bruno, in Campo dei fiori, per recarsi poi dal rabbino, che li attendeva nella sua casa. L'albergo di Tommaso non era molto distante ed il vescovo, accompagnato da quel famoso minutante, che era stato il suo cicerone dall'aeroporto in città, si concesse un pomeriggio per visitare la parte vecchia di Roma. La città eterna deve il proprio appellativo al fatto che, per più di duemiladuecento anni, ininterrottamente, essa è stata al centro dell'interesse mondiale. Ma il periodo che più la caratterizza, quello che ha fatto Roma così come noi la conosciamo, è stato il Seicento, l'apogeo della civiltà del Rinascimento italiano. Quella, infatti, fu l'età, in cui erano già vivi ed operanti, gli elementi che avrebbero portato altrove il baricentro della politica, e che avrebbero innescato un rapido declino della Roma dei Papi. Nondimeno, nel campo dell'arte, quasi come ultimo portato di una civiltà che stava per tramontare, in quel secolo furono raggiunti i picchi che si chiamarono Michelangelo, Raffaello, Bramante e tutto il cinque/ seicento romano. Del resto, ogni epoca storica, ogni civiltà, raggiunge il proprio culmine quando l’arte, espressione più tangibile di quella civiltà, tocca il proprio apogeo; ma quasi sempre, quando l’arte è al culmine, sono, già da tempo, presenti ed operanti, nella civiltà che l’ha prodotta, i germi che la porteranno alla dissoluzione. Sembra quasi che l’arte sia l’ultimo, estremo respiro di una civiltà : essa vuol lasciare, nella storia, il ricordo di se e, per questo costruisce un monumento che ne tramandi il suo lato migliore; così, come un uomo, quando pensa di costruirsi una tomba, ricerca un epitaffio, che lo ricordi al meglio. Tommaso ed il suo angelo custode passarono parecchie ore nella zona che racchiude la fontana di Trevi ed il Pantheon, la piazza Navona, costruita sull'antico agone dello stadio di Domiziano, e la colonna Traiana, eretta in onore dell'imperatore romano che sconfisse i Daci. E poi la Borsa, unica camera al mondo dedicata agli affari economici, che abbia trovato la propria sede in un antico ed imponente tempio romano, il tempio di Adriano. Palazzo Farnese ed i templi di età repubblicana di largo Argentina. 176 Il Campidoglio, simbolo del potere civile e la non lontana mole della cupola vaticana, che si stagliava dai giardini del Campidoglio, oltre il Tevere. Finalmente, mentre il cielo si colorava di un rosso incredibile e le rondini e gli altri uccelli facevano a gara nel tentare di superare con i loro schiamazzi il rumore del traffico, il giovane accompagnatore mostrò a Tommaso la chiesa del Gesù, la casa madre del loro ordine. La lunga, minuziosa visita, ripetuta ad ogni sua venuta a Roma, ogni volta rinnovava in lui il senso della maestà del compito, che l'Ordine trasmetteva ai suoi "militi", attraverso la maestosità delle proprie strutture barocche. Esse schiacciavano l'osservatore, imponendogli una sensazione d'ineluttabilità, di grandezza che trascende il singolo, ma che ha bisogno di lui, per imprimere il proprio segno nel tempo. Poco dopo, la piazza del campo dei fiori, il monumento a Giordano Bruno, il martire del libero arbitrio; il prete che non volle coniugare il dubbio con la fedeltà ad un'idea, per quanto grande essa fosse. Mentre attendeva, sotto il suo monumento, l'arrivo del frate che l'avrebbe accompagnato all'appuntamento, Tommaso non poté trattenersi dall’argomentare su di una constatazione. Il dubbio del libero arbitrio e la fede più totale, quella che impone ai gesuiti l'aderenza più assoluta, non sono distanti che poche centinaia di metri; un'inezia, in quella capitale dell'animo umano. S'era ormai fatta notte, quando giunse il frate, e nella zona accadde un fenomeno curioso: la strade, prima piene di gente e di traffico, all'improvviso si vuotarono di colpo, secondo un'usanza che i suoi accompagnatori descrissero come tipicamente romana. Era l'ora della cena e tutti rientravano nelle loro case. L'atmosfera, prima pittoresca, divenne improvvisamente magica: i palazzi cinquecenteschi si stagliavano nel buio, malamente rischiarati da fioche lampadine, le luci al neon dei negozi s'erano spente quasi all'unisono. Le targhe marmoree, memoria del tempo che fu, che minacciavano pene severissime e frustate per coloro che avessero "fatto monnezzaro", cioè avessero gettato immondizia all'angolo delle strade, erano numerose in tutta l'antica zona visitata quel pomeriggio ed in precedenza erano state lette con un ironico sorriso. Ora, in quegli angoli bui, esse davano un senso d'inquietudine, illogico ma presente, quasi che stesse per sopraggiungere un pericolo imminente. 177 Così i tre s'affrettarono a percorrere quel lungo e tortuoso vicolo, che era la prima stradina, appena usciti dalla piazza, e si fermarono davanti ad un portoncino stretto. Erano arrivati. Dopo aver bussato fu aperta la porta e s'introdussero per una ripida scala, resa strettissima da una serie di antiche colonne, inglobate nel muro della scala stessa. Al terzo piano entrarono in un appartamento. Tutto l'insieme rammentò a Tommaso l'abitazione del dottor Bubber: l'onnipresente stella di Davide, il quadro raffigurante la tavola della Legge, il candelabro a sette braccia, antiche foto inserite nei quadri per rammentare persone scomparse ormai da tempo, molte delle quali, forse, distrutte dalla follia che consumò lo shoah. E poi libri, libri dappertutto, sui tavoli, sulle sedie, su ogni superficie che potesse sorreggerli. Fu presentato ad un vecchio, dall’aspetto di un antico saggio della casa d’Israele. Costui fece per alzarsi dalla propria sgangherata poltrona, cui lo costringeva la vecchiaia ed una salute ormai malandata, ma Tommaso, accostandosi premurosamente a lui, lo prevenne. "Eccellenza - iniziò il vecchio- mi dice il frate, che l'ha accompagnata, che Ella viene da molto lontano per vedermi. In che cosa posso esserLe utile?" Tommaso gli rammentò il comune amico, il dottor Bubber, e gli fece tornare alla memoria il motivo che l'aveva condotto da lui: avere notizie della sua famiglia. Il vecchio, a quelle parole, improvvisamente si scosse; si raddrizzò faticosamente e disse: "Eccellenza, la prego di seguirmi nel mio studio, debbo parlare a quattr'occhi con lei". Quando furono soli, nella stanza attigua, il vecchio, con fare divenuto circospetto, cominciò ad interrogarlo: "Dunque, Lei è effettivamente Mario Ferrara, l'ultimo superstite di una famiglia di grandi rabbini. Per caso non ha con se una medaglia che Le lasciarono i suoi sventurati genitori, quando l'abbandonarono in Francia, prima d'esser catturati dalle SS e spediti al campo di concentramento di Birkenau, il secondo e più terribile Aushwitz ?". Tommaso non s'era mai separato da questa reliquia, da quando gliel'aveva resa suo "zio", l'abbè Pascal. Se la tolse dalla catenina del collo, ove normalmente la teneva, insieme con un grande crocifisso di legno, appartenuto a sua "madre", sembrandogli giusto che il ricordo delle due donne fosse così riunito, e la diede al vecchio. 178 "È proprio questa - disse il vecchio con la voce velata dal ricordo e dal dolore - così come me la descrisse il Suo povero padre, il rabbino Guido Ferrara, prima che quelle belve lo distruggessero fisicamente, ma non spiritualmente, lì, in quell'inferno della ragione umana. Suo padre riuscì a superare l'angoscia della divisione dalla propria moglie adorata, ancora convalescente del parto difficile da cui nacque Lei, in condizioni tanto terribili. Riuscì a vincere lo strazio, quando seppe fortunosamente, da un'ebrea che era stata presente, che sua moglie era morta, come morivano tutte le persone che non erano fisicamente capaci di sopportare un pesante lavoro. Riuscì a non impazzire, vedendo come veniva distrutta la propria gente. Ma non riuscì a sopportare il modo scientificamente barbaro con cui si tentava, e si era capaci, di far scadere la dignità umana ad un livello inferiore perfino a quello delle bestie più immonde. Eravamo diventati amici, se pure un sentimento poteva sopravvivere in quell'inferno, in cui s'assisteva al degrado più vile che possa esser osservato nella natura umana. Uomini inebetiti che si producevano mutilazioni per una sigaretta, ragazzi che si prostituivano nelle maniere più odiose, solo per entrare nelle grazie dei loro aguzzini, madri che avrebbero venduto i propri figli, se ancora li avessero avuti vicini. Insomma, i nostri aguzzini avevano raggiunto il proprio scopo. Noi avevamo perso la nostra dignità, eravamo proprio come ci vedevano loro: forme inferiori di esseri subumani. Questo stroncò suo padre. Egli non poteva ammettere che si potesse abdicare in quel modo alla natura umana da parte delle vittime, né che esistesse un peccato così grande, da parte dei carnefici. Molte volte il popolo di Israele era stato sottomesso alla sferza dell'Onnipotente, ma mai quelle sventure avevano fatto dubitare della razionalità del Creato e quindi del suo Creatore, come accadde per lo shoah. Uomini incolpevoli dovettero conquistarsi il diritto di vivere, lottando con ogni mezzo, anche il più sudicio, anche il più immorale, contro il fratello, incolpevole anche lui, nel tentativo d'ingraziarsi i propri carnefici per cercare di sopravvivere, anche se con la morte nel cuore, nell'animo, nel sentire e nel pensare. Questa condizione, terribile per la mente dell'uomo, ha avuto anche un nome scientifico: sindrome di Stoccolma, per definire 179 l'ambiguo rapporto tra la vittima ed il suo aguzzino, rapporto che supera le barriere mentali. Una volta instaurato, esso si mantiene inalterato, anche quando non esiste più la costrizione inumana che l'aveva generato. Di questo morì Suo padre. Uomo di grande dottrina ma soprattutto spirito d'eccezionale levatura morale, egli non poteva concepire una così grande fragilità umana. Egli era pronto a morire, vedeva chiaramente il pericolo, ma non poté sopportare la visione dell'immensa debolezza dell'uomo, di colui che aveva osato proclamarsi re e fruitore di quell'Universo, che era stato creato per lui. Chiaramente, questa considerazione metteva in crisi tutto il suo pensiero religioso, tutta la visione complessiva del perché della vita. A lungo parlammo di questo. Spesso egli mi confessò che la sua religione, anzi, come diceva lui, il suo modo di concepire la vita, gli era d'impaccio, perché gli impediva di suicidarsi, non per sfuggire al male, ma per vedere finalmente perché questo male mostruoso si fosse verificato, una volta nel seno di Abramo. Suo padre affermava di desiderare di morire, per scoprire ciò e ristabilire la sua religione nella pienezza della sua capacità di comprensione. Almeno in questo, fu accontentato. Fu trovato una mattina, steso nel sordido soppalco che era il suo posto branda, con la testa ed il braccio sinistro avvolti da un pezzo di camicia su cui aveva scritto lo SHEMA, e le altre dichiarazioni di fede, con il proprio sangue, che aveva in precedenza raccolto in una boccettina. Non aveva ferite visibili, non potevamo procurarci veleni, e poi, la sera prima, m'aveva dato l'ultima testimonianza della sua impossibilità di suicidarsi e della sua ardente aspirazione alla morte, intesa non come liberazione ma come anelito di conoscenza, ultimo tributo di una grande mente alla sua dignità. Il rabbino Guido Ferrara era riuscito a morire senza suicidarsi, per compiere un atto d'amore verso la razionalità della sua fede, che sentiva minacciata dall'irrazionalità di quanto stava succedendo, per riuscire ad avere finalmente un perché, su quella follia che metteva in crisi le sue convinzioni. Naturalmente non fu fatta alcuna autopsia ed il suo corpo fu gettato in una fossa comune. Ma, mentre io, suo vicino di branda, compivo quel gesto tristissimo, piangendo nel mio animo, perché non potevo nemmeno rendere espliciti i miei sentimenti, all'improvviso, 180 proprio nel momento in cui scaricavo quel povero corpo, la mia mente fu attraversata da un pensiero di gioia. Quella era polvere che tornava alla terra, ma il mio amico non era stato vinto. Il suo viso, finalmente sereno, e la consapevolezza di quello che era accaduto furono la molla potente che dette a molti di noi che l'avevano conosciuto, la forza di portare al massimo il nostro istinto di conservazione, fino a superare la prova. Vede, Eccellenza, come Lei sa, nella nostra religione noi non abbiamo la figura del santo, come accade nella sua nuova religione. Noi onoriamo coloro, tra gli uomini, che hanno saputo testimoniare la propria fede, con il titolo di Giusto, che riassume, in massimo grado, la capacità d'esser fedeli alle proprie più radicate convinzioni. In questa maniera noi consideriamo Suo padre un Giusto della stirpe di Abramo, ma Lei lo può considerare un Santo, o, come dice il vostro catechismo, un testimone della religione dell'Unico Dio. Ora debbo farle una confidenza. Dopo la guerra, scampato miracolosamente all'inferno dei campi di sterminio, io m'interessai a Lei e cercai a lungo di rintracciarLa. La ragione del mio interessamento non fu solo il desiderio di cercare il figlio di quell'uomo, il cui esempio mi salvò la vita, per raccontargli quanto fosse stata splendida l'esistenza di suo padre, anche se essa s'era conclusa nell'inferno di Birkenau, anzi, proprio per questo. Egli aveva saputo testimoniare la grandezza dell'animo umano, quando è sorretto dalla fede nell'unico Dio. Avevo un altro compito da compiere, un compito che avevo giurato d'adempiere al mio amico e maestro, un compito che tra poco Le rivelerò. Sapevo che la Sua famiglia era stata costretta ad abbandonarLa, affidandoLa alle cure di un prete cattolico nella Francia del Nord. Sapevo anche che sul Suo corpo non era stato praticato l'Amilah, il rito del riscatto, la circoncisione rituale che rammenta, al popolo del Patto, l'alleanza con il suo Dio; ma non sapevo altro che potesse servire a rintracciarLa. Così dopo i primi, confusi anni del dopoguerra, trascorsi nell'attesa che qualcuno venisse spontaneamente a parlare di Lei ai vari comitati, che stavano organizzandosi nel seno dell'Ebraismo, per facilitare le riunioni di coloro che la guerra e la follia nazista avevano separato, io stesso decisi di mettermi personalmente sulle sue tracce. 181 L'unico, debole, indizio era stato una richiesta anonima d'informazioni sulla sorte dei coniugi Ferrara, pervenuta al centro di documentazione ebraica di Vienna, inoltrata qualche tempo prima da parte di Autorità cattoliche. Ad esse era stato risposto che i coniugi Ferrara erano entrambi morti nel campo di concentramento di Birkenau e che non si conoscevano parenti, né prossimi né lontani. Però se qualcuno aveva chiesto queste notizie, era evidente che esse interessavano qualcuno e questo qualcuno non poteva essere se non colui che ebbe in custodia il figlio dei coniugi Ferrara, cioè Lei. Ero intenzionato a fare il giro di tutti i preti che erano presenti nel 1940 nella Francia del nord, e così incominciai a fare. Avevo trovato perfino altri due casi di bambini ebrei, ormai quasi uomini, che non erano stati denunciati ai comitati israelitici, ma uno era troppo grande per essere Lei e l'altro era pur esso circonciso. Un giorno però fui presentato al prevosto di una canonica di Epernay, nel nord della Francia, che sembrò molto interessato a quanto andavo cercando. Giocando d'azzardo, feci intendere a quel prete che il ragazzo che cercavo era l'erede di una grossa fortuna. La reazione del prevosto mi convinse che ero sulla buona strada: " Il ragazzo non ha bisogno di nulla, solo d'essere lasciato in pace, se i suoi parenti sono morti". La discussione che ne seguì divenne tempestosa. Il prevosto, dopo molti tentativi ed infinite reticenze, confessò che, effettivamente, lui aveva ricevuto quel bambino. Ora, dopo tanti anni, ormai ragazzo, il figlio del rabbino Ferrara, educato nella fede dei gentili, studiava nel seminario di Montmirail, per divenire un prete dell'ordine dei Gesuiti. Il vecchio prete, saputo che io ero un rabbino, mi scongiurò di non costringere quel giovane, che ormai amava come un figlio e che aveva fatto passare come figlio della propria sorella, a conoscere la verità; essa sarebbe potuta essere fatale per il suo equilibrio interiore. Egli mi gridò che, se pure io fossi portatore di una grande ricchezza, quella ricchezza non sarebbe servita al giovane seminarista, che aveva scelto quella condizione liberamente e senza alcuna costrizione, nemmeno morale, per adeguarsi alla vita dello zio, da lui ritenuto la propria guida spirituale. Mi scongiurò, facendo appello alla comune posizione sacerdotale per lo stesso Dio, sia pur con riti diversi, di non distruggere la vocazione religiosa di un giovane che, anche lui, si preparava a servire Dio. 182 L'evidente dimostrazione della sua buona fede ed il riconoscimento delle prove che dimostravano, in ogni caso, come quel prete aveva cercato la famiglia del bambino a lui affidato, smorzarono il mio furore, senza però placarlo del tutto; perché, d'altronde, il suo preciso dovere sarebbe stato quello di dire tutta la verità al ragazzo. Io, a mia volta, confessai che non v'era alcuna ricchezza materiale, ma solo la memoria di una grande ricchezza spirituale, un ricordo di cui andar fieri e, soprattutto, con cui arricchirsi nell'animo. Alla fine concordammo che il prete avrebbe detto tutta la verità al ragazzo, per lasciarlo arbitro del proprio destino, ormai sicuro che nessuna ricchezza avrebbe intralciato la sua vocazione. Ci lasciammo rappacificati, con la promessa di rivederci in tre. Dopo qualche giorno seppi che l'abbè Gerard Pascal era morto, stroncato da un infarto e che il suo figlioccio, il seminarista JJ Fernays, Lei, aveva abbandonato il seminario. Seguii il Suo percorso spirituale per qualche tempo, ma quando m'accorsi che la Sua vita aveva imboccato la strada dell'ateismo scientifico, pensai d'aver fallito il mio compito e mi disinteressai di Lei. Solo molto tempo dopo, parlando con il rabbino Bubber, seppi quello che Le era accaduto e come ne era uscito. Ringraziai l'Onnipotente che aveva riportato, pur mediante un grande dolore, la Sua mente sulla strada della verità. Ora posso finalmente adempiere al mio compito, quello affidatomi da suo Padre, il rabbino Guido Ferrara, di venerata memoria. La medaglia, che Ella mi ha fatto vedere, ha inciso una stella di Davide, a sei punte. Su ogni punta è riportata una cifra o una lettera. Mettendo un ferro, uno spillo, all'interno del foro centrale e ruotando la medaglia, Lei sentirà un fermo. Iniziando a leggere quella lettera o quel numero che, una volta avvertito il fermo, si troverà nel punto più alto della medaglia, Lei avrà una sequenza di numeri e lettere. Quella sequenza, e l'esibizione della medaglia presso la banca Morgan di Londra, la faranno entrare in possesso dell'archivio della Sua famiglia, una famiglia importante e stimata della Diaspora, in modo che Ella possa così conoscere "Chi fur li maggior tui", come dice il nostro grande poeta". CAPITOLO XVII 183 A RITROSO NEL TEMPO "Caro figlio che stai per nascere se leggerai questa lettera significherà che l'Onnipotente non m'avrà dato la gioia di vederti. Se, invece, come è mio ardente desiderio, sarà destino che noi potremo riunirci, avrò ben altro tempo e disposizione, per insegnarti quello che, ora, frettolosamente, ti farò conoscere. Qualora noi tre, te, tua madre ed io, non riuscissimo a sfuggire alla barbarie che sta per sommergere l'Europa, ho preso delle precauzioni affinché, almeno tu, possa scampare alla sorte che sarà riservata ai tuoi genitori. Tu, almeno, ti salverai. Qualunque sarà il nostro destino, siano rese grazie all'Onnipotente. Da quando, un mese fa, la mia dolce Susanna, tua madre, mi ha confidato d'essere in attesa di un figlio nostro, la mia prima preoccupazione è stata quella di cercare una via di fuga dalla ferocia nazista. Ma, nel contempo, dovevo adempiere ad un altro grave compito: preservare la memoria degli uomini che ci hanno preceduto e di cui noi siamo il risultato. Per questo, già da parecchio tempo, da quando la notte dei cristalli1 ha tolto ogni residua speranza di poter trovare una soluzione razionale al problema della convivenza degli Israeliti tra i gentili del III Reich, ho affidato in mani sicure le antiche carte, che sono l'unico, grande patrimonio della nostra famiglia. In esse troverai il perché del nostro carattere, la necessità che gli uomini della nostra famiglia servano l'Onnipotente con la mente e con il cuore. Infatti, servirlo solo con la mente impedisce d'innalzarsi alla Sua volontà, mentre servirlo solo con il cuore fa torto allo spirito divino, di cui ogni uomo è testimone e prova reale. Invierò questa mia lettera alla banca, che già conserva quelle carte che ti ho detto, perché ti sia consegnata, se e quando sarà possibile. Già altre volte, nel corso dei secoli, la nostra famiglia è ricorsa a quest'accorgimento, per vincere le difficoltà del momento e 1 Va sotto il nome di “notte dei cristalli “ la notte tra il 9 ed il 10 novembre 1938 in cui, nella Germania hitleriana, ebbe luogo la prima grande persecuzione organizzata contro gli Ebrei. In quella notte furono incendiate o distrutte 195 sinagoghe, 815 botteghe, 171 case di abitazione di Ebrei. Gli Ebrei uccisi furono 36 , quelli arrestati 20.000. Il nome proviene dal gran numero di vetrate infrante. dal RIZZOLI LAROUSSE Rizzoli editore. 1 184 perpetuare, così, il ricordo e la necessità della propria missione nel mondo. Qualora mio figlio non possa, per qualunque ragione, adempiere a questo compito e ritirare queste carte, con le modalità che io ho stabilito, esse andranno, fra cinquanta anni, e cioè, nel 1990 dell'era volgare, alla Word Union for Progressive Judaism, Palace Court, 51-London W.2 (UK). Prego gli uomini eminenti che avranno il compito d'esaminarle, di renderle note, affinché gli Ebrei di tutto il mondo, anzi gli uomini di tutto il mondo, possano conoscerle e capire quanto è stretto il sentiero che occorre percorrere, per potersi avvicinare alla verità. Ma prego innanzitutto l'Onnipotente di dar modo a mio figlio, di scampare dal pericolo che lo minaccia e di entrare in possesso di un così nobile, ma pesante fardello. Solo tu, figlio mio, dopo averle attentamente studiate e soppesate, sarai arbitro di decidere cosa fare della conoscenza che mi accingo a trasmetterti. Ora addio, figlio mio; forse io non conoscerò il tuo volto e la tua voce, ma sono sicuro di riconoscere il tuo Spirito, quando c'incontreremo nel seno di Abramo. tuo padre Uno strano sentimento, o meglio una miscela di sensazioni diverse, emozione e rabbia, interesse e tremore, dolcezza e rimpianto, aveva invaso l'animo di Tommaso, quando poté finalmente leggere quella lettera, contenuta in una busta, chiusa con la ceralacca. Insieme con questa, gli avevano consegnato, alla banca Morgan di Londra, una grossa cassa, chiusa con un grande lucchetto di cui avevano fornito la chiave, anch'essa racchiusa in un'altra busta, piena di firme, timbri e ceralacca. Tutto s'era svolto come gli aveva detto il vecchio rabbino incontrato a Roma, ma l'emozione e l'interesse di quella scoperta non erano state soddisfatte finche egli non giunse con quel carico, per lui prezioso, nella sua stanza di Lovanio. Lì, in quello spazio chiuso che era la sua casa, cominciò un triste pellegrinaggio a ritroso nel tempo, alla ricerca delle sue radici, riportando alla superficie un dolore, che era affondato nel proprio inconscio. Nella cassa v'erano anche delle fotografie ingiallite, e così Tommaso poté conoscere i lineamenti nobili di colui che fu suo padre e la dolce bellezza di chi lo mise al mondo. Altre foto, ancora più antiche, gli mostrarono i volti dei suoi nonni e d'altri parenti. 185 Da tutte quelle foto si poteva riconoscere un'atmosfera di calma e di compostezza, non disgiunta da un sicuro senso della famiglia. Una famiglia che, benché evidentemente non avesse mai raggiunto la ricchezza, aveva però avuto un agiato tenore di vita, almeno fino alla fine del secolo diciannovesimo, che era il periodo più lontano, in cui si spingevano le foto più antiche. Ma la cassa conteneva altro. Tommaso ne estrasse un rotolo, risalente all'XI o XII secolo della nostra era, di una rarissima Bibbia, evidentemente appartenuta ad un rabbino medioevale. Essa comprendeva il canone dei libri sacri della religione ebrea, la Torah: il Pentateuco, il Libro Sacro che i rabbini chiamano tradizionalmente "i cinque quinti della Legge", i "Profeti" e gli agiografi. Vi erano poi le preziose edizioni dei due Talmud, il babilonese e quello gerosolimitano, stampati a Venezia, nella prima metà del Seicento. Altre meraviglie vennero fuori da quella cassa, che nascondeva tesori, almeno dal punto di vista di un bibliofilo o di uno storico. Vi erano ancora libri: alcuni, antichissimi, in folio, del filosofo, astronomo e matematico ebreo provenzale Lewi Ben Gereshon, il primo matematico che compose un trattato di trigonometria (“De sinibus, chordis et arcubus”) apparso nella cultura occidentale, nella prima metà del quattordicesimo secolo. Sempre di Ben Gereshon, ovvero Leone di Bagnols o Maestro Leone, come era chiamato dai gentili del suo tempo, vi erano altri preziosi libri manoscritti: il trattato "De numeris armonicis" e la versione integrale del "Mihamot Adonai" le "Lotte di Dio", di cui, finora, si credeva perduta l'intera parte riguardante l'astronomia. Inoltre Tommaso trovò un massiccio volume, il “De Judaeorum actis“, anch’esso attribuito a maestro Leone, di cui però egli non conosceva assolutamente l’esistenza. Vi era poi un manoscritto, una "Storia di una famiglia ebrea", redatta alla fine dell'ottocento da suo nonno, che portava lo stesso suo nome, Mario Ferrara, ed una serie di libri e testi, alcuni molto antichi. Vi erano infine libri ed articoli, scritti da suo padre, Guido Ferrara, sul finire degli anni venti e nei primi anni trenta. In quei libri si discuteva dottamente sul concetto di ebraismo liberale o progressivo, al tempo in cui furono gettate le basi della "Word Union for Progressive Judaism ", insieme con altri insigni studiosi del pensiero ebraico, quali Montefiore, Leo 186 Baeck, Josuè Jehouda ed altri, tra cui una signora del gran mondo inglese, Lily Montagu. Come già sappiamo, in quella nuova concezione, che s'innestava perfettamente sul vecchio tronco della religione israelitica, l'ebraismo liberale aveva rinunciato all'attesa di un singolo uomo che incarnasse l'antica aspirazione della religione ebraica, l'attesa del Messia. Ciò, molto più razionalmente, era servito per allargare l'ipotesi liberatoria del concetto di “Messia“. Infatti, postulando l'avvento di un'epoca "Messianica", l’ebraismo liberale ipotizzava un tempo, in cui l'uomo, tutta l'Umanità, unendo con una sintesi felice la ragione alla fede, avrebbe portato sulla terra una nuova età dell'oro: l'età della ragione. Naturalmente Tommaso conosceva la gran parte dei libri che aveva così avventurosamente ricevuti, sapeva dell'originalità di pensiero dell'ebraismo liberale. Ma, dallo studio attento e dalla loro comparazione, ne verrà fuori un'idea, che informerà di se tutta la vita del vescovo gesuita. Tommaso s'immerse in un’indagine minuziosa di quanto gli era giunto, dopo aver superato un abisso temporale e, soprattutto, probabilistico, quasi che l'intera vicenda fosse stata, in una qualche maniera, pilotata da una volontà cosciente. Ma egli era troppo gesuita, per abbandonarsi al fascino del caso o del miracolo, che pretendono entrambi di spiegare l'impossibile, in maniera fantasiosa. Tommaso era intimamente convinto che, in realtà, caso o miracolo significano, quasi sempre, non conoscenza delle vere ragioni dell’accaduto e non offrono alcuna spiegazione utile, o, almeno, convincente, in un discorso logicamente corretto. Egli cominciò così a cercar di capire perché quei libri erano stati messi insieme, in una biblioteca così straordinaria. La chiave di lettura di quella preziosa raccolta di libri doveva necessariamente essere la "Storia di una famiglia ebrea", scritta da suo nonno, il vecchio rabbino Mario Ferrara. Infatti quasi tutti gli altri libri, pur rarissimi e splendidi esemplari della classica letteratura ebraica, non si discostavano minimamente dalla stesura originale, da lui ben conosciuta e, quindi, verificata, sia pure con una rapida scorsa dei testi. Per cercare d'immedesimarsi nello stesso modo d'organizzare il proprio pensiero, che doveva aver avuto il vecchio rabbino, per parecchio tempo egli stette ad esaminare la foto, che le carte indicavano come quella di suo nonno. Così Tommaso, da quella foto ieratica, tentava, in un certo qual modo, di stabilire un contatto mentale che superasse la barriera 187 del tempo trascorso, da quando era stato impresso il dagherrotipo della severa figura dalla fronte altissima, dalla lunga barba e dai riccioli che uscivano dal cappello nero. Poi s'immerse nello studio del libro. Conobbe una storia avventurosa ed affascinante. Dall'uso, prettamente ebraico, di riportare lo scandire delle generazioni segnando accuratamente i nomi, le parentele, le attività ed i fatti particolari che erano intervenuti nel corso del tempo, si poteva risalire, con un'accuratezza quasi scientifica, fino agli inizi del quattordicesimo secolo, l'epoca in cui visse Lewi Ben Gereshon2, un eminente antenato, così accertato, della sua famiglia. Il manoscritto di suo nonno era una revisione critica della storia del vecchio rabbino medioevale, ed un seguito che accompagnava la sua famiglia fino ai nostri giorni.. Inoltre, dagli scritti di quell’antico saggio, si potevano ricavare leggende e storie che lui stesso aveva raccolto, in un libro che era del tutto sconosciuto, ma che, come abbiamo già visto, figurava in quella straordinaria raccolta, il "De Judaeorum Actis” . Dunque Lewi ben Gereshon, o Maestro Leone di Bagnols, come era conosciuto dai gentili a lui contemporanei, fu un gigante del pensiero universale. Il suo libro, già rammentato, aveva fatto conoscere, alla cultura europea del suo tempo, la trigonometria e l'altro suo trattato matematico, il "De numeris harmonicis", aveva dato inizio alla matematica complessa. Questa affascinò in maniera rilevante il Rinascimento italiano ed europeo e pose le basi per lo studio delle funzioni complesse, che sono alla radice dello sviluppo attuale della conoscenza scientifica. Ma dove Maestro Leone è, ancora adesso, più conosciuto, dai suoi correligionari, lo si può trovare nello studio e nell'esegesi dei testi biblici. Abbiamo già incontrato il sommo Maimonide, di cui, a proposito del suo nome, Mosheh ben Maimon, gli ebrei dicono: "Da Mosè a Mosè, non nacque mai nessuno superiore a Mosè". Leone di Bagnols, partendo appunto da Maimonide, portò avanti l'opera di sistemazione del pensiero ebraico nelle forme della costruzione razionale di Aristotele. Il suo commento all'"Organon" aristotelico segue una via diversa da quella dell'altro sommo commentatore ebreo, Averroè, mostrando un carattere del tutto originale. Personaggio storico le cui vicende, qui narrate, sono, per la maggior parte, effettivamente avvenute come descritte. 2 188 La caratteristica saliente del suo pensiero, particolarmente evidente nel suo bellissimo commento alla Bibbia, fu un convinto e sofferto razionalismo. Per mezzo di questo, tra l'altro, egli tendeva a cercare la ragione vera e logica di ciò che, alla mente comune, poteva apparire come evento impossibile, miracolo. Questa sua spregiudicatezza intellettuale, così rara in ogni tempo, fu, al suo tempo, particolarmente coraggiosa, specie quando si trattava d'affrontare i teologi cristiani. Essi non aspettavano altro che di poter accusare gli ebrei d'empietà religiosa, soprattutto quando costoro mettevano in dubbio la presenza del miracolo cristiano. Ma il rigore intellettuale di maestro Leone non fu nemmeno ben visto dai propri correligionari, che, spesso, l'accusavano d'essersi messo fuori dall'ebraismo ortodosso. I rabbini più intransigenti storpiavano sarcasticamente il titolo della sua opera maggiore, il "Mihamot Adonai", "le lotte di Dio", citandolo con il titolo deformato di "Le lotte contro Dio". Forse per questo, non è giunta, fino ai nostri tempi, la parte del Mihamot Adonai riguardante l'astronomia e le teorie cosmogoniche relative,in quanto esse erano rivoluzionarie al limite del blasfemo. Il rigore intellettuale e la spregiudicatezza logica sono i peggiori nemici per ogni establishment che voglia curare in pace il proprio orticello, senza avventurarsi nelle insidie del pensiero razionale, che, per questa ragione, è fuggito dai "benpensanti", come la peste. Dunque Maestro Leone, di nobilissima stirpe ebraica, traeva origine, con una serie ininterrotta di primogeniti, dalla tribù dei Leviti, quella che aveva il compito distintivo d'esercitare il culto liturgico, quella cui era affidata l'arca dell'alleanza, il simbolo della presenza di Jahvè in mezzo al suo popolo. Quella era la stirpe da cui, come attestano anche i manoscritti di Qumran2, sarebbe dovuto nascere il Messia che attendevano gli ebrei. Egli visse nella Francia meridionale, tra Bagnols, un piccolo centro nei pressi di Avignone, dove nacque nel 1288 e Perpignano, nei Pirenei, dove morì, nel 1344. Era, quella, la Provenza, la regione mediterranea e, quindi, solare, che vide l'inizio della rinascenza del pensiero artistico e filosofico europeo, dopo i secoli bui dell'alto medioevo. Antichissimi manoscritti, compilati da adepti della setta degli Esseni, risalenti ai due secoli precedenti l’era cristiana, rinvenuti nelle grotte di Qumran, sul mar Morto, nel 1947. Di essi si parlerà piu’ ampiamente in seguito. 2 189 Quella era la regione in cui, agli inizi del X secolo era sbocciata la stupenda fioritura della letteratura occitanica, la langue d'oc, che tanta parte doveva sostenere nella nascita del francese moderno. Essa ebbe, come gloria imperitura, la definizione poetica del concetto, squisitamente moderno, del sentimento d'amore; diverso e distinto da eros ed agape (amore fisico ed amore caritatevole). Quella civiltà, dalla Francia del sud, s'irradierà, a raggiera, per tutta la Francia, la Germania, il Portogallo e l'Italia, dando vita alla prima grande scuola di poesia lirica e politica del mondo occidentale, con i versi della passione civile e dell'amor cortese. I suoi trobadours e menestrelli porteranno la loro poetica, con i sirventesi e le canzoni, in tutto il mondo allora conosciuto, facendo così rifiorire ovunque la letteratura, che, storicamente, è sempre stata l'araldo della civiltà. Ma la crociata contro gli albigesi, nella prima metà del XIII secolo, recise di netto, con un colpo di spada, quella splendida civiltà che s'avviava a fondare un impero, il regno di Occitania, una delle grandi nazioni che non seppero venire alla luce nell'Europa moderna. La ragione è sempre la stessa: in nome di dispute religiose si combattevano guerre che, in realtà, erano lotte per la supremazia politica o per impossessarsi d'immense ricchezze. Infatti, anche in questo caso, si trattava di una lotta di potere, mascherata da disputa teologica. Gli Albigesi 3 costituirono una setta fiorita appunto nel XII secolo sul grande filone dei Catari. Queste sette cercavano di risolvere i problemi teologici, che derivano dalla constatazione dell'esistenza del Male, mediante la definizione di un sistema dualistico di tipo manicheo. Si tratta di un antico sistema, che postula, nell'Universo, la lotta incessante tra due Princìpi ugualmente potenti e nemici, il Bene ed il Male, dando, anche a quest’ultimo, una propria validità oggettiva . La setta faceva presa sul clero locale ma Roma la dichiarò eretica. La lotta divampò per tutta l'Occitania, perché la disputa era stata presa a pretesto, nello scontro acerrimo che oppose la Francia del Nord alla Provenza, e che terminò solo con il tramonto della regione Occitana. Accadrà lo stesso scontro di potere, mascherato da disputa teologica, per l'episodio occorso nel secolo successivo, che Gli Albigesi furono una setta religiosa, derivazione della setta dei Catari. Essa era diffusa nel mezzogiorno della Francia,specialmente ad Albi e nell’Albigeois; da cui il nome. 3 190 porterà, nel 1312, con la Bolla "Vox in excelso", Papa Bonifacio VIII a decretare lo scioglimento dei Templari. Così fu perpetrato anche l'eccidio dei Cavalieri del Tempio; senza alcuna seria ragione, se non quella d'impadronirsi delle loro enormi ricchezze. È sempre l'antica maledizione, l'impossibilità di servire due padroni contemporaneamente, che affonda la religione nel fango della politica; e questo sarà ancora più evidente nella storia di Maestro Leone di Bagnols. Per rendere ancora più chiaro il panorama in cui si svolse la vita di maestro Leone, occorre inserire un ulteriore elemento, che lo vide protagonista, segreto ma efficacissimo: la cattività Avignonese. Quell’episodio, cupo e tempestoso, costrinse la sede di Pietro ad esser confinata, dal 1309 al 1367, nell'antico castello di Notre Dame des Doms, ad Avignone. Già da cinque anni il guascone Bertrand de Got, eletto arcivescovo da Papa Bonifacio VIII, proclamato Papa con il nome di Clemente V, messo da Dante nell'inferno tra i simoniaci e bollato come "pastor sanza legge", aveva trasportato il Sacro Soglio 4 nella dolce terra di Provenza, per adempiere al patto scellerato che lo legava a Filippo il bello, re di Francia. Il 20 aprile del 1314, quel Papa, non certo Santo, morì, doppiamente esule, poiché non ebbe la sorte nemmeno di morire nel suo primo esilio, Avignone appunto, ma si spense lì vicino, a Roquemaure, sul Rodano. Gli successe, dopo due anni, nel 1316, un altro guascone, Jacques Arnaud d'Euse, nativo di Cahors, con il nome di Giovanni XXII, anch'egli imposto dal potere politico, questa volta incarnato dal Re di Napoli, Roberto d'Angiò, conte di Provenza. Questo Papa passerà alla storia come il riformatore in senso quasi moderno, nel bene e nel male, di quella particolare corte regale, che era la Curia pontificia. La Curia fu potenziata da Giovanni XXII, allargando a dismisura la burocrazia papale, organizzando la Cancelleria, istituendo il tribunale della Chiesa, la Sacra Rota, ma anche iniziando la mala pianta, che conosciamo sotto il nome di "Nepotismo". Giovanni XXII, secondo alcune voci, morirà lasciando una enorme eredità di ben venticinque milioni di fiorini, e, soprattutto, avendo dato una particolare impronta finanziaria a tutta l'amministrazione della Chiesa. Quel Papa ebbe anche, nel corso del suo pontificato, una grossa disputa con l'Ordine dei Francescani. 4 dal lat. SOLIUM -trono -il Sacro Soglio indica la sede di Pietro, il Papato. 191 E non poteva essere altrimenti, poiché si scontravano, in quella disputa, un Papa attentissimo ai problemi finanziari e l'Ordine che, pur sottomesso all'Autorità papale, aveva il compito d'attuare la regola di frate Francesco, vivere cioè con "sorella Povertà". Occorre qui spendere alcune brevi parole sull'Ordine Francescano e, più in generale, sugli ordini religiosi che sono nati sul gran tronco di Santa Madre Chiesa, quando un problema di nuovo genere si ergeva sul cammino della Sposa di Cristo. Così, ciò che a noi resta della cultura classica, facendola considerare un continuum con la nostra e non un periodo chiuso ed avulso dalla realtà che ci appartiene, è dovuto all'opera preziosa della Regola Benedettina. Essa s'incaricò, tra gli altri compiti, di preservare l'eredità greco romana, ponendo, in questo modo, le basi per lo sviluppo della teologia cristiana, ma, soprattutto salvando una continuità, che quasi certamente sarebbe andata persa, senza l'opera preziosa dei frati di San Benedetto. Quando poi le eresie, dopo l'anno mille, squassarono il popolo di Dio, i Domenicani fecero barriera, acquisendo sul campo la fama di ordine dotto, con i propri dottori della Chiesa, che seppero respingere l'attacco eretico. Ma l'ordine di frontiera, contemporaneo ai Domenicani, perché entrambi sorti agli inizi del tredicesimo secolo, fu, a quel tempo, l'Ordine di San Francesco d'Assisi. L'Ordine di Francesco era nato dalla stessa ansia di povertà vissuta cristianamente, che era stata alla base di quasi tutti i movimenti sorti in quel tempo. Essi, per essersi messi poi contro la potestà papale, furono così dichiarati eretici. L’Ordine Francescano doveva quindi recuperare il recuperabile, di quell'esigenza, che era stata pur sempre il momento centrale della predicazione del Cristo e che si poteva appunto riassumere nella regola di vivere cristianamente in povertà. Quell'esigenza, così simile alle posizioni eretiche, costringeva l'Ordine ad essere sempre sul filo del rasoio. Da lungo tempo esisteva, tra i seguaci del Poverello di Assisi, una diatriba, che stava spaccando l’Ordine e che, al solito, nascondeva ben altre motivazioni. Da una parte stavano i più irriducibili seguaci di san Francesco, autodefinitisi Spirituali, i quali intendevano seguire alla lettera la Regola dell'Ordine Francescano. Questa, come si sa, vietava ai fraticelli di possedere alcunché, sia personalmente sia come Ordine, e di mangiare qualsiasi cosa che non fosse pane ed acqua. 192 Gli Spirituali erano mal sopportati dal potere papale e dalla Curia che, come abbiamo visto, si stava attrezzando come una corte imperiale. Il potere costituito era dunque obbiettivamente contro coloro che parlavano di povertà assoluta, insinuando, nei loro confronti, più o meno velatamente, accuse d'eresia. Costoro, inoltre, si scontravano con quelli che, nell'Ordine, intendevano attenersi ad una regola meno intransigente, soprattutto per evitare di finire davanti al Tribunale dell'Inquisizione. Questa era infatti sempre pronta ad accusare d'eresia, di fronte al Papa, chiunque non ne seguisse le direttive più squisitamente politiche, magari ammantando le proprie pretese con le più astruse giustificazioni teologiche. Il Papa, quel Papa, tutto teso a costruire un forte sistema burocratico, che fosse, prima di tutto politico, credette di risolvere la questione con la spada, dando una nuova Costituzione all'Ordine Francescano e mettendo praticamente al bando gli Spirituali. Al solito, coloro che non si piegarono furono mandati al rogo. Questa politica non fece altro che compattare tutto l'Ordine Francescano, a difesa di quelli che reputava essere i propri valori. Essi, infatti, potevano esser temperati per convenienza politica, ma non stravolti, senza colpire alla radice il pensiero del Poverello di Assisi. Così il Generale dei Francescani del tempo, Michele da Cesena, in aperta sfida al Papa, enunciò la questione teologica, nota come "Polemica della povertà teoretica". Fu posto cioè ufficialmente il quesito: "se Cristo ed i suoi apostoli avessero posseduto qualcosa, sia singolarmente, sia in comunità" e quindi fu affermata, dal vertice dei Francescani, rispondente alla dottrina cattolica l'asserzione negativa per tale enunciato. Il Papa rispose emanando una Bolla Pontificia, in cui dichiarava eretica tale asserzione. A questo punto entra in scena, o meglio, incomincia ad agire tra le quinte, la grande personalità di Maestro Leone. Già da tempo egli era entrato in contatto con un prelato italiano, uno dei pochissimi presenti ad Avignone, perché la sua potente famiglia era formalmente feudataria del Papato, il cardinal Obizzo d'Este, figlio naturale di Azzo VIII, Signore di Ferrara, di Modena e Reggio. Il cardinal d'Este, attratto dalla grande fama del filosofo ebreo specialmente in campo matematico, l'aveva praticamente 193 inserito nella sua piccola corte personale, mettendolo così sotto la propria protezione ed innalzandolo al rango di consigliere fidato. Le mentalità, gli interessi, la volontà dei due uomini erano fatti per intendersi. Il cardinale era italiano, e quindi poco propenso a sostenere un papa francese durante il periodo della cattività avignonese. Inoltre egli era guelfo per necessità, perché religioso e perché la sua famiglia regnava su territori formalmente sottoposti alla sovranità della Chiesa; ma, proprio per questo, gli Estensi erano sempre in posizione d'antitesi con le tesi papali. Infine Obizzo d'Este era uno tra i massimi esponenti dell'Ordine Francescano, anche se la sua navigata diplomazia l'aveva tenuto lontano dal rigorismo degli Spirituali; anzi, il suo talento diplomatico ne aveva fatto il naturale arbitro tra le due parti in lotta. Il cardinal d'Este, in definitiva, era uno di quegli spiriti che stavano testimoniando il prossimo avvento dell'Umanesimo, che aprirà la strada al Rinascimento italiano. Egli era quindi, caratterialmente, agli antipodi di quel guascone violento che tentava d'imporre brutalmente la propria volontà, senza neppure preoccuparsi che una diatriba sulla povertà di Cristo fosse insostenibile sul piano dottrinale e pericolosa sul piano politico. Insomma, tutto metteva Obizzo d'Este contro Giovanni XXII. Maestro Leone, dal canto suo, una volta entrato nelle stanze che contano, non poteva dimenticare che cosa era stato il Papato, per i suoi correligionari. Contrariamente a quanto comunemente si crede, prima dell'anno mille, nell'alto Medio Evo, gli Ebrei non soffrirono particolari angherie da parte del Papato e, soprattutto, da parte dei popoli barbari che, dopo aver tutto distrutto, si stanziavano, da padroni, nelle terre che avevano depredato. Le ondate delle tribù barbare che avevano sfondato il Limes tracciato da Roma, non si ponevano questioni teologiche ma, entrando in contatto con quello che rimaneva della civiltà di Roma, ne assumevano necessariamente gli usi ed i costumi, iniziando così il cammino verso la civiltà. Spesso il punto di passaggio tra questi due stadi era rappresentato proprio dal momento in cui il popolo barbaro si convertiva al Cristianesimo, anche se, data la cultura di base, quel Cristianesimo era percorso, più o meno pesantemente, da venature eretiche. In questo scenario, la Chiesa, per tutto l'alto Medio Evo, era stata un centro di potere sempre più grande, fino ad assumere i 194 connotati dell'Autorità che dispensava ogni potere sulla Terra, provenendo esso dalla volontà divina, di cui Pietro era Vicario. Già la legislazione Visigota, nell'alto Medio Evo, aveva privato gli ebrei di tutte le loro proprietà terriere5, ma la Chiesa s'ostinava inoltre ad esigere che gli Ebrei, ed i loro dipendenti, osservassero la festività domenicale, in onore del Dio Cristiano. Questo fatto aveva reso del tutto inefficienti gli Ebrei al lavoro della Terra, in quanto, dovendo essi santificare il loro Sabato, ciò rendeva praticamente impossibile il lavoro nei campi, che non potevano sopportare un'assenza, prolungata per due giorni consecutivi. Questa fu una delle cause che spinse gli Ebrei, già ottimi contadini, come avevano dimostrato nella Spagna araba, ad abbandonare l'agricoltura e le attività connesse. Ma il peggio doveva ancora venire. I Gentili si pentirono presto del fatto che gli Ebrei, obbligati in questa maniera ad occuparsi d'attività ritenute dai Cristiani poco consone al loro stato di padroni, come il commercio, o addirittura infamanti, come l'attività bancaria, da essi bollata come usura, dimostrassero, in queste, una sorprendente abilità. Ciò fece nascere, in seno alla Cristianità un feroce risentimento che fu il prodromo di tutte le future persecuzioni antiebraiche. Occorre parlare un poco di questo risentimento, sorto per fattori economici, che sfociò ben presto in un vero e proprio odio: esso è all'origine di gran parte delle leggende e dei guai che, da queste leggende, occorsero agli Ebrei. In esse si fusero altri e diversi elementi non propriamente economici ma di natura pseudo religiosa, quale l'accusa di Deicidio, le pretese bestemmie del Talmud e l'altra terribile accusa d'omicidio rituale. I più accaniti, infatti, incolpavano gli Ebrei di rapire e crocifiggere un Gentile, usandone poi il sangue per i loro riti giudaici, sia bevendolo in una specie di messa nera, specularmente rovesciata rispetto a quella cristiana, sia usandolo per la preparazione delle matzot 6 pasquali. Era stata inoltre lanciata l'ulteriore, tremenda, accusa della profanazione delle ostie consacrate, e persino l'accusa di diffondere la peste nera 7. Tutte queste imputazioni però, traevano chiaramente origine da quel risentimento di natura economica, precedentemente rammentato. cfr ABBA EBAN: “ Storia del Popolo Ebraico “ Mondadori ed. 1971 pag 151. 6 Cibo che si prepara in occasione della Pasqua ebraica. 7 Tutta la casistica fin qui riportata, e la seguente, sono state desunte dal libro di A.EBAN, precedentemente citato. 5 195 Per comprendere a fondo tutto ciò, occorre considerare gli usi del tempo. Per tutto l'alto Medio Evo le condizioni economiche furono terribili per tutti. L'unica attività remunerativa era la guerra; essa serviva a distruggere gli antichi proprietari ed ad impossessarsi del solo bene esistente: la terra. Per questo, i vincitori, cioè i discendenti delle tribù barbare che avevano invaso e distrutto l'impero di Roma, dettero origine alla nobiltà che s'andava allora formando, una nobiltà che traeva la propria ricchezza esclusivamente dal possesso della terra. Questa nobiltà, una volta tolta la terra ai gentili ed agli Ebrei che ne avevano, si disinteressò degli stessi, così come faceva per tutte le popolazioni vinte e sottomesse a livello di schiavi. Così gli Ebrei, per tutto l'alto Medio Evo, continuarono a vivere nelle condizioni comuni a tutti a quel tempo, senza particolari difficoltà, che non fossero di natura teologica. Proprio per umiliarli, dopo aver loro tolto la possibilità di lavorare la terra, fu lasciato agli Ebrei solo un mestiere, ritenuto infamante: l'usura. Essa è, tecnicamente, il prestito di danaro con l'interesse, e ciò era ritenuto moralmente ripugnante; anche se, fino al XII secolo, il clero cristiano era stato tra i più importanti gruppi di prestatori di danaro. Ma gli Ebrei seppero fare di necessità virtù: con quello che era stato loro permesso divennero immensamente ricchi. Il problema fu che era stata sanzionata, per i Cristiani, l’impossibilità di giustificare nuovamente l'usura, perché essa era stata bollata con motivazioni teologiche, difficilissime ad essere annullate. Questo fatto scatenò il risentimento dei Gentili, che si sentirono defraudati di qualcosa che ritenevano loro, la ricchezza appunto. Ciò rese i Cristiani furiosi contro gli Ebrei, accusati delle più nefande e stupide perfidie, solo perché costoro non potevano esser accusati dell'unica loro vera azione: l'esser divenuti ricchi, per aver esercitato una professione, che era stata lasciata ad essi per scherno. Quindi la Chiesa era corsa ai ripari. Già nel 1215 papa Innocenzo III, Lotario dei conti di Segni, aveva indetto il dodicesimo Concilio Ecumenico, quarto Concilio Lateranense, alla presenza di 70 patriarchi e Arcivescovi, 400 Vescovi ed Abati, tutti gli ambasciatori degli Stati Europei, e, persino, lo stesso Federico II di Hohenstaufen, Re di Sicilia e pretendente al titolo di Imperatore. Quello fu un Concilio d'importanza capitale, in cui furono dibattute molte questioni decisive, per quel tempo. 196 Si trattò, ad esempio, di questioni teologiche come l'approvazione del termine "Transustanziazione", per definire, in termini canonici, il mistero della trasformazione dell'Eucarestia. Furono anche discusse altre questioni, come la condanna per eresia della posizione di Gioacchino da Fiore che, pur morto nel 1202, continuava ad esser venerato nel monastero di San Giovanni in fiore per la sua teoria della terza età del genere umano, quando l'Uomo saprà vivere senza Chiesa e senza Stato. Non mancarono questioni politiche, coagulatesi in una nuova Crociata contro i Turchi. Ma, soprattutto, si ebbe il tempo di pensare anche agli Ebrei ed alla rabbia che essi avevano suscitato tra i Cristiani, con la storia di un insulto, che s'era tramutato in un grande affare per essi. Si dette così un corpus giuridico a tutte quelle usanze che, come già detto, nate dall'invidia, s'erano trasformate in odio feroce, sostenuto da accuse ridicole. Fu dato, in questo modo, vigore ad una mentalità che aveva portato Pietro l'eremita a condurre una Crociata, nel 1096, al grido, oltre che "Dio lo vuole", anche di "Uccidi un Ebreo e ti salverai l'anima". Così, l’accusa teologica di “Uccisori di Cristo”, affibbiata a tutti gli Ebrei ed a tutti i loro discendenti acquisiva una tragica conseguenza. Del resto, spesso le Crociate avevano un curioso corollario: i partecipanti non erano tenuti a pagare i propri debiti, o almeno, potevano posporne, senza ulteriori spese, la restituzione, per tutto il tempo in cui durava la Crociata, ai legittimi creditori che, guarda caso, erano, per la massima parte, Ebrei. Inoltre furono rimesse in vigore e rese coercitive le norme che vietavano agli Ebrei d'esercitare una qualsiasi autorità sui cristiani. Nessuna carica poteva esser affidata, da alcuno, ad un Ebreo, né si poteva parlare, con loro, d'alcun argomento di fede. Gli Ebrei dovevano rimanere chiusi nelle loro case, a Pasqua, e pagare una tassa speciale, né potevano, in alcun caso, abitare insieme con i cristiani. Inoltre essi, come tutti i non cristiani, dovevano portare, ben visibile, un segno distintivo. Si stavano così ponendo le premesse per il Ghetto. Ma la politica della Chiesa, e dei vari Principi che allora esercitavano il potere, fu ancora più perfida. Insieme con tutte queste norme, che avevano gravemente limitato la libertà degli Ebrei, attentando spesso alla stessa loro vita, il Potere, specialmente quello ecclesiastico, s'assunse il compito di ”proteggere gli Ebrei", opponendosi agli eccessi, quando ciò faceva comodo. 197 Però non furono mai abrogate le norme infami che erano state sanzionate nel Concilio Lateranense; anzi esse furono tenute ben presenti e rispolverate, quando questo era utile per la politica del momento. Tutto ciò era ben conosciuto da Maestro Leone, che ebbe entrambe le famiglie, da cui discendeva l'avo materno, massacrate in occasione della Crociata contro gli Albigesi nel 1209, Crociata che servì egregiamente anche per gli Ebrei della Provenza. Per questo, quando il Cardinal d'Este gli chiese consiglio per trovare una qualche ragione che potesse servire per opporsi al Papa, allorché Giovanni XXII tentò di distruggere con un colpo di penna l'Ordine francescano, il giovane studioso ebreo non si tirò indietro. Egli arguì che, sul piano della ragione, non si poteva combattere con un Papa che sconfessava il suo Dio, il quale aveva proclamato, nella prima Beatitudine di Luca: "Beati, voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio". Occorreva cercare un nemico del Papa che avesse la forza d'opporglisi e quel nemico non poteva che essere Ludovico il Bavaro, che aspirava alla corona del Sacro Romano Impero, corona che il Papa voleva assegnare invece a Roberto d'Angiò. Così, sotto mentite spoglie, maestro Leone fu inviato dal Cardinal d'Este alla corte imperiale di Ludovico, con il pretesto d'andare a riallacciare antichi legami di sangue con i parenti paterni che vivevano in Germania. Con le credenziali fornitegli dal Cardinale, il giovane rabbi ebreo (nel 1322 maestro Leone non aveva che trentaquattro anni) prese contatto con i cardinali tedeschi, che erano al seguito di Ludovico e che sostenevano le sue mire. Occorreva trovare un cavillo teologico che servisse a scardinare la posizione del Papa. Maestro Leone conosceva, per motivi di studio, il più famoso teologo dell'Università di Parigi, Marsilio da Padova, Rettore di quell'Università; egli accettò di studiare il caso con il giovane rabbi. Già da tempo, Marsilio era stato infatti il fautore dell'origine naturale dello Stato, contro il concetto medioevale dell'Impero come istituzione d'origine divina. Inoltre il suo sistema filosofico negava ogni potere coercitivo al Papa, che era ritenuto, nella concezione di Marsilio, solo un primus inter pares, mentre tutta l'autorità ecclesiastica doveva essere detenuta dal Concilio. Occorreva però prima distruggere, sul piano teoretico, l'autorità del pontefice. Ma, come fare? 198 Maestro Leone, che, per necessità, era divenuto un profondo studioso anche della storia cristiana, studiò lungamente il problema insieme con Marsilio. Il primato di Pietro era indiscusso ed inattaccabile. Esso si basava sul testo fondamentale della religione cristiana, i Vangeli, in cui il Cristo aveva proclamato, a chiare lettere: "Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa”. (Mt.16-18). Però maestro Leone obbiettò che non esisteva alcuna prova storica della venuta di Pietro a Roma e, su questo punto, la posizione del Papa diventava discutibile. Infatti nessun documento conosciuto a quel tempo definiva chiaramente quella venuta, ponendola in un preciso e verificabile momento storico, né v'erano prove sicure, storicamente documentate, della presenza dell'Apostolo a Roma. Solo pie leggende, dalla chiesetta del " Quo Vadis ?", al carcere Mamertino, alla crocifissione a testa in giù sul colle Vaticano, ma nessun luogo o nessuna data storicamente accertata. Solo ai giorni nostri verrà trovata una tomba che gli archeologi ritengono possa essere stata l'ultima dimora del Principe degli Apostoli; ma, anche in questo caso, nessun'iscrizione certa. A maggior ragione, Marsilio poteva, allora, affermare che l'Apostolo non era mai stato a Roma, mancando del tutto le prove storiche del fatto. E ciò appunto fece, rendendo esplicito il suggerimento di Maestro Leone, il quale aveva capito che solo in quel modo si poteva colpire il Papa e, con lui, l'Autorità che tanti danni aveva fatto e permesso contro il suo popolo. Così, proprio nel 1324, Marsilio completò il suo libro, il "Defensor pacis", in cui erano esposte quelle tesi rivoluzionarie 8 .La situazione divenne, in tal modo, esplosiva. Giovanni XXII scomunicò Marsilio, il quale, per sfuggire alla persecuzione papale, si rifugiò presso Ludovico il bavaro, di cui divenne consigliere politico e medico personale. Il Papa aveva già scomunicato Ludovico, il 23 marzo del 1324, accusandolo di non obbedire all'Autorità papale. Quindi Ludovico accusò, a sua volta, di eresia, il Papa, proprio per la faccenda dell'Ordine Francescano, o, per meglio dire, per la diatriba sulla povertà, chiedendo la convocazione di un Concilio ecumenico che dirimesse l'intera questione. Come si può vedere, mai il soglio di Pietro era stato così sul punto d'essere travolto, almeno sul piano dottrinario. Per farla breve, successe di tutto. Ludovico calò a Roma, dove, "in nome del popolo Romano", si fece eleggere Imperatore da Sciarra Colonna, il capo della 8 Episodio storicamente avvenuto. 199 grande famiglia romana discendente dai conti di Tuscolo, tagliando così fuori il Papato dalla nomina imperiale. Il Papa, a sua volta, rinnovò la scomunica a Ludovico e proclamò, per tutti i suoi seguaci, l'interdetto, la severa misura canonica che priva dei sacri riti coloro che ne sono colpiti. Inoltre lo stesso Papa scomunicò il generale dei Francescani, Michele da Cesena, che fuggì anche lui alla corte di Ludovico. Questi, il 4 aprile 1328, intentò un processo per eresia contro il Papa, deponendolo, accusandolo di lesa maestà e nominando un nuovo papa, nella persona del francescano Pietro Rainalducci di Corvara, con il nome di Niccolò V. Poi, come spesso succede alle vicende umane, la Storia prese altre strade. Ludovico non seppe tenere il favore del popolo romano, subissandolo di tasse, quando buona politica avrebbe voluto che l'Imperatore avesse sommamente cara la benevolenza del popolo di Roma che, ormai, era l'unica fonte della sua Autorità imperiale. Il popolo di Roma si ribellò a Sciarra Colonna, costringendolo all’esilio. Quindi Ludovico, nel 1329, ritornò in Germania, disinteressandosi di Roma e dell'Impero, l'antipapa Niccolò V chiese perdono a Giovanni XXII e fu subito accontentato e il Cardinal Obizzo d'Este, vista l'aria che tirava, se ne ritornò diplomaticamente nelle terre che appartenevano alla propria famiglia, a Ferrara. E maestro Leone ? L'uomo che, più d'ogni altro, era giunto ad un soffio dalla vittoria, lui, il rabbino ebreo Lewi Ben Gereshon, il matematico insigne ed il sommo politico che aveva fatto tremare il trono di Pietro, consegnò suo figlio al cardinal d'Este perché lo conducesse con se in terre più ospitali e si ritirò a Perpignano, molto più vicino al confine spagnolo, terra in cui gli arabi avevano ancora un rapporto eccellente con gli Israeliti. Lì, lontano da Avignone, protetto dai suoi correligionari, ad un passo da luoghi sicuri, visse fino all'età di cinquantasei anni, scrivendo l'opera monumentale che abbiamo conosciuto e quella, ancora più incredibile che stiamo per conoscere. Ma questa è un'altra storia, che segna lo straordinario antefatto di quanto narrato finora. Quello che abbiamo visto, rappresenta anche l'inizio della famiglia Ferrara, cognome con cui saranno conosciuti i discendenti del figlio del sommo maestro Leone. Essi, vivendo in Italia, si chiameranno, all'uso ebraico, col nome della città in cui, da allora, risiederanno, abbandonando 200 così il loro patronimico, difficile ad essere pronunciato nella nuova lingua. Un'ultima annotazione occorre fare, su quel tormentato periodo. Giovanni XXII, da fine teologo, quale voleva essere senza saperlo fare, combinò un'altra delle sue uscite gratuite, e perciò, doppiamente pericolose. Infatti, nel 1331, discutendo della "Visione beatifica" per i morti in grazia di Dio, dichiarò che quella visione non si sarebbe avuta subito, ma solo dopo il Giudizio Universale. Fino a quel momento, cioè fino alla resurrezione dei corpi, i beati avrebbero dovuto attendere "sotto l'altare", in altre parole sotto il conforto di Cristo, ma non nella pienezza della visione di Dio. Questa stramba tesi, contrastante con tutta l'ortodossia cristiana, oltretutto enunciata senza un particolare motivo, suscitò scandalo persino tra i sostenitori del Papa. A poco valse che egli si rimangiasse parzialmente la propria posizione, ritrattando quanto aveva affermato, con la scusa che si trattava di un'opinione personale. Sul suo letto di morte, Giovanni XXII dovrà fare, di fronte all'intero Sacro Collegio Cardinalizio, una ben più ampia e motivata ritrattazione, ammettendo d'essersi sbagliato 9 . Proprio quest'episodio, cinque secoli dopo, creerà un precedente di non poco conto, allorché Pio IX definirà il Dogma dell'infallibilità Papale, quando questi parla, ex cathedra, di questioni teologiche. CAPITOLO XVIII SULLE ALI DELLA LEGGENDA Tommaso aveva trascorso tutta una notte leggendo il libro di suo nonno, "Storia di una famiglia ebrea", confrontando dati, comparando date e affermazioni in esso contenute, ricollegando cause e fatti che erano sparsi nel suo bagaglio culturale ma che, 9 C RENDINA op cit. 201 alla luce di quelle rivelazioni, acquisivano una nuova e diversa validità. La somma delle notizie ricevute da quanto andava leggendo, con quelle che facevano parte della propria erudizione, è stato l'oggetto, razionalmente collegato, di quanto esposto nel precedente capitolo. Naturalmente i fatti che Tommaso andava rivisitando, non erano affatto ignoti alla sua cultura, che era fuori del comune, ma che non era, prima d'allora, incentrata sulla situazione, che il libro di suo nonno stava ora mettendo a fuoco. Infatti il baricentro delle varie specializzazioni di Tommaso era molto arretrato nel tempo, dall'epoca di maestro Leone, essendo egli esperto nelle varie discipline attinenti l'esegesi biblica; ma questa sua competenza gli verrà oltremodo utile nel seguito di quella storia. Perciò le notizie al riguardo di Leone di Bagnols, che già erano in suo possesso, normalmente poco legate tra di loro, nell’orizzonte culturale di Tommaso, acquisivano ora un ferreo rapporto di causa ed effetto, che contribuiva, oltretutto, a rendere ancor più emozionante, una storia che l'interessava così da vicino. Erano ormai le prime luci dell'alba, che s'annunciava dalla finestra della sua camera, posta a metà del bel torrione che fungeva da torre campanaria per l'Università di Lovanio, nel piano tradizionalmente riservato come appartamento privato del rettore di quell'Università. Il metodo di lavoro di Tommaso, di fronte ad un problema da studiare, era sempre stato lo stesso: dare subito una prima veloce lettura di tutto il materiale di studio, per rendersi conto di quello che bisognava conoscere, per circoscrivere il soggetto da investigare. Trarne poi gli elementi necessari per procedere ad un approccio più approfondito nei vari filoni d'indagine. Ma, soprattutto, astenersi da qualsiasi giudizio o idea preconcetta che avrebbe potuto intralciare il campo della sua analisi; essa, così, diveniva, quasi sempre, un procedimento logico, portato innanzi con rigore scientifico. Anche in quel caso, che pure aggrediva emotivamente la propria sensibilità, facendo vibrare corde del suo animo che normalmente egli non metteva mai in gioco nel processo conoscitivo, Tommaso si sforzava però di non abbandonare il proprio rigore logico. Ora la situazione s'andava chiarendo. 202 Il libro di suo nonno, la "Storia di una famiglia ebrea", prendeva chiaramente le mosse dall'opera del vecchio rabbino Lewi Ben Gereshon. Dovevano quindi esser esaminate le caratteristiche principali dell'opera dell'antico sapiente, dal punto di vista filosofico e teologico. In questo modo si poteva porre in evidenza l'importanza che essa aveva avuto, nell’ambito più generale del risveglio della civiltà dell’uomo, facendo rinascere a nuova vita il pensiero scientifico, dopo la drammatica cesura occorsa a cagione e seguito delle invasioni barbariche, che avevano spazzato via dall'Occidente la civiltà greco romana. Infatti la cultura classica, come noi ora la conosciamo, è il portato di una civiltà che molto doveva alla sua componente ebraica, se è vero, come è vero, che 1: "Già l'autore degli oracoli sibillini scriveva che tutte le terre e tutti i mari sono pieni di Ebrei" e che "Strabone, un contemporaneo di Erode, affermò che sarebbe stato difficile trovare un solo luogo della terra dove non ci fossero Ebrei". "Nell'Impero Romano d'Oriente gli Ebrei costituivano il venti per cento circa della popolazione, e quindi uno su cinque degli abitanti "ellenistici" del Mediterraneo Orientale era Ebreo. In Occidente il rapporto era uno su dieci. In nessun altro periodo della storia, prima o dopo d'allora, gli ebrei costituirono una parte così cospicua della popolazione del mondo civile occidentale". Per questo la cultura ebraica, all'epoca dei secoli bui dell'alto Medio Evo, assieme al monachesimo cristiano, era stato l'unico rifugio della memoria storica della civiltà greco romana. Però, a differenza del monachesimo, che aveva compiuto una semplice, sia pur meritoria opera di conservazione dell'antico, il pensiero ebraico s'era continuamente confrontato con la grande civiltà araba che, allora, viveva il momento del suo più vivido splendore. Dalla continua osmosi dialettica delle due culture,l’araba e l’ebrea, s'era così pervenuti ad innestare nuovamente, in Occidente, la civiltà greco romana ed il vettore, il vitigno su cui fu operato l'innesto, fu appunto la cultura giudaica. Ma questa era storia, tra l'altro ben conosciuta da Tommaso. Ora, per non far confusione, continuando un'indagine che aveva iniziato a metà della storia, egli abbandonò il libro di suo nonno, che chiaramente era il seguito e l'esegesi del volume del vecchio rabbino di Bagnols: il “ De Judaeorum actis “. Anche le note seguenti, riferite alla storia degli Ebrei, sono state desunte dal libro di A.EBAN precedentemente citato. 1 203 Tommaso quindi, per avere un flusso degli avvenimenti coerente nel tempo, s'immerse nello studio del libro di maestro Leone che, evidentemente, doveva narrare fatti, accaduti prima di quelli raccontati da suo nonno. Nel far questo, le onde impetuose del sentimento correvano all'impazzata nel suo animo: egli stava scorrendo il percorso mentale di un antico sapiente che, tra l'altro, era anche un suo diretto antenato. Ma la sua forma mentis di scienziato impediva al sentimento di penetrare nel suo procedimento logico. Prese quindi l'antico libro in folio, con una pesantissima rilegatura di pelle, tenuta da borchie di metallo che bloccavano listelli, anch'essi di metallo, i quali servivano a rendere il volume un blocco compatto e pesante. Esso racchiudeva grandi pergamene, miniate a colori meravigliosi: capolavori che, da soli, avrebbero fatto la gioia di qualunque uomo amante del bello e suscitato l'interesse più vivo d'ogni esperto d'arte o di storia. Aprì le serrature che bloccavano i listelli e sollevò la pesante e spessa copertina. Sulla prima pagina del libro era riprodotta la stella di Davide, con le lettere ebraiche che corrispondevano a quelle incise sulla medaglia, che aveva procurato a Tommaso tante meraviglie e così forti emozioni. Questo fatto, alla mente esperta di Tommaso, dava due indicazioni: la prima era che i segni riportati non erano altro che la trasposizione, nel calendario ebraico, delle date di nascita e di morte del rabbi Lewi Ben Gereshon e cioè il 1288 ed il 1344 della nostra era, il 5048 ed il 5104 nel calendario ebraico 2. Quelle infatti erano le cifre che erano riportate, in caratteri ebraici, sulle punte della stella di Davide, sia sul libro che stava leggendo sia sulla medaglia che aveva portato al collo per tanti anni. Egli aveva, già da tempo, identificato agevolmente il significato dei segni posti sulla sua medaglia, ma solo ora poteva collegarli a maestro Leone, dopo che la lettura della sua storia aveva inquadrato la figura del suo antenato, da lui precedentemente conosciuto per motivi di studio, ma non tenuto presente, fino allora, come elemento determinante, in un processo logico che lo riguardasse. La seconda indicazione proveniva proprio dalla stella di Davide. Al contrario di quello che si pensa comunemente, la stella di Davide, collegata, al presente, all'ebraismo, in modo talmente Come è noto, tra il calendario ebraico ed il nostro esiste, attualmente e per il periodo dopo la nascita di Cristo,uno scarto positivo di 3760 anni. 2 204 totale da rappresentarne lo stesso simbolo, in realtà, non affonda, come segno, nella notte dei tempi. Sebbene rintracciabile in un sigillo proveniente da Sidone e risalente al 600 avanti Cristo e nella Sinagoga di Capernaum del III secolo d.C., la stella a sei punte era, in realtà, un motivo ornamentale tipico dell'età classica greco-romana. Essa fu rinvenuta in molti mosaici ed altre tipologie ornamentali, tra cui, in epoca più tarda, quelle che ornavano molte chiese cristiane del medio Evo, mentre è del tutto assente nella decorazione giudaica coeva e nella letteratura rabbinica. La Jewisch Encyclopedia riporta la prima apparizione della stella di Davide in una "qabbalah" del tredicesimo secolo, associata al pentagramma magico di Salomone, la stella a cinque punte. Dopo che essa fu adottata dal primo congresso sionistico del 1897, come simbolo del nascente spirito giudaico, solo i nazisti dettero tragica fama alla figura del doppio triangolo disposto a stella, imponendolo come "marchio di vergogna", in un'ordinanza di polizia del 1 settembre 1941. Dunque la chiave di lettura corretta della stella di Davide, in un contesto ebraico del quattordicesimo secolo, era appunto la qabbalah, l'antica dottrina ebraica esoterica su Dio e l'Universo, basata su un'antichissima rivelazione, trasmessa attraverso un'ininterrotta schiera d'iniziati. Questa teoria era sorta dal travaglio religioso e morale degli Ebrei nei due secoli che precedettero l'era cristiana e s'era venuta configurando, in forma sistematica, solo nel quattordicesimo secolo della nostra era, proprio al tempo di maestro Leone. A grandi linee e molto approssimativamente, questo insegna la Qabbalah. Tutto ciò che siamo, tutto quello di cui noi abbiamo conoscenza, è il risultato di un processo, che vede Dio manifestarsi alla mente dell'uomo secondo una sempre più chiara evidenza. Questo processo, sviluppantesi in maniera quasi evolutiva, svela all’uomo, rendendola via via più intelligibile, la realtà ultima dell'Universo. Benché lo spirito dell'Uomo non possa giungere da solo a Dio, la Divinità, può permettere all'uomo di "raggiungere" Dio, attraverso le sue manifestazioni, dette "sefirot", che vuol dire "emanazioni", quali la bellezza, la giustizia, lo splendore ed ogni altro attributo che, al massimo livello, noi associamo al concetto di Divinità. Il sefirot più grande è "l'alito di Dio", quello che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza: l'intelligenza logica. 205 La Cabala ebbe un grande percorso culturale, informando di se grandi personalità ebree (Filone, Avicenna e molti rabbini che formarono un imponente fiume culturale nell'ambito della letteratura ebraica fino al sedicesimo secolo) e non ebree, specialmente nell' Umanesimo italiano e tedesco (Raimondo Lullo, Pico della Mirandola, Paracelso, Reuchlin ed altri). Nella qabbalah v'era poi un elemento semantico magico, che dava un significato esoterico non alle parole, ma ai singoli segni alfabetici rappresentanti una lettera all’interno di una parola o un numero, all’interno di una cifra, valutandone le varie posizioni relative. Infatti, la qabbalah, come tutta la tradizione rabbinica ortodossa, riconosceva un carattere divino all’intera Torah, così che nulla, di essa, poteva essere omesso o cambiato. Anche la disposizione delle singole lettere acquisivano, in tale dottrina, un valore talmente importante, da rappresentare, nel suo complesso e nel relativo rapporto, una rivelazione divina tanto importante, da esser data in maniera criptica ed esoterica, solo ai più sapienti cultori della Legge. In questo modo era stata formata una chiave segreta di lettura d'ogni manifestazione divina, in primo luogo quella contenuta nei libri del Genesi o del Cantico dei Cantici, attribuito a Salomone. Questa chiave di lettura, seguita anche da alcuni autori cristiani, fondata sull'interpretazione aritmetica e geometrica delle parole della Bibbia, è conosciuta con il nome di Ghematria. In essa, le parole sono intese, alla maniera moderna della semantica, come insiemi di segni aventi un loro particolare significato, che travalica quello per cui vengono comunemente adoperati, nell'uso corrente. Quando poi, dal sedicesimo secolo, l'elemento magico, sempre più incombente, prevalse sul pensiero filosofico-religioso, la qabbalah andò via via trasformandosi in un rito magico, perdendo così la propria presa sugli spiriti razionali. Questo, a grandi linee, era quanto Tommaso poteva estrarre dalle proprie conoscenze, per dare una prima lettura al problema. Era quindi estremamente probabile che quel libro, il "De Judaeorum actis", scritto da chi era stato descritto come suo lontano antenato, fosse opera di un adepto dell'antica sapienza. Egli, per mezzo di racconti all'apparenza semplici, avrebbe potuto portare avanti un discorso, in un campo tra i più difficili, sempre in bilico tra la realtà e la leggenda, tra la filosofia e la magia. 206 Certo, per un libro del genere, l'ostacolo più ostico che si potesse trovare, era l'indagine critica e l'analisi ferrea, condotta da un Vescovo cattolico, per di più Gesuita. Tommaso si mise al lavoro, iniziando a sfogliare quelle pagine antiche: il testo era stato redatto ora in un latino eccellente, ora in ebraico antico, ora in greco della koinè 3 . V'era addirittura qualche espressione in una veste che ricordava allocuzioni Yddish, l'antico dialetto tedesco parlato dalle comunità ebree askenazite dell'Europa centrosettentrionale. Tutte queste difficoltà linguistiche non presentavano però alcun problema per il gesuita, che, proprio in quel campo, s'era specializzato già da molto tempo, per rendere più completi i propri studi teologici. La seconda pagina conteneva quella che sembrava sicuramente una dedica, anche se, trattandosi di un testo di un autore della qabbalah, occorreva studiare se vi fosse un significato recondito, nascosto sotto qualche artificio intellettuale. Figlio mio quando, nel corso del tempo, tenendo fermo dinanzi a te il ricordo della tua storia, saprai ripetere anche tu il cammino dalla culla del padre Abramo a Sion la bella per raggiungere l'Altissimo, Avrai la prova del tuo destino e del tuo servizio. Ma lascia il segno nel tuo animo. Il tuo seme dovrà scoprire da solo la VERITÀ’ e, per mezzo di essa, la VIA. Per il momento Tommaso non indugiò sul possibile significato nascosto di quella pagina e proseguì oltre. Il racconto proseguiva, ricalcando fedelmente, anche se con caratteri originali, la storia da tutti conosciuta, tratta dal Genesi. Essa riguardava la vita di Abramo, di suo figlio Isacco, e poi, via via di Giacobbe detto Israel, dei dodici figli di questi che, come racconta il libro dell'Esodo, raggiunsero il loro fratello Giuseppe in Egitto e che dettero vita, in seguito, alle dodici tribù di Israele. Il κοινε’ διαλεχτοs koine’ dialectos = Linguaggio comune ) era il greco internazionale parlato in tutto il bacino del Mediterraneo nei tre secoli prima dell’era volgare. 3 207 Particolare accenno era fatto, per quella che sarà deputata a divenire la casta sacerdotale di Israele, la tribù di Levi, come riporta l'Esodo e, più ampiamente, il terzo libro del Pentateuco, il Levitico appunto. Poi venivano ricordati i tre figli di Levi: Gherson, Kehat e Merari, i quali generarono le tre famiglie da cui provengono i sacerdoti d'Israele. Gherson fu il figlio primogenito di Levi. Kehat fu il capostipite della famiglia da cui nacquero Mosè ed Aronne. Merari dette vita ai Leviti che trasportavano l'Arca dell'Alleanza, quando gli Ebrei vagavano nel deserto; essi, poi, divennero i cantori del Tempio di Salomone. Da Aronne aveva avuto inizio la discendenza della casta sacerdotale da cui dovevano esser tratti i sommi sacerdoti di Israele, quelli che in un altro contesto storico saranno chiamati: Cohen, o, al plurale, Cohanim. Con un lungo elenco di genealogie, l'estensore del libro, il rabbino Lewi Ben Gereshon4, il maestro Leone che abbiamo già incontrato, l'avo di Tommaso, intendeva dimostrare la sua discendenza diretta per diritto di primogenitura, e quindi anche quella di Tommaso, da quei mitici progenitori. Egli veniva attuando, in questo modo, lo stesso procedimento eliminatorio, comune a tutto l'Antico Testamento, per il quale, "narrata la storia di una parte dell'Umanità o di una tribù o di una famiglia, la si elimina, continuando il filo narrativo entro un orizzonte sempre più ristretto, centrato sul popolo Israelitico. Procedimento unico nel suo genere fra tutte le letterature dell'Antico Oriente, connesso con l'idea della libera elezione divina di un gruppo umano segregato dal resto dell'Umanità, di cui Dio vuole servirsi per attuare il suo misterioso piano storico" 5. Lampi di luce squarciavano i secoli che, dai Patriarchi correvano giù, verso i giudici, e poi il periodo monarchico egemonizzato dalla stirpe di Giuda, da cui nacquero Davide e Salomone, quindi la caduta dei regni di Israele e di Giuda, la distruzione del Tempio, la cattività, l'impero persiano del sesto secolo. Questo primo grande impero universale riunì in un’unica entità politica, e perciò intercomunicante, le culture indoiraniche con le antiche civiltà della fertile mezzaluna, dando origine, al suo interno, ad una straordinaria fioritura di "pastori d'anime" quali: Confucio, Lao-Tse, Budda, Pitagora, Isaia, Geremia, Ezechiele, Zoroastro. Nel porre mente al personaggio storico di maestro Leone, si ricordi che, nel Medio evo, la “ G “ aveva ancora un suono gutturale, leggendosi “ GH “. 5 cfr LA BIBBIA CONCORDATA, Mondadori ed., 1968 pag 22. 4 208 I lampi di luce erano gli uomini della Legge, che tenevano unito il popolo dell'Alleanza, sotto la religione dell'unico Dio. Molti di quegli uomini si trovavano negli elenchi, che maestro Leone faceva discendere dai mitici progenitori, come ghirlande legate tra di loro dai vincoli del sangue. La sequenza di quelle grandi personalità s'inoltrava sempre più in giù, nella storia degli uomini; ma non era, quel libro, solo una sfilza di nomi. Mastro Leone, già nel quattordicesimo secolo, aveva avuto un'idea originalissima, che poteva esser definita rivoluzionaria, in un'epoca in cui, da secoli, si tendeva a spaccare in quattro un capello per riconoscere e condannare l'errore dell'altro, che diveniva così, automaticamente, il nemico. L'idea era appunto che non esiste un uomo che abbia l'esclusiva della verità perché la verità non è un punto d'arrivo, una realtà compiuta e tale da essere posseduta da un solo uomo. Essa è, invece, una direzione, un cammino, un'aspirazione che molti hanno, ma che ciascuno cerca alla propria maniera. Cosicché ogni uomo che cerca, è degno di rispetto ed ogni grano di verità raggiunta, va conservata e custodita, e non combattuta, ma, casomai, superata con il raggiungimento di una verità superiore. Il procedimento è lo stesso che avviene nel raggiungimento dell'ideale estetico. Infatti, quando si riesce ad afferrare il senso della verità, per quanto essa possa essere piccola e limitata, si sente d'aver raggiunto l'Assoluto. La forza di quell'idea è tale che essa si respira nell'aria, in un certo momento storico; quasi che quella verità possa informare di se un'epoca ed, in essa, divenire intelligibile a tutti, raggiungere necessariamente un valore universale. In tal modo la verità non rimane un qualcosa di statico, d'immobile, ma diventa un processo dialettico, continuamente affinantesi; una via alla comprensione, sempre più completa, del perché dell'avventura umana. Questo avveniva, pensava Tommaso, nello stesso tempo in cui gli uomini sgozzavano altri uomini perché non erano d'accordo sul concetto dei rapporti tra il bene ed il male, cioè se il male sia o no uno dei principi informatori dell'Universo, come sostenevano i Catari e, con essi, gli Albigesi. Questo tipo di comportamento, che considera assoluta la verità di cui si è portatori, era la risultante di quel famoso concetto, espresso quando si parlava del genio della Nazione o della Stirpe, un concetto tipico della nostra civiltà, della civiltà grecoromana, su cui s'innesta la dottrina Cattolica. 209 Il successivo svilupparsi di questo concetto, nella nostra civiltà, pone in maniera incontrovertibile, e quindi immutabile, la verità nel proprio modo di pensare. Tutti coloro che non la pensano come me, sono espressione di un'idea inferiore e, per ciò, nemici che vanno combattuti e vinti. Distrutti anche, anzi soprattutto, nell'animo, nel modus operandi, per ristabilire la verità di cui siamo portatori, che necessariamente è l'unica, l'immutabile, la sola che sia vera. Le conseguenze di questo comportamento mentale, comico se non fosse grottescamente tragico, possono portare a dei nonsensi terribili. Ad esempio, nella Spagna imbevuta di quel sentimento assolutistico della verità, proprio della civiltà mediterranea, s'erano visti i fedeli della Vergine del Pilar accoltellarsi con i fedeli della Vergine dei sette dolori, per stabilire, sul campo!, quale delle due raffigurazioni della Vergine fosse più vera, e quindi, più potente. Naturalmente, pensava Tommaso, la Chiesa non approvava assolutamente queste distorsioni, anzi le condannava violentemente. Però non era condannato, alla stessa maniera, il concetto per cui chi non la pensa come me è mio nemico e va combattuto e vinto, al fine di ristabilire la verità, quella verità di cui io sono portatore. Non veniva, purtroppo, ancora sradicato dal modo di pensare della nostra società quel concetto che è alla base della civiltà greco romana e delle idee guida che da essa derivano. Esse sono le formae mentis alla radice del commercio, dell'imperialismo, del razzismo, del capitalismo e che, in ultima analisi, si possono definire come la missione storica della nostra cultura. Questo era lo stendardo da battaglia che, per troppi secoli, ha visto la Croce usata come una spada, e non come un simbolo di pace. Ma subito Tommaso si rituffava nella lettura attenta del libro che stava studiando. Ora maestro Leone, illustrando un problema che era corso per tutta la storia ebraica, ne svelava alcuni misteri che avevano affaticato le menti di molti di coloro che s'occupavano di quei fatti. Si trattava di questo: in tutta l'antica storia religiosa di Israele è presente il problema del "Residuo eletto" cioè la certezza, espressa da molti profeti d'Israele, che, all'interno del popolo di Dio esista un nucleo d'uomini di fede, particolarmente 210 impegnato nella difesa e nella conservazione della Legge di Israele6. Questo nucleo è protetto da Dio e salvato da tutte le catastrofi che si sono abbattute e che s'abbatteranno sul popolo ebreo. Dio impedisce, in questo modo, che Israele scompaia, anche se il rimanente popolo avrà peccato così tanto, da attirare la punizione divina. Questo nucleo trova la sua forza e la sua legittimazione nello studio della Thorah, di cui è il custode geloso. Così infatti proclama Isaia (1-9): "Se non fosse che il Signore delle schiere ci avesse lasciato un resto saremmo già come Sodoma, somiglieremmo a Gomorra“. Ed Ezechiele ribatte(6-8, 9): "Lascerò però qualche resto, perché vi saranno fra di voi degli sfuggiti alla spada in mezzo alle Nazioni, quando vi disperderò tra le regioni. E i vostri scampati tra le Nazioni, presso le quali saranno deportati, si ricorderanno di me, dopo che avrò spezzato il loro cuore adultero che s'era allontanato da me...". Tra i profeti, questo concetto del "resto", il nucleo incorruttibile, custode della vera dottrina d'Israele, diventa sempre più chiaro, a mano a mano che il popolo di Dio è sottoposto alle sue prove dolorose, anche se esso non riesce mai a divenire esplicito, anzi fa di tutto per rimanere occulto. Questo pensiero travalica persino nella religione cristiana, quando Paolo (Rm 11-5) afferma: " Così anche nel tempo presente vi è un residuo (di Israeliti) eletto per grazia ". Ora, con grande meraviglia di Tommaso, che naturalmente conosceva il problema, maestro Leone proclamava a chiare lettere, nel suo libro, che il nucleo incorruttibile, custode della fede d'Israele nei secoli, era appunto costituito dalla famiglia cui apparteneva lui stesso. Quella famiglia assunse molti nomi nel corso del tempo, ma non abiurò mai al proprio compito, preferendo nascondersi e scomparire nelle pieghe della storia, per portare innanzi la propria missione. Di questa missione, maestro Leone forniva le prove, che, tra l'altro, davano anche la risposta ad alcuni problemi inerenti la storia d'Israele, altrimenti insolubili. 6 cfr J.A. SAGGIN op. cit. pagg.151-152 211 Questa è la storia. Al tempo del passaggio del titolo di Re da Davide a Salomone, Adonia, figlio di Aggit, quarto figlio di Davide e primo dei suoi figli sopravvissuti, " andava esaltandosi, dicendo: ”Io regnerò “ (1' Re 1-5). Invece Davide, su intercessione di Betsabea, fece ungere re, Salomone, il figlio che aveva avuto da lei, benchè questi fosse più giovane di Adonia. Salomone perdonò Adonia per il delitto di lesa maestà 7, in quanto s’era proclamato re, mentre il padre, pur morente, non era ancora spirato. Ma quando Adonia andò da Betsabea per chiederle di intercedere presso Salomone perchè almeno potesse prendersi come moglie Abisag, la Sunamita bellissima, che scaldò con il proprio seno il vecchio re Davide, Salomone lo fece uccidere. Quindi il primo libro dei Re racconta come Salomone allontanasse Abyatar, il sommo sacerdote, perché questi s'era schierato dalla parte di Adonia, mettendo al suo posto Sadoq, come sommo sacerdote. Per far questo, Salomone ricorse ad un espediente che, probabilmente, era già stato usato dai potenti del suo tempo, ma che, indubitabilmente, fu messo in pratica, da allora, ogni volta che si vuole colpire un uomo caduto in disgrazia presso il potere. Gli si rinfacciano fatti precedenti, che, fino a che quello era ancora in auge, non erano sembrati d'alcun peso. Infatti, già da tempo era stata emessa una sentenza contro la casa di Eli, da cui discendeva Abyatar, per il comportamento scorretto dei figli di quello, che, qualche generazione prima, al tempo delle prime imprese di Saul, avevano commesso abusi nella prassi sacrificale (Sam.2-27). Questo però non aveva impedito ad Abyatar di divenire gran Sacerdote. Ciò dimostra che lo scontro tra Salomone ed Abyatar, fu uno scontro eminentemente politico, dovuto al colpo di stato che aveva permesso l’incoronazione di Salomone. Come era sempre accaduto, e come succederà sempre, colui che diveniva re per un atto traumatico e non per successione naturale, tendeva ad esautorare tutti coloro che ricordavano il Veramente Adonia avrebbe avuto piu’ diritto di Salomone di salire al trono, in quanto egli era piu’ anziano di questi, ma l’uso orientale permetteva ai re di scegliere i propri successori tra i figli delle varie favorite. La Bibbia, per giustificare questo fatto, fa intendere una designazione divina per Salomone. E’ però indubbio che si trattò di quello che oggi si chiamerebbe un “colpo di stato “. 7 212 "passato regime", non fosse altro che per riaffermare la propria autorità. Salomone non s'era sottratto a questa dura necessità politica. Ma Abyatar era il legittimo gran sacerdote di Israele e la sua sostituzione con Sadoq era un'indebita intrusione del potere politico in quello religioso, anche se nel 960 a.C., al tempo di Salomone, non s'era certo regolamentata la distinzione tra i poteri. Però Salomone non fece uccidere Abyatar: sarebbe stato un crimine troppo clamoroso; lo confinò ad Anatot, località poco a nord di Gerusalemme. Per secoli, Anatot fu sede di una famiglia sacerdotale, discendente appunto da Abyatar, dalla quale ebbe i natali anche il profeta Geremia (Ger.1-1 segg.). Quella famiglia sacerdotale, l'erede del Gran Sacerdote Abyatar, e quindi della linea di successione legittima del potere sacerdotale, non arresasi mai al potere monarchico, fu la custode dell'ortodossia israelitica. Da quella stirpe, dopo l'esilio babilonese, sorse la famiglia che avrebbe dato i natali, dopo molti secoli, a maestro Leone ed a tutte le grandi figure che sono riportate nel suo libro. Quella famiglia era " IL RESTO ", invocato dai profeti d'Israele. Questo proclamava orgogliosamente il libro di maestro Leone, offrendo prove sostanziali e lunghe liste genealogiche, per suffragare tale asserzione, che modificava completamente la storia d'Israele, quale s'era conosciuta finora. Infatti accanto ai profeti, ai giudici, ai sommi sacerdoti, ai Re, si scopre, dal libro di maestro Leone, un altro soggetto che s'era eretto, silenzioso e nascosto, ma vigile e pronto a tutto per difendere l'ortodossia: la casa dei sacerdoti esiliati dal potere politico che s'erano posti, nei secoli, a difesa della Torah. Pur colpito, quasi frastornato dal rombo silenzioso che quella notizia aveva provocato in lui, ben conscio dell'importanza che essa aveva avuto nella storia dell'Umanità, per le implicazioni che ne derivavano, Tommaso andava avanti nell'esplorazione di quel libro, che gli si stava rivelando un'autentica miniera di fatti decisivi. Percorse tutta la tragedia della cattività babilonese, da cui i membri della propria famiglia erano tornati, resi più esperti del mondo, poichè avevano vissuto nel più grande impero del tempo ed avevano, in esso, raggiunto anche importanti cariche. 213 Ma soprattutto, essi avevano avuto conoscenza diretta di tutte le religioni e le filosofie che erano fiorite in quel crogiolo di popoli. Questo era stato compiuto senza mai abbandonare la difesa del Libro, anzi, riportando, da quell'esperienza, una religione più adulta e più partecipe delle istanze, che anche altri grandi pensatori di civiltà diverse e distanti tra loro, avevano definito, nell'ambito della ricerca del perché dell'esistenza del Creato. Infatti la religione ebraica, che era stata portata in catene a Babilonia mentre ancora considerava il suo Dio, unicamente il Dio del popolo ebreo, tornò in patria, affrancata dalla generosità del re persiano Ciro, che emise un decreto di rimpatrio 8 per gli ebrei di Babilonia. Dalla terribile avventura, quella religione e quel popolo tornavano con una visione più universale: il loro Dio era ora il re e il Creatore di tutto l'Universo, e non solo il nume tutelare di un clan. Quindi maestro Leone era arrivato all'epoca alessandrina e rivedeva, naturalmente nell'ottica di un rabbino ebreo, lo sforzo che l'ebraismo fece, nei due secoli che precedettero la nostra era, nel tentativo di ridare, per mezzo della fede nella propria religione, la libertà al popolo ebreo. Erano considerati quei movimenti nell'Ebraismo, che noi conosciamo come Hasidim, che furono da una parte i precursori dei farisei, così diversi da come ce li descrivono i Vangeli, e, dall'altra, degli Esseni. I farisei erano i Dottori della Legge, di cui insegnavano e praticavano la scrupolosa osservanza, al contrario dei Sadducei, i discendenti di Sadoq, l'altra grande corrente religiosa ebraica del tempo. Quei dottori della legge professavano fede nell'immortalità dell'anima e nella resurrezione dei corpi. Pur ammettendo l'intervento divino negli avvenimenti umani, essi erano tenaci assertori della libertà e della responsabilità “ Così dice Ciro , Re di Persia: “ Tutti i regni della terra mi ha dato il Signore, Dio del Cielo, ed egli mi ha ordinato di costruirgli una casa a Gerusalemme che è in Giudea. Chi tra voi appartiene al suo popolo, sia il suo Dio con lui, salga a Gerusalemme che è in Giudea e ricostruisca la casa del Signore, Dio di Israele, cioè quel Dio che risiede a Gerusalemme.E tutti i superstiti di quel popolo, in qualsiasi luogo abitino, siano aiutati da quelli del posto, con argento, con oro, con sostanze, con bestiame e con offerte alla casa di Dio che è a Gerusalemme”. ESDRA, 1,2-4 8 214 morale che avrebbe assicurato la ricompensa celeste dopo la morte. Tommaso li conosceva bene: aveva fatto parte di una commissione di studio cattolica che aveva analizzato la dottrina dei Farisei ed aveva rivalutato, sul piano storico, l'antica corrente spirituale ebraica. I Sadducei, invece, rimanevano attaccati ad una pedissequa ripetizione della legge scritta, non accettando la discussione e neppure la tradizione orale, negando persino l'immortalità dell'anima; insomma erano stati i primi integralisti della storia. Quindi il libro parlava degli Esseni. Pur non sapendo naturalmente dell'esistenza dei manoscritti di Qumran, il libro di maestro Leone collocava esattamente nel loro ambito storico quei monaci ante litteram. Aveva notizia dei loro legami con Joshua di Nazaret, il Cristo della religione cristiana; anzi poneva l'accento sul principale motivo della posizione degli Esseni, o Terapeuti come venivano anche chiamati, introducendo, tra l'altro, particolari inediti alla cultura moderna. Infatti gli Esseni vivevano in gruppi cenobitici ad orientamento così strettamente comunitario, da potersi paragonare alle più radicate posizioni comuniste, in cui era bandita ogni possibilità che potesse sussistere la proprietà, comunque intesa, anche quella a carattere collettivo. Infine, e qui la notizia era clamorosa, maestro Leone forniva le prove di una comunanza tra la religione del Cristo e la posizione degli Esseni, attraverso la figura di Giovanni, il Battista, che aveva battezzato Gesù e ne aveva precorso la venuta 9. Giovanni, dichiarava maestro Leone, era un capo esseno e ne forniva le prove, infondendo così una nuova luce sull'avventura storica del Cristo. L'antico rabbino si chiedeva, con doloroso sarcasmo, come una religione, fondata da un capo così intransigente sul concetto di povertà santificante, potesse poi essersi trasmutata nella religione dei Papi. Ma soprattutto maestro Leone s'interrogava dolorosamente sul fatto che tutte quelle posizioni, quel brulicare di sette, di filosofie, di fazioni e d'orientamenti, non avevano impedito, anzi avevano accelerato la fine dell'unità del popolo della Legge. Le loro beghe, infatti, avevano prodotto la seconda e definitiva distruzione del Tempio ed avevano causato la nuova diaspora del popolo eletto ai quattro angoli della terra, facendogli perdere la patria, con tutte le sciagure che ciò aveva provocato. 9 cfr. SAGGIN op. cit. pag 189. 215 A quel punto, il racconto usciva dalla critica intellettuale, per tuffarsi nuovamente nella realtà più emozionante. Maestro Leone infatti, a proposito della distruzione del Tempio, avvenuta nel 70 dopo Cristo ad opera di Tito, raccontava come un suo avo diretto, Eleazar Ben Shimon, della tribù di Levi, uno dei capi della resistenza antiromana, fosse stato l'ultimo difensore della libertà del popolo ebreo. Infatti, così narrava il racconto: "il primo muro del Tempio, in cui s'erano rifugiati gli ultimi difensori di Israele, cadde nel maggio del 70. I difensori resistettero per tre mesi finché i romani forzarono le porte, il nono giorno di Av. Un'ultima battaglia fu combattuta nei cortili del Tempio, ed il santuario fu dato alle fiamme ". I combattenti " si rifugiarono nel palazzo di Erode, dove resistettero ad un nuovo assedio per altri cinque mesi. Caduto quest'ultimo baluardo, furono fatti ( pochissimi) prigionieri "10. Ma questa era storia, tra l'altro ben conosciuta da Tommaso. Adesso invece, pur sempre nel solco della storia, con gli stessi personaggi, tutto si tramutava in leggenda che, però, maestro Leone raccontava con i più certi accenti di realtà. Infatti il libro dell'antico rabbino dimostrava come Eleazar Ben Shimon, della stessa famiglia Levitica da cui discenderà Levi Ben Gereshon, trascinato in catene a Roma con tutti i figli, fosse stato un membro importante della sua famiglia. Eleazar fu ucciso nel carcere Mamertino, come voleva la tradizione, dopo lo splendido trionfo di Tito. Il generale romano che diverrà imperatore, aveva finalmente bruciato col ferro e col fuoco quell'infezione di guai che, da sempre, era stata la Giudea, nell'ambito dell'impero romano. Per questo, egli era stato immortalato nel grande arco di trionfo sulle pendici del Palatino, sotto cui, ancora oggi, evitano in tutti i modi di passare gli Ebrei di Roma. Ma il figlio di Eleazar, anch'egli sacerdote Levita, seppe farsi assegnare come schiavo al nobile centurione cui era andato, come bottino di guerra, il candelabro sacro alla tradizione ebrea. Questo, ormai, rappresentava l'unico elemento fisico che potesse risalire direttamente alla rivelazione di Jheova a Mosè, come è narrata nell'Esodo, dopo la duplice distruzione del tempio, quella compiuta dai Babilonesi nel 586 avanti Cristo e quella appunto eseguita da Tito, nel 70 d.C. 0 L’episodio è conosciuto anche come presa della fortezza di Masada (nome del palazzo di Erode in cui esso avvenne); al riguardo ci si è attenuti alla descrizione fattane da EBAN op.cit.pag 89. 1 216 Infatti l'Arca era già stata distrutta al tempo della disfatta contro i Babilonesi, ma il grande candelabro d'oro, in quell’occasione, era stato sotterrato dai sacerdoti in un luogo sicuro e nessuno aveva parlato, anche se ciò era costata la vita a molti. Riportato alla luce dopo l'esilio babilonese, il candelabro sacro era stato, con tutti gli onori, ricollocato al suo posto quando fu ricostruito il Tempio, anche se, per evitare troppi appetiti, era stata sparsa la voce che si trattava di una copia, che, pure, veniva nascosta nei momenti di pericolo. Infatti, più di cento anni prima della definitiva distruzione del tempio, Pompeo Magno aveva posto l'assedio a Gerusalemme, conquistandola nel 63 a.C. Egli era penetrato nel Tempio ed aveva visitato, con grave scandalo degli Ebrei, il Sancta Santorum, il luogo in cui solo il Sommo Sacerdote, ed una sola volta l'anno, poteva entrare. Lo stesso Tacito ci fa sapere che Pompeo trovò vuota quella stanza: non vi erano, in quel luogo sacro agli Ebrei, né monili né suppellettili né immagini, nulla 11 . Li`, invece, cento anni dopo, si trovava il vero candelabro sacro alla religione ebrea, la Menorah. Lì l'aveva conquistato il centurione di Tito, con un'azione audacissima, che aveva impedito ai difensori di nasconderlo nuovamente. Tito, per premiare il suo ufficiale, che aveva saputo espugnare l'ultimo fortilizio ebreo, gli aveva permesso di tenere il candelabro. Il centurione aveva posto orgogliosamente quel trofeo nel posto d'onore della propria casa, vicino alla porta d'ingresso, dove custodiva i propri Lari ed i Penati, come prova e testimonianza del suo valore. Altrettanto orgogliosamente, egli s'era fatto ritrarre dagli artisti che avevano scolpito l'arco di Tito. Essi l'avevano immortalato nei secoli, all'interno del fornice di quell'arco, abbrancato al trofeo che aveva personalmente conquistato, uccidendo gli ultimi difensori che non avevano saputo proteggerlo. Il figlio di Eleazar, Moise, non poteva avvicinarsi, pena la morte, al grande candelabro d'oro ma il solo vederlo da lontano era fonte di gioia e motivo di una qualche speranza. Così passarono gli anni. Moise aveva progredito nella fiducia dei suoi padroni, divenendone il capo degli schiavi. Il centurione era morto prematuramente, come spesso accade agli uomini d'azione che, per essere d'azione, hanno bisogno di un pasto robusto, almeno due volte al giorno. 1 SAGGIN op. cit. pag . 80. 1 217 Quando poi la loro azione rallenta o cessa del tutto, essi spesso pongono la loro voglia di conquista nell'ingurgitare la massima quantità di cibo possibile, causando essi stessi, in tal modo, l'origine della propria morte. Ora Moise era diventato il factotum della famiglia del centurione. Il divieto d'avvicinarsi al candelabro non era più così totale e lo schiavo ebreo accarezzava un'idea pericolosa ma entusiasmante: rientrare in possesso di un pezzo almeno, dell'ultima vestigia materiale della loro religione. Occorreva procedere con estrema cautela, per non compromettere tutto. Moise aveva visto da lontano, in gioventù, il candelabro d'oro, perché solo ai sacerdoti del più alto grado era concesso il privilegio d'avvicinarlo. Adesso, ogni giorno poteva passargli vicino, guardandolo, senza dare nell'occhio, dal vano della porta che delimitava la piccola stanza, proibita a tutti coloro della casa, che non fossero i membri diretti dell'orgogliosa famiglia dei proprietari. E poi "il Libro", (Esodo 25-31), aveva una lunga ed esauriente descrizione del candelabro: “Farai un candelabro d'oro puro; il candelabro, il suo piede ed il suo fusto saranno lavorati al martello, i suoi calici, i suoi boccioli e i suoi fiori saranno tutti d'un pezzo con esso..." La descrizione si dilungava riportando esattamente tutte le parti, le misure ed i pesi relativi; "Farai anche le sue lampade in numero di sette. Si metteranno le lampade in alto, in modo ch'esso faccia luce sul davanti. I suoi moccolatoi ed i suoi piattelli saranno d'oro puro. Di un talento 12 di oro puro lo si farà esso e tutti questi utensili". Ecco, l'unica parte che si poteva ardire di trafugare era un piattello del candelabro, però sostituendola subito con un altro piattello identico, soprattutto nel materiale, a quello, d'inestimabile valore religioso e storico, che si voleva sostituire. Non fu facile reperire l'oro necessario, né impadronirsi della tecnica adatta a ricostruire il piattello, che era sotto il moccolatoio centrale del candelabro sacro. Non era facile, perché Moise aveva deciso di non far parola alcuna, nemmeno con i correligionari più fidati, nè, tantomeno con le donne, perché da buon rabbino, recitava ogni giorno la preghiera ebrea: "Signore, ti ringrazio di non avermi fatto nascere donna". L'occasione era unica ma il pericolo era la morte: non si poteva sbagliare, non si doveva fare parola con alcuno. 2 Misura di peso, corrispondente a 48 chilogrammi . 1 218 Solo suo figlio Efraim era al corrente e poteva dargli un aiuto. Così, una notte senza luna, abbandonando senza esser visto un grosso otre di vino e, con quello fatto ubriacare lo schiavo portinaio che dormiva vicino alla porta di casa, di fronte alla stanza che custodiva il suo tesoro, Moise ardì entrare in quella stanza, svitare il moccolatoio centrale, sostituire il piattello e trafugare l'originale. Pensava quasi d'averla fatta franca, quando un improvviso rumore aveva fatto svegliare tutta la casa. Il padrone, non riuscendo a dormire, era sceso per bere ed aveva trovato lo schiavo portinaio addormentato nel sonno dell'ubriaco. Le sue urla erano l'effetto di una notte insonne, ma c'era anche un'altra causa: lo schiavo addormentato, o fatto addormentare, poteva significare un tentativo di furto. Ognuno conosceva la procedura: tutti gli schiavi erano stati bruscamente svegliati e fatti adunare presso il muro di cinta, che delimitava il giardino della casa. Lì, venivano perquisiti e, se mancava qualcosa di piccolo, dovevano rimanere fino a che uno schiavo fidato non avesse rovistato nei loro escrementi, alla ricerca della refurtiva. Lo schiavo portinaio aspettava tremante il responso della verifica che la padrona di casa, la moglie del padrone, faceva, mettendo in uso tutte le chiavi che aveva in dotazione. Se mancava qualcosa, per lui sarebbe stata la tortura fino a che non avesse rivelato la verità ed il nome del complice. Se non mancava nulla se la sarebbe cavata con una buona dose di frustate; al massimo sarebbe stato venduto ad una casa meno importante; ma poca cosa, in confronto all'ipotesi di un furto. Moise sentì anche il suo nome tra quelli che dovevano subire l'ispezione ed allora pensò che solo una mossa disperata poteva salvarlo: con uno sforzo terribile, ingoiò il pesante pezzo d'oro, largo poco meno di cinque centimetri. Sentì la gola lacerata dal peso e dalle punte dell'oggetto che aveva trafugato ed il sapore aspro del sangue in gola, ma riuscì a dissimulare tutto. Passarono momenti interminabili di paura e di dolore; finalmente la matrona sentenziò: "È tutto a posto, non manca nulla d'importante, basterà una buona strigliata a quell'ubriacone". Dovettero ancora assistere, tutti, alla punizione; poi, finalmente, Moise poté tornare alla sua stanza nell'appartamento della servitù, che fungeva da abitazione per la sua famiglia. Moise morì dopo sei giorni, per un'emorragia interna, senza farsi uscire una sola parola al riguardo. 219 Efraim lo seppellì all'uso ebraico, nella valletta appartata, oltre l'ansa del Tevere, nel posto che serviva a questo scopo. La stessa notte, all'insaputa di tutti, egli ritornò in quel luogo che, già malfamato di giorno, diveniva tetro e assolutamente non transitato da alcuno, durante la notte. Lì, mentre il dolore per la perdita del padre non aveva ancora fatto asciugare le lacrime sul suo volto, Efraim dovette compiere un rito macabro ed allucinante. Con un coltello affilato aprì lo sterno di suo padre e trovò, quasi all'altezza del cuore del rabbino, che aveva saputo compiere un così grande sacrificio, il frutto di quell'atto d'amore e di dedizione alla propria religione, consacrato con il sangue e pagato con la vita. Poi Efraim, di lì a qualche tempo, chiese al proprio padrone di destinarlo ai magazzini che la famiglia gentilizia possedeva ad Ostia, presso lo scalo marittimo che serviva la capitale dell'impero. Troppo pericoloso era il rimanere vicino al padrone con quel reperto, che era costato così caro. Del resto il padrone conosceva Efraim, lo stimava ed era felice d'avere un uomo capace, che sapesse badare ai suoi interessi anche senza un controllo costante. 220 CAPITOLO XIX L’INCREDIBILE Così la famiglia dei sacerdoti ebrei si trasferì ad Ostia, dove visse in relativa autonomia e tranquillità. In seguito, in virtù dei meriti che l'attuale capofamiglia s'era guadagnato nei confronti del padrone, ed anche per mezzo di un generoso contributo in danaro, l'intera famiglia poté acquistare la libertà. Un unico cruccio tormentava Efraim: non aver potuto far nulla per evitare che il suo antico padrone, sempre più carico di debiti, vendesse l'antico, glorioso reperto del suo avo, il candelabro sacro alla tradizione ebraica, che fu fuso, per ricavarne la gran quantità d'oro di cui era fatto. Solo un simbolo tangibile rimaneva del patto sacro che l'Onnipotente aveva stipulato con il popolo della Legge, ma Efraim aveva giurato che la sua famiglia l'avrebbe custodito in eterno. Sempre desumendo dati dal mirabile libro del suo antenato, Tommaso seguiva il destino di quella famiglia, perpetuantesi nella teoria dei propri primogeniti, nello scorrere dei secoli. Sul finire del sesto secolo della nostra era, troviamo che la famiglia levita, trasferendosi al seguito dei propri affari nella Tuscia, l'attuale Toscana, forse per affondare sempre di più in un anonimato che non l'esponesse a grandi pericoli, aveva cambiato il proprio nome in quello di Kalonymos. A prima vista, quello era un nome gentilizio, che non faceva pensare ad un patronimico ebreo, ma, a ben vedere, quel cognome rivendicava tutto l'orgoglio della propria ascendenza in quanto significava, in greco, "dal bel nome". Proprio i Kalonymos furono il nucleo originario della comunità ebraica che, su invito-ordine di Carlo Magno, intorno all'ottocento, partì da Lucca, città in cui s'erano nel frattempo trasferiti coloro che ora si chiamavano Kalonymos, per dare vita alla comunità ebrea di Magonza in Germania 1. Infatti in tutto l'alto medio evo, come abbiamo visto, Principi, Governatori, addirittura Vescovi facevano a gara nell'invitare comunità ebree, originarie dei più diversi e distanti luoghi, a stabilirsi nelle nuove città che stavano sorgendo, mentre la vita economica tornava a scorrere, dopo i secoli bui. Quei governanti erano evidentemente mossi dalla speranza che gli ebrei, che avevano dato una così buona prova di saperci fare 1 Episodio storico, riportato da A.EBAN, op.cit. pag. 150. 221 negli affari, potessero rimettere in moto le attività economiche, che da troppo tempo erano state distrutte dalle invasioni barbariche. Ma a Magonza, come in tutta l'Europa, la pace durò poco. Papa Urbano II, in un memorabile Concilio tenuto a Piacenza nel marzo del 1095, lanciò l'idea di liberare, mediante una "guerra santa”, il Santo sepolcro dagli infedeli mussulmani. Al solito, le frasi altisonanti e la "fede purissima" nascondevano interessi del tutto terreni, anzi alcuni francamente inconfessabili, altri più giustificabili, ma tutti ben saldamente piantati nel tornaconto e nel desiderio di un facile guadagno, o nell'accrescimento del proprio potere. Così gli storici ne hanno chiaramente individuato alcuni, quali la ferma intenzione, da parte del Papa di Roma, di umiliare la Chiesa di Bisanzio, che proclamava orgogliosamente il proprio primato su tutte le Chiese. Durava dal 587 la diatriba tra il Patriarcato di Costantinopoli, che rivendicava il titolo di Patriarca ecumenico, in altre parole di Capo spirituale dell'Oikoumene, cioè, in lingua greca, di tutta la terra abitata, mentre quel titolo era stato assegnato una prima volta, dal clero di Alessandria, al Papa Leone Magno, nel 451. Inoltre l'instaurarsi in Turchia di un forte impero mussulmano, quello dei sultani Selgiuchidi, aveva bloccato l'espansione delle città marinare italiane, Genova e Venezia in primo luogo. Quelle città, in tal modo, si vedevano tagliate irrimediabilmente le proprie linee di traffico, dal monopolio turco su tutto l'Oriente mediterraneo ed oltre. Infine le grandi famiglie feudatarie del Sacro Romano Impero avevano, come consuetudine mutuata dai loro ascendenti barbari, la legge che destinava il titolo ed il patrimonio familiare esclusivamente al primogenito. In virtù di tale legge, tutta l'eredità della famiglia andava, insieme con il titolo nobiliare e proprio per rafforzarlo con la potenza della ricchezza, al primo figlio maschio. Per gli altri, il convento o la guerra di ventura, per conquistare sul campo quello che non s'era potuto ereditare. Certo che, insieme con queste cause, vere ma nascoste, v'era l'ardore di Pietro l'Eremita, che riuscì a sollevare una turba imponente di fanciulli e di spostati, i quali s'aggiravano per l'Europa cercando"l'infedele", al grido di "Dio lo vuole". Ma è un'astuzia del potere cavalcare, da sempre, le pulsioni della povera gente, indirizzandole ai propri fini, che sono sempre fini idonei a perpetuare ed ingigantire lo stesso potere. Fatto sta che, non trovando ovviamente l'infedele maomettano in Europa, quelle masse, sempre pilotate dal potere, si rivolsero 222 sull'infedele che avevano sulla piazza, cioè, come abbiamo già visto, sugli ebrei. Le prime due bande che raggiunsero l'Ungheria compirono tali atrocità contro tutti, da esser completamente distrutte dalle popolazioni inferocite. La terza orda si specializzò: arrivata in Renania, essa compì un micidiale Pogrom 2 contro i soli ebrei, che su incitazione del potere, furono additati come i capri espiatori della situazione. Evidentemente si voleva, in questo modo, togliere di mezzo degli scomodi e validi concorrenti sul piano commerciale. Così furono distrutte, con il ferro e con il fuoco, le comunità ebraiche di Metz, Spira, Troyes ed, appunto, Magonza. Solo un piccolo numero d'ebrei, che abiurarono la propria fede, ebbero salva la vita, ma persero tutto il resto. Gli altri furono passati a fil di spada. In tal modo iniziò la prima crociata. Essa culminò, nel 1099, questa volta con forze organizzate militarmente, con la conquista di Gerusalemme. La città santa fu presa il 15 luglio, ad opera di Godefroi de Bouillon (Goffredo di Buglione), erede designato di suo zio, Goffredo III il gobbo, duca della bassa Lorena, cui però l'Imperatore Enrico IV aveva assegnato solo il marchesato di Anversa. La sera stessa della conquista, al tramonto, i Crociati, dopo aver proclamato, sul Santo Sepolcro, la costituzione di un regno cristiano in Gerusalemme, ammassarono tutta la popolazione ebrea nella sinagoga e la arsero viva 3. Invece, secondo lo storico musulmano Ibn al-Athir, dopo che fu espugnata la città, le vittime tra la popolazione furono circa settantamila. Nell'ebbrezza della vittoria, il massimo divertimento delle truppe con la croce fu quello di gettare i musulmani, in calderoni d'acqua bollente e d'arrostirne i neonati sugli spiedi 4 . Poi, per non fare torto a nessuno, usarono lo stesso trattamento ai loro fratelli cristiani, ivi residenti: greci, copti, siriani, armeni, georgiani. E pensare che, quando Oman, il secondo califfo, aveva conquistato Gerusalemme nel 638, egli trattò con i massimi onori cristiani ed ebrei, rispettandone vita ed averi e chiedendo di vedere i luoghi sacri di questi. POGROM, in russo significa “ DEVASTAZIONE “ ed indica una manifestazione popolare antisemita, spesso incoraggiata dal potere centrale, con massacri e saccheggi. 3 A.EBAN op. cit. pag. 163. 4 Ziauddin SARDAR, Zafar ABBAS MALIK: MAOMETTO Feltrinelli 1994, pag 143 e segg., per le notizie riguardanti le Crociate. 2 223 Poi, giunta l'ora della preghiera, mentre il Patriarca della chiesa del Santo Sepolcro lo invitava a pregare in quel luogo consacrato, non volle farlo, perché, disse: " Se prego qui, i musulmani vorranno appropriarsi di questo luogo, che la mia presenza ha reso sacra per la loro religione" e se ne andò fuori, a pregare sulla nuda terra. Anche dopo la tragedia della presa di Gerusalemme da parte delle truppe di Goffredo di Buglione, quando i musulmani la riconquistarono nel 1187, sotto il califfo ayyubide Salah al Din (il nostro " feroce " Saladino!), questi non tollerò alcun torto alla vita ed agli averi dei cristiani, permettendo a chiunque di rimanere, se lo desiderava, o d'andarsene, con tutte le sue ricchezze, se questa era la sua intenzione. Ma noi dobbiamo seguire le vicende della famiglia ebrea, che era a Magonza. Al tempo in cui si compiva il pogrom che distrusse le comunità ebree in Renania ad opera delle orde di Pietro l'Eremita, il rabbino, capo di quella casa, che, allora continuava a chiamarsi Kalonymos, aveva già mandato, da più di trenta anni, il proprio primogenito Menahem a Toledo, in Spagna, dove gli Arabi continuavano la loro politica di tolleranza, anzi di buona accoglienza dell'elemento ebreo. Non deve meravigliare questa politica dei continui spostamenti, che dovrà dare adito alla favola dell'ebreo errante, perché maledetto. Abbiamo visto che l'ebreo era costretto a fuggire per tutta l'Europa, perché su di lui si scaricavano le tensioni di un continente aggressivo e brutale, che aveva nel proprio patrimonio genetico, prima che culturale, le stigmate della sopraffazione e della violenza. Era quindi prassi usuale, oltre che ragionevole misura di salvaguardia e motivo d'instaurazione di proficui contatti di lavoro e di commercio, inviare i membri più cari della propria famiglia in altre contrade. Lì dove, al momento, erano condizioni più umane di sopravvivenza e di vita, venivano mandati i figli prediletti, ed a loro erano affidati gli scarni beni, soprattutto quelli della memoria e del ricordo, in modo da salvaguardarli in qualche maniera. Così, quando la famiglia Kalonymos fu distrutta a Magonza, perché non aveva voluto abiurare la propria fede, Menahem, che aveva in custodia tutto quello che era la memoria della sua famiglia, non più costretto a nascondersi, come ebreo, essendo tra i mori di Spagna, ritornò all'antico nome dei Levi, che aveva contraddistinto il suo sangue, per tanti secoli. 224 In questo modo, nel 1075, a Toledo, nacque Yehudah Ha-Levi, il grande poeta e filosofo ebreo dell'Andalusia, dove ebrei e cristiani vivevano pacificamente, nella splendida civiltà, che gli arabi avevano trapiantato in Spagna. Passando dalle ballate che cantavano l'amore terreno, come era inteso in quella sintesi perfetta tra elementi arabi, motivi cristiani ed atmosfera ebraica, che fu il primo momento ispiratore di un’originalissima poetica, Yehudah Ha-Levi, il prodigio dei salotti letterari dell'Andalusia, negli anni della maturità, andò trascolorando la sua vena poetica, fino ad incentrare il proprio discorso letterario sull'amore che l'uomo deve portare a Dio. Per questo tramite, egli enunciò la necessità, per un israelita, di proclamare la propria fede nell'ideale nazionale, e quindi religioso, del popolo ebreo. Nacquero così alcuni dei versi più tristi ed esaltanti di tutta la letteratura ebraica di tutti i tempi. Le sue "Canzoni dall'esilio" e la potente "Ode a Sion" sono tuttora cantate nelle sinagoghe, quando si commemora la tragedia ebrea della "Galut" (la Diaspora) e, sempre, suscitano una commozione irrefrenabile. Ma Yehudah Ha-Levi fu anche un grande filosofo. Nella sua opera, "Kuzari", che ha come sottotitolo "Libro d'argomenti e dimostrazioni in favore della Fede disprezzata", Yehudah Ha-Levi pone, nei termini di un grande dialogo platonico, la dottrina ebraica dei rapporti tra ragione e fede. Nel fare ciò, egli cerca anche di dimostrare, con solidi argomenti, la superiorità del giudaismo sulle altre religioni del Libro, come si chiamano le religioni rivelate, e cioè sul Cristianesimo e sull'Islam. Così, in quel libro, dialogano un filosofo ebreo ed il Re dei Chazari, un popolo già ricordato, d'origine indoeuropea, probabilmente di ceppo Unno, proveniente dagli altopiani turchi, che s'istallò nelle steppe del Caucaso, fondando un potente impero. Questo s'estendeva dal Volga al Dnepr, comprendendo tutta la Crimea. Il regno dei Chazari, dunque, nel VII secolo, s'era convertito in massa all'Ebraismo. Nel libro di Yeudah Ha-Levi, il filosofo affermava che la filosofia, o anche la sola ragione, potevano arrivare a produrre prove convincenti che dimostrino l'esistenza di Dio ma questo non basta a definire una religione. Una religione ed, a maggior ragione "la religione", si definisce solo con un rapporto personale tra Dio e l'uomo, tra Dio ed un 225 popolo, attraverso una rivelazione che ogni uomo, ogni popolo deve fare per raggiungere Dio. Ciò era quanto avvenuto ad Israele, quando Dio si rivelò a Mose e questo non poteva avvenire, la prima volta, se non ad Israele, per le intime qualità di quel popolo, di quella terra, di quelle tradizioni, di quei costumi. Ma questo, l'incontro, cioè la rivelazione di Dio all'uomo, arriverà per tutti i popoli, quando si giungerà nell'era messianica, quando tutti i popoli avranno raggiunto il grado di perfezione spirituale concesso ad Israele, che rimane il termine di paragone, il prototipo morale per l'Umanità5 . Era il famoso concetto di popolo eletto, che farà accusare Israele di razzismo, anzi d'aver, con questo concetto, inventato il razzismo. Yehuda Ha-Levi morirà nel tentativo d'arrivare a Gerusalemme, calpestato a morte, come racconta la leggenda, da un cavaliere arabo, davanti al muro del Pianto. Tommaso ripercorse tutto il cammino del grande filosofo ebreo, integrando le informazioni che già possedeva, con le notizie che lo straordinario libro del suo antenato gli andava fornendo. Tra l'altro, aveva suscitato clamore, proprio nei giorni in cui Tommaso si stava immergendo in quell'avventura, la tesi di un giovane e valente storico, che ipotizzava i Cazari come la popolazione, da cui si era sviluppato l'Ebraismo dell'Europa centrale ed orientale, dando così vita a quel ceppo ebreo, che è conosciuto come askenazita. Ma se l'origine degli askenaziti era indoeuropea, come erano indoeuropei i Cazari, cioè se gli ebrei dell'Europa centro orientale erano di discendenza "ariana", anzi “Unna” addirittura, le menzogne naziste sulla "razza" si rivelavano, da questo, per quello che erano. Assurdità scientifiche, propalate al solo scopo di avallare crimini politici e veri e propri delitti comuni, compiuti con l'intento di distruggere un'intera popolazione, un genocidio appunto. Il libro di Lewi Ben Gereshon, maestro Leone, terminava con l'esposizione della figura e dell'opera dell'altro grande ebreo spagnolo, Mosheh ben Maimon, conosciuto come Maimonide E’ illuminante, a questo proposito, la preghiera del rabbi Israel, del maggid di Kozienice, in Polonia, vissuto a cavallo dei secoli XVIII e XIX, riportato da Heiko HAUMANN, nella sua STORIA DEGLI EBREI DELL’EST edito da SugarCo marzo 1991: “Signore del mondo, sappi che i figli d’Israele soffrono troppo. Essi meritano la redenzione, ne hanno bisogno. Ma, se, per una ragione a me sconosciuta, non lo vuoi, non lo vuoi ancora, redimi almeno gli altri popoli, le altre nazioni. Ma fa’ alla svelta”. 5 226 nell'Europa cristiana, e del suo capolavoro: "La guida degli smarriti". Alla fine vi era un breve accenno alla personale filosofia dell'autore, il quale si poneva, con molto rispetto, come un semplice discepolo e continuatore dell'opera di Maimonide. Proprio le ultime pagine fecero sussultare Tommaso: egli era uno dei più autorevoli studiosi dell'esegesi biblica, cioè dello studio, spiegazione ed interpretazione del Libro sacro alle due religioni, che segnarono la sua vita, quindi quello che stava leggendo era per lui di grande valore storico e scientifico. Ora, dalla lettura del libro di maestro Leone veniva fuori, chiarissima, una tesi che molti avevano avanzato, ma che nessuno aveva potuto provare. Ogni cinquecento anni circa, quattrocentonovanta per la verità, cioè settanta volte sette, rabbini particolarmente versati nello studio della Bibbia avevano operato una revisione dei testi sacri, definendo il canone dei libri, che dovevano esser ritenuti ispirati direttamente da Dio. Il perché di quella cifra, (Quattrocentonovanta), deriva da un antichissimo uso ebraico, presente più volte nella liturgia di quel popolo. Così, come nel cerchio concluso della settimana esisteva un giorno, il sabato, consacrato all'Onnipotente, anche gli anni avevano cerchi chiusi, con ricorrenze dedicate al Dio d'Israele. Troviamo quindi, ogni sette anni, l'anno sabbatico, istituito direttamente dall'Onnipotente, quando si mostrò a Mosè sul monte Sinai (Lev. 25-1), l'anno consacrato al riposo dei campi, che non possono esser lavorati in questo periodo ed i cui frutti sono destinati, per quell’anno, ai poveri ed agli stranieri. Esiste inoltre il Giubileo: "Conterai sette settimane d'anni, sette volte sette anni, e avrai il periodo di sette settimane di anni, cioè quarantanove anni"(Lev 25-8). "Dichiarerete Santo l'anno cinquantesimo ". In quell'anno gli schiavi erano liberati, ogni famiglia tornava in possesso della terra di cui era, storicamente, proprietaria e che aveva dovuto vendere, venivano rimessi i debiti. Ma vi era un ciclo ulteriore: le settanta settimane d'anni, cioè quattrocento novanta anni. Infatti Daniele, nella sua profezia apocalittica (Dan 9-2-24), pone quel tempo tra l'Esilio babilonese (587/586 a.C.) e la "Fine dei tempi". Anche il "Documento di Damasco", l’unico documento degli Esseni conosciuto dalla letteratura esegetica, prima che venissero effettuati i ritrovamenti dei manoscritti del mar Morto, accenna, all'inizio, ad una data che, probabilmente, si rifà allo stesso procedimento. 227 Tutta la letteratura ebraica è intrisa di questo modo di considerare il tempo, chiuso in cerchi ricorrenti, al compimento dei quali occorreva adempiere a particolari osservanze. Per quanto attiene la revisione ciclica dei libri sacri, il testo di maestro Leone indicava chiaramente come ciò fosse avvenuto al tempo di Re Salomone, sotto il quale fu definito, per la prima volta, il canone dei libri ispirati da Dio. Quel canone costituisce quello che noi conosciamo come Pentateuco (cioè i cinque libri: il Genesi, l'Esodo, il Levitico, il libro dei Numeri ed il Deuteronomio), quello che i rabbini chiamano Torah, la Legge. Maestro Leone si spingeva a dire che l'unico motivo per cui Salomone non uccise Ebyatar, il Gran sacerdote, fu perché questi era occupato, con gli altri maestri della Legge, a redigere il Canone del Pentateuco, opera che avrebbe dato fama imperitura al regno di Salomone. Questo fu l'unico tesoro che gli Ebrei portarono con loro, ai tempi della cattività babilonese, quando la prima diaspora del popolo ebreo disperse la nazione dei figli di Abramo. Ma la produzione dei testi religiosi e profetici del popolo ebreo continuava copiosa. Ciò indusse i rabbini delle comunità, ormai sparse su di un territorio vastissimo, a stabilire la necessità che fosse ridefinito il canone, che, dai tempi di Salomone, s'era grandemente ampliato. Infatti l'inserimento di alcuni libri suscitava notevoli perplessità, e questo contenzioso doveva esser risolto, in modo che il Canone fosse accettato da tutti, divenendo così un elemento unificante della nazione ebrea. Quindi il canone dei libri sacri fu ridefinito una seconda volta nel terzo secolo avanti Cristo, ad Alessandria d'Egitto, e questa fu la famosa versione "dei settanta". In verità quella revisione si sarebbe dovuta avere nel quinto secolo a.C., (Salomone 970-931a.C.), per rispettare il termine dei quattrocento novanta anni canonici. Ma la schiavitù babilonese prima e la necessità d'avere un canone valido per tutta la Diaspora poi, allungarono i tempi per più di un secolo, in quanto occorreva fare non solo un lavoro di analisi critica, ma fu necessario procedere addirittura ad una traduzione, che sarà accettata definitivamente solo nell'epoca alessandrina. In quella versione, i testi sacri furono tradotti in greco della Koinè, cioè nella lingua parlata e capita in tutto il bacino del Mediterraneo. In questo modo, anche gli Ebrei che ormai s'erano amalgamati con le diverse popolazioni tra cui si erano trasferiti, 228 assumendone la lingua e non usando più, con il passare del tempo, la lingua ebraica, furono in grado di conoscere la Bibbia. Perciò il Libro, oltre ad essere la voce di Dio, la testimonianza del Patto e la raccolta della Legge, adempì anche ad una precisa funzione nazionale, continuando ad essere un potente legame tra tutte le comunità ebraiche del Mediterraneo. Così, la sua conoscenza non fu lasciata ai soli rabbini, che, necessariamente, ne avrebbero ristretto l’influenza in un ambito specialistico. Successivamente, sempre ad intervalli che si cercava di far coincidere con il periodo stabilito, fu compiuta una cernita tra tutti i libri che erano compresi nel canone alessandrino, limitando i libri canonici della Bibbia al Pentateuco, ai Profeti ed agli Agiografi, e stabilendo così un nuovo Canone. Questo non sarà più mutato, nella religione Ebraica, fino ai nostri giorni, dando origine alla Bibbia ebraica tuttora in vigore, che venne chiamata "Massoretica", dall'ebraico "Massorah" che significa tradizione 6. Ma la notizia eclatante, desunta dal libro di maestro Leone, era che in ogni sede in cui veniva definita la versione da accettare, era presente un membro importante della famiglia che era la custode dell'ortodossia, la stirpe da cui discenderà Lewi ben Gereschon, la famiglia che era il "Resto", ormai ignoto ai più, ma sempre ben presente nella storia di Israele. Essa rappresentava la continuità della tradizione e l'avallo dell'autorità rabbinica. Inoltre essa diveniva, una volta raggiunto l'accordo, in sede di discussione sulla validità dei testi, depositaria del canone, così stabilito. Proprio uno stimato rabbino di quella famiglia definì chiusa, per sempre, la serie dei libri che componevano la Bibbia ebraica, dando inizio ad un canone ormai immutabile: quello che noi abbiamo conosciuto come "Bibbia Massoretica". I capi di quella famiglia s'incaricavano poi, di custodire il canone, così definito, che diveniva, in questo modo, il paragone per tutte le versioni della Bibbia custodite dai rabbini ebrei. Tale notizia, conseguente all'altra, che voleva la famiglia sacerdotale d'Israele la custode nascosta dell'ortodossia Israelita, notizia ormai persa ai nostri giorni, era importantissima per lo studio storico del Libro sacro e dava un valore del tutto nuovo al testo che Tommaso stava leggendo. Ormai stava di nuovo calando la notte su Lovanio, ma Tommaso non se ne era neppure accorto: s'era totalmente immerso nella 6 SOGGIN op. cit. pag. 35. 229 lettura dei tesori, che una sorte quasi incredibile gli aveva offerto. Il suo pasto era stato solo un panino ed una bottiglia d'acqua minerale, che un inserviente gli aveva portato, nel tardo pomeriggio. Ora egli doveva completare la straordinaria cavalcata che l'aveva portato, dall'età favolosa dei patriarchi, all'età tragica di maestro Leone. Riprese il libro di suo nonno, la Storia di una famiglia ebrea, e si lanciò nuovamente nell'avventura drammatica, ma entusiasmante, dei suoi avi che, dopo maestro Leone, come abbiamo visto, si chiamarono con il cognome di Ferrara. Da quelle pagine tornava a lui l'insulto del Ghetto, come si chiamò, dal nome di una preesistente fonderia, il primo quartiere in cui furono segregati gli ebrei di Venezia nel 1516, e poi, via via, in tutte le città d'Europa. Dal libro del suo avo, si materializzava nuovamente la tragedia dei "Marranos", gli Ebrei spagnoli. Essi, dopo la riconquista cristiana della Spagna, non avevano saputo o potuto resistere alle pressioni violente di coloro che, come sola alternativa alla morte, imponevano l'abiura della religione ebraica ad intere popolazioni atterrite. Scorreva davanti ai suoi occhi la carneficina, che fu compiuta in tutta Europa molte volte ed in molti luoghi, anticipando quasi quella "soluzione finale" che aveva ucciso i suoi genitori. Eppure, dopo ogni tragedia, risorgeva, indomita, la forza morale di un popolo, che non voleva, non doveva morire, che cercava un appiglio qualsiasi per rimanere attaccato alla vita. Così, gli Ebrei, per resistere, dovettero inventarsi delle favole amare, attinte alla forza presente nel proprio inconscio, come quando favoleggiavano del Golem, l'automa difensore dei miseri figli di Israele. Il famoso robot si diceva costruito a Praga da un grande rabbino, sul finire del seicento; egli acquistava vita, quando gli si metteva in bocca un pezzo di carta con il nome segreto di Dio, noto solo ai maestri più esperti della cabala. Questa forza indomita fu sempre presente nella storia del popolo ebreo, impedendo che esso scomparisse, come era accaduto per tanti popoli dell'antichità. L'Ebreo dette sempre una grande prova di vitalità, sostenuto dalla sua fede; questa vitalità gli permise d'essere in prima fila tra i protagonisti, quando si costruivano le nuove frontiere dell'Umanità. Per questo troviamo gli Ebrei già sulle caravelle di Colombo, quando i reietti della terra si gettarono alla conquista dell'America, il nuovo mondo, scoperto da un uomo che, 230 probabilmente, era un ebreo nascosto ed in cui era sbarcato per primo Luis de Torres, ebreo battezzato immediatamente prima della partenza delle tre navi da Palos 7. Poi, la storia dei nostri giorni: l'emancipazione, come fu chiamato quell'atto, duramente conquistato, per cui i Principi cristiani erano disposti a riconoscere, almeno in via di principio, alcuni diritti agli Ebrei. Iniziò Federico il Grande, re di Prussia, con gli Statuti emanati nel 1750, e, via via, gli altri; Giuseppe II d'Austria, e, finalmente, l'Assemblea Nazionale Francese, il 27 settembre 1791, in piena rivoluzione. Essa concesse agli ebrei il diritto di cittadinanza, modificando in maniera notevole la miseranda situazione di coloro, che vivevano in Europa pagando ogni tassa, assumendosi ogni colpa e non avendo nessun diritto 8. Ma questo non bastava a Napoleone: "Sa Majestè veut que vous soyez Francais 9 “. Infatti, avute particolari assicurazioni, Napoleone autorizzò, nel 1807, la costituzione, in Francia, del Sinedrio, un organismo investito d'autorità religiosa, che rappresentasse in qualche modo, a somiglianza dell'antico Sinedrio del tempo di Roma, i diritti del popolo Ebreo, il quale avrebbe così trovato "in Francia la sua Gerusalemme". Si tentava, in ultima analisi, di stabilizzare l'elemento ebreo nella nazione in cui s'era stanziato, cercando d'amalgamarlo con la rimanente popolazione, facendone quasi una varietà, con caratteri distinti, ma non diversi e contrastanti con le altre componenti della Nazione Francese. A.EBAN, op. cit. pag. 180. “ In quasi tutte le città’ dell’Europa, le leggi dello Stato tendono ad ostacolare quanto piu’ possibile l’afflusso di questi sventurati profughi asiatici: gli ebrei...Dovunque viene negato all’Ebreo il privilegio di servire lo Stato. Egli non può dedicarsi all’agricoltura, nè può acquistare proprietà. L’unico ramo dell’attività economica che gli viene lasciato e che gli permette di sbarcare il lunario è il commercio al minuto. Quando un ebreo ha parecchi figli, ha il privilegio di tenerne con se uno solo, dato che solo il primogenito può sposarsi e farsi una famiglia. Gli altri debbono esser mandati via. Le sue figlie rimangono con lui soltanto se sono tanto fortunate da sposare ebrei della sua città che hanno diritto di risiedervi. E’ molto raro che un padre ebreo sia tanto fortunato da poter vivere fra i suoi figli e nipoti e dare una base permanente al benessere della sua famiglia “. Cristian Wilhelm von DOHM, scrittore, diplomatico, aristocratico del XVIII secolo, riportato da A. EBAN op. cit. pag 224. 9 “ Sua Maestà vuole che voi siate Francesi “. 7 8 231 A poco a poco, tutti gli stati dell'Europa occidentale modificarono le loro legislazioni, concedendo l’emancipazione, più o meno estesamente, agli ebrei. Neanche allora mancarono però rigurgiti antisemiti, propiziati dal movimento romantico che, favoleggiando attorno al concetto della purezza delle origini storiche dei vari popoli, fatalmente veniva a trovarsi in rotta di collisione con l'ideale illuministico dell'uomo cittadino del mondo, ideale che aveva giustificato e permesso il processo d'emancipazione degli ebrei. Ancora più difficile fu il percorso dell'emancipazione negli stati dell'Europa orientale, che poi voleva dire, principalmente, nella Santa Russia zarista. Per capire con quanta perfidia veniva trattato il problema ebraico in Russia, basti pensare a quello che avvenne sotto il regno di Nicola I, Zar di tutte le Russie dal 1825 al 1855. Con la scusa d'integrare gli ebrei nel popolo russo, fu imposto loro il servizio militare. I giovani ebrei furono arruolati in speciali battaglioni, dall'età di dodici ai diciotto anni. Essi, come tutti gli altri russi scelti per la leva, dovevano quindi prestare servizio di leva per venticinque anni. Per tutto questo tempo, gli ebrei erano alla mercé di rozzi pope ortodossi che non rifuggivano da nessuna tortura psicologica, ed anche fisica, nel tentativo, spesso riuscito, di convertire quei poveri ragazzi "alla vera fede". Pure, anche in Russia venne il vento dell'Illuminismo, che, in quelle terre si chiamò "Haskalah". L'emancipazione, in tutti gli Stati europei, aveva un terribile sottinteso: gli ebrei erano ritenuti, in qualche modo, cittadini dello Stato in cui si trovavano, a patto che essi stessi riconoscessero la loro condizione d'inferiorità dell'essere ebrei, che quasi si vergognassero della loro identità spirituale, e che, soprattutto, la ripudiassero ogni volta che questa entrava in competizione con gli interessi, gli usi ed i costumi dello Stato che li aveva accolti. Solo così, solo perdendo le loro caratteristiche spirituali, quasi liquefacendosi nel gran calderone della popolazione, senza altri attributi, gli ebrei sarebbero potuti divenire cittadini, e nemmeno a tutti gli effetti, degli Stati che li ospitavano. A tale concetto, che, alla lunga avrebbe significato l'estinzione dell’identità ebrea, si contrapporrà un nuovo movimento, il Sionismo, che nacque in Europa tra le menti più lungimiranti dell'ebraismo. Il Sionismo individuò nella ricostituzione di uno Stato ebraico, possibilmente da edificare in Palestina, la terra da cui erano 232 partiti gli ebrei milleottocento anni prima, la soluzione del problema. Del resto questa era la versione politica dell'antico augurio ebreo: l'anno prossimo a Gerusalemme. Nel 1897 Theodor Herzl, il padre dell'idea sionista insieme con altre personalità ebree che ne avevano preceduto e reso possibile l'opera, come Montefiore, Sir Laurence Oliphant, il premier inglese Disraeli, poteva tenere, a Basilea, il primo congresso sionista. In quella sede egli fece una dichiarazione profetica: "A Basilea ho creato lo Stato Ebraico. Forse entro cinque anni, e sicuramente entro cinquanta, tutti potranno vederlo"10. Tutta l'azione delle menti illuminate dell'ebraismo concorse alla lotta e gli uomini della famiglia Ferrara furono in prima fila; la loro opera fu incentrata nel non far dimenticare al sionismo la pulsione morale che proveniva all'ebraismo dalla Torah, la Legge. Questo apprese Tommaso, concludendo la lettura dei libri e degli articoli che avevano scritto suo nonno e suo padre, affinché quell'avventura incredibile avesse la conclusione che ebbe, anche se entrambi pagarono con la vita l'adesione al loro Ideale. Ora Tommaso aveva finalmente letto attentamente, e catalogato esaurientemente nella sua mente, quel turbinio di fatti, date, rivelazioni, dolorosi ricordi, incredibili ma documentate coincidenze, rapporti causali. Egli non avrebbe mai immaginato una realtà tanto romanzesca, se l'autorità del vecchio saggio e la memoria di coloro che l'avevano preceduto, nella lunga catena delle generazioni del suo sangue, che avevano testimoniato per tanti secoli la loro fede, non avessero fornito ampiamente la prova della verità della loro storia. Naturalmente tutto questo, pur se poneva con forza il problema, non bastava per la mente razionale di Tommaso. Occorrevano dati certi, riscontri sicuri, concatenazioni logiche impossibili ad esser spezzate, per dimostrare in maniera inoppugnabile, scientifica, la verità che quelle carte proclamavano. Così Tommaso cominciò daccapo a rivedere tutto il carteggio. Ora l'ansia della conoscenza era stata soddisfatta, occorreva adempiere all'imperativo della ragione, che reclamava la fredda analisi dei fatti per arrivare a stabilire, senza ombra di dubbio, la verità su quella vicenda, che aveva scavalcato i secoli. 10 A. EBAN , op. cit. pag. 288. 233 Egli si ritrovò così davanti all'invocazione poetica, che iniziava il libro di maestro Leone: Figlio mio quando, nel corso del tempo, tenendo fermo dinanzi a te il ricordo della tua storia, saprai ripetere anche tu il cammino dalla culla del Padre Abramo a Sion la bella per raggiungere l'Altissimo, avrai la prova del tuo destino e del tuo servizio. Ma lascia il segno nel tuo animo. Il tuo seme dovrà scoprire da solo la VERITÀ e, per mezzo di essa, la VIA. Il testo, tradotto da Tommaso dall'originale ebraico, aveva, nella primitiva stesura, un tono sacrale ben più marcato e solenne di quanto avesse saputo infondergli il dotto gesuita. Ma non era quella, la sua preoccupazione. Egli, più che tentare di fare un'operazione di conservazione del senso poetico, stava, al momento, cercando di rendere al meglio una traduzione filologicamente aderente al testo originale, per verificarne ogni possibile elemento di controllo. Ad esempio, le ultime pagine del libro di maestro Leone portavano, all'uso ebraico, su ogni riga, l'indicazione di una generazione che era trascorsa, con il nome, l'anno di nascita e l'anno della morte. Ma nelle ventiquattro generazioni che s'erano succedute, da maestro Leone a suo padre, solo venti portavano l'indicazione: "ha avuto la prova". Che cosa voleva dire? Quale prova avevano raggiunto i venti rabbini che l'avevano preceduto nella catena della vita, e perché quattro di loro non avevano quella indicazione? Dove e come si poteva raggiungere quella prova? E poi, di che prova si poteva trattare? Era la stessa prova cui accennava quel testo poetico con cui iniziava il libro di maestro Leone? La soluzione non poteva che essere nel libro, forse in quella poesia. Tommaso non aveva dimenticato d'aver a che fare con un maestro esperto della qabbalah, quindi cominciò ad esplorare la poesia con i procedimenti contorti e misteriosi, che egli sapeva esser usati dai seguaci di quella dottrina. 234 Confrontò le lettere, che componevano il testo dell'invocazione, con i significati reconditi che, ad ogni numero, stabilito dalla somma delle lettere delle varie parole, veniva dato, in quella particolare dottrina: il procedimento non dava alcun significato razionale. Tentò di ricercare la più sofisticate allegorie, tratte non solo dalla qabbalah, ma anche dai più nascosti canoni biblici di cui si avesse conoscenza: i Targumin11 aramaici, la Peshitta12 siriaca, il canone copto, quello armeno, perfino quello etiopico, di cui non si aveva cognizione di contatti con gli altri canoni se non in epoca relativamente recente, la versione georgiana e, per ultimo, quella araba, vista la storia di maestro Leone. Fu una fatica improba, ma inutile: non se ne cavava un ragno dal buco. Tommaso rimase un'eternità a fissare quella poesia: lì doveva esserci una chiave. Quindi iniziò una lettura letterale del testo: talvolta quegli antichi rompicapo nascondevano il loro senso compiuto sotto un velo così tenue, che non se ne riusciva a scorgerne il capo. Quando, nel corso del tempo, tenendo fermo dinanzi a te il ricordo della tua storia quel ricordo non poteva essere che il libro di maestro Leone, ma quale poteva essere, fuori di metafora, il cammino dalla culla del Padre Abramo a Sion la bella ? Era il percorso da Ur in Caldea, patria di Abramo, a Gerusalemme, l'antica Sion? Erano, quasi esattamente, mille chilometri, ma questo che significava? Quel viaggio non era stato certo compiuto in linea retta, quindi sarebbe stato impossibile stabilire la lunghezza del tragitto, se pure non si trattava di una figura poetica, per rappresentare il cammino dell'uomo. E poi, come si poteva misurare il percorso per raggiungere l'Altissimo ? Un momento, la distanza tra Ur e Gerusalemme era un segmento orizzontale, mentre la distanza per "raggiungere l'Altissimo" non poteva che essere un elevarsi verso il regno dei cieli, cioè un segmento verticale e l'unione dei due segmenti raffigurava quindi un angolo. Ma quale angolo, e perché si doveva "tenere fermo dinanz ia te " 11 12 versioni in Aramaico della Bibbia. E’ la versione siriaca “ semplice “ o “ usuale “ della Bibbia. 235 "il ricordo della tua storia"? Tommaso teneva fisso davanti ai suoi occhi il libro di maestro Leone, quasi aspettando da esso, la prova che stava cercando. Lo muoveva, lo girava, l'alzava, ne metteva a squadro le due metà, fino quasi a dimenticare d'avere tra le mani un testo rarissimo, antichissimo e, comunque, d'estremo interesse. Poi, all'improvviso, mentre con la mano teneva ferma la parte anteriore del pesante blocco che faceva da rilegatura al libro e spingeva angolarmente con l'altra mano il resto del libro, si sentì un sordo scatto metallico. La parte anteriore della rilegatura, una placca d’argento finissimamente istoriata, fino allora tenuta bloccata da una vite a baionetta, si staccò dal resto del libro. Nella nicchia, così scoperta, vi era un piccolo vano, ancora ricoperto da un pezzo di stoffa pesante, che aveva, ricamata, la scritta, in caratteri ebraici: "Copriti, questa è la prova del Patto". Sotto la stoffa, che Tommaso sollevò tremando, vi era una stella in oro massiccio, bucata nel mezzo, con la parte posteriore dai bordi arrotondati e la parte anteriore piatta su cui era impresso a bulino un leone meravigliosamente stilizzato. La stella aveva esattamente la forma della stella di Davide. Quello era il piattello centrale del candelabro che Mosè fece costruire, quando scese dal monte Sinai, con le tavole della Legge, il candelabro che il secondo libro della Torah, l'Esodo, chiama la "Menorah". Era quella, l'unica prova tangibile di un evento centrale nella storia dell'Uomo, avvenuto tremila quattrocento anni or sono, per la cui conservazione, quasi duemila anni fa’, il suo antenato, Moise, figlio di Eleazar ben Shimon, aveva affrontato il martirio. Una reliquia che, da venti secoli, la sua famiglia custodiva gelosamente, nascondendosi nelle pieghe del tempo, per non permettere che questa fosse, di nuovo, strappata ai suoi sacerdoti, per esser ridotta, come le reliquie cristiane, ad oggetto magico, in modo tale da far ombra e nascondere l'unica realtà: la Torah. CAPITOLO XX IL FATALE 1989 236 È strano il destino che tocca alle decadi del nostro secolo. Intanto, forse perché il tempo ha subito un'accelerazione spaventosa, le epoche che, prima, si misuravano a centinaia di migliaia d'anni nel paleolitico, si riducono a decine di migliaia nel neolitico, per contrarsi a migliaia d'anni nella prima età storica. Poi, dal tempo in cui gli uomini impararono a scrivere le gesta delle loro imprese, bastarono i secoli per racchiudere quell'unità storica, che noi chiamiamo epoca. Dall'inizio del secolo scorso, grosso modo, ci sembra che bastino dieci anni per cambiare completamente la visuale del nostro mondo, per cui, a buon diritto, potremmo affermare che un'epoca è completamente racchiusa in una decade. Forse questo accade perché il più vicino si vede con migliori dettagli e quindi le epoche, più sono lontane e più sembrano indistinte: si colgono i mutamenti solo quando questi sono macroscopici. Fatto sta che, qualunque sia la ragione dell'accorciamento dei periodi storici, essi, nel nostro tempo, pur nel loro vorticoso mutamento, mostrano di avere una caratteristica costante. Gli avvenimenti, le conquiste, le mode, che segnano quel decennio, prima si presentano come grandi novità, poi sono rapidamente rigettate, quindi, dopo una qualche decina d'anni, vengono riesumate e ritenute punti focali nel percorso umano. Così abbiamo avuto i ruggenti anni venti, i travolgenti anni trenta, gli anni della depressione, poi quelli della guerra, e ancora, gli anni cinquanta, quelli della ricostruzione e, di nuovo, i favolosi anni sessanta del ventesimo secolo e così via. Ognuno di questi decenni passò in fretta. Sembrava quasi che gli uomini fossero ansiosi di nuove esperienze, mentre lasciavano, senza rammarico, le strade intraprese negli anni precedenti; salvo poi, trascorsi un altro paio di decenni, rimpiangere quanto avevano trascurato e definire quegli anni, ormai lontani: "Favolosi, ruggenti, rampanti". Questo comportamento schizofrenico è indice delle difficoltà, sempre più ardue, che s'oppongono al cammino dell'Uomo, nel tentativo di raggiungere uno sviluppo armonioso, una forma di civiltà compiuta. Ciò, infatti, non può essere realizzato, senza prima risolvere i gravi problemi che si sono presentati all'Umanità, quando essa si è trovata di fronte al punto nodale, rappresentato dal fatto che, per la prima volta, l'uomo, per mezzo della sua scienza, poteva intervenire sui processi della Natura, modificandoli nel bene o nel male. 237 Mai, gli uomini s'erano trovati di fronte, come sul finire del ventesimo secolo, ai "limiti dello sviluppo"1. Certo, anche quando le città greche raggiungevano un eccesso di popolazione, i cittadini più intraprendenti, o i meno fortunati per le loro condizioni economiche, lasciavano la madrepatria ed andavano a fondare le colonie. Esse, allo stesso tempo, erano una valvola di sfogo ed un ampliamento dell'importanza della città madre. Ma ora s'era raggiunto il limite. In tutto il mondo ormai, non vi erano più quegli spazi poco popolati dove trasmigrare, senza dover prima togliere di mezzo le popolazioni che già erano presenti sul territorio, senza commettere un genocidio che, oltretutto, ripugna al sentire attuale. Quando i coloni greci si recavano nelle loro terre di conquista, vi trovavano pochi abitanti che, una volta vinti, o piegati per mezzo della loro superiore tecnologia, s'amalgamavano facilmente con i vincitori,assumendone la civiltà e fornendo loro le donne, necessarie per la trasmissione di questa. Ora il numero degli uomini è aumentato in tutto il mondo, in una così enorme dismisura, da farci sempre tener presente un famoso esperimento, messo in atto da alcuni etologi. Se si pongono dei topi in un vasto ambiente, questi animali socializzano facilmente tra di loro; ma, se s'aumenta progressivamente il loro numero, incominciano a sorgere difficoltà d'inserimento fino ad arrivare, quando il numero è eccessivo, a veri e propri combattimenti di tutti contro tutti. Il numero degli uomini, già da qualche tempo, è divenuto eccessivo allo stesso modo. In un libro uscito in Italia nel 1972 dal titolo significativo, "I limiti dello sviluppo", s'ipotizza in circa settecento milioni il numero ideale degli uomini, per un'ordinata e felice esistenza di tutti gli abitanti del pianeta. Alcuni hanno contestato queste cifre, giungendo ad affermare che la Terra, sfruttata in maniera scientificamente intensiva, potrebbe offrire sostentamento a più di venti miliardi d'esseri umani. Ammesso che ciò fosse possibile, questa ipotesi sposterebbe solo di poco il momento del collasso, vista la progressione esponenziale dell'incremento demografico. La cosa triste è che nessuno faccia nulla al riguardo: solo poche chiacchiere, nei momenti di mancanza d'altre notizie sui Si fa riferimento al libro I LIMITI DELLO SVILUPPO Rapporto del System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Tecnology (MIT) per il club di Roma edito da E.S.T. MONDADORI 1972 1 238 giornali, e poi si passa al fatto nuovo, clamoroso, che annulla il precedente. È come se tutti noi stessimo su di un aereo, per il quale gli esperti assicurino che mancano poche centinaia di metri per schiantarsi al suolo, mentre altri affermano che invece manca qualche migliaio di metri per il disastro. Battibecchiamo tra di noi sul numero dei metri che ci separano dalla tragedia, ma non facciamo nulla per evitarla. Inoltre lo sviluppo, che nel nostro secolo ha avuto la macchina, ha moltiplicato per varie migliaia di volte le possibilità umane. Questo ha reso realizzabile, nei paesi più ricchi, un tenore di vita inimmaginabile fino a poco tempo addietro, ma, nel contempo, ha causato due conseguenze nefaste. La prima è che questo sviluppo rapidissimo non è stato accompagnato da uno sviluppo altrettanto rapido del senso di responsabilità degli uomini, che ne sono stati i beneficiari. In questa maniera lo sviluppo ha interessato mezzi non indispensabili; sovrastrutture li aveva definiti Marx, come la seconda casa, la terza auto, il quarto televisore per ogni famiglia. Così la gran parte dello sviluppo si è tramutata in spreco, con conseguente sovrapproduzione di scorie e rifiuti di difficilissimo smaltimento. La seconda conseguenza si è avuta con l'instaurarsi di un modello distorto di sviluppo, cui però guardano con cupidigia tutti quei paesi, che ancora non hanno partecipato alla festa, desiderosi anch'essi di prendervi parte al più presto. Come definire questo modello, se non come una regola poco logica, oltretutto assolutamente priva d'alcun limite morale? Come possiamo considerare un periodo storico, che scopre la possibilità tecnica ed economica di tenere, per anni, in un polmone artificiale, una povera creatura handicappata, ma che non trova la metà della somma, con cui s’è comprato il polmone artificiale, che potrebbe esser sufficiente per vaccinare centomila bambini africani? Questa situazione di stallo, intravista già alla fine degli anni sessanta del XX secolo, non fu però minimamente affrontata. Essa divenne sempre più ingovernabile, fino a permeare tutta l'Umanità di una cupa cappa di disperazione sociale, che sfociava nelle tensioni tra i gruppi degli uomini e nella fossa della droga, per gli individui più fragili o meno protetti. Gli anni settanta furono forse gli anni più bui di quel secolo, anche più di quelli delle due guerre mondiali, perché, in quei due periodi, pur funesti, si aveva almeno la sensazione che una 239 sola parte del genere umano avesse perso, ma non che fosse in gioco il destino dell'uomo, nel suo complesso. Negli anni settanta, invece, gli anni di piombo, sembrò che tutti gli uomini fossero impazziti e che non vi sarebbe stata salvezza dal precipitare nel "medioevo prossimo venturo", come qualcuno andava profetizzando. Per reazione, gli anni ottanta furono "rampanti", cioè tutti dediti al perseguimento del benessere e dell'utile personale, inteso come ricerca cieca di sovrastrutture inutili. Esse ci potevano forse fornire un'auto più comoda o una camicia con una firma famosa, ma al prezzo di un continuo depauperamento delle risorse totali del pianeta Terra, risorse che ancora non avevamo imparato a ritenere deperibili e, quindi, non più rimpiazzabili. Così, tutti presi dal duello tra i due blocchi in cui s'erano divisi, al solito, gli uomini che si ritenevano "civilizzati", i governanti ed i governati di tutto il mondo non posero la dovuta attenzione ai veri, grandi problemi che affliggevano l'Umanità nel suo complesso. L'esplosione demografica, inoltre, s'addensava, in alcune grandi città le quali, per questo, si avviavano a divenire megalopoli incontrollabili; buchi neri, che attraevano popolazione dalle campagne, rendendo queste spopolate e quindi fonte d'ulteriori difficoltà. Questi problemi, sommandosi, tendevano, in maniera preoccupante, a non essere più governabili. I sistemi di locomozione, di trasmissione, energetici e di comunicazione erano al limite della complessità sopportabile dalla tecnologia dell'uomo. Si cominciava ad intravedere il collasso che, scatenato da un possibile guasto su un qualsiasi loro sottosistema, avrebbe irreparabilmente bloccato l'intera rete. Un solo, paradossale, fattore impediva lo sgretolarsi del modello in vigore. L'Umanità s'era, al solito, divisa in due schieramenti che si facevano una guerra aspra, spietata, dispendiosissima ed inflessibile su tutti i fronti, in cui era possibile competere. Solo l'assoluta certezza di una strage, in cui sarebbero periti tutti gli uomini, dovuta alla sovrabbondanza d'ordigni atomici da entrambe le parti, aveva miracolosamente evitato il confronto nucleare. Poi, all'improvviso, il tracollo repentino di uno dei due contendenti. Come era potuto accadere e che cosa significava? 240 Dalla fine della seconda guerra mondiale l'Unione Sovietica, ed il mondo che le era satellite, erano stati all'attacco. La propaganda delle due parti era stata condotta, dagli stati socialisti, nella maniera più efficace. Tutta l'intellighenzia, ed, in modo particolare, i giovani del mondo occidentale, si rifacevano all'ideale comunista. Esso sembrava essere una di quelle idee forza, le quali, quando affiorano dall'inconscio collettivo, informano di se ogni più riposto angolo della vita dell'Uomo. Quest'ideale era stato sentito e seguito, in un primo momento, in modo spesso acritico. Così avvenne, quando si trattò di spiegare e superare, sul piano teorico, le rivolte che cominciavano a serpeggiare nell'immenso impero sovietico, a Poznan, in Polonia nel 1956 e, soprattutto, nello stesso anno, in Ungheria. Qualche volta l'ideale appariva addirittura ingenuo, come quando si voleva postulare le favole di Mao come verità assolute, applicabili in toto al mondo più progredito. Purtuttavia l'impero, fino agli anni ottanta, stretto in una morsa inesorabile, fatta di propaganda, terrore, disinformazione, controllo poliziesco minuziosissimo, teneva. Per questa ragione, all'estero, il mito dell'internazionalismo socialista era più vivo che mai. All'interno, Krutchev poteva vincere il primo round della sfida verso le stelle, scagliando Gagarin2 in un'orbita terrestre, e, all'esterno, provocare tutto il mondo occidentale. Nel 1960, durante una riunione dell'ONU, il premier russo si tolse una scarpa per batterla sul tavolo, urlando che il mondo capitalista sarebbe stato sopravanzato e sepolto dal comunismo, entro il duemila. Il ragionamento di Krutchev, nella sua rozzezza, era semplice. Non riuscendo a capire la funzione depuratrice della concorrenza nel mercato, anzi, per motivi ideologici, considerando il mercato una sovrastruttura inutile per lo Stato e dannosa per il cittadino, da questo, il capo del comunismo sovietico faceva discendere la sua fede nella superiorità del sistema collettivistico. Egli usava dire: "il capitalismo impiega duecento ottimi ingegneri per studiare tipi sempre più raffinati di frigoriferi, che, in realtà, non differiscono tra di loro se non per un fattore insignificante sul Jurij GAGARIN, astronauta sovietico; fu primo uomo ad aver raggiunto la velocità cosmica nello spazio esterno all’atmosfera terrestre, compiendo così delle orbite intorno alla terra, il 12 aprile 1961. Morì nel 1968 collaudando un aereo supersonico. 2 241 piano della qualità, quale è il design, necessario solo per promuovere la concorrenza. Lo stato comunista, facendo a meno della concorrenza, copia il frigorifero più adatto, o ne stabilisce a priori un unico modello. Così facendo, risparmia i duecento ingegneri, che il mondo capitalista usa per questa necessità inutile, questa sovrastruttura imposta dai ricchi proprietari delle aziende di produzione. I duecento ingegneri, così risparmiati, saranno usati per l’industria pesante, dando così al comunismo un vantaggio tale, da spazzare ogni altra ideologia sociale, entro il duemila". Krutchev non s'avvedeva di una realtà, che l'ultimo dei piccoli negozianti mette automaticamente in pratica, quando gli riesce d'ingrandirsi. La concorrenza è il motore del commercio, senza concorrenza il commercio illanguidisce. Se è un grande commercio, esso tende a divenire monopolio, ed è pericoloso per la società; se è piccolo commercio si contrae in forme sempre più asfittiche, fino a che un nuovo concorrente non lo spazza via dal mercato. Se poi il mercato non c'è, allora il prodotto di quel commercio sarà sempre meno valido, fino a diventare assolutamente inutile sul piano interno e, a maggior ragione, sempre meno competitivo sul piano internazionale. In pratica, la concorrenza può assimilarsi alla democrazia. Entrambe istituiscono regole snervanti e di cui si farebbe volentieri a meno, entrambe sottopongono i cittadini a pratiche poco gradite, nel momento in cui esse sono applicate, come i controlli per la democrazia e la pubblicità per la concorrenza, entrambe sono fonte di lungaggini per i governanti e di spese per i governati. Eppure, quando si cerca una scorciatoia per la democrazia, s'imbocca la strada della dittatura, facile all'inizio ma sempre più in discesa, fino a tramutarsi in un salto rovinoso. Così come, quando non si riconosce la funzione della concorrenza sul piano economico, s'arriva, alla fine, alla distruzione dell'economia. Proprio sull'economia, e sul modo d'intendere i modelli di sviluppo sociale, crollò il sogno comunista. Gli americani, scossi dalle minacce sovietiche, irritati dalla supremazia russa in campo missilistico, resi guardinghi dall'esperienza del Vietnam, la prima sconfitta militare per gli Stati Uniti nel corso della loro storia, affrontarono il problema in modo definitivo. 242 Essi gettarono tutto il peso della loro economia, usandola come una vera e propria arma, nella lotta, ormai senza quartiere, tra i due sistemi contendenti. Nel fare ciò ripeterono la stessa tattica, usata nella seconda guerra mondiale, tattica che permise loro di vincere quella guerra. Rileggiamo un passo famoso di un libro di John K. Galbraith 3: "...Allo scoppio della seconda guerra mondiale il nuovo sistema di contabilità nazionale, ora familiare a tutti attraverso la sua cifra complessiva del " prodotto (interno) lordo - P.I.L. “, era appena entrato in uso negli Stati Uniti. In Gran Bretagna ed in Canadà, (esso) si dimostrò indispensabile per la direzione di una moderna politica di mobilitazione. .......Essendo uomini modesti, gli economisti non fecero mai pubblicità sulla potenza dell'arma che avevano messo nelle mani dei loro governanti, per quanto la sua importanza per la vittoria fosse stata notevolmente superiore a quella dell'energia atomica". Quello stesso modo di concepire l'economia come un'arma, aveva fatto scoprire, nel corso della seconda guerra mondiale, la maniera rivoluzionaria d'usare il P.I.L., per definire scientificamente le scelte da compiere per vincere. Così fu presa, giustamente, la decisione di tralasciare le armi a razzo del tipo tedesco V2, che costavano ognuna come ventiquattro bombardieri, i quali, di contro, trasportavano ciascuno tanto esplosivo quanto ne portava una V2, e potevano anche essere reimpiegati per molte volte. Gli stessi economisti, intervenendo nelle dispute feroci, che opponevano, tra di loro, l'Esercito, l'Aeronautica e la Marina degli Stati Uniti, su quali dovessero essere gli obbiettivi prioritari dei bombardamenti alleati sulla Germania, stabilirono correttamente quelle priorità. In conformità a considerazioni strettamente scientifiche, di ordine economico, essi decisero che si dovessero bombardare prioritariamente le fabbriche di cuscinetti a sfera, indispensabili a tutte e tre le armi, e, quindi, da distruggere come prima cosa. Questo sistema di regole fu uno dei segreti meglio custoditi dagli americani, per tutta la durata della seconda guerra mondiale. John K. GALBRAITH: The American Capitalism Capitalismo Americano. Milano 1956 pp.91/92 3 243 1952 trad. it. Il Quando, parecchi anni dopo la fine della guerra, esso fu reso pubblico, se ne impadronirono i giapponesi, che ne fecero il nucleo di quella, che essi chiamarono la filosofia della "qualità totale". Questa teoria è un raffinato aggiornamento della stessa arma, che permette di studiare scientificamente dove colpire, per avere il massimo rendimento, in una qualsiasi operazione di tipo economico, e non solo di quel tipo. Il punto di svolta si ebbe con l'elezione di Reagan a Presidente degli Stati Uniti d'America, nel 1980. Fino a quel momento, il confronto tra i due blocchi era stato affrontato dagli americani con un'unica teoria, che prevedeva una capacità di risposta distruttiva, qualora i sovietici avessero lanciato il primo colpo atomico. Questa teoria strategica, detta appunto del secondo colpo, venne ritenuta troppo pericolosa dal Presidente Reagan ed abbandonata a favore del cosiddetto sistema delle "guerre stellari". L'America non accettava più la possibilità che il suo territorio fosse sottoposto ad un attacco atomico, anche se questo avrebbe scatenato appunto il secondo colpo. Le simulazioni, eseguite in una grande varietà di scenari, portavano ad un'unica conclusione: nessuna Nazione avrebbe potuto vincere un confronto, se le armi atomiche avessero raggiunto il proprio territorio. Quindi, al massimo, la teoria del secondo colpo, poteva pareggiare il conto dei danni inferti con le bombe atomiche, ma non poteva far vincere una guerra. Perciò, con l'uso dell'atomica, nessuno avrebbe vinto. Fu quindi approntata e sperimentata una nuova teoria, quella appunto definita delle "Guerre stellari". Essa, in pratica, prevedeva la possibilità d'intercettare i missili atomici in arrivo sul proprio territorio, per distruggerli nello spazio esterno, fuori dell'atmosfera terrestre. Ma, per realizzare e rendere operative le procedure e gli strumenti relativi, che avrebbero permesso l'approntamento strategico di questa teoria, occorreva innestare la massima marcia possibile e procedere al miglior rendimento, che la macchina economica degli Stati Uniti potesse fornire. Un numero spropositato di miliardi di dollari furono buttati nella fornace delle guerre stellari; il sistema economico degli States, già enormemente superiore perché infinitamente più duttile, fu messo alla frusta. Inoltre non passò inavvertita, anche se a questa non fu dato grande clamore, la manovra di costringere, mediante l'adozione del sistema delle guerre stellari, il blocco avversario ad uno 244 sforzo che l'avrebbe stroncato, nel tentativo d'approntare la stessa arma, causando, con ciò, un vero e proprio collasso dell'impero sovietico. Infatti la concorrenza, in un mercato libero, teneva aperte infinite possibilità, rispetto a quelle consentite da un mercato, bloccato da un'economia centralizzata. L'economia pianificata imponeva invece un vincolo ad ogni minimo cambiamento, ingessando così lo sviluppo dell’ impero russo. Esso, d'altronde, era preminente, sul sistema concorrente, solo in alcuni limitati settori industriali, ma pagava questa preminenza con un'arretratezza preoccupante, in ogni struttura economica e sociale dello Stato Sovietico. La Russia aveva dato, per l'appunto, ogni priorità, all'industria pesante, per scopi bellici; ora quell’industria veniva completamente spiazzata e tagliata fuori da un’industria squisitamente nuova, l’elettronica, in cui il mondo occidentale aveva un grande vantaggio. In quel delicatissimo momento storico, si ebbero tre azioni in rapida sequenza, tutte deleterie per lo Stato Sovietico, fino a che, per il sommarsi dei loro effetti, l'Impero Russo esplose. L'ultima di queste azioni fu intrapresa e portata avanti dal nuovo premier sovietico, Micail Sergeevic Gorbacev. Accortosi che l'economia del paese perdeva colpi rispetto a quella occidentale e stentava sempre di più a tenere il passo, mentre le economie concorrenti stavano per iniziare la corsa, scatenata con il fiume di danaro messo in campo per la realizzazione delle guerre stellari, Gorbacev tentò una mossa disperata. Egli cercò d’immettere qualche elemento d'economia liberista nelle rigide regole, che governavano, in campo economico, il suo paese. Questo era il succo di quella teoria, tanto strombazzata al momento, e di cui nessuno, oggi, ricorda bene i presupposti. La perestrojka, il nuovo corso, come l'aveva battezzata il suo inventore, si riduceva infatti a rendere possibile qualche elemento di mercato libero, nella struttura dell’URSS. Quello Stato però, rimaneva sempre Sovietico, e quindi bloccato nella morsa dell'economia dirigista, sottomessa ad un piano studiato dall'alto fin nei minimi particolari e, perciò, estremamente rigido ed assolutamente in antitesi con il concetto di libera concorrenza. Ma un'altra causa aveva già intrapreso la propria opera demolitrice nei confronti del monolite sovietico; una causa 245 eminentemente politica, in cui molti, tuttavia, vedevano lo zampino dello Spirito Santo. Infatti, dopo quattro secoli, la bianca colomba aveva scelto un Pontefice non italiano, ed anzi l'era andato a cercare proprio in Polonia. Quell'orgogliosa terra, pur sottomessa all'impero Sovietico, aveva fatto, nel corso dei secoli, della propria fedeltà alla Chiesa di Roma, una bandiera d'identità nazionale, diversificandosi, in tal modo, dagli slavi ortodossi e dai tedeschi luterani; i popoli che, da sempre, cercavano d'ingoiare la Polonia. Nel 1978, il polacco Karol Wojtyla, nato a Wadowice presso Cracovia nel 1920, fu eletto Papa, con il nome di Giovanni Paolo II. Per l'età, per temperamento, per forma mentis, per levatura morale, per carisma, per la propria religione profondamente sentita anche come insegna nazionale, per la propria nazionalità altrettanto profondamente sentita come un sentimento religioso, Egli non poteva non ergersi contro il sistema russo, che era l'antitesi di tutto quello in cui credeva il Papa polacco. Così, quando la Polonia fu scossa dal fremito delle lotte sindacali, portate innanzi dal movimento di Solidarnosc' (Solidarietà), il Papa polacco benedisse il capo di quel movimento, Walesa. E quando il generale Jaruzelski, il 12 dicembre del 1981, compì un colpo di stato, mettendo fuorilegge il movimento sindacale ed arrestandone i capi, Giovanni Paolo II si schierò apertamente con Solidarnosc'. Ma il punto più acuto della crisi fu raggiunto quando Breznev, il moribondo segretario generale del partito, e quindi, il capo dell'URSS, cercò d'imporre a Jaruzelski una linea dura, per ridurre al silenzio Solidarnosc'. A questo punto Karol Wojtyla fece discretamente sapere che egli si sarebbe dimesso dal suo incarico, per mettersi alla testa dei rivoltosi. Essi avrebbero, per la prima volta, resistito alla dottrina, che era conosciuta come "sovranità limitata". Questa era, infatti, una dottrina, assurda sul piano internazionale, che proclamava la liceità dell’intervento sovietico, quando negli Stati formalmente sovrani, ma in realtà asserviti all’impero sovietico, veniva messa in discussione la scelta di campo socialista. Essa era frutto della visione imperiale di Breznev, che voleva limitata la sovranità degli Stati socialisti, quando si metteva in gioco l'organizzazione sociale di questi Stati, o, meglio, quando si tentava d'allargare un poco la morsa della leadership sovietica sugli Stati, che il mondo libero definiva satelliti di Mosca. 246 Ma già da un paio d'anni, dal dicembre del 1979, era in corso la terza causa, che dovrà dare la spallata definitiva al regime sovietico. A somiglianza degli americani nel Vietnam, anche i Russi s'erano cacciati in un conflitto locale e limitato. Il ventisette dicembre del 1979, un robusto contingente di spetsnatz4 prima, e poi la centocinquesima divisione aerotrasportata della guardia, unità d’élite delle forze armate sovietiche, occupavano l'aeroporto di Kabul. S'era così dato inizio all'avventura afgana, che doveva concludersi in maniera persino più rovinosa, di quanto non fosse finita la tragedia americana in Vietnam. Infatti, mentre l'imperialismo era un'accusa implicita e quasi scontata per il mondo occidentale, la Russia sovietica dimostrava, con grave danno sul piano propagandistico, ma anche su quello dei contenuti reali della propria politica, che anche uno stato socialista si poteva imbarcare in una guerra di conquista. In questo modo si contraddiceva il credo internazionalista che, pure, sarebbe dovuto essere la dottrina principe dell'azione internazionale dell'URSS. Non staremo qui a studiare dettagliatamente le varie cause che spinsero l'orso sovietico nella tagliola afgana, basteranno alcune semplici considerazioni. Per secoli, le forze armate russe avevano anelato a conquistare uno sbocco ai mari caldi, che potesse aggirare le forche caudine degli stretti del Bosforo. Ciò avrebbe finalmente permesso al più potente esercito del mondo di attuare una politica imperiale anche sui mari; quei mari che sono, fin dall'esperienza ateniese, il teatro principale della vera forza militare. Qualche altro autore sostiene che la causa dell'intervento sovietico in Afghanistan si debba ricercare nel tentativo d'alleggerimento, compiuto dalle autorità sovietiche, per opporsi in qualche modo alla pressione mussulmana. Questa pressione, messa in opera dalle autorità della rivoluzione iraniana, era allora esercitata sul piano eminentemente religioso, ma poteva aver pericolose ripercussioni anche sugli equilibri politici. I rivoluzionari iraniani erano, allo stesso tempo, capi politici, morali e religiosi di quell'idea mussulmana, così facile a SPETSNAZ - forma sincopata della denominazione: SPETSRALNOYE NATUECHENIE - truppe speciali d’assalto, commandos. 4 247 prendere fuoco ed ad incendiare tutte le terre in cui si venera Maometto, molte delle quali erano ben addentro ai territori sovietici. Altri sostengono che l'esercito russo avesse una certa qual voglia di provare, sul campo di battaglia, la propria struttura e la propria tenuta. Si voleva, in pratica, verificare in maniera reale il valore delle dottrine, così care ai generali sovietici, i quali, però, non avevano avuto modo di sperimentarle dal vero, fin dai tempi gloriosi di Stalingrado. In verità, pur carichi di medaglie, nessuno dei capi militari in servizio nell'Unione Sovietica negli anni settanta, aveva mai portato le sue truppe in battaglia, e questo, per un generale, è un fattore limitativo ed, in un certo qual modo, irritante. Quando poi si ponga mente al fatto che ogni organizzazione sociale, che non faccia discendere la propria autorità dal voto popolare, ha una dannata paura del bonapartismo, cioè della presa del potere da parte dei capi delle proprie forze armate, si capirà perché le autorità politiche sovietiche non si siano opposte alle aspirazioni dei loro capi militari. Il potere sovietico ritenne meno pericoloso che essi dessero calci al vuoto, verso l'esterno, piuttosto che incominciassero a muoversi e pesare all'interno dello sterminato impero, già in difficoltà per altri motivi. In definitiva, la trappola afgana, come tutte le trappole, venne ritenuta in un primo tempo innocua, anzi dotata di golose leccornie quali il sospirato ingresso ai mari caldi, l'opportunità di mostrare tutta la potenza sovietica all'Islam, per avvertirlo di non fare colpi di testa contro le provincie islamiche dell'impero, la possibilità di una proficua esercitazione militare, con facili ricadute sul piano dell'immagine. Fatto sta che, qualunque siano state le cause o le concause, che spinsero l'orso russo nella tagliola, ciò portò la leadership sovietica al disastro. Perche di un disastro, di un vero disastro si trattò. Le forze armate sovietiche furono agganciate da bande d'irregolari afgani, abituati da sempre a fare una guerra dura, spietata, senza esclusione di colpi. Erano quelli, uomini già fanatici, per la loro organizzazione mentale. Inoltre si trattava di combattenti indomiti, usi a battersi da sempre, capaci di resistere per giorni con una frittella di pane azzimo, cotto su una pietra; mentre le linee di rifornimento, per i russi, s'allungavano in maniera impossibile da difendere. 248 Gli Afgani, per di più, furono resi assolutamente insensibili ad ogni difficoltà, dalla proclamazione della jhiad, la guerra santa contro l'infedele, che li spediva direttamente tra le urì, le vergini del paradiso di Allah, in caso di morte in combattimento. Infine la tecnologia occidentale, in odio all'avversario sovietico, stava fornendo alla rivolta afgana armi talmente sofisticate da non aver bisogno nemmeno di una sia pur rudimentale capacità tecnologica, o almeno tecnica, per ottenere micidiali risultati. Infatti i missili Stinger 5, forniti in gran quantità ai ribelli afgani, erano facilissimi da impiegare: bastava inquadrare il bersaglio nel cannocchiale dell'arma e premere il grilletto. Il missile faceva tutto da solo, senza bisogno di alcun altro intervento o cognizione, e distruggeva elicotteri, aerei e carri armati sovietici, come le piastrine di coccio alla fiera del paese. Abbiamo visto il teatro, siamo stati resi edotti, almeno in prima approssimazione, delle cause e degli attori, ne abbiamo scorso le motivazioni. Non ci rimane che assistere alla scena madre, che spazzerà via dalla storia del mondo, un impero, con tutti i suoi uomini, le loro idee, le loro aspirazioni, i loro sogni. La fortissima personalità, il carisma del Papa polacco avevano fermato l'intervento sovietico ai tempi di Breznev, che avrebbe normalizzato la situazione a colpi di cannone, magari riesumando la frase sinistra: "L'ordine regna a Varsawa". Il popolo polacco s'era compattato dietro i suoi leaders, per la massima parte espressione dell'Area cattolica di quella Nazione ed aveva dimostrato a tutti gli antichi, civilissimi popoli d'Europa, costretti a fare da placche di difesa all'orso sovietico, che il re, il satrapo orientale che li stava svenando, era nudo. I suoi meravigliosi attributi di giustizia e di libertà per i popoli non erano altro che propaganda, non erano mai esistiti. Il bluff della Perestrojka aveva reso assolutamente ingestibile un sistema, che già non riusciva più a tenere il passo con l'accelerazione, voluta da Reagan per l'economia americana, per mezzo delle guerre stellari. Il re s'era dimostrato anche impotente a contrastare i propri nemici. Nel fatale 1989, il 15 di febbraio, il generale Gromov, Comandante in capo del corpo di spedizione sovietico in Afghanistan, riattraversò, con i resti del proprio esercito, l'Amu Darja. Sistema lanciamissile portatile U.S.A., che si imbraccia come un fucile, dal peso limitato, di estrema efficacia. 5 249 Quel fiume, sacro alle gesta di Alessandro il Grande, segnava il confine tra l'URSS e l'Afghanistan. Gromov stava così ponendo fine alla tragedia dei suoi uomini, senza neppure tentare una scusa plausibile. Quello fu il momento in cui il mondo s'accorse che il re era vinto ed il suo regime finito. La prima conseguenza si ebbe dopo nemmeno un mese, con l'apertura dei negoziati C.F.E. (Conventional Force in Europe), che dovevano stabilire il bilanciamento nel numero delle forze armate delle due parti, presenti in Europa. In tale conferenza, gli Occidentali misero sprezzantemente sul tavolo delle clausole 6 che mai l'Unione Sovietica, al culmine della sua potenza, avrebbe accettato. Ora quello Stato moribondo doveva subire. Il fatto, passato sotto la più assoluta indifferenza dei mass media mondiali, fu però attentamente valutato e soppesato nelle Cancellerie e nei luoghi deputati a fare politica seria. Una ventata d'iniziative scosse tutti i paesi dell'est europeo ed ognuno cercò di salvarsi dal naufragio, differenziandosi, in qualche maniera, dall'impero che stava affondando e chiedendo aiuto ai nemici di ieri. La tragedia si compì celerissima. Sul finire dello stesso anno, l'Unione sovietica cercò di comperare dal suo nemico istituzionale, la Germania Federale, una pace a qualunque costo, dando come contropartita l'intera Repubblica Democratica Tedesca, il gioiello tra gli stati comunisti. Cadeva il muro di Berlino, la Germania tornava unita. Alcuni, prendendo spunto da quello che era accaduto, salutavano la vittoria definitiva del capitalismo, proclamandolo come metodo di governo globale per la terra. In pratica, si trattò di questo: in quei negoziati, che dovevano stabilire il numero bilanciato degli aerei d’attacco delle due parti, gli Occidentali pretesero di considerare inseriti, gli aerei della Marina da Guerra sovietica, in quanto “land based”, cioe’ basati a terra, perche’ quella Marina non disponeva di sufficienti portaerei, mentre gli aerei della U.S. NAVY, la Marina da guerra americana, venivano esclusi da quel conteggio, con la scusa che essi non stavano “sul territorio di una delle due parti“. Ciò, naturalmente avrebbe avuto gravi ripercussioni, sull’equilibrio strategico delle due superpotenze. 6 250 Altri si spinsero persino ad ipotizzare "la fine della storia"7, prefigurando un "nuovo ordine", che avrebbe retto la politica mondiale. Al centro dell'Europa, nei suoi palazzi che avevano visto partorire la storia degli ultimi duemila anni, il gigante polacco, che aveva sconfitto l'ideologia materialistica dell'Impero sovietico, non era affatto d'accordo. La sua voce potente si sarebbe levata presto, alta e chiara. D’altronde, anche l’altra religione mondiale, l’islamismo, stava per approntare la sua carta da giocare per il predominio mondiale. Come si vede, la politica, cioè la storia delle lotte fratricide dell’animale Uomo, non era certo finita. Francis FUKUIAMA, storico americano di origine giapponese, in un suo saggio, molto pubblicizzato, “La fine della storia e l’ultimo uomo“ postulò la fine della storia con la vittoria degli Occidentali sull’URSS, in quanto tutto il mondo si sarebbe organizzato ,d’ora in poi, secondo i modelli di vita del sistema uscito vincente e non vi sarebbero più state modificazioni a tali modelli. 7 251 TERZA ANTIFONA Era così trascorso anche il 1989. Come accade alle zolle continentali, che s'avvicinano l'una all'altra di distanze infinitesimali, ma idonee a sommarsi tra di loro, fino a produrre pressioni capaci di suscitare energie immani, scatenantisi in cataclismi che tutto travolgono, così la situazione politica, nell'impero russo, era giunta al punto di rottura fatale, tale da costituire la linea, oltrepassata la quale, non fu più possibile ritornare indietro. Abbiamo già considerato le cause, visto gli effetti, stabilito le ragioni che non potevano che portare dove si era giunti, espresso il nostro stupore nel vedere cadere, in così poco tempo, un impero e, soprattutto, un'idea, che era parsa riempire di sé tutto il ventesimo secolo. Eppure, alla sua nascita, nel secolo precedente, quell’idea era stata salutata come il principio che avrebbe finalmente realizzato l'età dell'oro sulla terra. Esiste una situazione, che si ripete da sempre, nella Storia, ed ogni volta che accade, suscita una meraviglia incomprensibile. L'uomo, questo punto strategico, termine e paragone della Natura, vede la Storia annodare ininterrottamente gli infiniti fili, che compongono il proprio futuro possibile, in una sola treccia. Essa rappresenta il nostro passato, ormai immutabile e certo. Nel momento in cui i fili s'annodano, cioè nel presente, l'Uomo scommette, di solito, su idee che gli sembrano essere inconfutabili; mentre poi, alla prova dei fatti, esse, spesso, si rivelano dei veri e propri fallimenti. Se non altro, questo dovrebbe farci dubitare della facoltà, che gli uomini invece si riconoscono volentieri, di saper valutare in modo corretto gli avvenimenti, che si susseguono nella storia. Frequentemente, gli stessi uomini compiono madornali errori di valutazione, riguardo agli elementi che intervengono nella vita della propria società, od anche solamente della propria persona, tanto da non poterne uscire, non vittoriosi addirittura, ma, almeno, onorevolmente. Occorre però lasciare queste considerazioni malinconiche agli specialisti, i quali dovranno spiegare altresì le ragioni per cui, le tesi, con cui essi stessi illustrano i perché della Storia, tesi che sembrano a posteriori chiarissime e ben congegnate, non siano state, da loro, definite a priori. In questo modo si sarebbero fornite valide ipotesi che avrebbero così un gran peso; mentre, a fatto ormai avvenuto, i medesimi motivi sembrano le famose ragioni del senno di poi. 252 A noi invece interessa seguire l'avventura di Monsignor Tommaso Fernays, Vescovo ausiliare del cardinal Van Der Groe, Primate cattolico del Belgio, dopo che l'onda d'urto dell'esplosione nell'impero russo raggiunse tutto il mondo ed, in particolare, l'Europa Occidentale. Quell'onda fu terribile, perché spazzò via, non solo tutta la struttura dei paesi dell' Est, quelli che una volta si chiamavano "le Nazioni satelliti di Mosca", ma anche perché essa distrusse certezze, travolse sistemi collaudati, colpì equilibri ormai consolidati fin dalla fine della seconda guerra mondiale. La tempesta, dopo che aveva liquefatto il blocco orientale, scompaginò anche la compattezza e la rigidità del blocco contrapposto, che conoscevamo come blocco occidentale. Furono così liberate energie, prima compresse in nome dell'unità d'azione, facendo riaffiorare rancori, già nascosti sotto la necessità del bene superiore e riaffermando distinzioni e particolarismi, che si credevano superati per sempre. Purtroppo, quella tempesta riportò alla luce concezioni, come le guerre di religione e le "operazioni di pulizia etnica", sinistre parole che si credevano ormai sepolte nella storia e superate dal progresso dell'ideale umano di razionalità. Invece quei fantasmi erano sì sepolti, ma nell'inconscio collettivo ed aspettavano solo che si fosse allentato lo spirito di coesione, che aveva stretto l'Umanità in due blocchi, monolitici perché contrapposti, per riemergere alla superficie. Liberati dalla fine dell'incubo dell'olocausto atomico, gli uomini s'aspettavano l'avvento dell'età dell'oro. Qualcuno prevedeva, come abbiamo già visto, addirittura la "fine della politica", perché ormai s'era dimostrato quale fosse il sistema vincente e sicuro, per un ordinato sviluppo dell'Umanità. Invece la realtà s'incaricava, al solito, di scompaginare i sogni dell'Uomo. Infatti non erano solo le guerre di religione e gli scontri etnici, le novità per lo scenario planetario negli anni novanta. Se così fosse stato, la situazione non sarebbe stata molto pesante per la parte più "civile" dell'Umanità, abituata, da sempre, a creare ghetti in cui rinchiudervi quelle realtà, che avrebbero potuto arrecare fastidio alle orecchie più delicate. Invece, altri mostri s'aggiravano per le Nazioni, colpendo, questa volta, soprattutto quelli, che s'erano autodefiniti "I Paesi più industrializzati" del pianeta, orgoglioso eufemismo per dire "Le Nazioni più ricche che, per mezzo del loro potere, tenevano alla loro mercé tutti gli altri Paesi della Terra". Il più terribile di questi mostri, la "razionalizzazione del fattore lavoro", sinistra perifrasi che, in realtà, produceva una progressiva mancanza di lavoro, dopo aver domato ciò che, una 253 volta, si chiamava "La massa proletaria", ora aggrediva anche "I colletti bianchi", cioè la classe media, spina dorsale d'ogni Nazione. È curioso notare come questo fatto, una vera e propria nemesi storica, fosse diretta conseguenza della strategia messa in campo dal blocco Occidentale per vincere il blocco Orientale. Infatti, che cosa era avvenuto? Ricordiamo che, per distruggere "l'Impero del Male", come il Presidente Reagan aveva definito il blocco che faceva capo all'Unione Sovietica, era stato messo in atto un sistema militare e strategico che faceva perno sulla possibilità di rendere inutilizzabili i missili nucleari russi. Per sostenere l'immane costo che tale procedura inevitabilmente comportava, gli americani dovettero attuare una razionalizzazione spietata del loro sistema di vita. Insomma, l'imperativo per la società americana, invece d'essere: "Come posso sviluppare armoniosamente la società, al fine di raggiungere un miglior grado di progresso ?" fu: "Come posso razionalizzare ogni sistema di produzione, di gestione e di consumo, al fine di recuperare risorse, in grado di farmi vincere la lotta durissima contro il mio nemico, l'Impero del Male?". La gara fu vinta, ma le armi usate in quella gara si chiamavano: robotica, impiego in ogni campo della "qualità totale", la dottrina che insegna ad ottimizzare i profitti ed a ridurre ad ogni costo le perdite, costituzione di mercati economici "globali", che razionalizzavano ulteriormente il campo dell'economia, ma che facevano dipendere, in maniera abnorme, la produzione dalla finanza. Inoltre, la riorganizzazione globale della società dei ricchi, fu eseguita senza che il Potere statale avesse prima definito regole certe e, soprattutto, morali, tali cioè da non conculcare il bene comune, il diritto dei singoli e la protezione dei ceti meno difesi. Le multinazionali e la produzione in genere, ottennero, in quel frangente, enormi guadagni, procurati soprattutto con artifizi d'ingegneria finanziaria e con espulsione di personale dal lavoro. Chi poteva, approfittò del momento favorevole, scaricando, tra l’altro, sulla collettività i costi altissimi dell'inquinamento, in tutte le sue forme, e dell'abnorme rarefazione del mercato del lavoro. Il Potere abdicò, in tal modo, alla sua unica funzione sociale di regolatore delle varie spinte settoriali e permise che coloro che erano ricchi divenissero più ricchi a spese dei poveri, che, per questo, divenivano più poveri. 254 La riorganizzazione selvaggia favorì l'arroganza del più forte e permise inoltre che il mercato fosse invaso da speculatori e da autentici gangsters, che non si fermavano dinanzi a nulla. Essi, anzi, reclamavano, per loro, la qualifica di "operatori economici che liberavano il mercato dalle aziende ormai decotte, compiendo così un'azione benemerita per l'economia del Paese". Certo, ognuna di quelle azioni era corretta dal punto di vista del capitalismo ortodosso, ma il problema era che la nostra società aveva confuso il fine con il mezzo. Il capitalismo diveniva sì più razionale, il mercato si faceva più competitivo, le industrie riuscivano anche a guadagnare profitti sempre più alti, quando sapevano resistere alla gelata della depressione economica che spazzava via dal mercato i soggetti più deboli con il vecchio metodo della legge della giungla, ma l'Uomo soffriva. Poiché, nel processo produttivo, l'elemento umano s'era mostrato il più costoso ed anche quello che, con maggior profitto, si poteva sostituire con le macchine, o con una sempre più spinta razionalizzazione del sistema, i suoi gestori non si misero neppure il problema. Razionalizzare, in ultima analisi, significava compiere risparmi lì dove era possibile, ed il modo migliore di risparmiare era quello d'espellere forza lavoro. Così i giovani non trovavano lavoro, il lavoro diveniva sempre meno garantito. Addirittura s'assisteva ad estromissioni dal lavoro, di elementi d'alta capacità specialistica, che, una volta espulsi, non potevano trovare altro lavoro, perché le loro specializzazioni erano rare e non potevano esser riciclate a costo zero. Inoltre, ad uno dei rari imprenditori che poteva offrire una qualsiasi occupazione, conveniva assumere un giovane, che costava meno di un elemento, già da molti anni inserito nel mondo del lavoro. Gli anziani si sentivano senza speranza di una serena vecchiaia e senza scopo, perché la società era così esplosivamente progredita, da rendere inutili quelli che, una volta, erano gli indispensabili depositari della memoria collettiva della comunità. In questa situazione, sempre più schizofrenica, tutta la società s'abbandonava a frenetiche ed irrazionali liturgie, che rammentavano pericolosamente le folli corse in circolo dei topi, impazziti per sovraffollamento. Sport regredito al rango di aggressione, discoteche come tempio del rumore assordante per stordirsi, tempo libero vissuto come necessità di fare quello che facevano tutti, cura ossessiva e non 255 razionale del proprio corpo, perseguita mediante allenamenti parossistici, medicine o, peggio, operazioni chirurgiche, inutili e pericolose. Quale era la causa di una tale situazione? La mancanza di un modello di sviluppo che avesse come fine l'Uomo. Dopo aver visto morire l'idea di Dio, l'Uomo vedeva avvizzire l'idea di Progresso umano: ad uno ad uno, i suoi ultimi ideali svanivano. Ma l'uomo ha bisogno d'ideali, deve credere in valori che impegnino fortemente la propria esistenza, anche quando, in realtà, egli non sta compiendo altro che azioni economiche. Senza quei valori egli si riduce a vivere senza alcun valore, se non quello del suo portafogli. Ad esempio, il mercante che vagava nel Mediterraneo, ai tempi dell'antica Grecia o di Roma, era un astutissimo commerciante dei propri beni, che diffondeva in tutto il mondo allora conosciuto. Ma se qualcuno l'avesse interrogato sulla sua attività, certamente egli avrebbe risposto, magnificando la propria funzione di vettore della civiltà di Atene o di Roma nelle terre dei barbari e, tutto sommato, egli avrebbe avuto ragione. Che funzione sociale può invece attribuirsi ad uno speculatore che, manovrando un computer, mette in ginocchio l'economia di una nazione per suo specifico tornaconto, senza che il consesso delle Nazioni abbia definito ciò un crimine e, soprattutto, trovato il modo di bloccarlo e renderlo inoffensivo? Non a caso questo tipo di struttura sociale ottimizza l'organizzazione criminale, che persegue un unico scopo: arricchirsi al più presto, in qualunque maniera, non retrocedendo di fronte ad alcun ostacolo. La cosa è triste e terribile, ma vera: la società ha poche armi per contrastare questo cancro, una volta che la stessa società ha accettato, come valore centrale, l'arricchimento ad ogni costo. Ma, come configurare una legislazione universale che, prescindendo da questi non valori, riporti l'Umanità nel solco di una tradizione positiva, tale da ricostituire quell'ordinato sviluppo che noi tutti chiamiamo civiltà? Questo s'andava chiedendo, nei rari momenti in cui poteva sollevarsi dal contingente, che occupava così larga parte della sua giornata, il Vescovo Fernays, il nostro Tommaso. 256 CAPITOLO XXI VENTI DI TEMPESTA Avevamo lasciato Tommaso di fronte a quell'incredibile rivelazione, che gli giungeva dalla notte dei tempi e che lo riguardava personalmente. La sua rigorosa formazione culturale non era ancora completamente soddisfatta delle prove che aveva raccolto, né aveva attribuito all'intera vicenda un valore catartico, tale da fargli cambiare il corso della vita o modificare la sua organizzazione mentale, imputandone la causa ad un motivo misterioso, che avesse pilotato tutta quella storia. Insomma, la sua conformazione logica, rigettante del tutto ogni sia pur vago accenno al miracolo, alla magia ed all'intervento di forze non razionali nella vita degli uomini, non accettava elucubrazioni d'alcun genere, al riguardo della sua avventura, ma solo la scarna sequenza dei fatti. I fatti erano chiari ed ormai senza possibilità d'equivoci. La sua famiglia, composta da una sequenza di rabbini ebrei, che potevano far risalire la loro genealogia, con prove documentate da testi antichi, fino all'alba della Nazione ebraica, era stata, nei secoli, il nucleo inflessibile dell'ortodossia di quella religione. Essa, nel corso dei secoli, si era caricata del pesante compito d'essere la custode della Torah, la legge religiosa degli Ebrei, così come questa s'era venuta stratificando, dal tempo di Mosè fino alla definitiva struttura, che aveva assunto quella religione, per il "Popolo eletto". Naturalmente quella custodia non deve intendersi come assoluta ed esclusiva: la Torah era la legge degli Ebrei, conosciuta da tutti, studiata dai rabbini, professata da chiunque si ritenesse un Ebreo osservante. Però, per la preminenza spirituale, filosofica e culturale dei suoi membri, la sua famiglia ebbe l'ambito onore e la grave responsabilità d'essere ritenuta, nel corso dei secoli, una delle voci più alte della religione ebraica. La naturale ritrosia a mostrare un orgoglio, che non fosse solo intellettuale, e la tragicità dell'avventura corsa dal popolo ebreo, nella successione dei secoli, avevano nascosto il valore speciale della propria famiglia nell'ambito della religione e della storia ebrea, fino a farne perdere la conoscenza. Erano rimaste famose solo le splendide individualità, che avevano illustrato, nei secoli, il pensiero ebreo nei campi del sapere e del riconoscere l'impronta di Javeh sul suo popolo, ma non si volle far conoscere la lunga linea del sangue, che univa quei grandi del pensiero umano. 257 Un altro segreto, che la sua famiglia volle tenere nascosto nei secoli, fu la custodia dell'ultimo frammento originale di quanto risaliva al Patto concluso da Jahveh con gli Ebrei, sul monte Sinai. Solo il ricordo della forma di quel frammento fu mutuato, attraverso la qabbalah, nel ricordo collettivo del popolo ebreo. C'era un passo, nel libro di maestro Leone, in cui era chiaramente ricordata la storia della Menorah, il candelabro sacro alla religione ebraica, fatto costruire da Mosè al tempo del patto con il Dio di Israele. Le fonti ufficiali narravano come quel candelabro fosse scomparso ai tempi della cattività babilonese, per esser rifatto, sullo stesso modello, quando gli Ebrei tornarono in patria, dopo il decreto di Ciro il Grande, che li rendeva liberi. Maestro Leone, invece, assicurava che il candelabro era stato messo al sicuro, sotterrato da un membro della propria famiglia e riportato alla luce in tempi tranquilli. Ma tutta la storia della Menorah conservò sempre un carattere di segretezza, che la famiglia Lewi, o come altrimenti si chiamò nel corso dei millenni, non tradì mai, affidato solo al ricordo, gelosamente custodito dai rabbini di quella famiglia. Sicuramente quel segreto era dovuto alla preoccupazione di non introdurre nella religione ebrea alcun elemento che potesse esser considerato una reliquia, un talismano, un feticcio, come invece abbondavano nella religione cristiana. Questi, in quella religione, storicamente sono stati fonte d'infinite distorsioni, non solo teologiche, facendo così deviare le menti meno preparate, dallo studio e dall'adesione alla Legge; cosa questa che, invece, è il carattere distintivo della religione ebrea. Un'ulteriore conferma, certa, perché data dalla scienza, venne dall'esame che Tommaso, con infinite cautele, fece fare dall'Istituto di metallografia applicata di Monaco, in Germania. Il microscopio elettronico e quello a raggi X avevano dato una risposta concorde. Il reperto, sottoposto ad analisi, era risultato composto da oro quasi puro; le impurità presenti in esso facevano supporre un procedimento di fusione molto antico, tipico di quelli in uso nella metà del secondo millennio avanti Cristo. Altre analisi, confrontate con gli scarsissimi reperti dello stesso periodo e collocazione culturale, ritenevano coerente quella datazione, spingendosi ad ipotizzare, in maniera autonoma, una fusione del pezzo avvenuta nella "Fertile mezzaluna"1, sempre nel secondo millennio antecedente la nostra epoca. Viene cosi chiamata quella vasta regione che si estende tra l’Egitto. il deserto siro-arabico, l’Asia minore e l’Iran. 1 258 Le analisi storiografiche, bibliografiche e comparative, sui libri preziosissimi, di cui era venuto in possesso, erano poi una sua specifica competenza. Tommaso s'immerse in quello studio, che l'appassionò per molto tempo, riuscendo a determinare riscontri, che solo l'autenticità del materiale, che stava esaminando, poteva dare. Ma, come abbiamo detto, questo non divenne un'ossessione per Tommaso; egli, tra l'altro, era preso da diversi e più urgenti problemi, che investivano la sua attività pastorale, scientifica ed anche politica, come la sua carica gli imponeva. Certo è che, sempre di più, suscitava la sua ammirazione, il balzo di civiltà compiuto dal popolo ebreo, da quando, unico tra la moltitudine di popolazioni che abitavano la fertile mezzaluna più di tre millenni or sono, aveva saputo elevarsi ad una concezione monoteistica così forte e fortemente sentita. Quella potente visione, generata da un concetto razionale molto più evoluto delle teorie cosmogoniche, che l'uomo aveva saputo ideare in quel tempo lontano, vivificata dal patto personale stabilito tra un popolo e l'idea, che quel popolo aveva saputo concepire per il proprio Dio, aveva fatto compiere un grande progresso nella civiltà dell'Uomo. Essa era giunta, in pochi secoli, ad esprimere il concetto del Dio Unico per tutto l'Universo, ed a riconoscere che questo Universo era la Sua opera. Idea centrale della Storia, che non ha ancora trovato un modo migliore per spiegare l'avventura dell'Uomo, ove non si voglia ricorrere al Caso. Tommaso aveva scartato quest’ultima ipotesi, al tempo del suo rientro nella fede del Cristo, per l'intrinseca impossibilità di dare all'uomo, per mezzo del Caso, una risposta al dolore ed al male. Quindi, per spiegare il tutto, non rimaneva che l’idea di Dio. Quest’idea, come prima istanza, si presentava come legge morale, soddisfacendo in maniera particolare la naturale forma mentis di Tommaso. Inoltre, il sapere che il suo sangue, da millenni, partecipava potentemente alla migliore estrinsecazione di quell’idea, era per Tommaso motivo di ammirazione e d’orgoglio intellettuale. L'ammirazione s'univa poi alla compassione ed al rimpianto, nel ripercorrere le tappe tragiche che quel popolo aveva dovuto compiere, per non abiurare la propria legge religiosa. Pure, quell'ammirazione non aveva scosso l'intima aderenza di Tommaso alla fede del Cristo. Anzi, su questo tema, Tommaso ebbe un lungo e tormentato conflitto interiore. Egli riconosceva le colpe che i seguaci del Cristo, assurti al vertice del potere, anche politico, tra gli uomini, avevano 259 commesso nei confronti di coloro che, per primi, erano giunti alla formulazione di quell'idea superiore, che è il monoteismo. Ma altrettanto chiaramente Tommaso individuava, nell'azione del Cristo, un completamento del processo di conoscenza, che era stato alla base della ricerca dell'unico Dio. In quest’ottica, l'ebraismo era stato lo scopritore del come era avvenuto il processo che aveva portato alla creazione del mondo, al successivo espandersi della Natura, ed all'affermarsi, in essa, dell'autocoscienza, in un essere che chiama se stesso: uomo. Nell'ambito di una tale concezione religiosa, era quindi sorta una grande spiritualità, che aveva definito il perché del processo, che s'era instaurato, e come questo doveva completarsi. Veniva così data una ragione alla pretesa degli uomini di sentirsi le creature predilette da Dio, in quanto derivanti dallo stesso principio di razionalità, che è il carattere distintivo della Divinità. In altre parole, nell'ambito della religione ebraica, un Uomo aveva visto chiaramente che, se si postula un Dio creatore, la creatura che più forte ha il sigillo, il signum divino, può, a buon diritto, anzi deve, riconoscere, in quel Dio, Colui che lo ha creato, così come il figlio si riconosce nel padre. Riconoscendo Dio come padre dell'uomo, può altresì esser riconosciuto che quel Padre ha stabilito, nella Sua Creazione, un percorso, un destino, un fine, per la sua creatura prediletta. Come si svolga questo percorso non è dato conoscere, affinché gli uomini possano esercitare il loro libero arbitrio. Ma che il percorso esista è indubbiamente dato dal fatto che, ove esso non esistesse, l'avventura umana non avrebbe senso; anzi, sarebbe più logicamente coerente ipotizzare un Principio Divino che si nutre del dolore dell'uomo. Proprio dal concetto che i cristiani chiamano Provvidenza, la "Buona Novella", Tommaso faceva quindi discendere l'evoluzione che, per lui, v'era stata dall'Ebraismo al Cristianesimo. Egli ammetteva quindi un’evoluzione importante, senza però ripudiare nulla di quello che era l'ebraismo, ma considerando il Cristianesimo appunto un progresso, che sopravanza il punto di partenza, ma non lo rinnega. Dio, Padre, per mezzo di Colui che, per primo, s'era riconosciuto suo figlio, manda un solo comandamento, che non annulla quelli già dati a Mose sul Sinai, anzi li completa e li rende ancora più razionalmente validi, inserendoli in un contesto logico, che prefigura un fine per l'avventura umana. AMATEVI. 260 Questo era il comandamento che il Principio divino inviava all'uomo, per mezzo della propria Essenza che si era fatta carne, per portare tra gli uomini la Buona Novella. Ubbidendo a quell’ultimo Comandamento, senza rinnegare quelli già dati a Mosè, l'uomo avrebbe realizzato il proprio destino, con l'ausilio dello stesso Principio divino, che era lo Spirito. Esso doveva sovrintendere a quel percorso. Ma, come si strutturava in sistema logicamente compiuto quella religione che era derivata dal ceppo mosaico? Quali erano le affinità? quali le differenze con l’ebraismo? Abbiamo visto come il punto centrale del cristianesimo sia dato dal fatto che esso, per primo, ha individuato e presentato lucidamente la discendenza diretta dell’uomo dal principio razionale. Il Dio di Isacco è ancora incommensurabilmente distante dall’uomo; questi non può nemmeno ardire di concepire un qualche fine per la sua esistenza, che è interamente demandata all’arbitrio divino. In quel Dio vi è il tutto, il Bene ed il Male, ed intrambi sono inconoscibili. L’uomo è una entità trascurabile, che talvolta stava per essere spazzata via dal Creato, per dimostrare la sua pochezza e la sua precarietà. Nella concezione cristiana, invece, l’uomo è necessario per lo sviluppo dell’idea che è alla base della Creazione, egli è l’essere che ha in se la scintilla divina, la creatura voluta dal Creatore per attuare il suo disegno nel Creato, per godere di esso. Questa discendenza è quindi una vera e propria eredità spirituale; in questo senso l’uomo è figlio di Dio e Dio è veramente Padre dell’uomo. Da questa scoperta, squisitamente razionale, deriva necessariamente l’idea del rispetto che si deve ad ogni scintilla divina, ad ogni uomo, anche all’ultimo uomo della terra, anche al malvagio. Ciò, a sua volta, indica il percorso che porta necessariamente alla scoperta dell’altro segno distintivo del cristianesimo, discendente direttamente dal primo ed originale rispetto alla posizione dell’ebraismo. L’uomo, nel riconoscere in ogni suo simile, anche nel più malvagio, anche nel più umile, la scintilla divina, deve ad essa tutto l’amore di cui è capace, perchè, attraverso di esso, si conferma quel legame che ci unisce a Dio. Dalla constatazione del padre comune discende che tutti gli uomini sono fratelli, non tanto per legame di sangue, ma per discendenza dallo stesso principio costitutivo. 261 Questa potente visione, raggiunta per la prima volta dal Cristo, è la prima parte della buona novella, il messaggio rivoluzionario del cristianesimo, che si completa con l’assicurazione di un sicuro destino per l’uomo, mediante l’attuazione di quel disegno che i cristiani chiamano Provvidenza. Quindi, la religione del Cristo, permette di superare, pur comprendendola interamente, la posizione dell’ebraismo, di andare oltre la legge del taglione. Tommaso, infine, pur non negando il miracolo della Grazia, riconosce che tutto questo itinerario intellettuale, questo enorme passo avanti sulla strada della comprensione dell’universo e della necessarietà dell’uomo, si può compiere anche mediante un percorso razionale, senza alcun altro intervento, senza l’aiuto di complicati strumenti teologici, che avrebbero appannato la lucida bellezza e la consequenzialità dell’intera costruzione logica. La fede, dunque, nasceva per Tommaso dall'aderenza dell’intelletto umano ad un concetto che, ideato nella propria razionalità come ipotesi più valida tra quelle possibili, era riuscito a spiegare anche le realtà amare del nostro Universo. Realtà come il dolore, il male, l'infelicità, che, negli altri modelli, avrebbero fatto precipitare la mente umana nello scetticismo più assoluto, senza possibilità di riscatto. Ma, se il dolore e l’angoscia erano state le porte, attraverso le quali Tommaso era rientrato nella fede del Cristo, egli non si era fermato all’ombra di quei tetri propilei, come fa la gran parte dei preti, per affermare l’unica, certa verità del mondo celeste, negando ogni validità al mondo dell’uomo. Questo particolare cristianesimo, che pure è stato gran parte della dottrina del Cristianesimo storico, utile a coloro che lo gestivano per definirsi i soli capaci di insegnare il modo, mediante cui giungere alla salvazione, aveva costruito una dottrina che dominava completamente l’uomo, negandogli ogni validità al di fuori di essa ed immergendolo in un’atmosfera cupa e punitiva. Tommaso invece, attraverso la scoperta della Provvidenza come sola possibilità di liberarsi dall’idea di un universo illogico, recupera, oltre che un disegno razionale del Creato, anche una validità propria dell’uomo, che non ha più bisogno del dolore per giungere a Dio, che non deve più temerlo, per amarne la grandiosità del Disegno e che, quando è giunto, in qualsiasi modo, a comprenderne la necessità, riesce persino a farsi una ragione del male e del dolore. Proprio su questo punto centrale, Tommaso pone quel tanto di preminenza che egli riconosce al Cristianesimo sull'Ebraismo. 262 Tommaso determina così, il valore liberatorio del concetto di Provvidenza cristiana, teso ad un fine ultimo non ignoto, ma anzi certo ed entusiasmante. Concetto questo, invece, non ancora presente nella religione ebrea; essa, infatti, vieta a Giobbe di conoscere la ragione della propria sofferenza e non gli da neppure la certezza della validità del percorso dell’uomo. Questo era stato il dibattito mentale, nello spirito di Tommaso, confermando, così, la necessità di aderire razionalmente ad un processo logico perfettamente intelligibile prima che la fede, diretta conseguenza dell'adesione a quel processo, spiegasse tutte le connessioni e le implicazioni possibili. Tutto il resto è Teologia, misero tentativo di comprendere nella propria razionalità, ancora finita, l'infinita razionalità che è alla radice del tutto. Così la sua mente, pur non ripudiando il miracolo, non ne aveva fatto il momento centrale della sua fede, giungendo a quello che alcuni hanno chiamato:”cristianesimo adulto”. Quindi, per lui, il problema era concluso. Nel mentre però, Tommaso si trovava immerso nel contingente della vita quotidiana, che stava vivendo un momento particolarmente difficile, per il posto che egli occupava. L'intima adesione alla sua antica aspirazione di portare innanzi ogni minima possibilità di razionalità e, perciò, di moralità, era veramente ardua da realizzarsi, in quelle condizioni difficili. Infatti le straordinarie vicende, cui faceva da sfondo lo sfaldarsi di un mondo che, andando alla deriva, rendeva evidenti terribili drammi umani e sociali, portavano alla luce infinite miserie morali; esse, come spesso accade, erano la conseguenza di miserie materiali. Certo, il muro di Berlino era caduto, e l'avvenimento aveva fatto gridare al miracolo ed alla possibilità, anzi alla certezza, che l'Umanità si sarebbe incamminata sulla strada della razionalizzazione dei rapporti tra gli Stati, prodromo e causa della razionalizzazione dei rapporti tra gli uomini. Invece abbiamo visto che l'Uomo non era ancora pronto a compiere un salto di qualità che, anche in campo evolutivo, gli specialisti del ramo assicurano essere la norma di procedura 2. Sembra ormai accertato che, al contrario di quel che pensava l’evoluzionismo ai suoi primordi e la stessa scienza antica ( Natura non facit saltus ), la natura conservi invece, per lunghi periodi di tempo, una situazione sempre uguale a se stessa. Poi, il cambiamento arriva all’improvviso, per opera di un’individualità o di un gruppo,o di circostanze favorevoli, magari originate da variazioni genetiche. 2 263 Tommaso aveva chiaramente individuato la ragione che impediva all'Umanità di compiere quel salto di qualità. Per definire un modo di vita che determini un livello superiore d'esistenza, occorre che, chi lo postula, sia il portatore di una somma d'ideali possibili; migliori di quelli del precedente livello, e tali da esser irradiati, con la forza delle idee, per tutta l'Umanità. Insomma, occorre essere il vettore di un modello di civiltà, superiore a quello esistente. Naturalmente questa constatazione, sia pure importante, non faceva procedere per nulla la ricerca di quel modello di civiltà e l'uomo, quando non cammina sulla strada della civiltà, si perde nei viottoli dei propri fantasmi involutivi perché, come si è detto, il sonno della ragione suscita mostri. Così, in quell'epoca, che era stata salutata come l'inizio di una nuova era di pace per l'Umanità, non essendo l’uomo ancora capace di compiere il necessario salto di civiltà, tornavano gli antichi flagelli, come sempre accade, quando l'uomo non è sorretto da un ideale vero. La carestia, che nelle regioni progredite assumeva l'aspetto della mancanza di lavoro, mentre nella gran parte del pianeta essa si presentava con le stesse, antiche, consuete vesti della mancanza di cibo. La fame, che uccideva letteralmente milioni d'individui in tutto il mondo. La guerra, che aveva assunto i connotati tragici di guerra etnica e di religione, non fermandosi dinanzi ad alcun orrore. La paura, che, sempre negli Stati più progrediti, indossava le vesti della criminalità organizzata nella vita sociale, mentre, nell'intimo d'ogni persona, prendeva i connotati dello stress, dell'angoscia, del non saper più vivere in modo sereno; caratteristica questa che è il frutto di una collaudata civiltà. Inoltre la paura si manifestava come paura fisica, nel vedere la propria vita trattata come se essa non avesse più alcun valore. La malattia, il mostro che stava colpendo più subdolamente; proprio quando si credeva ormai vinto ed estirpato dalla vita dell'Umanità, l’antico flagello si ripresentava con nuove, diverse malattie, che attaccavano l'uomo in maniera più sottile e più terribile. Come sempre, i quattro cavalieri colpivano i più deboli, le persone più fragili, le genti più indifese, i popoli meno capaci d'imporsi un modello di vita, idoneo a contrastare il folle galoppo di quei mostri. Questo cambiamento fa compiere un salto evolutivo tale da sopravanzare, in tempi brevissimi, lo standard del momento, per posizionarsi su di un livello superiore. 264 Spesso, quando l'assurdità della situazione faceva temere l'impossibilità della vittoria sui mali del mondo, Tommaso si chiedeva quale potesse essere una via d'uscita. Come elemento trainante di un'Ecclesia che era, oltretutto, anche una struttura sociale, egli s'interrogava su come dovesse riconfigurarsi la Chiesa, per far fronte a quegli antichi mali, che stavano colpendo nuovamente, e sempre più pesantemente, l'Umanità. Se la Chiesa del primo millennio era stata strutturata per la ricerca di una legittimità, che rendesse idoneo per tutta l'Umanità il messaggio del Cristo, se la Chiesa del secondo millennio aveva saputo iniziare a liberarsi da quell'ansia di Potere, che l'aveva percorsa per tutti quei secoli, come doveva essere la Chiesa del terzo millennio? Certo che il gigante polacco, l'uomo che aveva saputo distruggere l'idea atea del comunismo, sfruttando sì le occasioni che la Provvidenza gli aveva fornito, ma soprattutto avendo avuto il coraggio d'ergersi da solo contro il dispotismo sovietico, proprio nel momento in cui questo sembrava invincibile, Papa Wojtyla, doveva averla, una sua idea. Tutto faceva pensare che Egli avesse compiutamente elaborato un modello di come dovesse essere la Chiesa, per riconquistare quel ruolo, che una volta fu di potere e che ora sarebbe stato, molto più razionalmente, di autorità morale, d'indirizzo, per porre l'ideale cristiano come fondamento del millennio che si sentiva prossimo. Eppure quel concetto "Imperiale" del ruolo della Chiesa non soddisfaceva del tutto la mente razionale del gesuita. Forse occorreva, ancora una volta, imbarcare quell'idea sui leggeri battelli del metodo, caro al suo Ordine, per condurla nel vasto Oceano del rapporto dialettico con la realtà, per vedere come quel concetto sapesse navigare. Dall’esame di quella navigazione, era necessario quindi trarne le conseguenze, per una possibile, anche se impercettibile, correzione di rotta, in modo da renderla più adatta alle necessità dell'Uomo del terzo millennio. Così, mentre procedeva, per quanto era in suo potere, a rendere meno tragiche le condizioni di coloro che soffrivano e di cui egli avesse conoscenza e possibilità d'intervento, Tommaso aveva un pensiero segreto. Egli si preoccupava, o, sarebbe meglio dire, si dilettava ad immaginare logicamente, come sarebbe dovuta essere l'organizzazione della Chiesa, per rispondere, in maniera sempre più razionale, alle sfide che l'enormità dei problemi portava alla capacità dell'azione umana nel risolverli. 265 Per affinare sempre di più questa sua inclinazione, Tommaso non perdeva occasione nell'interessarsi ad ogni fatto, evento o possibilità in cui quei problemi venivano trattati. Per questo, egli era divenuto sempre più intimo al gruppo d'esponenti europei di cui era diventato amico, riconoscendo alla loro opera un'importante funzione, collimante con la propria, che era quella di portare avanti il discorso sulla sempre maggior razionalità, necessaria all'ordinato sviluppo dell'uomo. Una volta Tommaso, nei primi anni novanta, partecipò ad un convegno, tenuto da un originale, giovane studioso italiano. La tesi, espressa in quell'occasione, era la seguente 3 : "Il concetto di Europa nasce, venticinque secoli or sono, dallo scontro tra i Persiani dell'Asia ed i Greci europei. I primi sono un insieme di genti sottomesse al potere regale, loro padrone; i secondi rappresentano il concetto, antitetico, della libertà dell'individuo, che non accetta padrone. Gli uni sono una moltitudine di sudditi, tenuta insieme dalla paura; gli altri sono una società di uomini liberi che si struttura nella Polis, creazione originale di una civiltà, la nostra civiltà, che da essi prenderà le mosse. Ecco un primo carattere distintivo dell'idea che noi, ora, chiamiamo Europa: i suoi cittadini si riconoscono nell'ideale di libertà. Coloro che non accettano quell'ideale sono i barbari, quelli che pongono l’essenza della loro vita sociale nel concetto di Maestà. Molti sono i principi informatori con cui si sono strutturate le diverse civiltà dell'uomo. Oltre al concetto di Maestà, già incontrato, possiamo enumerare: Lo spirito del Clan; esso è caratteristico delle tribù nomadi e delle genti che sono all'inizio del proprio iter, come popolo. L'assoluta sottomissione a Dio, compiutamente rappresentato dall'Islam. La "via di mezzo", riassunta e continuamente arricchita nella tradizione dei padri, propria del Confucianesimo. Il superamento delle passioni, insito, in maniera particolare, nel Buddismo. L'imperialismo nazionalista, che ha dato esempi deleteri come il Tenno giapponese o il nazional socialismo Hitleriano. Tutti questi modelli, nel corso della storia, sono stati piegati e sconfitti dal modello nato in Grecia, in nome della libertà. La libertà ha poi, alcune idee subordinate, che ne chiariscono e ne accrescono il significato compiuto. L’autore sente il dovere di affermare che molte delle tesi espresse nelle pagine seguenti sono postulate nel libro di M. CACCIARI “GEOFILOSOFIA DELL’EUROPA“ opera già precedentemente citata. 3 266 La prima libertà si esplica nel parlar liberamente, cioè nel non esser distolti o intimoriti dal concetto su cui si fonda il tipo d'organizzazione cui la Grecia fu antagonista: il concetto di autorità, tipico degli Imperi, di cui quello persiano fu il prototipo. Inoltre, per poter resistere alle imposizioni della forza, la libertà deve, in massimo grado, cercare ogni tipo di sapienza, di conoscenza; anche quella, la più difficile, rappresentata dall'analisi delle proprie debolezze e dei propri vizi. Così il genio greco pone sul frontone del tempio l'esortazione, che è soprattutto un'indicazione operativa, nell'impari battaglia che deve esser portata contro la forza: "Conosci te stesso". Infine la libertà greca, per non scadere essa stessa nell'arbitrio, ha bisogno di un padrone. Questo padrone è il "Despotes Nomos", la legge della Città. A differenza di quello ebreo, che pone il raggiungimento dell'età dell'oro nel futuro, mediante un progressivo processo di razionalizzazione dell'uomo, nell'immaginario greco la mitica stagione della pace universale era posta all'inizio della storia, anzi prima di essa. Ciò sta a significare che lo spirito greco concepisce la storia come necessità di crescere, di portare innanzi il proprio ideale, anche con la guerra, se necessario. Quindi la "Polis", tipica struttura sociale greca, la "Politeia", la politica, come la intendevano i greci e la guerra, che essi chiamavano "Polemos" (come, del resto avevamo già visto) sono le facce di una stessa realtà, tanto connesse da avere la stessa radice semantica. Perciò i custodi della Polis saranno dei guerrieri, cioè coloro che considerano la guerra uno stato normale, nelle relazioni tra le varie genti. Anzi il loro concetto di polemos si manifesterà all'esterno della polis, ma anche all'interno di essa, non rifuggendo dalla guerra civile, intesa come scontro d'interessi e d'idee tra i vari gruppi, all'interno della medesima organizzazione sociale 4. Rimane da evidenziare l'impulso a crescere, ad espandersi, tipico d’una società di uomini liberi, come s’era venuta configurando nella Grecia del V secolo avanti Cristo. Quest'impulso resta un segno distintivo che, dalla polis greca, si travasa e pervade tutta la civiltà occidentale, conferendo un Il processo di appropriazione culturale della validità della forza e’ compiutamente espresso da B. PASCAL, quando questi riconosce: “ Non potendo conferire la forza alla giustizia, si è resa giusta la forza, affinchè giustizia e forza fossero insieme, e ci fosse così la pace , che è il bene supremo”. ( Pensées, 299- riportato da M. CACCIARI op. cit.) 4 267 impatto micidiale, su tutta l'Umanità, all'altro segno caratteristico di questa civiltà: il commercio. Il commercio, inteso alla maniera "occidentale" del termine, cioè non come uno scambio, un baratto vicendevole tra i diversi prodotti che le varie comunità possono produrre e quindi permutare per le quantità in sovrabbondanza, ma come ricerca dei mercati più ricchi, come possibilità di penetrazione nei territori altrui, come opera di conquista economica, è un sistema che ha un nome sinistro: imperialismo. Nasce così una politica, che abbandona presto le vecchie idee di libertà o le usa come paravento, limitando quella libertà solo al proprio gruppo, mentre, con gli altri, attua l'antica legge della giungla, che s'affida molto spesso alla guerra, e pone, come principio, la pretesa del più forte. Questo è il tipo di commercio, ideato ed attuato dalla "Civiltà Occidentale". Per questo l'Ateniese ha “casa nella sua mente”, non possiede terra né radice, né casa, ma è tutto teso a conoscere nuovi mondi, che diverranno, per lui, nuovi mercati, e la civiltà che egli ha creato si espande su una direttrice privilegiata: il mare. Eppure questa costante, questa caratteristica inquietudine dell'idea che, dall'Atene del V secolo scende e si sostanzia nell'idea Europa 5 è sempre in bilico: l'Europa è un'idea malata. Essa è nemica d'ogni quiete, in continua situazione di crisi, anche se queste crisi sono le cause che hanno reso così splendente il genio di Europa in ogni campo. L'unico antidoto allo spleen, alla sofferenza, alla disperazione, è il riso, la possibilità, anzi la necessità di sottoporre ogni idea all'"Eironeia". Così, necessariamente, l'Europa è anche dissacrazione d'ogni valore, sradicamento di ogni ideale, distruzione d'ogni sogno che l'uomo, nella sua primitiva innocenza, possa fare. Quindi, se si vuol superare la situazione di tragica impasse in cui si è venuta a cacciare la civiltà nel momento attuale, occorre rivedere l'organizzazione politica che ci stiamo trascinando da venticinque secoli, per studiarla alla luce delle nostre attuali possibilità e conoscenze, al fine di giungere ad una nuova visione sociale. Gli ordinamenti sociali che si sono succeduti nei millenni della nostra storia, possono essere così enumerati: l'organizzazione territoriale di tipo agricolo (nomos=pascolo) nell'evo antico, Naturalmente, quando si parla di idea Europa, si deve includere, a maggior ragione, l’America, che già Hegel aveva visto come gigantesca “Translatio imperii “ dell’idea Europa. cfr. M. CACCIARI op. cit. 5 268 la res publica Christiana nell'età di mezzo, lo Stato, inteso alla maniera europea, nell'epoca moderna. Solo se sapremo innalzarci per un successivo gradino, potremo instaurare un nuovo "Ius Gentium"6, un miglior modello comportamentale, più adeguato alle necessità dell'Umanità del terzo millennio". Molto discussero quegli uomini investiti di grandi responsabilità, nell’Europa che stentava a nascere e che qualcuno, evidentemente, voleva uccidere nella culla, considerando i guasti che quell'idea aveva portato all'Umanità, in venticinque secoli di estrinsecazione. Il problema era reale e realmente sentito, da ciascuno di loro. Anche se ognuno aveva puntualizzato le diversità d'interpretazione, che le loro posizioni assumevano nel confronto dei problemi di dettaglio, tutti, alla fine, si trovarono d'accordo sull'intera questione. L'idea Europa, pur nello splendore della sua storia, era nata con il peccato originale della competizione, del conflitto, della guerra come condizione naturale e permanente tra gli uomini. Solo se si fosse riuscito a sublimare tale impostazione mentale, facendole perdere ogni accenno di conflitto come mezzo risolutore per ogni tipo di contesa, l'idea Europa avrebbe potuto proseguire il suo cammino glorioso, nella civiltà dell'Uomo. Altrimenti essa sarebbe stata, più o meno tardi, più o meno traumaticamente ma, comunque sempre drammaticamente, soppiantata da una diversa organizzazione sociale. Se l’Uomo poi non fosse stato in grado di superare l’impasse, che stava sbarrando la sua storia, la sua traiettoria di civiltà poteva considerarsi conclusa. “ Legge delle genti “, cioè un nuovo ordinamento che regoli i rapporti sociali, su scala internazionale. 6 269 CAPITOLO XXII NUOVI COMPITI Ormai l'incarico, di vescovo ausiliare del Primate del Belgio, non rappresentava compiutamente l'opera, e l'importanza, che l'azione di Tommaso andava realizzando, nel cuore dell'Europa. La propria posizione cattedratica rivestiva, sempre di più, un'autorità indiscussa e continuamente sviluppantesi in tutti i difficili settori della teologia cattolica, dell'esegesi testamentaria e delle implicazioni che il vescovo gesuita aveva dato alle proprie conclusioni, nel suo campo specifico d'indagine. Tommaso, al di là del proprio ambito specialistico, aveva raggiunto una competenza tale, nell'insieme dei rapporti umani e politici, da fare di lui una delle figure di riferimento, per quel cattolicesimo di punta che egli intendeva portare innanzi. La sua azione sicura nasceva anche dalla consapevolezza d'attuare un percorso logico, il cui filo era nelle mani del proprio superiore, il Cardinal Van der Groe. Spesso la propria linea di condotta sembrava svincolata da ogni indicazione proveniente dall'alto, per le coraggiose iniziative che sarebbero state certamente considerate temerarie, se non avessero sempre raggiunto lo scopo che esse si prefiggevano. Ogni organizzazione umana lascia i propri membri più attivi giocare nel campo delle possibilità e se ne accaparra il merito, quando queste azioni raggiungono lo scopo prefisso; salvo sconfessarle, quando esse falliscono, adducendo come scusa l'imprudenza dei giovani e ristabilendo, in questo modo, la potestà dell'Autorità costituita. In altri termini, ora toccava a Tommaso ballare, così come il suo padre spirituale, l'attuale Cardinal Van der Groe, aveva ballato, come semplice segretario del Cardinal Bea, ai tempi remoti del Concilio Vaticano II. Tommaso mostrava sempre di più di sapersi muovere in quel campo infido, in cui si confrontavano le migliori intelligenze, i più grandi interessi, le più inconfessabili aspirazioni. La politica, a livello internazionale, era divenuta, in questo modo, la sua azione più incisiva, quella che avrebbe potuto bruciarlo con più facilità, ma anche quella che gli permetteva 270 d'essere al centro del problema dell'Uomo, mentre il millennio stava per finire. Così, grandi segreti erano passati dal suo studio, dal preallarme per un tentativo di golpe che avrebbe dovuto sbalzare Gorbacev e reintrodurre in Russia il comunismo più ortodosso, nel 92, alle più segrete intese tra i rappresentanti di Germania, Francia ed Inghilterra nel tentativo di portare innanzi la costituzione di un'Europa, che ciascuno voleva a suo modo. Anche i contatti, mai fino allora neppure ammessi, tra i capi della rivoluzione palestinese ed i responsabili di Israele, avevano visto lo zampino del vescovo gesuita. Anzi, a questo proposito, basti considerare come, per mezzo del proprio metodo, che qualcuno s'ostinava a definire gesuitico, ma che tutti ricercavano, quando si doveva esser sicuri dell'assoluta segretezza, dell'imparzialità di giudizio e della sincera ricerca di una possibile soluzione dei problemi, Tommaso era pervenuto al cuore dell’alta politica. Egli era, ad esempio, divenuto il corrispondente fidato ed efficace dei capi religiosi iraniani, quando questi volevano parlare concretamente con i massimi dirigenti dell'Occidente, senza scandire le truci massime di guerra, che urlavano i propri seguaci. Insomma, non spinto da calcoli sottili di "carriera", ma mosso dal generoso impulso di portare il proprio contributo di un briciolo di razionalità, per districare le ingiustizie di un mondo che stava precipitando nell'irrazionalità più selvaggia, Tommaso s'era gettato in quella lotta, che era così congeniale al proprio carattere. Per questa ragione, egli provò uno strano sentimento, come quello che prova un figlio quando sente il proprio padre, finora avaro d'affetto esternato, finalmente aprire la propria anima e mostrare quanta sofferenza fosse costata il trattenere questo affetto, per non intralciare l'opera del figlio. Infatti Tommaso era stato chiamato dal cardinal Van der Groe, con una strana voce. Subito recatosi dal Presule, egli lo trovò come mai l'aveva visto. "Figlio mio - iniziò il Cardinale - dopo tanti anni vissuti insieme, mentre vedevo la tua opera farsi sempre più sicura ed incisiva, mi è giunta da Roma una proposta che è quasi un ordine. Un ordine per me dolorosissimo, perché mi priva dell'opera di mio figlio, ma che non posso non accettare, perché è giusto. Il Vaticano, che già da tempo conosce il tuo valore e stima le tue capacità, vuole che la tua sede vescovile non sia più " in 271 Partibus infidelium ", ma ti chiede, per porti a capo di una grande Diocesi metropolitana, nella tua Nazione, la Francia. In questo modo ti si da la possibilità d'esercitare nella maniera più difficile, ma più entusiasmante, il tuo magistero, avendo la responsabilità di uomini, che è la più grande delle responsabilità, quella in cui più facilmente si possono commettere errori ". " Eminenza -lo interruppe Tommaso- mi rivolgo a Lei come ad un padre: mi dispensi da questo grave compito, cui non mi sento preparato e che non ambisco". "Proprio perché io mi sento e sono tuo Padre, almeno spirituale, non mi opporrò a questa decisione. La comune idea che abbiamo della nostra religione c'impone di confrontarci con essa nei campi più diversi e più difficili, al di là delle nostre preferenze e dei nostri comodi. Tutta la tua vita è stata una preparazione a questo compito e tu sarai un buon pastore d'anime, un buon Vescovo, anche se io dovrò cercare di nuovo un figlio, per fargli condurre la mia casa. Ma so, già da adesso, che difficilmente potrò trovare un figlio così rispondente alle mie attese, quanto lo sei stato tu: per questo rimarrai sempre nel mio cuore, come il figlio prediletto. Adesso vai, se non vuoi vedermi commuovere troppo e considera questo un ordine, ad maiorem Dei gloriam ". Così dicendo, l'anziano Presule, mentre stava dando la mano al suo sostituto per il rituale bacio dell'anello, lo tirò a se, stringendolo in un abbraccio così forte e così inatteso, da lasciare il povero Tommaso senza possibilità di replica. Più tardi, mentre stava ascoltando nel suo studio, all'Università di Lovanio, il cicaleccio dei passeri che, al tramonto, diventava quasi una canzone alle meraviglie del Creato, Tommaso pensava al momento che stava vivendo. Avrebbe dovuto abbandonare la sua vita di studio e di proficue relazioni, avrebbe dovuto lasciare quell'Università, a lui così cara, avrebbe dovuto rivoluzionare la propria esistenza. Il senso di spleen, che lo stava invadendo, non era altro che il portato del sentimento d'assuefazione ad una situazione conosciuta, la nostalgia di una realtà nota, contrapposta al disagio di una prestigiosa condizione ignota, o almeno di cui aveva poca dimestichezza. Tale condizione non era, per quanto lo riguardava, neppure molto ambita, benché, nel senso comune, la nomina ad una sede 272 vescovile rappresentasse il coronamento della carriera di un prete. Questo era quanto di più lontano potesse essere, dal modo di pensare di Tommaso: ricerca di una carriera, senso di compiacimento per il riconoscimento del proprio valore, più elevati livelli d'inserimento e di possibilità. Tutte vanitates, che la sua coscienza aveva sepolto insieme con la propria famiglia, in un tempo così lontano, che gli sembrava quasi appartenuto ad un'altra esistenza. Ecco, quello invece era il significato della sfida: lasciare la realtà nota, in cui era confortevolmente inserito, per confrontarsi con un altro tipo di realtà, di cui non conosceva la dimensione. Ma lui era un soldato dell'Ordine, che più di tutti reclamava obbedienza assoluta. D'altronde, anche se non vi fosse stato un comando preciso, la sua vivacità intellettuale gl’imponeva di non arretrare di fronte ad alcuna sfida, di non lasciarsi sommergere dal conosciuto, perdendo così la sua propensione al dibattito delle idee, che è la più sicura garanzia dell'esser vivi. L'unico sentimento di nostalgia era rivolto al suo Cardinale, che aveva saputo così bene nascondere la sua fiducia di padre spirituale, da svelargli la sua apprensione per il distacco, solo dopo averlo promosso ed approvato, dopo una vita in cui era sembrato solamente essere esigente al massimo grado, nei suoi confronti. Ora capiva fino in fondo la ragione di quella severità ed il motivo per cui il Cardinal Van der Groe non s'era mai lasciato andare nei confronti del suo pupillo. L'allenamento era ormai completato, un altro duro difensore della Fede, intesa come la intendeva il Cardinale, era pronto, l'addestramento era finito. 273 CAP.XXIII PASTORE DI ANIME La cattedrale di Reims, in Francia, è uno dei massimi monumenti che lo spirito dell'uomo abbia saputo elevare, per testimoniare il suo credo nel Dio cristiano. La meravigliosa costruzione gotica, in cui, per antica tradizione erano incoronati i Re di Francia, s'offriva in tutto il suo slancio verso l'alto, quasi un grido di pietra verso il cielo, nel giorno in cui era consacrato il suo nuovo presule. Egli, per effetto di quella nomina, era divenuto arcivescovo di una delle sedi più prestigiose della Cattolicità. Le antiche vetrate, risalenti al XIII secolo, istoriate con meravigliosi colori, davano un senso irreale alla cerimonia, che sembrava compiersi in un universo indeterminato, senza tempo, sempre uguale a se stessa. L'Arcivescovo Tommaso Fernays, nei suoi paramenti splendenti, la mitra preziosa sul capo, i guanti bianchi su cui sfavillava l'anello, simbolo della sua nuova dignità, il pastorale, che Tommaso aveva scelto antichissimo, per riaffermare il senso di una tradizione che non doveva esser persa, tutto contribuiva a dare un contenuto mistico alla cerimonia che stava volgendo al termine. La commozione dei suoi parenti, che vedevano la sede arcivescovile da cui dipendeva Epernay retta dal loro caro, era vera e veramente sentita. Ma la teoria delle persone venute ad ossequiarlo e che cercavano di carpire un segno per entrare nella sua benevolenza, la schiera del clero che dipendeva da lui, attento a ricavare un qualsiasi indizio, per conoscere la maniera di comportarsi nei suoi riguardi, le manifestazioni di compiacimento per la nomina e di devozione personale al nuovo Presule, tutto era forma. Tommaso avvertiva immediatamente quella forma e, pur non opponendovisi, la giudicava correttamente, non come un'adesione alle proprie idee, ma come un inchino al Potere. Ancora una volta, il suo pensiero si rivolse, grato, al proprio padre spirituale, il Cardinal Van der Groe, che gli aveva inoculato il vaccino con cui difendersi dalla vanità del mondo. Naturalmente, conoscere il problema non significava averlo risolto: tutto si giocava nei primi approcci che Tommaso doveva gestire al meglio, se voleva iniziare un'efficace opera nel suo nuovo incarico. 274 Così, terminata finalmente la cerimonia, il suo ausiliario, che lo stava aiutando a togliersi quei preziosi ed antichi paramenti, gli dette motivo per cominciare a render noto il suo modo di pensare. Questi accennò, non troppo velatamente, all'episodio che aveva visto Tommaso, qualche anno prima, opporsi all'allora Arcivescovo di quella diocesi, in occasione della diatriba sulla malattia, inviata da Dio per punire l'Umanità, macchiatasi di così grandi colpe. Il prete parlò quindi del grave scandalo che l'episodio aveva allora suscitato, specialmente in quella zona, retta allora da un Presule, certo di non larghe vedute, come era l'attuale Arcivescovo. Il collaboratore di Tommaso stava completando il proprio discorso con un panegirico sull'opera dello Spirito Santo, che aveva saputo trovare un Capo finalmente all'altezza dei tempi per la loro Chiesa, quando fu interrotto dal nuovo Arcivescovo. "Non pensa, Monsignore, che il mio predecessore, di venerata memoria, non avesse le ragioni che riteneva di avere, quando intervenne in quella disputa che, sono sicuro, intraprese al solo scopo di far recedere le anime a lui affidate da comportamenti non consoni alla nostra Fede? Ormai l'insegnamento di Giovanni XXIII, che fa correttamente distinguere l'errore dall'errante, dovrebbe essere patrimonio comune della Chiesa e farci capire che un comportamento, quando è in buona fede, cioè senza tendere coscientemente al male, deve esser sempre valutato come un'acquisizione dello spirito umano. Quell'idea può esser combattuta sul piano della liceità e della prassi, ma la lotta non deve mai esser portata contro l'individuo, sempre e comunque degno di rispetto, specialmente quando noi crediamo che egli sbagli. Io sono sicuro che Lei non intendeva mancare di rispetto al mio predecessore, ma solo farmi notare che Ella è al mio fianco, per le prove che ci attenderanno. La ringrazio per questa sua offerta di collaborazione; sono sicuro che essa è senza doppi fini e sappia che la terrò nel giusto conto". Lasciò così il suo interlocutore frastornato, perché non aveva capito se il suo superiore l'aveva rimproverato o ringraziato, ma ormai conquistato all'azione del nuovo Arcivescovo, che era quanto s'era ripromesso Tommaso. Un ulteriore tassello nell'opera d'acquisizione di una precisa identità intellettuale e morale, in modo da essere immediatamente recepito dai suoi fedeli nella forma esatta che 275 egli s'era prefisso, Tommaso la portò avanti nella prima intervista, che gli venne richiesta da un importante quotidiano di Parigi. Al giornalista famoso, che iniziò un poco provocatoriamente, come del resto era in carattere con la professione che esercitava, chiedendo in che modo doveva chiamarlo, se Eccellenza per il suo titolo religioso, professore per le sue referenze accademiche, plenipotenziario per i suoi trascorsi diplomatici, maestro per la dottrina che egli predicava, Tommaso rispose sorridendo. " Conosco un solo maestro, alla cui opera cerco faticosamente d'adeguare i miei sforzi. La ringrazio di considerarmi un plenipotenziario, benché la mia opera sia consistita quasi esclusivamente nel fare da passacarte per autorità ben più importanti della mia persona. Per quanto riguarda i miei titoli accademici, in questo sono un seguace di Socrate, che si considerava il più ignorante fra gli uomini. Per finire, lasciamo che il titolo di Eccellenza sia attribuito solo dopo che i meriti, se ci saranno, siano stati sanciti e cassati, cioè a dopo che io non sarò più "Eccellenza". A me interessa una sola cosa: che chi si rivolge a me, sappia di parlare non alla persona, alla maschera, al simbolo che rappresento, ma all'amico, al fratello, al padre che cercherà d'aiutarlo, fin dove è possibile. Io, comunque, gioirò con lui per le sue vittorie, quando esse siano lecite, e piangerò con lui per le sue sconfitte, quando non avrà altri che lo possano consolare. Se proprio mi si vorrà dare un titolo, senza chiamarmi per nome, che invece è la maniera più diretta per comunicare, allora chiamatemi Prete. Come Lei sa, prete significa "Anziano", perciò: "Colui che è il depositario della cultura della mia gente", perché questo era l'ufficio degli anziani, quando essi avevano una precisa funzione nella nostra civiltà. Ora che questa mansione è negata, viene, per la medesima ragione, messa in dubbio l'essenza stessa di quella che noi chiamiamo civiltà. Questo non significa che io auspichi una società statica, una società senza slanci, simile al Confucianesimo, che basa la sua essenza sul rispetto della volontà del padre. Ma il padre non va ucciso: va superato con un processo logico che permetta, anche al padre, di vedere l'esistenza del figlio, su un piano superiore alla propria. Solo così si può avere un ordinato sviluppo, una sequenza senza strappi; essi sono sempre dolorosi e quasi mai, portano ad un progredire senza sofferenza. 276 Naturalmente questo non significa che gli strappi, le rivoluzioni, quando non sia possibile sbloccare la situazione in altro modo, siano, in ogni circostanza, da escludere. Essi sono una triste necessità, che serve a portare innanzi, comunque, quel processo continuo che noi chiamiamo civiltà. Processo che si svolgerebbe in maniera più armoniosa se i giovani sapessero attendere, mentre acquisiscono esperienza, ed i vecchi sapessero lasciare, quando è giunto il momento. Ma questo processo è essenziale per l'Uomo. Esso è la sua ragion d'essere, la sua caratteristica primaria, il perché della sua nascita sulla terra. Per questo, esso è un fenomeno insopprimibile, un qualcosa che non si può arrestare in nessun campo, neppure in quello religioso, senza provocare un fenomeno di compressione che, inevitabilmente, si risolve con una deflagrazione, tanto più violenta, quanto più lunga e forte è stata la compressione. Questa è appunto la funzione corretta del Potere: provvedere ad evitare i fenomeni di compressione sociale che in qualsiasi maniera, in ogni campo, possono attentare all'ordinato sviluppo della civiltà. Quando il Potere obbedisce alla funzione sociale che l'ha suscitato e che lo legittima continuamente nella società, avremo un ordinato sviluppo, che genera progresso e contribuisce all'espandersi di quella che noi definiamo civiltà. Quando invece il Potere prevarica i propri compiti, esso diventa prepotenza, che si manifesta sempre mediante la violenza. Oppure, quando il Potere non sa, non vuole o non può compiere la propria azione, permettendo che accadano quei fenomeni di compressione sociale che ricordavamo prima, esso giustifica la reazione che, inevitabilmente, esso stesso innesca". " È la terza volta che Lei parla dei fenomeni di "compressione sociale"; può soffermarsi su questo termine, cercando di renderlo più esplicito?" "Lei è un buon giornalista e mi ha subito colto in flagranza di reato "accademico". Il termine astruso, come tutti i termini specialistici, non e nient'altro che il reato di cui si macchia, chi non obbedisce al Comandamento che impone "Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te". Quel comandamento discende direttamente dalla legge divina, che impone l'amore tra gli uomini, ma è presente anche nello spirito laico, in quanto è una diretta derivazione del principio logico, che suscita ogni corretta organizzazione intellettuale. 277 Così, il principio anzidetto è il diretto ispiratore della morale autonoma di Kant; egli pone, infatti, nell'uomo, esattamente come la morale cristiana, il fine d'ogni azione in questo mondo. Per concludere e per essere più esplicito, come è nella mia natura, considero fenomeni di compressione sociale ogni rapina dell'uomo sul proprio simile, ogni tentativo di prevaricazione, ogni possibilità di escamotage dai propri doveri, primi tra tutti quelli sociali, come l'obbedienza alle leggi dello Stato. L’uomo deve custodire, nella sua più intima essenza, le regole morali; esse sono il segno distintivo dell'Umanità. Egli, per sua natura, quando non è sorretto da un rigoroso senso morale, tende a rifuggire dai propri obblighi. Lo Stato invece, per definizione, deve dare corso al contratto sociale che è alla base della sua costituzione, dando forma e potere, a tutti i livelli, ad Autorità idonee a garantire la corretta applicazione di quel contratto sociale. Ogni organizzazione statale che si discosta da questo archetipo dà origine a fenomeni di compressione sociale. Quindi, lo Stato deve sovrintendere rigidamente all'applicazione del contratto sociale tra i suoi cittadini, custodendo e rinnovando continuamente il corpus delle leggi che regolano quel contratto, perché esso sia sempre più conforme alle nuove realtà che si presentano agli uomini”. "Lei ha parlato di morale cristiana e morale laica; me ne può fare un confronto, illustrandomene i punti di contatto e le differenze?" "È questo un campo vastissimo per lo specialista, tale da fargli facilmente perdere di vista scopi ed obbiettivi. Ma noi dobbiamo parlare per l'uomo comune, per il fornaio che mi vende il pane, se vogliamo raggiungere lo scopo di farci capire. Dunque, tra i molteplici significati che l'uomo ha dato al termine "morale", quello più semplice è: "teoria razionale del bene e del male, cioè l'insieme delle regole di condotta, razionalmente definite ed adottate dall'uomo". Evidentemente, quelle regole servono ad instaurare comportamenti tali, da facilitare l'ordinato sviluppo della società. Sarebbe lapalissiano dire che tali regole non attengono il campo delle scienze naturali, ma quello delle scienze sociali; anzi esse sono la base costitutiva di tali scienze. Intendo affermare che, mentre non può esistere una morale per il leone o per la formica, animali non autocoscienti e quindi 278 strettamente determinati nel loro comportamento dall'ambiente, deve comunque esistere una morale per l'uomo, animale autocosciente. Egli ha saputo sciogliersi, per una certa misura, dai vincoli del comportamento innato, per arrivare ad avere un comportamento che noi chiamiamo culturale, perché vediamo in esso il segno dell'autocoscienza dell'uomo, cioè della sua caratteristica di rendersi conto dell'universo che lo circonda. Pertanto qualsiasi tipo di società ha bisogno, per svilupparsi, di un insieme di regole comportamentali, in altre parole di regole morali. Dove diverge la morale cristiana dalle altre morali? La morale cristiana sa che esiste un percorso, che questo percorso può essere tortuoso o, addirittura, può tornare indietro, che, in esso, ogni uomo è libero di manifestare il bene o il male, di cui è portatore. Ma, alla fine del percorso, ci sarà, per coloro che hanno seguito quelle regole, dettate appunto dalla morale, un destino; questo li condurrà alla contemplazione dell'Assoluto, che li ha creati. Ogni altro tipo di morale, se esso è sufficientemente evoluto, pone le stesse regole comportamentali della morale cristiana, o almeno non pone regole in contrasto con questa, ma non ha la certezza di percorrere una via, non ha la consolazione di sapere che la propria azione genera una conseguenza corretta. Lei sa che la mia chiamata alla fede è giunta in ritardo, dopo una gioventù spesa in altri ideali. Essa fu determinata da una tragedia, che sconvolse la mia vita e che non sarebbe stata da me sopportabile, se non avessi avuto un’improvvisa, assoluta certezza. Ogni tragedia, per quanto devastante, per quanto tremenda, per quanto grande, non può arrestare il corso di quel fiume di vita, che è indirizzato ad un obbiettivo finale: il Cristo. Questo è il punto: o l'uomo si sente in balia di ogni evento che lo può annientare, e allora la vita è una tragedia che non vale la pena d'essere vissuta, o si deve per forza ipotizzare un fine, uno scopo. L'enunciazione più logicamente corretta di questo fine, di questo scopo, finora è stata data dalla dottrina dell'Uomo di Nazareth, che ha saputo trovare questa finalità nel vecchio tronco dell'Ebraismo, religione che tuttavia mantiene tuttora la propria validità, come enunciato classico di una fede monoteistica". 279 "Sta facendo un paragone tra la religione cristiana e la religione ebraica; la prego, continui a specificare meglio le differenze e le affinità tra le due grandi religioni monoteistiche. Anzi, giacché siamo in argomento, parliamo delle tre grandi religioni monoteistiche, mettendo nell'esame comparativo anche l'Islam". "Non ho alcuna difficoltà ad affermare che la religione cristiana è uno sviluppo della religione ebraica, una particolare confessione, mi si perdoni il termine, che ha saputo trovare una risposta razionalmente efficace al grido disperato di Giobbe, l'uomo giusto colpito dalla sventura. Anche la religione ebraica sente il grido di dolore di Giobbe, e lo riporta in quel libro, che è uno dei vertici della letteratura mondiale; ma, di fronte a questo dolore, non sa rispondere nient'altro che l'uomo non può conoscere il mistero di Dio. "Dio me lo ha dato, Dio me lo ha tolto; sia benedetto il nome del Signore". Nemmeno il cristiano riesce a penetrare il mistero di Dio, ma il suo Dio, per mezzo del Cristo, gli si rivela Padre e lo rassicura; esiste un disegno, è stata tracciata una via, è assicurato un traguardo. Per la mia sensibilità e per la mia logica, questo è uno sviluppo importante. L'ultima grande religione monoteistica, l'Islam, deriva storicamente dalle prime due. Essa conserva lo stesso concetto del Dio unico, ma pone l'accento sull'assoluta sottomissione dell'uomo alla divinità. Questo concetto è valido ed importante, ma la particolare esplicazione che di esso hanno fatto i popoli dell'Islam, ha rallentato la spinta propulsiva della civiltà islamica, cui tuttavia, storicamente, dobbiamo il raccordo tra la nostra civiltà e quella greco romana. Se si vuole raffreddare e superare le tensioni che minacciano l'ordinato sviluppo dell'Umanità, occorrerà capire le ragioni dell'Islam, cercando una soluzione che non contrasti con le ragioni degli altri, ma che ne sia un armonioso componimento, nella ragione dell'Uomo. Guai, se ci porremo di fronte all'Islam con la stessa certezza della propria ragione, che ha contraddistinto la nostra storia, nel periodo buio dell'imperialismo coloniale, cui purtroppo la Chiesa ha dato spesso la propria Croce, perché se ne servisse come spada. L'Umanità non sopporterebbe un contrasto così distruttivo. 280 Così, se vogliamo festeggiare il millennio che si chiude con un atto di fede delle tre religioni monoteistiche nel Dio unico, dovremo prima porre in essere le azioni, che serviranno a disinnescare la grave tensione tra i popoli, che sono l'espressione di quelle religioni. Anzi, dovremo fare di più: dovremo cercare, e trovare, una diversa legislazione, una nuova fonte di diritto, che vieti lo sfruttamento dell'uomo sul proprio simile, che contemperi le ragioni della forza con la forza della ragione, che ponga nuovamente l'uomo al centro dei valori della nostra società. Questa nuova legge dovrà riconoscere l'Umanità nel suo complesso, e non un singolo uomo, o una più o meno ristretta classe di uomini, come destinatario unico dello sviluppo tecnologico. Questo superiore Ius gentium dovrà saper usare la forza del capitalismo, senza esserne reso schiavo. La moderna societas ha dimensioni planetarie: le regole che dovranno governarla dovranno avere validità planetaria e dovranno puntare sulla qualità della vita dell'uomo, di ogni uomo della terra, come unico metro di paragone. Per questo, invoco un nuovo patto sociale, un patto che accomuni tutti gli uomini in quanto tali, senza alcuna distinzione. Già da tempo la Chiesa ha aperto un dialogo con coloro che si professano non credenti. La Chiesa è sicura che essi, se uomini di buona volontà, potranno dare un importante ed utile contributo che, insieme con il nostro, sia alla base del nuovo diritto delle genti, che noi auspichiamo. Il percorso che dobbiamo compiere è lo stesso; i non credenti non sanno dove questo percorso porterà, noi sappiamo che il percorso ha uno sviluppo logico ed una finalità conseguente. Le nostre diversità non sono tali da non farci stabilire regole comuni per quel percorso, regole che discendano dal comune senso della dignità umana e della centralità dell'uomo, nella risoluzione d'ogni problema". "A quanto sento, Ella si presenta come un combattente di razza, completamente impegnato nel portare innanzi una religione, che pone tutte le sue ragioni logiche nella ricerca di una sua struttura morale, che ne giustifichi la presenza nel mondo attuale. A questo punto Le ricordo la posizione di un grande scienziato, Albert Einstein, che ipotizzava tre tipi storici di religioni. La prima è stata, storicamente, la religione del terrore, suscitata nell'uomo primitivo dalla paura delle forze della 281 natura, tanto più potenti di lui e rafforzata dalla " casta sacerdotale ", che su questo terrore basa la propria necessità e, quindi, le proprie fortune. Un importante passo avanti si è avuto successivamente con l'instaurarsi della religione morale, quasi una sublimazione dei sentimenti sociali. Nasce così "il Dio-provvidenza che protegge, fa agire, ricompensa e punisce". Einstein va oltre ed ipotizza la "religione cosmica". Cito testualmente: "Ma in ogni caso vi è ancora un terzo grado della vita religiosa, sebbene assai raro nella sua espressione pura, ed è quello della religiosità cosmica. Essa non può esser pienamente compresa da chi non la sente, poiché non vi corrisponde nessun'idea di un Dio antropomorfo"1. Come risponde Ella alla postulazione di Einstein?" "Conosco quel passo del grande scienziato e su di esso la mia ragione si è lungamente fermata a discuterne le ragioni e le implicazioni, ma andiamo per ordine. Per prima cosa sgomberiamo il campo dall'idea di un Dio antropomorfo: solo la non confidenza del grande scienziato con la problematica teologica, poteva far considerare attuale, ad Einstein, l'idea di una visione antropomorfica di Dio. L'attuale teologia cattolica considera l'idea di Dio come "Personale", non certo perché veda in lui quell'austero signore dalla lunga barba, costantemente in pigiama e con un curioso triangolo sopra la testa, comodamente seduto su una robusta nuvola, come se lo raffiguravano le nostre nonne. L'idea di Dio come "Persona" implica il riconoscimento di una volontà trascendente il Creato, preesistente ad esso e tale da porsi anche fuori dalla propria creazione, il Creato appunto, perché sia evidente l'antitesi Creatore-Creato, con tutto il corredo teologico che questo rapporto pone. Inoltre, occorre assicurare che l'assunto di Einstein, circa la religione cosmica, non è originale, in quanto prima di lui, molti pensatori l'avevano fatto proprio; ma questo non toglie nulla alla sua validità. Se non vado errato, Einstein pone tra i campioni di questo tipo di religiosità Democrito, Francesco d'Assisi e Spinoza. Se egli fosse stato un poco più addentro a queste faccende, avrebbe inserito, tra quei grandi del pensiero, Gioacchino da Fiore e, per altri versi, Tommaso Campanella e Giordano A.EINSTEIN Come io vedo il mondo - La teoria della relatività. Newton Compton ed. 1976 pag. 25. 1 282 Bruno, fino a comprendere, allargando ancora il concetto, l'antesignano di quel filone di pensiero e cioè Platone. Come sa ogni discreto studente del primo anno di filosofia, sto parlando della particolare tendenza dello spirito umano che suole chiamarsi Mistica2. Tendenza mirabile, che pone l'uomo in un vortice di sensazioni, fino a fargli raggiungere direttamente il contatto con l'Assoluto. Contatto entusiasmante, essenziale per l'individuo; capace, tra l'altro, di farlo pervenire anche ai vertici dell'arte e, quindi, della spiritualità umana, partendo da qualunque esperienza mistica, quella cattolica di Santa Teresa d'Avila e quella laica, ma religiosissima, di Rabindranath Tagore 3. Questa è l'esperienza, chiamata religiosità cosmica da Einstein, il quale, tra l'altro, confessava una sua certa repulsione ad avvicinarsi agli altri uomini, tendenza tipica dei mistici. Come tutti gli uomini che sentono il valore delle avventure dell'anima, conosco bene il misticismo, poiché esso è una via importante per raggiungere l'Assoluto ed amo profondamente le vette che esso ha saputo raggiungere. Ma il misticismo è esperienza di pochissimi, assolutamente non trasmissibile, come qualità dell'anima, in alcun modo, e quindi tale da non poter, in nessuna maniera, risolvere i problemi dell'uomo su questa terra. Vede, facendo i debiti paragoni, pensare di usare l'esperienza mistica per proporla come costituente una religione universale è come cercare d'andare sulla luna usando i calcoli e le conoscenze scientifiche di Verne. In altre parole l'esperienza mistica, come tutte le ascensioni all'Assoluto, ha un enorme valore speculativo ed anche, in una certa misura, propedeutico, ma appunto perché rappresenta un particolarissimo percorso dell'anima, del tutto personale, non può avere valore universale. Se poi vogliamo cercare i mistici, nessun posto al mondo ne è pieno come i monasteri cattolici di clausura, le grandi regole che comandano persino il silenzio assoluto, i luoghi di macerazione, in cui l'anima perde ogni residuo di materialità per elevarsi alle più alte vette della spiritualità. La mia natura mi spinge invece, molto più modestamente, ad interessarmi del mio simile, a soffrire la "Simpatia", cioè a Si definisce MISTICA quella credenza nella possibilità di un’unione intima e diretta dello spirito umano col principio fondamentale dell’Essere. Il fenomeno essenziale del misticismo è ciò che si chiama estasi. 3 Rabindranath THAKUR anglicizzato in TAGORE, 1861/1941, scrittore e filosofo indiano di nobile famiglia braminica, venuto in Inghilterra per studiare diritto, tentò un’affascinante sintesi tra il pensiero occidentale e quello orientale, raggiungendo alti vertici di misticismo laico. 2 283 farmi carico dei suoi problemi per cercare d'aiutarlo a risolverli, a consolarlo quando questi problemi sono irresolubili, a battermi con lui e per lui affinché quegli stessi problemi vengano, in qualche modo, risolti. Quindi nel processo dialettico che vede, nella stessa Chiesa, trovar posto per il mistico, che si chiude fuori del mondo per elevarsi a Dio e per l'uomo che tenta, faticosamente, di portare un granello di giustizia in questo mondo, io vedo un'impronta particolare di verità. Ma voglio andare ancora più innanzi nel discorso. Così come salvo e stimo l'esperienza mistica, anche laica, fuori dalla religione cristiana, sono pronto a riconoscere, ed a ritenere della stessa valenza di quella religiosa, l'esperienza di tutti coloro che, in buona fede, si battono per portare comunque un grano di giustizia, che poi è un grano di razionalità, nel mondo dell'uomo. Come mirabilmente disse Giovanni XXIII, essi, anche se non si professano cristiani, ubbidiscono allo stesso comandamento morale. Se non vogliono, per qualunque ragione, esser chiamati cristiani, mi onorerò di chiamarli, e considerarli, uomini di buona volontà, in tutto cittadini dello stesso mondo, che noi vogliamo costruire. Quanto poi all'uomo che si fa prete per sbarcare il lunario o, peggio, per intraprendere una carriera, sono completamente d'accordo con Einstein: quel signum è usurpato e chi l'ha usurpato dovrà renderne conto". "Dalle sue parole mi sembra quasi di capire che il suo possa esser definito quasi un "cattolicesimo liberale". Non crede che questi due termini siano in antitesi?" “ Come diceva Socrate, prima d'iniziare una discussione, occorre stabilire chiaramente quale sia il vero significato delle parole. Se, per liberale Lei intende un concetto tale da propugnare una teoria economica che aiuta l'uomo a crearsi gli strumenti più adatti per vivere in condizioni migliori, posso essere d'accordo con Lei, fino a che questi rimangano strumenti, in pratica mezzi per innalzare la vita dell'uomo, che è il fine. Divergo totalmente quando questi strumenti sono usati per ridurre l'uomo ad una schiavitù più subdola, perché meno evidente ma ugualmente coercitiva, soprattutto quando essi sono impiegati per perpetuare e rendere più forte lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. 284 Se invece l'aggettivo liberale è posto come condizione che implica la famosa proposizione " Posso non esser d'accordo con te, ma mi batterò fino all'ultimo, perché tu possa esprimere le tue ragioni", allora concordo totalmente, con buona pace di tutti i mangiapreti, che cercano, attraverso di essa, di dimostrare una supposta preminenza dello spirito laico. Anzi, al riguardo posso assicurare che mi sento particolarmente legato a Voltaire 4, non solo perché la sua arguzia filosofica mi è sempre stata particolarmente cara, ma perché il suo spirito corrosivo è da me ben conosciuto ed usato, per abradere le incrostazioni dell'animo, quando queste sono molto dure, e per stasare condotti dello spirito, da gran tempo intasati". “In questa maniera Lei, in definitiva, esclude, come erronea, tutta l’” american way of life”, in quanto fondata sulla competizione e sul mito del vincente, che è la molla del capitalismo?” “La competizione è un elemento altamente positivo, quando obbedisce al metro di giudizio che abbiamo individuato, cioè l’uomo. Quanto al mito del vincente, esso, in verità, è esattamente quello che dice la sua definizione: un mito, una favola dalle implicazioni erronee e pericolose, a cui dobbiamo sostituire la certezza dell’uomo che porta avanti i confini della propria umanità, in qualunque campo questa si esplichi. In quest’ottica, ogni sfruttamento è da condannare, anche quello che non riconosce all'uomo il suo incontestabile diritto a godere della Natura incontaminata, o almeno non irrimediabilmente guastata, come era quella che è stata, fino a pochi anni or sono, il suo retaggio naturale”. "Finora Lei ha posto petizioni di principio, che fanno onore a quel particolare tipo di Cattolicesimo che Ella, ed altri illuminati esponenti della sua religione, impersonano. Ma quali sono le linee operative di questo cattolicesimo e come si differenziano dalla religione del Potere, che siamo abituati a riconoscere in esso?" "Finalmente si entra nel vivo del pensare, cioè nel fare, nell'agire, che sono i prodotti sani del pensiero, se non si vuol affogarlo in vane elucubrazioni. In breve, perché ormai abbiamo parlato troppo: nel campo sociale. Recentemente Papa Giovanni Paolo II ha detto: 4 Francois-Marie ARUET, detto VOLTAIRE, 1694/1778,filosofo e polemista. 285 "Di fronte all'inaudita miseria di fasce enormi della popolazione mondiale è così stridente il contrasto tra le forme antiche e nuove di cupidigia, che, per tutti, vi è la necessità di una scelta fondamentale circa i beni della terra: liberarsi della loro tirannia. L'idolatria del danaro è incompatibile con il servizio a Dio. Spetta in particolare alla Chiesa esser povera tra i poveri. Ai religiosi il compito di procurare la vera ricchezza, che è di ordine spirituale 5 “. Nel campo politico. Occorre estirpare il seme della violenza mediante lo strumento della ragione. Bisogna convincere noi tutti che la forza della ragione è più conveniente, più giusta, più forte, della ragione della forza. È necessario far compiere un grande progresso alla nostra civiltà: sostituire il concetto di forza con il concetto di ragione. Nel campo religioso. Occorre ripensare il cammino fin qui seguito dalla Chiesa di Cristo, usare il bisturi per trarne fuori gli errori che si sono incapsulati nella sua carne viva. Penso agli errori verso le altre religioni. Mi riferisco alla religione ebraica, cui tanto dobbiamo; all'Islam, verso cui abbiamo colpevolmente abbandonato il rispetto che si deve ad una religione che proclama la sua fede in un Dio unico, per innalzare la nostra croce come spada che conquistava con la 351, in nome di un colpevole senso di superiorità. Penso al rispetto, che pure dovevamo, verso la caratteristica umana più preziosa, la ragione, che la Chiesa, un tempo, ha conculcato perché non concedeva a nessun altro pensiero d'occupare la mente dell’uomo, rifiutandosi perfino di guardare nel cannocchiale di Galileo. Penso alle posizioni di sterile chiusura verso le altre dottrine filosofiche e di pensiero, in cui la Chiesa, solo recentemente ha saputo riconoscere quel grano di verità, presente in tutte le manifestazioni umane, quando queste sono dettate dalla buona volontà. In questo campo sterminato, che è vasto quanto il pensiero umano, vanno poi considerati quei problemi a se stante, isole di un mare che pure bisognerà percorrere. Il problema della donna nel mondo e nella Chiesa. L'omosessualità. Dichiarazione riportata dalla Televisione di stato italiana- Televideo 30/11/94 pag 117. 5 286 Una regolamentazione delle nascite che non cozzi contro la natura dell'uomo, ma che tenga presente la qualità della vita come requisito primo della vivibilità. Il problema del sesso e del suo modo d'intenderlo. La funzione del prete nella società. Il concetto di democrazia nella Chiesa. Infine, quel mare ha abissi paurosi e scogli infidi, tempeste terribili e mostri orrendi. Come definire altrimenti quei problemi che noi tutti conosciamo, perché ci passano quotidianamente vicino, ma di cui non ci preoccupiamo per nulla, di là da una distratta esecrazione? Essi si possono riassumere con una frase: la mancanza di compassione, in altre parole il mancato riconoscimento dell'umanità che è fuori di te, genera il progressivo imbarbarimento dell'umanità che è in te. Non riconoscendo il debole, il solo, il malato, il vecchio, il morente, ti condanni senza speranza quando tu sarai debole, solo, malato, vecchio, morente. Questa visione del mondo è esattamente l'opposto di quella che ci ha lasciato l'Uomo di Nazareth. Come tutte le idee negative, essa contiene in se la pena, per la colpa commessa, nell'averla scelta come idea base per il nostro modo di vivere. Infatti la mancanza di compassione, che vede l'uomo teso unicamente a soddisfare il proprio istinto egoistico, affinandolo con la spasmodica ricerca della ricchezza, ultimo ed unico ideale rimastoci, ideale rozzo e negativo, genera tutti i mostri che abbiamo evocato. La droga, che sta sovvertendo l'ordinato sviluppo delle nostre popolazioni. La malavita organizzata, che vive come un essere immondo, nutrendosi delle sciagure degli uomini e moltiplicandole all'infinito. L'intolleranza, che genera il razzismo, mostri che credevamo estinti. Lo sfaldarsi della famiglia, perché ognuno corre pazzamente verso i nuovi bisogni, che sono solo sovrastrutture, mentre dimentica le più vere ragioni della nostra vita, che sono esaltate nel nucleo primordiale dell'avventura umana, la famiglia. La mancanza di lavoro, che strangola il vivere civile e permette che prosperino i mostri. La mancanza di remore, di freni inibitori della nostra società, che rende ancor più pericolose le nostre scoperte scientifiche, permettendo ad un essere ancora immaturo, di maneggiare 287 strumenti così rischiosi, quando non se ne conoscono gli effetti o non si ha la statura morale per dominarli. Ed infine, più grave di tutti, la mancanza di contenuti ideali, che ha sterilizzato la nostra civiltà, impedendole di concepire un nuovo modello di sviluppo che superasse finalmente la legge della giungla, facendo compiere all'uomo quel balzo verso una morale superiore, cui pure è destinato. Ogni persona cosciente si rende conto che, ove l'uomo fallisse quell'obbiettivo, l'umanità sprofonderebbe in un'epoca buia, di cui non so neppure valutare l'estensione temporale e gli abissi, in cui ci trascinerebbero i mostri, finalmente padroni della storia. Come vede, l'insieme dei problemi è immenso e probabilmente il tempo per risolverli, prima che essi divengano irresolubili, e quindi distruggano la nostra civiltà, è poco. Ma Giovanni Paolo II ci ha ammonito a non aver paura, di non disperare. Lo stesso concetto di Provvidenza che mi ha reso logicamente proponibile questo mondo, altrimenti improponibile per la ragione dell'uomo, m'induce al medesimo sentimento di fiducia". 288 CAPITOLO XXIII LA DISCIPLINA È UNA VIRTÙ ? L'eco delle parole dell'Arcivescovo di Reims trascese i ristretti limiti dell'entourage legato alla Chiesa cattolica, per divenire presto un simbolo. D'esso s'impadronirono subito i mass media, nella loro incessante ricerca del verosimile, trucco con il quale i manipolatori dell'informazione mascherano la loro assoluta indifferenza per la verità. Come ci ricorda Kipling in una sua famosa poesia1, la verità è sempre stata " Twisted by Knaves to make a trap for fools “2. Però, solo nella nostra epoca si è costruito un sistema, che, impazzito nella sua folle corsa verso il nulla, per principio, non sottopone ad un'indagine seria ed approfondita le verità che proclama, ma si limita a costruire un caso esemplare, per poter, con esso, riempire gli spazi riservati alla notizia. Spazi che, una volta, erano la prima ragion d'essere del grande giornalismo, e che, ora, sono solo il supporto della pubblicità, il più raffinato e distruttivo strumento del Potere, il quale è così divenuto l’unico padrone dell'informazione. In questa maniera gli uomini non rappresentano più le idee che essi portano avanti, ma diventano le macchiette di un immenso e vacuo teatro, privo d'idee. Questa vacuità è dimostrata dall'enormità del fenomeno. Miliardi di parole, centinaia di milioni di fogli, milioni di ore di televisione, quotidianamente erogate in tutto il mondo da decine di migliaia di emittenti, senza dire nulla di veramente valido. Solo un rumore di fondo che diventa sempre più irritante e, per questo, sempre meno seguito, sempre meno capace d'incidere nella nostra civiltà, se non per imporre cliches vuoti e vane mode. Era così nata la favola dell'alto Prelato cattolico, del Capo di un'importante diocesi, del Gesuita che si stava proponendo come punta di lancia per quel rinnovamento "da sinistra" che alcuni andavano invocando, nel tentativo di piegare il corso della politica della Chiesa alle istanze della loro parte, in definitiva del "Vescovo progressista in contrasto con la curia di Roma". Poveri illusi, che speravano e cercavano di spingere la più monolitica delle costruzioni fatte dall'uomo, realizzata su un Rudyard KIPLING - scrittore inglese, 1865/1936, premio Nobel per la letteratura, autore, tra l’altro della poesia IF ( Se...), da cui e’ presa la citazione. 2 distorta dalle canaglie per fare trappole per i gonzi. 1 289 disegno che trascendeva l'uomo stesso, su percorsi che potessero soddisfare interessi di parte. Quegli interessi erano goffamente definiti "di destra" o "di sinistra", senza considerare che un salto di qualità, come quello che era necessario per l'uomo del terzo millennio, poteva avvenire solo "dal basso verso l'alto". Naturalmente Tommaso non accettava neppure d'intervenire in quella diatriba, non volendo immiserirsi al livello dei suoi solerti laudatores o detrattori, ma proseguiva nella sua opera, incurante degli effetti che questa provocava sui media, ormai interessati segugi d'ogni suo passo. Così, sul finire del 94, quando scoppiò in Francia la querelle di un consistente gruppo di religiosi e laici che mal si riconoscevano nell'impostazione che Giovanni Paolo II aveva dato della politica della Chiesa, nello scorcio del millennio che stava per concludersi, tutti gli sguardi si rivolsero all'Arcivescovo di Reims, Sua Eccellenza Tommaso Fernays. Era accaduto che a Cherbourg, nel dipartimento della Manica, in Normandia, un gruppo di cattolici stesse, da tempo, pubblicando una rivista: "La fionda di Davide". In quel foglio venivano portate innanzi istanze che, francamente, si discostavano in maniera netta dal magistero della Chiesa. La carne al fuoco era molta: la disputa verteva sui più disparati campi. Sul matrimonio dei preti. Sulla liceità, anzi sulla necessità che le donne fossero ammesse al sacerdozio. Sul riconoscimento dei diritti degli omosessuali. Sulla contraccezione, arrivando a sostenere la liceità della pillola del "giorno dopo", la famosa RU 436, che bloccava la fecondazione dell'ovulo fino a ventiquattro ore dopo il rapporto. Sulla politica internazionale ed, in particolare, sul rapporto tra il Nord ed il Sud del mondo. E, fuoco d'artificio finale, sull'esigenza, per la Chiesa di Roma, di liberarsi del fardello delle proprie ricchezze, per ritornare all'ideale evangelico della povertà, come era stato insegnato dal Cristo. Capo della Chiesa di Cherbourg, ispiratore e protettore dei giovani che scrivevano in quella rivista, così virulentemente impegnata contro la dottrina ufficiale della Chiesa di Roma, era Monsignor Alain Druet, Vescovo di Cherbourg. Come si ricorderà, egli era l'antico amico di Tommaso, il sacerdote che aveva fatto esplodere le contraddizioni, che avevano riportato un uomo distrutto dal dolore in seno alla Chiesa di Cristo. 290 Spesso la storia si diverte a scombussolare i ruoli, che l'uomo si è prefissi, sul palcoscenico della realtà. Quello che prima era sopra si trova sotto, colui che prima era a destra si rinviene su sponde opposte, chi stava nel giusto s'infila in posizioni insostenibili; proprio per l'ansia, tipica dell'uomo, di cercare di certificare l’idea, che egli sostiene, con sempre migliori avalli, fino a perdere di vista il giusto mezzo. Forse questo accade perché la storia, per sua intima natura, si prefigge di render chiaro che l'uomo non è il soggetto che la scrive, ma l'oggetto che la subisce. Ma torniamo alla situazione di crisi che s'andava estendendo nella Chiesa di Francia e che rischiava di riproporre antichi fantasmi, paladini di una certa posizione del clero francese, in una qualche maniera indipendente dal magistero romano. Certo che, per il momento, non tornavano alla luce né la Prammatica Sanzione di Bourges 3, né la bolla "Unigenitus" 4, né lo scisma della "Piccola Chiesa" 5 . Si trattava solo di una diversa sensibilità verso particolari problemi, che ponevano la Chiesa di Francia in una posizione originale, se non antitetica, con le Chiese d'Italia e di Spagna. Queste chiese rappresentavano infatti l'ala più tradizionalista e più legata agli interessi del Vaticano come centro di potere, evidenziata dalla strettissima dipendenza del clero italiano dalla Curia di Roma e dallo sviluppo dell'Opus Dei che, nato appunto dalla Spagna, stava cercando d'informare di se tutta l'Ecclesia cattolica. Invece la Chiesa francese aveva una lunga tradizione d'indipendenza da Roma ed una contiguità con le Chiese protestanti, che rendeva veramente interessante ogni novità che giungesse dalla Francia. Infatti particolari assonanze, seppur deboli e sconosciute al grande pubblico, avevano attirato l'attenzione vigile di Roma, La “ PRAMMATICA SANZIONE “ di Bourges fu promulgata da Carlo VII di Francia il 7 luglio 1438. Essa ratificava quanto deciso nel Concilio di Bourges e regolava, in 23 articoli, la disciplina generale della Chiesa di Francia. In pratica veniva stabilita, per la Chiesa francese, una larghissima autonomia. Prima abolita dal re Luigi XI e poi reitrodotta dallo stesso re, mantenne sostanzialmente, fino alla rivoluzione francese, la propria validità. 4 La Bolla papale “ Unigenitus Dei filius “, promulgata l’8 settembre 1713 dal papa Clemente XI, colpiva le posizioni gianseniste e, piu’ in generale, tutte le istanze di autonomia della Chiesa di Francia. 5 Va sotto il nome di “ Piccola Chiesa “ lo scisma, susseguente al Concordato del 1801, avvenuto nella Chiesa di Francia, in nome delle “ libertà della Chiesa Gallicana “. 3 291 per evitare che dalla cosa potesse nascere un incendio difficile a domarsi. Certo il gallicanesimo6 era finito con l'inizio di questo secolo, ma il Concilio Vaticano I aveva visto la Chiesa di Francia proporsi come ponte verso i paesi di tradizione protestante. Quella stessa Chiesa era stata, insieme con le gerarchie cattoliche dei paesi protestanti, la più ferma avversaria, in campo cattolico, del dogma dell'infallibilità papale. Inoltre, negli ultimi anni, la posizione della Chiesa francese, almeno nelle gerarchie non eccelse, aveva avuto contatti e punti d'incontro con le posizioni protestanti, accogliendo modi d'intendere i problemi, che il nuovo portava sul tappeto, in una maniera più vicina alle tesi protestanti, piuttosto che uniformarsi completamente con la posizione di Roma. Insomma, c'era di che preoccuparsi e Roma si preoccupò. Naturalmente la finezza diplomatica della Curia, erede di duemila anni di storia condotta in prima persona sulla scena del mondo, si comportò di conseguenza. Al Vaticano importava poco che un oscuro vescovo della più profonda provincia francese portasse avanti un'opera, che suonava critica per il magistero della Chiesa; occorreva invece snidare i veri responsabili di una tale opera, se ce n’erano. A quello che risultava alla Curia, questi nemici, se pure esistevano, non erano ancora tanto potenti da costituire un pericolo. Era meglio farli uscire allo scoperto per neutralizzare la loro azione, con l'aiuto dei cardinali francesi, tutti schierati sulle posizioni dell'ortodossia cattolica. Così fu impartito, all'Arcivescovo di Reims, un ordine, sommesso ma non per questo meno chiaro e categorico: andare a Cherbourg, per avere notizie di prima mano, e cercare di spegnere un fuoco, di cui già s'incominciava a vedere il fumo. Che poi, l'arcivescovo di Reims fosse, per voce ricorrente, l'ispiratore di una posizione della Chiesa francese più autonoma rispetto a Roma, questo era tutto da dimostrare. L'iniziativa della Curia romana intendeva appunto dimostrarlo. Così, dopo molti anni di contatti solo epistolari, allentatisi parecchio, da quando Padre Drouet era stato promosso e trasferito da Montmirail, i due vecchi amici s'incontrarono di nuovo. La lunga storia della Chiesa di Francia, fin dal periodo della Cattività Avignonese, è sempre stata percorsa da aspirazioni ad una certa indipendenza dalla Chiesa di Roma, non tanto sul piano dottrinale, quanto nel tentativo di limitare le prerogative giurisdizionali della Santa Sede. Questa tendenza , spesso alimentata dal potere regio o politico , prese il nome di GALLICANESIMO. 6 292 "Eccellenza, so che Ella e` stato inviato da Roma per sentire le mie..." iniziò, in tono curiale monsignor Drouet, per mettere in evidenza il carattere ufficiale di quell'incontro, ma Tommaso non lo lasciò continuare. "Mio buon amico, compagno dell'anima mia, ti sembra questo il modo d'accogliere il fratello? Credi che io non sappia le motivazioni che hanno spinto il tuo animo, incapace di scendere a compromessi, a schierarsi contro gli orrori del mondo, che sembrano sommergerci?" A quelle parole monsignor Drouet, ritornato Alain per l'amico, non seppe resistere e corse ad abbracciare il fratello. " Oh! Tommaso, sapessi quante volte ho temuto ed auspicato, e poi di nuovo temuto quest'incontro. Non potevi essere tu il mio carnefice perché tu sei il mio fratello, ma, se hanno mandato te, allora hanno convinto anche mio fratello che sto sbagliando e che, così facendo, reco grave danno a quella Chiesa, che pure amo con tutte le mie forze. Se sei venuto a dirmi questo, ti rispondo fin d'ora che non potrai convincermi che sto sbagliando. Anche tu vedi, come il mondo ha stravolto il messaggio del Cristo, come ha dannato la propria anima per colpa di Mammona, come sta vivendo in un'atmosfera da incubo. Questo accade, perché l’uomo ha perso il ritmo regolare della Natura, barattato per una vita folle, in cui è più importante ammassare danaro con ogni mezzo, piuttosto che pensare al proprio figlio. Ed in tutta questa follia, la Chiesa attua solamente vuote denunce, che lasciano il tempo che trovano, anzi che sono una falsa liturgia. Essa serve solo a scaricare la responsabilità di coloro che avrebbero il dovere di fare fuoco e fiamme, per impedire quello che sta succedendo. Noi, Vescovi, successori degli Apostoli, partecipiamo ai cocktails insieme con i capi della Polizia, che hanno arrestato, la sera stessa, decine d'immigranti, profughi giunti dai più diversi inferni. In quegli stessi inferni essi li ributtano, con la scusa che le leggi, e l'interesse del Paese, non consentono di far entrare altri profughi in Francia. 293 Noi, a capo di una ecclesia, c'inchiniamo alla forza del ricco che piega la ragione del povero e cerchiamo, per quella forza, giustificazioni, se non ragioni. Noi, preti della Chiesa di Roma, ascoltiamo il magistero della nostra religione, che s'ostina a predicare un vuoto assenso al Comandamento che dice: "Crescete e moltiplicatevi ". Ma non consideriamo che quest'operazione si risolve in una moltiplicazione esponenziale di bambini che non vivranno, perché la legge, che ora regola il mondo, non prevede il sostentamento di un così gran numero di bambini, nei paesi poveri. Essi, solo per questo, sono condannati a morte certa e spaventosa, senza che nessuno pensi ad un rimedio razionale. Noi, educatori della nostra gioventù, continuiamo a nascondere la testa sotto la sabbia della nostra ipocrisia, pensando veramente che il problema del SIDA7 si risolva con l'astinenza. Noi, uomini del ventesimo secolo, consideriamo, tuttora, la donna, dotata solo di una mezza anima. Così si pensava fino al Cinquecento, e così pensa ancora, ma non lo dice chiaramente, la nostra gerarchia, che, mentre ne tesse gli elogi, la ritiene incapace di reggere il peso del signum sacerdotale. Noi, confessori del nostro gregge, pensiamo ancora di limitare l'omosessualità, così diffusa nel mondo e così attiva anche tra le nostre fila, considerandola come una vergogna da tener nascosta, piuttosto che come una pulsione presente nell'animale uomo. Essa, come tale, è degna d'esser vissuta con onestà, come dovrebbero esser vissuti tutti i momenti della vita umana e non repressa, fino a farla esplodere in tragedie irreparabili. Noi, uomini con la tonaca, accettiamo l'imposizione di una gerarchia che, senza alcun fondamento teologico, costringe quelli, tra noi, che più forte sentono lo stimolo della carne, a porsi fuori della Chiesa o, peggio, a sottostare al compromesso che questa offre loro, per non ostacolare la sua politica, tesa a negare una verità tanto evidente, da essere quasi la norma, sia pur non riconosciuta, per le sue stesse fila. Per questa ragione noi pastori non ci avvediamo che i più deboli tra le nostre fila, quelli che non sanno resistere al richiamo del sesso, nel tentativo di sottrarsi in qualche modo al divieto posto al loro desiderio per una donna, lo trasmutano in un interesse per i fanciulli, questo si delitto da pagare con la morte, mediante una macina al collo, mentre, invece, l’Ecclesia provvede a nascondere tale delitto. Come si è già detto, l’Aids cioè la sindrome da immunodeficienza acquisita, viene espressa, in Francia, con l’acrostico SIDA. 7 294 E per ultimo, noi, seguaci di Colui che predicò la povertà come condizione di vita superiore, per essere perfetti cristiani, vediamo le nostre gerarchie proporre, solo a parole, il valore della povertà. Quel concetto ci viene però esibito da chiese colme di ricchezze, da palazzi cui fanno capo capitali inimmaginabili, da uomini collusi da sempre con il potere, intrisi talmente d'oro, da aver macchiato di questo colore persino il bianco della propria bandiera. Come vedi, non ho in alcuna maniera toccato il dogma e la teologia che lo difende; ho solo rivendicato il valore della verità, ormai non più eludibile, se vogliamo dare un significato al nostro esser cristiani". Tommaso ascoltava, ed in lui tornava l'antico fascino per quell'anima, che non sapeva vedere le sfumature, che non conosceva la diplomazia, che, prima o poi, avrebbe potuto percorrere il piccolo passo, che separa la critica dal rigetto. Quel passo scavava però una voragine nell'animo di quel giusto, perché lo privava della comunione con l'ecclesia e, come era sempre accaduto per tutti gli apostati, lo rinchiudeva in un ghetto che la sua anima, così limpida, non meritava. Tommaso aveva dunque un compito difficilissimo: doveva salvare quel prete e doveva chiudere una disputa assolutamente inopportuna per la Chiesa; inoltre, doveva non scoprirsi, nel tentativo di raggiungere quegli obbiettivi così antitetici. Vista sotto questa luce, tutta la problematica relativa rischiava d'acquisire un sottile profumo dolciastro, tipico della vecchia fama sinistra che i Gesuiti erano stati capaci di meritarsi, con le loro evoluzioni mentali che riuscivano a giustificare qualunque infamia, quando essi erano i segreti cappellani del Potere. Ma ora Tommaso era al servizio di un ideale che trascendeva qualunque potere, anche quello della Chiesa, per cercare di raggiungere, in tempi brevi, cioè su questa terra e nel corso della storia dell'uomo, almeno le lontane avvisaglie di quello stato di giustizia e di verità che il Cristo aveva proclamato, duemila anni or sono. Questo doveva far capire all'amico: ogni interferenza, ogni discussione, che avesse messo in gioco la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, avrebbe allungato i tempi di quel chiarimento che era ormai indifferibile, tra i seguaci dell'idea, che era nata dall'insegnamento del Cristo. Questo era il pericolo più grave, specialmente in questi tempi, in cui una malintesa attenzione dei mass media avrebbe scatenato una pubblicità distruttiva, orchestrata efficacemente dalle forze che s'opponevano al Disegno. 295 Ma questo doveva esser fatto, restituendo credibilità alle tesi di Alain Drouet, perchè esse non potevano essere ignorate nel campo della morale. "Fratello mio, tu pensi in tutta coscienza che portare la lite nel corpo della Chiesa giovi veramente a risolvere i problemi che tu hai individuato?" "Non tentare di porre l'antico costume: assopire, minimizzare; ricorda: oportet ut scandala eveniant “ - ribatté Alain . I poveri, i deboli, gli emarginati, i diversi attendono da troppo tempo. Ora è il momento di far seguire i fatti alle parole, per evitare che queste siano il paravento che noi stessi diamo all'ingiustizia, per permetterle di continuare a prosperare. Del resto, anche tu, quando ritenesti improponibile la tesi del tuo predecessore sul concetto di un Dio irascibile, che invia terribili mali per punire l'uomo che pecca, facesti sentire, alta e inflessibile, la tua voce". "Io mi scagliai con forza contro le idee di un uomo venerando che, autonomamente, aveva assunto una posizione assolutamente in antitesi con l’insegnamento del Cristo. Tu ti scagli contro il magistero di Pietro. E tu credi che aprire una disputa nel corpo della Chiesa, possa riuscire a risolvere qualcosa, in questo momento, in qualunque momento? Non ricordi che, nei duemila anni precedenti, quello che tu vuoi far ora, ha provocato solamente eresie, discordie, guerre e rovine? La Chiesa non si modifica attaccandola e ponendosi, così, fuori dalla comunione dei fedeli. La Chiesa si promuove e si fa più grande, perché più giusta, operando dall'interno, in modo da favorire le possibilità d'apertura verso una verità più elevata, perchè più vera. Ma il punto fondamentale non é questo, così come i mali da te evocati non sono i mali più profondi. Si, tu ti stai battendo per una faccia del male, che è quella con cui esso si mostra, ora. Ma, se pure noi ora lo vincessimo, negli aspetti che tu hai reso evidenti, esso non sarebbe vinto del tutto, finché il male non sarà chiamato con il suo vero nome. Il male è tutto quello che si oppone allo svolgimento del compito dell'uomo nell'Universo. Esso non tocca Dio, ma può intralciare il cammino dell'uomo fino a fargli perdere di vista la meta. 296 Tu devi considerare l'uomo inserito nella Natura, per svolgere un compito, quel compito che ci ha indicato il Cristo. Esso non può esser di sola sopravvivenza, in una sequenza, che sappiamo finita, di epoche. Per ora il compito dell'uomo e` quello di non disperdere il miracolo che lo ha creato, e, per fare questo, abbiamo uno strumento perfetto: la buona novella che ci ha lasciato il nostro Salvatore. Essa propone pace in terra agli uomini di buona volontà, cioè il superamento d'ogni motivo di contesa, perchè l'amore è più logicamente utile dell'odio, più proficuo e più nobile. Questo è veramente alla base di un cambiamento totale del nostro modo di vivere: ragionare con colui che si professa nostro nemico. Conoscere le ragioni che lo fanno avversario. Cercare un modus, affinché si possa prima trovare un punto d'incontro e poi diventare alleati. Superare l'egoismo che non ci permette di vedere la ragione altrui. Questa è la vera, definitiva vittoria". " Già ed intanto gli uomini muoiono, nell'attesa della vittoria definitiva. Il male prospera su questa terra mentre noi abbiamo spinto l'età della giustizia fuori di questo mondo, cioè, come dicono alcuni, fuori dalla realtà". "Proprio questo é il punto: tu credi all'assoluta verità del Vangelo del Cristo? Credi, con Pietro, che Gesù sia il Messia, il figlio del Dio vivente? Allora devi credere che Pietro è la pietra angolare di quell'edificio che si chiama Chiesa di Cristo e che le porte dell'inferno non prevarranno su di essa. Vedi, non sto affermando che la Chiesa sia un'organizzazione perfetta. Anch'io riconosco, ed anche Papa Giovanni Paolo II ha riconosciuto, errori, nefandezze, omissioni, scandali, crudeltà e delitti perpetrati nel nome di Pietro. Ma questo è normale, anche se doloroso, perché la Chiesa è fatta da uomini, fallibili come tutti gli uomini. Essa però segue un cammino, una direzione, che è indicata e sorretta dal Cristo. Questa deve essere la nostra più ferma convinzione, se non vogliamo che tutto l'edificio crolli. 297 Per questo dobbiamo combattere, ma non con le dispute, bensì con lo studio, l'intelletto, l'animo e l'esempio; sicuri che, alla fine, arriveremo alla liberazione dell'uomo, perché egli sia degno dei più alti compiti che il Creatore ha ipotizzato per lui e di cui il Creato è testimone e teatro. Alla fine del millennio, ci ritroviamo con lo stesso Maligno, che sussurra, con parole magari diverse, le medesime falsità intrise di verità, epperciò doppiamente false, che pronunciava all'inizio del millennio. Sono le stesse parole false, fatte balenare all'uomo all'inizio della sua storia, magistralmente trasfigurate nell'episodio del peccato originale. La necessità che ha fatto nascere l'Uomo, è la conoscenza, ma questa necessità non è in contrasto con la Divinità, che è la depositaria e la somma di tutta la conoscenza. Però, quando l'uomo spinge la propria sete di conoscenza nel tentativo d'esaminare Dio con questa sua qualità, che pure è la sua qualità costitutiva, egli necessariamente compie un peccato d'orgoglio, l'antico peccato sibilato dal serpente alla compagna di Adamo. Se analizziamo lo stesso problema con la sola ragione, arriviamo alle medesime conclusioni: anche lo spirito laico dell'uomo nega la possibilità di conoscere Dio. Per definizione, ogni analisi che l'Uomo può fare di Dio è limitata, fioca, parziale, soggettiva; in una parola: non vera, perché fuorviante. Al massimo, possiamo scervellarci e sudare, nel tentativo di comprendere le manifestazioni di Dio, che siamo in grado d’intuire con i nostri sensi limitati. Questo è appunto il limite della teologia, la quale ci dice, come prima cosa, che l'Oggetto della sua indagine è inconoscibile, in tutta la sua realtà. Ma il solo tentativo di conoscerne le manifestazioni è il momento più alto dello spirito dell'Uomo, questo sì lecito e giusto. Noi possiamo solo concepire la possibilità, per l'uomo, d'ammirare le Sue manifestazioni e percepire il Suo disegno, pur vedendolo confusamente e limitatamente. Ma se riusciamo a vederne il disegno, pur con tutti i limiti già detti, non possiamo quindi non accettarne la necessarietà. Credere fermamente nel Dio unico e vederne la necessarietà del percorso che porta al Cristo, implica altresì la conseguenza di credere alla sua Chiesa, intesa come impronta di Dio nel tempo. Impronta che noi possiamo rendere più chiara, più evidente, anche combattendo duramente ma, soprattutto, intelligentemente, nel suo ambito. 298 Ma non possiamo schierarci contro di Lei, per quante siano le colpe degli uomini che la compongono. Vogliamo far rinascere gli ordini mendicanti e tutta la teoria di sette medioevali, che si posero in rotta di collisione con la Chiesa? Resusciteremo noi i Poveri di Lione, i Begards, i Buoni Uomini, I Fraticelli, gli Umiliati, i poveri Evangelici 8, e tutte le altre infinite maniere con cui si chiamarono coloro che misero a ferro ed a fuoco l'Europa del 1100 o del 1200? Già la Chiesa è passata per questo calvario, e ne è potuta uscire solo con la posizione di Francesco d'Assisi. Egli poté portare la voce della povertà nella Chiesa medioevale, che era divenuta di ferro come di ferro erano quei tempi, solamente predicando la povertà in letizia, senza mai neppure tentare di far accendere una controversia al riguardo. Solo così il "Matto di Dio", come qualcuno chiamò Francesco, poté portare la sua posizione chiara, aderente all'insegnamento del Cristo, all'interno di quella Chiesa di ferro, senza porsi fuori dell'ecclesia. Ora tu mi accorderai che molti passi sono stati fatti. Quella posizione, che tu vai impetuosamente cercando, si sta facendo strada anche negli ambienti più chiusi della nostra fede. Su alcuni di questi argomenti il Pontefice Giovanni Paolo II ha detto parole chiare e dure; su altri dobbiamo attendere che l'opera dello Spirito Santo concluda la sua azione. E proprio ora, che siamo così vicini alla giusta conclusione, che si sente da mille accenni, da innumerevoli posizioni, da granitiche convinzioni che si sfaldano, convinzioni legate in gran parte all'età, che rifugge dal coraggio; proprio adesso, tu, la spada dell'arcangelo Gabriele, usi la tua forza ed il tuo coraggio non per far vincere la Chiesa che ami, ma per distruggerla?" "Conosco i tuoi argomenti e riconosco che essi sono gli unici che possono contrapporsi alla mia ricerca di una soluzione immediata. Ma intanto la gente muore; i bambini nascono in Africa e nel mondo arretrato, solo per vivere qualche anno, piagati dalle malattie ed ischeletriti dalla fame; la forza ha sempre di più il sopravvento sulla ragione ed ormai non c'è più molto tempo per reagire." Sono questi i nomi di alcune eresie che percorsero la Chiesa di Francia, cercando di introdurre una posizione piu’ netta sul tema della povertà 8 299 "E` proprio questo il punto: ormai il tempo è maturo. L'uomo, che pure è nato e si è sviluppato nel mondo attraverso un processo quasi infinito, retto dalla legge del più forte, deve compiere un grande salto di qualità. L'Umanità deve riconoscere non più utile quella legge: essa non serve più al suo processo evolutivo. Anzi quella legge, ormai, è divenuta dannosa perché il forte, facendosi sempre più forte con i mezzi e gli artifici inventati dall'uomo stesso, lasciato libero d'applicare senza controllo la legge della giungla, diventerebbe talmente forte da essere, così, incontrollabile e distruggere l'Umanità nel suo complesso. Se l'Uomo non capisce questa semplice verità, danna la sua stirpe per un tempo lunghissimo, che coloro che non credono, potrebbero credere eterno. Come pensi che possa esser strutturata una società che non pone l'Uomo come termine di paragone per la propria azione? E come pensi che possa esser vinto questo regno del male, quando, esso, impossessatosi delle tecniche più moderne, che rendono l'uomo schiavo senza che egli se ne accorga, anzi felice della sua schiavitù, potrà servirsene per millenni? Ecco, in breve, il mio pensiero: quella che noi chiamiamo Vita è una funzione permanente del Creato, codificata dal suo Creatore. Essa s'innesca ogni volta che occorrono determinate condizioni, senza bisogno d'alcun altro intervento, perché la vita è un momento fondamentale e quindi necessario, nel modello del nostro universo, così come è stato pensato dall'Entità creatrice. Questa vita, non ancora autocosciente, ma che partecipa ad un disegno ben definito, che dovrà portare necessariamente all'autocoscienza, si affina, per un primo tempo, mediante la legge del più adatto alla sopravvivenza, del più forte, del migliore. Tutto questo richiede un processo lunghissimo; ma noi sappiamo che il tempo è una nostra realtà, una realtà che ci contiene, non è la realtà del Creatore. Finalmente, proprio mediante lo svilupparsi di un essere che porta in sé, nella maniera più completa, l'impronta divina, cioè lo Spirito, s'assiste al grande miracolo: la nascita dell'autocoscienza. Quell'essere, privo d'ogni arma naturale, deve necessariamente incrementare al massimo l'unica arma che non sia fisica, ma culturale, cioè la logica. Per mezzo di questa, la creatura arriva al dominio del Creato, obbedendo a ciò che gli scienziati chiamano il codice inserito 300 nella sequenza che ha generato l'Universo e che noi, abituati a parole più antiche, chiamiamo “Il volere Divino". Così l'Uomo è il punto di passaggio, i matematici direbbero il punto di flesso, tra il mondo animale e l'autocoscienza; animale dotato di capacità di conoscenza, ma ancora intriso di quelle caratteristiche belluine, che gli derivano da un'evoluzione lunghissima. Prodotto da un progetto, che si è svolto per tutto il tempo del nostro universo, cioè, sempre a dar retta agli scienziati, da circa quindici miliardi d'anni, egli ha raggiunto la forma consolidata che conosciamo, relativamente da poco. Gli stessi scienziati parlano di non più di centomila anni. Quindi solo da ieri, metaforicamente parlando, l’uomo ha visto accendersi nel suo intelletto un barlume, anche se non ancora perfettamente stabile, d'autocoscienza, generante una vita di livello superiore a quello delle bestie. Da qualche migliaio d'anni, poi, i migliori tra gli uomini hanno individuato e costantemente affinato un sentimento superiore, il senso morale, senza però riuscire a diffonderlo compiutamente come una caratteristica generale dell'Umanità. Infatti quel senso costa, in termini immediati, in quanto si contrappone all'antica legge, che l'uomo ha fin qui seguito, nel corso dell'evoluzione, la legge del più forte. Ora l'uomo deve fare un successivo passo, sul piano dell'intelligenza: deve porre il senso morale al posto della legge del più forte. Solo in questa maniera egli riuscirà a compiere quel salto di qualità che gli permetterà d'abbandonare ogni residuo d'animalità. Questo percorso, infatti, è l'unico capace di dare all'uomo un nuovo sviluppo, nel suo cammino nell’ universo. Fai attenzione: il processo che ti ho descritto, ormai acquisito dopo lunghe diatribe negli ambienti più culturalmente ricettivi della nostra Chiesa, diverge per una sola cosa dal processo cosmogonico, come l'ipotizzano gli uomini di scienza. La scienza, per sua stessa natura, non si può porre il perché, ma cerca di capire solo il come. Quindi essa taglia, come elemento al di fuori del suo campo d'intervento, l'inizio e la fine del processo, limitandosi ad osservarne lo svolgimento. Nel fare ciò, la scienza osserva la razionalità del Creato ma, conseguentemente alle proprie premesse, si ferma di fronte al problema del Creatore ed alla finalità della sua opera. 301 Essa può solo postulare, fuori dal suo campo, a seconda delle convinzioni proprie dello scienziato, o il Dio creatore o il Caso assemblatore della realtà, senza però prendere posizione al riguardo, perché quella posizione esula, come sappiamo, dalle sue competenze. Ebbene, io affermo che il problema, questo dualismo che tante discussioni ha suscitato e suscita, non é irresolubile. La scienza assicura che il percorso dell'Evoluzione è un percorso logico, ma non prende posizione sul prima e sul dopo, se non per le scelte, che chiameremo sentimentali, dei propri scienziati i quali, dopotutto, sono uomini. La religione ha imparato solo da poco a non entrare nel campo della scienza, ma concorda con questa, nel considerare il percorso, dell'uomo nel Creato, un percorso logico. Essa ritiene che questo cammino sia stato previsto direttamente dall'Opera della Creazione e sia tale da presupporre, anzi da porre con forza, un fine ben definito, la cui necessità scaturisce dal’esistenza di quel percorso logico. Se la scienza e la fede concordano per una così gran parte del procedimento, nulla vieta che, nel percorrere quella parte, le due qualità dell'intelligenza dell'Uomo, quella che si chiede il come e quella che si chiede il perché dell'intero processo, non possano andare avanti di pari passo, sorreggendosi vicendevolmente, ciascuna nell'ambito delle proprie competenze. Naturalmente, non dobbiamo dimenticare che, oltre allo scienziato ed all’uomo di fede, esiste un terzo esploratore: il filosofo. Egli non si è imposto dei limiti, come l’uomo di scienza, nè accetta una soluzione, che non sia aderente allo status della sua razionalità; essa, infatti, viene ritenuta, dal filosofo, un valore assoluto. Lungi da me, il mettere in dubbio questa razionalità, ma proprio perchè la riconosco come l’espressione di un essere che sta iniziando a muovere i primi passi su quella strada, andrei cauto nell’accreditarle un valore assoluto, cioè immutabile. Del resto, ho letto da poco che autorevoli scienziati, alla luce della teoria quantistica, intravedono un’uscita metafisica, ed incominciano a postulare scientificamente la necessità di Dio, per avere una visione più aderente alla realtà 9,come si va rendendo sempre più intellegibile, alle frontiere della scienza. Paul DAVIES, professore di fisica teorica all’università di Newcastle, ipotizza uno scenario simile, nel suo libro LA MENTE DI DIO, Mondadori 1993. 9 302 La ragione è solo uno strumento per proseguire e rendere più agevole la comprensione dell’universo; strumento unico, ma non tale da non ipotizzarne una versione migliorata e più valida. Con questo strumento, il filosofo indaga nello scibile e scopre il male, oppure non riesce a vedere il percorso e si dispera, per quella che lui ritiene la vanità del tutto. Solo coloro che rimangono sbigottiti dalla presenza del male nell’universo, si fermano affascinati, a guardare le infinite tragedie che esso permette e promuove. Non potendo ipotizzare un Dio maligno, costoro, da ciò, postulano l’assoluta vanità del percorso dell’uomo. Essi, quindi, ritengono l’universo un puro accidente del caso o l’estrinsecarsi vano di un percorso, forse ciclico, inconoscibile all’uomo, sempre uguale a se stesso e sempre falsamente riproponentesi. Solo coloro che si disperano, non riuscendo a percepire la bellezza del Disegno, si perdono nella ricerca del nulla che li inghiottirà. Anche noi, che pure vediamo il Disegno, sappiamo che il male esiste, che esso colpisce crudelmente e violentemente, ma sappiamo altresì che esso non prevarrà. Se non fossimo sicuri di ciò, dovremmo conseguentemente avere la stessa posizione filosofica di colui che, non capendo o non accettando quest’universo, scelga il suicidio , come unica azione, correttamente derivata dalle sue convinzioni. Come vedi, io non nego la validità del dubbio, che, anzi è stato ed è il mio più assiduo compagno; dico solo che il dubbio su ogni aspetto del tutto, non mi distoglie dalla meraviglia della contemplazione dell’universo e della sua intima radice logica. Sforzandomi di capire la bellezza dell’universo, ne trovo la sua intrinseca razionalità. Da questa razionalità del tutto, ricavo la necessità della razionalità per il percorso dell’uomo. Con lo stesso procedimento, l’uomo di scienza vede il progressivo svilupparsi di un disegno che, partendo dal fiat lux, o, se lo vuoi dire in termini più scientifici, da un punto di singolarità assoluta, si estrinseca nella storia dell’universo, quale noi abbiamo iniziato a conoscere. Quella storia contiene catastrofi inimmaginabili, sofferenze atroci, ingiustizie inconcepibili. Forse, proprio questo è il compito dell’uomo, superare gli ostacoli che mettono alla prova la sua capacità di reazione, per esser quindi pronto e preparato per altri compiti. Forse è proprio questo, lo stadio attuale dell’uomo: stiamo andando a scuola. 303 Ciò sta divenendo evidente sia per il teologo che per lo scienziato, dopo che è divenuto chiaro per l’uomo comune, purchè dotato di un minimo di buon senso. Così, come ebbi occasione di dire altre volte, lo scienziato e l'uomo di fede sono sullo stesso treno; lo scienziato non sa da dove il treno è partito e dove arriverà, né accetta le conclusioni dell'uomo di fede. Questi sente qual è stato il principio e quale sarà l'arrivo. Però entrambi, quando sono in buona fede, riconoscono che quel treno sta percorrendo un percorso razionale. Ambedue debbono lavorare al massimo perché quel percorso non si blocchi, imboccando binari morti, o non torni indietro, facendo compiere giri inutili e, come tali, dannosi, al destino dell'uomo in questo universo. E, il filosofo? Come si colloca, il filosofo, sul treno? Egli, abituato a porsi le stesse domande del religioso, orgogliosamente costretto ad usare il solo strumento della sua ragione, ha trovato due grandi tipi di risposta ai perchè. O ha individuato comunque un principio razionale, nell’esplorazione dell’universo, e quindi salirà volentieri sul treno, oppure, non riesce a definire quel principio, per la limitatezza dello strumento, l’analisi dell’uomo, o per quella che egli ritiene la volontà del principio creatore, che lo nasconde , per suoi fini imperscrutabili. Da questo, egli talvolta è indotto a pensare che il fine non esista, che tutta l’immensa opera della creazione sia dovuta al caso, che l’uomo sia un accidente passeggero ed ininfluente, nel destino dell’universo. Ma, perfino in questa terribile evenienza, il filosofo può recuperare un destino per l’uomo. Così l’esistenzialismo, pur ponendo l’assoluta impossibilità, per l’uomo, di conoscere le ragioni prime, postula, per lui, la possibilità di partecipare al processo razionale, anzi di essere l’attore principale di questo processo. In tal modo, anche le posizioni che provengono dall’impossibilità dell’uomo di conoscere il come ed il perchè, possono partecipare alla costruzione del percorso razionale dell’avventura umana. Possono, in ultima analisi, salire sul treno. Infatti, solo lo scetticismo più assoluto nega all'uomo di modificare la propria natura; tutte le altre posizioni postulano, al contrario, la possibilità dell'Uomo di procedere innanzi sulla strada della sua autocoscienza. Ma quale sarà, questo percorso? Al solito, la strada più difficile è quella più valida. 304 Chi, tra tutti gli esseri che s'avviavano a divenire uomini, se avesse potuto decidere prima, avrebbe rinunciato a quelle armi che erano vincenti, nel campo dell'animalità? Chi non avrebbe voluto volare come il falco, essere forte come il leone, essere grande come la balena, esser veloce come il ghepardo, esser potente come l'elefante? Eppure tutte queste armi hanno ceduto di fronte all'uomo, apparentemente disarmato, perché l'evoluzione, dicono gli scienziati, il disegno, diciamo noi, stavano spingendo diversamente e più validamente. Ora l'uomo si sta accorgendo che la legge del più forte, che pure l'ha reso padrone del mondo, ormai non e` più applicabile nel suo mondo, proprio perché quella legge sta pericolosamente sbilanciando le possibilità dell'uomo. I più forti, resisi padroni delle scienze dell'uomo, diverrebbero in questo modo, tanto forti, da dominare la gran parte della stessa Umanità. Così, in questo tempo, l'uomo è indotto, io direi costretto, a fare un grande salto di qualità. O egli accetta il senso morale come costituente una legislazione universale, che lo porterebbe a divenire una specie più progredita nella sua evoluzione, rendendolo “quasi angelum“, oppure egli si rinchiuderà in un inferno, in cui l'unica uscita è la sconfitta del proprio destino di Signore del Creato. Del resto, è propria della natura degli esseri sottoposti alla legge dell'evoluzione, questa possibilità di mutare radicalmente le rispettive capacità, quando questo è necessario, cioè sotto la spinta evolutiva. Te ne voglio ricordare un esempio. Si dice che il metabolismo di alcune persone assimili il cibo molto di più di altre. Che cosa significa questo? Quando la condizione normale, per l'uomo, era un'estrema penuria di cibo, si svilupparono uomini che attinsero, dal proprio bagaglio cromosomico, la capacità di vincere, in qualche misura, quella condizione limitante. I più adatti alla sopravvivenza misero così in campo un'accresciuta possibilità d'assimilare completamente il poco cibo, che riuscivano a trovare, sopravanzando così, nella corsa per la vita, coloro, della propria specie, che non avevano sviluppato quest'attitudine. Ora, divenuto, almeno nel mondo ricco, il cibo abbondantissimo, l'antica capacità di alcuni ceppi particolari d'uomini, di assimilare completamente il cibo che mangiavano, è divenuta un fattore negativo, che essi debbono combattere, se non vogliono rischiare l'infarto, per troppi grassi accumulati. 305 L'uomo, come tutte le specie viventi, è una creatura estremamente plasmabile; egli è “costruito“ in modo da poter mutare, abbandonando forme ed attitudini che un tempo erano qualità positive, ma che ora vanno in direzione contraria al suo destino. L'Uomo deve abbandonare le attitudini negative, a maggior ragione ora, che l'intelletto gli offre un motivo valido per farlo”. “ Già, se è così facile - l'interruppe Alain - allora perché l’uomo non vola?” “ Perché questo non è scritto nel disegno, diciamo noi. Gli scienziati invece affermano che una specie, per sviluppare l’attitudine al volo, deve ridursi al minimo peso, compatibile con la possibilità di volare. Questa specie deve strutturarsi con ossa cave e, principalmente, con una testa piccola e leggera, in cui può trovare posto solo un cervello rudimentale, adatto solamente per adoperare la sua caratteristica precipua, che è quella di fuggire via dalle situazioni di pericolo, appunto usando il volo. Ti sembra ipotizzabile, come padrone dell’universo, un essere che fugge e che è necessariamente dotato di un cervellino piccolo e scarsamente sviluppato? Ma, soprattutto, ti sembra molto diversa, la nostra posizione, dal ragionamento dello scienziato? Questa è la situazione, che si va delineando sempre più chiara e che io ritengo il campo di battaglia del prossimo millennio. Come vedi, lo spartiacque s'incomincia ad intravedere: da una parte ci sono coloro che, in nome del loro istinto di prevaricazione, residuato inestirpabile dei loro trascorsi belluini, preferiranno un terribile "Cupio Dissolvi"10 piuttosto che cambiare, e cercheranno di trascinare tutta l'Umanità nella loro dannazione. Questi dannati saranno accompagnati dagli scettici, che non mancano nemmeno tra le fila di chi crede nel Dio Creatore, come dimostra l'Ecclesiaste11, che, nel suo brevissimo libro, proclama per ben venti volte che " tutto è vanità " e che l'uomo non cambierà mai. In latino, CUPIO DISSOLVI significa: Desidero ardentemente di cessare d’esistere. 11 L’ECCLESIASTE ( in ebraico COELET ) è uno dei libri didattici o sapienziali del canone ebraico della BIBBIA. Fu scritto tra la fine del III sec.ed il I sec a.C. 10 306 Dall'altra parte, chi ci sarà? I cattolici? Certo, quelli in buona fede. Coloro che credono nel Dio unico? Certo, quelli in buona fede. Coloro che credono nelle altre religioni dell'Uomo? Certo, quelli in buona fede. Coloro che non credono all'esistenza di un dio Creatore, ma che riconoscono un valore all'avventura umana? Certo, quelli in buona fede. E come chiameremo noi, tutti questi uomini in buona fede? Uomini di buona volontà. Ma come potremo altrimenti chiamare coloro che tendono, più o meno consciamente, all'autodistruzione e coloro che vogliono salvare il valore della vita? I figli delle tenebre, gli uni; i figli della luce, gli altri. Non ti ricorda nulla questo? Una volta, proprio tu, facendomi provare un dolore mille volte più forte di quello che provoca una levatrice, quando estrae un bimbo dalle viscere della propria madre, traesti fuori dalla mia anima la legge, che il mio orgoglio s'ostinava a tenere nascosta, e, con quella legge, ridonasti un perché alla mia vita. Ora io sono venuto a fare la stessa dolorosa operazione: se tu consideri ancora la Chiesa, la pietra angolare del Disegno, capisci che la tua posizione va, obbiettivamente, contro il Disegno?" Ci volle quasi un minuto, teso, carico di silenzio, mentre le idee, furie generate dall'orgoglio, combattevano selvaggiamente sopra le teste dei due uomini. Poi, di colpo, Alain abbracciò in silenzio l'amico. L'arcivescovo di Reims poteva assicurare il Vaticano che la situazione s’era chiarita, il caso era chiuso. 307 QUARTA ANTIFONA Questo è il punto. L'uomo, l'espressione massima dell'impulso vitale sulla terra, il culmine della vita animale, ha visto nascere, nel suo cervello, il signum della Divinità, l’autocoscienza, che trova, nella logica, la chiave dell'universo, e, con questa, ha conquistato il mondo. Egli ha operato questa conquista usando in maniera superlativa l'antica legge del più forte, dura legge che cancella, sul cammino dell'evoluzione, ogni altra razza che ha perso. Ora, però, quella legge rischia di ritorcersi contro lo stesso uomo, mentre egli si trova di fronte ad un bivio. La più potente arma dell'uomo è sempre stata la possibilità d'ordinare il mondo, mediante la sua capacità logica, derivante dal suo signum costitutivo. Egli è riuscito ad impadronirsi di così grandi segreti della natura, decifrandoli appunto con la sua qualità precipua, da permettere a quelli più abili della propria razza, che ormai avevano conquistato tutto il conquistabile sulla terra, d'impadronirsi, per ultimo, delle menti e delle abitudini della collettività, creando bisogni indotti e modi di vita artefatti; le famigerate sovrastrutture. Il Potere, mediante il danaro, organizza la vita dell'uomo secondo processi standard, sempre più rivolti al controllo delle masse, delle menti, e quindi delle esistenze, dei meno capaci, meno intelligenti o meno fortunati, della stessa razza dell'uomo. Qualcuno, per descrivere il procedimento, ha correttamente parlato di processo di massificazione dell'Umanità. Questo fatto aveva nascosto, ma non evitato, la procedura d'affinamento, confusamente avvertita da Carlo Marx, quando egli ipotizzava il fagocitamento reciproco e progressivo dei capitalisti, fino a che non sarebbe rimasto che un solo supercapitalista. La storia s'era incaricata di cancellare quell’ipotesi, perché essa dava troppo spazio al potere ed alla sua espressione più grezza, il danaro. Occorreva infatti considerare altri importanti fattori quali: il consenso, l'aspirazione incoercibile alla felicità o almeno alla tranquillità, il senso di partecipazione ad un progetto; elemento importante per un essere, che conserva tutte le stigmate dell'animale gregario. L’umanità aveva anche provato la possibilità della presa del potere da parte di coloro che avevano, come unica ricchezza, i figli. L'avventura del comunismo sovietico, che era stato il più grande tentativo populista della storia, era però naufragata sulle secche 308 dell'organizzazione statalista che questi s'era dato, imponendo al potere una classe di burocrati ottusi ed assolutamente digiuni d'economia, selezionati unicamente in base alle loro benemerenze d'apparato. Una società, così strutturata, era inevitabilmente condannata a grippare, a causa della sua economia, organizzata con metodi arcaici. Infatti, l’economia di quella società, aveva, come colpa principale, il difetto capitale, di non aver riconosciuto il valore della libera iniziativa, esplicantesi nel processo chiamato "concorrenza". Contemporaneamente,la paura, che il comunismo reale aveva suscitato, aveva talmente compattato la classe media dei paesi ricchi, da provocare un enorme allargamento delle possibilità d'espansione economica del sistema capitalistico stesso. Infatti quella sfida era stata sentita, almeno nei paesi anglosassoni, con una forte motivazione etica, una lotta tra il bene ed il male. La tensione morale, insita in questa situazione, aveva cancellato e nascosto il teorema enunciato nella tesi di Marx, per cui il capitalismo doveva necessariamente svilupparsi mediante successive concentrazioni, fino ad arrivare al solo, grande supercapitalista. Così, fino a tutti gli anni ottanta, il capitalismo s'era evoluto in maniera diversa dalle previsioni di Marx: i milionari in dollari aumentavano il valore del proprio capitale ma aumentavano anche di numero, sconfessando, a prima vista, l'assunto di Marx. A ben vedere però, era vero che i capitalisti aumentavano di numero ma, nel contempo, stava verificandosi un fatto nuovo. S'era costituito un sistema, che alcuni chiamavano l'impero delle multinazionali, altri l'apparato economico- militare, altri ancora la tecnostruttura del potere. Questo sistema, alla fine, si presentava come un unicum, con caratteristiche proprie e ben definite. Esso cooptava chiunque avesse il coraggio e la capacità di volervi entrare, senza badare ad alcuna altra implicazione; ma reagiva violentemente quando qualcuno attaccava la necessità stessa del sistema. Si vedevano così autentici gangsters favoriti dal sistema, che offriva comodi paradisi fiscali e valutari per lavare le loro ricchezze di provenienza criminosa; ma venivano bloccati tutti i tentativi, d'estranei al sistema, di far conoscere le proprie ragioni per trovare un modus d'intesa con il sistema stesso. Così Castro a Cuba, Gheddafi in Libia e gli Ajatollah in Iran erano combattuti, con la scusa che erano amici dell'impero 309 sovietico, senza neppure tentare di considerare le loro ragioni o cercare una possibilità d'accordo. La ricerca di questa possibilità, almeno sul piano strategico della lotta all'orso russo, sarebbe invece stata, invece, una mossa logica. Infatti, forse non Castro, ma Gheddafi e gli Iraniani erano quanto di più distante si potesse trovare, in termini filosofici, dal Credo marxista. Questo non vuol dire che essi avessero ragione, nell'esplicazione delle loro politiche violentemente antioccidentali; ma significa solo che rientrava nell'interesse di tutti, occidentali e paesi non ammessi al banchetto, ma non inseriti nel sistema orientale, di trovare un modus per regolare le loro politiche. La verità è che chiunque tentasse di portare, nel sistema, le ragioni della parte più debole dell'Umanità, veniva violentemente respinto. Poi, le organizzazioni umanitarie dei paesi forti s'affannavano a portare il latte a quei bambini, cui gli stessi paesi forti non avevano dato alcuna possibilità di sviluppo. Il significato di quella politica era chiaro. Il sistema, comunque si chiamasse, permetteva al proprio interno un certo qual ricambio d'uomini, tale da giustificare ancora l'esistenza del "sogno americano", per cui ogni giovanissimo venditore di giornali, negli USA, aveva la possibilità di diventare milionario, così come lo zaino d'ogni caporale di Napoleone nascondeva un bastone da Maresciallo. Ma esso, come sistema, era bloccato e reagiva violentemente ad ogni tentativo di mutamento sostanziale. Dunque il sistema era Uno e Immutabile, o almeno così tentava di presentarsi e di comportarsi. Come il grande capitalista di Marx. Per dare la spallata finale all'impero marxista, il sistema organizzò la razionalizzazione selvaggia del suo apparato, che abbiamo già considerato. A questo punto, vinto il nemico mortale, cessò la tensione eroica che aveva sostenuto quella lotta. Ma ormai il sistema, nella sfera della produzione, s’era andato organizzando con una razionalità esasperata. Esso infatti considerò, come optimum della sua esistenza, il solo profitto economico, nella sua forma sempre più redditizia. O, meglio, la sua unica preoccupazione divenne il massimo vantaggio ricavabile, in termini finanziari. Per questa ragione, il sistema, ormai sulla via di un completo distacco dalle necessità della società, cominciò a divorare i suoi figli migliori: la classe media, che era la spina dorsale del sistema stesso. 310 Il modello in vigore aveva così perso di vista le ragioni dell'Uomo; ragioni che, invece, dovevano essere la causa prima del suo sviluppo, se si voleva attribuire un motivo di validità al sistema stesso. Per andare avanti nella discussione, occorre però considerare una variabile importante, se non si vuole lasciare monco il ragionamento. Un difensore del sistema considerato, porrebbe ora la pregiudiziale della libertà; cioè affermerebbe che il sistema non si è scontrato con l'altro sistema, quello comunista, sul piano dell'interesse economico ma su quello della libertà. A questo punto viene da evocare Maria Teresa Luisa di Savoia Carignano, Principessa di Lamballe, che andò alla ghigliottina gridando: "Libertà, quante nefandezze si compiono in tuo nome!". Quel grido è conseguente, non perché il concetto di libertà non sia centrale, nella storia umana, ma perché esso è stato quasi sempre preso, come per la povera principessa, quale foglia di fico, per tutte le atrocità, commesse dall’uomo. Andiamo per ordine. Se il sistema capitalistico pone, come proprio principio informatore, la libertà, il sistema comunista poneva, alla stessa maniera, la giustizia, e questa contrapposizione fa già vedere come i due pretesi motivi informatori non fossero altro che scuse. Infatti libertà e giustizia sono due aspetti della stessa medaglia: non può esistere l'una senza che sia presente l'altra, e l'una e l'altra sono presenti sempre allo stesso grado, perché l'una aumenta con l'aumentare dell'altra, così come l'altra degrada con il degradare della prima. Si vuole un'ulteriore conferma? Eccola. Entrambi i sistemi s'erano organizzati con un enorme apparato militare, che aveva una forza terrificante, capace di distruggere ogni traccia di vita sulla terra, non una sola volta per parte, ma svariate volte. Ebbene, questo fatto, la possibilità cioè di distruggere totalmente e definitivamente la vita sulla terra, tutta la vita, non avrebbe annullato, a fortiori, anche ogni possibilità di libertà per gli uni e di giustizia, per gli altri? E non erano, gli uni e gli altri, i campioni, sopra tutte le altre cose, della libertà e della giustizia? Il fatto vero è quello che si diceva in un'altra parte, in cui s'individuava l'uomo come l'unico animale che cerca una scusa per dividersi in gruppi e, ammantatosi delle pseudo ragioni insite in quelle scuse, si porta vicendevolmente guerra. 311 In questo modo egli soddisfa il proprio istinto, che lo spinge, per l'antica legge del più forte, a giocarsi il tutto per tutto, nella ricerca appunto del vincitore. Non si scappa da questo concetto, quando si parla dell'uomo. Osserviamolo in altre manifestazioni che, pure, non avrebbero alcuno scopo d'estrinsecarsi nel modo in cui esse si svolgono, se non per la naturale propensione dell'uomo di disporre ogni sua espressione vitale in siffatta maniera, che gli ricorda come lui ha conquistato il dominio del mondo. Che cosa è infatti lo sport, che tanta presa ha nell'inconscio collettivo di così gran parte dell'umanità, se non la sublimazione del suo istinto di lottare per la supremazia? Una guerra in piccolo, combattuta con regole rituali. E che cosa ha impedito allo sport di svilupparsi come elemento di collaborazione tra TUTTE le componenti che lo stanno eseguendo e non solo tra le componenti del proprio gruppo, per vincere e sopraffare l'altro gruppo antagonista? Che cosa spinge l'uomo, già abbondantemente progredito nel campo del proprio successo personale, senza più alcun timore di perdere quanto ha già accumulato, a vivere nella trepidazione e nell'ansia della lotta, al fine di dimostrare d'essere, ancora, più forte degli altri? E’ la vecchia legge della giungla, resa più cogente e codificata nel dettaglio, dalla società nata dagli spiriti liberi dell'antica Grecia, trasferitasi prima nel bacino del Mediterraneo, e poi trapiantata in tutto il mondo, dalla civiltà europea. Da sempre, si sapeva che quel tipo di civiltà non voleva sottostare ad alcuna limitazione della propria libertà, nemmeno quella che vietava di costringere i vinti ad assumere il proprio modo di vita, neppure quella che impediva di conquistare, insieme con il mondo, le menti degli uomini che l'abitano. Questo strano concetto di libertà, così vicino all'arbitrio, aveva prodotto una società fondamentalmente illiberale, perché essa non riconosceva le ragioni dell'altro. Autoritaria, perché quando manca la ragione subentra la forza. Tanto espansionista da aver acquisito spesso i caratteri dell'imperialismo, perché l'espansione è la dannazione di chi, non riuscendo a far valere la forza delle proprie ragioni, tenta di far prevalere, al loro posto, la ragione della propria forza. Vediamo ad esempio la tesi di Friedrich W. Nietzsche1, un filosofo propugnatore dei "valori aristocratici". 1 Friedrich Wilhelm NIETZSCHE -1844/1900- filosofo tedesco. Nel suo saggio: “ GENEALOGIA DELLA MORALE “ egli espone le tesi riportate in questi paragrafi. 312 Essi, infatti, stanno alla base delle dottrine, che pongono “il superuomo, al di là del bene e del male". Sono quelli, i valori, che, in definitiva, continuano a dare una necessarietà alla legge del più forte. Il filosofo tedesco pone l'origine della morale nel "Ressentiment"(il risentimento) di "quegli esseri cui è preclusa la reazione vera, quella dell'azione, e che possono soddisfarsi solo grazie ad una vendetta immaginaria ", cioè i vinti e le classi subalterne, che hanno appunto inventato la morale, come rivalsa sulla loro sconfitta. La dottrina dei vinti, per eccellenza, è il Cristianesimo; esso respinge il mondo e sposta l'unica realtà vera nel regno dei cieli, in pratica nella favola. Anche la storia, per Nietzsche, tende a seguire questa strada, quando pone i valori veri oltre l'esperienza sensibile, per dare una meta ed uno scopo ultraterreno all'avventura dell'uomo. La posizione escatologica della storia, in altre parole, la ricerca tesa ad illuminare i fini ultimi dell'Universo e dell'Umanità, genera altri falsi miti, quali il “Progresso", il "Socialismo", ovvero il progresso sociale, “l'ottimismo razionalistico", che pretende che tutto L'Universo sia razionale e quindi conoscibile mediante la scienza socratica. Però la civiltà che ha compiuto questo cammino, ad un certo momento della sua storia, non riesce più ad andare avanti, perché i valori, da essa evidenziati, si scoprono fallaci. L'umanità perde allora la sua fede in Dio, la vita vede svanire i suoi ideali, il progresso e la scienza non sono capaci di dare la felicità all'uomo. Egli ripiomba, così, nella sua condizione alienante di schiavo, resa ancor più terribile dalla coscienza di quanto è accaduto. L'uomo in questa maniera, cade, per Nietzsche, nel "nichilismo", che è la forma più assoluta di scetticismo. Come uscirne? Nietzsche propone la teoria dell'"Uebermensch", il"Superuomo". L'uomo dovrà ritornare fanciullo ed accettare la vita per quello che è, un continuo divenire, una ruota senza fine e senza altro scopo, se non il suo incessante girare. Accettando la realtà per quello che essa veramente è, l'uomo accetterà il "gioco cosmico", al di là del bene e del male. Accetterà perciò tutte quelle implicazioni che la morale tendeva ad evitare, dividendo le esperienze dell'uomo in buone e cattive, le une da perseguire, le altre da rifuggire, per le ragioni già esposte. In questa maniera l'uomo supererà la sua posizione, che s’era dimostrata la peggiore, tra tutte quelle in cui egli s'era 313 avventurato, essendosi posto come uomo senza valori, nella società borghese. Egli diverrà così, alla fine di questo processo liberatorio, il Superuomo: l'uomo liberato dal pregiudizio. Come si vede, il quadro si va facendo chiaro, le posizioni si delineano. Dopo più di tre millenni di ricerca del Dio unico, dopo venticinque secoli di tentativi di definire il mondo mediante la capacità logica della mente, le posizioni superstiti sono due. O, meglio, queste posizioni, che erano state più o meno confusamente abbozzate già all'inizio del pensiero logico, ora hanno trovato una sistemazione organica, nel campo delle scienze dell'Uomo. La tesi di chi non vede un fine, nell'incessante procedere della storia, ed intende questa come un processo ciclico di ere, che s'alternano senza un perché logico, spinte solo dalle leggi probabilistiche del caso e quella che accetta un fine, per tutto questo gigantesco fenomeno. Noi, ora, cominciamo ad aver chiaro l'intero quadro, che sappiamo in moto, sulla terra, da più di cinque miliardi di anni. Le menti più acute ne avvertono l'intrinseca bellezza e la scienza ne sta ora intravedendo l'intima coerenza logica e l'unicità del sistema di leggi ,che lo regolano. L'unico elemento perturbatore, nell’universo, che si va scoprendo ordinato, sembra essere proprio l'uomo. All'interno di queste due grandi contrapposizioni vi sono poi dei sottosistemi, che definiscono i due fasci di posizioni, così individuate. La prima posizione, che chiameremmo ciclica o del rifiuto, vede al proprio interno le teorie scettiche, da quella nichilista prima rammentata a quelle proprie delle religioni che postulano l'unica realtà del cosmo nel gran fuoco di Shiva, che tutto brucia per tutto ricominciare o che predicano l'assoluta inconoscibilità del tutto. Fanno ancora parte di questa posizione la teoria che nega la validità di un Dio Creatore, od Ordinatore, dell'universo ed il sistema che pone l'origine del tutto nel caso, senza che questo si possa mai ordinare in una struttura logica tendente ad un fine, neppure per avventura. La posizione opposta è più frastagliata, forse perché più aderente alla nostra civiltà. In essa troviamo, naturalmente in prima linea, le religioni monoteistiche e tutte quelle credenze religiose che ammettono un fine ultimo nell'Universo. 314 Possiamo perfino sistemare, in quella posizione, le religioni binarie, che accettano cioè due principi informatori, il Bene ed il Male. Come teorie che postulano un percorso logico per l’avventura umana, benchè estremamente critiche sul concetto di Dio creatore, accogliamo in questa posizione anche il positivismo, il materialismo, il marxismo, l'utilitarismo, naturalmente l'evoluzionismo darwiniano, lo storicismo, lo stesso esistenzialismo, le scienze umane, (sociologia, psicologia, psicoanalisi, etnologia, antropologia, strutturalismo e semeiotica) scienze in cui sembra essersi frantumata l'indagine filosofica, in questo nostro tempo di " pensiero debole ". Come è possibile vedere, si tratta di teorie ferocemente in antitesi tra di loro, che si sono fatta guerra aspra e non solo verbale, ma tutte ritengono possibile, ed auspicano, un tragitto razionale per la storia dell’uomo, al di là di chi determini ed attui questo cammino. Lo sforzo che dovrà esser fatto, in questo nuovo millennio, sarà quello di trovare un minimo comun denominatore, tra tutte queste teorie, al fine di poter procedere alla costruzione, per il prossimo futuro, di una teoria forte. Essa, comprendendo le istanze più valide di ciascuna di queste e confrontandole, in un processo dialettico, con le teorie del rifiuto, potrà giungere ad un netto avanzamento, sul piano dell'indagine conoscitiva dell'uomo, nei confronti dell'Universo. Quale miglior comune denominatore, infatti, si potrà trovare per tutte queste teorie, se non l'uomo stesso? Certo che lo scegliere, tra le due posizioni in cui si è venuta a cristallizzare l'indagine dell'avventura umana, è impresa da far tremare i polsi. A meno che, l'uomo, quest'animale drammatico, che riesce a trovare, nel proprio intimo, la forza per superare le situazioni, proprio quando esse divengono più esasperate, non sappia, al momento giusto, esprimere un gigante del pensiero. Egli potrà così proporre una soluzione elegante, perché semplice e vera, a questo problema, che affascina ed affatica la nostra civiltà. Se risolvere il problema è tanto difficile, da non bastare forse l’intero millennio per raggiungere, al riguardo, una posizione chiara e definitiva, l'enunciarlo è, invece, molto semplice. L'uomo dovrà verificare, mediante il proprio signum, cioè l'autocoscienza che genera l'indagine logica, se l'Universo, che 315 lo ha espresso, sia un Universo che risponde ad una causa logica o se esso sia il prodotto del caso, un accidente. Ovvero, se pur generato dal caso, l’Universo, avendo avuto, per accidente, la ventura di veder sortire a sua volta un essere autocosciente, l'Uomo, tramite questo, possa darsi, se non una causa generante, almeno uno scopo finale. Ma, per attuare questo processo titanico, occorre, prima, che l’umanità affini ulteriormente i propri strumenti d'indagine. Consideriamo, ora, un fatto, che potrebbe portarci su di un sentiero in cui sono possibili sviluppi positivi. Dalla civiltà europea, che abbiamo visto svilupparsi con tratti assolutamente illiberali, tanto da essere tacciata, a ragione, d'imperialismo, ad un certo momento della sua evoluzione, è nato il concetto di liberalismo. Questo si può definire come la posizione che vede ed ascolta anche le ragioni dell'altro, cambiando così in modo radicale le proprie motivazioni, perché così impone l'indagine logica. In definitiva, il percorso ormai appare chiaro. Il Rinascimento italiano, punta di lancia di quello europeo, aveva individuato lo strumento, per far compiere un grande salto di civiltà all’umanità. Quello strumento era lo stesso, ipotizzato dall’Umanesimo, cioè dal bisogno, che l’umanità aveva messo in campo, per superare il mondo, ormai concluso, dell’età medioevale. Lo strumento era il riconoscimento dell’uomo come “Termine e paragone dell’universo”. Superato questo gradino, l’umanità acquisì, nel sedicesimo secolo, un altro strumento basilare: il concetto di scienza2. Definito come si attua un procedimento scientifico, l’umanità iniziò a far scienza anche nelle discipline sociali. E’ merito dunque del secolo dei lumi, il diciottesimo secolo, aver scoperto, prima nel campo filosofico e poi, nel campo delle discipline sociali, la forza della scienza. Se ne mutuarono, così, i vantaggi anche nei rapporti tra gli uomini. Così si giunse, finalmente, al concetto di liberalismo. Questo, come è noto, è contenuto in quella dottrina, che non accetta più, acriticamente, di considerare, come migliore, la propria teoria, solo perché è la propria, ma sottopone anche la Un concetto scientifico si attua, per definizione, solo quando esso è universale, cioè è valido sempre ed in ogni luogo; quando esso è ripetibile, cioè date particolari condizioni , ben specificate, esso possa esser ripetuto ogni volta che si voglia; infine, quando esso non necessita di cause non naturali, per aver luogo. 2 316 teoria avversaria al vaglio della ragione, riconoscendone, ove ve ne sia la possibilità, le ragioni in essa presenti. Naturalmente il metodo liberale è stato usato, nei secoli diciannovesimo e ventesimo, per sottoporre al vaglio della ragione solo le idee della nostra società, la società erede della civiltà greco romana. Le altre civiltà, per quel senso d’imperialismo, duro a morire, che aveva permeato di se anche la nostra ragione, non erano reputate degne d’esser confrontate con la civiltà dominante. Solo in tempi recenti, l’uomo s’è accorto di quanto fosse riduttiva, anche per la nostra civiltà, la perdita volontaria delle altre civiltà umane. V’è stato quindi, un tentativo di recupero di esse, uno spostamento di visuale non di poco conto, un cambiamento importante, nel modo di concepire il rapporto tra i popoli. Alla stessa maniera, l'uomo dovrà fare un cambiamento totale nel proprio modo di pensare, d'agire, di costruire la propria civiltà. Egli dovrà riconoscere che la vecchia legge del più forte, che pure l'ha proclamato re della terra, ormai è un pericolo e va sostituita con un altro modus operandi. Sembra addirittura, secondo le ultime ricerche degli evoluzionisti, che i Cro-magnon, l’ultimo ramo del genere Homo cui noi stessi apparteniamo, abbiano avuto la meglio sui Neanderthal, anch’essi uomini come noi, ma più forti e più adatti al freddo, solo perché avessero trovato nel linguaggio una potente forma di cooperazione tra di loro, cosa questa che ne permise la vittoria e la sopravvivenza. E ormai non esistono altre razze con cui combattere. Partendo dalle sue premesse, Nietzsche giungeva a soluzioni valide, che gettano una luce sinistra, ma illuminante, sul destino dell'uomo. Ma, forse, quelle premesse non sono immutabili. Qualunque sia il demiurgo che ha suscitato l'uomo dal fango primordiale,Dio o il Caso, ormai l'uomo ha raggiunto l'autocoscienza. Questo solo fatto impone all’uomo di comportarsi conseguentemente, riconoscendo quale sia il comportamento più razionale, mediante la logica, il suo strumento principe, che egli dovrà rendere sempre più cogente. Egli dovrà così abbandonare, se necessario, procedure che sono state considerate finora innate, ma che, ormai, sottoposte al vaglio dell'indagine logica, si rivelano deleterie. 317 A questo riguardo, è nota la posizione di Pascal, che introduce il famoso concetto, esser meglio il credere all'esistenza di Dio, con tutto quello che ne consegue. Secondo Pascal3 , infatti, se si sbaglia, reputando ciò, si perde pochissimo, mentre, se si ha ragione, s'ottiene il massimo, cioè la salvezza dell’anima. Da parte nostra, più che postulare la posizione di Pascal, ci sembra che questa sia il massimo dell'ipocrisia, non degna d'esser la base costitutiva di un sistema logico, che possa raffigurare la realtà del mondo. Ma appare feconda una diversa posizione. Una tesi espressa qualche anno fa nell'ambito dell'Università di Cambridge e riassunta in un libro4 , ha posto le basi per una teoria, che è stata definita "cosmologia antropica", considerando che l'Universo pare esser costruito su misura per l'uomo. Infatti "il semplice fatto che un piccolo pianeta, come il nostro, ospiti una forma di vita intelligente, sembra porre dei limiti alle caratteristiche su larga scala dell'intero Universo, come le sue dimensioni o l'intensità relativa delle interazioni fondamentali"5. Questa può essere una prima valida possibilità d'indirizzo per superare, con una sintesi, che forse abbraccerà l'intero millennio, il processo dialettico in cui si è venuto a trovare il pensiero dell'Uomo. Questo è appunto il bivio, che si pone concretamente sul cammino dell'uomo; la necessità di scelta appare ormai indifferibile, nel momento storico che sta vivendo la società umana. Se non saremo capaci di risolvere questo dualismo, c'ingoierà un medioevo più lungo e più feroce di quello che ci separa dall'epoca di Atene e Roma. Un medioevo, in cui la tecnologia permetterà, ai potenti del momento, di tenere l'uomo nella schiavitù più abbietta, perché non rifiutata, anzi ricercata e goduta. Un medioevo reso interminabile, perchè le scelte e le scoperte, accadute finora, per la maggior parte, per caso, nella storia dell’uomo, sarebbero, d’ora in poi, indirizzate e guidate dal potere. B.PASCAL matematico, fisico e filosofo francese; 1623-1662. “Cosmic coincidences” di John GRIBBIN e del prof Martin REES dell’università di CAMBRIDGE; BAUTAM ed . NEW YORK. 5 Da un articolo di John GRIBBIN, riportato sulla rivista “ASTRONOMIA”marzo 1990. Il principio antropico è stato poi ampiamente analizzato da Stephen HAWKING nel suo libro “BREVE STORIA DEL TEMPO” al cap. ottavo. 3 4 318 Infatti, l'Uomo che, per sciagurata ipotesi, rifiutasse, se non una causa logica, almeno uno scopo, per l'esistenza dell'Umanità, imboccherebbe un ben triste cammino. Vorrebbe cioè dire che non esiste, oltre che un Dio, nemmeno un fine, per l’avventura dell’uomo. In quest’ipotesi, la ruota degli eventi, avendo raggiunto il massimo del proprio ciclo, ora ricadrebbe verso il basso, con una sequenza distruttiva tanto violenta, quanto grande è stato il salto di progresso fin qui compiuto. Se mai ciò dovesse accadere, in quell'epoca buia sarebbero possibili crimini incommensurabili, di cui stiamo già vedendo i prodromi, come il trapianto degli organi a pagamento, o i tentativi di clonare la razza umana. Oppure, la ricerca di uno stato d'ibernazione, che spinga, coloro che se lo possono permettere, a ritardare la propria morte, per cercare di trovare, nel futuro più o meno prossimo, una medicina che permetta loro di sopravvivere. O, peggio ancora, s'useranno i feti dei non nati, magari mettendo in piedi un'industria, che lo faccia a livello non più artigianale, per produrre creme di bellezza. Chissà cosa potrà mai passare, nel cervellino di una dama che usa simili prodotti, se pure questo funziona ancora, quando pensi a quale macabra operazione si sta sottoponendo, per nascondere in qualche modo i segni di una condizione che, una volta era naturale, ed oggi è aborrita. E già si parla di trapianto del cervello umano. Ma, se mai ci si arriverà, quello che ne uscirà non sarà più un Uomo, bensì un essere che dovremmo giudicare mostruoso; non tanto e non solo perché egli avrebbe forzato così, in modo irreparabile, i limiti della natura, ma perché avrebbe fatto questo, non per un fine superiore, bensì solo per una ragione egoistica di sopravvivenza del singolo. Se invece l'uomo riuscirà a modificare le proprie caratteristiche innate, che lo spingono alla lotta verso i propri simili, allora potrebbe essere possibile quel salto di qualità che abbiamo ipotizzato. Del resto, finora, molte volte, per arrivare a divenire Uomo, l'animale, da cui proveniamo, ha modificato radicalmente la propria conformazione fisica, il proprio patrimonio genetico, il proprio comportamento. La creatura che noi chiamiamo Uomo, ha dimostrato, infatti, di essere l'organismo più plasticamente modificabile, tra tutti gli esseri che hanno popolato e popolano l'orbe terraqueo, quello che più lungamente e profondamente ha percorso la scala dell'evoluzione. 319 Mentre le altre creature tendono a cercare una nicchia nel proprio ecosistema biologico, l'Uomo ha compiuto, si direbbe quasi cercato, per mezzo della sua prima caratteristica, la curiosità intellettuale, cambiamenti, che potremmo definire traumatici. Sembra quasi che l’ordine impartito alla vita nei suoi recessi più intimi, nel patrimonio genetico, abbia abbandonato via via gli esperimenti che la vita stessa compiva, alla ricerca di un essere che potesse giungere all’autocoscienza. Questi esperimenti, veri e propri tentativi di prova, hanno dato origine alle varie specie animali, che, perciò, s'acquietano nel vivere, paghe del solo fatto d'esistere. Finalmente, dopo infiniti tentativi, la vita è pervenuta all’uomo. La sua specie ha abbandonato l'ambiente marino; ha superato la condizione limitante dell’animale a sangue freddo ed ha così acquisito una struttura mammifera, più rispondente alla lotta per l'esistenza; ha abbandonato la sicurezza della cima degli alberi per esplorare la savana; si è alzata sulle zampe posteriori per guardare il mondo in faccia, divenendo così "antropos", l'essere che guarda verso il cielo e, nel fare ciò, ha conquistato il suo primo strumento, le mani. Poi si è buttato, lui animale inerme, nella lotta per la vita, con una vitalità impressionante, sottoponendo l'unico organo che potesse aiutarlo, il cervello, ad una spinta evolutiva eccezionale, tanto da modificare, a causa di ciò, addirittura la struttura del proprio corpo. Questo, infatti, deve avere un periodo di formazione differito dopo la nascita, perché altrimenti il cranio, reso troppo grosso da un cervello dallo sviluppo abnorme, rispetto agli altri animali, avrebbe impedito un parto naturale. Ciò ha avuto pesanti implicazioni culturali, perché gli etologi fanno risalire a questo fatto, il processo di organizzazione sociale tipico dell'uomo, in quanto un lungo periodo di non autosufficienza del piccolo dell'uomo ha probabilmente innescato il suo ordinamento parentale. La sequenza descritta spiega i motivi per cui la femmina dell'uomo si dedica all'accudimento della prole ed il maschio si specializza nel compito di provvedere al cibo, cosa questa che è all'origine del processo di ominazione, alla base dell'avventura umana . La pulsione evolutiva potente, che impone all'uomo di esplorare ogni anfratto possibile, dagli abissi del mare agli abissi del cosmo, dall’indefinito della propria natura all’infinito della Natura che l'ha espresso, rimane ancora una caratteristica prettamente umana. 320 Essa spinge l'uomo sulla cima della montagna più impervia, lo scaglia nell’abisso più pauroso, lo fa quotidianamente scontrare con l'ignoto, anche a costo della vita. Essa si manifesta, ove non sia placata, con quel senso d'insoddisfazione che ci distingue dalla bestia, contenta del proprio stato, assolutamente inadatta a fuggire dalla nicchia ecologica in cui l'ha posta la Natura. Essa non è, come qualcuno potrebbe credere, un diletto snobistico per uomini che, avendo avuto tutto, possono divertirsi solo con la ricerca del pericolo; inutile, perché fine a se stessa. Quella pulsione è il signum distintivo dell’uomo, forse la sua dannazione, certamente la necessità che l'ha generato ed evocato, nella miriade di forme di vita possibili. Finora questa spinta evolutiva, autentica patente di nobiltà nella natura animale, era dovuta all'ambiente. A questo punto della sua storia, l'uomo, divenuto autocosciente, deve fare un ulteriore balzo, per liberarsi delle ultime vestigia d'animalità, presenti nella sua organizzazione mentale. Se saprà fare questo, la sua spinta evolutiva non sarà dovuta più esclusivamente all'ambiente, ma ad una scelta logica. Se saprà fare questo, la ruota che lo teneva incatenato al ciclo immutabile ed inconoscibile del Caso sarà spezzata e l'uomo potrà esser lanciato verso il proprio destino. Certo, questo processo non sarà facile nè potrà attuarsi in breve tempo, anzi le spinte contrastanti saranno violente ed il prezzo da pagare sarà alto. Unica nostra speranza è che l'uomo è attratto dalle scelte difficili. Questa, oltre ad essere la più difficile che sia occorsa all'Umanità, è anche, e soprattutto, una scelta razionale. In bocca al lupo. 321 CAPITOLO XXIV ANNODANDO I FILI DELLA STORIA Le cure pastorali di una diocesi, così ricca d’uomini e di storia, non impedivano a Tommaso di continuare a frequentare l'ambiente, così stimolante sul piano intellettuale, che aveva lasciato a Bruxelles. Così, pur non con la frequenza di quando era cittadino della metropoli belga, ma ogni volta in cui aveva notizia di avvenimenti interessanti, Tommaso ritornava nei posti che l'avevano visto protagonista ed in cui aveva lasciato quella che, psicologicamente, riteneva essere la sua casa. Del resto, il fatto che non avesse abbandonato del tutto l'Università di Lovanio, in cui continuava a tenere delle conferenze di teologia e di esegesi biblica, gli dava un comodo pretesto per recarsi regolarmente in quella città. Così seguitava a vedere volentieri il gruppo di giovani esponenti che s'erano fatti le ossa in quella capitale politica e che, ora, aspiravano a rientrare nei propri paesi, per partecipare in prima persona, forti delle esperienze maturate in sede europea, alla politica nazionale. In patria, essi però avrebbero portato tutte le istanze e la particolare sensibilità, che avevano sviluppato in comune, nelle stanze che contano di Bruxelles. La ripetuta frequentazione aveva fatto nascere tra di loro una comunanza spirituale che, al di là delle rispettive posizioni, si manifestava in una sorta di consorteria. Considerandosi ormai amici, essi avvertivano come un senso d'appartenenza ad uno speciale club, molto riservato ma molto ricettivo a qualsiasi novità. Così riconoscevano e rispettavano le reciproche qualità, pur essendo queste, il motivo d'appassionate dispute intellettuali, cui tutti partecipavano, allo scopo d'affinare il proprio bagaglio mentale. Appunto in una di queste riunioni, che stavano perdendo sempre di più il carattere d'ufficialità per divenire motivo d'incontro, si riprese il vecchio tema. Che cosa si dovesse fare per attribuire un senso politico forte all'unione dei paesi europei, che non riusciva ad abbandonare la pura convenienza economica, per darsi una necessità politica. Quando s'andava a parare su questi temi, che pure erano il motivo principale della presenza di gran parte di loro in quella sede, da un po’ di tempo veniva fuori, sempre più forte, l'antico 322 timore dell'Unno, la paura che Deutschland metteva, in tutta Europa. Essa era stata risvegliata, e resa ancora più forte, dallo sviluppo straordinario che la Germania aveva avuto, negli ultimi anni, nella sua politica, nella sua economia, nella sua finanza. Il timore, o per alcuni la speranza, che il boccone, di quella che s'era chiamata Germania dell'Est, sarebbe stato troppo grosso per l'economia della Germania, ormai una, s'era dimostrato inconsistente. Anzi l'annessione, perché di questo s'era trattato in termini squisitamente politici, era stata completamente digerita in pochi anni, invece del ventennio ipotizzato dai più scettici, e quell'ingrandimento cominciava a dare i suoi frutti. Dopo cinquanta anni dalla fine di una guerra che aveva schiantato un popolo, dividendone la nazione in quattro parti, quella stessa Nazione aveva saputo risorgere e si riproponeva al mondo come la potenza egemone dell'Europa. La potenza della Germania trascendeva ormai persino la posizione regionale, per imporsi come polo mondiale, capace di fare politica autonoma e di colpire al cuore gli interessi dell'altro centro della politica mondiale, gli Stati Uniti d'America, mediante la forza incontenibile della propria moneta. Del resto, era lo stesso fenomeno che era accaduto all'altro paese uscito distrutto dalla guerra, il Giappone. È strano come, dopo cinquanta anni e trenta milioni di morti, la situazione fosse tornata come nel 1939, con la Germania ed il Giappone che ponevano una seria ipoteca sul mondo, dominato fino a quel momento dagli U.S.A. Il fatto, se dava forza alle tesi di quelli che ipotizzavano un genius gentium, che si esprimeva comunque e dopo qualunque sconfitta, perché dotato d'ideali superiori, faceva altresì ingrandire a dismisura i timori. Così pensavano, coloro che, per abbattere quel genio, ritenuto malefico, avevano visto spendere la vita di tanti uomini, nello sforzo vittorioso, ma terribile, che era stato necessario per vincerlo. Proprio nel tentativo di presentare un diverso modello politico, che non avesse in se le stigmate del revanscismo teutonico, anche se la Germania ne rimaneva il motore e la volontà politica, un vecchio amico di Tommaso stava per abbandonare il suo incarico, presso la Comunità Europea. Infatti Gottfried Stollemberg s’apprestava a lasciare Bruxelles, dove aveva ottenuto tanti successi e dove era nata e s'era irrobustita la sua fama di politico accorto e capace, per mettersi alla testa del Partito socialdemocratico tedesco. 323 Egli aveva elaborato una diversa dottrina politica, mentre molti in Germania ricominciavano a parlare d'allargamento dell'influenza tedesca ad est, che era poi la riedizione del vecchio concetto di spazio vitale, tanto caro ad Hitler. Il volgersi della Germania ad est avrebbe fatto risorgere vecchi, ma non scomparsi, fantasmi, capaci di ricompattare tutte le Nazioni che s'erano opposte alla Germania del III Reich. Nè valeva il concetto che la Germania di fine millennio fosse una cosa ben diversa dalla Germania di Hitler. La strada da seguire, per Stollemberg, era un'altra. Occorreva prima unire l'Europa in una Nazione vera, dotata di una politica propria, fornita di tutti quegli strumenti che servono appunto a fare una politica. Un'economia salda in tutta l'Europa, una finanza che ripetesse nel Continente l'exploit della finanza tedesca, una forza militare convincente, un sistema d'idee guida, d'ideali, che informassero l'azione politica che dovevano sostenere. Solo dopo che questo programma fosse stato non solo enunciato, ma anche iniziato, ci si poteva rivolgere ad est, in nome dell'Europa, ed assolutamente senza mire espansionistiche. Occorreva cooptare il colosso abbattuto dell'est, la Russia, all'intero progetto, facendogli balenare una possibilità di riscatto, che l'avrebbe portato nuovamente nel novero delle Nazioni floride. Occorreva convincerlo che questa era la sola possibilità, per realizzare il sogno dello Zar Pietro il Grande: far entrare a pieno titolo la Russia in Europa. Ma questa politica doveva esser svolta esclusivamente dall'Europa; infatti la stessa politica, intrapresa dalla NATO, cioè da tutto il resto del mondo che contava e capitanata dagli USA, era fieramente avversata dalla Russia. L’erede dell’URSS, quel coacervo di popoli, che stentava a divenire Nazione, vedeva in essa la continuazione del confronto, che l'aveva vista soccombere rovinosamente. La sua attuale classe dirigente temeva questa politica, se essa fosse stata portata avanti dallo stesso gruppo di Potenze, che avevano determinato il crollo dell’URSS nell’89. Quelle potenze, secondo gli umori che stavano circolando nell’immenso paese, volevano solo sferrare il colpo finale per lo smembramento, per la distruzione definitiva dell'idea della Russia, come Nazione. Di questo si parlava spesso in quelle riunioni, ormai tra amici, e si tracciavano le linee guida della politica, che sarebbe potuta divenire la politica della nuova Europa, se i suoi governanti avessero avuto il coraggio delle grandi decisioni. 324 Anzi, un po’ per gioco ed un poco per rendere più reale il gioco che stavano portando avanti, quel gruppo di uomini politici, che rappresentava in Europa le Nazioni più evolute, cooptò altri elementi di tutte le Nazioni che erano interessate al problema, per avere notizie dirette, viste sotto l'ottica di ciascuna Nazione. Fu così fondato un club dal nome altisonante, I Cavalieri della Tavola Rotonda, anche se, per ovvie ragioni, non fu data alcuna pubblicità al fatto; esso rimase relegato nello strettissimo ambito dei funzionari d'alto rango, che si muovevano nei palazzi d'Europa. In quella sede, furono discusse molte cause, mentre si salutava la partenza di Stollemberg per l'importante incarico, che avrebbe potuto contribuire a realizzare le loro teorie. I rappresentanti delle regioni depresse d'Europa non mancarono di far notare come, prima di rivolgersi fuori, occorresse sanare l'economia, malata in tante parti del Continente. La lamentela era giusta, ma come fare? Dopo molte discussioni fu deciso che il problema andava affrontato alla radice. Se, ad esempio, il sud dell'Italia aveva così tanti problemi, che si potevano riassumere in un unico titolo, sottosviluppo, e se questo sottosviluppo generava a sua volta problemi inquietanti come criminalità e droga, ciò non era certo dovuto a cause genetiche. Esse non intervengono quasi mai nella storia dei popoli, e meno che mai si potevano ipotizzare per le popolazioni del sud dell'Italia, che, pure, avevano fatto fiorire la straordinaria civiltà della Magna Grecia. Uguale sottosviluppo mordeva paesi e regioni d'Europa che già altre volte erano stati alla punta del progresso, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna, molte regioni della Gran Bretagna, e poi tutta l'Europa che, una volta, si chiamava dell'Est. Molteplici e sparse nel tempo erano le cause del sottosviluppo che bloccava quei popoli, ma unico era l'effetto: quei paesi non riuscivano a tener dietro al nucleo supersviluppato dell'Europa. Il problema era che l'organizzazione sociale di quelle regioni aveva preso una strada perversa, che aveva bloccato ogni possibilità di crescita armoniosa. Occorreva allora mutare l'organizzazione sociale di quelle nazioni, o di quelle regioni, che ne avevano una insufficiente, se quelle regioni, o quelle nazioni, volevano veramente entrare in Europa. Ma ritornava l'antico dilemma: come fare? La risoluzione adottata, dopo molte proposte, fu la seguente: l'Europa doveva darsi, al più presto, la possibilità di divenire un vero soggetto politico, con un Parlamento capace di legiferare e 325 di far valere le proprie leggi "Erga Omnes”1 , all'interno della Comunità, . Con un quadro di leggi, che avessero potuto fare da cornice ad un ordinato sviluppo delle varie regioni d'Europa, si poteva pensare d'eliminare gli squilibri, che ora si lamentavano. Certo, a tutti era noto il vecchio assunto di Platone per cui non esistono buone o cattive leggi, ma solo buoni o cattivi cittadini che sanno ubbidire, o riescono a svicolare dallo spirito delle leggi, magari applicandone vigliaccamente la lettera. Ma a questo si poteva rimediare; bastava fare leggi tali, per cui non era conveniente eluderle, perché l'elusione sarebbe costata così cara, che non sarebbe valsa la pena neppure il provarlo. Naturalmente questo presupponeva un corpus di leggi chiare, poche di numero, di rapida esecuzione, d'inflessibile controllo, con assoluta certezza di potere e di responsabilità nelle competenze. Non sarebbe stato facile. Vi sarebbero state molte resistenze locali, che si sarebbero ammantate sotto il pretesto delle particolarità nazionali, ma si poteva fare, fidando soprattutto sugli uomini di buona volontà che non mancano mai in ogni società, anche la più disastrata. Proprio mentre si parlava dell'Italia qualcuno sollevò il problema: "Ed il Vaticano? Quale sarà il ruolo della Chiesa di Roma in questa nuova Europa? Dovremo continuare a considerarla un elemento di disturbo, per l'illiberalità della sua posizione, che non accetta confronti sulle idee? Naturalmente una società liberale deve accettare qualsiasi forma di credo religioso, ma deve altresì porre chiaramente come limite invalicabile la laicità dello Stato; quindi il Vaticano rappresenta comunque un problema, che l’Europa deve discutere." Toccava ora a Tommaso, e la cura che egli stava mettendo, nel cercare le parole con cui esprimere concetti, che stavano sul filo del rasoio della credibilità, senza cadere nella trappola dell'eresia, era l'indice della difficoltà dei temi che andava esponendo. "Santa Romana Chiesa crede fermamente nel compito dell'uomo su questa terra. Proprio da come questo compito sarà svolto da ciascuno, Essa ricava il criterio di salvazione personale degli individui. 1 ERGA OMNES significa, in latino, nei confronti di tutti. 326 Questo compito presuppone un continuo adeguamento alle sfide che sono poste all'uomo, sfide che debbono esser combattute con gli strumenti leciti, che l'uomo riesce a fabbricarsi. L'essere cristiano impone la sola aderenza ai dieci comandamenti che Mosè ricevette sul Sinai più il Comandamento del Cristo: ama il prossimo tuo come te stesso. In quest'ottica, anche la morale laica, la cui massima espressione è la morale autonoma di Kant, rientra nella corretta applicazione dei Comandamenti, cui deve ubbidire un uomo, che si comporta da cristiano. Questo è il fare, che definisce, attraverso l'azione mossa dal pensiero, l'essenza di un vero cristiano. Altra cosa è il pensare, cioè il costruire un sistema compiuto e logico, che dia risposte razionali alle domande razionali dell'Uomo. Sarà tacciato di non essere cristiano, chi non crede che San Pietro volasse meglio di Simon Mago, o chi pensa che sarebbe meglio non raffigurare il volto della Divinità, perché ciò è impossibile, anzi deleterio per i più? Eppure questa era la posizione teologica della Chiesa, nei primissimi secoli della sua esistenza. Facciamo ora credito all’uomo, di percorrere altri cento secoli, sulla strada della sua storia. Le domande che egli si porrà, anche in quel tempo lontano, probabilmente saranno sempre le stesse; ma le possibili risposte, cui sarà pervenuta la teologia, parleranno ancora del volo di Pietro? Necessariamente, perché stiamo ipotizzando un avanzamento nel cammino della civiltà, tutto, nella stessa teologia, sarà, non dico cambiato, ma meglio espresso, considerato da una visuale più consona, visto in una prospettiva migliore e più probante. Che cosa rimarrà, necessariamente, di immutato? La necessità del Disegno, affinché l’uomo possa capire il Creato; la necessarietà dell’autocoscienza, per spiegare l’Universo. Del resto, io credo che il concetto di Disegno sia essenziale, soprattutto per coloro che non abbiano avuto il dono della Fede, ma hanno fede nel destino dell’uomo. Infatti, anche per essi occorre fare riferimento al Disegno, qualora non si voglia precipitare nel baratro, senza fondo, dello scetticismo. Se si è comunque accettato un essere pensante, che sia sorto dal Caos primigenio, o come si voglia chiamare la situazione precedente, altresì l’accettare logicamente che questo essere abbia la facoltà d'ordinare l’universo che lo contiene, è l’unica 327 possibilità, per dare, in qualche modo, una validità allo stesso suo destino. In questa opzione, il Disegno sarà esclusivamente opera dell’uomo. Egli, così, non conoscerà l’inizio del viaggio. Pure, per tutta la durata di questo, il suo disegno sarà identico a quello di noi cristiani. Riguardo a ciò, mi piace ricordare l’esempio, che sono solito fare. Il cristiano, dotato della sua fede, e l’agnostico, che ponga come unica realtà la sua ragione, possono esser assimilati a due viaggiatori su di un treno. Uno conosce la posizione di partenza e la stazione d’arrivo, l’altro non sa nulla di ciò, ma entrambi si trovano a viaggiare su quel treno. Anche l’agnostico, a meno che non voglia scendere, gettandosi fuori da esso, deve adoperarsi a compiere quel viaggio nelle migliori condizioni possibili. Quindi il problema, per entrambi, non è perché siano lì, ma come fare affinché quel viaggio sia condotto nel modo più razionale possibile. Per questo, entrambi debbono darsi da fare, e la loro azione deve rispondere agli stessi parametri. Il cristiano ha l’assoluta certezza che il suo spirito arriverà a concludere il compito che il Creatore ha stabilito. L’altro, non è sicuro affatto che ci sia stato qualcuno, che ha definito quel compito, nè che sarà lui ad portarlo a termine, nè che quella missione sarà mai conclusa. Egli è però certo che quel compito, ormai definito, va comunque fatto, o almeno tentato; e solo l’uomo, al momento, può mettervi mano. La missione ricevuta non è inutile o falsa e, ove l’uomo fallisse, un altro essere pensante sarà probabilmente suscitato, dall’infinito brulicare della vita nell’universo, per misurarsi in quel viaggio. L’uomo non dotato della fede può anche presumere logicamente che, forse, prima che quell’universo abbia termine, quel compito potrà essere concluso. Ove ciò non fosse, quell’universo avrà mancato al suo destino. Tutto questo non è in rotta di collisione con il compito del cristiano, anzi le due posizioni possono utilmente sostenersi a vicenda. Abbiamo dunque visto che le due facoltà, il fare ed il pensare, attengono a due momenti diversi, ma non certo divergenti, della vita dell’uomo. 328 L’uomo deve dunque fare il bene, cioè non opporsi al Disegno. Ma egli deve anche pensare il razionale, cioè esplorare tutti i campi dell’universo, con la sua arma distintiva: la ragione. Quindi, anche in quel tempo lontano, che abbiamo ipotizzato poc’anzi, il metro di giudizio, sull’operato dell’uomo sarà solo il fare. A questo proposito, e non stupitevi, vi ricorderò le parole di una mente, che i più credono lontanissima dal pensiero cattolico, quando essa immaginò di trovarsi di fronte al Principio Divino. “ IN NOME DELL’ETERNO CREATORE, CONSERVATORE, REMUNERATORE, VENDICATORE, MISERICORDE, (e così via, secondo tutte le possibili ipotesi in cui si può raffigurare il Principio Divino): SIA NOTO A TUTTI GLI ABITANTI DEI CENTOMILA MILIONI DI MILIARDI DI MONDI CHE CI PIACQUE CREARE, CHE NOI NON GIUDICHEREMO MAI NESSUNO DEI DETTI ABITANTI SULLE SUE STRAVAGANTI CONCEZIONI, MA UNICAMENTE IN BASE ALLE LORO AZIONI; POICHÉ’ TALE E’ LA NOSTRA GIUSTIZIA 2 . Certo, la teologia procede ed in essa si erge il Dogma dell'Infallibilità Papale, che blocca ogni possibilità di dialettica in campo religioso, perché ad un certo momento, che viene sempre dopo lunga riflessione e dopo aver considerato a fondo ogni ipotesi ed ogni prova, il Dogma pone fine all'incertezza e pone il sigillo alla questione. Ma questo è esclusivamente il campo della teologia, cioè della scienza dell'Uomo, la scienza che fa il disperato tentativo di confrontarsi con l'idea di Dio. In essa, un cristiano potrebbe avere una posizione che non collimi con quella della Chiesa e quel cristiano sbaglierebbe. Non per questo, però, ove fosse in buona fede, egli cesserebbe d'essere cristiano, o lo sarebbe di meno. Costui sarebbe solo un cristiano che sbaglia, avendo un pensiero che la Chiesa giudica erroneo, anche gravemente erroneo e tale da mettere fuori strada l'agire di coloro che s'accostano a tale pensiero. Questa è la preoccupazione della Chiesa: che un pensiero errato possa portare a comportamenti errati nel proprio gregge. Per questo, Essa interviene prontamente e sollecitamente. La Chiesa inoltre, pur essendo intimamente convinta che fuori del Cristo non vi è salvezza, riconosce, come già notò acutamente Papa Giovanni XXIII, che anche coloro che non si professano cristiani, possono avere comportamenti morali d'altissima qualità. Francois-Marie AROUET detto VOLTAIRE; DIZIONARIO FILOSOFICO, alla voce DOGMI; (Il maiuscolo è nel testo originale). 2 329 Noi, per il solo fatto che quelli sono gli stessi comportamenti che dovrebbe avere un cristiano, ne riconosciamo l'autore come nostro fratello, anche se lui non lo sa dire, o professa apertamente altri ideali. Inoltre, nell’ambito della Chiesa, noi abbiamo iniziato una grande opera di rilettura critica della nostra posizione. All'interno della Chiesa, infatti, sono attentamente vagliate situazioni ormai logore, schemi divenuti superati, concetti obsoleti, veri e propri errori concettuali e nella prassi. Abbiamo più volte detto, in tutta sincerità e con grande dolore, che, in alcuni episodi, abbiamo avuto gravi colpe, come nel trattamento che la Chiesa, in passato, ha riservato agli Ebrei o per la frequentazione assidua del Potere, a scapito del Povero. Abbiamo riconosciuto che l'abitudine è la più deleteria forma in cui possa adagiarsi il cervello dell'uomo, perché contraddice totalmente la principale caratteristica della mente umana, cioè la curiosità intellettuale. Per questo, abbiamo compiuto un imponente lavoro di riesame di molte nostre posizioni, per liberare l'insegnamento del Cristo dalle scorie che gli uomini vi hanno depositato sopra, in duemila anni di storia. Forti di questo esame critico, effettuato da noi con estrema severità, ci volgiamo però a quanto ha saputo fare, nel contempo, la Chiesa. La Sua attuale posizione sociale è la più avanzata, tra tutte le teorie finora espresse al riguardo. La Sua opera a favore di coloro che soffrono in tutto il mondo è un esempio per tutti. La Sua voce, affinché la giustizia e la pace possano finalmente trovare albergo nel cuore degli uomini del nostro tempo, è la più alta, tra quelle che proclamano questa esigenza. Il Suo giudizio, spesso severo, cerca di riportare l'uomo a considerare quale deve essere il suo obbiettivo finale. A tutti è chiaro che il pensiero della Chiesa non nasconde secondi fini, essendo ormai definito il suo fine ultimo: l'annuncio della Buona Novella. Se invece entriamo nel merito dei problemi che sono addebitati, da molti, al Magistero della Chiesa, possiamo sviscerarne brevemente la problematica. In primo luogo l'attenzione alla vita, che si manifesta in molteplici maniere. Sembra pacifico ai più, che, quando l'uovo è stato fecondato, nel preciso momento che lo spermatozoo entra nell'ovulo, la vita sia iniziata. 330 Se la vita è iniziata, ogni azione contraria a questa vita è un crimine mortale. Alcuni fanno questioni di lana caprina, discutendo su quell'incipit. Prendiamo un esempio dalla legislazione giuridica di tutti i Paesi della terra, per dimostrare quanto vado dicendo. Se un uomo uccide un altro uomo, anche se questi fosse gravissimamente malato, anche se per avventura quell'uomo stesse esalando l'ultimo respiro, questo sarebbe un omicidio. Se invece un uomo infigge un colpo che potrebbe esser considerato mortale su un altro uomo, ma che colpisce un uomo che è appena morto, quel delitto è molto meno grave, trattandosi di vilipendio di cadavere. Così, sopprimere una vita che è appena nata, anche se solo abbozzata, è un crimine; mentre, se non è avvenuto l'incontro tra uovo e spermatozoo, ogni opposizione al fatto acquisisce molta minor gravità. È strana poi la posizione di coloro che, predicando una razionalità scientifica su questi problemi, si meravigliano dell'aridità dei preti, nel discuterne. La scienza non consente passione. Ma alcuni vanno affermando che la Chiesa s'oppone alla regolamentazione delle nascite, non facendo nulla per evitare situazioni tristissime. Nascono infatti, milioni di bambini che avrebbero fatto meglio a non nascere, piuttosto che morire di stenti e di fame, in troppe parti del mondo, in massima parte nei paesi poveri, ma, spesso, anche nelle fasce povere dei paesi ricchi. Nel non opporsi a ciò, a detta di questi critici, la Chiesa evita anche che sia innalzata una barriera al male che sta divorando il mondo, la sindrome d'immunodeficienza acquisita. Questa chiamata a correo, perché di questo si tratta, in quanto s'ipotizza la complicità della Chiesa nel giudicare comportamenti non corretti, non può essere accettata, proprio perché la Chiesa vuol lasciare all'uomo, ad ogni uomo, la responsabilità totale del suo comportamento. Se la Chiesa autorizzasse comportamenti in deroga su questo problema, tutta l'impostazione dei fatti verrebbe trascinata in una deriva, difficilissima da arrestare. La Chiesa si limita a sostenere che bloccare il miracolo della vita è delitto, da qualunque momento esso sia messo in atto, dopo il concepimento. La Chiesa si limita ad affermare che tentare di bloccare questo miracolo, prima che esso si compia, è azione pericolosa. Non tanto per i metodi più o meno scientifici con cui si attua questo blocco, ma perché quest'atto va contro il comandamento 331 principe della morale, sia essa quella cristiana sia quella laica: considera l'umanità che è in te e quella che è fuori di te, sempre come fine e mai come mezzo. La Chiesa si limita a spiegare che la ricerca del piacere sessuale è lecita, nell'ambito della vita di coppia. L'uomo, ogni uomo, troverà, nella propria coscienza, la capacità di spingersi più o meno oltre, in un comportamento, che può divenire pericoloso. Egli dovrà giudicare, insieme con la sua donna, come realizzare al meglio quel Comandamento, nella propria famiglia. Egli userà il discernimento, proprio del buon padre, nell'evitare una vita grama e senza possibilità, se i suoi figli sono troppi. Ma impedirà anche che essi siano troppo pochi, al solo scopo di potersi così concedere, delle sovrastrutture, inutili per se e deleterie per i figli. Invece la pretesa dei più è diversa. Partendo da casi particolari, si vorrebbe che la Chiesa dimenticasse, e facesse dimenticare, la norma generale, la Legge, sacra per la religione, ma anche per il diritto: non uccidere. Si vorrebbe che la Chiesa, accompagnando un individuo nel corso della sua esistenza, quando questi si trova dinanzi alla possibilità di attuare un comportamento pericoloso, non dicesse a lui che esiste quel pericolo. Facciamo il caso di un uomo che s'affacciasse sul tetto di un palazzo di venti piani, senza parapetto. È dovere della Chiesa dirgli: attenzione, questo è un comportamento a rischio. Se poi quell'individuo sa come comportarsi in quella situazione, allora il problema è sotto controllo; ma la Chiesa non può esimersi dal farlo presente. Questo vale per tutti i comportamenti etici a rischio, che possano esser catalogati come non rispondenti alla vecchia regola di Kant: "Agisci in modo che il tuo comportamento possa esser preso a modello di una legislazione universale". Ciò impone, anche alla Chiesa, di non poter più sottrarsi al confronto delle idee. Quanto poi alla volontà di potenza della Chiesa di Roma, il corso della storia, come lo chiamate voi, liberi pensatori, l'azione dello Spirito Santo, come preferiamo intenderlo noi, dotati del dono della Fede, già da un secolo ha provveduto a sgomberare il campo da quello che era divenuto un impaccio storico e morale. Il potere temporale della Chiesa, e la sua proposizione come necessario raccordo tra Potere divino e potere umano, dopo 332 aver avuto la sua funzione nei secoli precedenti, è ormai definitivamente tramontato, anche come ipotesi storica. Superato il concetto del potere derivante dal Potere divino, la posizione della Chiesa è tornata, per fortuna, o meglio, per l'intervento diretto di quella forza divina che opera nel mondo, al suo primitivo compito, in difesa dei bisognosi, degli umili, di coloro che non hanno, rispetto a coloro che hanno troppo. Certo che, forse, se scavate in qualche vecchia canonica della Vandea, potreste perfino trovare qualche buon prete, alla fine della sua esperienza umana, che rimpianga il potere temporale dei Papi, ma la storia s'evolve, anche per noi. Non abbiate dunque paura, la Chiesa è con voi, vede con rispetto quell'ideale che voi volete costruire ed intende parteciparvi, come vuole fattivamente partecipare a tutti quei disegni dell'uomo, tesi a farlo progredire sul percorso della sua Storia. Ciò al solo scopo di rendere sempre più evidente quell'anelito di giustizia che la riempie; nel rispetto delle diversità d'ogni posizione, ciascuna delle quali rappresenta, e contiene in se, una scintilla del pensiero, il signum impresso all'Uomo dall'Onnipotente, comunque degno di attenzione". "Un'altra domanda, Eccellenza, come legge la Chiesa il problema degli omosessuali?" chiese il rappresentante olandese, forse personalmente interessato a questa curiosità. "La Chiesa non rifugge dallo studiare problemi gravi, che coinvolgono la personalità dell'uomo. L'essere omosessuale è una condizione che contraddice il compito dell'uomo su questa terra: se tutti fossero omosessuali l'Umanità s'estinguerebbe in breve tempo. Quindi se, per avventura, gli uomini divenissero tutti o preti od omosessuali, l'Uomo sarebbe condannato all'estinzione. Ma, per fortuna non è così, e pertanto l'eventualità non si pone. Dal diritto canonico è richiesto, a chi vuole ricevere il signum, che lo definisce "Ministro di Dio" o più semplicemente prete, che egli sia in possesso della " potentia coeundi et generandi " 3 . In questo modo, la sua rinuncia al sesso sarà la sublimazione di una facoltà ben presente in lui, non un compito di ripiego per un essere, che alcuni possono considerare un uomo non completo. La Chiesa non pensa che un omosessuale sia un handicappato. 3 Possibilità di compiere l’atto sessuale e di generare (figli). 333 Questo non significa però che la posizione omosessuale sia utile per l’Umanità. Ma procediamo: il precedente esempio ora ci ritorna a proposito. Consideriamo l’ipotesi proposta. In una situazione rischiosa, o drammatica, l'uomo, che si è messo in quella posizione, per indole, per consuetudine familiare, per abitudini sociali o di gruppo, tuttavia riesce ad evitarne i pericoli, qualsiasi genere di pericoli, da quelli fisici e psicologici a quelli comportamentali e sociali. Egli trova, in queste condizioni, la forza di costruire un legame con un adulto consenziente, e cosciente del medesimo pericolo che anch'egli corre. Se in questo rapporto si riesce a stabilire un sentimento vero d'amore tra due individui, non sarà la Chiesa a negare questo amore, anche se ne riconosce l'enorme difficoltà che esso possa divenire un sentimento limpido". "Lei, Eccellenza, può darci una sua definizione del MALE? Lei crede al Diavolo?" “Da quanto ho prima argomentato, la risposta mi sembra ovvia. Il male, per me, è porsi volontariamente fuori dal Disegno, fuori dal compito, ancora misterioso, affidato dal Creatore all’essere pensante. Vede, se noi non abbiamo chiarissimo questo punto, non riusciremo mai, come non è riuscita tutta la filosofia, a dare un senso logico agli eterni perché, già da lungo tempo individuati. L’origine e la presenza del male nel mondo, il libero arbitrio, in altre parole il rapporto tra l’onniscienza divina e la libertà umana, la stessa necessità dell’avventura dell’uomo nell’universo, sono problemi insolubili, ove essi non si considerino nella visione complessiva del Disegno. Solo se saremo capaci, invece, di scorgere, sia pure a grandi linee, sia pure nelle nebbie del nostro limitato raziocinio, la presenza del Disegno, potremo comprendere, in un sistema razionale, la necessità dell’avventura umana, il suo libero arbitrio, il dolore, il male. Quanto poi al concetto storico del Male, occorre fare alcuni distinguo. Fin dall’inizio della religione monoteista, i concetti del Bene e del Male promanavano entrambi dalla Divinità. Così Amos, il profeta-pastore dell’ottavo secolo avanti Cristo, poteva affermare: 334 “S’avvera forse del male in città, senza che il Signore ne sia l’autore? 4 . Poco dopo, il secondo libro di Isaia fa pronunciare queste parole al Signore: “Io formo la luce, creo le tenebre, opero il bene, creo il male: sono io, il Signore che opero tutto questo5” . Per incontrare il concetto di Shaitan, il Diavolo, entità propria, fuori da Dio, occorrerà giungere al quarto- terzo secolo a.C. Ciò avvenne parecchio dopo che la religione ebraica aveva conosciuto ed aveva avuto contatti con le altre religioni, specificatamente con il Madzeismo, nel crogiolo unificante dell’impero persiano, ai tempi della schiavitù babilonese. Quella figura sinistra è evocata nelle Cronache 6 , l’ultimo libro del canone ebraico, il libro che la tradizione cristiana chiamava “I paralipomeni“, in altre parole “le cose omesse“, i fatti tralasciati dal libro dei Re. Si noti altresì che questa è la prima e l’unica volta che, nel Vecchio Testamento, si nomina il Demonio. Evidentemente questo concetto è stato una commistione con la religione di Zoroastro, un cedimento al modo di pensare dell’oriente persiano o, forse, delle religioni del rifiuto. Ben altrimenti l’Ebraismo, in quel mirabile libro che analizza a fondo questo concetto, il libro di Giobbe, pone il problema e lo definisce. Dio è l’autore, l’origine del bene e del male. L’uomo non ardisca tentare di capire il perché, in quanto questa è prerogativa divina, il frutto proibito che ha generato il peccato originale. Però, sempre più spesso, nel Cristianesimo, si è tentato di dare una validità oggettiva al concetto di male, si è tentato di definire il Diavolo, pur se con molti distinguo; in pratica non attribuendo, a questo concetto, una priorità pari al concetto di Dio. Per questo, infatti, la posizione manichea, discendente dal Mazdeismo, cioè quella dottrina basata sulla coesistenza e la Libro di AMOS 3,6. Libro di ISAIA 45,7. 6 CRONACHE 21,1. 4 5 335 lotta di due princìpi opposti del bene e del male, con tutte le sue derivazioni e conseguenze, è stata definita eretica dalla Chiesa. Come ho già detto, personalmente vedo, in queste teorie, una deriva verso concezioni non centrali, del pensiero religioso della nostra civiltà. Se poi, nello strologare del diavolo, s’intenda riferirsi ad un Essere che interviene nelle faccende degli uomini, per allontanarli dall'idea di Dio, devo dire che rimango un po’ scettico, al riguardo. Io riconosco infatti, in questa immagine, quello che resta della magia e del tentativo antichissimo di costruire un modello dell'Universo, non partendo da regole logiche, a meno che non s'intenda parlare dell'antico dualismo tra il Bene ed il Male, dell'eterna lotta tra Ormudz ed Arimane. Su questo punto occorre esser ben chiari: la magia era la forma con la quale i Magi, che poi erano la casta sacerdotale dei Medio-Persiani, avevano tentato una spiegazione del Mondo. Tale modo d'interpretare i fenomeni naturali ha quindi un'origine antichissima, anche se le sue derivazioni sono ancora ben presenti nel momento attuale, avendo esse così generato l'astrologia, le sette demoniache, il proliferare di maghi e veggenti, pur nel nostro mondo moderno. Ma tutto questo è il portato di una visione prelogica del mondo, dovuta ad un particolare momento della civiltà dell'Uomo; momento ormai completamente superato, anche se ne rimangono strascichi, negli strati meno evoluti della popolazione. Altra cosa è invece la religione dualistica, definita una prima volta da Zoroastro, o Zaratustra, riformatore religioso dell'antico Iran, che è vissuto, come sapete, tra il Mille ed il Seicento avanti Cristo. Essa fu poi ripresa da Mani, un persiano vissuto nel terzo secolo della nostra era, che trasportò il concetto della lotta tra il bene ed il male nel cristianesimo primitivo, dando origine a tutte quelle posizioni eretiche che abbiamo già considerato. Nella religione di Zoroastro, conosciuta come Madzeismo, erano definiti due princìpi, il Bene (Ahura Mazda, in sanscrito o, nella sua accezione persiana, Ormudz) ed il Male (Angra Mainyu ovvero Ahriman), continuamente in conflitto tra loro, per il dominio del mondo. L'uomo retto deve prendere posizione in questa lotta, fino al definitivo trionfo del Bene. Zoroastro, che ebbe un notevole influsso sull'Ebraismo, sull'Islamismo e sulla stessa religione cristiana, postulò dunque che lo scontro tra i due princìpi informatori doveva logicamente 336 portare ad una definizione oggettiva del Male e quindi, del Demonio, come entità definita. Infatti il mondo, creato da Dio, avrebbe dovuto essere, come ogni Sua opera, perfetta. Se così non fosse stato, allora si doveva presumere che un principio, opposto al bene divino, lottasse con lui, per il dominio dell’universo. Questa è la necessità oggettiva che le religioni dualistiche offrono, per spiegare la presenza del male nel Creato. Anche se la Chiesa, spesso, ha dato l'impressione di credere ad un'entità definita, per lo spirito del Male, identificandolo con Satana, l'angelo ribelle, non vi è, nella nostra visione, una contrapposizione di princìpi. Satana non è il contraltare di Dio, unico principio informatore della nostra religione. D'altronde il Cristianesimo, pur annunciato dal Cristo, ha passato la sua essenza costitutiva nella civiltà greco romana, prendendo, da questa, la necessità di uno sviluppo logico e coerente per ogni sistema teologico. E’ stato così rigettato, pur con notevoli sforzi e discussioni, ogni accenno magico o illogico, ancora presente nel suo contesto. Per questo il Cristianesimo è la religione sorta nella civiltà Occidentale, quella civiltà che si rifà ai valori propri di Atene e Roma. Quindi, quando io penso al Male, preferisco considerarlo, con Sant'Agostino, come lontananza dal Bene, difformità dal principio informatore, piuttosto che raffigurarmelo come caprone dalle sembianze mostruose, sempre dedito a sconcezze sessuali. Il Male è ciò che s'oppone al Disegno, è il tentativo di distrarre l'uomo dal suo cammino, è mancanza di comunione con la Via, è lontananza da Dio". "Ma, allora, il miracolo?..." Tommaso non fece finire la domanda. "Il miracolo è definito da san Tommaso d'Aquino, come: "Quae praeter ordinem communiter statutum in rebus quandoque divinitus fiunt - Le cose, che, talvolta, accadono, per volontà divina, al di là dell'ordine, comunemente stabilito per esse" 7. Il miracolo è stabilito da Hume, con questa definizione: "A miracle is a violation of the law of nature8 - il miracolo è una violazione delle leggi della natura" 7 8 S.TOMMASO- CONTRA GENTILES-III,101. David HUME, filosofo inglese-1711-1776; ESSAYS 11,10. 337 Confrontando queste due definizioni, il miracolo parrebbe non rientrare nella legge di natura. Ma occorre, per prima cosa, metterci d'accordo sui termini che usiamo, come insegnava già Socrate. Da un punto di vista strettamente filosofico, possiamo definire il miracolo in queste accezioni: a -Fatto sorprendente, riconducibile ad un intervento divino, che sospende momentaneamente le leggi di natura. b -fatto di cui non si conosce la causa. c -fatto mirabile per perfezione, potenza ed altri concetti analoghi. Rispetto al primo tipo, consideriamo il miracolo più "miracoloso" di cui abbiamo conoscenza: il "Fermati, o Sole" di Giosuè, nella battaglia di Gabaon (Gs.10-12). Alla nostra sensibilità logica appare veramente eccessivo che, sia pur per un intervento miracoloso a favore del popolo del Patto, Dio sia intervenuto sulle leggi della gravitazione universale per permettere la vittoria completa di Giosuè. Certo, Dio è onnipotente; ma l’onnipotenza, proprio perchè virtù divina, si manifesta, a mio avviso, più compiutamente, quando ottiene il massimo del risultato col minimo sforzo. Intendo cioè dire che, più che ipotizzare, nella fattispecie, un intervento diretto della divinità sulla traiettoria del sole, con conseguente aggrovigliamento di tutte le orbite del sistema solare, preferisco ipotizzare un suo intervento sulle menti degli uomini che si trovarono a vivere quell’episodio favoloso. Questo significa che, per ogni miracolo, è possibile ipotizzare altre ragioni, che non violentino in maniera estrema l'“ordinem communiter statutum in rebus“, ma possano esser ricondotte a cause più confacenti con la legge naturale delle cose. Bene ha fatto la Chiesa su quest'argomento, a non porre un sigillo irremovibile, lasciando alla particolare sensibilità dei fedeli, la posizione di ciascuno, rispetto al miracolo. Per conto mio, ritengo miracoli impressionanti: la bellezza di un fiore, il volto di un bambino o il cielo stellato; essi sono i fenomeni più alti della manifestazione di Dio, perché espressa in un contesto logico". “Ancora una domanda: e, allora, la Fede?" "Vi sono molte strade per arrivare a godere del dono della fede, dono particolarissimo di Dio ad alcune persone, dato in base a suoi imperscrutabili motivi. La fede può nascere nell'agnostico più intransigente, per una rivelazione folgorante, come successe a Paolo, quando ancora si chiamava Saulo. 338 Essa può esser il risultato di una concatenazione logica, che serva a dare un significato al mondo, altrimenti non razionale, come è accaduto a me. Può scaturire da un atto d'amore di Dio per una sua creatura, come racconta Francesco d'Assisi. Può giungere dopo una vita dissoluta, come dicono sia accaduto a Sant'Agostino, oppure essere il segno Divino in un fanciullo, come testimoniano le schiere dei martiri bambini. Dunque la fede è il dono che ci fa Dio, quando vuol farci vedere il disegno, la necessità dello svolgersi dell'uomo verso un cammino che egli deve compiere, per giustificare l'esistenza del Creato. Per questo, la fede è essenzialmente ricerca, non sottomissione ad un dogma esteriore o attesa inerte e passiva del suo arrivo. Per questa sua scoperta, Agostino mette il sigillo alla patristica, l'edificazione, da parte dei padri della Chiesa, del grande sistema dottrinario cristiano". “Abbiamo parlato, finora, di problemi attinenti al magistero della Chiesa.-intervenne uno dei partecipanti-Ora, però, viene la domanda principale, quella che interessa noi, come esponenti di quella realtà che chiamiamo Europa e che temiamo possa esser, in qualche modo, osteggiata dalla Chiesa, come soggetto politico. Del resto, la storia del millennio che sta per concludersi è tutta intessuta delle lotte tra concezione religiosa e concezione laica della vita. Dopo che la politica ha saputo scrollarsi di dosso la remora religiosa, che avrebbe condotto ad una visione integralista, islamica, della vita sociale, la Chiesa non farà da ancora, da freno, all’ordinamento laico del mondo moderno, cercando, anche inconsciamente, di rallentarne lo sviluppo? Insomma, mi dia, se le è possibile, una risposta certa, alla domanda che indaga sulla necessità del Papato, nel mondo moderno”. “La sua domanda, tanto precisa da essere quasi brutale, m'obbliga a darle una risposta altrettanto precisa, e la ringrazio, per questo. Vede, al di là delle questioni effimere, delle mode, esistono idee forti, capisaldi, che informano di se il cammino dell’uomo, quello che noi chiamiamo “Civiltà“. 339 Così, accettiamo il concetto di libertà, come concetto informatore della nostra civiltà, concetto ideato e codificato dalla polis greca, venticinque secoli or sono. Il metodo usato, per giungere a tale concetto, fu l’indagine logica sul mondo che ci circonda, condotta con quei criteri, che noi diciamo essere gli strumenti della filosofia, altra, grande, conquista dello spirito greco. Quel concetto ebbe un ulteriore ampliamento, fece un vero e proprio salto di qualità, quando Roma astrasse, dalle leggi particolari, proprie d'ogni gente, la superiore visione della Societas, che noi conosciamo come Diritto. Questo è, infatti, un sistema che codifica tutto un modo di concepire l’organizzazione sociale della vita umana; esso ha una sua validità propria, al di là delle singole leggi. Il Diritto è figlio della logica e della morale, cioè della speculazione filosofica, propria del pensiero greco e della prassi, del modo in cui si deve comportare un uomo, una civiltà, se vuole andare avanti. Questo è stato il grande contributo di Roma, alla nostra civiltà. Venne poi un Rabbi ebreo, al tempo di Cesare Augusto, a far emergere, sul filone del monoteismo israelitico, la necessità di riconoscere il principio creatore dell’universo, come nostro padre. Esso è, infatti, il carattere da cui s'origina, deriva, discende, il segno costitutivo dell’uomo: la sua intelligenza; quella qualità che ha permesso che egli giungesse all’autocoscienza. Questa formulazione dava una risposta forte ad una domanda, che era stata espressa già dal pensiero greco, da Aristotele, quando egli poneva tutto un mondo, al di là del mondo sensibile, ta metà phisicà, dichiarandolo inconoscibile, per l’esperienza umana. Però, pur inconoscibile, quel mondo, nondimeno, esisteva, e l’uomo ne avvertiva l’esistenza, provando un senso d’impotenza, quasi d'angoscia, nel non poter varcare quel limite. Per questo, tutta l’antichità greco-romana è pervasa di una sensazione d'inanità, da un sottile spleen, avvertito dalle anime più sensibili, che faceva ipotizzare un “Dio sconosciuto“, un principio informatore, fuori dalla possibilità di comprensione, da parte dell’uomo. 340 Il sentire comune aveva nascosto questa confusa aspirazione, nel racconto mitologico, che riteneva, perfino gli dei, sottomessi al Fato, l’Ananke. L’umanità più avvertita di quel tempo, aveva creduto di riconoscere l’impronta di questa divinità superiore nel Caos primigenio, da cui tutto era nato, secondo una sequenza che si credeva casuale, perché non si sapeva da chi farla discendere. Il Cristo diede una risposta chiara e logica alla ricerca del perchè. La verità rivoluzionaria, proclamata da Jhoshua di Nazaret, pose i detentori di quella verità in una posizione di forza, quando il mondo greco-romano parve franare, sotto i colpi dell’alluvione barbara. Infatti quel pensiero, Dio-padre, era l’unico che potesse resistere alla rovina della civiltà, il solo, che aveva in sé, la possibilità di rimettere in moto il cammino dell’uomo, verso il proprio destino. Così, quando il cammino riprese, gli esponenti più autorevoli del pensiero, che aveva reso possibile quella nuova partenza, credettero d'essere i depositari d'ogni autorità, perché la loro autorità proveniva direttamente da quel Dio, che Gesù aveva cosi mirabilmente portato agli uomini. Anzi la loro Autorità divenne, nella loro concezione, il punto di raccordo tra l’Autorità divina e le autorità umane; il necessario passaggio tra l’Una e le altre, l’unico che potesse dare una legittimità, alle deboli e transeunti autorità dell’uomo. Pure, già all’inizio del nostro millennio, che va concludendosi, le menti più avvertite, tra gli uomini, avevano compreso che quest'impostazione era fuorviante. Già subito dopo il mille, uomini come Gioacchino da Fiore, Marsilio da Padova, lo stesso Dante Alighieri, postulavano che la Provvidenza aveva voluto distinti i due poteri, quello religioso e quello politico, in modo che fosse affidata al primo, la potestà d'avviare le anime alla vita eterna, ed al secondo, la missione d'attuare la felicità, o almeno la vita ordinata, degli uomini su questa terra. E’ occorso quasi un millennio, perché questa semplice verità divenisse patrimonio comune, e non è stato un millennio facile. 341 Eppure, al solito, la parola del Cristo era lì, semplice e chiara: ”Date a Cesare quel che è di Cesare“ 9. Occorreva solo saperla vedere. Sbaglia, però, chi volesse scorgere, in questo, solo un errore, una colpa della Chiesa, che ha fatto perdere mille anni al cammino dell’uomo. Era necessario che l’uomo fosse marcato in maniera indelebile, affinché egli non dimentichi mai, nel corso della sua storia, la necessità di tener presente ta metà phisica, il mondo oltre il sensibile, in modo che non s'allontani mai dal dialogo con il divino. La Provvidenza, cioè il Disegno di Dio in cui è inserito il destino dell’uomo, ha saputo usare quest’abbaglio della Chiesa, per rendere più sicuro, e, forse, più spedito, il cammino dell’umanità. Noi, uomini di Chiesa, riconosciamo ora, l’errore in cui eravamo caduti e ne facciamo ammenda. Questa è la risposta certa alla sua domanda, quella che cercava se vi fosse, ancora, una necessità per la Chiesa del Cristo nella società che voi volete creare e che anche noi auspichiamo. Riconosciamo inoltre che ogni grano di verità, conquistato comunque dall’uomo, è prezioso. Nel contempo, assicuriamo della nostra buona fede e ci diciamo pronti, a camminare sulla strada della civiltà dell’uomo, sicuri che, al termine di quella strada, noi troveremo il principio che c'ispira”. “Sarà come dice Lei, ma tanti e tali sono gli errori, i crimini, le nefandezze compiute dalla Chiesa di Roma sulla carne dei popoli di tutto il mondo, così forte è stata la lotta che ogni Nazione ha dovuto compiere per sottrarsi alla feroce tutela del Vaticano, così rari sono i suoi uomini che sembrano essersi scrollati di dosso tutto il peso insostenibile dei suoi dogmi che ritengo debba passare molto tempo prima di accettare il Vaticano tra i soci dell’Europa che noi vagheggiamo. Ci vorrà una vera rivoluzione nel corpo di Santa Romana Chiesa, una sua ammissione di colpa completa, ed una ritrattazione totale della sua posizione dottrinaria, prima di riconoscere come buone le radici cristiane, che pure esistono nei nostri popoli”. 9 Dal Vangelo di Marco 12,17. 342 Coloro che erano pregiudizialmente contrari all'idea della Chiesa come partecipe dello sviluppo umano non furono persuasi del tutto, dalle tesi esposte dell'Arcivescovo di Reims; ma quasi nessuno pensò che Egli fosse in cattiva fede. Anzi il sentimento generale s'inchinava con rispetto di fronte alle convinzioni di un uomo, che era evidentemente capace di testimoniarle, in maniera così netta e completa. Si sospettava però e si temeva che quella posizione rimanesse circoscritta a pochi elementi, che venivano definiti “cristiani adulti” ma che non intaccasse minimamente il pensiero della Chiesa, che, anzi, li usava come specchietto per le allodole, nel tentativo di continuare la sua politica di potenza. Quindi, l’opinione dei più, così come quella dei più aderenti alle tesi della rivoluzione laica, nata in Europa sul filone della Riforma, cresciuta per quattro secoli sotto i lumi della scienza, svincolatasi dalla necessità di un Dio creatore e di una religione che non ammetteva discussione mediante la rivoluzione del materialismo marxista e dell’evoluzionismo darwiniano, non rimaneva convinta: si stavano ponendo le basi per quel pensiero europeo che non accettava più il cristianesimo tra le radici europee. 343 CAPITOLO XXV PRINCEPS ECCLESIAE Quale è il metodo con cui le grandi organizzazioni dell'Umanità scelgono i loro massimi rappresentanti? Le strutture politiche hanno trovato, dalla storia inglese e dalla rivoluzione francese, il metodo dell'elezione democratica, cioè una scelta operata dalla forza del numero. I complessi meglio organizzati o più fortemente strutturati sotto un capo, che può essere o meno anche il padrone, usano il sistema della cooptazione. In altre parole il nucleo dirigente di quell'organizzazione sceglie i migliori, coloro che emergono dalla massa per caratteristiche proprie, e li promuove a massimo dirigente. Questo fatto espone però quelli, che sono in grado di dare la scalata ai vertici di un'organizzazione, alle possibili, anzi alle probabili e spesso certe interferenze e costrizioni da parte del padrone, o dei padroni, di quella stessa organizzazione, su coloro che aspirano a divenire i più stretti collaboratori del capo, che è in carica in quel momento. Rimane così definita una continua ingerenza, da parte di chi è padrone di un'organizzazione; ingerenza che diviene pesante proprio nel momento in cui, avendo un capo cessato il proprio compito, interviene il padrone per stabilire chi debba essere il nuovo capo. Come verrà dunque definito un sistema di ricerca dei massimi livelli di un'organizzazione, che manca di padroni, ma ha un Capo indiscusso e indiscutibile, ed in cui la scelta avviene unicamente su designazione del Capo? Egli, con questa sua scelta, immette il prescelto in un contesto, che dovrà poi, a sua volta, scegliere il nuovo Capo, una volta che il precedente venga a mancare, in un'assemblea che non ha altri condizionamenti. Singolarissima posizione, che solo Santa Romana Chiesa può sostenere e che i suoi adepti giustificano con l'intervento dello Spirito Santo, cioè con la presenza del Divino in questo mondo; presenza che agisce nel solco della Provvidenza, per attuare il Disegno. Così la Provvidenza continuò il proprio disegno e Tommaso fu nominato Cardinale di Santa Romana Chiesa, nella traccia del suo Maestro, il Cardinal Van der Groe, e del Maestro di lui, il Cardinal Bea. La lunga navigazione che il vascello della Compagnia di Gesù aveva iniziato a compiere, per allontanarsi dalle terre aride e 344 senza speranza del rifiuto, da parte della Chiesa di Roma, di sentire le ragioni dell'uomo, per proclamare solo le ragioni del Divino, stava per approdare a lidi più sereni. Quel tragitto era stato compiuto senza aver urtato, come molti temevano, sugli scogli dell'eresia: il vascello di Pietro era più saldo che mai ed il mare aperto, che stava navigando, dimostrava che lo scafo era in eccellenti condizioni. La nuova dignità rinforzò in Tommaso - speriamo che ora voglia permetterci quello che è certamente un ardire, nel chiamarlo ancora per nome - la sua volontà nel portare avanti, con forza sempre maggiore, quello che era stato lo scopo della sua vita: dare un significato all'esistenza, solo mediante l'accettazione del valore del Disegno divino, annunciato dal Cristo. È certo una cosa meravigliosa, quando la mente riconosce il miracolo del Disegno, mediante un processo misterioso, attivato da una causa, che gli uomini chiamano Grazia ed il cui risultato, nell'animo umano, porta alla Fede. Processo meraviglioso e misterioso, che però non include una partecipazione così attiva, quale quella che necessariamente deve compiere un uomo, quando giunge alla fede mediante il riconoscimento che non vi è altra possibilità di dare un motivo al mondo ed alle sue sciagure, se non accettando, volontariamente appunto, il Disegno. Solo quell'accettazione può dare un significato alle tragedie dell'Uomo; solo mediante quell'accettazione, un'esistenza può superare il baratro dello scetticismo che rende la vita un peso indegno d'essere vissuto. Quando poi quell'accettazione è compiuta, quando si è giunti alla contemplazione del Disegno, allora ogni forza, ogni pensiero, ogni azione è necessariamente attuata, affinché il Disegno si dispieghi in tutta la sua grandiosa bellezza, in modo che tutti possano vederlo ed esserne partecipi. Ma, per arrivare a questo, molto ancora occorreva lavorare nel corpo di Santa Romana Chiesa, per renderlo quello strumento perfetto, che sarebbe servito, per portare innanzi il suo compito. Lasciamo però, almeno per ora, le disquisizioni filosofiche e seguiamo l'avventura umana di Sua Eminenza, l'Arcivescovo di Reims Tommaso Fernays, Cardinale di Santa Romana Chiesa. Il segno più visibile della sua nuova dignità fu la scorta che la Suretè aveva preso a fornirgli, specialmente nelle sue lunghe passeggiate in bicicletta. Il proseguire questa sua vecchia abitudine, iniziata in gioventù quando egli non aveva i soldi per comperarsi neppure una motoretta e mantenuta sempre, anche quando era diventato Vescovo, gli aveva permesso, oltre ad un salutare esercizio fisico, anche un continuo spostamento nella sua Diocesi. 345 Così egli si presentava, alle ore più impensate e nei momenti meno opportuni per i poveri parroci, che da lui dipendevano. Essi se lo vedevano piombare in casa, accompagnato da un giovane prete, con l'aria di chi passava di lì per caso, ma con la consapevolezza che quello, caso non era, ma una visita, dovuta quasi sempre ad un motivo ben preciso. La sua passione per la bicicletta, che aveva sempre avuto, gli aveva consentito di preservare il suo fisico, rimasto sempre asciutto e ben messo, come si conviene ad uno sportivo vero. Naturalmente Tommaso non faceva, di questo suo passatempo, un momento essenziale della sua vita, ma solo una gradevole attività secondaria. E così ormai, non era raro vedere uno strano corteo, composto da una macchina della polizia, che fungeva da apripista, un gruppetto di giovani ciclisti, disposti a ventaglio intorno ad un ciclista un po’ meno giovane, ma che tirava spesso la volata, ed un'altra macchina della polizia, che chiudeva un corteo, che si snodava sulle strade meno frequentate, nella campagna intorno a Reims. Ora però la fama di quel ciclista, un poco speciale, andava diffondendosi, facendogli trovare sulle strade un vero pubblico, che s'accalcava come ad una vera gara. Addirittura, quel pubblico manifestava, alla sua maniera, un vero entusiasmo, che, a prima vista, si sarebbe potuto scambiare per un vero tifo sportivo, per un atleta che, nel suo genere, era un vero campione. Solo che il genere di quel campione non era sportivo, per cui Tommaso dovette confinare quella sua passione su strade sempre meno frequentate, per ridursi, alla fine, a correre nella tenuta recintata che i Padri Passionisti tenevano, non lontano da Montmirail. Rimaneva immutata l'altra grande passione di Tommaso, di circondarsi di giovani. Con essi, nelle soste di dieci minuti che si concedevano, ogni ora di corsa tirata ad una robusta andatura, appoggiata le bici ad un muretto e sotto l'ombra di un grande albero, egli si lanciava in serrati dibattiti su ogni argomento, che poteva aver attratto la loro attenzione. Erano quelli, i ragazzi di un'associazione di volontariato, promossa da Tommaso, senza che egli ne apparisse il capo. Egli l’aveva messa in piedi, nei primissimi tempi in cui era venuto a Reims, senza distinzioni di credo religioso, di classe sociale o di tendenze politiche; ma obbediente al motto, espresso con una sola parola: Fare. Aveva acquisito un vezzo, negli ultimi tempi, il Cardinal Fernays: dopo la sua nomina a Principe della Chiesa e non 346 avendo più l'età per essere solo il capo di quella banda di vivaci intelligenze, aveva permesso, a quelli che si riconoscevano nella sua fede, di chiamarlo Padre, mentre gli altri mettevano un gusto tutto particolare nel definirlo il loro "coach", l'allenatore. Infatti egli era stato nominato, all'unanimità, "allenatore" di quella squadra particolare, composta da studenti universitari o dell'ultimo anno del liceo, apprendisti nei più svariati mestieri, ragazze in fiore. Ma tutti elementi capaci di rinunciare alle ferie o alla partita domenicale per assistere un malato che stava morendo in solitudine, o una famiglia che s'era sgretolata per il bisogno, o, più modestamente, per raccogliere i rifiuti, durante le loro periodiche campagne di pulizia. In quel gruppo erano presenti, non solo e non tanto, cattolici in gamba, ma giovani, anche estremamente critici dell'idea religiosa della vita. Laici, che della loro laicità facevano una bandiera, sostenendo che, solo mediante essa, potevano accostarsi ad un'intelligenza, quale quella di Tommaso, che sentivano a loro congeniale. Tutti riconoscevano la profonda umanità che animava quel loro capobanda, tanto più rara della sua pur grande cultura. Questa, a sua volta, era pari solo al suo assoluto amore per l'impostazione logica del pensiero, che andava diritta al cuore d'ogni problema, senza lasciarsi fuorviare da alcun'altra necessità. Così Tommaso, anche quella volta, non si sottrasse alla disputa intellettuale, quando fu agganciato da uno dei giovani, mentre quello, appoggiate le bici ad un muretto, si difendeva da un robusto appetito, facendo fuori un gigantesco panino ripieno. Costui, con la bocca ancora semipiena, gli chiese a bruciapelo, mentre stavano parlando di tutt'altra cosa: "Padre, che cosa vuol dire, in effetti, Cardinale, Principe della Chiesa? E come si concilia il titolo di Principe, con la vita attuale?" Sorridendo, Tommaso rispose alla curiosità del giovane: " Nei primissimi secoli del Cristianesimo, alcuni preti e diaconi di Roma furono chiamati a coadiuvare il loro Vescovo, cioè il Papa. Per questa ragione essi venivano tratti dalle loro parrocchie di provenienza e "Incardinati" alla sede del Vescovo di Roma, che, per antica tradizione, è la Basilica romana di San Giovanni in Laterano. 347 La tradizione vuole quindi che i sacerdoti più capaci, quelli più disposti o quelli più "simpatici" al Papa, fossero chiamati dalle loro sedi per ricoprire compiti speciali, alle dirette dipendenze del Pontefice romano. Attenzione, ragazzi: ho usato il termine simpatici a ragione, nel suo significato più antico. Esso vuol dire che "ha lo stesso dolore, la stessa sofferenza" e, quindi, che più è in sintonia, oggi si direbbe che è sulla stessa frequenza, con il Santo Padre. Attualmente i Cardinali, oltre a presiedere le più importanti Diocesi della Cristianità o le grandi congregazioni che compongono la Curia del Vaticano, sono, secondo il Diritto canonico, coloro che "costituiscono il senato del Pontefice romano; sono i suoi principali consiglieri ed i suoi collaboratori nel governo della Chiesa". Il loro compito più conosciuto è l'elezione di un nuovo Pontefice, alla morte del precedente. Per quanto riguarda il titolo di "Principe della Chiesa", si tratta effettivamente di un titolo che accomuna i Cardinali ad un Principe di casa regnante. Capisco che questo possa far sorridere un giovane, perché la cosa fa sorridere anche me. Ma la vanità degli uomini ha stabilito un complicato sistema di precedenze, che è chiamato "Protocollo", ed a cui le figure di primo piano d'ogni Nazione tengono moltissimo; con la scusa che ogni sua infrazione potrebbe esser considerata un affronto, per la Nazione che lo subisce. Naturalmente il titolo di Principe, nato in tempi antichi, quando quel titolo aveva un qualche significato, oggi vuole solo dire che colui che lo porta è una specie d'alto funzionario della Chiesa di Roma, con specifiche responsabilità ed autorità in particolari settori, dipendente solo dal Papa ". "Insomma, una specie di "Division Manager" di una società conglomerata di cui il Papa è il "General Manager" - concluse quel ragazzo, che evidentemente s'interessava d'economia. "Beh, questa è certamente una definizione insolita per il Papa e per i Cardinali, ma, dal tuo punto di vista, non hai sbagliato di molto". " Ma allora, se le cose stanno così, perché il Papa e la Chiesa tutta non si comportano come tutte le altre società di questo mondo, con un consiglio d'amministrazione ed un capo 348 regolarmente eletto ed in carica per un periodo definito di tempo, in modo che possa esser valutato il lavoro effettivamente svolto e gli obbiettivi prefissati e raggiunti? Qualsiasi organizzazione, modernamente impostata, deve definire il target, l'obbiettivo, deve stabilire il tempo necessario per il raggiungimento di quel target, e deve valutare se l'obbiettivo sia stato o no raggiunto, altrimenti tutto rimane nelle nebbie del non definito ". "Diamine, abbiamo qui un rivoluzionario che s'accinge a stravolgere il codice di Diritto canonico e vuol fare fuori duemila anni di tradizione ormai consolidata. Sentiamo che cosa proponi nel dettaglio". "Padre, tu ci hai insegnato che la Chiesa di Roma è l'erede del pensiero greco romano, quel pensiero che si è sviluppato nei secoli, fino a raggiungere la posizione che noi, ora, chiamiamo Democrazia, in politica. In economia, quel pensiero ha attivato un modo d'impostare i rapporti tra i singoli ed anche tra gli Stati, che è definito: capitalismo. Abbiamo altre volte concordato che il capitalismo, fino a che si limita a servire l'uomo, definendo un modello di comportamento a lui congeniale, in quanto contribuisce a generare ricchezza, può esser utile. Anzi, quando esso diviene la base su cui si fonda un'impostazione razionale del lavoro umano, il capitalismo eccelle, nel dare un'organizzazione efficace alla fatica dell'uomo. Concordo con te, quando mi ricordi che il capitalismo deve esser attentamente seguito e vigilato, in modo che non devii dal suo compito, trasmutandosi, da mezzo al servizio dell'uomo, a fine che tende a prevaricare l'uomo stesso. Per questa ragione sono necessari, in una democrazia che funzioni, particolari contrappesi che bilancino ed imbriglino la forza prepotente del capitalismo. Uno di questi contrappesi, è sicuramente l'Autorità morale, che stabilisce regole comportamentali, ogni volta che sia necessario definire un precedente. Anche ad un laico, come me, appare evidente che l'Autorità morale della Chiesa possa esser grandemente accresciuta da una razionalizzazione dei propri compiti, che ne definisca appunto gli obbiettivi e ne limiti al massimo le incongruenze". "Definiscimi un'incongruenza della Chiesa." 349 Cercò di contrastarlo Tommaso, ma il giovane, un tipetto con gli occhiali tondi e la faccia da timido, non si lasciava intimidire. " Per esempio, il ritenere, come stato migliore, la povertà, anzi stato perfetto, e poi essere una delle più grandi potenze economiche della terra". "Questa tua tesi ha fatto consumare fiumi d'inchiostro e molte persone sono andate sul rogo per essa. Ma tu dimentichi che, mediante quella, che tu chiami una delle più grandi potenze economiche della terra, la Chiesa cattolica può portare avanti un programma d'aiuti, gigantesco in tutti i campi. Un intervento che regge il paragone con le realizzazioni più importanti, messe in opera da quelle organizzazioni che più sentono il bisogno d'aiutare il prossimo". "Stiamo giocando con le parole - lo contraddisse quel giovane nessuno dice che la Chiesa non fa assistenza. Sto solo affermando che la Chiesa è proprietaria d'enormi ricchezze, senza contare le innumerevoli opere d'arte che, pure, si potrebbero quantificare, mentre predica la povertà. Le tecniche economiche moderne permettono di distinguere la proprietà di un bene dal suo usufrutto: ecco io intendo dire proprio questo. La Chiesa, se vuol essere conseguente, dovrebbe trasferire tutte le sue proprietà ad un'altra organizzazione che, garantendole una buona amministrazione e, quindi, un rendimento adeguato dei beni affidatigli, la liberi dal peso della proprietà, che non si concilia assolutamente con il suo credo. Così facendo, il suo insegnamento si libererebbe di una grossa incongruenza che, come tu stesso hai ricordato, ha sempre pesato sul destino della Chiesa. Quanto poi alla mia proposta di rendere il papato un incarico a tempo determinato, e non “usque ad mortem“, vediamo di considerarne i vari aspetti. Certo, si tratterebbe di modificare una tradizione antichissima, ma pensiamo ai vantaggi. Il Papa potrebbe, nell'ultimo arco della sua vita, come spesso accade, avere un sensibile calo delle sue facoltà intellettive; questo fatto potrebbe procurare gravi conseguenze per la Chiesa. Ma non è necessario che il Papa non sia più"Compos sui"1. 1 Presente a se stesso, capace di intendere e di volere. 350 È nell'ordine naturale delle cose che gli uomini, specialmente quelli che hanno fatto grandi cose, qualche volta divengano dei sopravvissuti a loro stessi, pur senza scadere nel patologico. Incapaci di gestire il nuovo, essi cercano d'aggredirlo con gli strumenti vecchi che hanno sempre usato, specialmente se ciò si è verificato con eccellenti risultati. Oppure, questo nuovo non lo vedono neppure, chiusi nei loro ragionamenti, che sono pieni ormai solo di fantasmi. Del resto, a me sembra che la Chiesa abbia già accolto quest'esigenza, quando obbliga i Cardinali a dimettersi dai loro incarichi, al compimento del settantacinquesimo anno d'età. Modificare questa tradizione, oltre ai vantaggi già visti, toglierebbe alla Chiesa anche l'ultima vestigia del Potere sacrale, il potere del Re, la “Maiestas“, per immetterla a pieno titolo nell'era della democrazia, con evidenti vantaggi sul piano razionale. Impostato così il problema, nulla toccherebbe della sfera del Dogma, perché ci sarebbe sempre un solo Papa, così come c'è sempre un solo Presidente della Repubblica Francese o un Presidente degli Stati Uniti d'America, anche se possono esistere molti che, in passato, hanno ricoperto quella carica. In questo modo, che io ritengo più logico e più aderente allo spirito attuale, il Papa, cui è affidato, in quel momento, il timone della Chiesa di Pietro, potrebbe dedicarsi alla risoluzione di quei problemi che considera più urgenti ed importanti, e non soltanto “regnare“, con un'evidente razionalizzazione del proprio compito". Tommaso la mise sul ridere, affermando in tono scherzoso: " Saresti un ottimo Decano della Sacra Rota, il tribunale della Chiesa, ma dovresti combattere una battaglia disperata, per portare innanzi le tue tesi; meno male che, ormai, Santa Romana Chiesa non manda più nessuno al rogo". Però quella notte, quando il Principe della Chiesa, come era suo solito, ripercorse gli avvenimenti della giornata, per definirne i lati che poteva aver tralasciato, più pensava alla tesi rivoluzionaria, che quel giovane, dalla bocca piena di pane, gli aveva esposto e meno riusciva a trovarne i punti deboli, che non fossero legati solo ad un mero attaccamento alla tradizione, senza neppure averne considerati i vantaggi. Del resto, almeno sul problema della povertà, le parole di Giovanni Paolo II erano state chiarissime 2. 2 cfr quanto riportato nella nota 5 a pag 286. 351 QUINTA ANTIFONA Dopo aver fatto esplodere la forma atea di Stato, quella gran figura di condottiero che era Papa Giovanni Paolo II, si volse a cercare di realizzare un sistema politico mondiale, compatibile con la Chiesa di Roma. Anzi, nel suo sistema, la Chiesa avrebbe avuto la funzione d'architrave, riuscendo così a divenire nuovamente l'asse portante dell'azione politica universale. Per arrivare a ciò, Papa Wojtyla definì, nel mondo moderno, la preminenza del lavoro rispetto al capitale, negando così la palma del vincitore definitivo al sistema che, grazie anche a Lui, era uscito vittorioso. L'aspro scontro aveva infatti visto tre metodi politici, tutti figli d'altrettante ideologie filosofiche, affrontarsi in una lotta, che era divampata per quasi tutto il ventesimo secolo. I romani, affascinati dalla sua forza d'animo, ormai così rara in un prete italiano avevano preso a chiamarlo "il Papa di ferro" o, anche, "il Papa che mena" (che, in dialetto, vuol dire: il Papa che picchia). Quella forza permetteva al “Papa di ferro“, d'avere atteggiamenti non molto diplomatici, quali quello d'urlare, paonazzo in volto, contro la guerra e le sue infamie, e contro coloro che non facevano nulla per fermarla. Inoltre Giovanni Paolo II non era per nulla un estimatore dell' "american way of life"1 . O meglio, era la vita moderna, tutta dedita al piacere ed alla sfrenata ricerca del soddisfacimento degli istinti meno positivi, l'obbiettivo che era martellato, quasi quotidianamente, dal Papa. Quindi fioccavano le reprimende, a colpi di Encicliche, lettere apostoliche, messaggi trasmessi in qualunque modo ed amplificati dai mass media. A proposito dei mezzi d’informazione, occorre notare come essi vedessero, nel Papa, un personaggio forte; qualcuno aveva detto: l'unico eroe veramente maschile, in un fine secolo in cui il maschio stava assumendo connotati sempre più ambigui. I colpi erano violenti, contro ogni attentato alla vita. L'aborto, l'eutanasia, le tecniche di manipolazione genetica, gli studi sulla clonazione umana e sulla sospensione della morte, la 1 Il modo americano di vivere. 352 dispersione del seme dell'uomo in qualunque maniera, che non fosse il naturale "Vasum" della propria consorte. L'aborto terapeutico, che non poteva essere negato senza mettere in gioco la vita della madre, ricadendo così in una differente ma uguale negazione della vita, era presentato come il fallimento del supremo atto d'amore, che un essere umano poteva fare per la sua creatura, rendendo autentiche eroine le donne che ne rifuggivano. Questa predisposizione alla lotta, questo schierarsi generosamente contro ogni degradazione della vita moderna, esponeva l'azione di Papa Wojtyla ad uscire, qualche volta, sopra le righe, come accadde quando strigliò rudemente la Pontificia Accademia delle scienze, rea d'aver affermato la necessità di un qualche controllo, nel numero delle nascite. In tale occasione Giovanni Paolo II non esitò a proclamare il primato del Papa, anche sulle posizioni scientifiche. Ma colpi, altrettanto duri, erano inferti dal "Papa di ferro", al capitalismo, inteso come sistema preminente sull'uomo. Altrettanto duramente deplorata era la mancanza di lavoro che, nata dalla razionalizzazione, imposta dallo sforzo necessario per vincere il comunismo ateo, sul finire del secolo, stava attentando seriamente a quella che il Papa riteneva fermamente essere la cellula base della società: la famiglia. Questo, per Papa Wojtyla, era un grave pericolo; anzi il pericolo mortale. La famiglia era colpita durissimamente dalla mancanza di lavoro, che nega prima il danaro per soddisfare i bisogni non necessari e poi quelli indispensabili. Essa era, così, frantumata dall'egoismo del singolo, che corre dietro i fantasmi del consumismo, propinati dal capitale, per tenere l'uomo sempre più stretto per la gola. Negata, anche sul piano filosofico, da coloro che erano stati catturati dalle sirene del permissivismo, la famiglia veniva, dalla cultura corrente, seriamente messa in discussione e ritenuta un relitto del passato. Wojtyla invece, ed a ragione, ne proclamava la centralità nel processo di sviluppo dell'Umanità. Per portare avanti la sua battaglia, il Papa cercava alleati, non solo e non tanto tra le masse del ceto cattolico. Anche tra quelli che si professavano cattolici, v'era infatti un gran numero di coloro che erano stati gravemente aggrediti da ciò che sembrava il desiderio di modernità, ed era solo la voglia di lasciarsi andare al piacere, fine a se stesso. Questa è una deriva edonistica, tipica d'ogni civiltà esausta, che sta morendo e che, quindi, abbandona i momenti forti, gli ideali, per rifugiarsi nei piaceri personali. 353 Per questo Wojtyla cerca i suoi alleati nelle religioni, prima quelle monoteistiche, legate tra di loro dal "Libro", poi in tutte quelle altre che non siano religioni del rifiuto. Per fare ciò, per conquistare la fiducia dei vecchi antagonisti, oltre che per intima adesione personale, Wojtyla mette sul piatto l'antico monito contro Mammona: "È’ più facile che un cammello...". La Chiesa deve così, giocoforza, rientrare in un modello, che non era mai piaciuto, a coloro che vedevano, in Lei, solo un comodo sgabello per i loro disegni. Un altro, grande momento d'unione il Papa lo cerca nelle diverse divisioni, che erano sorte tra tutti coloro che si rifacevano al Cristo. Quindi, da parte Sua, vi è una grande attenzione all'area protestante ed alle Chiese autocefale che compongono l'Ortodossia; Fede particolarmente sentita, per un Papa d'origini slave, anche a costo di suscitare profonde preoccupazioni nell’alto clero ortodosso, che diverrà sempre più sospettoso dell’operato di Wojtyla, tanto che lo stesso Papa verrà accusato di fare proselitismo nelle terre dell’ortodossia. A tutti, il Papa si rivolge con la magnanimità del forte, che riconosce i propri torti, per aver riconosciute le proprie ragioni. Per fare questo, Egli si spinge fin quasi a chiedere scusa ai suoi interlocutori. Atteggiamento tipico di chi è fortemente convinto della bontà della propria posizione, per cui, per vincere definitivamente, basta solo un piccolo cedimento nei dettagli. Veramente, sul finire del secolo ventesimo, la posizione del Papa appare l'unica in grado d'esprimere una politica, di proporre un sistema filosofico originale nella teoria e nella prassi, tale da risultare vincente. Sul piano delle idee non può certo sperare di resistergli il capitalismo, bollato del delitto morale di confondere il fine con il mezzo. Né può farlo la socialdemocrazia, squalificata in tutta Europa dallo scadimento, che aveva portato, dall'idea socialista, alla realtà più ferocemente sopraffattrice, quando si passava dagli ideali all'atto pratico. Così, non si vede all'orizzonte un sistema che possa reggere il paragone con quello propugnato dal papa polacco. Quindi Santa Romana Chiesa appare di nuovo al centro del dibattito. Eppure esiste un limite e quel limite si chiama, paradossalmente, Wojtyla. 354 Il Papa di ferro ha dovuto gridare; forse non per sua volontà, ma per poter meglio diffondere il messaggio di cui è portatore, in un mondo così pieno di notizie urlate ed accavallantisi, in un groviglio di suoni talmente debordanti dalla capacità umana di sentirli tutti e di poterne accogliere interamente il significato. Egli è stato costretto ad entrare di prepotenza, con tutta la fortissima determinazione di cui era capace la sua grande personalità, nei mass media. Anzi tale determinazione gli fece fare atti ai limiti del lecito: qualcuno, in seguito, lo accusò di aver richiesto ingenti somme a persone poco raccomandabili per poter aiutare Solidarnosc'. Purtuttavia il sistema internazionale delle comunicazioni ha risposto entusiasticamente: l'eroe era il migliore, presente sulla scena del mondo, il suo titolo aveva sempre fatto presa sull'immaginario collettivo. Le sue parole, erano state a volte rudi, ma franche e sicuramente dettate da una visione molto positiva della vita. Il suo grido: "non abbiate paura", era stato formulato con virile determinazione, mentre il mondo precipitava nell'isteria di fantasmi che negavano, sul finire del millennio, quel progresso, che era sembrato così a portata di mano. Tutto insomma aveva contribuito a creare il più grande mito della comunicazione di massa. Così Carol Wojthyla diventa un personaggio talmente incombente sulla realtà del mondo, da rappresentare quasi un ostacolo all'idea: l'eroe copre talmente la scena da oscurarne il significato. Senza nulla abiurare nell'opera del gigante di ferro, occorrerà mettere un poco la sordina al personaggio, per far sentire meglio il fraseggio della sinfonia. Senza dubbio, questa è anche la volontà di Giovanni Paolo II e questo s'accinge a fare la Chiesa di Roma, nel suo lungo cammino nella storia, appoggiandosi alle grandi figure che Ella ha saputo esprimere, ma tenendo sempre presente che viene, prima di tutto, il Disegno, e, quindi, il percorso. 355 CAPITOLO XXVI UN DEBITO PAGATO Tommaso, tra le mille attività che riempivano la sua giornata, non aveva affatto dimenticato quel segreto speciale, che gli era pervenuto in circostanze specialissime, e che lo faceva depositario di una notizia eccezionale. La sua dottrina, estremamente versata proprio in quel campo, era stata, per lungo tempo, impegnata nell'opera di definizione dell'immenso corpus di fatti, notizie, concatenazioni clamorose, raffronti conclusivi. Tra l’altro, lo studio e la comparazione di tutta quella massa di dati, mettevano la parola fine a questioni che s'erano trascinate per secoli e che avevano fatto scorrere fiumi d'inchiostro. Tutto quello che lui poteva fare, nell'ambito delle sue specializzazioni, Tommaso l'aveva compiuto. Ora occorreva rendere pubblico il suo lavoro ed il suo segreto, affinché altri competenti, storici, biblisti, filologi, studiosi delle due religioni, che tanto potevano essere interessati a quel segreto, fossero resi partecipi delle sue scoperte. Tutti gli specialisti dello scibile umano interessato, dovevano esser posti al corrente della messe di notizie, che si potevano ricavare dallo studio approfondito di quanto era così avventurosamente giunto in suo possesso. E poi c'era la questione di quel mitico reperto: la stella di Davide, che era, in realtà, il piattello centrale del candelabro a sette braccia, la Menorah della tradizione ebraica, forgiato quasi quattromila anni or sono, in un momento cruciale per la storia dell'Umanità. D'essa si erano perse le tracce, tanto da esser divenuto un simbolo mistico, il simbolo stesso di Israele. Il segreto era troppo grande, per esser racchiuso nell'animo di un solo uomo, anche se questi era un navigato gesuita, Principe della Chiesa di Roma, abituato a custodire i segreti più importanti e delicati del suo tempo. Però quel segreto non era solo del suo tempo, anzi aveva scavalcato il tempo, partendo da un'età mitica. Da allora, esso aveva profondamente impresso la sua impronta in tutta la storia dell'uomo, contribuendo a farla divenire quella che adesso era. 356 Ma, con chi confidarsi, almeno per iniziare quel viaggio emozionante? Quando l'uomo deve prendere decisioni importanti, cerca, nel proprio animo, coloro che rappresentano, per lui, gli archetipi delle figure che maggiormente hanno contribuito a formare il proprio carattere, la propria personalità, la propria persona. Se ancora è in vita, e se per lui è stato un modello valido, l'uomo si rivolge al proprio padre, per vedere, come in uno specchio, quale dovrà essere il comportamento da seguire. Se, invece, ha avuto un diverso modello che abbia, nel suo animo, adempiuto al compito di fissare in lui il super Io, egli si richiama a questi, nei momenti cruciali della propria esistenza. Tommaso, che non aveva conosciuto il suo vero padre; aveva però un modello. Per questo, quando fu pronto a rendere pubblico il segreto di cui era venuto in possesso, egli si recò dal dottor Bubber. Era costui ormai al tramonto della propria vita, avendo superato i novant'anni. Pur in un corpo che, avendo adempiuto alla lettera ad antichissime prescrizioni di moderazione e di comportamento, non aveva mai mostrato segni di disagio, la salute stava tuttavia cedendo all'assalto del tempo. Ma la mente di Rabbi Bubber era ancora quello strumento acuminato che Tommaso conosceva così bene, da quando, con essa, il piccolo rabbi era riuscito ad aprire le valve serrate del suo spirito, per arrivare al centro indifeso della sua anima. Così Tommaso rivelò quanto sapeva al vecchio rabbi e gli mostrò le prove. Quando questi capì, e non ci volle molto, di quale segreto era divenuto depositario il suo pupillo, fece una cosa che poteva, a prima vista, apparire strana. Volle esser rivestito con l'abito cerimoniale, si cinse la testa con le bende, si fece aprire la custodia segreta della reliquia, ma non volle togliere il panno che la ricopriva. Incominciò a pregare, dondolandosi nel caratteristico modo che usano gli Ebrei praticanti quando si rivolgono al loro Dio, tenendo sempre le mani sugli occhi, quasi per non vedere, neppure per sbaglio, l'impronta del suo Credo. Poi, piangendo e ridendo, si rivolse a Tommaso, l'abbracciò e disse: " Figlio mio carissimo, ora capisco perché ho sempre sentito, nei tuoi confronti, un legame fortissimo che ci univa l'anima. Ho sempre saputo che tu eri destinato a grandi cose. Ho sempre visto, in te, una figura che avrebbe gettato un ponte tra la mia fede e la tua fede, tra la mia gente, che era la tua 357 gente, e la tua nuova gente, che ormai si riconosce erede nel solco di Israele. Questo è un grande momento, che ripaga di duemila anni di odio ed incomprensioni. Solo tu, l'erede di Aronne, l’ultimo discendente della più nobile stirpe sacerdotale d’Israele, tu, che hai saputo rinnovare, nella tua fede che non tradisce la fede dei padri, il Patto con l'Onnipotente, potevi rendere al mondo una così grande testimonianza. Hai tratto dal mito la prova che vincerà coloro che non credono! Ora, finalmente, posso morire appagato, perché ho testimoniato, in una maniera data a pochi della mia gente, la realtà dello Shema Israel. Che cosa intendi fare del tuo segreto? Non aver paura di renderlo esplicito. Israele è ormai adulto e saprà comprendere, ma deve sapere ". Tommaso rassicurò il suo vecchio maestro: la reliquia sarebbe tornata al posto che le competeva, vicino a quello che rimaneva del Tempio: testimone, molto più antico del muro del pianto, della fede d’Israele. I libri che contenevano quella storia sarebbero stati resi noti, affinché coloro che sapevano, potessero studiarli e coloro che credevano potessero ricevere da essi la conferma del loro Credo. " Al solito, il tuo spirito, quando arriva ad un punto cruciale della sua esistenza, sa imboccare la strada giusta. Non m'aspettavo di meno da te; grazie, a nome di tutti quelli che professano la mia fede". Si trattava ora d'adempiere a quanto era stato promesso. Non mancavano certo relazioni a Tommaso, tali da permettergli di trovare il modo per fare quello che bisognava fare, ma proprio il vecchio rabbi gli suggerì la strada più semplice, quella che avrebbe evitato ogni complicazione ed ogni pubblicità. Una sua telefonata ed alcune rapide consultazioni. Dopo tre giorni, nella disadorna dimora del dottor Bubber si riunirono alcune persone. Oltre al dottor Bubber ed a Tommaso, erano presenti il rabbino capo di Francia, un rappresentante del governo di Israele, il rabbino capo di Israele, il presidente dello Jewish Council. Gli intervenuti non erano tra loro sconosciuti; tutti specialisti nello studio della Bibbia, eccetto il rappresentante d’Israele, 358 s'erano frequentati, sia pure alla lontana, per motivi di studio e di consultazione reciproca. Naturalmente il più diffidente era il rappresentante dello Stato Israeliano, che, da buon politico, prima di vedere che cosa stava acquisendo la sua Nazione, voleva esser ben sicuro di conoscere quanto sarebbe costato e quali implicazioni politiche potevano esser nascoste in quella questione. Si trattava, tra l'altro, di dover discutere con un così qualificato rappresentante del Vaticano, che avrebbe potuto imporre problemi politici e vincoli diplomatici a quella transazione. Ma Tommaso rassicurò tutti: non era il Principe della Chiesa di Roma che gestiva una trattativa, ma solo un discendente della tribù di Levi, che voleva far tornare un simbolo della propria fede, nel luogo ad essa più consono. Per questo egli impose a quegli uomini, del resto avvezzi a tale procedura, il silenzio più totale, con chiunque, pena l'interruzione d'ogni contatto. Lo scetticismo di quegli uomini di fede e di scienza fu messo a dura prova dalla prima lettura affrettata del libro di maestro Leone, ma non per questo fu spazzato via. Dovevano esser compiute infinite prove, innumerevoli verifiche, complicate analisi. Forse non sarebbe bastato il resto della vita che ancora rimaneva a ciascuno di loro, per emettere la parola definitiva su quella questione, ma qualcosa andava stabilito in quel momento. Tommaso dettò le condizioni. Nulla doveva trapelare, nell'opinione pubblica, per i prossimi dieci anni, per dare modo, ai migliori specialisti d'ogni campo, d'esprimere un primo, dettagliato giudizio. Poi, a Gerusalemme, sulla spianata del muro del pianto, si sarebbe costruito un edificio, che doveva contenere la stella di Davide. All'interno di un vasto emisfero, sempre tenuto nella penombra più fioca, doveva esser posta una teca di cristallo, invisibile ma illuminata da un unico, vivido raggio di luce. Il raggio avrebbe, da solo, rischiarato tutto l'ambiente e reso evidente solo il piattello del candelabro sacro. A fianco della teca, una scritta avrebbe detto, semplicemente: " La discendenza di Levi ha conservato per il popolo d'Israele il segno del Patto". Il percorso, degradante con alti gradoni, dall'ingresso al centro della grande sala, sarebbe stato concentrico al punto in cui sarebbe stata collocata la teca, posta al centro dell’emisfero. 359 Il suo pavimento sarebbe stato lastricato con pietre, provenienti da tutti i luoghi, di cui era conservata memoria e testimonianza di martirio di Ebrei, per la propria fede. All'esterno della sala, sotto le gradinate, si sarebbero ricavati locali di studio e di consultazione, per studiosi di alto livello, dei testi che Tommaso avrebbe messo a disposizione. Quei testi però, per cinquant’anni, sarebbero rimasti in custodia al Vaticano, per iniziarne lo studio sistematico, con l'intervento diretto e paritario di studiosi Ebrei, d'altre religioni, o agnostici. Nulla doveva esser reso noto, della vicenda umana che aveva coinvolto Giovanni Giacomo Tommaso Fernays in quella storia, prima di cento anni, dal momento in cui sarebbe stata completata la costruzione dell'edificio. Esso non doveva aver alcun carattere che potesse esser accomunato ad una qualche pratica religiosa, ma offrire solo una testimonianza della storia di Israele. Quel primo compromesso fu accettato di buon grado da tutti i partecipanti alla riunione, con l'intesa che essi si sarebbero presto rivisti, per redigere il definitivo assenso, a quanto era stato il desiderio del Cardinal Arcivescovo di Reims. Dal canto suo, Tommaso, prima di muoversi in quella maniera, era stato ricevuto in udienza dal Papa, cui aveva raccontato, nei minimi particolari, tutta la storia. Erano state sviscerate tutte le implicazioni del caso. Tommaso aveva rifiutato tutte le possibili richieste, avanzate dagli specialisti vaticani, che cercavano di forzare la mano allo Stato d'Israele, in cambio di quel dono generoso, per ottenere un qualche privilegio. Qualcuno, ad esempio, aveva proposto adeguate contropartite nello status d'internazionalità, da più parti richiesto, ed assiduamente propugnato dal Vaticano, per i luoghi Santi di Gerusalemme. Il Papa era stato d'accordo con Tommaso; un dono è un dono e non può esser fatto a condizioni. L'unica ricompensa doveva venire dalla soddisfazione per un'azione portata generosamente a buon fine. Naturalmente, negli ambienti che contano, il fatto fece instaurare un nuovo clima di collaborazione e fiducia tra i due grandi filoni del pensiero umano: il Cattolicesimo e l’Ebraismo. Essi, in verità, fino alla conclusione del Concilio Vaticano II, s'erano guardati in cagnesco e, se non nemici, s'erano riconosciuti come fratelli, solo dopo la felice conclusione di quella vicenda. 360 Questo, appunto, rientrava nel disegno personale di Tommaso; ma forse è giunto il momento di parlare un poco più in profondità di questo disegno. Egli, naturalmente, sapeva dell’ingiustizia, che assegnava, a meno del venti per cento della popolazione della terra, più dell'ottanta per cento delle risorse del pianeta. Di ciò, il Cardinale gesuita, non rilevava solo l’ingiustizia terribile, ma faceva notare il pericolo immenso, che tale situazione avrebbe sicuramente scatenato, ove non si fosse, al più presto corso ai ripari. Per questo, Tommaso era fermamente convinto che, se si voleva salvare il mondo dalla situazione d'estrema crisi in cui l'aveva gettato l'attuale organizzazione politica mondiale, occorreva far leva sul senso di responsabilità e di giustizia di quel fortunato venti per cento, detentore delle ricchezze della terra. La parte più evoluta dell'Umanità era stata sì abile nell'appropriarsi di tutte quelle ricchezze e nel farle fruttare, ma, ora, se non voleva perdere ogni cosa, doveva anche mostrare d'essere capace di trovare la forza di compiere un'azione di giustizia che era, alla fine, un atto razionale. Si doveva provvedere al riordino ed alla nuova distribuzione di quelle ricchezze, mediante un diverso ordine politico e giuridico internazionale. Solo in questo modo, si sarebbe potuto evitare un'esplosione di rivolta totale, da parte dei paesi poveri del mondo, che avrebbe spazzato via, per lungo tempo, la civiltà dell'uomo. Inoltre, solo nell'alleanza delle due grandi religioni monoteistiche si sarebbe potuto trovare la forza per aiutare la terza a superare le proprie difficoltà. L'Islam, la religione dei paesi poveri, avrebbe così potuto recuperare la vivacità d'ingegno ed il senso della storia dell'uomo, insieme con la sua tradizionale tolleranza, che erano state sue virtù peculiari, nel momento di massimo splendore. Queste, una volta riportate alla luce, avrebbero permesso d'instaurare le condizioni necessarie per un pacifico sviluppo dell'umanità, quando si fosse spezzato il circolo vizioso del rapporto paesi ricchi-paesi poveri, che minacciava in maniera così incombente l'Umanità, sul finire del secondo millennio dell'era del Cristo. Come sempre, ogni azione di Tommaso mostrava un rapporto inscindibile, tra la logica, che animava la sua azione, e la fede, che lo faceva convinto del Disegno divino, per cui l' Uomo aveva un compito da adempiere, un destino da compiere. . 361 SESTA ANTIFONA A sentire gli sproloqui dei mass media, noi, ora, stiamo vivendo in "piena era tecnocratica". Anzi qualcuno si spinge a parlare, almeno per i paesi ricchi, di "era post moderna". S’intenderebbe, con questo termine, significare addirittura un'uscita, della nostra civiltà, dalle concezioni, che portarono alla costituzione di un particolare modo di vita; quello che è stato chiamato: evo moderno. Tutti sanno che quel modo di vita è direttamente derivante dalle intuizioni dell'Umanesimo e del Rinascimento italiani e dalle definizioni del concetto scientifico, formulate da Bacone sul piano filosofico ed individuate scientificamente da Galileo e Newton. Ma tutti dimenticano, o fanno finta di dimenticare, che, se questo tragitto è vero, esso fu tuttavia compiuto da un'irrilevante minoranza della popolazione umana. Quella minoranza fu importantissima, naturalmente, per le implicazioni che il processo portava nella storia, ma infima di numero, per l'ampiezza che essa ebbe, nel più generale contesto dell'Umanità. Inoltre l'impatto, che il concetto di scienza ha finora avuto nell'inconscio collettivo, è talmente superficiale che basta grattare un poco sotto i comportamenti acquisiti, per scoprire quanto sia sottile lo strato di vernice "scientifica", che copre le nostre pulsioni irrazionali. Al di sotto di quello strato, mal dissimulato, sta "l'humus magico". Questo sottofondo si rivela, ad una analisi attenta, un curioso impasto tra le pulsioni irrazionali, che ormai stavano affondando nell’inconscio personale e, quindi, collettivo e la ragione, che, sempre più chiaramente, si stava mostrando come lo strumento principe dell’animale uomo. Tale situazione si è venuta a definire, come la conosciamo, da circa diecimila anni, cioè dalla rivoluzione eneolitica che fece sorgere l'agricoltura, dando così origine al processo di civilizzazione urbana. Essa costituisce tuttora la parte di gran lunga più consistente della nostra personalità. Il sottofondo, il senso prescientifico, è talmente presente nell'inconscio d'ogni uomo, da essere praticamente ineliminabile, almeno per un lungo periodo di tempo a venire, fino a che il concetto di scienza non avrà saldamente e totalmente fatto presa, se mai accadrà, nell'animo umano. 362 Infatti, come ogni capacità dell’uomo, anche la ragione non è una caratteristica innata, ma un duro strumento che deve esser conquistato, con fatica, ogni momento ed ogni volta, mediante un processo non automatico. Che il processo non sia definitivamente acquisito, lo si può desumere da mille particolari, che mostrano il curioso impasto di scienza e magia, di logica e di senso, costituente il normale comportamento dell'uomo, anche al momento presente. Così il grande Keplero, lo scopritore delle leggi che muovono i pianeti intorno al Sole, per guadagnarsi da vivere compilava oroscopi per Wallenstein, il generale boemo al servizio dell'Impero Asburgico. Così i politici, che tengono in mano le sorti delle loro popolazioni, ed i grandi finanzieri che muovono miliardi, nelle borse di tutto il mondo, sono ancora, molto spesso, fedeli seguaci di maghi e cartomanti, ponendosi alla stessa stregua dei milioni d’ingenue persone, che chiedono aiuto agli operatori dell'irrazionale. A rigor di logica, non dovrebbero esserci figure più antitetiche di un politico, che studia necessariamente i fatti, e di un mago, che corre dietro i fumi dell'irrazionale; di un finanziere, attento alla realtà commerciale, e di un cartomante, esperto in trucchi da baraccone. Così, persino molti scienziati non riescono a liberarsi del loro substrato prescientifico e pongono molta attenzione a quale piede mettono per primo in terra, la mattina. Forse essi non lo sanno, o non ci badano; ma stanno traendo, da questo fatto, responso sul giorno che sta iniziando, per considerarlo fasto o nefasto, con lo stesso metodo che usavano gli auguri etruschi tre millenni or sono. Esiste un esempio illuminante su come agisce la scienza nell'organizzazione umana: attualmente le armi più complicate tendono a divenire d'uso il più semplice possibile, in modo che anche soldati non forniti di un minimo di cultura tecnica possano usarle. Così al Mujahiddin afgano non interessava per nulla sapere la sofisticata tecnologia, necessaria per rendere funzionante il proprio missile Stinger; a lui bastava imbracciarlo, collimare l'obbiettivo nel mirino e tirare il grilletto, per veder esplodere l'odiato aereo russo. Questo vuol dire che la scienza tende a servire i bisogni dell’uomo, abbassandosi anche al suo livello più basso, anziché pretendere che egli s'innalzi al proprio livello, per godere, in modo più razionale, i frutti della stessa scienza. Ma tutti noi ci comportiamo nello stesso modo: vediamo il medico, che c'impone gli esami tecnologicamente più avanzati, 363 con lo stesso occhio, con cui vedevamo lo sciamano gettare gli ossicini, per avere un responso sulla nostra salute. Quello che è più grave è che il medico non fa nulla, anzi è tutto soddisfatto, se noi rimaniamo in quell'illusione deviante. Se invece noi tutti affrontassimo il problema del rapporto "posizione irrazionale/posizione razionale", nel modo in cui l'uomo sottopone ad indagine ogni sua conoscenza, potremmo essere in grado di scoprire molti elementi che, con il solo strumento razionale, non verrebbero mai alla luce, o darebbero risposte distorte. Del resto è questo il metodo usato nelle discipline etnologiche, quelle che studiano i vari aspetti delle diverse civiltà dell'uomo. Esse, infatti, ritengono, correttamente, che non sia possibile prescindere, nello studio dell'Umanità, dai suoi primordi alla situazione attuale, dalla commistura di comportamento razionale e comportamento irrazionale, tipico della nostra specie. Se si considera la storia dell'uomo con questo duplice strumento, l'ottica risultante viene non poco mutata, rispetto agli schemi imperanti. Qualcuno ha osservato qualche tempo fa 1 che gli Stati nazionali non sono più l'unità primaria delle relazioni internazionali e che lo scontro politico si va spostando appunto, dagli stati nazionali alle culture, o civiltà, formate da gruppi di più nazioni. In quest'ottica, sono state altresì individuate le due civiltà, che, con maggiore probabilità, s'accingono allo scontro, che porrà probabilmente fine alla nostra epoca. Queste due civiltà, pronte a combattersi, sono una il cosiddetto mondo occidentale, erede della tradizione greco-romanogiudaica, mutuata dalla Chiesa cattolica, fatta rivivere dal Rinascimento italiano e trasmessa alla riforma protestante che è giunta, per prima, al concetto di liberalismo. L'altra è l'Islam. Che lo scontro sia imminente è impressione comune e non solo nozione scientificamente stabilita, mediante studi che hanno coinvolto, con il sistema delle think-tanks2, le più diverse discipline. Non è certo la prima volta che le due civiltà entrano in rotta di collisione, nonostante che esse abbiano grandi affinità e punti di contatto. Articolo del dott. HUNTINGTON, su “ FOREIGN AFFAIRS “ estate 93Copyright 94/ The Economist-l’Espresso 19/ago/94 2 THINK-TANKS, espressione americana che significa “Serbatoi o Pacchetti di cervelli“, sottintendendo, in questo modo, il metodo da questi usato nell’affrontare, da tutti i punti di vista delle diverse discipline,un problema, per giungere ad avere il modo migliore di risolverlo, studiando e considerando tutte le variabili ad esso connesse. 1 364 Infatti esse sono territorialmente contigue, filosoficamente intrecciantisi e, sul piano della religione, appartenenti allo stesso ceppo, anzi con moltissimi luoghi e personaggi in comune. Per questa ragione si può tranquillamente parlare di una lotta tra fratelli, la più comune e la più sanguinosa delle lotte, che l'uomo è solito intraprendere. Le vicende sono state alterne. Come si sa, la fortuna delle armi, è il principale elemento di valutazione che, disgraziatamente, l'uomo abbia saputo finora trovare, per misurare il grado di progresso tecnologico di una civiltà. Ebbene, la fortuna delle armi ha sorriso ora all'uno dei due gruppi contendenti, e subito dopo all'altro, in un balletto crudele ed inconcludente. Riassumiamo brevissimamente i fatti. L'Islam, sotto la spinta fortissima della sua nuova fede, pochi decenni dopo la morte del Profeta, conquistava la Spagna, fino ad arrivare ai confini della Francia. Lì fu fermato da Carlo Martello a Poitiers nel 732. Ma l’Islam, poco dopo, s'annetteva la Sicilia nell'840, tentando perfino d'impadronirsi dell'Italia, allora centro della religione e della civiltà occidentale. Appena superata l'epoca terribile dell'alto medio Evo, rispondeva la civiltà occidentale, o, come allora si chiamava, la Cristianità, che occupò il cuore stesso dell'Islam, cercando d'instaurare un regno cristiano in Palestina, al tempo della prima crociata. La lotta, come tutti sanno, proseguì per tutto il millennio, con le crociate da una parte, tentativo di conquista mascherato da motivi religiosi, e con la spinta potente dei Turchi musulmani, fermata sul mare a Lepanto nel 1571, ma che s'esaurì solo nel 1683, con l'ultimo assedio turco sotto le mura di Vienna. Poi, il diciannovesimo secolo vide l'esplosione tecnologica di quella che non si poteva più chiamare Cristianità, perché essa s'era spezzata con la riforma protestante. Tutto l'Islam finì sottomesso all'Occidente. Che cosa era successo e come era potuto accadere? E, soprattutto, quale era stata l'arma conclusiva che aveva posto fine al conflitto, almeno per due secoli, dando la vittoria all'Occidente? Uno sprovveduto spettatore dei fatti porrebbe subito l'accento sullo straordinario sviluppo tecnologico che l'Occidente, in virtù dell'impetuoso progredire della sua scienza, aveva saputo preparare e mettere in campo, obbligando così l'Islam a piegarsi. 365 Coloro che studiano più attentamente la storia dell'uomo, assicurano che non è stata questa la ragione della vittoria dell'Occidente, o, almeno, non ne è stata la causa principale, ma solo uno dei molti effetti. Al solito, per capire le ragioni dell'uomo, occorre andare a considerare le idee guida, le linee di forza del pensiero. Esse individuano logicamente un obbiettivo, lasciando poi all'audacia dei più capaci, dei più forti, dei più fortunati, il compito di segnarne il percorso. L'idea guida dell'Occidente, dopo la parentesi medioevale, era sempre quella tracciata dal cittadino ateniese: la mia libertà risponde solo alle leggi della mia societas; sacre leggi che io ho il dovere d'espandere per tutta la terra, trafficando, guerreggiando, conquistando, dominando. Ma nel sedicesimo secolo era accaduto un fatto nuovo: la riforma protestante, aveva colpito al cuore la concezione, che si potrebbe definire "asiatica", della religione; una concezione basata sul principio d’Autorità, sul mistero iniziatico, sull’impossibilità, per l’uomo d'arrivare a Dio, con i soli propri mezzi. Il protestantesimo affidava invece, tutta la responsabilità, e quindi tutto il potere, all’individuo. La nuova maniera d’intendere la religione, infatti, proclamava solennemente la responsabilità del singolo, che rispondeva direttamente, senza intermediari, a Dio, per il modo con cui egli aveva speso la propria esistenza. Così, se questo distruggeva la certezza di come concepire il rapporto uomo Dio, distruggeva altresì ogni certezza e quindi, ogni comportamento legato all'Autorità. Sotto quest'ottica non vi sono regole certe, codificate dall'Autorità, su come un uomo debba comportarsi. Quando un'Autorità, qualunque essa sia, per quanto sia venerata, impone delle regole rigide, che, proprio per il carisma di chi le ha emanate tendono a divenire immutabili, allora la libertà dell'uomo è repressa e la societas, espressione di queste regole, soffoca e declina. L'uomo, e solo l'uomo, deve trovare, nella propria interiorità, il giusto rapporto con Dio e quindi con il Creato, senza altri intermediari. Solo scavando nel proprio "interiore" si possono individuare regole che, sottoposte al confronto democratico con le altre regole, possono, alla fine, costituire un corpus di leggi, che non soffochino la libertà di ciascuno ed il diritto di tutti. Questa è l'unica maniera in cui si dà modo alla libertà, antico massimo bene, scoperto in Grecia venticinque secoli or sono, di svilupparsi in sommo grado. 366 Solo su questa strada si preserva la libertà dell'uomo. Naturalmente una società di uomini veramente liberi può estrinsecarsi solamente in una società altamente democratica, se non vuole condannarsi alla disintegrazione. Infatti, mancando appunto, in essa, la massima Autorità, depositaria della Verità definitiva, si è costretti, in questo tipo di società, a giungere a stabilire i rapporti che la legano, mediante il confronto, anche aspro, delle idee. Il che è appunto il metodo democratico. La miglior forma di società democratica fu così realizzata nei paesi protestanti. Essa si concretizzò in quella che noi chiamiamo società liberale: anche se io non sono per nulla d'accordo con le tue tesi, darò la vita per permetterti d'esporle, in quanto riconosco la validità del metodo democratico, al di là del valore d'ogni singola idea. Questo è stato lo strumento, ideato dall’illuminismo francese o, meglio, europeo, reso funzionante dal liberalismo anglosassone. Questa è stata la vera arma segreta dell'Occidente. Essa fu l'unica arma in mano al popolo, per evitare che il potere, nel suo tentativo di conquistare tutto, strangolasse progressivamente la forza propulsiva di una società, smorzandone la capacità di critica e vanificando così ogni stimolo vitale, come appunto è accaduto all'Islam. In quella civiltà infatti, forse per il suo caratteristico senso d'abbandono fatalistico al volere imperscrutabile della Divinità, la responsabilità del pensare, e quindi il potere di decidere, è stato tutto lasciato agli Ulema, gli studiosi di materie religiose, più integralisti. Essi hanno distorto la dolce dottrina di Maometto, comprensiva, tollerante, molto più benevola verso la condizione femminile che non la tradizione giudaico-cristiana, che faceva nascere la donna da una costola di Adamo 3. Il Corano sostiene che l’uomo e la donna siano nati da “un’unica anima“; che fu Adamo, e non Eva, a farsi convincere a mangiare la mela; riconosce, anche alle donne, il diritto di governare, concede ad esse il diritto alla proprietà personale, alla scelta del compagno, al divorzio, all’aborto in caso di necessità, all’educazione, alla soddisfazione sessuale nel matrimonio; vieta l’infibulazione. cfr MAOMETTO op. cit. pag 165. Solo l’interpretazione estremamente restrittiva, che gli ULEMA hanno dato del versetto 34 del capitolo 4 del Corano, ove si legge che “gli uomini hanno autorità sulle donne“ ha potuto permettere la progressiva limitazione dei diritti delle donne, chiaramente codificati da Maometto. 3 367 Questa fu la vera causa del repentino tramonto dell'Islam, individuata dal filosofo algerino Malek Bennabi, che definì correttamente il concetto di "colonizzabilità" 4 . Questa teoria sostiene che la colonizzazione del mondo musulmano s'ebbe allorchè esso s'isterilì, ad iniziare dal quattordicesimo secolo della nostra era, quando gli Ulema cominciarono ad imporre il "Taqlid", "l'imitazione cieca", nei confronti dell’autorità religiosa. Certo è che, se qualcuno avesse potuto e voluto scommettere, sul finire del primo millennio della nostra era, su quale sarebbe stata la civiltà che avrebbe dato la sua impronta al secondo millennio, non vi sarebbe stato alcun dubbio. La civiltà più avanzata, quella culturalmente più attiva, quella più tollerante, anzi l'unica degna di questo nome, era la civiltà araba, e questa constatazione sarebbe stata valida, fino alla fine del quindicesimo secolo. Poi gli Ulema, che, occorre ripeterlo, non sono il clero, preponderante nell'Islam solo nell'osservanza Sciita, ma gli studiosi di cose religiose, colpirono al cuore la civiltà di Maometto. Essi ridussero il concetto di conoscenza, ('Ilm), alla sola conoscenza di cose attinenti la religione; trasformarono il consenso della comunità (Igmà), in consenso dei soli dotti, cioè gli stessi Ulema; bandirono la " Igtihad' " cioè la discussione del popolo in materia religiosa. Era nato il più forte integralismo della storia e la sua prima vittima fu la civiltà musulmana 5 . Così, per mano di coloro che si reputavano i suoi più autorevoli custodi, fu strozzata la civiltà, che aveva trasmesso al mondo il ricordo dei filosofi e della cultura greca. Che aveva capito la necessità dello zero, scoperto dagli indiani e, a sua volta, mediante lo zero aveva inventato l'algebra, la trigonometria e la geometria sferica. Che aveva raggiunto un metodo utile per orientarsi, calcolando correttamente la direzione e la rotta mediante la bussola. Che aveva inventato l’astrolabio planisferico, il primo calcolatore analogico. Che aveva scoperto ed assegnato un nome, a gran parte del firmamento. Che aveva gettato le basi per la medicina moderna, con i "Canoni di medicina" di Ibd Sina (Avicenna) e Al Razi, arrivando per prima ad una visione logica del funzionamento del corpo umano. 4 5 MAOMETTO op. cit. pag 167. MAOMETTO op. cit. pag. 133 368 Che aveva individuato, per prima, strutture come l'università e l'ospedale. Che aveva inventato la chitarra e gli altri strumenti a corda, codificando altresì l'armonia musicale. Che, come ultima cosa, aveva espresso un'idea religiosa, ma anche politica, valida dall'Atlantico all'Indonesia 6. È quindi ormai nozione comune che il concetto di Autorità, qualunque esso sia, uccide la vitalità di una civiltà; che l'unico antidoto è la democrazia reale ed effettiva, e che il tipo di democrazia, che più s'avvicina ad essa, è quella nata, nei paesi anglosassoni, dalla riforma protestante. Ma, arrivati a questo punto, che cosa si può fare, per risolvere nella maniera più razionale, lo scontro che s'annuncia prossimo? E, se scontro deve essere, quali sono le chances di ciascuno dei contendenti? Occorre, per prima cosa, aver chiarissimo un concetto: se lo scontro ci sarà, sarà uno scontro violentissimo, probabilmente mortale per tutta la civiltà dell'Uomo, come noi la intendiamo nell'attuale momento storico. Nè dobbiamo, noi occidentali, cullarci nella nostra conclamata supremazia tecnologica, talmente evidente da darci un vantaggio incolmabile. Proprio la supremazia tecnologica ci espone a ritorsioni mortali, assolutamente non eliminabili, senza pagare un prezzo durissimo, che potrebbe mettere in pericolo la nostra stessa civiltà. Già si stanno vedendo i prodromi di quello, che potrebbe essere uno spaventoso scenario futuro. Dopo aver fatto le prove con attentati artigianali, che potevano, al massimo, distruggere la vita a qualche migliaio di persone, ma che non mettevano assolutamente in gioco l'esistenza della nostra società, ora si possono evocare scenari da incubo. Gas venefici piazzati all'interno delle metropolitane, arterie non bloccabili delle metropoli occidentali, senza rischiare l'infarto dei grandi centri urbani. Avvelenamento delle acque potabili d'intere regioni. Messa a dimora di ordigni atomici, trasportati un pezzo per volta ed assemblati nelle megalopoli, per esser affogati sotto metri di cemento per non essere rilevabili, ma sempre pronti ad essere attivati con un comando inviato da grande distanza. Sono solo alcune, delle possibili risposte di un avversario fanatico e reso folle, da quella che lui intende come un'enorme 6 MAOMETTO op. cit. passim. 369 ingiustizia, compiuta ai danni del popolo dei credenti nel vero Dio, da parte dei miscredenti occidentali, figli di Satana. Avremmo così la tragedia mediorientale, che vede Israele contro l'Islam, moltiplicata per cento ed estesa a quasi tutta la terra. Certo, l'Occidente potrebbe rispondere con ritorsioni militari, ma l'unica arma veramente efficace sarebbe l'atomica, usata su larghissima scala. Il che, oltre alle comprensibili remore che il fatto imporrebbe, sarebbe una vittoria di Pirro, perché contribuirebbe in maniera definitiva a rendere il nostro pianeta invivibile. E, nell'attesa che questo scenario allucinante si compia, come resistere alla spinta incomprimibile che inonda i paesi ricchi di disperati, in cerca di condizioni di vita meno terribili di quelle che essi hanno lasciato nei loro paesi d'origine, tutti, in massima parte situati nell'Islam? Una volta poi lasciati entrare, per misericordia, per impossibilità d'opporsi al fenomeno, per calcolo più o meno intelligente, che tende a sfruttare la disperazione dell'uomo per avere lavoro a basso costo, come gestire questa massa di "altri", che, in breve tempo, reclamerebbero i nostri stessi diritti? Non sembri, l'orizzonte degli eventi così ipotizzato, una ricostruzione fantascientifica o catastrofica, gonfiata cioè dalla fantasia o dalla paura; essa è, purtroppo, una visione reale. Infatti, se pure l'Occidente fosse in grado di bloccare militarmente la spinta eversiva del terrorismo su larga scala, esso dovrebbe poi sostenere economicamente il peso di provvedere a sfamare tutto il mondo dei diseredati, una volta che li avesse nuovamente conquistati, per impedire loro di compiere quegli stessi atti terroristici. A meno che non si voglia ipotizzare, per essi, una soluzione finale di tipo nazista, una “ pulizia etnica “ che concluderebbe degnamente la nostra "Civiltà". Il solo prevenire efficacemente il pericolo del terrorismo totale, qui paventato, con le società multirazziali che si possono già intravedere, non soltanto a New York ed a Washington, ma anche ad Amsterdam, Londra e Parigi, per non parlare di Marsiglia, potrebbe avere, quasi sicuramente, un unico sbocco: lo stato di polizia. Non dicono nulla le sempre più evidenti reazioni xenofobe in quei paesi, come la Francia o l'Inghilterra, per lungo tempo paladini della libertà d'ingresso per tutti ? Non è ormai anche l’Italia infettata dallo stesso virus? L’unico rimedio conosciuto porta allo Stato di Polizia. Ma lo Stato di polizia contiene inevitabilmente altre pessime abitudini. Il controllo assoluto della società da parte dello Stato. 370 La persecuzione civile, poi sociale, poi religiosa. Il progressivo inaridirsi del Diritto. L'ideologia. Il culto della personalità. L'imposizione del Leader Maximo. Il partito unico. Il totalitarismo. O pensiamo che noi, popoli civili, non scenderemmo mai a questi orrori? Già un'altra volta, per vincere in qualunque modo la guerra tra paesi ricchi e paesi poveri, o, se preferiamo chiamarla così, tra due ideologie, che tentavano di conquistare per sé tutto il potere, il mondo occidentale ha messo mano ad una ristrutturazione selvaggia della propria economia. Questo fatto gli permise di vincere l'orso russo, già autoproclamatosi campione dei diseredati. Ma, così facendo, sempre l'Occidente ha posto le basi per quell'espulsione dal mondo del lavoro delle masse meno specializzate, più proficuamente sostituite da macchine automatiche. In questa maniera, furono impostati i presupposti della crisi che sta divorando, in tutto il mondo industrializzato, ogni classe sociale. Infatti, nel modello prescelto, anche in regime d'espansione economica, aumentano i profitti del capitale ma diminuiscono le occasioni di lavoro. C'è già chi, a questo proposito, parla d'incubo elettronico, scoprendo che tecnologia ed efficienza hanno un prezzo troppo alto, e che, a pagarlo è, in massima parte, la classe media, cioè il 70% della popolazione. Essa viene, per questo, espulsa dal lavoro e senza speranza di trovarne un altro, in quanto le occasioni di lavoro, in una società altamente automatizzata, in cui la regola ultima sia la ricerca del profitto ad ogni costo, tendono a diminuire in maniera esponenziale, con i costi sociali che tutti possono vedere 7. Il modello che l’Occidente sembra aver ormai imboccato sembra quindi escludere quello sviluppo all’infinito,che era stato in un primo tempo ipotizzato e promesso, agli inizi della rivoluzione industriale. Con questo modello di sviluppo non si potrà sradicare la povertà dal mondo dell’uomo, perchè la ricchezza ha bisogno della povertà. Quindi il dilemma è ormai chiaro: si dovrà trovare un modus vivendi con il mondo dei poveri, magari impostando un serio programma d'aiuti, un piano Marshall moltiplicato per mille. 7 Articolo di Edward LUTTWAK , PANORAMA 16/12/94 371 Esso dovrà però esser controllato passo passo, perché non diventi occasione per gli speculatori. Per suo tramite, si dovranno così ricercare e moltiplicare, sul territorio del terzo mondo, le occasioni di lavoro e quindi d'elevazione sociale. Oppure, nel migliore dei casi, aspettiamoci la nascita di uno stato di polizia in tutti i paesi ricchi, che quasi sicuramente non impedirà i grandi ricatti tentati dalle frange più estremiste dei paesi poveri, ma certamente farà morire la nostra libertà. È’ meglio poi non pensare a quale potrebbe essere il peggiore dei casi, se l'umanità non saprà risolvere questa questione. E non occorre avere al riguardo alcuna remora: spesso le soluzioni sembrano essere talmente pericolose da diventare praticamente impossibili, eppure occorre avere il coraggio di osare; ricordiamoci che l’unico modo con cui venne superato il sogno delle masse europee di instaurare il comunismo a metà dell’ottocento fu escogitato dal più irriducibile leader autoritario del momento: il principe Otto Von Bismarck, il quale rese operante l’istituto della pensione al termine della vita lavorativa, per tenere in pugno i lavoratori. Come si vede, l’insieme dei problemi esaminati è un potente nodo culturale, uno di quei grovigli che definiscono un'epoca, se non un evo. Infatti una distinzione dei grandi periodi della storia dell'uomo potrebbe essere la seguente: - Il processo di ominazione, in cui l'animale, che riconosce progressivamente svilupparsi in lui un processo di autocoscienza, deve però ancora combattere per la vita, raccogliendo e cacciando quello, che la Natura gli mette a disposizione giorno per giorno. In questa fase non ha senso, ad esempio, il concetto di proprietà. - L'età della ricerca della proprietà, iniziata, come si è detto, con la rivoluzione eneolitica, quando l'uomo si è accorto che esisteva qualcosa d'utile, anzi di prezioso, che poteva essere conservato oltre il boccone di quel giorno. Poiché quel qualcosa era raro, e conservato, da chi l'aveva, anche a costo della vita, egli si gettò alla ricerca affannosa di quel qualcosa. Nacquero così i concetti di proprietà e di guerra, strettamente collegati. - Lo sviluppo della scienza ci promette, se sapremo gestirlo correttamente, una nuova età in cui sarà possibile, mediante appunto l'estrinsecazione del progresso scientifico, avere abbondanza di tutto. 372 In tal modo saranno finalmente superati i concetti nefasti di proprietà e di guerra. È talmente conseguente l'abbinamento di tali concetti, che l'ultimo incubo, da cui siamo usciti, ne era una diretta conseguenza. Infatti, il pensiero di coloro che non avevano alcuna proprietà, se non i propri figli, il proletariato, aveva enunciato e messo in pratica una teoria, per cui il proletariato avrebbe vinto la lotta di classe, spazzando via, con la forza del numero, chiunque vi si fosse opposto. Poi le cose erano andate in modo diverso, perché coloro che furono i paladini della lotta di classe, non erano più proletariato, nel senso letterale del termine, ma erano diventati burocrazia statale. Questa burocrazia avrebbe avuto molto da perdere, se avesse comunque accettato la sfida di un confronto diretto, quando le cose si stavano mettendo male, sul versante dell'economia. Adesso il vero proletariato, quello del terzo mondo, ha conosciuto, attraverso i media, che l'hanno reclamizzata in tutta la terra, la ricchezza, anzi l'opulenza del mondo occidentale. La parte miserabile dell'umanità si è resa cosciente del fatto che quest'opulenza è, in massima parte, frutto della rapina che il mondo occidentale compie giornalmente nei suoi confronti. Attenzione! Quei diseredati non sono gli apparatniki russi, che una propria nicchia, anche se non così confortevole come quelle del mondo occidentale, se l'erano pure costruita! Le folle diseredate del terzo mondo premono sul primo, con la forza della disperazione e sono pronte a tutto, pur d'avere un minimo di possibilità di sopravvivenza. Qui si giocherà la partita e questa sarà difficilissima, una vera finale che potrà riservare, per tutti, il paradiso o l'inferno, secondo come la sapremo giocare. Non altrimenti, forse, pensavano i sognatori delle età prescientifiche, prefigurando per l'uomo, un'età dell'oro, che dovrà però essere guadagnata con molta fatica. L'unica differenza è che, coloro che hanno parlato dello scontro finale, nelle loro fantasiose analisi, hanno sempre diviso gli uomini in giusti e reprobi, collocandosi automaticamente tra i giusti e considerando quelli, che non la pensano come loro, tra i reprobi. Del resto non era scritto, sulle cinture delle SS, "Gott mit uns", "Dio è con noi"? 373 Il problema è che la partita si vince solo se sapremo superare questo dualismo, se ci accorgeremo in tempo che le due civiltà stanno per combattere su una piccola, instabile scialuppa. In essa, entrambe sono condannate o a trovare una soluzione, un modus vivendi, retto da regole veramente eque, che ci permettano d'arrivare all'età dell'abbondanza, oppure ci distruggeremo vicendevolmente. Sapremo noi superare i pericoli terribili che ci separano dall'"età dell'oro"? Esiste, probabilmente, una sola via d'uscita. Occorre che l'Islam accetti, autonomamente, come un punto d’arrivo della propria civiltà, il concetto di democrazia liberale, cioè di confronto delle idee e non scontro, insanabile, di ideologie. L'Occidente deve impegnarsi al massimo, perché ciò avvenga. Solo dopo che ciò si sarà verificato, si potrà arrivare ad una soluzione negoziata. La cosa terribile è che, probabilmente, questo accadrà soltanto dopo che lo scontro sarà iniziato, solamente dopo che innumerevoli disastri avranno offuscato la civiltà dell'Uomo. Si può solo sperare che l'accordo avvenga almeno il giorno prima della battaglia di Armaghedon8. Quindi lo scenario è definito, gli attori si accalcano, il momento è drammatico. Il rapace, libero, spirito dell'Occidente ha trovato in se la forza d'indicare una via onorevole di scampo, per evitare lo scontro finale. Delle sue religioni, l'ebraica ha accettato, facendola propria, l'istanza democratico-liberale, il protestantesimo si gloria d'averla definita, il cattolicesimo s'appresta, forse, a farla propria. Se questo accadrà, nascerà finalmente il Cattolicesimo liberale, che, insieme con l'Ebraismo liberale ed il Protestantesimo, che ha posto le basi stesse per il liberalismo, dovranno contribuire a far sorgere l'Islam liberale. Solo allora “Religio“ avrà perso il suo significato primo di superstizione e potrà dedicarsi, nel suo campo, che è la ricerca del perché, ad essere uno strumento potente per il cammino dell'uomo. Ma l'Occidente, che s'avvia unito al confronto, saprà valutare i torti che ha ricevuto l'Islam? Apocalisse di Giovanni 16,16. Si tratta della battaglia finale, tra le schiere dei “buoni“ e dei “malvagi “, immediatamente prima del giudizio universale. 8 374 Saprà l'Islam mantenere questo confronto sul piano della disputa intellettuale? Questo rischia d'essere il dilemma conclusivo della nostra civiltà. Se entrambi i contendenti risponderanno razionalmente, si potrà instaurare, sulla terra, l'età dell'oro. In caso contrario, lo scontro che ne sortirà potrebbe decidere la fine della civiltà dell'uomo sulla terra, almeno come la intendiamo ora. Questa è la posizione razionale. Vediamo, invece, come leggono razionalmente gli avvenimenti, coloro che studiano il mondo anche nel versante dell'irrazionalità, del sentimento, delle pulsioni misteriose e sommerse dell'anima. Le scienze umane sono le discipline scientifiche, che assumono l'uomo come peculiare oggetto d'indagine. È nozione ormai ampiamente accolta da quelle discipline, che tutti i fenomeni para normali, quali la precognizione, la divinazione, l'ispirazione e simili, siano un retaggio di un'epoca pre scientifica. Così, quando quei fenomeni ancora si manifestano, sono da considerarsi episodi recessivi, tali da non poter, su di essi, esplicare appieno l'indagine scientifica, proprio per la loro aleatorietà. Ma quando si va a studiare questi fenomeni, compiendo rigorose comparazioni nella tradizione scritta od orale d'ogni popolo ed entrando così nel vivo delle scienze antropologiche, si nota un fatto curioso. Tradizioni, più o meno simili, appartengono al bagaglio culturale di quasi tutte le famiglie dei popoli, e quindi se ne può studiare le loro interazioni, nei vari gruppi umani. Così, con poche varianti, troviamo, quasi dappertutto, il mito di Caino, alla radice di quasi tutte le grandi civiltà conosciute. Ancora precedente, abbiamo trovato il concetto della conoscenza del Bene e del Male e, appena successivo, troveremo il mito del progressivo degradarsi della società umana. Questo degrado è combattuto alla radice dalla Divinità, mediante castighi terribili, tali da minacciare l'estinzione completa della specie dell'uomo, per mezzo, appunto, del diluvio universale o d'altre catastrofi similari. Ultimo messaggio in codice, tramandatoci dalla più remota antichità, è il giudizio finale, quello che dividerà le schiere dei buoni e dei cattivi; entrambe pronte allo scontro finale. 375 Questo fatto sarà valutato dalla divinità per assegnare, in base ai meriti o alle colpe dei componenti delle schiere contrapposte, la ricompensa o la dannazione eterne, come ci ricorda l'Apocalisse di Giovanni. Una variante della fine del mondo, sviluppatasi al compiersi del primo millennio, è la cosiddetta profezia di Malachia, (monaco e primate d'Irlanda, vissuto tra il 1094 ed il 1148), autore dell'opera "De summis pontificibus". Malachia parte da Celestino II, Papa dal 1143 al 1144, ed elenca una lista di 112 Pontefici che saliranno al Soglio fino l'anno duemila della nostra era, quando verrà eletto l'ultimo Papa, con il nome di Pietro II. Sotto il suo pontificato si avrà la fine di Roma e, quindi del Mondo, il mondo come lo poteva immaginare un uomo del medio evo, vissuto agli estremi margini del barlume di società civile, che era sopravvissuto in quel periodo buio. " In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus, quibus transactis septicolis diruentur et Judex tremendus judicabit populum suum. Amen " 9 . Che cosa vogliono dire tutti questi oscuri messaggi, che ci giungono dalla più remota antichità, fino ad ipotizzare uno scontro finale, terribile e tale da distruggere una civiltà impostata sui parametri che conosciamo? Se, al di la del fumo, tipico dell'età prescientifica, si analizzano i dati, si evocano conclusioni non dissimili da quelle cui si può giungere con l'indagine logica, precedentemente usata. La civiltà di cui siamo figli, aveva confusamente avvertito, già nei suoi primordi, che il processo di autocoscienza aveva per la prima volta posto un essere di fronte alla scelta del Bene e del Male e questo fatto aveva innescato il problema del libero arbitrio. Di quì il mito dell’albero della conoscenza, il peccato originale, che marcherà, fin dall’inizio la nostra civiltà. Il superiore gradino di conoscenza era giunto con la rivoluzione eneolitica. Essa aveva sciolto l'uomo dalla ricerca affannosa del pasto quotidiano mediante la caccia e la raccolta, facendogli conquistare la tranquilla sicurezza di sostentarsi con il frutto del proprio lavoro nei campi. Nell’ultima, piu’ grande persecuzione di Santa romana Chiesa sarà insediato il Pietro romano , che pascolerà il suo gregge tra molte tribolazioni; superate le quali, i sette colli saranno distrutti ed il Giudice tremendo giudicherà il suo popolo.Amen. 9 376 Il livello di civiltà raggiunto era indubbiamente molto superiore, ma nascondeva un pericolo; esso aveva instaurato il concetto della proprietà e, conseguentemente, del conflitto tra gli uomini. Finora fratelli nel clan di cacciatori raccoglitori, gli uomini cominciarono a guardarsi come avversari, nella ricerca della proprietà. Una volta che uno era riuscito ad ottenere questa, egli era visto come nemico da chi, fino a quel momento, era stato suo fratello. Per questo, necessariamente, egli radunava quelli del suo gruppo e portava guerra feroce contro il gruppo dei propri simili, antagonisti, visti così come il principale avversario. La violazione della norma sacra, l’inviolabilità della propria specie, scatenava la hybris, attirava il castigo. Avvennero, così, i fatti straordinari che manifestavano la contrarietà divina. Specialmente tra coloro che avevano perso, si moltiplicavano le attese di un'epifania del Principio creatore, di un ritorno della divinità sulla terra, per raddrizzare la civiltà dell’uomo, gravemente distorta e compromessa dalla hybris. Questo ritorno avrebbe dovuto verificarsi in tempi brevi; basti ricordare il grido di Giovanni il Battista "Fate penitenza, perché il regno dei cieli è vicino". La tendenza era univoca: la posizione degli Esseni e delle innumerevoli sette che si rinchiudevano nel deserto, nell'attesa del prossimo giudizio finale, la ferma credenza dei primi cristiani, che si disfacevano dei propri beni perché era imminente il Giudizio Universale, il sorgere di profeti nelle più diverse religioni. Tutto faceva credere e chiedeva un'escatologia finale. Poi il tempo passò. Poiché non succedeva nulla di quello che tutti aspettavano, intervenne la propensione dell'uomo per le cifre complete e tutto il processo fu differito all'anno mille. La cosiddetta profezia di Malachia è evidentemente un tentativo di rimandare, alla prossima cifra completa, lo scontro finale. Esso è ormai scolpito nell'inconscio collettivo della nostra civiltà. Il risorgere di confuse, e, forse per questo, ancora più pericolose sette millennaristiche dei nostri giorni, ne è la riprova. Ma qual è il senso della divisione, tra due schiere contrapposte, dell'umanità? Se fosse solo il rapporto tra il Bene ed il Male, le due schiere avrebbero anche potuto ignorarsi, in quanto il percorso dell'una 377 non interseca e non influenza, necessariamente, il percorso dell'altra. Il significato profondo di quella contrapposizione potrebbe invece essere la rivalità, conseguente ad una divisione delle risorse della terra, ancora non bastevoli a soddisfare tutti. Delitto è infatti, per il sentire comune, l’appropriazione, a qualunque costo, della poca e misera ricchezza disponibile, l’impossessarsi del troppo, senza curarsi che al fratello è rimasto troppo poco, la ricerca affannosa di ciò, anche per mezzo del massimo crimine possibile, quello che grida maggiormente vendetta di fronte a Dio. Proprio per questo la divinità dovrà necessariamente intervenire, per giudicare una civiltà che, nei suoi primordi ancestrali, si è, da se stessa, riconosciuta basata sull'ingiustizia e sul crimine, nella violazione del tabù più sacro e più sentito. Come diceva il Padrino: "ho recato offesa al sangue di mia madre: ho ucciso mio fratello". Così, la nostra civiltà, il processo che, dalla rivoluzione eneolitica portò al concetto di polis, nacque con le stigmate della sopraffazione, della guerra, del riconoscimento della legge del più forte, come legge fondante per le società umane. Al peccato originale, proprio dell’uomo, che cercava di scavalcare Dio, si sovrappose un altro, terribile peccato: l’uomo, nella sua ingordigia, non riconosceva più il fratello. Caino, il primo che disse “questa terra è mia”, il fondatore della nostra civiltà, ha un nome illuminante; Caino significa: ” desiderio di possesso”. In questo modo il mito è svelato, il suo significato è chiarissimo. Sta alla parte più avvertita dell’Umanità accogliere il messaggio che viene dal momento costitutivo della sua stessa civiltà, definendo, per prima cosa che esistono, non tanto, i buoni ed i cattivi, ma i deboli ed i forti. Invece, se si vuol far progredire la civiltà, entrambi debbono trovare un modus per accordarsi, al fine di non far rovesciare la barca. Forse proprio questo potrebbe essere il compito ed il destino di Europa. L'idea che, meglio, ha saputo convertire in una forma di civiltà compiuta il nuovo rapporto, che s'era venuto costituendo tra gli uomini con l'introduzione del concetto di proprietà e di guerra, potrebbe sublimarsi in una nuova e più idonea configurazione sociale. 378 Questa ulteriore conquista dell’uomo sarebbe in grado di vincere il vincolo, ormai superato e, per questo, nefasto, tra polis e polemos, promuovendo un diverso e superiore patto tra gli uomini che sappia, finalmente, instaurare l'età dell'oro. Solo in tal modo il principio costitutivo della societas non sarà ulteriormente violato e non sarà, alla fine, scatenata la nemesis. Essa è, invece, indispensabile quando il crimine è commesso, sia perché così vuole la divinità, sia per una sorta di reazione automatica alla violazione di una legge. Solo se l’umanità saprà risolvere il dissidio, non sarà preteso il sacrificio. Esso, se per disgrazia dovesse avvenire, potrebbe essere totale. Forse il vecchio monaco cistercense, Primate d'Irlanda, non s'era sbagliato di molto, prefigurandosi il redde rationem della nostra civiltà, basata sulla rapina e la guerra, situandolo alla fine del secondo millennio della nostra era. Del resto la fatidica “cifra tonda” è scattata: il timer dell’apocalisse si è messo in moto 379 CAPITOLO XXVII VIGILIA Il gigante, che aveva informato di se la storia del mondo, nell'ultimo quarto dell'ultimo secolo del secondo millennio, aveva avuto il suo trionfo. Spesso s'erano riuniti, intorno a lui, i capi delle maggiori confessioni delle religioni che usiamo chiamare positive, cioè che accettano l'idea di un Dio unico e postulano un destino ed un compito per l'uomo. Nell'evenienza, s'era fatta professione di fede in Dio e di speranza nell'uomo. Si erano lanciati appelli accorati alla sostanziale unità della razza umana. Si erano scosse le coscienze dei semplici con anatemi contro la malvagità dei malvagi ed appelli alla bontà dei buoni. Ma, anche in quelle occasioni, come in tutte le occasioni fortissimamente volute, s'era sentito chiaramente che qualcosa era andato per storto. Il motivo risuonava, per una qualche maniera, falso o, almeno, incongruente e tale da non essere capace di giungere ad alcuna conclusione valida. Quelle erano state, appunto, cerimonie e, una volta compiute, tutto era stato lasciato come era prima. Nè poteva essere altrimenti: non basta aver ragione, occorre avere la forza per far vincere la propria ragione, o, almeno, suscitarla, con un atto straordinario. Questo, ahimè, non era accaduto. L'organizzazione attuale della società dell'uomo era basata sulla rapina della ricchezza, da parte di chi aveva la forza per farlo. I capi religiosi avevano fatto la loro cerimonia, le televisioni di tutto il mondo avevano ripreso la scena commovente e suggestiva e l'avevano trasmessa in ogni dove, i capi politici avevano plaudito all'iniziativa. Ora tutto poteva procedere come prima. Così l'uomo che, più di tutti, aveva contribuito a battere il comunismo, il Papa forte, aveva, sostanzialmente, mancato l’ultimo obiettivo. Egli aveva sognato di riportare il centro politico del mondo sul perno dell'obelisco di piazza San Pietro, definendo un nuovo modello per la società umana, un modello che si rifaceva però all'antica, collaudata Autoritas del soglio di Pietro. 380 L’attuale umanità non l’aveva seguito, nel suo sogno poderoso, ma ormai fuori dalla storia. Troppe e troppo potenti erano le spinte contrarie, che avevano fatto cadere quel sogno. Vecchio e malato, Egli abbandonò la scena del mondo, dopo una terribile ed emozionante agonia. Tommaso, il nostro Tommaso, era stato uno dei protagonisti del dramma che s'andava compiendo, sotto la facciata della fastosa cerimonia che prelude e promuove un nuovo Papa. In effetti, si trattava di un momento epocale, nella sia pur lunghissima esistenza del soglio di Pietro. Il Cardinal Camerlengo1 di Santa Romana Chiesa, quando era già stato spezzato l'anello piscatorio 2 di Giovanni Paolo II, aveva dichiarato aperto il Conclave ed aveva imposto l'"extra Omnes ". Tommaso stava seguendo attentamente la fastosa cerimonia, come solo uno scienziato, senza alcun interesse personale, poteva fare. A lui, che fondamentalmente era uno storico, non sembrava vero poter partecipare di persona ad un evento così squisitamente politico, oltre che religioso, quale è l'elezione di un Papa. Egli riandava al tempo in cui quell'elezione era motivo di scontro per le opposte fazioni della scena politica e voleva vedere, dal di dentro, quanto e come la bianca colomba avrebbe valutato queste opzioni. Certo non era più il tempo in cui il Cardinal Rampolla del Tindaro, già Segretario di Stato di Papa Leone XIII, non era stato eletto Papa, per motivi politici. Infatti, allora, il Cardinal arcivescovo di Cracovia aveva annunciato il veto, emesso contro l’ex Segretario di Stato, da Francesco Giuseppe d'Asburgo, imperatore d'Austria Ungheria, che s'era valso di un antico privilegio della sua Casata. Questo fatto aveva sostanzialmente impedito l'elezione di un Papa francofilo ed aveva consentito l'elevazione al Soglio di Papa Sarto, San Pio X. Fatto sta che il Papa, appena eletto, s'era messo in urto con l'intero establishment francese, all'epoca della crisi tra Chiesa Il Cardinal Camerlengo di Santa Romana Chiesa è preposto alla Camera apostolica ed è incaricato, durante il periodo di “ Sede vacante “ , di constatare la morte del Pontefice, di apporre i sigilli alle stanze del Papa defunto , di prendere possesso dei palazzi apostolici, e di convocare il Conclave, tutelandone la segretezza, mediante l’imposizione dell’”extra omnes”, cioè escludendo dal Conclave tutti coloro che non sono Cardinali. 1 2 L’anello che il Papa usa per sigillare i documenti emessi nel suo pontificato. 381 cattolica e Stato francese, a proposito dell'inventario dei beni cattolici. In seguito, Pio X s’era scontrato proprio con la parte più moderna del cattolicesimo francese, nella questione del Modernismo. Come si vede, è la bianca colomba che vola nel conclave, ma sono ben più terrene esigenze che, talvolta, le offrono il ramo su cui essa si posa, anche se, appena eletto, Pio X s'affrettò a sopprimere l'antico privilegio della casa d'Asburgo. Occorre, a questo punto, spendere alcune parole sul modernismo, perché può esser utile per capire appieno la posizione di Tommaso. Pur evitando, a tal proposito, di rifare la storia dei quasi duemila anni di politica vaticana, è necessario, però, stabilire alcuni punti fermi. Il sacro in politica ha un preciso punto di innesto. Quando Teodosio, imperatore romano di oriente, promulga l’editto di Tessalonica nel 380 dC e proclama con esso che la religione cristiana diviene religione dell’impero, mentre fino ad allora era stata concessa la sola libertà di culto ( religio licita) dichiarata da Costantino con l’editto di Milano del 313 dC, si compie il primo atto che porterà alla caduta di Roma e si innesta nella politica il concetto di sacro. E pensare che Roma non aveva mai fatto una sola guerra di religione, anzi era sua cura precipua impadronirsi di ogni divino di cui aveva conoscenza, fosse anche, e sopra tutto, quello dei popoli che si apprestava a conquistare, dando così il metro di quale fosse il posto del concetto di religio nella sua visione d’insieme e cioè ancella del concetto di Stato. Basti solo pensare che il capo dei sacerdoti romani, il Pontifex maximus, traeva origine da un’istituzione civile tanto che il suo appellativo significa letteralmente “costruttore di ponti” e che aveva, almeno nei mitici tempi della Repubblica, tra l’altro, anche il compito di vegliare sulla sacralità di quell’opera. Con ciò non si vuol dire che Roma non attuasse una sua feroce politica nella costruzione del suo impero; si constata che almeno per il civis romano non vi fosse il carico talvolta insopportabile del sacro. Il secondo, scellerato gesto di Teodosio fu quello di permettere ai Goti, dopo averli battuti, di stanziarsi dentro i confini dell’impero come “Foederati” e non vinti, ma riconosciuti come 382 un nucleo germanico autonomo, esente da tasse e dotato di ricche dotazioni di territorio con la sola condizione di fornire truppe all’impero al comando però di ufficiali germanici ( trattato di Costantinopoli del 382). Questi due fatti, compiuti nel breve volgere di due anni, a detta di quasi tutti gli studiosi moderni, costituirono la condanna a morte per l’impero romano e furono forieri di gravi distorsioni politiche. Eppure, la prima di quelle due sciagure fu quella che ancor oggi più opprime la storia d’Italia. Nella visione di Teodosio, il concetto di religione di Stato avrebbe dovuto essere il suggello supremo della sua politica, in quanto poneva la figura dell’Imperatore come trait d’union tra la divinità ed il popolo, l’unica Autorità in grado di dare forma ad ogni costruzione politica, ammantandola del velo non contrastabile del “Dio lo vuole”. Ciò perché ancora non si era costituita un’autorità delle Chiese d’Oriente, né tanto meno di quella di Roma, in grado di opporsi al volere dell’Imperatore che, d’altronde, solleticava i desideri di quelle stesse Chiese, portandole al centro dell’impero. L’Imperatore era così visto come l’unica autorità in grado di discettare di qualunque cosa, anche e soprattutto di questioni spirituali, che, naturalmente, avevano sempre un nucleo più o meno nascosto di interessi terreni. In quest’ottica Teodosio si apprestò a rendere pubblica la sua visione politica esemplificandola con la costruzione dell’imponente basilica di Aghia Sofia.: “ La sapienza rivolta al divino”, quella che, per ironia della storia, fu conquistata dai sultani turchi e ridotta a moschea, mentre ora è ufficialmente solo un museo. Il sacro, introdotto a forza nel problema politico, da allora infetterà di se il millennio successivo, procurando milioni di morti e sofferenze inaudite in tutto il mondo allora conosciuto, tagliando dalla vita degli uomini tutto quello che non fosse ”religio” e cauterizzando questo crimine con le più feroci nefandezze, compiute da chierici e clero al grido di “Dieu le voult”. Con la caduta dell’impero romano il sacro che era stato immesso da Teodosio per puntellare la politica, non essendovi più, in tutto l’alto medio evo, una autorità politica di alcun genere divenne 383 mano a mano, con l’espandersi del potere religioso, unico potere rimasto, il potente puntello per il Papato nei confronti del nuovo potere barbaro. Abbiamo visto come, per tutto il medio evo e fino alla nascita degli Stati nazionali, la Chiesa avesse avocato a sé, l'orgoglioso diritto d'essere il punto di trasmissione, il tramite tra Dio e l'Autorità politica. Senza il placet, anzi senza l'investitura formale del Papa, l'imperatore non poteva esser proclamato tale e l'Impero, seppur romano, acquisiva, prima e soprattutto, il carattere e la denominazione di Sacro, in quanto la propria autorità derivava direttamente dalla Potestà Divina. Abbiamo anche brevemente riassunto le posizioni degli Stati nazionali, sorti in Europa dal XV secolo in avanti, che sempre più scopertamente, tendevano a rigettare questa tutela, ritenuta ingombrante, soprattutto sul piano teorico. Infatti il concetto di Nazione, pur rifacendosi in una qualche maniera alla Divinità, aveva assunto, nel tempo, una connotazione sempre più laica, derivando la propria nascita dal patto sociale tra uomini e non essendo più inteso, come un evento accaduto per opera divina. Non pochi uomini di Chiesa avevano pagato la loro adesione a quel progetto, che doveva portare alla nascita degli Stati moderni, con censure pesanti, condanne inflessibili, e, qualche volta, perfino il rogo. Santa Romana Chiesa procedette sempre inflessibilmente, nel tentativo di respingere ogni attacco alla sua posizione, da Essa ritenuta centrale nella gestione del potere politico mondiale, non fermandosi di fronte a nessuna difficoltà teologica, morale, politica. Ma quando le Nazioni europee ebbero dato vita a Stati forti, che non avrebbero più permesso un'ingerenza vaticana, fu giocoforza arrivare ad un modus vivendi, che definisse nuovamente i rapporti tra il potere statale, le Chiese locali ed il Vaticano. Del resto Santa Romana Chiesa aveva dato un così miserevole esempio di corruzione, simonia, nepotismo, inettitudine a governare i propri possedimenti ed inefficienza bigotta, scatenando un rifiuto così totale dei suoi metodi, da sfociare nella riforma protestante. La politica papale, infatti, aveva assunto, per un lungo periodo, atteggiamenti assolutamente riprovevoli, entrando così, nell'immaginario collettivo, specialmente dei paesi del nord Europa, come il volto di Satana, piuttosto che come la sposa di Cristo. 384 Di questo impressionante deficit di considerazione si fecero forti gli Stati nazionali, anche quelli a maggioranza cattolica, per enunciare una dottrina, che avrebbe permesso loro di portare sotto la propria influenza il clero locale. Il giurisdizionalismo, come fu chiamata quella dottrina, nei secoli XVII e XVIII, mirò quindi a porre la Chiesa locale sotto la giurisdizione dello Stato ospitante e, allo stesso tempo, ad allentare i vincoli di questa con il Vaticano. Tutti i vari appellativi che ebbe il giurisdizionalismo nei vari Stati europei, regalismo in Italia, Febronianismo in Germania, Giuseppinismo in Austria, Gallicanesimo in Francia, miravano appunto a mettere, in una qualche maniera, sotto controllo dello Stato le varie chiese nazionali. Per fare ciò, fu promulgata l'espulsione dei Gesuiti da quasi tutti gli Stati europei, fino a che il papa Clemente XIV non ne soppresse l'Ordine, nel 1773. Infatti, fin dalla sua costituzione, nel 1540, l'Ordine era stato ovunque il bastione della fedeltà al Papa di Roma. Per questo suo attaccamento ad un simbolo, che giungeva in Europa scavalcando le Alpi, le teorie relative ebbero nome di ultramontanesimo. Solo in Russia ed a Napoli, in pratica negli stati più politicamente retrogradi d'Europa, i Gesuiti poterono sopravvivere, nonostante l'ordine di scioglimento. Poi il giurisdizionalismo scomparve, perchè lo Stato moderno, divenuto liberale, definì la dottrina della separazione rigida tra Chiesa e Stato. Le due autorità furono definite poteri autonomi e tanto incomunicabili da non avere, talora, neppure possibilità di reciproco riconoscimento, come accade, ad esempio, nella Costituzione americana. Così, nel 1814 l'Ordine poté esser ricostituito da Papa Pio VII, con la Bolla "Sollecitudo omnium ecclesiarum". I gesuiti ripartirono a testa bassa, come le truppe di sfondamento del Papato, provvedendo a fornire il supporto teologico per il Concilio Vaticano I e scontrandosi in questo, come abbiamo visto, con i Domenicani per la questione dell'infallibilità papale. Ma i gesuiti erano anche le truppe scelte, nel variegato mondo degli Ordini religiosi, quelle che si erano dedicate allo studio più attento e più severo. Essi, più di tutti, s'erano spinti innanzi, nell'esame e nell'analisi delle teorie sociali della Chiesa, affrontando, per la prima volta, da parte cattolica, lo studio della realtà, su basi esclusivamente scientifiche. 385 Così, tra la fine dell'ottocento ed i primi del novecento, furono portati avanti imponenti studi biblici e teologici all'Università Gregoriana ed al Pontificio Istituto biblico, entrambi affidati all'Ordine. Furono fondati centri di studi e furono potenziati quelli già esistenti, come appunto l'Università di Lovanio. Sorsero centri di pensiero e d'azione, gestiti da laici, ma assistiti, in larga parte dai Gesuiti, come l'action populaire in Francia o l'azione cattolica in Italia. Furono stampate nuove riviste come "Etudes e Recherches de science religieuse" in Francia, e "Aggiornamenti sociali" a Milano. Il rifiorire di studi, nel campo politico e sociale, fu infatti un'esigenza sentita anche dalle posizioni laiche, all'interno della Chiesa cattolica. Esse, insieme con analoghe posizioni, evidenziate nelle Chiese riformate, cominciarono a battersi con molto coraggio, per chiedere un rinnovamento della teologia, dell'esegesi, delle teorie e della dottrina sociale; insomma, del corpo stesso della Chiesa. Questo necessitava di radicali mutamenti, per poterlo inserire nella visione "Moderna", che la scienza stava offrendo del mondo, per mezzo dell'analisi e del metodo, appunto, scientifico. Il fatto è che ogni posizione, quando è veramente sentita, induce chi ne è portatore a non fermarsi in tempo, facendosi trasportare dalla passione, per cercare di forzare la mano su chi deve accettare quella posizione. Così, dalle tesi di Alfred Loisy 3, che cercava di postulare un cristianesimo in continua evoluzione, per adeguare il proprio messaggio alle varie situazioni in cui si veniva a trovare la storia dell'uomo, s'arrivò rapidamente a sostenere che i Dogmi possono cambiare, che la fede può essere sostituita dalla ragione, che le Sacre Scritture vanno interpretate e possono sbagliare. Di tutta la dottrina cattolica, Loisy lasciò invariata solo la posizione escatologica, cioè la ripartizione finale tra buoni e cattivi, ed il conseguente giudizio effettuato dal Cristo, anche questo visto però in forme non canoniche. Naturalmente il Papa del tempo, Papa Sarto, San Pio X, non poteva tollerare una posizione che, per correre dietro all'ansia Alfred LOISY - 1857/1940-sacerdote, professore di ebraico e di Sacra Scrittura all’istituto cattolico di Parigi, storico del Cristianesimo primitivo, con le sue teorie divenne il simbolo del MODERNISMO. Condannato allo stato laicale, incorse successivamente nella scomunica. 3 386 del moderno, lasciava fuori dalla sua visione tanta parte del Cristo e del Suo annuncio. Vennero così, prima i richiami, poi la condanna del Sant'Uffizio, infine, con l'enciclica "Pascendi" del 1907, la definizione del termine "Modernismo" e la sua condanna senza appello, seguita, l'anno successivo, dalla scomunica del Loisy. Ma questo non bastò a Pio X, che volle allontanare, dalla religione cattolica, "senza riguardi di sorta, chiunque sia infetto di modernismo". Infatti, con il motu proprio "Sacrorum antistitutum" del 1910, il Papa impose a tutto il clero uno speciale giuramento, tuttora mantenuto, con il quale i sacerdoti, ancora oggi, debbono testimoniare il loro rifiuto d'ogni pensiero modernista. Sembrava che ormai, a questo punto, la frattura tra mondo moderno e mondo cattolico fosse stata del tutto consumata, con una rottura insanabile. Invece, pur partendo da queste posizioni in apparenza inconciliabili, con quel loro capolavoro di navigazione, di diplomazia, ma, soprattutto, di ferma dottrina scientifica, alcuni, tra i gesuiti più avvertiti, tentarono di raggiungere sponde, che s'erano poste in maniera così antitetica. Essi, in sostanza, vollero cercare di coniugare nuovamente la fede in Cristo con la scienza dell'uomo. Prima raggiunsero una credibilità scientifica tout court. Poi s'attrezzarono, per mezzo del sistema ideato dal loro confratello Teilhard de Chardin, di un valido strumento che, attraverso il recupero della teoria evoluzionistica nell'ambito della visione cattolica, poteva postulare un evoluzionismo nel Creato. Quindi si lanciarono a definire una dottrina sociale che, posta su basi strettamente scientifiche, riusciva nettamente più avanzata d'ogni altra dottrina laica, senza tuttavia toccare in alcun modo il Dogma, anzi rendendolo partecipe, come motivo ispiratore, della peculiarità della loro dottrina. Infatti la teoria del volontariato deriva direttamente dal comandamento principe del Credo cristiano, dalla sua essenza costitutiva, cioè dalla parola del Cristo, che definì cristiani coloro che amavano il loro prossimo. Questa concezione, come ormai è dimostrato dalla prassi, sopravanza nettamente ogni altra teoria basata su regole che si sono dimostrate troppo violente, erronee, o del tutto false ed abbandonate dalla storia. Essa, al momento attuale, può esser un efficace antidoto contro il capitalismo più selvaggio, che postula leggi estremamente 387 dure per l'umanità e tali da confondere facilmente il mezzo con il fine. Va ribadito che quest'ardita navigazione fu compiuta senza toccare il Dogma e, soprattutto, recuperando in maniera totale la figura e la dottrina del Cristo. Questo capolavoro logico fu attuato, infatti, nel massimo rispetto della dottrina, nel più completo soddisfacimento dei dettami della scienza, nel necessario understatement, per evitare che la polemica esplodesse di nuovo. La navigazione fu ultimata felicemente, riconducendo così tutto l'ambito della scienza sotto l'ottica cristiana. Fu così ricomposta la discrasia, la divaricazione, che la condanna del modernismo aveva procurato tra scienza e religione, scrollando di dosso, dalla religione cattolica, l'accusa d'esser contraria alla ragione scientifica. Insomma quasi tutto quello che, faticosamente, il Cattolicesimo aveva recuperato nel ventesimo secolo sul piano scientifico, soprattutto su quello sociale, poteva esser tranquillamente catalogato come prodotto dall'attività della Compagnia di Gesù. Che cosa era accaduto? Come mai i Gesuiti, tradizionalmente la guardia scelta del Papa, cui, per definizione, dovevano ubbidire "Perinde ac cadaver", i paladini del più stretto sistema reazionario, che aveva avuto la sua massima espressione con il Vaticano I, avevano fatto un tale cambiamento di direzione ? Il fatto straordinario era invece che quel cambiamento non aveva interessato tutto l’Ordine di San’Ignazio, che manteneva, al proprio interno la componente intregralista, attaccata alla vecchia visione di rifiuto del mondo, di negazione della validità della sua storia, di lotta feroce, anche se portata avanti con guanto di velluto, al razionalismo dell’uomo ed al suo momento più rappresentativo, il pensiero illuminista. Ma la sola possibilità che, all’interno dell’Ordine, fosse sorta una corrente di pensiero che potesse ipotizzare un “cristianesimo adulto”, un’idea che rifiutava la paura della pena e l’angoscia del nulla come momenti fondanti di una religione, nata invece sotto il segno dell’amore, questo si, era un vero miracolo. Ciò significava, tra l’altro, che Santa romana Chiesa, ai suoi vertici. si riservava anche un’opzione, la possibilità d’incontro e forse di assimilazione del momento razionalista, che poteva esserle utile nel corso della storia. Altrimenti Essa avrebbe affidato coloro che si erano incamminati su questa strada alle cure dell’inquisizione o, se ciò non era più possibile ai nostri giorni, ai fulmini della scomunica. 388 Certo, quei temerari non furono per nulla incoraggiati, perchè la gran parte degli uomini della Chiesa era profondamente convinta della estraneità di questa dalla storia, ritenendo l’eternità il suo campo d’azione, ma essi non furono neppure costretti fuori dall’Ecclesia. L’impresa di quegli uomini fu dunque un vero miracolo, soprattutto perchè essa era il seme, il germe di un pensiero, il liberalismo, che finalmente attecchiva nel corpo del cattolicesimo. Tutto questo era stato compiuto alla loro maniera, s'intende; cioè con una correzione di rotta impercettibile ma costantemente mantenuta nel tempo, facendo nel frattempo dimenticare il porto di partenza. Infine, quel capolavoro di navigazione riuscì ad approdare ad una visione che, infatti, potremmo chiamare liberale, se le parole non evocassero un destino, che travalica il loro stretto significato. Sarebbe anche interessante conoscere gli scontri terribili, sul piano delle idee, anche se certamente questi saranno avvenuti nella maniera ovattata, propria della Compagnia. Così uno sprovveduto, molto improbabile, testimone esterno, qualora mai ve ne fosse stato, non si sarebbe potuto in alcun modo accorgere che quella fu una vera, terribile lotta. Ovviamente quel combattimento fu condotto su un piano altamente razionale, sussurrato mediante parole, che lo stesso sprovveduto, improbabile testimone, avrebbe creduto innocue. Ma lo scontro fu, certo, violentissimo. Naturalmente, per avere una risposta sicura, occorrerebbe ottenerla dai vari " Papi neri ", come tradizionalmente sono chiamati, a Roma, i Generali dell'Ordine. Dal polacco Ledochowski, che resse l'Ordine dal 1914 al 1942. Oppure dal belga Janssens, che ne fu alla testa dal 1946 al 1965. Ovvero dallo spagnolo Arrupe, che, per la prima volta nella storia della Compagnia di Gesù, stabilì il precedente delle dimissioni da Preposito Generale dell'Ordine; carica, fino allora, assegnata a vita. Evidentemente essi si mossero sotto l'impulso e con il consenso, più o meno tacito, dei Papi del ventesimo secolo, definendo la loro affidabilità scientifica fino al Pontificato di Pio XII e trasmutando questa, in un vero e proprio sistema di pensiero, ad iniziare da Giovanni XXIII. Chi guarda dal di fuori questa decisa inversione di rotta, attuata variando di un’inezia costante la direzione, può fare solo generiche supposizioni. 389 Esse sono però generate dalla realtà dei fatti, ma non provate dalla certezza di documenti, essendo l'ordine di Sant'Ignazio il più difficile da conoscere, nelle sue cose segrete. Probabilmente gli scienziati dell'Ordine misero a punto e seppero perorare dinanzi al Papa, ai vari Papi che si succedettero in questo secolo, una teoria sociale stringente ed inconfutabile. Quella teoria non poteva, forse, essere rifiutata, a pena di vedere tramontare definitivamente l'idea stessa del Cattolicesimo, impersonata dalla figura del Vicario del Cristo in terra. In definitiva, il ragionamento può esser stato il seguente: ormai il potere temporale dei Papi è definitivamente tramontato ed ogni tentativo di farlo rivivere condannerebbe la Chiesa ad una progressiva emarginazione. Già l'ultima volta che questo potere fu orgogliosamente esibito, nel Concilio Vaticano I, si fu, per la Santa Sede, ad un passo dell'interruzione dei rapporti diplomatici con gli Stati europei. Solo il restringimento del Dogma dell'infallibilità al semplice campo dottrinario, senza scantonamenti in campo politico, poté impedire l'irreparabile, come sarebbe accaduto se fosse prevalsa la volontà dei Cardinali più reazionari, che avrebbero voluto il Sillabo inserito nel Dogma. Quindi, probabilmente, dopo una serrata ed interminabile disputa, tenuta prima all'interno della Compagnia di Gesù, sul filo d'argomentazioni che sviscerarono tutto lo scibile dell'uomo e la dottrina della Chiesa, quella teoria convinse, ottenendo diritto d’asilo tra i gesuiti, e fu presentata al Papa. Sempre congetturando, forse si trattò di questo: la scienza ha, nel presente e, si spera, ancor più nel futuro, raggiunto un così alto grado d'attendibilità, da essere divenuta un valore irrinunciabile. Esso è ormai tale, da non poter esser messo in discussione, se non con argomentazioni anch'esse scientifiche. Insomma, se la scienza afferma che il telo della Sindone è stato filato nell'anno mille della nostra era, o confutiamo, sul piano scientifico, le conclusioni cui sono pervenuti gli scienziati, per fare una simile affermazione, oppure dobbiamo accettarla, senza rifugiarci nel postulare improbabili miracoli. Al massimo possiamo parlare di pie leggende, ma non possiamo più vietarci, e vietare, di guardare nel cannocchiale di Galileo, per non vedere la realtà. Chi continuasse a fare ed a postulare questa posizione ormai si chiamerebbe in una sola maniera: integralista. Egli, così facendo, esporrebbe la Chiesa a sconfitte sempre più brucianti, fino a distruggerne totalmente la credibilità. 390 Nè sarebbe valso, per bilanciarne la sconfitta, postulare un contemporaneo fallimento della ragione e della scienza dell’uomo. Ipotizzare ciò avrebbe solamente spinto la religione del Cristo verso posizioni di rifiuto totale del destino umano, rigettando altresì il patrimonio più vero del Cristianesimo, il concetto di Provvidenza. Amara teoria, quella del valore autonomo della ragione dell’uomo, che, dopo la perdita definitiva del potere temporale, acquisiva un altro termine di paragone alla religione. Questa teoria limitava ulteriormente la maestà di Pietro, ma essa doveva pur esser valutata nella sua interezza, se Pietro non voleva arroccarsi su posizioni sterili, come l'integralismo, che già aveva distrutto la civiltà dell'Islam. Pure, il nuovo approccio alla scienza dell'uomo non poteva esser demandato alle sole istanze laiche, come era accaduto con il modernismo. Occorreva che il tragitto fosse pilotato da elementi esperti, al fine d'evitare i pericoli e le chiusure, come già s'erano verificati in quella vicenda. In caso contrario, sarebbero divenute possibili fughe d'altro genere, come già postulavano strani movimenti, sul filo del rasoio dell'eresia, con buffi canti e balli, che avevano imbarbarito la pura bellezza di quello, che era stato il regno del canto gregoriano, o con rinnovati e stranamente pubblicizzati interventi di preti taumaturghi, contro “il Demonio”. Questo era appunto il compito di Tommaso e di quelli che, come lui, l'avevano preceduto e lo stavano accompagnando, nella realizzazione di una missione ardua, ma entusiasmante. Essa avrebbe potuto veramente, se portata a termine in maniera corretta, traghettare l'uomo all' età dell'oro. Toccava al Papa decidere; ed i Papi della seconda metà di questo secolo decisero. La compagnia di Gesù poteva andare avanti, almeno con i suoi elementi migliori, con il suo caratteristico passo felpato, a fare da battistrada e da esploratore a Pietro, su tutte le strade percorribili. Del resto quella era stata la regola vaticana, da duemila anni . Quando un barbaro è troppo forte, quando un potere si erge contro Pietro, basta saperglisi abbandonare, magari rifugiandosi nel campo meramente spirituale, anche tralasciando, per il momento, ogni velleità politica. La Provvidenza saprà trovare un accomodamento, che permetta a Pietro di continuare ad essere nel mondo. 391 Anche se non è più lui, che consacra il Potere. Anche se si è perso il potere temporale. Anche se il carisma vacilla, per la pochezza degli uomini che hanno impersonato Pietro. Anche se sono sorti altri poteri, che limitano oggettivamente il potere di Pietro. Ma, ora, occorreva il sacrificio supremo. Per rimettere il Cristo al centro della storia dell'uomo, forse era necessario bruciare l'ultima parvenza di potere, legata a Pietro. Solo un Papa profondamente convinto di questa necessità, sganciato dal comune sentire, che ancora si respirava negli ambienti ecclesiastici, capace di scelte epocali, poteva attuare quella dolorosa rinuncia. In caso contrario, tutto si sarebbe risolto in una stanca cerimonia, ad uso delle televisioni di tutto il mondo, senza mutamenti reali. Per incidere su di un mondo che si stava avviando al redde rationem, la Storia aveva invece bisogno di un terremoto. Lo strappo doveva esser così forte, da cambiare completamente i connotati del potere sulla terra, una volta assestatosi il cataclisma. Solo in questa maniera la "persecutione extrema" che avrebbe afflitto Santa Romana Chiesa e le "multae tribulationes" che avrebbero attanagliato i suoi fedeli e tutti gli uomini di questa terra, pur tremende, avrebbero rappresentato il convulso travaglio, che certamente sarebbe stato necessario, per far nascere quella nuova realtà. Se, alla fine, si fosse riuscito a dominare quelle terribili evenienze, che, pure, non si era stati capaci di disattivare a suo tempo, si sarebbero potute risolvere, in maniera positiva, tutte le difficoltà. Era ormai chiaro che esse si frapponevano sulla strada del raggiungimento dell'età dell'oro, l'età che avrebbe superato il concetto di proprietà ed il suo corollario, la guerra. Era pronta Santa Romana Ecclesia a fare un tale salto di qualità? Era Essa pronta a rinunciare a tutto, per proclamare solo la buona novella? Poi, in quel Conclave, vi erano le altre esigenze ecclesiali che, in una prospettiva di più basso respiro, ma con delle motivazioni politiche altrettanto cogenti, potevano esser prese a motivo, per dirigere in una certa maniera il volo della bianca colomba. Così la tragedia dell'Africa invocava un papa africano, che traducesse in fatti concreti e politicamente importanti, la 392 sollecitudine più volte mostrata, dal Cattolicesimo, verso quella disgraziata terra, che, pure, era stata la culla dell’umanità. L'Europa, che s'avviava a divenire un'unità politica ormai definita, chiedeva un Papa almeno mitteleuropeo, che potesse dialogare con il motore d'Europa, la Germania, e cercare un nuovo rapporto tra politica e religione. I Paesi anglofoni chiedevano un Papa capace di superare le divisioni nell'ecumene cristiano, in grado di soddisfare l'aspirazione dell'"Ut unum sint"4, se non sul piano teologico, almeno su quello del reciproco riconoscimento. La Chiesa ortodossa aveva presente tutto il suo amore-odio con Roma, innescato nella notte dei tempi e rinvigorito dall’azione di Giovanni Paolo II nella riconquista, secondo appunto gli ortodossi, delle anime della Santa Russia dopo il crollo del comunismo. Era quello, un sentimento che, da mille anni, aveva scardinato l'unità dei cristiani, senza esser derivato da differenze teologiche insuperabili, ma quasi esclusivamente da questioni di primogenitura e, quindi, di precedenza. Ora però le terribili condizioni dell'est europeo avrebbero auspicato un riavvicinamento tra le due Chiese, prodromo di un nuovo interesse dell'Europa ricca per l'Europa dell'Est. Occorreva solo il coraggio di non avventurarsi ancora una volta sul piano inclinato delle reciproche ripicche, per stabilire quale fosse il Capo della Chiesa ecumenica o universale. La Curia Romana cercava un Papa tranquillo, dopo l'avventura leonina di Giovanni Paolo II, un understatement che servisse a spegnere, o almeno ad abbassare, i troppi riflettori puntati sul soglio di Pietro. Poi vi erano le motivazioni "politiche". Chi voleva un Papa attento, in special modo, alla dottrina sociale della Chiesa, per evidenziare la sua sete di giustizia. Chi, invece, voleva un Papa vigile, in maniera precipua, alla dottrina teologica e morale, che doveva esser tenuta salda e, comunque, ridefinita, rispetto ai nuovi parametri che il progresso tecnico rendeva possibili. Come si vede da quelle esaminate, che sono solo le più forti, vi era tutta una serie di aspirazioni e richieste che il mondo faceva a chi sarebbe stato il nuovo Capo della Chiesa di Roma. Naturalmente lo Spirito Santo aveva le sue di implicazioni, quelle veramente cogenti, avulse dal mondo e rispondenti solo all'esigenza di non frapporre troppi ostacoli al lento andare della Provvidenza. “ Affinchè siano una sola cosa “; la formula evangelica sintetizza e riassume l’ansia di ricondurre le varie chiese, che si rifanno al Cristo, in una sola Chiesa. 4 393 Essa era il fiume immenso in cui gli uomini nuotavano, si muovevano, esercitavano il loro piccolo libero arbitrio personale, mentre il lento defluire li portava, impercettibilmente e con giri per loro oscuri, verso la meta necessaria, il punto d'arrivo finale. Essi ancora non potevano vedere quella meta, o, quando ne avevano un barlume, lo percepivano circondato di nebbia e mistero. Inoltre diveniva sempre più cogente il problema dell’Islam. Da attacchi che erano stati in un primo tempo effettuati da singoli era sorta un’organizzazione coesa, Al Qaeda, che brandiva la spada dell’Islam ed inneggiava alla Jiad, la guerra santa contro gli infedeli, gettando in un crogiolo i più disparati motivi, il tentativo di mettere le mani sull’Arabia Saudita e, quindi, sia sui luoghi santi musulmani sia sull’immensa sua disponibilità di petrolio, la rabbia dei musulmani nel vedersi depredare da ricchezze che pensavano proprie, il tentativo di partecipare ad una qualche ridistribuzione dell’abbondanza che l’Occidente aveva fatto sua, il rancore provocato dal crescente razzismo che, per contrappunto aveva invaso l’Occidente con l’invasione dei disperati nei propri confini, l’aspirazione dei paesi musulmani di liberarsi della pesante tutela occidentale. Con questi presupposti si era giunti all’attacco alle torri gemelle, che pur importanti, non avevano però messo in gioco la forza dell’Occidente. Pure, quella prova di forza aveva colpito i nemici dell’Islam ed in special modo l’America, che non aveva mai avuto attacchi sul proprio territorio in tutta la sua storia. Evidentemente l'Islam, messo alle strette e reso furioso da una situazione che s'era andata sempre più degradando, non chiedeva e non dava quartiere, preparandosi al combattimento totale, che tanto lutto avrebbe portato nella casa dell'uomo. CAPITOLO XXVIII EXULTET 394 In questo momento drammatico Tommaso s'era dovuto recare a Roma per un compito storico: ancora una volta si stavano montando, nella cappella Sistina, gli scranni dei Cardinali che dovevano eleggere il Papa . Il suo spirito libero, alieno dalle correnti, gli assicurava, in sede di Conclave, un tranquillo spettacolo, che l'avrebbe visto spettatore ma non attore. Non che mancassero, anche in quell'alto consesso, le correnti che, perfino tra gli ecclesiastici di rango elevato, servono per definire non già partiti, ma almeno tendenze e posizioni. Di nuovo, s'andava regolando tutto un reticolo di preminenze e subordinazioni, tali da costituire, in quella stessa eccelsa sede, posizioni in competizione tra di loro. Questa sua intima, ma dichiarata volontà, di non scendere in campo, consentiva a Tommaso una tranquillità d'animo, che giovava altresì alla sua libertà di manovra, tra i diversi schieramenti. Egli poteva così studiare esaurientemente e capire appieno le motivazioni dei vari candidati, specialmente quelle inespresse, ma che il suo raziocinio riusciva, di solito, con la solita logica stringente, a riportare alla luce. Naturalmente anche in quell'altissimo arengo, pur mascherato abilissimamente sotto le più lusinghiere motivazioni, se si sapeva scavare, si riusciva a far emergere il motivo ultimo, quello vero; l'orgoglio di scrivere il proprio nome sul libro dell'immortalità. Poi v'erano quelli che credevano fermissimamente e sinceramente d'essere predestinati a condurre la navicella di Pietro, per le più diverse motivazioni: il ristabilimento della fede, la ricerca di un motivo per il papato del terzo millennio, l'ansia sincera d'aiutare il destino dell'uomo. Questi erano, non diciamo i più pericolosi, ma almeno i più determinati e quelli che si sarebbero battuti con più vigore. Quasi nessuno aveva però, stando a sentire quello che dicevano e non dicevano i vari protagonisti, focalizzato il problema più importante. Se non si fosse disinnescata la miccia dell'integralismo, nella parte del mondo che più torti aveva subito per questa ragione, si rischiava veramente di veder precipitare l'umanità in una spirale terribile. Al termine di quell’avvitamento, poteva esservi la fine della civiltà, sostituita da un cupo medioevo, che sarebbe potuto durare un'eternità. Abbiamo già visto che queste evenienze non erano solo esercitazioni letterarie, ma modalità possibili nel futuro 395 dell'uomo, se non si provvedeva a compiere un grande salto di qualità, che ridefinisse completamente i rapporti internazionali. Pure, nessuno, in quella sede, sembrava essersi reso conto che quello era il problema principale, e, quindi, nessuno mostrava d'esserne preoccupato, definendo fin d'ora che cosa avrebbe potuto e dovuto fare la Chiesa per opporsi fermamente a quella triste eventualità. Al solito, quando, per pigrizia mentale, per schematismo logico, per insufficienza di motivazioni, per poco coraggio intellettuale, non si riesce a centrare correttamente un problema, ci si rifugia in vuote esercitazioni verbali. Esse producono ghirigori dialettici, ma lasciano la situazione sostanzialmente invariata. Così ci si lamentava di molte questioni malposte, in quell'Assemblea che stava facendo un riassunto della situazione della Chiesa, per individuare il Pastore, capace di risolverne i suoi tanti problemi. Si riconosceva la validità cui era pervenuto il pensiero scientifico, salvo che questi riconoscesse, a sua volta, il primato della dottrina; senza aver bene assimilato la conquista liberale della separazione dei poteri, ciascuno preminente nel proprio campo. Si esecrava la progressiva scristianizzazione della nostra società, dimenticando che il Cristo è soprattutto amore dell'uomo verso il suo prossimo, mentre la Chiesa non sapeva decidersi a mettere in pratica il primo comandamento evangelico, "Vai, vendi tutto quello che hai e dona il ricavato a chi ha bisogno". Si vedeva, con sgomento, diminuire il numero delle ordinazioni sacerdotali, cercandone, di volta in volta, la causa nelle lusinghe del mondo, nella solitudine del prete, nel richiamo della carne. Nessuno sembrava accorgersi, invece, che, al solito, si stava tirando su una generazione di preti che avevano intrapreso quella missione come si percorre una carriera. Essa prometteva e permetteva loro, prestigio, amicizie influenti, spesso potere, con tutti gli attributi che questo comporta; mentre la missione costitutiva era stata quella di portare guerra all'ingiustizia, di donare se stessi ai poveri. Anche se qualche volta, da parte di preti scomodi, ne era stata riconosciuta l'intima immoralità, si era però tacitamente sancita l'esistenza della cosiddetta doppia morale, dimenticando che l'unica volta in cui il Cristo perse la pazienza fu quando fustigò i mercanti del tempio. Ora il prete tendeva a partecipare alla politica, a presenziare negli ambienti che contano, a fare il cavalier servente delle signore annoiate, che vanno in parrocchia a fare ginnastica, ad intervenire nelle trasmissioni di successo in televisione. 396 L'onere di portare la bandiera dell'aiuto ai diseredati, bandiera che sarebbe dovuta essere della Chiesa tutta, era lasciato ai preti scomodi e senza molti mezzi. E, soprattutto, si preferiva stendere un velo pietoso sulle condizioni dei popoli poveri, per non rimarcare che essi erano divenuti poveri perché strozzati, in massima parte dalle gerarchie religiose dell'Islam. Si era ancora troppo contigui, nella religione cattolica, al concetto dell'Autorità, preminente in ogni campo, per stigmatizzare coloro che avevano progressivamente isterilito la civiltà luminosa dell'Islam, mediante il bavaglio dell’integralismo religioso. Questa posizione mortale non accetta alcuna voce di dissenso, mentre il dissenso, come insegna appunto la teoria liberale, è il prodromo necessario per il processo di tesi-antitesi-sintesi, che assicura l'avanzamento dialettico della conoscenza. Pertanto si preferiva cercare un qualche aiuto per le sventurate popolazioni povere del mondo, aiuto che necessariamente non poteva risolvere efficacemente il problema, ma non si voleva chiaramente individuare le cause di quella sventura. Così, dopo molte fumate nere, quando necessariamente la ricerca delle cause che avrebbero reso evidente la ragione di una scelta, piuttosto che di un'altra, aveva bruciato i candidati più autorevoli e seguiti, si cominciò ad allargare il campo delle ipotesi. In questa fase, Sua Eminenza Francis Atienza, presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, per cercare di sbloccare la situazione, prese l’iniziativa d'effettuare un giro d'opinioni, tra coloro che più s'erano tenuti da parte in quel consesso. Quindi, quel Cardinale chiese al Cardinal Fernays, nel mezzo della discussione del Conclave, quale fosse il suo pensiero al riguardo. Si sentì rispondere in questa maniera. "Eminenza, fratelli in Cristo. Le difficoltà di questo momentoI, dopo le battaglie di Sua Santità Giovanni Paolo II, esigono di ripensare tutta la strategia della Chiesa di Pietro, per portare innanzi il Suo insegnamento perenne, il Suo più alto patrimonio: la buona Novella del Cristo. Per prima cosa: il Dogma. Esso è lo strumento, per il debole ma costante tentativo dell'uomo, con cui conoscere la realtà del Creatore. 397 Esso è un affinamento, un continuo miglioramento, del grado di conoscenza di questa realtà, come si è venuto manifestando nella storia gloriosa della Chiesa, mediante lo studio severo dei libri canonici e la ricerca appassionata dei suoi Dottori e dei suoi dotti. Nel Dogma è immutabile la ricerca della verità, la Sua fonte è la Rivelazione, la sua causa è Dio. Guai però a cadere nella trappola, in cui è caduta la terza grande religione monoteista, l'Islam, quando gli Ulema proclamarono l'imitazione cieca, l'impossibilità per il popolo di Dio di partecipare all'enunciazione del Dogma, restringendolo ad un puro atto teocratico dell'Autorità. In questa maniera l'Islam ha ucciso la propria civiltà. La nostra civiltà, la civiltà di Atene e di Roma, dove la Chiesa ha trovato la sua naturale sede e si è potuta espandere per tutto l'ecumene, ha definito, come punto d'arrivo, certo, al momento attuale, e necessario per gli ulteriori sviluppi, il metodo democratico. Esso è la trasposizione, in campo politico, del processo dialettico, indispensabile per la ricerca della verità. Così, questa ricerca va intesa, non come il raggiungimento di una condizione ferma ed assoluta, ma come posizione itinerante, come un tendere al limite, senza mai poterlo compiutamente raggiungere nella storia, perché esso è al di là della Natura, metà ta Phisicà. V’invito a considerare bene quello che vi sto dicendo. La verità è immutabile, è una, e noi la conosciamo con le parole del Cristo. La costruzione, che il debole spirito dell’uomo ha necessariamente dovuto fabbricarsi, per cercare di spiegare, nella sua logica limitata, questa immutabile verità, è una scienza umana, è opera dell’uomo; essa si chiama teologia. Quando, in quella scienza dell’uomo, si dovessero trovare elementi in contrasto con la verità immutabile, sono possibili due errori. O ci si rifiuta di guardare, nel cannocchiale di quella scienza, per non toccare quello che noi crediamo in accordo con la verità, o dubitiamo della verità stessa, non riuscendo a liberarci dei nostri preconcetti. Entrambe queste posizioni sono errate, entrambe false, entrambe pericolosissime. Nel primo caso, per salvare quella che noi crediamo la nostra verità, assumeremmo una posizione integralista, negando ogni verità che non sia la nostra. 398 Nel secondo, noi perderemmo la Verità, dubitando di tutto, non accorgendoci che l’errore non è nella Verità, ma nel modo insufficiente e limitato con cui noi la percepiamo. Il dilemma si risolve tenendo presenti, come sempre, le parole del Cristo: “Io sono la via, la verità e la vita. (Gv 14,6.)”. Se noi non siamo stati capaci di vedere questo, nel mondo, non dobbiamo però chiuderci nella nostra visione distorta o dubitare della verità. Noi dobbiamo aver l’umiltà d'ammettere che ci siamo sbagliati, che la nostra pochezza ha impedito alla nostra debole ragione, di vedere la verità. Noi dobbiamo accettare che la verità immutabile, venga messa a fuoco, continuamente e sempre più chiaramente. Quel processo deve quindi essere dialettico, non perché la Verità sia mutevole, ma perché noi non sappiamo fare altrimenti, perché non siamo stati strutturati, per conoscere immediatamente e completamente, la verità. Non diversamente, Teilhard de Chardin ipotizzava il punto omega, il punto di convergenza dell'uomo che, partito dall'alfa, il Cristo, tendeva naturalmente alla sua necessaria conclusione finale, anch'essa rappresentata dal Cristo, appunto il punto omega. Questo processo era evolutivo su piano biologico, dialettico sul piano logico, liberale sul piano politico. Questo è il punto centrale. A quasi centocinquanta anni dal Sillabo, che, ricordo, fortunatamente e certamente per opera dello Spirito Santo, non è mai stato accettato come verità di fede, cioè come Dogma, si pone un problema ormai ineludibile. Occorre ora definire chiaramente quale è la posizione della Chiesa. Se essa dovrà convenire che il Sillabo rappresenta una realtà ormai superata, riconoscendo il valore, che merita, al metodo liberale, ovvero se dovrà esser adottato, anche per il Cattolicesimo, il Taqlid, l'imitazione cieca, con tutto quello che esso comporta. Si dovrà dire chiaramente che il Dogma è la posizione ferma con cui l'Ecclesia legge, qui ed ora, il Mistero, come ci appare, alla luce della Fede, fintanto che Esso non sfidi la ragione. Quando però questo dissidio dovesse esplodere, dovremmo cercarne la causa nei nostri poveri mezzi, che ci hanno indotti in errore, ma dovremo superare il dissidio. Come dovremo comportarci, ad esempio, se domani, un archeologo scoprisse una tomba con l'iscrizione: "Giacomo, 399 figlio di Giuseppe e di Maria, fratello di Gesù, il Messia d'Israele, nato a Nazareth sotto Erode il Grande, morto ad Efeso nella religione del Cristo "? Che cosa dovremo pensare, se tutta l'operazione fosse stata condotta sotto il più ferreo controllo scientifico 1? O, per non urtare violentemente la sensibilità di noi tutti, come definiremmo il caso in cui, l'attuale consesso scientifico, mediante il programma SETI 2, che da lungo tempo ricerca una vita intelligente oltre la nostra, nelle profondità dell'universo, si fosse, alla fine, messo in contatto con questa? Possibile che questi casi, accidenti non irrealizzabili, possano far rovinare la possente costruzione del Cristo, ove non si voglia procedere non dico alla revisione di un Dogma, ma alla sua più accurata messa a fuoco, altrimenti non eludibile? E come non far partecipare, a questa ricerca, per esplorare tutte le possibili vie della verità, quello che, una volta, si chiamava “il popolo di Dio”? Non sarebbe, questo, gettare perle ai porci, ma ricomporre quell’unità, che già esisteva ai primordi del Cristianesimo; dare veramente spazio e voce alle istanze laiche, presenti nella Chiesa. Noi, ora, in questo momento storico, dobbiamo chiaramente affermare che, ove la Fede entri in urto con la Ragione, ciò è dovuto alla pochezza dell'intelletto umano, del nostro intelletto di uomini che si applicano alla teologia, incapaci di leggere chiaramente il mistero che ci circonda. Allo stesso tempo, ormai dotati dell'umiltà di ritornare sulle nostre idee, qualora fatti incontrovertibili l'impongano, dovremo procedere affinché Fede e Ragione cessino di contendere. Per essere estremamente chiari, non potremo più rifiutarci di guardare dentro il cannocchiale di Galileo, non potremo più opporre il miracolo, alla verità scientificamente dimostrata. Ove vorremo controbbattere questa verità, dovremo fare ciò sul suo terreno, la scienza. Se saremo capaci di fare questo, raggiungeremo veramente quella intima unione tra Fede e Ragione, che è alla base della Questo fatto, ovviamente, metterebbe in crisi, più che il Dogma dell’Immacolata Concezione, che proclama Maria concepita non toccata dal peccato originale, quello della verginità della Madonna e dell’assunzione in cielo di Maria Vergine, oltre, naturalmente, al Dogma dell’infallibilità papale. 2 SETI ovvero SEARCH of EXTRA TERRITORIAL INTELLIGENCE, programma scientifico, già da tempo avviato dalla NASA negli USA per la ricerca di eventuali intelligenze aliene. Si è precedentemente considerato come la problematica, relativa alla scoperta di un’altra vita intelligente, porrebbe un dissidio di non poco conto, con la tematica cattolica relativa al rapporto uomo-Dio. 1 400 religione del Cristo; ogni fraintendimento è dovuto alla Teologia, cioè all'orgoglio dell'Uomo nel guardare il mistero di Dio. Se saremo capaci di far questo, definiremmo nuovamente la nostra Fede, con l'attributo della libertà. Se saremo capaci di fare questo, potremo veramente rivolgerci a tutti gli uomini di buona volontà e non solo a quelli che, fortunati, hanno raggiunto la Fede. Questo è il problema principe dell'attuale momento storico. Problema indifferibile, perché, secondo come lo si risolve, s'entrerà nella storia per aiutare la parte più povera della famiglia dell'uomo a capire perché essa è povera. Solo dopo aver definito ciò, si riuscirà a trovare una via d'uscita, per prima cosa nel campo delle idee, alla sua povertà. In caso contrario, chiudendoci anche noi nel nostro integralismo, si dovrà accettare, obtorto collo, il confronto con l'Islam, confronto che potrebbe essere mortale per la nostra civiltà, addirittura mortale per l'uomo. Risolto questo primo punto, punto epocale per la sopravvivenza e lo sviluppo umano, dovranno esser risolte le altre questioni. Ma esse potranno esser considerate nell'ottica della decisione presa, e pertanto ne sarà facilitato il superamento, in una visione coerente e globale, di tutta la problematica relativa. Dopo che si sia fatta chiarezza nel campo delle idee, senza rinunciare in alcun modo a quello che è veramente vitale nella nostra fede, senza toccare il dogma in quanto tale, ma capendo bene quale è la sua complessità, la sua importanza, e la pericolosità di un uso non appropriato delle sue conseguenze, si dovrà porre mano alle altre opere. Si dovrà finalmente dare un senso cristiano al concetto evangelico della povertà: la Chiesa dovrà rinunciare a tutte le sue ricchezze, anche quelle artistiche, che saranno messe a disposizione, per alleviare le condizioni dei più poveri. Capisco che questo concetto sia particolarmente doloroso, per la sensibilità di noi tutti; ma vi prego di fare riferimento alla parola del Cristo. Del resto l'operazione è meno lacerante di quel che sembri. Dovrà esser raggiunto un agreement, con lo Stato ospite, o con un'altra qualsiasi Autorità adeguata, che abbia la possibilità reale e democratica, di giungere ad un accordo equo. In quell’accordo, sarà contemplata, per quell’Autorità, l'evenienza di divenire proprietaria di tutte le ricchezze di quella Chiesa particolare che le saranno affidate, in cambio di un giusto corrispettivo, che dovrà servire per le necessità dell'apostolato cristiano. 401 Le risultanze di come si è impiegato tale corrispettivo dovrà poi esser pubblicato e certificato da autorità economiche indipendenti, Non altrimenti, nelle Nazioni democratiche, si è definita la proprietà di chi vuole esercitare l'azione politica, mediante il deposito delle ricchezze di questi, in un Blind trust, non più dipendente dalla volontà di chi ne è stato padrone. E quale migliore azione politica del Vescovo di Roma, liberato dal peso della propria ricchezza, quale politica più alta, intesa nel senso originario e migliore del termine, quale signum più indicativo di una nuova e diversa sensibilità della Chiesa verso i poveri, i primi destinatari dell’annuncio del Cristo, potrebbe esser svolto in simili condizioni? Essa riceverebbe il corrispettivo pattuito, così come, nei secoli antichi, traeva la sua sussistenza dalla carità del suo popolo. In questa maniera la Chiesa non avrebbe più il carico equivoco di una ricchezza, ormai sospetta, non manterrebbe più una potenza ambigua, fondata anche sul danaro. La Chiesa ha perso il controllo dell'Autorità, da cui discendeva il Potere, con la nascita degli Stati nazionali. L'ingerenza negli affari di Stato, quando questi Stati nazionali hanno realizzato una propria politica autonoma. Il proprio potere temporale, quando l'Italia fece scomparire gli Stati Pontifici. Ma tutte queste, a ben vedere, non sono state perdite, bensì superamento di ostacoli, abbandono di fardelli. Essi impedivano la vera missione della Chiesa di Cristo. Così, si è verificato un vero e proprio processo di sublimazione, che ha fatto bruciare tutte le scorie presenti nell'organismo della Chiesa stessa. Ora occorre bruciare l'ultima scoria, perdere l'ultimo fardello, provare che effettivamente, veramente, la Chiesa si pone in quella situazione di povertà, auspicata dai suoi spiriti migliori. Ciò deve esser fatto, per prima cosa, al fine di donare tutta se stessa a coloro che non hanno altro. Solo così, si potrà affermare, con giusta causa, il proprio diritto a parlare per essi; a porre, sul piano politico, la rivoluzione propugnata da Cristo. Solo in questa maniera si raggiungerà quell'Autorità morale, la sola Autorità che l'uomo ha scoperto intrinsecamente lecita, che ci permetterà di portare la Buona Novella, senza vergognarci nel nostro intimo, e senza esser guardati con sospetto dal resto dell'umanità. Non è un caso, perché nulla avviene per caso, ma tutto obbedisce alla logica della Provvidenza, non è un caso che 402 dobbiamo prendere questa decisione, proprio quando il mondo non ha altri ideali, se non la ricchezza. Noi dobbiamo testimoniare a quel mondo che esistono altri ideali e che i nostri ne riassumono i più alti. Del resto, quest'esigenza, sentita in ogni tempo ed auspicata dalle migliori coscienze della Cristianità, è stata posta con forza da Giovanni Paolo II 3, in una sua dichiarazione esplicita e nella pratica continua di tutta la sua azione. Ora è tempo di toglierci quest'ultimo inutile orpello, questa maschera, che nasconde e confonde l'annuncio del Cristo. Solo così, solo in questo modo potremo presentarci inermi, disarmati e a mani nude, ai nostri fratelli più poveri, per dire loro: non abbiate paura. Solo così potremo sperare d'esser ricevuti, senza garanzia alcuna, soli con il nostro Credo, nei paesi dell'Islam. Solo così, noi potremo testimoniare loro, che occorre trovare una via d'intesa con la civiltà dell'Occidente. Questa ha avuto infiniti torti, verso i popoli che ha sottoposto alla propria idea fuorviante dell’imperialismo, della conquista, dell’annullamento d'ogni altra civiltà, che non fosse la propria. Ma essa sola, la civiltà occidentale, quella che è giunta alla scienza, quella che ha scoperto il metodo liberale, può ora trovare una soluzione ai problemi del mondo, una volta che abbia saputo trovare la pace con l'Islam. Perciò, questo è il compito del Papa di questo millennio: coniugare la buona novella tra tutti i popoli di buona volontà, parlare, da povero, ai poveri di questa terra, per esser inteso. Tutto il resto si risolverà, quando noi avremo risolto questo punto". Le parole di Tommaso, iniziate quasi sommessamente in un'atmosfera che non concedeva il massimo dell'attenzione, stavano finendo nel silenzio più completo. Parlavano solo gli occhi di tutti i presenti, che in vario modo avevano testimoniato la fede di Cristo. Quegli uomini venerandi si ritrovavano, adesso, a discutere silenziosamente, al cospetto della propria coscienza, con le più diverse motivazioni, sul come fare, per far finalmente vincere la loro fede. Essi erano stati così riportati alla fonte del Credo, e questa brusca sterzata era avvertita, da tutti, come una Volontà, che trascendeva la propria. 3 cfr nota n.5 pag 286 più volte rammentata. 403 Quando Tommaso finì di parlare, il silenzio più assoluto esplose in tutto il suo fragoroso rumore, lasciando ciascuno, solo, dinanzi alla propria anima. Quello era veramente il recinto dove volava la bianca colomba. Poiché, per quella sera ormai le operazioni di voto erano compiute, il Cardinale che presiedeva quell’alto consesso, s'alzò e disse: " Venerabili fratelli, ormai è tempo di rifugiarci nella preghiera, per capire quello che la nostra anima vuol dire al nostro intelletto. Quando però sarete nel chiuso delle vostre stanze, ripensate a ciò che ci ha detto il Venerabile fratello in Cristo, il Cardinal Fernays. Egli ci ha rammentato l'essenza del Cristianesimo, ricordandoci, nel contempo, che la teologia è pur sempre una scienza umana. Il che, detto da uno dei più grandi studiosi di quella disciplina, deve essere, per ciascuno di noi, motivo di attenta riflessione". Quella notte, per la prima volta nella sua vita, Tommaso ebbe non certo gli incubi, né le visioni, perché il suo lucido logicismo non avrebbe permesso al suo animo, d'abbandonarsi così. Diciamo pure, però, che, sempre per la prima volta, Tommaso non era in grado, quella notte, di controllare in maniera ferrea, come invece gli era sempre riuscito benissimo, il rapporto tra intelletto ed immaginazione. Per cui, la sua fantasia procedeva ormai al galoppo, non elaborando più idee logicamente costruite, ma offrendo, alla sua comprensione logica, solo vedute d'insieme. Le si sarebbe potute classificare come quadri sintetici di scenari fantasmagorici, sempre però ancorati nel campo del possibile. Ora gli balzava alla mente, evidentissimo, il suo maestro, il dottor Bubber. Egli, con il suo solito sorriso impertinente, gli rammentava come l'Ebraismo, la religione dei fratelli maggiori del Cristianesimo, potesse procedere senza altri Dogmi, se non quello della fede assoluta in un solo Dio. Anzi, di questa sua peculiarità, l’Ebraismo aveva fatto motivo d'orgoglio dottrinale e di saldezza nei principii. Rivolgendosi a lui, che, nel proprio immaginario aveva assunto la figura del padre e della stirpe da cui proveniva, Tommaso 404 volle estrinsecare un pensiero ardito che, da sempre, era stato presente nel suo inconscio, ma che, ora, diventava, finalmente, esplicito. “Mio buon rabbi, nella nostra breve vita abbiamo avuto la fortuna di assistere a due momenti straordinari, per le nostre fedi: la religione del Cristo dovrà, necessariamente, se vorrà rimanere una forza trainante per l’umanità, perdere ogni residuo aspetto di regalità e di ricerca del Potere e la parte più avvertita dell’ebraismo sta mutuando la richiesta del Messia nell’attesa di un’era di pace, tesa unicamente a rendere sempre più grande la sfera della razionalità dell’uomo nel Creato. Non crede che le differenze teologiche, pur presenti, non impediscano alle due grandi religioni del libro di ritenersi ormai sorelle, anzi, due aspetti non contrastanti della stessa realtà? E non ritiene che, quando anche l’ultima delle grandi religioni monoteistiche, l’Islam, avrà superato questo immane processo di decantazione, che è costato a tutta l’umanità tanto sangue e tanto dolore, si arriverà finalmente alla completa comprensione del messaggio divino? Esiste un solo Dio, che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, per donargli , come supremo atto d’amore, il mondo. Questo era scritto fin dall’inizio, ma l’uomo, peccando d’orgoglio, ha voluto verificare, da solo, la verità del messaggio, scritta nelle regole che muovono l’universo. Se, pure, la storia è stata il compendio di quel peccato d’orgoglio, valeva comunque la pena di esser vissuta, perchè, così, l’uomo ha saputo, o almeno saprà, recuperare la verità da cui discende”. Subito dopo gli veniva alla mente quel suo buffo ragazzo che, con tutta l'impassibilità di cui era capace la sua ingenuità giovanile, gli aveva proposto l'abolizione della componente regale del Papato. Tommaso ricordava la foga e la fredda determinazione, posta dal giovane, nel portare avanti quella sua idea rivoluzionaria. A suo dire, si poteva sostituire, con migliore aderenza all’idea originaria e più proficuo adattamento ai tempi, la figura, pur veneranda del Papato, con una carica democraticamente elettiva che non avrebbe dovuto superare i cinque - otto anni, per essere veramente efficace. Quindi s'affacciava il suo amico fraterno, Monsignor Alain Drouet, che lo rimproverava sarcasticamente, come entrambi erano soliti fare, beccandosi a vicenda: 405 " E così JJ, questo era il senso del tuo discorso, quando t'opponesti a che io esprimessi le stesse scelte, che tu ora stai facendo?" Ma la sua anima rispondeva: " No, Alain; se tu avessi detto quelle cose in quel contesto, tu avresti generato solo scandalo e, forse, non ci sarebbero più state le condizioni per cui io, ora, posso far mio gran parte del tuo discorso. Vedi, tu mi rammentasti che anch'io, una volta, mi scagliai contro l'Autorità. Ma, come ti dissi anche allora, essa era l'Autorità del mio predecessore a Reims, quando non aveva capito la ragione dell'uomo, nella vicenda della malattia mortale, della SIDA. Quella non era l'Autorità di Pietro. Non esiste altra autorità che possa sciogliere quello che Pietro ha legato, ed ogni tentativo, oltre ad essere vano, è un pericolo per la Chiesa, che su questo vincolo si è retta per duemila anni. Ora occorre indirizzare questa autorità, avvalersi di essa, per rispondere alla sfida del prossimo millennio: sradicare la legge del più forte dall’azione dell’uomo, far capire che essa è ormai superata e, quindi, nefasta per la civiltà umana. Ma questo dovrà esser fatto non mediante un’idea che nasca dall’odio, dalla competizione di classe, di religione o di razza, che, comunque, sono competizione, cioè lotta, ma dall’amore, da quell’amore che è il segno distintivo del Cristo e che, nel mondo moderno, si chiama solidarietà. Solo così, potremo rendere ancora centrale, nel terzo millennio, l’insegnamento della buona novella". Subito dopo, sfuggita dai recessi più profondi del proprio subconscio, s'era materializzata accanto a lui quella tragica figuretta, quell'impertinente doppio del suo unico amore, quella Monique martirizzata da un prete, che gli andava dicendo: "Credi veramente, mio povero bel pretino, di riuscire ad estirpare tutte le brutture di questo mondo?" E la sua anima rispondeva: " Certamente no. E’ però mia ambizione, oltre che mio preciso dovere, provare a fare il possibile, per quanto questo sia povero e misero". 406 Così, alla fine di quella teoria di fantasmi, mentre il proprio io cosciente si stava abbandonando al sonno pesante che segue un evento drammatico, una figura riuscì a vincere la stretta del suo cuore ed ad uscire in quella parvenza di realtà, dopo tanto tempo. La sua Monique gli era vicino senza dire nulla, ma sorrideva. Pur nell’abbandono del sonno incipiente, Tommaso non poté fare a meno di pensare che dovesse esservi veramente una parte di verità, nel mito di Ermafrodito. Il desiderio sessuale si placa nell’amore della propria donna. Se viene a mancare l’oggetto del desiderio e se non si riesce a sostituirlo, perché si era troppo legati con quello, in quanto esso rappresenta veramente l’altra parte dell’individuo, la pulsione sessuale, ancora presente nell’animo del sopravvissuto, si sublima. Essa tende a divenire la personificazione della propria essenza, del proprio valore, della propria missione. L’uomo rimane così, carnalmente innamorato di un’idea, fedele per l’eternità a questa, che rappresenta la sua più intima essenza. Veramente Beatrice divenne la musa di Dante, la causa della sua poesia. La mattina successiva, Tommaso fu svegliato dal suo telefonino portatile, che aveva dimenticato nella ventiquattrore, lasciata sulla piccola scrivania, della camera in cui egli dormiva. Era il dottor Gottfred Stollemberg, il suo amico dei tempi di Lovanio, attuale Cancelliere Tedesco: " Eminenza, non so quanto questa mia telefonata rientri nei canoni della correttezza diplomatica. Però, anche a nome dei comuni amici Peter White, speaker della Camera dei Lords, e Paul Mercier, Capo del Governo francese, ci tenevo a porgere i miei auguri sinceri ad un uomo, che potrà fare grandissime cose per l'Europa e per tutta l'Umanità. Un caro, deferente saluto ed un sincero augurio". " Caro Stollemberg - fu la divertita risposta di Tommaso - come Lei saprà, porta male fare gli auguri ad un Cardinale, quando questi si reca ad un Conclave: tutti coloro che entrano qui come Papi, è risaputo che ne escono come semplici porporati. 407 Comunque La ringrazio di cuore del saluto Suo e degli amici, di cui serbo un gratissimo ricordo. Per quanto attiene all’elezione, non si preoccupi, abbiamo in sede un esperto, dotato d'ogni potere, per risolvere tutti i problemi di management. Ora La saluto, perché temo anch'io che questa telefonata sia in qualche modo scorretta, in quanto, durante il Conclave è proibito qualunque contatto esterno. Speriamo di rivederci al più presto; sarà mio piacere offrire agli amici un buon pranzetto in qualche ristorante di Bruxelles, per ridere di questa sua generosa iniziativa". Invece, già quella mattina, lo Spirito Santo aveva fatto breccia sulle volontà dei partecipanti a quella sacra riunione. Da assoluto outsider, conosciuto alla massima parte dei porporati solo per i suoi studi biblici e teologici, Sua Eminenza Giovanni Giacomo Tommaso Fernays, Arcivescovo di Reims, era balzato in testa ai Cardinali più votati. Tommaso non riusciva a capire che cosa fosse accaduto; perché le parole che aveva detto, quei pensieri, da lui più volte espressi nella loro globalità, avessero acquistato, in quell'occasione, il valore e l'impeto di un'esplosione, e tutti ne erano stati coinvolti. Egli andava ripetendo, tra se: " Dio mio, che cosa sta succedendo? Perché quello che ho sempre detto, ha acquistato ora un valore così eclatante? Non parlavo certo di me, quando tracciavo il profilo di colui, che io avrei scelto come nuovo Pontefice". Ma ormai la sequenza degli avvenimenti aveva acquistato una sua forza autonoma. Così, quando, di pomeriggio inoltrato, fu tenuta la nuova votazione, dopo che i paladini della tradizione avevano vanamente tentato di sbarrare il passo alla realtà del quadro evocato da Tommaso, accadde quello che doveva accadere. Superata l'assegnazione dei voti necessari per l’elezione del Cardinal Fernays, i baldacchini di tutti i Porporati s'abbassarono e rimase, unico, ancora più alto, il baldacchino che sovrastava Tommaso. Quando il Cardinal decano gli si avvicinò, per confermargli ufficialmente l'elezione e per chiedere con quale nuovo nome volesse esser chiamato, Tommaso rispose con un soffio, però chiaro e deciso. Quel nome, riportato agli altri Cardinali, suscitò un mormorio che crebbe, fino a divenire tempesta. 408 La stessa cosa accadde quando, alla finestra di San Pietro, sotto un cielo plumbeo, che minacciava di ripetere lo scroscio di pioggia che aveva inondato Roma per tutta la giornata, venne ripetuta la frase canonica: " Nuntio vobis, gaudium magnum: habebus Papam, Excellentissimum ac Reverendissimum Cardinalem Fernays, qui sibi imposuit nomen Petrum Secundum " Il mormorio della folla stava arrivando al suo massimo, quando un raggio vivissimo di luce, come solo Roma sa dare durante un temporale, squarciò le nubi e colpì in pieno la scena, con cui Sua Santità Pietro II stava entrando nella storia. Affascinata dal segno, la folla cominciò un lungo, frenetico applauso, in cui l'emozione era pari alla speranza. Così, nell'anno duemilacinque della nostra epoca, coloro che prestavano attenzione a queste coincidenze, dissero che le profezie s'erano compiute. Gli spiriti che, invece, erano insensibili a tali richiami, pur consapevoli che, in realtà, si era a duemila anni esatti dall'editto di Cesare Augusto che ordinava il censimento4, non si curavano di ciò. Il loro animo era già tutto teso alla battaglia, che s'annunciava imminente: la posta in gioco era la diffusione del messaggio del Cristo per tutto l’Oicumene, il fine era scritto nell’Apocalisse di Giovanni5 . Ma, per coloro che sapevano leggere nelle pieghe più riposte del Disegno, quel grande evento ne nascondeva altri, non meno importanti. Con quell’atto, la stirpe di Levi poteva finalmente corrispondere alla dignità della stirpe di Davide. Inoltre, la civiltà, nata dall’ansia della libertà, aveva ormai percorso tutte le strade terribili, che quel concetto poteva suscitare e le aveva sperimentate impercorribili. Effettivamente la critica moderna parrebbe situare la nascita di Cristo , come è narrata in Luca 2-1, intorno all’anno 6/7 della nostra era. Altri, partendo dall’episodio storicamente accertato della morte di Erode nel 4 a.C. ne pongono la nascita al 6/7 a.C. Cfr J.A.SOGGIN op. cit. pag. 83. 5 Secondo l’Apocalisse di Giovanni il nostro mondo finirà, quando l’insegnamento di Cristo sarà valido per tutti gli uomini. Alcuni autori non pongono necessariamente la fine del mondo come una catastrofe, ma come una palingenesi, che rinnoverà completamente l’umanità, in una visione simile all’età messianica dell’Ebraismo liberale. 4 409 Solo temperando la libertà con la giustizia si poteva procedere oltre, nel cammino dell’uomo. Colui che riassumeva in se i valori più alti, espressi da quella civiltà, stava insediandosi sulla cattedra più idonea a far coniugare alla libertà dei vincitori la giustizia per i vinti. Infine, una ulteriore considerazione, più riposta, ma dalla conseguenze più deflagranti, veniva alla mente di coloro che indagano, alla radice della storia dell’uomo: la piccola via era stata imboccata dal cuore del Cristianesimo; finalmente, era possibile verificare se il messaggio del Cristo avrebbe retto all’impatto di una rilettura, che lo avrebbe depurato da ogni accenno del magico o del misterioso, per farla dispiegare in tutta la sua evidente logicità, ponendola, così, alla base del progresso dell’uomo. Con Pietro II, infatti, il miracolo avrebbe cessato d’essere il signum del Cattolicesimo e la logica avrebbe riunito fede e ragione. Il concatenarsi delle infinite possibilità aveva portato, nell’ambito della civiltà egemone nella storia dell’uomo, ad un punto cruciale. Dopo innumerevoli secoli, tutto era pronto affinché si avverasse il nodo centrale del Disegno: l’età dell’oro stava finalmente per giungere. 410 ULTIMA ANTIFONA PERCHE’? Evidentemente non andò in questo modo. La favola, che i più avvertiti avevano sperato nelle loro prospettive più stringenti e sognato con le fantasticherie più affascinanti non si è avverata. Avevamo ipotizzato, per il successore di Pietro nel terzo millennio un personaggio che avesse tutti gli atouts per indirizzare efficacemente la navicella della Chiesa verso un percorso sicuro e tale da non esser messo in contrasto con l’uomo che si avvierà alla conquista delle stelle. Certo il percorso personale avrebbe potuto essere del tutto differente da quello descritto per l’ottimo JJ, ma ciò che a noi più importa è postulare se un tale avvenimento potesse ormai accadere nella Chiesa di Roma, cioè se una epifania di così grande portata potesse capitare, pur con qualche variante di itinerario, nel presente momento storico. Appurare se, all’inizio del terzo millennio dalla data in cui visse il suo fondatore, il cattolicesimo, e con esso tutte le varianti religiose cristiane, avessero saputo e potuto scrollarsi di dosso tutte quelle parti della loro teologia, o anche mitologia, che non riescono a reggere ad un controllo serio della ragione e che sono causa di infinite diatribe, per dedicarsi alle ragioni veramente importanti della predicazione di Yeshū’a ben Josefha. E, se questo non è successo, PERCHE’? A ben vedere, la risposta è semplice: nell’attuale momento storico non sussistono le condizioni: il Cattolicesimo e tutto il Cristianesimo non sono attualmente strutturati per condurre in porto una così grande rivoluzione. In tali religioni possono pur trovarsi singole individualità che potrebbero addentrarsi su questo cammino difficile e pericoloso, ma unico, per permettere a quella religione di rimanere viva e vitale anche alla fine del presente millennio, ma il contesto generale non sopporterebbe uno sconvolgimento così profondo. 411 Qui il discorso diventa veramente difficile, perché, per addentrarsi in questa analisi, occorre cercare di capire la vera necessità e la forza genuina del cristianesimo. Gesù non lasciò nulla di scritto; tutto quello che sappiamo, raccontato da testimoni della sua vicenda storica, è dovuto ai quattro vangeli canonici ed ai libri che vanno sotto il nome di “Atti degli Apostoli”. Questi testi sono i soli ritenuti validi, anzi ispirati e perciò stesso considerati sacri dalle varie chiese cristiane, anche se la critica storica li pone tra il 70 ed il 120 dopo Cristo. Esistono molti altri libri, anche contemporanei ai primi, che però non sono stati ritenuti validi dalle varie confessioni cristiane e pertanto, almeno per il momento, non li prendiamo in considerazione. Abbiamo così tre attori: Gesù, la sua predicazione, la Chiesa, anzi le Chiese che si vennero a costituire nel tempo e che presero spunto da alcuni capisaldi di tale dottrina. La predicazione di colui che chiameranno Gesù fu uno dei mille turbini che scossero la Palestina nel primo secolo dell’impero di Roma, turbini che squassarono quell’estremo lembo del dominio Romano e furono motivo di contagio politico contro il nascente impero, prima e dopo Gesù, fino a spingere i suoi imperatori a distruggere col ferro e col fuoco la città di Gerusalemme e a bandirne gli abitanti, rifondando la medesima città che vide il sacrificio di Cristo, come civitas romana, con il nome di di Aelia Capitolina. Gli ebrei, come sappiamo si sparsero in tutto il bacino del Mediterraneo, tanto da costituire, come abbiamo visto, il dieci per cento di tutta la popolazione dell’impero ed il venti per cento nella sua parte orientale. Si era così costituito un importante humus, su cui attecchirà facilmente la nuova religione. Ma stabiliamo per primo quello che certamente non proclamò Gesù. Egli non abbandonò mai la religione in cui era nato ma si pose come un riformatore di questa. Egli non si disse mai fondatore di una nuova religione né si proclamò Dio, ma chiamò Dio “padre” e gli uomini “fratelli” 412 riconoscendo una comune discendenza dell’umanità dal principio divino. Egli, infine, non si addentrò mai in questioni teologiche e non pronunziò mai, a quello che riportano i suoi testimoni, né la parola trinità, né alcun concetto che rappresentasse la natura tripartita di Dio. Veniamo invece ad alcuni dei suoi capisaldi. Con la sua celebre frase:”date a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quello che è di Dio” Gesù pose, per primo nella storia, la divisione tra politica e religione; le altre due fedi monoteistiche non hanno ancora raggiunto tale conquista, anzi la combattono aspramente ancora oggi. Alcuni parlano del Cristianesimo come della religione dell’amore e qualcuno si è spinto a dire che:”il cristianesimo è solo amore, tutto il resto è teologia” ma questo, se pure è giusto ed apprezzabile, non sembra, ad un’attenta analisi delle altre religioni, una caratteristica esclusiva del Cristianesimo. Quasi tutte le religioni custodiscono in esse, come elemento positivo, l’amore per il prossimo; solo le sette diaboliche sono contrarie a questa norma di civiltà. Si deve però tener presente che, fino a due secoli or sono, gli uomini molto difficilmente si allontanavano dal luogo d’origine e quasi mai si spingevano a più di cento chilometri da questo, per cui l’amore per il prossimo è sempre stato inteso come amore dovuto verso i propri conoscenti o, almeno, verso quelli che parlavano il loro stesso dialetto, essendo sempre presente il sacro terrore per lo straniero, o, se non altro, un senso di generale diffidenza. Solo in tempi recenti, e non sempre e non definitivamente, si è inteso il concetto di “amore per il prossimo” come riconoscimento in ogni individuo della comune umanità e questo è stato un momento solenne nella storia dell’uomo, compiuto dall’illuminismo europeo, ma attualmente portato avanti con forza da ogni chiesa cristiana, mentre, nel corso dei secoli, la Cristianità aveva accettato i concetti di schiavitù e di supremazia maschile(un importante Concilio stabilì che la donna avesse solo mezza anima!). Dove invece il cristianesimo compie, fin dalla parola del Cristo, chiarissimamente un salto di qualità è dato dal concetto dell’umile, del diseredato, del vinto dalla vita. 413 Gesù, nel discorso della montagna, proclama, per primi, ”… beati i poveri in spirito, gli afflitti, i miti, coloro che hanno fame e sete di giustizia, i puri di cuore” e promette loro il posto più vicino a Dio”. Abbiamo visto come, in termini più moderni, Nietzsche definisca i cristiani come gli umili o gli ultimi della terra ed il cristianesimo la religione dei vinti. A riprova di quale fosse il vero obbiettivo della dottrina enunciata da Cristo si erge il concetto per cui è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco ( o comunque un vincente) possa entrare in Paradiso. Concetto questo aspro e terribile, che invano la Chiesa di Roma, cercò in tutti i modi di edulcorare e di rendere digeribile a coloro che, pure, erano stati i primi destinatari della predicazione di Cristo. Concetto tuttavia che viene posto al centro della dottrina cristiana dal cattolicesimo, mentre le chiese protestanti, con la loro pretesa della predestinazione, che nega ogni possibilità di salvazione alla sola volontà dell’uomo, pongono la ricchezza, o almeno la sicura agiatezza, come segno di riconoscimento della divinità per la salvezza dell’anima di un determinato individuo e quindi, giustificando la ricchezza, glorificano il capitalismo, ma negano il libero arbitrio dell’uomo. Eppure, duemila anni or sono, con queste sole armi vincenti, il riconoscimento degli inalienabili diritti di ogni essere umano e la distinzione tra potere civile e potere religioso, la religione di Cristo riuscì a distruggere dal di dentro il più grande impero della storia, l’unico che sia durato molto più di mille anni. Occorre qui focalizzare l’attenzione sul perché ciò accadde. Intanto si deve riconoscere che il vero costruttore della religione cristiana fu Paolo, ebreo ellenizzante nato a Tarso nell’odierna Turchia e cittadino romano. Paolo, contemporaneo di Gesù che però non conobbe direttamente, in un primo tempo osteggiò la predicazione del Cristo, ma, dopo una eclatante manifestazione prodigiosa, divenne un suo fervente ammiratore ed un formidabile propagandista delle tesi cristiane, riviste però nei suoi concetti che risentivano fortemente delle posizioni proprie della filosofia greca, in special modo desunte dal pensiero platonico. 414 Questa è la prima notevole discrepanza della posizione del Cristianesimo dal dettato del Cristo, in cui si diceva che tale religione doveva esser fondata sulle tesi di Pietro ( Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam Mt 16/18), ma Pietro appare molto meno importante nella costruzione ideologica della nuova religione rispetto a Paolo. Paolo infatti vinse le resistenze di coloro che ritenevano il cristianesimo una setta strettamente ebraica, per cui, per aderirvi occorreva prima passare attraverso la religione di Mosè. La nuova religione, liberata da questo cavillo, inutile ed inopportuno secondo le tesi paoline, si poteva così separare dal contesto caotico delle varie sette ebree ed iniziare il suo percorso che la porterà a divenire la distruttrice dell’impero romano e, di converso, la sua erede. Vediamo brevemente come ciò accadde. Per tutto il periodo regio e repubblicano Roma si resse, per più di settecento anni, sul binomio “Senatus populusque” formula in cui si vedeva riconosciuto, accanto al Senato, espressione degli ottimati romani, il popolo cioè coloro che, pur non avendo ricchezza, erano parte inscindibile del sistema romano, perché unica forza della Repubblica, protetti, per questo, dall’istituzione del tribunato del popolo che rendeva viva e vitale l’orgogliosa affermazione”civis romanus sum”. Poi le grandi vittorie di Roma, vittorie del Senato e del popolo, portarono enormi ricchezze alla città ma tali grandi ricchezze, essenzialmente oro, terre e schiavi, andarono esclusivamente ai senatori, cioè alla classe dei più ricchi del tempo. L’unico che si accorse del pericolo per Roma fu Caio Giulio Cesare, il quale avrebbe voluto, e forse tentato, di spalmare la grande ricchezza acquisita, tramutando i suoi legionari in ceto medio possessore di adeguati ma non troppo vasti appezzamenti dei terreni conquistati. Questa riforma fondiaria fu resa vana dal Senato, che vedeva i suoi membri divenire latifondisti sempre più voraci fino ad arrivare all’esempio di Verre, che possedeva l’intera Sicilia. Il Senato così tolse di mezzo Cesare, con la scusa della sua pretesa ambizione ad esser proclamato Re, parola aborrita a Roma e, morto lui, impedì la possibilità di creare un ceto medio da spargere nei domini di Roma, per costituirne l’ossatura del sistema politico. 415 Ma i senatori, seguendo ante litteram il modello marxista, divenuti grandi capitalisti, di un capitale che abbiamo visto comprendere terra e schiavi, iniziarono una feroce guerra di auto eliminazione, che si concluse fatalmente con l’impero. Così i Romani, che non volevano un re, il quale sarebbe potuto esser sottoposto ad un bilanciamento dei poteri dalla presenza del Senato, si trovarono schiavi di un Imperium militare che, per definizione, non poteva avere alcun contraltare. Per questa ragione un impero, costituito da milioni di persone in cui solo alcune poche migliaia erano in grado di vivere un’esistenza di grandi agi e di molte possibilità, non poteva non scontrarsi con le aspettative delle moltitudini di individui che vedevano la propria vita immiserita dalle ristrettezze, se non dalla schiavitù che, pure, era bloccata e tenuta a bada con leggi severissime1 L’”Imperator” divenne presto un satrapo orientale che poteva nominare senatore il proprio cavallo, che non si curava di alcuna legge e che era capace di ogni delitto, anche se rarissimamente moriva nel proprio letto. Inoltre l’enorme ricchezza che si andava accumulando e l’esempio deleterio delle classi altolocate produssero un sempre più sensibile rilassamento dei costumi, cosa questa che condusse ad un imbarbarimento degli antichi ideali dell’Urbe. Così il cittadino romano, ormai suddito dell’impero, non volle più sostenere i disagi della vita militare, che, pure, aveva fatto grande Roma e, ne demandò i compiti ai barbari che vivevano nelle vicinanze dei confini dell’impero: il Limes2. Intanto l’opera della nuova religione aveva dato coscienza ai sottomessi del fatto che perfino essi avevano dei diritti inalienabili e ciò necessariamente innescò quella situazione, descritta da Edward Gibbon3, che portò alla dissoluzione Il prof. Aldo SCHIAVONE, nel suo libro “La storia spezzata” Laterza ed, riporta:”…un’antica prescrizione, confermata da un provvedimento di età augustea, il senatoconsulto Silaniano del 10 d.C.- per cui- in caso di omicidio del padrone tutti gli schiavi che vivevano con lui dovevano essere torturati e poi messi a morte” Era la linea di confine sul Reno stabilita da Augusto dopo la sconfitta romana di Teutoburgo del 9 d.C. 3 Edward Gibbon nel periodo 1776/88 scrisse, in sei volumi: “The history of the decline and fall of the Roman Empire” ascrivendo proprio agli elementi 416 dell’impero, come abbiamo già visto quando abbiamo accennato a Teodosio. Ancora in età imperiale, la nuova religione di Cristo, dopo il riconoscimento di Costantino, che l’aveva proclamata “religio licita” si era strutturata su quattro Patriarcati4, seguendo la giurisdizione politica romana dei due Augusti ed i due Cesari, Abbiamo visto inoltre l’improvvido inserimento del potere religioso nel potere politico, compiuto da Teodosio (cap XXVII), per cui, caduta Roma con una lunga e terribile agonia, non rimase più alcuna Autorità, se non quella religiosa, che si ergesse contro le atrocità dei barbari che sommersero ad ondate successive le terre che erano appartenute all’impero. Quindi, almeno in quello che era stato l’impero romano d’occidente, solo il tremante rappresentante della nuova religione, il capo locale degli adepti, il vescovo, si presentava, inerme, ai nuovi conquistatori per impetrare pietà. I meno barbari di essi conoscevano ciò che avevano distrutto perchè spesso, si erano avvicinati alla religione dei vinti, quando erano loro i vinti, per cui dovendo parlare con i nuovi sottomessi, era naturale che si rivolgessero agli alti gradi del Clero. In questa maniera il clero cristiano, divenne l’unica autorità delle popolazioni locali e, quando i barbari si fusero con esse, furono le uniche autorità superstiti all’impero romano, da cui esse trassero abitudini, modi , cultura e legislazione. Tutto il mondo, divenuto cristiano, riconosceva la supremazia del vescovo di Roma, il Papa, che divenne così la più alta Autorità religiosa, per cui, quando nel giorno di natale dell’800 Carlo Magno indossò la corona d’Imperatore del nuovo impero successore di Roma, egli se la fece porre sul capo dal Papa testè evidenziati la caduta dell’impero romano. 4 Il concilio di Nicea 325 dC aveva stabilito i quattro patriarcati e la loro giurisdizione: patriarcato di Roma,fondato da Pietro e Paolo, con a capo il vescovo di Roma che aveva il primato su tutti gli altri per la nota affermazione di Cristo “Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia chiesa” Mt 16,16/18 , Costantinopoli fondato dall’apostolo Andrea che aveva “l’onore dopo il vescovo di Roma perche Costantinopoli era la nuova Roma”, Alessandria fondato da Marco l’evangelista che aveva giurisdizione sull’Egitto, la Libia e la Pentapoli, ed infine Antiochia, anch’essa fondata da Pietro, che aveva giurisdizione sul medio Oriente. 417 Leone III e volle chiamare il suo Impero prima sacro e poi romano. Si innestava, nuovamente, nella politica, il concetto che vedeva religione e politica strettamente collegate. Così l’Autorità politica imperiale era autenticata e resa vigente dal necessario assenso papale, e per converso, nel l’824, Lotario, re d’Italia con la Costitutio romana, stabilì che un rappresentante dell’imperatore dovesse esser presente all’elezione del Papa . Come si vede, le due cariche si avvinghiano l’una all’altra rinnovando così quella commistione che il Cristo aveva negato e che sarà causa di infiniti guai per l’Europa e, in special modo, per l’Italia.. Con la rinascita del nuovo impero di Roma sotto il sigillo del sacro, il Papato si sente talmente forte da cercare di imporre la propria supremazia sul potere politico e spiega la logica di tale istanza con il seguente concetto: “Tutto il potere viene da Dio, il Papato è il tramite tra il potere divino e quello terreno quindi il Papato è superiore ad ogni potere terreno. Pertanto il potere politico, per poter rettamente operare necessita dell’approvazione costante del Papa cui dovrà rispetto e amore filiale”. In pratica il Rappresentante del potere religioso, fatto entrare a forza da Teodosio nel lontano IV secolo nel gioco della politica, tenta l’en plein, ponendosi come Primus, capo e perno di ogni Potestas. Abbiamo visto, nel capitolo XXVII, come si svolsero i fatti storici che insanguinarono, per questa pretesa, tutto il secondo millennio e sappiamo come andò a finire. Il Sacro Romano Impero non accettò mai questa tutela del Papa e perciò quel titolo perse di validità, fino a divenire una medaglia di poco conto sull’uniforme dell’imperatore d’Austria, capo della casata degli Asburgo, medaglia strappatagli da Napoleone I nel 1806 e gettata nella pattumiera della storia. Ma le Nazioni d’Europa, sorte sul tronco del Sacro Romano Impero, già da tempo avevano abbandonato de facto la pretesa papale della supremazia su tutti i poteri e, approfittando della riforma protestante, anche gli Stati formalmente cattolici si sfilarono, uno dopo l’altro, dalla pesante tutela papale. 418 L’Inghilterra di Edoardo VIII, che per la sua opposizione a Lutero aveva ricevuto dalla Chiesa di Roma il titolo di “defensor fidei”, approfittò della sua disputa con il Papa circa l’annullamento delle sue nozze con Caterina d’Aragona, per staccarsi da Roma. Infatti, in seguito a ciò, il re d’Inghilterra promulgò, nel 1534, l’”Atto di Supremazia” che stabiliva l’uscita della Nazione dalla comunione con il Papa proclamando altresì il Re “unico capo supremo della chiesa d’Inghilterra”. Similmente, in Francia, Luigi XIV, il re Sole, si sottrasse dalla pretesa papale della supremazia sui regnanti, supportando in massimo grado il Gallicanesimo, la teoria che attribuiva caratteristiche originali alla chiesa di Francia, liberandola in qualche maniera dalla presa che i Papi avrebbero voluto imporre sulla loro “figlia primogenita”, come essi erano soliti definire la Francia. Il Re Sole impose una “ Dichiarazione del clero di Francia” che limitava fortemente i privilegi della Chiesa francese negando che i funzionari statali potessero esser colpiti dalla scomunica mentre erano in carica, imponendo ai vescovi il divieto di uscire dai confini del Regno senza l’assenso regale e, soprattutto, negando ogni validità ad ogni atto papale nel regno di Francia senza il preventivo assenso regale. In Austria Maria Teresa aveva cacciato l’ordine dei Gesuiti, aveva limitato le pretese di autonomia del clero, aveva abolito l’inquisizione, aveva instaurato nei suoi Stati il Giurisdizionalismo, quella dottrina illuminista che poneva la giurisdizione ed il controllo dello Stato sulle competenze del clero. La soppressione dei Gesuiti nel 1774 fu il momento culminante dell’azione degli Stati tesa a difendere la loro sovranità dalla presa del Papato. Toccò ai due Napoleone dare gli ultimi schiaffi al potere politico dei Papi: Napoleone primo, infatti, al momento della sua incoronazione, tolse la corona imperiale di Francia dalle mani del Papa e se la mise autonomamente sul capo. Napoleone terzo operò alla stessa maniera: la sua Segreteria di Stato, dopo la promulgazione del Sillabo, sommessamente fece sapere a Pio IX che, qualora fosse stato approvato, nel Concilio Vaticano I il dogma dell’infallibilità papale tout court e quindi 419 anche per le questioni politiche, la Francia avrebbe perseguito una politica d’autonomia anche religiosa dal Papato. Così la Chiesa, che nel 1870 aveva perduto le ultime vestigia del potere politico con l’annessione di Roma all’Italia, si pose nella seguente posizione: visto ormai cassato, almeno per il momento, il predominio o comunque la possibilità di interferire sul potere politico, occorre però non cedere sull’ultima vestigia di potere: il potere spirituale. Fu così posta nuovamente tutta l’attenzione su un’antica frase di un vescovo e martire cartaginese del III secolo dC, san Cipriano, che afferma:”Extra ecclesiam nulla salus” cioè “non vi è alcuna (possibilità di ) salvezza al di fuori della Chiesa”, frase che era già stato il principio informatore della famosa bolla “Unam sactam” di Bonifacio VIII del lontano 1302 e che era riapparsa nella proposizione XVI del Sillabo, per condannare l’indifferentismo cioè quella posizione illuminista che concede di onorare qualsiasi divinità in quanto all’uomo non può mai esser chiara alcun’altra qualità di Dio se non la Sua esistenza. In tal modo la Chiesa ribadiva, come aveva sempre fatto nella sua storia, l’antica disputa innescata da Bonifacio che aveva parlato delle due spade, il potere spirituale e quello politico, spade che, per quel Papa dovevano appartenere entrambe al papato. Dopo quasi un millennio di lotte terribili, la Chiesa, a denti stretti e con numerosi distinguo, che le avrebbero permesso di tornare ad avere a disposizione tale potere quando se ne fosse presentata l’opportunità, affermava di aver graziosamente concesso che le Autorità laiche esercitassero autonomamente il potere politico, mentre, in verità, questa conquista era costata vari milioni di morti in Europa. Ma il fatto che “fuori dalla Chiesa non v’è salvezza” servì a far proclamare alla Chiesa di Roma l’assoluta differenza con le altre religioni: essa, solo essa, era la salvezza, tutte le altre religioni erano false, o scismatiche o eretiche. Perciò la Chiesa, ribadendo, almeno sul piano teorico l’antica preminenza e ponendo autonomamente la propria dottrina come l’unica vera, si riserva anche il diritto di combattere, ancora oggi, una legge dello Stato che Essa ritenga non confacente alla propria dottrina. 420 Ricordiamo che questo, e solo questo, fu il motivo ispiratore delle persecuzioni mosse dall’Impero di Roma al Cristianesimo primitivo: la non accettazione a priori dell’Autoritas della legge dello Stato Romano sulla religione nel campo della vita civile. Se apriamo una parentesi possiamo congetturare che questo sia il vero motivo per cui i Parlamenti dell’Europa, eredi di quell’Autoritas, vogliono tagliare le radici cristiane dalla loro storia. Ma, tornando alla fine del secolo XIX, la Chiesa non poteva accettare, nemmeno in teoria, una qualche sua limitazione nel potere spirituale. Era stato così grande il potere del Papa di Roma sulle masse cattoliche dell’Europa e così importante per ogni nazione del mondo la sua autorità morale. Il solo fatto di agitare le folle cattoliche d’Europa su questioni che non parlavano più di potere tout court ma trattavano di questioni sociali o morali in contrasto con le posizioni del potere politico poteva suscitare almeno una preoccupata attenzione di tutte le Cancellerie europee e mondiali. Questa ricerca di nuovi argomenti, le “rerum novarum”, era, all’inizio del XX secolo, un modo intelligente di tentare di rimettersi al centro dell’attenzione, nell’agone politico. Così Roma potè iniziare la stagione delle encicliche cosiddette sociali, già ampiamente rammentate, ma il nuovo impegno per coloro che, pure, erano i primi destinatari della religione del Cristo, gli umili, non ottenne gli effetti sperati. Si, le grandi encicliche avevano portato un grosso fermento tra coloro che già si professavano cattolici, ma non si era verificato quella riconquista dei cuori di tutta la Cristianità, come forse avevano sperato le Autorità Vaticane. Le teorie del comunismo e del socialismo, eredi politiche dell’illuminismo, che già avevano avuto grande peso sulle masse nel XIX secolo, spaventavano le Autorità vaticane e non permettevano nemmeno di tentare un accordo che, allora, come ancora adesso, non si riesce a fare. Lontani erano i tempi in cui ogni comunità europea viveva e si toglieva il pane dalla bocca per costruire cattedrali sempre più belle e più imponenti, tempi in cui la semplice parola del Papa poteva distruggere moralmente e, spesso, materialmente la vita di un uomo. 421 Infatti, dalla seconda metà del secolo XIX si assistette ad un fatto nuovo: altre teorie, figlie del pensiero liberale che attecchì in Europa dopo il primo Napoleone, , avevano messo in discussione sul piano prima filosofico e poi politico la tranquilla vita dell’Ancien Regime, figlio ormai esausto del feudalesimo. Ma il fatto inaudito, portato da quelle teorie, doveva venire più tardi: dal secondo dopoguerra mondiale i cristiani perdono sempre più velocemente la fede dei loro padri o, almeno, non intendono esser più parte passiva nell’ambito della Chiesa. Alla fine del millennio avvengono fatti che spaventano i vecchi prelati. Nella Spagna, in cui cento anni prima i supporters della Vergine dei sette dolori arrivavano a darsi coltellate con i supporters di una qualsiasi altra rappresentazione della Madonna, esprimendo così una partecipazione ossessiva alle tesi cattoliche, ora la maggioranza politica del paese faceva passare tranquillamente il matrimonio civile, il divorzio, la fecondazione eterologa. e si apprestava a togliere il Crocifisso dalle sedi pubbliche L’Austria cattolica era in tale fermento da far dire, ad una associazione di cattolici in opposizione ai propri vescovi:” NOI siamo Chiesa” ponendosi, così, temerariamente contro i propri pastori. In Canada, come ricorda un bel film , la chiese si svuotarono di colpo in pochi mesi. In Olanda si arrivò all’”abominio” dell’eutanasia assistita. In Germania, la nazione che aveva dato i natali all’ultimo Papa, scoppiava, violentissimo, lo scandalo dei preti pedofili, che già aveva quasi distrutto finanziariamente le grandi Chiese cattoliche americane, con echi e scandali in tutto il mondo e, anche lì, si cominciava a parlare di eutanasia. Dappertutto vi fu un’emorragia di fedeli: sempre meno persone si recavano a messa, esprimendo in tal modo l’allontanamento dal cristianesimo. Perfino in Italia, il giardino del Papato, dove, se pur senza una partecipazione sentita e cosciente sul piano delle convinzione, era da secoli invalso l’uso della messa come fenomeno sociale tanto importante da esser quasi unico, le chiese, prima quelle delle grandi città, poi, a macchia d’olio, anche quelle dei più sperduti paesi rimanevano prive di fedeli che non fossero le vecchie beghine, il matrimonio civile si avviava a superare 422 quello religioso, la fecondazione assistita faceva la sua comparsa e si discuteva del modo più corretto di concepire il fine della vita. A Roma, agli sgoccioli del millennio, si diceva che fossero presenti solo due ragazzi negli imponenti seminari cittadini ed uno di essi si fosse ritirato dagli studi. Le parrocchie erano talmente vuote che prima si contrassero nel numero e poi furono affidate a sacerdoti di colore o dalle inusuali sembianze asiatiche. Si, il papa leonino, Giovanni Paolo II, era riuscito ad attrarre centinaia di migliaia di giovani ai suoi raduni, ma gli operatori della nettezza urbana raccontano come, dopo tali raduni si fossero dovuti impiegare camions per ritirare i preservativi usati da quei giovani in quelle adunate. Non era dunque carisma, adesione ad una dottrina, ma curiosità mondana. Qualcuno paragonò il cristianesimo ad un grande fuoco che, acceso a Roma, ora si stava espandendo alla più lontane regioni dell’Africa e dell’Asia, ma si stava spegnendo nella sua culla originaria: l’Europa, dopo aver tutto bruciato. Che cosa stava succedendo e come ciò era potuto accadere? Correttamente la Chiesa individuò l’avversario: il secolo dei Lumi, il settecento europeo, il momento in cui il cittadino europeo, reso libero dalla tutela ecclesiastica a causa della riforma protestante, che concedeva all’uomo tutta la responsabilità del suo pensare ed agire, reso cosciente della forza della nuova arma che il progresso gli aveva posto tra le mani, la scienza, incominciò ad usare tale arma per indagare, tra l’altro, proprio sulla religione e la filosofia. La scienza è lo strumento principe, anzi l’unico, con cui l’uomo cerca di capire l’universo che lo circonda e che comprende anche se stesso, senza più affidarsi al miracolo o al mistero. La scienza ha un preciso punto di nascita: il seicento europeo e, fin dal principio, essa nacque in opposizione alla religione. Non che prima di quel secolo non vi fossero stati scienziati o osservazioni scientifiche: la misura del raggio terrestre ad opera di Eratostene, nel terzo secolo avanti Cristo, ne è una corretta identificazione, ma è solo nel seicento che si individuano esattamente le condizioni essenziali per operare in campo scientifico e cioè: 423 il dato scientifico deve essere universale, esattamente definito ed accettato da tutti o confutato con altri dati scientifici. Il dato scientifico deve esser sempre riproducibile, date le condizioni di partenza per giungere ad esso e per poterlo replicare Esso deve essere costante nei risultati Inoltre Il dato scientifico deve prescindere e non accettare mai di discutere il principio d’autorità, il miracolo, il trascendente, il mistero acritico, cioè le ragioni astratte che possono esser state addotte per quel dato, ma deve solo considerare e misurare gli aspetti quantitativi del fenomeno per poterne calcolare esattamente le dimensioni reali. Infine, una teoria che discende dal dato scientifico non è mai una verità assoluta, ma solo un modello che tenta di rappresentare alcuni aspetti della verità. Per questo le teorie scientifiche sono sempre sottoposte alla ricerca continua, che tenta di scoprire il possibile falso che si nasconda in quel modello o tenta di superare l’impasse con un più ampio sistema di verità. Pertanto la verità scientifica non può esser mai assoluta ma deve esser compresa in una verità più ampia. Con tale strumento il seicento aveva visto la nascita della scienza, il settecento aveva codificato la possibilità per la scienza di indagare su tutto, anche sulla religione e l’ottocento aveva proceduto su questa strada su due direttrici. Esse erano la filosofia politica che, con Marx aveva richiesto la liberazione effettiva ed immediata, cioè su questa terra senza rimandarla al regno dei cieli, dal bisogno di quelle classi, il proletariato, che tanto assomigliavano agli umili del Cristo e l’altra grande indagine scientifica, il modernismo, che aveva analizzato il Cristianesimo dal di dentro, almeno nei primi tempi, e lo aveva trovato pieno di vecchie favole, anacronismi e non senses tali da oscurare e spesso inficiare la chiara dottrina del Cristo. Insomma, in soli tre secoli, la Chiesa di Roma aveva perso la centralità del pensiero dell’uomo e si era dovuta porre sulla difensiva. 424 Dati questi presupposti era fatale che la religione, tutte le religioni, ma, in modo particolare la religione cattolica, si scontrassero con la scienza. All’inizio, quando la Chiesa era ancora onnipotente, il cardinal Bellarmino poteva permettersi di non guardare dentro il cannocchiale di Galileo, perpetuando la tesi integralista del califfo Omar il quale, nel settimo secolo, diede ordine di bruciare la grande Biblioteca di Alessandria con la seguente argomentazione: “Se quei libri contengono verità che sono già nel Corano essi sono inutili, se sono contrari al Corano essi debbono esser bruciati”. Ma la scienza, in soli quattro secoli, è esplosa, inondando di se ogni campo del pensiero umano tanto da far dire a Wittgenstein5 che ormai la scienza ha invaso tutto lo scibile umano lasciando alla filosofia solo lo studio del linguaggio. E’ stato calcolato che, nei tempi attuali, gli scienziati viventi siano il 78% di tutti gli scienziati conosciuti e che, di essi l’80% abbia meno di 35 anni, ma, cosa che suona sinistra per ogni religione, nel 20076 l’Accademia delle scienze americana annunciò che gli scienziati appartenenti a quell’accademia si erano proclamati per il 93% atei o agnostici! In queste condizioni è difficile proclamare che fede e ragione sono sorelle! Infatti, cominciarono subito le prime battaglie e la Chiesa del seicento, forte, allora, del suo assoluto potere, commise errori epocali: Giordano Bruno, assertore di infiniti mondi abitati, fu bruciato a campo de fiori, in Roma, nel 1600 e Galileo, che proclamò il sole immobile nel sistema solare, fu costretto ad abiurare. Proclamare la ragione mediante la forza è sempre una cattiva ragione e, da allora, la scienza cominciò a martellare la Chiesa con le sue ragioni, sempre più cogenti. Così la scienza dimostrò, in maniera sempre più incontrovertibile, che era una sciocchezza pensare che il nostro mondo fosse stato creato seimila anni or sono. Essa giunse persino, con Darwin, a definire la comparsa dell’uomo sulla terra non come un evento miracoloso, ma con la Filosofo e logico austriaco (1881-1951) è ritenuto il più grande filosofo del XX secolo 6 Rivista PANORAMA del 29/3/2007 5 425 semplice evoluzione naturale da un ramo delle grandi scimmie (in inglese: apes). Tale fatto, per l’evidenza che la scienza ha saputo individuare al riguardo, fece dire al pontefice Giovanni Paolo II che l’evoluzione dell’uomo è qualcosa di più di una semplice ipotesi7 E’ interessante, a questo proposito, notare come la religione, nel tentativo di distorcere le conquiste della scienza secondo i propri moduli, si sia infilata in nonsenses sempre più vistosi. In un primo tempo la Chiesa, tutte le chiese e tutte le religioni, combatterono inorridite ogni accenno di parentela dell’uomo con il mondo animale, mentre già Plinio, nell’antichità romana aveva riconosciuto questo fatto, senza peraltro costruirvi una valida teoria. Poi, di fronte all’evidenza, ci si acconciò a dire che il Creatore avrebbe potuto indubbiamente usare un animale invece che il fango riportato dalla Bibbia ma, con Pio XII 8 si continua a sostenere l’assoluta necessità dogmatica della storia di Adamo, con tutte le incongruenze che dal fatto ne conseguono, non ultima l’accertata scoperta scientifica che nel Dna umano vi sono tracce riconducibili all’ uomo di Neanderthal e che esistono evidenze scientifiche (ultime delle quali: homo florensis e reperto dell’Altai) che confermano l’ipotesi del più grande paleontologo che ha studiato questi problemi, il prof. Stephen Jay Gould, il quale ipotizzava l’evoluzione “a cespuglio” per l’uomo. Ma si continua a sostenere senza vergogna la tesi risibile di una moglie di Caino che, in realtà sarebbe stata anche una sua sorella, che Caino avrebbe atteso fino alla di lei età fertile, ovvero si ipotizza un tourbillon piccante tra quattro persone 7 “ Oggi,… nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell'evoluzione una mera ipotesi. È degno di nota il fatto che questa teoria si sia progressivamente imposta all'attenzione dei ricercatori, a seguito di una serie di scoperte fatte nelle diverse discipline del sapere. La convergenza non ricercata né provocata, dei risultati dei lavori condotti indipendentemente gli uni dagli altri, costituisce di per sé un argomento significativo a favore di questa teoria”. Intervento di Giovanni Paolo II ai membri della pontificia Accademia delle scienze 22/10/1996 8 Enciclica “umani generis” 22 agosto 1950 ultimo capoverso del capo IV 426 ( Adamo, Eva, Caino e la moglie) per giustificare un’ipotesi che non sta assolutamente in piedi, a cominciare dall’età finale di Adamo, che si proclama, senza alcun imbarazzo, di 700 anni, quando è scientificamente accertato che i primi homo difficilmente superavano i 25 anni! Credere in Dio è “superstizione infantile”, e la Bibbia è «un insieme di storie primitive». Così si esprimeva Albert Einstein il 3 gennaio 1954, in una lettera scritta in tedesco al filosofo di Princeton Eric Gutkind. Eppure il grande fisico non era ateo o agnostico: il Dio cui si riferiva nella precedente citazione era quello delle religioni rivelate. La sua religiosità faceva invece riferimento a quel Dio sconosciuto che è proprio delle grandi anime e che corre, come un brivido, per tutta la storia, rifacendosi, in larga parte, al “Deus sive natura” di Spinoza9. Infatti, alla domanda specifica se credeva in Dio, Einstein così rispose:”.. Non riesco a concepire un Dio personale che influisca direttamente sulle azioni degli individui o che giudichi direttamente le proprie creature. La mia religiosità consiste in un’umile ammirazione dello spirito infinitamente superiore che si rivela in quel poco che noi con la nostra ragione debole ed effimera, possiamo capire della realtà. Tale convinzione, carica di profonda emotività, della presenza di una forza raziocinante superiore, che si rivela nell’universo incomprensibile, costituisce la mia idea di Dio”10. Per questa ragione lo scienziato si tenne sempre lontano dalla teologia. La tesi centrale del pensiero di Spinoza è l'identificazione panteistica o, meglio, immanentistica di Dio con la Natura ("Deus sive natura"), ed in essa convergono i temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, ossia la filosofia ellenistica, la teologia giudaico-cristiana, la filosofia neoplatonico-naturalistica del Rinascimento, il razionalismo cartesiano ed il pensiero musulmano, ed infine il pensiero politico di Thomas Hobbes (la distinzione tra lo stato di natura e quello civile che origina dal contratto sociale). Spinoza critica la visione tradizionale del finalismo di Dio, dimostrando che Dio perderebbe perfezione se desiderasse le cose per un fine, cioè per dare vantaggio agli uomini, i quali concepiscono finalisticamente il mondo solo grazie alla loro ingannevole immaginazione. da wikipedia 10 Da EINSTEIN di Walter Isaacson Mondatori 2008 pag.374 9 427 A tal proposito viene in mente uno di quei problemini filosofici, così cari alla scolastica ( può Dio creare una montagna così grande che Lui non possa sollevare?). Questo è il quesito: “ Se Adamo è stato effettivamente il primo uomo, creato tale da Dio servendosi di una forma animale preesistente (il famoso salto ontologico) e se Adamo avesse incontrato il proprio padre biologico, cioè la scimmia bruta da cui Dio avrebbe creato l’uomo con l’infusione dell’anima, e lo avesse ucciso per mangiarselo, sarebbe stato questo un delitto?” Come si vede, se si lascia entrare il miracolo nella scienza si arriva al nonsense. Ancora. Il corriere della sera del 14 maggio 2008 riporta un’intervista del gesuita argentino padre Josè Gabriel Funes, capo della Specola Vaticana, resa all’Osservatore romano. In tale intervista padre Funes, capo degli astronomi vaticani, nominato da Papa Ratzinger, affermò che :“ E’ possibile credere a Dio ed agli extra terrestri”. Padre Funes fu subito rimosso dal suo incarico “su sua richiesta, per motivi di salute” ma, soprattutto perché non si accorse in quale pasticcio si era venuto a porre ed aveva posto il Vaticano con la sua malaccorta uscita. Ipotizzare una moltitudine di vite intelligenti nell’universo è posizione logica, posto che, se noi stendiamo il nostro braccio verso il cielo e traguardiamo la nostra unghia del pollice, essa copre uno spazio in cui si trovano più di un migliaio di galassie, ognuna comprendente più di mille miliardi di stelle. UN MILIONE DI MILIARDI DI STELLE, COPERTI DALA NOSTRA UNGHIA! La legge dei grandi numeri ci dice che la probabilità di vita extraterrestre è evidente al massimo. Ma, se si ipotizza un Dio creatore dell’universo come quello postulato dalle religioni del libro, eventuali creature extraterrestri saranno sottoposte allo stesso problema dell’albero della conoscenza con una duplice evenienza. Se tali creature hanno risolto il quesito secondo i voleri dell’Entità creatrice esse saranno le predilette di Dio e, quindi, per noi si potrebbe ipotizzare un destino di schiavi o, almeno, di “secondi”. 428 Se, invece, tali esseri cadranno nella nostra stessa supposta dannazione, essi dovranno esser necessariamente salvati dalla misericordia divina. Naturalmente, secondo la legge dei grandi numeri, le due posizioni si ripeteranno in due gruppi equivalenti: un quasi incommensurabile numero di civiltà che hanno risolto il problema della mela (chiamiamolo così per brevità) ed un altrettanto quasi incommensurabile numero che hanno perso la scommessa ( anche qui absit iniuria verbis). Non voglio neppure immaginare il destino del povero Cristo, costretto a sacrificarsi miliardi di volte per raddrizzare i destini dei miliardi di mondi abitati da esseri intelligenti ma che caddero sul quesito dell’albero del bene e del male. E qui siamo giunti al punto nodale. Già Kant aveva potuto esprimere un compiuto sistema filosofico alla fine del 700, in cui non era necessario ipotizzare l’esistenza di Dio per rendere conchiuso il suo sistema, anche se poi lo stesso Kant aveva immesso tale concetto nel suo ragionamento per una certa qual ragione estetica, ma soprattutto perché il concetto di un Dio creatore era, al momento, del tutto necessario per il comune sentire. Poi, nell’ottocento, l’uomo giunse a raffigurarsi il mondo, mediante la meccanica razionale, in una maniera logicamente compiuta, in cui entravano tutte le scoperte effettuate in fisica, in chimica, in matematica ed in tutte le altre scienze. Qualcuno si spinse a dire che ormai, salvo alcuni dettagli si era sulla via di scoprire come era fatto il mondo e conoscere le regole che lo avevano determinato. Pierre Simon de Laplace affermò infatti che sarebbe stato in grado di conoscere e definire ogni istante dell’universo se avesse potuto conoscere la posizione ed il moto di tutte le sue particelle in qualsiasi momento e, quando Napoleone il grande gli chiese conto del fatto che nel suo libro (Esposizione del sistema del mondo) lo scienziato non avesse mai accennato a Dio egli rispose:” Maestà non avevo bisogno di questa ipotesi”. Il materialismo scientifico concepiva l’universo come una macchina meccanica che obbediva a leggi, ormai quasi del tutto note. Questa supposta onnipotenza spinse tale corrente di pensiero anche nel campo della religione, come abbiamo visto, 429 ipotizzando con Marx e gli altri autori del materialismo storico, la possibilità di raggiungere la felicità, che si vedeva come fine dello sfruttamento delle classi povere, su questa terra, senza vagheggiare di una supposta ricompensa nei cieli. Così, alla fine del XIX secolo, la parola d’ordine della filosofia e della scienza tout court fu:” Dio è morto” Spesso, nell’umanità sorgono idee guida che informano di se ogni pensiero e si risolvono in un sistema che riempie e qualifica una intera epoca. Così, in questo contesto, abbiamo poi visto la quasi totalità degli scienziati, con in testa il più grande di essi, non accettare il concetto di Entità intelligente creatrice, ipotizzata dalle religioni del libro, ma affidarsi tuttalpiù alla posizione spinoziana di “ Deus sive Natura” che più si attaglia al moderno sentire. Ma la scienza, cosciente della sua forza, negli ultimi cento anni ha invaso anche il campo dell’ontologia, cioè della trattazione dell’essere di tutte le cose. Poichè gli studi in fisica della meccanica quantistica ci raffigurano un mondo completamente diverso da quello in cui noi siamo soliti porci, da questa visione, i fisici teorici quantistici giungono a parlare, in termini che sono loro propri, cioè scientifici, di Creazione o detto scientificamente di Big Bang, capovolgendo completamente il nostro mondo. E’ illuminante, al riguardo, l’esempio riportato da uno dei massimi fisici teorici viventi, Leonard Susskind, all’inizio del suo libro “la guerra dei buchi neri” in cui riassume le ultime posizioni della fisica teorica . L’Autore fa l’esempio di una vecchia leonessa che punta una preda, le corre contro, ma quando si avvede che non riuscirà mai a raggiungerla, desiste dal suo intento. La leonessa applica inconsciamente difficili teorie e complicati schemi cinetici alla sua caccia, ma essa sa naturalmente quando è il momento di desistere perché lei e la sua razza hanno sempre vissuto in un mondo che si comporta sempre nella solita maniera cioè in cui i parametri sono sempre gli stessi. Se però noi entriamo nell’estremamente piccolo, al di sotto di un parametro scientificamente determinato da Planck11, tutte le La costante di Planck insieme alla carica dell'elettrone e alla velocità della luce è una delle costanti fondamentali con le quali si definisce la costante di struttura fine, detta anche costante di Sommerfeld. La sua misura è: 11 430 nostre conoscenze, finora acquisite, non valgono più, in quanto, al di sotto di tale valore, sussiste il famoso principio di indeterminazione di Heisenberg. Esso stabilisce che”…non è possibile conoscere simultaneamente la velocità e la posizione di una particella con certezza…. È più accurato dire che in meccanica quantistica le particelle hanno alcune proprietà tipiche delle onde, non sono quindi oggetti puntiformi, e non possiedono una ben definita coppia posizione e momento”.12 Ultimamente il fisico teorico Carlo Rovelli ha espresso la provocazione suprema, affermando che “…combinando la relatività generale con la meccanica quantistica su piccola scala, la variabile tempo non è più significativa”13 ed ha scritto un importante saggio dal titolo “Dimenticate il tempo”. E’ bene soffermarsi su tali concetti: il principio di indeterminazione non dice che noi non possiamo conoscere simultaneamente le caratteristiche della materia per una nostra debolezza dei sensi o per pochezza dei nostri strumenti; al contrario, il principio d’indeterminazione è una caratteristica propria della materia al disotto delle dimensioni stabilite dal muro di Planck, un modo d’essere proprio della materia, che forma oggetto della fisica quantistica. Lo stesso Susskind così si esprime:”… al di sotto di tale valore…” l’esistenza oggettiva dei punti dello spazio e degli istanti di tempo sta per uscire di scena, seguendo il destino della simultaneità, del determinismo e…della foca monaca”. Per dirlo in parole estremamente povere, al di sotto di un certo livello di grandezza, estremamente piccolo, esiste un muro alla nostra conoscenza: il cosiddetto muro di Planck; al di sopra di esso esiste il nostro mondo, al disotto esiste il mondo della fisica quantistica in cui regna la sola probabilità, in cui determinismo, simultaneità, principio immutabile sono parole senza senso. Certo, è una rivoluzione completa rispetto alla visione meccanicistica del mondo, ma questo è il modo di procedere della scienza. h=1,054571628(53) x 1/1034 joule 12 13 Wikipedia Da Wikipedia Cfr rivista francese “La Recherche” e “Le Scienze” ago 2010 431 Eppure noi tutti dovevamo esser preparati a considerare la realtà un qualcosa di completamente diverso da quello che conoscevamo da quando, ai principi del Novecento, avevamo saputo che gli atomi erano costituiti essenzialmente di energia e che, al loro interno, essi erano quasi completamente vuoti. Invece, poiché le grandi acquisizioni della scienza faticano ad entrare nel sapere comune, ancora negli anni trenta del novecento, dopo che dal 1905 Einstein aveva scoperto che l’energia presente in un corpo è uguale al prodotto della sua massa per il quadrato della velocità della luce, solo cinque persone al mondo avevano capito concettualmente la rivoluzione nella conoscenza umana compiuta dallo scienziato tedesco. Così ora, se noi pensiamo che il nostro universo è sorto da un evento singolare accaduto ben al di sotto del muro di Planck, come possono scienziati che lavorano nel regno della probabilità raffigurarsi un “Dio degli eserciti” o “principi immutabili”? 432 Addirittura, in matematica, si studia la teoria del caos, che sovrintende ai sistemi caotici14, cioè a quei sistemi che vanno studiati mediante il principio probabilistico. Ecco il punto: la scienza non accetta più principi immutabili e con essi il concetto di un Dio creatore, la religione continua a sostenerlo. L’ultima provocazione, certamente non voluta ma dettata dai riscontri scientifici, è stata portata da Stephen William Hawking. Lo scopritore dei buchi neri, già professore ordinario della cattedra lucasiana all’università di Cambridge, la stessa cattedra occupata a suo tempo da Isaac Newton, nel suo ultimo libro 14 Un sistema dinamico si dice caotico se presenta le seguenti caratteristiche: Sensibilità alle condizioni iniziali, ovvero a variazioni infinitesime delle condizioni al contorno (o, genericamente, degli ingressi) corrispondono variazioni finite in uscita. Imprevedibilità, cioè non si può prevedere in anticipo l'andamento del sistema su tempi lunghi rapportati al tempo caratteristico del sistema a partire da assegnate condizioni al contorno. L' evoluzione del sistema è descritta, nello spazio delle fasi, da innumerevoli orbite ('traiettorie di stato'), diverse tra loro con evidente componente stocastica agli occhi di un osservatore esterno. Le caratteristiche sopra esposte sono in generale tutte necessarie per definire il sistema 'caotico'. La teoria del caos si applica in molte discipline scientifiche: matematica, fisica, chimica, biologia, dinamica di popolazione, informatica, ingegneria, economia, finanza, filosofia, politica, psicologia, e robotica. La teoria del caos viene attualmente applicata anche allo studio medico dell'epilessia e specificamente alla predizione di attacchi apparentemente casuali attraverso l'osservazione delle condizioni iniziali. Da Wikipedia 433 “The grand design”, dice letteralmente: “ Il big bang fu una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica; l’universo può essersi, e si è, creato da solo, dal niente. Non è necessario ipotizzare al riguardo l’intervento di Dio”. Ultimo accenno: l’entanglement quantistico o non separabilità quantica15. Se non siete del ramo o, almeno non sappiate muovervi autonomamente nella fisica quantistica non provate ad addentrarvi troppo nel tentativo di capire logicamente quanto riportato nell’enunciazione del fenomeno; anche Einstein, che ne fu uno degli scopritori, si arrese, rigettandolo e pronunciando, al riguardo, la famosa frase: ” Dio non gioca a dadi!”. Eppure, tale fenomeno è alla base di tecnologie di punta, quali la crittografia quantistica, lo studio di algoritmi assolutamente non perforabili, i computer quantistici e addirittura la possibilità del “ teletrasporto “ che, almeno sul piano teorico, è già stato realizzato. Per questo, se vogliamo che l’uomo produca veramente quel “salto ontologico” che la religione presuppone all’inizio, egli deve invece, ora, cambiare il modo di rappresentazione del proprio mondo, introducendo nuovi parametri che in un primo momento gli parranno inconcepibili, ma che la sua mente ha reso incontrovertibili. La leonessa di cui abbiamo parlato poco avanti, non può cambiare il proprio modo di essere e di comportarsi nel suo mondo, perché essa ha il cervello ancora legato a fattori istintivi e perciò immutabili; l’uomo deve abbandonare le ultime tracce del suo istinto, già superato dalla sua ragione, se vuole partire per il futuro puntando alla conquista dell’universo e non rassegnarsi ad essere una delle innumerevoli specie della natura che sono nate in essa, sono vissute per quanto permetteva il loro bagaglio genetico e sono morte per una qualsiasi causa. 15 L’entanglement è un fenomeno riscontrabile a livello quantistico per cui due sistemi fisici, che si siano trovati in stato di interazione reciproca, rimangono in qualche modo collegati tra loro in maniera tale da modificarsi immediatamente sul secondo se si interviene sul primo, anche se i sistemi di che trattasi sono a miliardi di anni luce tra di loro 434 Per completezza d’informazione occorre ora enunciare il cosiddetto “Principio antropico”, formulato da B. Carter nel 1973. Senza addentrarsi in formule matematiche, tale principio, partendo dal fatto che tutte le costanti cosmologiche16 sembrano esser costruite in modo tale da render possibile l’esistenza dell’uomo; da ciò si postula l’esistenza di un Creatore che voleva un universo a misura di esseri intelligenti. Tale posizione è stata in seguito sterilizzata con il concetto scientifico che va sotto il nome di “ multiverso”. Infatti, ai confini estremi della fisica teorica sta facendosi largo il principio per cui il Big bang non sia stato un evento unico ed irripetibile, bensì si ipotizzano universi paralleli, non inseriti nel nostro spazio tempo, probabilmente costruiti con altre costanti universali. In quegli universi, se sono costruiti con costanti universali compatibili con la vita al loro interno, si sviluppa la vita, in altri si potrebbe sviluppare qualcosa che assomigli alla vita, in altri ancora, ad esempio in quelli che durano troppo poco si parla di universi abortiti. Ultima considerazione: i fautori del Disegno intelligente, coloro che tentano di confutare la scienza con argomenti non scientifici, o, almeno, le anime semplici chiedono come sia possibile che dal caos probabilistico sorga, senza alcun intervento divino, un qualche ordine, come mostra il mirabile esempio della natura. Questa è una buona domanda, la stessa che ci facevano le nostre madri quando ci ammonivano, nella loro semplicità, che, dal niente non può nascere nulla. La risposta a tale domanda, espressa in termini scientifici, può esser enunciata così: noi sappiamo che, per tutto l’universo, vale il secondo principio della termodinamica, il quale postula, per ogni lavoro, un aumento di entropia, una grandezza fondamentale che rappresenta il grado di disordine del sistema e che porterà inesorabilmente alla fine dell’universo stesso. Invece, l’emergere dell’ordine dal caos in fenomeni naturali sembra contraddire il secondo principio della termodinamica. Naturalmente è “ nel particulare” che si cela il Diavolo. Oltre alle costanti enunciate alla nota 11 esistono altre costanti cosmologiche il cui valore è fisso e determinato dai parametri con cui è stato “costruito” il nostro universo. 16 435 Il problema è che la termodinamica classica ipotizza interi sistemi in equilibrio, una situazione rara nel mondo reale. Il paradosso viene risolto da un nuovo quadro teorico che prevede come l’evoluzione dall’ordine al disordine possa non essere costante ed universale e quindi permette l’esistenza di isole di auto organizzazione locale, in cui dal disordine generale si giunga, per cause naturali, all’ordine: la Natura, tutta Gea, può essere una di tali isole fortunate17 e ciò spiega razionalmente come dal nulla possa sorgere un qualcosa di ordinato Da questa rapidissima e molto approssimata cavalcata ai confini della fisica teorica appare evidente che: Il nostro mondo è del tutto diverso dal piccolo mondo immaginato tre mila anni or sono, con la terra al centro, i cieli formati da sfere di cristallo, con un Dio immediatamente al di là nell’Empireo. Il nostro mondo si trova invece in un universo incomparabilmente più vasto, governato da leggi fisiche che assolutamente non si accordano con il quadro postulato dalle religioni del vecchio mondo. Il nostro mondo nasce e si sviluppa in un substrato costruito sulle regole della probabilità che escludono ogni determinismo. Il nostro mondo è ora studiato mediante la scienza che ha scardinato ogni concetto di miracolo in natura; pertanto noi tutti dobbiamo abituarci a lasciar fuori dal nostro modo di pensare: il mistero, il miracolo, l’ipse dixit e, soprattutto, ogni principio immutabile Certo che sarà cosa molto dura compiere una tale rivoluzione nel nostro modo di pensare, ma dobbiamo abituarci a ragionare con i risultati che ci offre la scienza. Ad esempio dobbiamo capire che la scintilla che scocca tra due esseri (umani e non) non dipende da un concetto creato dai poeti, cioè l’amore, ma rappresenta l’unione a chiave dei cosiddetti feromoni, cioè sostanze chimiche emesse da ghiandole che servono ad attrarre sessualmente individui del sesso opposto; in tal modo opera la natura per poter assicurare la trasmissione della vita. Gli uomini, quando si accorgono di questo, lo chiamano amore, ma non sanno che la storia di questo sentimento, ben diverso 17 Cfr.: “ Le Scienze” genn. 2009 pag 69. 436 dalla passione dei sensi, ha una origine precisa con i troubadors occitani dell’XI secolo ed una fine, speriamo non altrettanto certa, ai giorni nostri.. In più dobbiamo capire che le femmine di tutte le specie animali sono attratte dai maschi che offrono loro, nel matrimonio e fuori di esso, nell’unione monogamica o negli accoppiamenti momentanei, le migliori garanzie di generare prole sana e robusta in un ambiente possibilmente privo di pericoli e sacrifici. Studi recenti di serie università hanno riferito un dato su cui riflettere: un buon terzo dei figli concepiti nel matrimonio dalle donne inglesi non hanno come padre biologico il marito della propria madre! Dobbiamo quindi renderci conto che la cosiddetta sacralità della famiglia è un concetto fuorviante. La scienza ci ha dimostrato che la famiglia umana è un portato della particolare evoluzione del genere Homo, l’unico animale che ha rinunciato a qualsiasi arma naturale che non fosse il proprio cervello. Ma, per far questo egli ha dovuto ingrandire in modo abnorme il cranio dei propri nascituri, fino a provocare, unico tra i mammiferi, una nascita differita per i propri piccoli ed un periodo di acculturazione che dura parecchi anni e che rende il piccolo dell’uomo assolutamente inerme di fronte ai predatori. Per questo l’uomo, nel corso dell’evoluzione, ha istituito l’espediente del campo base, in cui le femmine accudivano ai piccoli ed ai malati ed i maschi provvedevano al cibo. Questa è la genesi della famiglia che, nata qualche centinaio di migliaia di anni or sono, si sta ora sgretolando sotto la spinta del lavoro femminile e della pillola che ha separato il sesso dal matrimonio. Sarà anche triste, ma la verità è sempre preferibile alle belle favole. Certo, è triste includere l’amore tre le favole o porre in dubbio “la sacralità del matrimonio” e qualcuno potrebbe accusare tali posizioni come estremamente parziali e mancanti della parte migliore, ma quella parte non può esser quantificata e studiata, quindi non fa scienza e non può entrare nel nostro discorso. Quanto poi all’argomento che nemmeno la scienza potrà mai giungere ad un dato certo, in quanto le sue conquiste 437 rivoluzionano conquiste precedentemente acquisite, occorre proprio porre l’accento su questa sua caratteristica. Le rivoluzioni della scienza non sono distruzione del precedente bensì allargamento da un caso ristretto ad una posizione sempre più generale, che comprende il precedente e lo lascia integro nel particolare ma lo supera e lo spiega in un ambito più universale. La scienza non predice nemmeno se questo procedimento sarà “ad infinitum” o se, un giorno, si arriverà a comprendere il tutto; essa si limita a registrare il fenomeno cercandone le cause e le concatenazioni, speculando quando fa scienza pura o cercando di usarle a vantaggio dell’uomo se agisce come scienza applicata. La scienza poi non entra nel campo della morale: questo è infatti un campo che attiene esclusivamente all’uomo, che dovrà valutare secondo il proprio senso del dovere; esso non può esser il frutto di una morale imposta da leggi, ma deve scaturire dalla sua morale autonoma. E, su questo, cominciano i dubbi, come chiaramente si evince da altri esempi. Tutte le religioni hanno parole di fuoco contro l’eugenetica, non facendo neppure caso al significato del termine, che vuol dire “buona razza”. Chi si sente di scommettere contro il fatto che accadrà, appena saranno disponibili le possibilità di intervenire sulle qualità fisiche, mnemoniche e psichiche dei propri figli? In tal caso, non credete che tali possibilità saranno prese d’assalto da ogni mamma? Eventuali leggi restrittive a tal riguardo servirebbero solo a dare queste possibilità solo ai ceti che se le possano permettere. Del resto, l’uomo, se vorrà conquistare lo spazio, forse, per le enormi distanze in gioco, almeno in un primo momento dovrà acconciarsi a vivere per periodi lunghissimi senza contatto con gli altri uomini, sviluppando de facto, diversità genetiche che potrebbero giungere fino ad interrompere la compatibilità genetica. Altri autori prevedono invece che l’uomo, sempre se vorrà spingersi nello spazio profondo, sarà costretto a ridursi a puro cervello in un involucro di liquido nutritivo o, meglio, a trasmutare in pura energia. 438 Poi, ragionando per tempi più vicini a noi, credete veramente che tutti i credenti rifiuteranno una cura che li liberi da tutte le malattie degenerative, compresa la vecchiaia e la morte, anche se esse saranno il frutto di interventi a base di cellule totipotenti ricavate da embrioni umani? Fine gloriosa della diatriba contro l’eugenetica. A questo proposito risulta acconcio riportare quanto riportato dalla rivista “L’Espresso” nel suo numero del 5/8/10 in cui si è data notizia di una nuova università americana, la SINGULARITY UNIVERSITY, che si prefigge lo scopo di addestrare i propri studenti per il momento in cui si potrà parlare di “Civiltà post umana” quella che tale università presume sarà operante entro una quindicina di anni. Chi volesse saperne di più non avrebbe da fare che consultare Google e scoprire che tale università è sponsorizzata, tra gli altri, persino dalla NASA, l’Ente spaziale americano. Tutto questo concetto si sviluppa dai seguenti postulati: 1. La capacità dei computers continua a raddoppiarsi ogni anno, per cui “ tra venticinque anni le tecnologie informatiche saranno un miliardo di volte più potenti delle attuali e cento mila volte più miniaturizzate delle attuali”. 2. Questo innescherà la possibilità di dotare ogni persona di un sistema computerizzato da inserire direttamente nel suo corpo ( come, del resto, si sta già provando a fare) e ciò, unito alla capacità, offerta dalle nanotecnologie, permetterà alla medicina di creare sistemi computerizzati di dimensioni inferiori a quelle di un globulo rosso del sangue. Si avrà così la possibilità di intervenire direttamente sulla biologia genica di ogni corpo, esaltando in modo esponenziale le capacità umane. 3. Tutto ciò presuppone, a breve termine, la nascita di una vera e propria nuova umanità, in cui i cervelli umani aumenteranno le proprie capacità di pensiero di un miliardo di volte, sganciandosi altresì dall’evoluzione biologica ed attuando una evoluzione solo culturale. Certo, per noi Europei è difficile credere a tutte quelle che abbiamo sempre classificato come “americanate”, ma persino uno storico serio come Aldo Schiavone prevede, in un suo aureo 439 saggio18 il prossimo avvento di un nuovo umanesimo che, moltiplicando per mille le capacità umane mediante la tecnica, faccia trascendere entro brevissimo tempo l’umanità dal suo stato attuale ad uno stato “Post umano”, anche lui prefigurando una “ singolarità” o “punto cruciale in cui la forma della nostra specie non sarà più decisa dai meccanismi dell’evoluzione ma dalla nostra intelligenza”19 Il problema incomincia ad intravedersi fin da ora, basta scorrere, anche da profano, i libri che parlano dei limiti estremi cui è giunto il sapere umano. Così Marcus de SAUTOY20 nel suo libro “ IL DISORDINE PERFETTO ”ci mostra a che punto di elaborazione teorica è giunta la matematica pura, quando, abbandonando la geometria euclidea21 si è avventurata nelle cosiddette matematiche non euclidee22, dove si tratta di spazi a ad n dimensioni e delle simmetrie23 che si possono trovare in tali spazi. In uno di tali spazi ( per l’esattezza, uno spazio a 196883 dimensioni!)esiste un “oggetto” che presenta: ”808.017.424.794.512.875.886.459.904.961.710.757.005.754. 368.000.000.000 (circa 8x1053) simmetrie e che viene chiamato dai matematici ” il mostro”. Sembrava il trastullo di signori, un po’ svampiti e, forse, con evidenti sintomi di autismo, ma altrimenti innocui. Invece è successivamente emerso che la cosiddetta “congettura moonshine” che rappresenta il gruppo più importante in cui appare il mostro, abbia un evidente punto di collegamento con le ultime teorie della fisica. De Sautoy, nel libro rammentato, dice esplicitamente che:”… queste strutture algebriche contribuiscono a puntellare Aldo SCHIAVONE “STORIA E DESTINO” Einaudi 2007 Intervista di Claudio Magris ad Aldo Schiavone su Corriere della Sera 27/9/07 20 Professore di matematica ad Oxford, autore dei best seller “L’enigma dei numeri primi”ed “Il disordine perfetto” entrambi editi in Italia dalla Rizzoli 21 E’la comune geometria basata sui cinque postulati di Euclide che si insegna alle medie 22 Sono le matematiche che non accettando i postulati di Euclide (specialmente l’ultimo) studiano , tra l’altro gli iperspazi a più dimensioni 23 Un oggetto ha una o più simmetrie quando presenta una o più ripetizioni regolari. Ci sono vari tipi di simmetria. Da wikipedia 18 19 440 alcune delle idee più profonde della teoria delle stringhe, l’odierna teoria che spera di riuscire ad unificare la relatività e la meccanica quantistica”. Come si vede, la scienza, anche quando è solo elucubrazione, cioè scienza pura, ha abbandonato il sesso degli angeli e si muove, in ogni suo settore, alla scoperta dell’universo, collegando strettamente e spesso inopinatamente ogni punta di lancia delle sue più lontane direttrici. Da ciò si desume anche che ormai un computer non può più esser usato come uno strumento, ma esso deve in qualche maniera esser interfacciato al nostro cervello, operando così quel salto di qualità che si intravede da più parti. In altre parole, la tecnica, cioè l’applicazione della scienza pura nella vita dell’uomo forzerà la nostra evoluzione in modo che essa non sia più governata dal caso ma venga ordinata da leggi razionali. Anche il filosofo Emanuele Severino riconosce che la scienza ed il suo primo portato, la tecnica, renderà obsoleta la religione cristiana, almeno nelle sue forme attuali. Abbiamo posto solo alcuni delle centinaia di esempi che si possono fare per contestare un sistema rigido che, nel corso dei secoli si è costruito una corazza indistruttibile ed incapace di evolversi con la velocità con cui sta andando la scienza. Esiste infine un’estrema ratio, citata dal Presidente emerito della corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky nel suo bel saggio: ” SCAMBIARSI LA VESTE - Stato e Chiesa al governo dell’uomo-Laterza. L’illustre giurista riporta il pensiero di un costituzionalista tedesco,Ernst Wolfang Böckenförde, il quale, nel suo saggio del 1967, ”La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione”, propone una tesi che afferma: “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà”. In parole povere l’Autore tedesco afferma che, essendo la libertà la caratteristica prima, anzi la sola, di uno Stato liberale ogni cittadino di questo Stato cerchi il massimo di questa libertà fino a cercar di prevalere violentemente sulle libertà degli altri cittadini. 441 Alla fine, la spirale di aspettative, così innescata, finirà per distruggere e quel cittadino e lo Stato stesso che ha permesso ciò. Solo la religione e solo la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, secondo Böckenförde, ponendo limiti e doveri all’individuo eviteranno la distruzione che lo Stato liberale contiene nel suo concetto costitutivo Si è precedentemente notato che sarà anche triste, ma la verità è sempre preferibile alle belle favole. Prendere come elemento fondante per uno Stato moderno una tesi che sta esplodendo tra mille contraddizioni e che la scienza sta distruggendo con colpi sempre più pesanti non sembra una decisione saggia; se poi lo Stato liberale debba autonomamente porsi dei limiti affinché la libertà non degeneri in arbitrio, proprio noi Italiani abbiamo l’Autore adatto ed il pensiero più incisivo e calzante: quello di Giuseppe MAZZINI24 che non rinuncia neppure al concetto di Dio. Sergio Romano, in un suo recente saggio25 sull’ascesa e declino dei vari imperi che sono apparsi nella storia dell’uomo riporta una nota di Niall Ferguson26, per cui: “ le grandi potenze e gli imperi sono sistemi complessi… costituiti da un gran numero di « Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l'armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell'ordine nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque di trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall'idea d'un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE. Bisogna convincere gli uomini ch'essi, figli tutti d'un solo Dio, hanno ad essere qui in terra esecutori d'una sola Legge che ognuno d'essi, deve vivere, non per sé, ma per gli altri - che lo scopo della loro vita non é quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori - che il combattere l' ingiustizia e l'errore a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, è non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa - dovere di tutta la vita. »(Giuseppe Mazzini, I Doveri dell'Uomo, 1860) 24 25 Il FOGLIO del 7/6/2010 442 componenti che interagiscono e.. sono organizzati in modo asimmetrico in una costruzione … al confine dell’ordine e del disordine. sul ciglio del caos”. Così, basta un nonnulla per farli cadere e Romano si chiede: ”Potrà la Chiesa cattolica sopravvivere all’ondata di scandali che ha profondamente intaccato l’autorità del suo magistero?”. No, Santa Madre Chiesa non sarà sopraffatta dagli scandali, che già in altri tempi portarono alla Riforma, non sarà vinta dall’uso improprio delle sue tante ricchezze, che sono state sempre il suo patrimonio più gelosamente custodito, ma l’urto della scienza potrebbe scardinare la corazza indeformabile di cui l’ha dotata la sua teologia, racchiudendola in una teca che, nello scontro con la scienza, potrebbe diventare la sua bara. Del resto, dobbiamo domandarci: che cosa è una religione? Essa è necessaria? Per rispondere alla prima domanda occorre riferirci al suo etimo: religio deriva dal verbo latino religo che significa tengo insieme, tengo unito; la religione è un’idea che tiene insieme, unisce un gruppo, piccolo o grande, di uomini. Si può dubitare dell’esistenza di Dio ma non del fatto che esista ancora una moltitudine di uomini, in ogni civiltà, che accettano tale idea; ciò vuol dire che gli uomini sono geneticamente predisposti all’idea di Dio Secondo la biologia evoluzionistica tale idea ha contribuito potentemente alla sopravvivenza degli esseri umani. Esser attenti ad ogni fatto sconosciuto e diverso dal solito che avveniva nella boscaglia era un pensiero utile per l’individuo che si apprestava a divenire uomo e non conoscerne le cause era un fatto che mal si addiceva alla curiosità che, fin da allora era il suo massimo carattere distintivo. Quindi quel proto uomo risolveva a suo modo il problema classificando in una qualche forma tale evento con il nome di “Dio leopardo” e questo era insieme logico e geneticamente utile perché rispondeva alla sua curiosità e nel contempo lo salvaguardava in qualche maniera dal pericolo. Quando poi i suoi discendenti si trasformarono da prede a cacciatori il fatto di aver la fortuna di imbattersi in un branco di loro prede, di ucciderne qualcuna e di non esser a loro volta Niall Ferguson su “Foreign affairs” vol 89 n2 intitolato “Complexity and collapse” 26 443 gravemente feriti veniva classificato da quegli antichi antenati come fortuna, attribuita ad un essere superiore, che non si manifestava fisicamente, ma che era comunque presente, anche se apparteneva al mondo delle cose invisibili. Così, in quelle grandiose cattedrali dei primi cro magnon, scavate nelle caverne, si invocava un Essere Superiore, capace di portare una buona caccia e la religiosità del fatto è conclamata da un’evidenza poco riconosciuta: quei grandi artisti, capaci di rivaleggiare con Michelangelo, non ardirono mai rappresentare la divinità con le fattezze di un essere umano in quanto avevano già riconosciuto il concetto del Dio protettore, ma non ancora padre dell’uomo. Essi rappresentavano loro stessi con la tecnica della mano, riprodotta mediante lo spruzzo di ocra con la bocca o con figurine stilizzatissime, ma mai un volto, che doveva solo riferirsi al volto della Divinità, che non avevano ancora antropizzato e, quindi, non conoscevano. Come si vede, l’idea del sacro è già presente quaranta mila anni or sono, perché essa era un’idea utile allo sviluppo dell’umanità. Tale idea prese poi forma nella miriade di divinità che rappresentavano l’attribuzione del divino ad ogni momento della vita, fino a che, nell’Egitto sorse il faraone eretico Neferkheperura-Waenra Amenhotep, decimo sovrano della XVIII dinastia egizia (1359-1342 aC), che si proclamò poi Akhenaton, cioè figlio del sole, promovendo il dio Amon, uno degli innumerevoli dei egizi, in Aton, cioè il Dio sole, divinità unica da cui tutto deriva, dando così inizio al monoteismo. Quest’idea dette origine ad un fenomeno che dura da più di tremila anni, anche se essa segnò la rovina del Faraone. Come si è visto, anche il concetto di Religione sembra esser stato sottoposto, con successivi accomodamenti e precisazioni, al criterio di selezione darwiniana. Abbiamo detto che un’idea è un pensiero utile, almeno fino a quando essa si dimostra utile. Lasciatemi passare, per una volta, un “ipse dixit”. Aristotele definiva un uomo “un animale politico:” cioè in continua relazione con individui a lui simili, che formano gruppi più o meno omogenei, tenuti insieme da una o più idee. Il problema è che le idee, come gli individui, nascono, si sviluppano e muoiono; nascono quando sono utili a quel 444 particolare gruppo che le adotta, crescono con lui, facendogli raggiungere traguardi più o meno grandi e muoiono o perché il gruppo che le ha espresse ha cambiato idea, magari facendola evolvere in un sistema migliore oppure perché quel gruppo ha ceduto ad un altro gruppo, amalgamandosi ad esso in qualche maniera. Così la fede negli Dei dell’Olimpo, che in un primo tempo era stata utile per avere una qualsiasi rappresentazione del mondo che avesse un valore compiuto (anche se non accertato in alcun modo), era lentamente trasmutata in simbolo “nazionale” e Roma, popolo eminentemente pratico, aveva finito per accettare gli Dei di chiunque, anche dei vinti, perché comunque, nella sua politica, la Divinità non interferiva con la gestione politica dell’Impero. Ma se religio è un’idea che tiene unita una comunità possiamo ipotizzare alcuni tipi di religione che superino, o, meglio, allarghino il concetto stesso di religione, quali: La religione del Dovere (Kant- Mazzini) La religione del bello (Rinascimento) La religione dell’Umanità ( il volontariato sociale) La religione della scienza (il riconoscimento del suo valore universale) La religione del Creato (Spinosa- Einstein) Quindi la religione deve essere un’idea valida e tale da esprimere l’essenza, la punta di lancia del pensiero di un popolo, senza porre situazioni irresolubili, tali da esser un serio ostacolo al destino di quello stesso popolo. Ecco, questa è la necessità, anzi la “necessarietà” di una religione. Allo stato attuale, invece, lo scontro tra religione, come attualmente concepita, e scienza non sembra preannunciare nulla di buono per la religione, specialmente per quella cattolica, così bloccata nei suoi dogmi. In definitiva, lo scontro verte essenzialmente sull’antinomia che ha generato il Big bang, considerata come: Legge costitutiva dell’Universo, che gli scienziati ipotizzano come unica legge Ente Creatore, che i religiosi pongono come Ente personale, eterno e perfetto. 445 Rammentate la lunga diatriba che lacerò tutta la fisica dell’Ottocento: è la luce un fenomeno corpuscolare o ondulatorio? Volarono parole grosse, il concetto di scienza giunse fin sul punto di spaccarsi fino a che, al principio del novecento , due giganti del pensiero, Einstein e Plank, posero le basi su cui la fisica quantistica potè affermare che il fenomeno della luce è unico e che, a seconda di come la si considera, esso è corpuscolare e insieme ondulatorio. Questo è il modo logico di risolvere un problema: studiare, studiare, studiare finche non si svisceri il problema in esame in tutte le sue possibilità, per poterlo superare, attraverso un ragionamento di tesi, antitesi e sintesi. Nel 1984 il grande scienziato evoluzionista Stephen Jay Gould, non credente, mentre si trovava in Vaticano per una serie di incontri tra scienza e fede, forse suggestionato dalla magia di Roma, espresse la cosiddetta teoria NOMa ( nonoverlapping Magisteria) cioè introdusse il criterio dei magisteri della scienza e della fede non sovrapponibili, ma ciascuno valido nel proprio ambito. A questa teoria si aggrappano le Autorità vaticane per conquistare uno straccio di visibilità nei confronti della scienza27, ma quando la scienza propone una vera e propria “reductio ad absurdum”28 dimostrando scientificamente tutta la Creazione, che essa chiama big bang, in termini fisici, senza bisogno di alcun altro intervento (vedasi l’ultimo libro di Hawking sulla teoria del tutto, precedentemente rammentato) non si può parlare più di magisteri non sovrapponibili, occorre che la religione si avventuri sul campo della scienza per dimostrare che le conclusioni della stessa non sono esatte o esattamente dimostrate o tali da non poter lasciare alcuno scampo alla religione. Né si può usare il trucchetto di definire tali posizioni solo come teorie e, come tali non dimostrabili, di fronte ad una scienza che porta le prove di quanto pesa in grammi l’intero universo. Occorrono prove valide anche in campo scientifico. Rife intervista al card. Ravasi Repubblica 8/12/2010 Dicesi “reductio ad absurdum” un sistema di dimostrazione matematico o filosofico che consiste nel continuare a fare deduzioni a partire da un’ipotesi finchè non si ottiene qualcosa di palesemente assurdo; questo serve a dimostrare che l’ipotesi di partenza è falsa ed erronea. 27 28 446 Invece, se si inizia a lanciare anatemi da una parte ed accuse di crassa ignoranza, perseguita per il proprio tornaconto, si giungerà rapidamente allo scontro, E quello che sta accadendo ne è la riprova. La religione di Jhavè si avvia allo scontro con la scienza non avendo da contrapporle nulla se non la buona fede dell’ignorante, che, non possedendo alcun altro orizzonte, si aggrappa a quanto gli hanno insegnato i propri genitori, chiudendo occhi ed orecchie al nuovo. Wikipedia dispone di ventiquattro pagine riportanti solamente i nomi di antiche divinità di cui si abbia una qualche conoscenza. Come Giove e Giunone, come Isthar ed Assur, come Iside ed Aton, come Baal, Moloch e Tanit, Come Zoroastro e Mani, come Astarte e Mitra, come Cibele ed Odino, così tutta la teologia della Trinità si avvia ad entrare nei libri della storia ormai conclusa se non riuscirà a superare lo scontro con la scienza. A meno che… 447 L’ULTIMO PIETRO “Parlo ora a Voi, fratelli, amici, uomini di buona volontà. Le recenti traversie di Santa Romana Chiesa, i drammi e le tragedie che ultimamente l’hanno attraversata e colpita, la barbarie che ha infierito su tutti i popoli della terra suscitando lutti e rovine, inducono a pormi come i miei primi predecessori, quale baluardo, inerme ma determinato, di fronte a tutta l’umanità, per dire: basta, fermatevi; ora fermiamoci. Gli ultimi cinque anni hanno visto la Chiesa lacerata come non mai; sono tornati termini che credevamo ormai estinti, si è nuovamente parlato di anatemi, scisma, antipapa e scomuniche reciproche. Tutto questo è avvenuto perché i derelitti della terra, stanchi di esser sempre più oppressi, hanno duramente colpito le società dei ricchi non più con episodi che comportavano un numero consistente ma limitato di vittime, ma spazzando via dalla vita centinaia di migliaia di esseri umani. Questo delitto è stato coperto dal manto della religione per nascondere il vero movente dell’ingiustizia, perciò le Nazioni dei ricchi, incuranti di riconoscere tali ragioni ma inferociti dai risultati, hanno risposto con le proprie armi spaventose che hanno reso deserte intere regioni. La Chiesa, quello che restava di essa dopo le divisioni, le abiure, il semplice disinteresse che ha allontanato la maggior parte dei cristiani dalla comunione in Cristo, si è ulteriormente divisa tra chi sosteneva le ragioni degli uni e chi propendeva per le ragioni degli altri. Ma, soprattutto, si è divisa in due tronconi ferocemente avversari: l’uno che ritiene che percorrere la strada indicata dal Concilio Vaticano II sia l’unico modo, ormai improcrastinabile, per giungere ad una riforma teologica che liberi la Chiesa da tutte le sovrastrutture che la rendono così poco credibile nei confronti del nostro tempo. L’altro, timoroso di dover abbandonare posizioni solidificate nei millenni, che si è rinchiuso in un rifiuto di tutto e di tutti, vagheggiando un ritorno alla purezza dei tempi in cui la sola verità era quella proclamata da Pietro. 448 Così la Chiesa ha visto Scismi, abiure, anatemi e scomuniche reciproche, terribili sciagure che sembrano tornare all’inizio di ogni millennio e che possono portare al disastro definitivo. Mai un disastro ha una ragione valida ma la ragione impone che si scoprano e si eliminino le cause vere di un disastro per evitarne altri. Risaliamo questa catena di orrori, ma soprattutto di errori, cercando di porre un freno ai disastri che essa ha prodotto. Ora la bianca colomba, ma qualcuno può dire “la forza della ragione” senza che io mi scandalizzi, ha indicato me, pastore immeritevole ma risoluto, a cercar di risolvere le angustie in cui si dibatte il Cristianesimo del nostro tempo per riportarlo, ancora una volta, ad essere l’espressione più alta dell’Umanità. Non vi parlerò di quesiti teologici, perché essi interessano solo gli specialisti del ramo, mentre il mondo brucia per ben altri problemi. Nel tempo in cui viviamo, gli anni trenta del primo secolo del terzo millennio, l’uomo ha straripato dal suo alveo naturale raggiungendo la cifra mostruosa di dieci miliardi di individui. Ciò è stato raggiunto anche perché alcune religioni hanno pensato di far leva sul numero per imporre le proprie tesi, mentre altre, tra cui la nostra, non hanno saputo trovare una ragione valida per contrastare tale enorme crescita, che si è risolta in un terribile assottigliamento delle risorse disponibili per tutti. Questo è il primo problema con cui dovremo confrontarci. La scarsezza di risorse genera poi un ulteriore problema: coloro che possono gestire le risorse divengono esageratamente ricchi mentre la moltitudine piomba nella più nera indigenza Infatti la ricchezza, quando è spropositatamente grande, ha bisogno della povertà, della povertà più assoluta per assicurarsi il dominio dell’uomo sull’uomo. Questo problema ha una soluzione che si può facilmente intravedere, ma i cui termini sono estremamente difficili a realizzarsi. Occorrerà, per questo, creare un’Autorità mondiale cui possano appellarsi i vari Stati, le diverse autorità locali, i singoli individui, per ottenere una giustizia giusta. 449 Si, lo so: sto additando una struttura di giustizia globale, prodromo e paradigma di un sistema di governo in cui tutti gli Stati abbiano stessa dignità e pari diritti e doveri, in modo da rappresentare un ordine comune per tutti gli uomini. Tutti grideranno all’utopia, ma, se non arriveremo a questo e solo a questo, giungeremo a sbranarci a vicenda. Questo è il secondo grande problema. Esiste poi un dilemma che attiene alle religioni, ma soprattutto alla nostra religione: il rapporto tra fede e scienza. Questo è, ora, il problema più grande per la nostra fede. Per questo occorre parlar chiaro. Noi non toglieremo mai il Bambinello dalla mangiatoia nella notte di Natale, né proibiremo alle anime semplici di affidarsi fiduciose alla Provvidenza, ma dovremo confrontarci con i rappresentanti della scienza, usando i termini propri di quest’ultima. Tutto possiamo passare al vaglio della scienza e tutto passeremo, ma in ultima analisi, l’unico motivo di contrasto insanabile tra noi e loro è il seguente: Noi crediamo in una Volontà creatrice, unica ed eterna, che si fa carico della Sua creazione e che interviene attivamente e personalmente nella storia, attraverso quello che noi chiamiamo Provvidenza, come ci ha insegnato Colui che ha dato inizio alla nostra religione, quando ci fece notare come i fiori dei campi abbiano vesti più sontuose di quelle dei più grandi potenti. La scienza attuale, diversamente dai grandi uomini che, per primi, l’hanno concepita, postula invece il Caso come movente unico della storia dell’universo e la probabilità come suo motore immobile. La scienza tende a razionalizzare tutto, a misurare ogni evento ed a ricavarne un numero esatto che lo definisca. Poiché sul suo campo la scienza è incontrovertibile se non si usano i suoi argomenti, cerchiamo anche noi di impostare il discorso secondo i parametri della scienza. La stessa scienza ha riconosciuto che, scendendo nelle regioni dell’estremamente piccolo e dell’estremamente veloce, da cui la Natura medesima ha avuto origine, occorre fermarsi davanti ad un muro, il muro di Planck che, per definizione, impedirà 450 sempre all’uomo di conoscere come si svolgono in realtà i fenomeni che avvengono dietro quel muro. E, guarda caso, il muro di Planck la scienza l’ha trovato anche nei primissimi istanti del Big bang, dove, fino al tempo di 10-43 secondi, un intervallo di tempo estremamente piccolo, lo spazio ed il tempo, mentre prendono forma, sono inconoscibili per definizione alla scienza dell’uomo. Così, noi tutti dovremo abituarci a considerare la realtà, nella sua essenza primordiale, costituita su diversi piani; in tal modo, avremo sempre presente il pesante tavolo su cui poggiamo i nostri libri ma non dovremo dimenticare mai che, sotto il muro di Planck, quel tavolo non esiste se non come un nugolo di corpuscoli dotati unicamente di energia e costituiti, per il 99%, di vuoto. Addirittura, il concetto di tempo, che tanto angustiò Agostino, sembra che, sotto il muro di Plank, non esista ed appare, ai fisici di punta, come una categoria eminentemente umana per poter classificare le sue sensazioni1. Che la scienza non potesse definire tutto era già chiaro fin dall’antichità, quando i babilonesi e gli indiani si accorsero che la radice quadrata di due, numero che esprime il rapporto dei lati di un triangolo retto non è mai esattamente definibile o quando i Greci si imbatterono sul numero π, cioè il rapporto tra la circonferenza ed il raggio di un cerchio e capirono, con orrore, che esistevano numeri irrazionali, cioè numeri che non potevano esser mai ragionevolmente ed esattamente calcolati. Ma dove i Greci, i primi campioni del pensiero scientifico, si scontrarono con sgomento con l’inconoscibile fu con il Φ, il segno matematico che rappresenta la sezione aurea o divina proporzione, cioè il numero che raffigura il rapporto tra alcune parti di un segmento. Come ci insegnano i matematici, il suo valore è espresso da un numero irrazionale 1, 6180339887…, con infinite cifre decimali prive di sequenze ripetitive, cioè un numero di cui non si può conoscere mai l’esatto valore. Tutto l’universo sembra costruito con il Φ, dall’estremamente piccolo alla struttura delle galassie. Presente in natura in innumerevoli casi, dall’inviluppo delle conchiglie alla sezione di un seme di mela, conosciuto forse dai sapienti dell’antica Mesopotamia ai costruttori delle piramidi, in cui è stato ritrovato come proporzione applicata alla loro Cfr. “Le Scienze” Agosto 2010 art .di C. Vender “ Il tempo è un’illusione?” 451 costruzione, il valore di Φ si scopre in ogni realizzazione dell’ingegno umano, nei quadri più famosi di ogni epoca, nelle facciate dei templi greci, in musica e in tutte le arti dell’uomo. Perfino nell’intimo della matematica, dalla serie di Fibonacci2 alla matematica frattale3 si scopre il Φ come elemento costitutivo. Esso fu studiato con terrore da Pitagora e dalla sua setta, i pitagorici, che vedevano il Φ come il segno di un’imperfezione cosmica, un errore di Dio da tenere il più possibile nascosto. Addirittura, i Pitagorici invocavano la morte per colui della propria setta che svelava i segreti di , la sezione aurea, il numero che rappresenta il simbolo della bellezza in arte, in musica ed in matematica ma che è anch’esso, come abbiamo visto, un numero irrazionale. Invece, la situazione cambiò radicalmente con la nascita della scienza, iniziata come sappiamo, con Galilei, l’inventore del metodo scientifico, Newton, lo scopritore della prima legge universale4, la legge di gravità e Keplero5, colui che definì le leggi cui ubbidiscono le orbite dei pianeti intorno al sole. I tre scienziati erano completamente aderenti all’insegnamento cristiano per cui non poterono non vedere, nei numeri irrazionali, il segno del volere del Creatore; in particolare Keplero considerò il rapporto aureo uno dei principali strumenti della creazione divina dell’universo6. Detto in maniera non ortodossa, la serie di Fibonacci è composta da un insieme di numeri in cui ogni numero successivo rappresenta la somma dei due numeri che lo precedono, cioè: 1,1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55,…ω La serie di Fibonacci è usata in innumerevoli metodi di moltissime scienze. Un frattale è un oggetto geometrico che si ripete nella sua struttura allo stesso modo su scale diverse, ovvero che non cambia aspetto anche se visto con una lente d'ingrandimento. Da Wikipedia La legge di gravità universale dice che due corpi nello spazio si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza reciproca. Le tre leggi di Keplero si possono così riassumere 1° legge: L'orbita descritta da un pianeta è un'ellisse, di cui il Sole occupa uno dei due fuochi. 2° legge : Il raggio vettore che unisce il centro del Sole con il centro del pianeta descrive aree uguali in tempi uguali. 3° legge: I quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti sono proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle loro orbite. Da Wikipedia Per ulteriori notizie ed approfondimenti sullo ϕ cfr: “La sezione aurea, storia di un numero e di un mistero che dura da 3000 anni”- di Mario LIVIO, BUR Rizzoli ,approfondimenti più volte estrapolati in questo capitolo. 452 Esso è, dunque, uno dei segnali del limite cui può giungere l’uomo, uno dei sigilli posti sull’albero della conoscenza. Noi, ora, sappiamo usare nei nostri calcoli la radice quadrata di due, il ed il π, ma sappiamo che neppure noi conosceremo mai il valore esatto di questi termini, in quanto non definibile scientificamente. Così oggi, alla radice di tutto, della realtà attuale, dell’origine dell’universo, della sua fine, la Scienza ha autonomamente scoperto un limite, un limite che non dipende dalla scienza o dall’incompiutezza dell’uomo ma esclusivamente da come è costituito l’universo in cui siamo immersi e dalle leggi costitutive con cui esso è stato creato, o, per dirla in termini scientifici, in cui questo particolare tipo di universo si è evoluto. Inoltre, alla frontiera dello strumento principe della scienza, la matematica, oltre alla bestemmia dell’irrazionalità insita nella sua intima essenza, esiste un’altra grave illogicità. Godel7 ha matematicamente dimostrato che nessun procedimento matematico è mai interamente coerente a se stesso. Kurt Gödel (Brno, 28 aprile 1906 – Princeton, 14 gennaio 1978) è stato un matematico, logico e filosofo statunitense di origine austro-ungarica, noto soprattutto per i suoi lavori sull'incompletezza delle teorie matematiche. Gödel è ritenuto uno dei più grandi logici di tutti i tempi. Primo teorema di Godel (da Wikipedia) In ogni formalizzazione coerente della matematica che sia sufficientemente potente da poter assiomatizzare la teoria elementare dei numeri naturali — vale a dire, sufficientemente potente da definire la struttura dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e prodotto — è possibile costruire una proposizione sintatticamente corretta che non può essere né dimostrata né confutata all'interno dello stesso sistema. Secondo teorema di Gödel (ibidem) Nessun sistema coerente può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza. 453 Ma i matematici, esseri razionali e soprattutto, uomini d’onore, sono andati oltre. Di fronte alla straordinaria potenza dello strumento da essi trovato ed utilizzato, la matematica, essi si sono chiesti: ” la matematica è uno strumento universale, valido in ogni luogo anche fuori dal nostro universo ed in ogni tempo, anche fuori dal tempo del nostro universo o essa è un mero prodotto dell’uomo?”. Naturalmente, come insegna Gödel, non potendo usare la loro scienza per dimostrarne l’intima coerenza, alcuni di essi si sono rivolti all’antico pensiero dell’uomo: la filosofia. Come Platone, una parte di essi ha riconosciuto che esistono idee innate, che prescindono dall’uomo e che discendono dall’essenza stessa dell’architettura del nostro universo. Così, tra le idee universali, i matematici e gli scienziati tutti, perché senza matematica non esiste scienza, pongono la stessa matematica. Noi vediamo queste idee luminose, universalmente valide, riflesse confusamente sulle pareti della caverna in cui siamo relegati e tentiamo faticosamente di decifrarle. Altri scienziati, invece, a causa della loro indole o dei loro convincimenti, negano l’universalità della matematica e si chiedono se essa sia valida sempre, dovunque e comunque, dandosi una risposta negativa o, almeno, dubitativa . Entrambi però, sia coloro che reputano la matematica un’idea universale sia quelli che rigettano tale assunto non stanno operando nell’ambito della scienza che, per definizione è incontrovertibile se non con altri ed opposti calcoli scientifici, ma le due posizioni si possono porre solo in campo filosofico, cioè opinabile, in quanto non definibile scientificamente. Vedete tutti che, alla fine, questo è un falso problema; l’importante è procedere sullo studio della matematica e della scienza. Allo stesso modo, se noi, in quel ragionamento, sostituiamo il concetto “matematica” con il concetto “Dio” non potremo mai spaccare lo spirito dell’uomo su un concetto cui, a priori, per definizione, non sappiamo rispondere. Consideriamo ciò un tendere al limite della nostra umanità, un compito stabilito per noi, forse alla fine dei tempi, fine che tutti, scienziati e religiosi, postuliamo nei nostri ragionamenti . 454 Ecco, con gli strumenti della scienza, noi affermiamo che la stessa scienza ci dice come esista un muro, invalicabile per l’uomo, dietro cui noi pensiamo che si nasconda Dio e che Dio stesso ci ha fornito solo una parte della Sua verità, il resto è mistero. Quindi io dico, agli uomini di buona volontà: partiamo da questo dato, riconosciamo questo limite, che non è proprio dell’uomo bensì è tracciato ai confini dell’universo, ma anche all’interno di quasi ogni cosa di questo universo e cerchiamo, dalle due parti, di conoscere il conoscibile. Noi saremo grati alla scienza, quando questa ci farà notare errori che sono stati generati da vecchie favole o da nostri difetti, la scienza ricordi che il confine è il Mistero, insondabile per la scienza stessa. Partendo da ciò, noi rassicuriamo quelli più legati alla nostra tradizione, costruita nel corso di oltre due millenni, che essa rimarrà quale patrimonio prezioso della nostra religione, ma ricordiamo loro che si può agire ed essere cristiani senza credere al miracolo. Essere cristiani significa soprattutto credere nell’esistenza di un Dio creatore dell’universo, immanente in esso ma non racchiuso nella sua realtà. Essere cristiani significa credere nell’intervento personale di Dio nella vita dell’universo e quindi nella vita di ogni uomo, mediante quell’azione che noi chiamiamo Provvidenza. Essere cristiani significa amare il prossimo, cioè ogni uomo, specialmente colui che ha bisogno, colui che non può, colui che è debole. Essere cristiani significa tenere ben separata la vita religiosa dalla vita civile, per evitare quei corto circuiti che hanno insanguinato la vita dei popoli nei passati millenni. Essere cristiani significa porre ogni azione, ogni pensiero, ogni stimolo alla crescita spirituale e morale di ognuno e di tutti, sapendo bene che se non si considera il potere e la ricchezza, che la sorte ci potrà eventualmente affidare, quale momento di crescita per la società tutta, potere e ricchezza diventeranno padroni feroci della nostra anima, divorandola dal di dentro. Quanto poi a coloro che, in questo particolare momento storico, si ostinano ad essere fedeli alla lettera e non alla sostanza della 455 nostra religione, mettendo così in gioco la sua stessa esistenza, rammento le parole di Cristo, riportate da un monaco della comunità di Bose, studioso di ebraico e siriaco, il quale scrisse un libro8 in cui riportava episodi della vita del Cristo raccolti dalla tradizione islamica:” …Gli storpi li ho guariti, i ciechi pure. Con gli stupidi non ci sono riuscito.” Invece è indispensabile fare questa sia pur dolorosa operazione. Ricordiamoci che ogni principio di verità ha in esso un nucleo di verità più cogente, che deve essere individuato ed estrapolato per raggiungere verità più alte e più vere. Quindi noi potremo accettare il principio di indeterminazione ed il metodo probabilistico, anche perché, credere fideisticamente che, comunque, nella battaglia di Armageddon, i buoni risulteranno in ogni caso vincitori, è una forzatura del pensiero cristiano, che già ci portò, negli anni cinquanta del XX secolo, a prepararci allo scontro che avrebbe potuto cancellare dalla terra l’Umanità, senza riflettere molto su quello che stavamo facendo. Gli studiosi del Divino più avvertiti ci dicono che esiste, connaturato intimamente al nostro universo, il mistero ( la radice quadrata di due, il , il ). Bene, da entrambi i lati continuiamo a studiare ed a gioire l’un l’altro per le vittorie, che saranno comunque nostre. Noi, per parte nostra, superiamo l’assunto di Agostino, che riconosceva:”…un’altra forma di tentazione, pericolosa per molteplici ragioni…essa consiste nella vana curiosità, nascosta sotto il nome di cognizione e di scienza9”. La curiosità, infatti,non è una vana tentazione ma l’emblema distintivo della nostra specie. Noi dobbiamo meritarci la vittoria finale. Noi inseriremo la categoria della probabilità nella nostra teologia. Poi, noi dovremo riaccendere il fuoco del Vaticano II, per riprendere l’esile filo di quel discorso che portò la lungimiranza del nostro grande Predecessore Giovanni XXIII a tentar di aprire la nostra religione al mondo. Già da parecchio noi abbiamo distinto l’errore dall’errante, ora Sabino Chialà – “ I detti islamici di Gesù” Mondatori ed. 2009 S.Agostino “Confessioni” Mondatori Milano pagg 299-300 9 456 noi non diremo più che “Extra ecclesiam nulla salus”, ma riconosceremo il nucleo di verità che sottende ad ogni manifestazione di buona volontà. Noi, ora, affermiamo solennemente che la Chiesa non può avere spade, né spirituali né politiche, ma solo la parola del Cristo in difesa dell’umile, del diseredato del vinto. Noi intendiamo rivolgerci unicamente alle menti ed ai cuori degli uomini, per tentare di lenire fattivamente ogni ingiustizia, ogni sopraffazione, ogni crimine verso il povero, il discriminato, il battuto da ogni ingiustizia. Questo è il punto cruciale del cristianesimo, questa è la sua essenza. Per questo noi riprenderemo l’uso in vigore nella Chiesa primitiva di concedere ai nostri sacerdoti di poter accedere al matrimonio se la mancanza di questo può esser causa di situazioni insostenibili. Per questo noi, memori delle donne che seguivano Gesù, non dovremo più considerare l’universo femminile dotato di mezza anima, ma reputarlo pari all’uomo, anche nella dignità sacerdotale. Per questo noi non riterremo più l’omofilia una condizione intrinsecamente disordinata, ma solo una variante umana, presente in natura. Ma, proprio perché noi ci proponiamo di essere sempre dalla parte del più debole, noi combatteremo con tutte le nostre forze contro ogni accenno di pedofilia nel mondo e, soprattutto nelle nostre fila, colpendo inesorabilmente attori e complici di tale misfatto contro i più deboli degli uomini: i bambini ed i giovani. Noi, convinti che un male si può accettare per evitare un male infinitamente superiore e coscienti del fatto che è proprio dell’istinto dell’uom