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Realismo e spiegazione scientifica - Dipartimento di Scienze Sociali

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Realismo e spiegazione scientifica - Dipartimento di Scienze Sociali
Realismo e spiegazione scientifica
di Antonio Fasanella*
1. Realismo o riduzionismo?
Uno dei passaggi in cui, a mio giudizio, più chiaramente è posta la questione del realismo scientifico è rintracciabile nell’opera di Galileo Galilei, Il Saggiatore.
Per tanto io dico - afferma Galileo - che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che
concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in
questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o
non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso
separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere
da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta,
forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io
pensando - postula Galileo - che questi sapori, odori, colori, ecc., per la parte del soggetto
nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilite tutte queste
qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da
quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse (Galilei, 1623, p. 48, corsivo aggiunto).
Per chiarire definitivamente il rapporto intercorrente tra gli «accidenti» del
primo tipo («primi e reali»: volume, forma, quantità e moto) e quelli del secondo tipo (colori, suoni, gusti, odori), lo scienziato, dopo aver introdotto alcune esemplificazioni «fisiche» a dar conto di quel rapporto e a sostegno della
sua tesi, risolve:
* Professore associato di Metodologia delle scienze sociali presso la Facoltà di sociologia dell’Università di Roma «La Sapienza».
Sociologia e ricerca sociale n. 68, 2002
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Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo
che, tolti via gli orecchi, le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti, ma non
già gli odori né i sapori, né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi …» (ibid.).
Gli obiettivi cognitivi e la configurazione editoriale del presente lavoro non
consentono ricostruzioni ampie, fino a coinvolgere, a monte di Galileo, l’atomismo e perfino l’aristotelismo1, e, più a valle, almeno la cosiddetta dottrina
della soggettività delle qualità sensibili, che ha animato gran parte del pensiero
filosofico del XVII secolo, ben rappresentata dai contributi, oltre che dello
stesso Galileo, di Cartesio, Hobbes, Locke, Boyle. Per restare alla distinzione
galileiana tra qualità primarie e secondarie, essa è interessante proprio perché,
pur provenendo (o essendo stata accolta) da una fonte così autorevole, reca
con sé un dilemma, certamente di non facile soluzione, che si può dire essere
stato ereditato dalla riflessione postuma fino ad essere consegnato al dibattito
più recente sul tema del realismo.
Il dilemma in questione può essere espresso mediante l’interrogativo: gli
oggetti/fenomeni con cui la scienza ha a che fare: 1) sono osservabili perché
esistono, o 2) esistono perché sono osservabili? In effetti, accogliendo la prima
istanza, ci troveremmo in imbarazzo di fronte a colori, suoni, ecc. (le Qualità
secondarie, Qs), poiché risultano sì osservabili, nel senso che di essi possiamo
fare «sensata esperienza» (nella terminologia dello stesso autore) e dunque
possiamo dire che esistono; nondimeno, seguendo Galileo, essi non esisterebbero realmente prescindendo dall’osservazione. D’altra parte, anche la seconda alternativa appare problematica: al pari dei primi, il volume, il moto, ecc.
(le Qualità primarie, Qp) rientrano tra gli «oggetti» della cui esistenza possiamo fare certamente esperienza mediante i sensi, sennonché essi, a differenza
degli altri, esisterebbero realmente pur escludendo l’osservazione.
Esistenza
Non esistenza
Osservabilità
Non osservabilità
Qp/Qs
Qs
Qp
-
Altrove si è parlato di tesi della doppia residenza (cfr. Fasanella, 1990, p.
37), distinguendo tra entità naturalmente residenti/esistenti nell’oggetto sottoposto a osservazione (e perciò oggettive), ed entità che, sia pure, erroneamente, attribuite ad esso, non godono di altra consistenza se non nel soggetto osservante (come tali, classificabili come soggettive). La tesi, così espressa, necessita però di una essenziale precisazione.
Galileo, come si è visto, opera una scissione della dimensione dell’esistenza, reale od oggettiva che dir si voglia, dalla dimensione dell’osservazione.
1. Una interessante interpretazione «continuista» del pensiero di Galileo rispetto alla concezione
aristotelica è stata recentemente proposta da Bonolis, 2002.
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Ciò non toglie che il momento dell’osservazione degli oggetti o delle entità è
irrinunciabile in ambito scientifico, ed è giudicabile, a buon diritto, prioritario
rispetto alla questione della loro esistenza reale. Ora, si può ben affermare, anche rimanendo entro i confini della concezione galileiana, che l’osservazione è
un procedimento più o meno complesso, che necessita, in qualche maniera,
della presenza di un soggetto umano, il quale generalmente interviene prima
(con la messa a punto di un dispositivo e/o strumento), durante (con l’uso e/o il
controllo del dispositivo stesso in azione) e dopo (con la registrazione del risultato) il procedimento stesso; così intesa, l’osservazione non può che essere
soggettiva. In questo senso tutte le entità o, per dirla con Galileo, le qualità degli oggetti sono, in quanto osservabili, soggettive: non sono possibili osservazioni (metodi di osservazione) oggettive, reali.
Pertanto, la tesi della doppia residenza, che, come si è detto, postula l’esistenza di caratteristiche veramente oggettive, cioè proprie dell’oggetto di cui si
fa esperienza, e caratteristiche falsamente oggettive, ovvero proprie del soggetto che fa esperienza, rischia di essere fuorviante, dal momento che implicherebbe, contrariamente a quanto si è appena sostenuto, l’esistenza di procedure
osservative in grado o meno di garantire l’accesso al reale; ovvero implicherebbe, in luogo dell’osservazione, modalità alternative di conseguimento dell’oggettività, come, per esempio, l’immaginazione o l’intuizione (anch’esse,
come l’osservazione, di natura soggettiva!).
Ancora senza spostarsi dalla posizione galileiana, se la distinzione oggettivo-soggettivo sembra porre più problemi di quanti riesca a risolvere, vale la
pena riprendere la riflessione intorno alla discriminante primario-secondario
per capire se essa possa condurre a esiti alternativi.
Senza necessariamente riproporre una linea di pensiero seguendo la quale
si potrebbe approdare all’esse est percipi, di berkeleyana memoria, si può affermare che i fenomeni secondari (le Qs), da un punto di vista strettamente osservativo, hanno lo stesso status dei fenomeni primari (le Qp) (cfr. Berkeley,
1710; tr. it., 1955, in particolare parte I, parr. 9 e ss.; sul tema v. anche Bradley, 1893; tr. it., 1947, pp. 47-53). Le Qs diventano - per così dire - epifenomeni, ma si potrebbe parlare anche di «effetti», delle Qp attraverso un processo di riduzione integrale. La riduzione segue l’osservazione, non è semplicemente l’esito di un esperimento mentale, ma piuttosto si ottiene mediante sperimentazione «fisica»: certe osservazioni realizzate nel tempo t1 vengono
ri(con)dotte senza residui ad altre osservazioni occorrenti in t0 (è questo il senso delle argomentazioni addotte da Galileo per illustrare la distinzione tra Qp e
Qs)2. Solo quando sia stata ottenuta la riduzione completa, non prima, e solo
2. Si riporta qui la breve esemplificazione attraverso la quale Galileo riduce il fenomeno del suono
ad una serie di fenomeni antecedenti legati al moto, al volume e alla quantità dei gravi: «Resta poi
l’elemento dell’aria per li suoni: i quali indifferentemente vengono a noi dalle parti basse e dall’alte e
dalle laterali, essendo noi costituiti nell’aria, il cui movimento in se stessa, cioè nella propria regione, è
egualmente disposto per tutti i versi; e la situazion dell’orecchio è accommodata, il più che sia possibile, a tutte le positure di luogo; ed i suoni allora son fatti, e sentiti in noi, quando (senz’altre qualità sonore o transonore) un frequente tremor dell’aria, in minutissime onde increspata, muove certa cartilagine di certo timpano ch’è nel nostro orecchio. Le maniere poi esterne, potenti a far questo increspa-
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quando si siano messi da parte i dispositivi di osservazione in t1, si può affermare, peraltro senza particolare originalità, che di quelle osservazioni non restano altro che «nomi», nel senso che a tali nomi non corrisponde nulla di cui
possa farsi «sensata esperienza». Perché quest’ultima sottolineatura? Per rivendicare, a fronte della conformità sul piano osservativo, il fatto che le Qs
non hanno una loro, sia pure parziale, autonomia, ma sono interamente e fisicamente prodotte e riproducibili, in modo controllato e ripetibile, dalle Qp; ma
non viceversa.
Evidentemente, e qui probabilmente si va oltre Galileo, le Qp, non possono, per questo, ambire ad uno status ontologico superiore rispetto alle Qs. Non
rinunciando all’idea che tutte le qualità in quanto osservabili sono soggettive,
solo con l’introduzione di un espediente terminologico, associando cioè al termine oggettivo il significato di «osservabile non ulteriormente riducibile» e al
termine soggettivo il significato di «osservabile ulteriormente riducibile», possiamo dire che le Qp sono oggettive e le Qs soggettive. Resta inteso che quando si parla di riducibilità/irrudicibilità si fa riferimento, oltre che ad un processo, ad un risultato che sia: 1) osservabile, come abbiamo visto, e 2) provvisorio. Semplificando: è sempre ammissibile l’esistenza/osservabilità di una
nuova classe di qualità fondamentali, in un regresso potenzialmente infinito,
così da prodursi uno slittamento continuo di posizioni nel precedente ordinamento. Solo per far notare che una cosa è postulare l’esistenza di un «livello
di fondo» di un livello ultimo (bedrock) della realtà (Finkelstein, 1984, p. 345),
altra cosa è dire di averlo toccato.
2. Demetafisicizzando il realismo
L’obiettivo del presente contributo non è da ricercare in una ricostruzione
del dibattito intorno al tema del realismo; piuttosto ci interessa proporre qualche riflessione - e ciò accadrà nei paragrafi successivi - su che cosa comporti
adottare una specifica prospettiva di realismo scientifico, quella cui sembra ispirarsi l’approccio di Pawson, nel campo della ricerca sociale applicata. Si
tratterà allora, preliminarmente, di provare a tratteggiare il quadro concettuale
più generale entro il quale la successiva trattazione si collocherà.
Il dibattito più recente sul tema del realismo scientifico, com’è noto, si è
svolto e si svolge intorno a due questioni di fondo:
1) se gli oggetti, o gli enti, di cui parla la scienza siano reali o no;
2) se le rappresentazioni scientifiche, cioè a dire le riproduzioni delle relazioni tra detti oggetti o enti, siano reali o no.
Terreno sufficientemente ampio e fertile perché attecchisse e si sviluppasse
una rigogliosa selva di posizioni, in senso propositivo le une, in senso critico le
altre, che hanno prodotto una considerevole varietà di frutti: realismo interno,
mento nell’aria, sono moltissime; le quali forse si riducono in gran parte al tremore di qualche corpo
che urtando nell’aria l’increspa, e per essa con gran velocità si distendono l’onde, dalla frequenza delle
quali nasce l’acutezza del suono, e la gravità dalla rarità» (Galilei, 1623, p. 48).
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realismo delle entità, realismo delle teorie, realismo (epistemologico) convergente, realismo empirico, realismo homely line, realismo interventista, realismo causalista, ecc3. Se si volesse provare a fornire, con riferimento a tale
messe, almeno qualche indicazione bibliografica, pur nella consapevolezza di
operare una ristretta e certamente discutibile selezione, esclusivamente orientativa, si potrebbero citare, in ordine sparso, i lavori di Maxwell (1963), Hacking
(1983; tr. it., 1987), Fine (1984), Putnam (1975; tr. it., 1987 e 1981; tr. it.,
1985), Cartwright (1983), van Fraassen (1980; tr. it., 1985), Harré (1986 e
1996), Harman (1965), Laudan (1981), Popper (1957), Smart (1963), Leplin
(1997). Un capitolo a parte andrebbe poi dedicato al dibattito interno al positivismo logico, che ha visto strenuamente impegnato Moritz Schlick a sostenere
una posizione di realismo empirico, dichiaratamente anti-metafisico, avverso,
da un lato, a una concezione coerentista della verità scientifica, proposta da
Neurath, e, dall’altro, a un orientamento gnoseologico manifestamente psicologistico, difeso, almeno in una prima fase del suo pensiero, da Carnap (cfr.
perlomeno Schlick, 1932, 1934 e 1936; tr. it., 1974; Neurath, 1931-1932; tr.
it., 1968 e 1932; tr. it., 1968; Carnap, 1928; tr. it., 1966).
Il realismo di Schlick è degno di attenta considerazione, e non tanto, evidentemente, per gli esiti cui approda, dai quali non è così impegnativo prendere le distanze, quanto per le premesse da cui muove. «Se il rifiuto della metafisica da parte del positivismo - scrive Schlick - equivale alla negazione del trascendente, allora la conseguenza più naturale che se ne può trarre è che il positivismo attribuisce una realtà solo al non trascendente. Il principio fondamentale del positivista sembra essere: “soltanto il dato è reale”» (Schlick, 1932; tr.
it., 1974, p. 84). Schlick si impegna nella difesa di tale principio, non senza
aver segnalato come affermazioni del genere «soltanto il dato è reale» o anche
«è dato solo il dato» meritino attenzione e cautela in quanto non del tutto al
riparo da interpretazioni metafisiche4.
Il suo argomento principale consiste nel mostrare come solo una certa concezione del realismo, espressamente la concezione metafisica o trascendentale,
risulti inconciliabile con una prospettiva positivista, laddove una lettura autenticamente e rigorosamente scientifica del realismo renderebbe non solo possibile, ma inevitabile l’adozione di un atteggiamento positivista in campo scientifico. Insomma, Schlick è convinto che la soluzione del problema dell’incompatibilità risieda nella rimozione del macigno che impedisce la naturale
unione tra realismo e positivismo, che così finalmente si attuerebbe dopo una
secolare, ingiustificata divisione. Il macigno, per la verità di dimensioni e consistenza colossali, eppure così straordinariamente ineffabile, è la cosa in sé,
che solo per comodità può essere chiamata kantiana, essendo di fatto il prodotto di una millenaria sedimentazione intellettuale che ha le sue origini nella fi3. Per alcune ricostruzioni, perlopiù orientate realisticamente, del dibattito sul realismo scientifico
si rimanda a Boyd (1983), Horwich (1982), Haack (1987), Harré (1986), Boniolo e Vidali (1999, pp.
585-626).
4. Schlick ha gioco facile nel mostrare, per esempio, come assegnando alla nozione di «dato» il significato di «contenuto di coscienza, soggettivamente inteso», si otterrebbe l’assimilazione del positivismo all’idealismo metafisico, nella migliore delle ipotesi, di stampo berkeleyano.
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losofia greca, per rimanere alla storia del pensiero occidentale. La cosa in sé
possiede natura a-storica, non-individuale, pre-linguistica e persino, in un certo
senso, preconcettuale. La cosa in sé, reale, si trova in una posizione sub-stanziale rispetto ai fenomeni osservabili, perciò esiste oltre la (sfugge alla) percettibilità sensoriale, e nondimeno è in grado di esercitare un potere costitutivo e
strutturante rispetto ad essi, che si configurano non in quanto fenomeni reali
ma in quanto fenomeni (promanazione) della realtà. Riferendosi a Kant,
Schlick parla di una «realtà trascendentale, che non può essere inferita logicamente, e che costituisce un postulato non dell’intelletto, ma della sana ragione» (ibid., p. 102).
Ma in che modo Schlick pensa di disfarsi di una nozione tanto invasiva?
In effetti - sostiene Schlick - noi siamo convinti da tempo che l’esistenza delle cose postulate dal fisico, per sottili e «invisibili» che siano, si verifica, in linea di principio, esattamente allo stesso modo che la realtà di un albero o di una stella. Per la soluzione della controversia fra realismo e positivismo, è di estrema importanza che il fisico tenga presente che
il suo mondo esterno non è altro che la natura che ci circonda nella vita quotidiana, e non il
«mondo trascendente» del metafisico. La differenza che intercorre tra questi due mondi è
particolarmente chiara nella filosofia kantiana. La natura e tutto ciò di cui il fisico può e deve parlare fanno parte, secondo Kant, della realtà empirica (…). Nel sistema kantiano, gli
atomi non hanno una realtà trascendente, non sono «cose in sé». Perciò il fisico non può far
ricorso alla filosofia di Kant per attingere un mondo trascendente, dato che i suoi argomenti
conducono solo al mondo esterno empirico, che noi tutti conosciamo, e non a un mondo appunto - trascendente. Gli elettroni non sono entità metafisiche (ibid., pp. 104-5).
La soluzione proposta al problema della cosa in sé presenta il carattere della
radicalità: il problema, da un punto di vista scientifico, semplicemente non si pone. Metodologicamente parlando, non è apprezzabile alcuna differenza tra
l’impostazione del fisico realista trascendentale e quella del fisico realista empirico. Per rimanere al tema dell’esistenza degli elettroni, tanto il primo quanto il
secondo non potrà che essere «dell’avviso che, per una conoscenza adeguata, occorra indicare la conformità a leggi del comportamento dell’elettrone in maniera
così esauriente, che tutte le formule riguardanti le sue proprietà vengano confermate completamente dall’esperienza» (ibid., p. 105). Ma ciò attesta, secondo
Schlick, che «l’elettrone, come qualsiasi altra realtà fisica, non è una cosa in sé
insondabile, non appartiene a una realtà trascendente e metafisica, caratterizzata
dal fatto di implicare l’inconoscibile» (ibid., pp. 105-6).
Ma, allora, da che cosa origina l’equivoco che ha determinato la contrapposizione tra realismo e positivismo? La confusione nasce dalla acritica trasposizione in ambito scientifico dell’espressione «mondo esterno trascendentale»,
che è un’espressione tecnica, propria di una specifica matrice disciplinare (la
filosofia) che rimanda ad un’area semantica circoscritta e specialistica. Dal
punto di vista di Schlick, questa espressione, in ambito scientifico, semplicemente non ha senso; tutto ciò che egli è disposto a concedere è la possibilità
che l’espressione «mondo esterno trascendentale» sia riconducibile a particolari stati di fatto psicologici (timore, stupore, sicurezza, prudenza, ecc.) che essa
è in grado di suscitare in chi la ascolta o vi ricorre. Ma ciò non è sufficiente a
demarcare un atteggiamento realista trascendentale da un atteggiamento reali64
sta empirico, considerato che, come nell’ambito del primo, anche nel quadro di
quest’ultimo tipo di atteggiamento sono ammissibili stati psicologici quali il
timore, lo stupore, la sicurezza, ecc., derivanti da esperienze legate all’analisi
di particolari fenomeni fisici (per esempio, la struttura dell’atomo), ma associati a espressioni linguistiche alternative (cfr. ibid., pp. 108-9). In quanto
all’argomento realista trascendentale dell’esistenza di una realtà indipendente
dall’osservazione, Schlick replica, precisando che l’accettazione di tale principio non equivale ad ammettere il carattere di accessorietà dell’esperienza in
campo scientifico; inoltre, nessun positivista che intendesse prendersi sul serio,
neanche il più oltranzista, sarebbe disposto a far propria l’idea che la realtà
cessa di esistere nell’esatto momento in cui le voltiamo le spalle (ibid., p. 109).
La demetafisicizzazione del realismo sembra perciò passare attraverso la
preliminare assunzione di un principio di divisione del lavoro: le questioni di
competenza dello scienziato non sono le stesse di cui si occupa il filosofo, tanto il filosofo della scienza quanto il filosofo metafisico (cfr. Boniolo, 1999, pp.
349 e ss.). Certo, nulla osta a che lo scienziato si dia alla filosofia e viceversa,
pure, parafrasando Kuhn (1995), è altamente raccomandabile, al fine di evitare
ogni malinteso, separare gli ambiti, ed essere ora scienziati, ora filosofi, evitando nel modo più assoluto di essere le due cose insieme5.
Il richiamo all’osservanza di un principio di divisione del lavoro non deve
apparire ridondante, se è vero che non è infrequente imbattersi in espliciti rimandi all’esigenza di formulare una concezione realista della scienza; esigenza collegata alla necessità di assumere, in campo scientifico, la duplice distinzione, fondata filosoficamente, da un lato, tra le nozioni di «esperienza», «evento» e «meccanismo», dall’altro, tra i domini dell’«empirico», dell’«attuale»
e del «reale» (Bhaskar, 1975, p. 13, tab. 0.1). Il riferimento a Bhaskar è dovuto
indubbiamente alla chiarezza degli intenti («lo sviluppo di una sistematica teoria realista della scienza, tale da fornire una esauriente alternativa al positivismo»: ibid., p. 12), ma anche alla circostanza, non secondaria alla luce degli
interessi da cui muove la presente riflessione, che alle sue argomentazioni risultano ispirate le critiche che Ray Pawson rivolge ad una certa impostazione
del lavoro scientifico nel campo della ricerca sociale e segnatamente nel settore degli studi sulla valutazione.
Ma prima di occuparci di questo tema, occorre ancora procedere ad alcune
precisazioni. Come si anticipava in apertura di paragrafo, pur condividendo l’attacco portato da Schlick a una certa concezione del realismo, non è così difficile
prendere atto dei limiti delle tesi neopositiviste. Altrove, si è avuto modo di riflettere su tali limiti, cercando di valutare altresì i tentativi di superamento maturati
nel seno stesso dell’empirismo logico (cfr. Fasanella, 1993), dovuti a esponenti
meno legati alla standard view - è il caso di Hempel o di Quine - e più sensibili
alle crescenti aporie poste dal programma dell’empirismo logico. Se si dovesse
qui sinteticamente indicarne la natura, si potrebbe fare riferimento a una seria dif-
5. Kuhn si riferisce alla incompatibilità di impostazione disciplinare e di approccio all’oggetto di
studio che intercorre tra lo storico della scienza (che non può contraddire i fatti) e il filosofo della
scienza (che non può contraddire se stesso).
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ficoltà a riconoscere la presenza attiva e indipendente della dimensione della
concettualizzazione nella riflessione e nella pratica scientifica (una sorta di
horror intentionis). Dove per concettualizzazione si intende un’attività mentale
soggettiva, in grado di produrre una rappresentazione o, in termini meno impegnativi, una immagine che, per il fatto di possedere natura mentale, è ideale. Esiste lo spazio sufficiente per il recupero della nozione di intenzionalità, propria
della tradizione scolastica (Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto,
ecc.) e ripresa da Brentano, prima, e da Husserl, poi. Proprio Brentano (cfr.
1874; tr. it., 1997), sviluppando la riflessione intorno al concetto di intenzionalità
e alla distinzione fra stati mentali e stati fisici, perviene ad ammettere la possibilità dell’esistenza di oggetti mentali indipendenti o «irreali»; più semplicemente,
oggetti che non esistono nella realtà, ma possono essere percepiti mentalmente,
peraltro in maniera determinata e con dovizia di particolari, nel senso della ricchezza della configurazione di proprietà caratteristiche dell’oggetto percepito.
Alexius von Meinong (1898) perfeziona la distinzione, separando la nozione di
intenzionalità diretta verso «essenze» (o «sussistenze») (oggetti mentali tout
court: montagne d’oro, quadrati rotondi, numeri, ecc.) da quella di rappresentazione diretta verso «esistenze» (oggetti reali: montagne, pianeti, ecc.), postulando
così l’indipendenza dell’essenza dall’esistenza di un oggetto6 e, soprattutto, assegnando di fatto il primato al primo tipo di intenzionalità; ciò anche in considerazione del fatto che, se si pensa al dominio scientifico, tale distinzione nella maggior parte dei casi, ad esclusione delle aporie logiche (come per l’esempio dei
quadrati rotondi), è operabile ex post.
Tutto ciò rimanda all’idea di un’invenzione contrapposta a quella di una
scoperta; al pensiero, se si vuole, di un artefatto, di una creazione astratta, più
o meno fantastica, e talvolta assolutamente fantastica, incompatibile con una
concezione dei processi cognitivi che assegna la massima importanza alla mera
«fattualità». D’altra parte, sarebbe interessante indagare su quanto tutto questo
abbia a che fare con la nozione weberiana di concettualizzazione tipico-ideale,
ma si tratta, evidentemente, di questione complessa che merita una trattazione
a parte; qui però non si può non segnalare l’insistenza di Weber, per un verso,
sulla natura astratta, fantastica, «irreale» dei concetti di tipo ideale, e, per altro
verso, sull’impossibilità di ridurre il tipo ideale a concetto osservativo, né normativo e, meno che mai, emanatistico7 (Weber, 1922a; tr. it., 1961, p. 18,
1904; tr. it., 1958, pp. 108 e ss. e 1903-1906; tr. it., 1980, pp. 5 e ss.).
Vale la pena, da subito, rimarcare che il recupero della dimensione della
concettualizzazione (o dell’intenzionalità) non confligge necessariamente con
6. Boniolo (1999, p. 305) parla di principio di Meinong: «Che un ente abbia precise determinazioni, cioè abbia un’essenza, è del tutto indipendente dalla sua esistenza». Sul punto v. anche Bonfantini
(1976, pp. 45-8).
7. In polemica con la scuola storica dell’economia, che avrebbe mutuato l’impostazione tipica della scuola tedesca del diritto, e prendendo le mosse da una lettura dei concetti di Volksgeist e Volkscharakter, Weber rifiuta decisamente l’interpretazione, che si potrebbe qualificare in termini di realismo
metafisico, secondo la quale i concetti scientifici avrebbero come referenti «essenze» della realtà, ovvero dimensioni sottostanti ai fenomeni osservabili, di cui questi ultimi non sarebbero altro che una risultante, una «promanazione» (Weber, 1903-1906; tr. it., 1980, p. 11).
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un’impostazione realista della conoscenza scientifica. Può tornare utile in proposito ricordare l’istruttiva storiella di Maxwell (cfr. 1963, pp. 4-7), che narra
del lungimirante «dottor Jones» (a Pasteur-like scientist), vissuto precedentemente all’avvento del microscopio e convinto dell’esistenza di famigerati crobes, responsabili della trasmissione di una varietà di malattie che colpiscono
l’uomo. Nella ricostruzione finzionale proposta da Maxwell, i crobes altro non
sono che il frutto di una speculazione di Jones; essi si configurano quali oggetti intenzionali o mentali cui, almeno nella fase iniziale, non vi è nulla di corrispondente nella realtà, benché Jones sia profondamente convinto del contrario,
imputando l’impossibilità di un’osservazione diretta alla straordinaria esiguità
delle loro dimensioni. Solo successivamente, lo scienziato ha la possibilità di
prendersi la rivincita nei confronti delle interpretazioni antirealiste (strumentaliste e neopositiviste) della nozione di crobe (cfr. ibid., p. 5), quando l’introduzione del microscopio nella pratica scientifica dimostra l’esistenza di una
grande varietà di tali enti (denominati da allora microbes - così nella parodia di
Maxwell), ognuno dei quali capace di trasmettere ciascuno dei tipi di malattie
studiate da Jones (ibid., p. 6).
Dal racconto di Maxwell emerge in modo chiaro come l’assunzione di una
prospettiva realista in campo scientifico abbia consentito di ottenere dei risultati
scientificamente rilevanti (organizzazione dei dati disponibili, previsioni, terapie
di successo, ecc.)8 prima ancora che le entità ritenute da Jones realmente esistenti
fossero state realmente osservate. In altre parole, non si è dovuto aspettare il fatidico to seize the object, la scoperta di fatto dei crobes, prima che la ricerca mossa
da una qualche teoria dei crobes conducesse a esisti sperimentali. E, in fondo, il
fatto che a tali esiti si sarebbe potuto pervenire altresì partendo da una teoria alternativa a quella di Jones (siamo di fronte al classico problema della sottodeterminazione delle teorie) non toglie nulla alla rilevanza dei risultati ottenuti, né alla
particolare teoria che ha orientato la ricerca che ha consentito di raggiungerli. In
questo modo, è possibile liberare definitivamente il campo da un equivoco, abbastanza diffuso, in base al quale l’attività scientifica intesa in senso realista sarebbe ridotta ad una sorta di «caccia al tesoro», ciò costituendo proprio la specificità
dell’approccio realista alla ricerca. Lo scienziato realista, piuttosto che dedicarsi
compulsivamente alla cattura di entità nascoste, alla scoperta di meccanismi sottostanti, alla penetrazione negli aspetti più reconditi del dominio fenomenologico, sembra voler affermare il diritto di accedere, senza rinunciare a una concezione realista, alle prerogative del suo collega di orientamento non-realista, che
in definitiva si configurano come prerogative della scienza (la teorizzazione, la
formulazione di ipotesi, il controllo sperimentale, la spiegazione/previsione,
l’intervento/controllo sui processi che determinano i fenomeni analizzati).
Ma il resoconto di Maxwell è edificante, come si accennava, anche per un
secondo motivo, che vale la pena di riconfermare. La vicenda di Jones porta a
riflettere sulla non opportunità di ridurre il realismo ad una mera questione di
8. Nella ricostruzione di Maxwell, il dottor Jones, muovendo dalla sua teoria, mette a punto un sistema di «rimozione» dei microrganismi in grado di ridurre del 40% l’incidenza della trasmissione delle malattie (cfr. ibid., p. 4).
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osservabilità, come, in fondo, avrebbe voluto Schlick. L’attenzione si sposta
dall’osservazione al che cosa si osserva o si intende osservare. Vale la pena di
ribadire che gli «oggetti» scientifici, prima ancora di essere delle entità reali, si
pongono come entità intenzionali o ideali o mentali che dir si voglia; l’osservazione di quanto postulato, se subentra, subentra in differita, come una conseguenza possibile, ma non necessaria, della concettualizzazione, senza che si
possa fissare, tuttavia, un tempo di «scadenza». Quest’ultima, come si è tentato
di argomentare nel passo precedente, nel frattempo, lungi dal porsi come assai
poco significativo esercizio speculativo, può rivelarsi variamente proficua nella misura in cui è in grado di condurre a un numero maggiore o minore di risultati di ricerca più o meno rimarchevoli.
Questo punto è estremamente interessante.
Qui non si tratta tanto di affrontare la questione, pure di decisiva importanza, dei procedimenti di osservazione (e della validità di essi) delle entità teoriche postulate come reali, come fa van Fraassen (1980; tr. it., 1985, pp. 39 e
ss.), quanto piuttosto di ammettere, in via di principio, come sembra disposto a
fare Hacking, che alcune entità teoriche possano essere degli «stupendi errori»
(1983; tr. it., 1987, p. 326), dove l’«errore» rimanda alla mancata osservazione
di quanto postulato, mentre lo «stupendo» ha a che vedere con il carattere in
ogni caso prolifico della concettualizzazione irreale sul piano dei risultati di ricerca9.
Questa tenace insistenza sul primato, in ambito scientifico, della concettualizzazione rispetto alla «fattualità» non deve in alcun modo suonare come una
abdicazione a favore dell’intellettualismo. Sembra più che opportuno, a tal fine, tenere conto dell’ammonimento di Merleau-Ponty: «L’empirismo non vede
che abbiamo bisogno di sapere cosa cerchiamo, senza di che non lo cercheremmo, e l’intellettualismo non vede che abbiamo bisogno di ignorare cosa
cerchiamo, senza di che, di nuovo, non lo cercheremmo» (Merleau-Ponty,
1945; tr. it., 1965, p. 65). La concettualizzazione non ha da intendersi autoreferenzialmente, o, peggio, normativamente, - e qui ancora una volta mostra tutto
il suo valore l’insegnamento weberiano - nel senso della necessità di un adeguamento, in qualunque modo ottenibile, dei dati sperimentali alla costruzione
concettuale. L’osservazione non rappresenta soltanto l’atto conclusivo, immancabile, e perciò scontato, di un processo deduttivo, algoritmico, che muove
da una data rappresentazione mentale avente carattere di ineluttabilità. Qualsivoglia formulazione concettuale, pur avendo una funzione attiva e costitutiva
rispetto all’osservazione, non può porsi come una struttura chiusa e impermea-
9. Questa posizione è espressa in modo assai chiaro, con il ricorso ad alcuni esempi tratti dalla storia della scienza: «Devo confessare ora - scrive Hacking - un certo scetticismo su, poniamo, i buchi neri. Sospetto che ci possa essere un’altra rappresentazione dell’universo, altrettanto coerente coi fenomeni, in cui i buchi neri non siano ammessi. (…) Anche l’etere di Newton era oltremodo occulto. E ci
ha insegnato molte cose. Maxwell fece le sue onde elettromagnetiche nell’etere ed Hertz confermò
l’etere dimostrando l’esistenza di onde radio. Michelson elaborò un modo per interagire con l’etere.
Egli pensò che il suo esperimento confermasse la teoria di Stokes sul trascinamento dell’etere, ma alla
fine tale esperimento fu una delle molte cose che fecero scomparire l’etere» (Hacking, 1983; tr. it.,
1987, pp. 325-6, corsivo aggiunto).
68
bile alle sollecitazioni - per così dire - della realtà. In definitiva, proprio
considerazioni di questo tono hanno consentito di leggere il contributo di
Kuhn in termini di costruttivismo realista (cfr. Ancarani, 1997), a partire dalla
presa d’atto che anche le più consolidate, condivise, strutturate e strutturanti
formazioni concettuali - situate, per intendersi, da Kuhn alla base delle nozioni
di paradigma e scienza normale10 - sono soggette a entrare in crisi sotto la
spinta di particolari «rompicapo posti dalla natura», che finiscono per trasformarsi in anomalie, ovvero in questioni non risolvibili nell’ambito del
complesso ma radicato frame di concetti e pratiche scientifiche entro il quale si
sono generate (cfr. Kuhn, 1962; tr. it., 1978).
Nell’economia del presente lavoro, la difesa del primato della concettualizzazione, senza che ciò conduca, come si è appena precisato, all’intellettualismo paventato da Merleau-Ponty, consegue dall’accettazione di un programma
di demetafisicizzazione del realismo. Il rifiuto del realismo metafisico, nelle
forme illustrate poco sopra, non conduce all’empirismo strettamente ed astrattamente inteso, a una visione della scienza vecchia maniera. Una visione ben
evidente nel programma del primo positivismo logico, determinato a stabilire
rapporti privilegiati ed esclusivi tra sfera del linguaggio e sfera dei referenti
empirici, senza l’imbarazzante mediazione della sfera del pensiero (cfr. Marradi, 1994, in particolare par. 6). L’eliminazione della quale, com’è noto, ha
comportato grandi, ma, a conti fatti, infruttuosi sforzi nella doppia direzione 1)
della costruzione di una semantica estensionale, in cui il linguaggio si pone essenzialmente come un’attività di denominazione; 2) della riduzione del linguaggio medesimo, scorporato dalla dimensione «mentale» ad esso associata, a
mero «fatto fisico» tra fatti fisici, con l’intendimento di affermare, finalmente,
una prospettiva interamente fisicalista della conoscenza scientifica, in grado di
spazzare via anche l’ultima insidia metafisica veicolata dal dualismo linguaggio-mondo.
3. Realismo e spiegazione
Nel paragrafo precedente si è avuto modo di riflettere su una lettura, prevalente, del realismo, che di fatto riduce l’attività scientifica alla ricerca degli elementi fondamentali della realtà, che, il più delle volte, risultano sommersi,
richiedendo pertanto strategie di avvicinamento, prima, e rilevamento, poi,
grandemente complesse. Mettendo da parte il cosiddetto «mito dell’oggettività», si è visto come un posto di primo piano nella messa a punto di tali strate-
10. Siamo di fronte ad uno dei maggiori motivi di attrito tra Feyerabend e Kuhn. La posizione di
Feyerabend, infatti, si distingue per un’opposizione decisa all’idea di una comunità scientifica che aderisce acriticamente e in tutte le sue componenti ad un’unica prospettiva concettuale. La scienza normale, costitutivamente caratterizzata, secondo Feyerabend, da omologazione e conservazione, determina
la riduzione sino all’annullamento degli spazi necessari perché anche solo una minoranza di rappresentanti della comunità scientifica possa esercitare pratiche alternative a quelle legittimate dalla più ampia
maggioranza: ciò è sufficiente a qualificare la scienza normale di Kuhn nei termini di una pratica antiumanitaria (cfr., per tutti, Feyerabend, 1975; tr. it., 1984 e 1978; tr. it., 1981).
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gie spetti alla concettualizzazione, cioè a dire ad un’attività principalmente
mentale del soggetto ricercatore, volta alla costruzione di immagini, di rappresentazioni fantastiche, che possono o meno essere condivise da altri soggetti
ricercatori, in grado di orientare la ricerca stessa e tuttavia suscettibili di errore; errore che si manifesta nella ragionevole presa d’atto della inesistenza fattuale delle entità esistenti mentalmente.
D’altra parte, si è sottolineato il fatto che lo scienziato di orientamento realista è altresì interessato, in quanto scienziato, e non potrebbe essere altrimenti,
a fornire un resoconto dei fenomeni che studia in termini sia esplicativi sia
predittivi, così da ottenere una sorta di controllo su di essi, che può essere esercitato mediante interventi tesi alla produzione di determinati risultati sperimentali.
Uno dei probabili malintesi che scaturisce dall’interfaccia delle due istanze
(l’attenzione verso i fondamenti e la determinazione alla spiegazione/previstone) è rappresentato dall’idea che debba essere affermato un modo di fare
scienza, realista, alternativo a un modo più convenzionale di intendere la ricerca, che non sarebbe in grado di recepire la specificità dell’approccio realista,
così da risultare inadeguato. La spia del diffondersi di una simile concezione
risiede nell’uso di formule linguistiche che tradiscono il bisogno di una accentuazione, di una qualificazione, di un’identità: si parla di spiegazione realistica,
di esperimenti reali, di dati realistici, di disegno di ricerca realistico, di valutazione realistica, ecc. (cfr., ad esempio, Pawson e Tilley, 1997). Ora, che il collegamento tra le due esigenze di cui si sta parlando sia operazione complessa,
che richiede un’attenta consapevolezza, da un lato, dei rischi del trascendentalismo oggettivizzante, e, dall’altro, dei vincoli posti dal (dei limiti propri del)
procedimento scientifico, è fuori di dubbio. Ma è altrettanto certo che proprio
l’attribuzione di risalto alla specificità realista costituisce un pericolo effettivo
per il mantenimento di un già delicato equilibrio. E, da questo punto di vista,
quello della spiegazione scientifica è un terreno tra i più insidiosi.
La modellizzazione fornita da Hempel in merito al tema della spiegazione
scientifica (cfr. per tutti Hempel, 1965; tr. it., 1986), com’è noto, ha costituito
e costituisce un punto essenziale di riferimento per una riflessione che ha visto
impegnato innanzi tutto lo stesso Hempel per circa un quarantennio11. La spiegazione scientifica di un fenomeno si ottiene collegandolo a un insieme definito, più o meno ampio, di altri fenomeni (circostanze empiriche), la cui occorrenza è ritenuta responsabile dell’accadimento del fenomeno in esame. La selezione di dette circostanze avviene sulla base di un corpus più o meno organizzato di conoscenze espresse in forma di asserti generali di natura sia teorica
sia empirica. Solo grazie a tali conoscenze ad alcuni, tra i possibili fattori potenzialmente in grado di spiegare un dato evento, si riconosce rilevanza esplicativa, ceteris paribus. La clausola ceteris paribus, evidentemente, rimanda alla esigenza che tutti i fattori rispetto ai quali sia stata accertata la rilevanza ai
fini della spiegazione siano chiaramente espressi nella formulazione della
11. Per un elenco degli scritti dedicati da Hempel al tema della spiegazione scientifica si veda la
bibliografia delle opere di Hempel curata da G. Ripamonti, in Hempel, 1989.
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spiegazione medesima, senza possibilità di equivoco. Ciò significa che le circostanze alla pari (ininfluenti o uguali), devono essere effettivamente tali e
non possono essere semplicemente presunte tali, dal momento che in questo
modo la clausola si convertirebbe in un comodo espediente cui ricorrere nei
casi di mancata corrispondenza tra esiti attesi e esiti osservati, ma perderebbe
al tempo stesso tutta la sua efficacia esplicativa12.
Adottando una prospettiva realista, è del tutto legittimo che tra i fattori prescelti quali decisivi ai fini della spiegazione, nell’osservanza del requisito della
rilevanza esplicativa13, possa essere posta, opportunamente concettualizzata,
qualche entità fondamentale, ovvero qualche meccanismo latente o disposizione. L’importante è che tale passaggio sia compiuto nella consapevolezza che
«le asserzioni che costituiscono una spiegazione scientifica debbono essere suscettibili di controllo empirico»14 (Hempel, 1966; tr. it., 1968, p. 80). Il controllo empirico si ottiene quando i termini-concetti ricompresi negli enunciati
della spiegazione - descrittivi quindi 1) dell’evento da spiegare, 2) dei fattori
esplicativamente rilevanti, 3) delle conoscenze generali che ne consentono la
selezione - siano collegabili secondo procedure più o meno elaborate, ma sufficientemente stabilite e condivise, a materiale osservativo. In caso contrario,
la spiegazione risulta inaccettabile.
Il verdetto di inaccettabilità, si badi bene, non deriva semplicemente dalla
pedissequa applicazione di un astratto precetto metodologico che fissa nel controllo empirico uno standard irrinunciabile della conoscenza scientifica, ma da
una considerazione assai più pragmatica. L’invocazione di un fattore di determinazione che risulti caratterizzato, oltre che per essere, legittimamente, in una
posizione sottostante rispetto ai fenomeni osservabili, per essere, paradossalmente, indeterminato, rischia di non consentire l’inferenza, a partire da esso, di
conseguenze credibili circa lo specifico o gli specifici fenomeni che richiedono
di essere «resocontati». Anche in questo caso esiste una spia piuttosto affidabile, in grado di rivelare il pericolo. Essa si accende quando tali fattori di determinazione - per così dire - nascosti sono chiamati in causa ex post, nel tentativo di dar conto di risultanze poco chiare o manifestamente in disaccordo con
una data ipotesi esplicativa/predittiva.
Non si intende minimamente disconoscere l’importanza del valore della
scoperta in campo scientifico, negando il fatto che proprio da situazioni come
quella appena richiamata, con un intervento teso a modificare e/o ad ampliare
il quadro dei fattori coinvolti nella insoddisfacente spiegazione di un dato fenomeno, possa prodursi una spiegazione più esauriente e un allargamento delle
12. Hempel ritiene che tale uso improprio della clausola ceteris paribus sia particolarmente diffuso
nell’ambito delle scienze sociali, e, probabilmente sottovalutando la specificità del caso, sottolinea come tale tendenza renda difficile assolvere a funzioni comuni del lavoro scientifico, quali il controllo
empirico di un’ipotesi o la previsione di un dato fenomeno (cfr. Hempel, 1952b; tr. it., 1983, pp. 2812).
13. Si tratta di uno dei due requisiti che Hempel pone alla base della spiegazione scientifica: «l’informazione esplicativa addotta fornisce buone ragioni per credere che il fenomeno si sia verificato, o si
verifichi, effettivamente» (Hempel, 1966; tr. it., 1968, p. 79).
14. A tale formulazione corrisponde il secondo requisito della spiegazione scientifica, denominato
appunto requisito della controllabilità.
71
conoscenze disponibili. Da questo punto di vista, risulta quanto mai pertinente
la sollecitazione di Salmon, il quale, proprio occupandosi di teoria psicoanalitica ed evidenza empirica, e, in particolare, della questione dei rapporti causali
tra comportamento manifesto e impulsi, desideri, aspirazioni che risiedono tanto nella coscienza quanto, soprattutto, nell’inconscio individuale - un tema naturaliter rientrante nella riflessione sul realismo scientifico - ha modo di affermare: «Non si deve decidere in anticipo se tali rapporti causali esistano: sarà
compito dei ricercatori scoprire se possano essere trovati. Non vi è nulla di logicamente strano nel cercare qualcosa anche se non abbiamo una garanzia assoluta della sua esistenza. Ci basta sapere che varrebbe la pena trovarla se esiste. Naturalmente, non effettueremmo la ricerca se sapessimo in anticipo che
l’oggetto non esiste, ma la ricerca è giustificata se non sappiamo se l’oggetto
esista o meno» (Salmon, 1959; tr. it., 1967, p. 155).
Il punto, nondimeno, è un altro. Da un lato, occorrerebbe correttamente assumere, per quanto è possibile, la clausola ceteris paribus in senso vincolante e
non in senso liberalizzante, a evitare i rischi cui si accennava poc’anzi. Per essere
chiari, il fatto che determinati fattori o circostanze giudicati ininfluenti (ovvero
non concettualizzati come rilevanti) ex ante, possano saltare fuori da un’opportuna concettualizzazione ex post, in modo che ad essi sia attribuita valenza causale,
può anche apparire del tutto naturale entro un contesto di scoperta, ma si deve
ammettere la possibilità di una interpretazione ad hoc. D’altro canto, non è così
problematico ravvisare che una interpretazione del genere tanto più si impone
quanto più risulta indistinta la connessione tra la concettualizzazione dei fattori
latenti causalmente rilevanti e il piano dell’osservazione. Tali argomenti risultano
coerenti con l’interpretazione di Hacking (cfr. par. precedente), il quale, ragionando in termini di «stupendi errori» con riferimento ad alcune concettualizzazioni scientifiche, sembra porre in secondo piano la questione dell’esistenza delle
entità fondamentali concettualizzate, e sembra invece considerare primariamente
il problema della fecondità delle ipotesi empiriche suggerite da quelle concettualizzazioni; fecondità in assenza della quale queste ultime non potrebbero essere
qualificate come «stupende», ma solo come «errori».
Che la concettualizzazione di meccanismi latenti ritenuti causalmente rilevanti rispetto a specifici decorsi di eventi conduca talora a esiti deludenti sul
versante della spiegazione/previsione è un fatto riscontrabile se si prende in
considerazione, per fare qualche esempio, la teoria psicoanalitica. Non si può,
a proposito, non fare riferimento alla raccolta di saggi curata da Sidney Hook
(1959; tr. it., 1967) e divenuta un classico del genere. In particolare da alcuni
dei contributi pubblicati (cfr., per esempio, Nagel, 1959; tr. it., 1967; Salmon,
ibid.; Pap, 1959; tr. it., 1967) emergono le aporie della psicoanalisi proprio in
merito alle questioni fin qui sollevate. Senza poter entrare nei dettagli, sinteticamente, alla teoria psicoanalitica non viene contestata la tendenza a postulare
l’azione di meccanismi latenti, inconsci e non esplicitamente definibili in termini di osservabili, a carico del comportamento umano manifesto; in realtà come fa notare Nagel (ibid., p. 34) - sotto questo profilo la psicoanalisi sarebbe
perfettamente equiparabile alla teoria molecolare dei gas (cfr. Pawson e Tilley,
1997, p. 58) o alla teoria genetica dell’ereditarietà. Ai postulati della psicoanalisi viene contestato il fatto che da essi non è consentito procedere a una data
72
inferenza «in modo che sia possibile decidere sulla base di ragionamenti logici,
e prima dell’esame dei dati empirici, se la supposta inferenza dalla teoria sia o
meno implicita in quest’ultima» (Nagel, ibid.). Lo stesso Nagel non manca di
sottolineare che «almeno alcuni di tali concetti [della teoria psicoanalitica]
debbono essere collegati a materiali osservabili abbastanza precisi e chiaramente specificati (…). Se tale condizione non è soddisfatta, la teoria non può
avere alcun interesse al fine di una conoscenza empirica» (ibid.). La ragione di
una conclusione così radicale risiede proprio nell’inefficacia esplicativa/predittiva, che si manifesta nella circostanza che una teoria così caratterizzata si presta ad essere «interpretata e manipolata» a tal punto da risultare in
grado di dar conto di «qualsiasi situazione di fatto», tanto di un dato fenomeno
osservabile, quanto del suo opposto (ibid., p. 35).
Sarebbe un errore pensare che tali problematiche affliggano esclusivamente
le formulazioni teoriche delle scienze psicologiche e sociali, che postulano
l’esistenza di disposizioni, atteggiamenti latenti, desideri, impulsi, e quant’altro, alla base dei fenomeni oggetto di spiegazione. A questo riguardo, è interessante vedere come Hempel, servendosi degli stessi argomenti che Nagel adotta contro la psicoanalisi, attacchi la teoria neovitalistica15 e la nozione di
entelechìa, di derivazione aristotelica, che ne è alla base (Hempel, 1966; tr. it.,
1968, p. 111). La premessa di Hempel è analoga a quella di Nagel, e riguarda
la necessità che i processi sottostanti formulati da una teoria scientifica debbano consentire derivazioni specifiche in merito ai fenomeni che la teoria pretende di spiegare; e la teoria neovitalistica non soddisfa questo requisito.
Essa non indica - così si esprime Hempel - in quali circostanze le entelechìe entreranno
in azione e, specificamente, in qual modo dirigeranno i processi biologici: nessun aspetto
particolare dello sviluppo embrionale, per esempio, può venire inferito dalla dottrina, né essa ci pone in grado di prevedere quali risposte biologiche si avranno in determinate condizioni sperimentali. Quindi - conclude criticamente Hempel - quando si incontra un nuovo
sorprendente tipo di «orientamento organico», tutto quello che la dottrina neovitalistica ci
consente di fare è la solenne dichiarazione post factum: «c’è una manifestazione di forze vitali»; essa non ci offre alcuna ragione per dire: «in base alle assunzioni teoriche, questo era
proprio quanto ci dovevamo aspettare: la teoria lo spiega!» (Hempel, ibid.).
Il richiamo nell’explanans di un dato fenomeno, a un fattore del genere sin
qui descritto può condurre a un tipo di spiegazione che tecnicamente è definita
autoevidenziante (cfr. Hempel, 1965; tr. it., 1986, pp. 65-7; v. anche Pap,
1959; tr. it., 1967, pp. 177-8).
Per fare un esempio, e scendendo su un terreno familiare a Pawson, si potrebbe immaginare, a partire da un definito orientamento teorico circa la tipologia prevalente di ragioni in grado di influenzare determinate scelte individuali, di attivare alcune misure di incentivazione all’uso del mezzo di trasporto
15. Hempel prende spunto dalle idee del fisiologo Hans Driesch, il quale a partire proprio dalla
nozione di εντελέ χεια (attività che ha in sé il proprio compimento), elabora la dottrina del neovitalismo, la quale, in opposizione al meccanicismo, pone alla base delle attività fisiologiche un principio
richiamantesi all’azione di forze vitali in grado di regolare tutti gli sviluppi e le funzioni degli organismi viventi (cfr. Driesch, 1905; tr. it., 1905).
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pubblico cittadino (riduzione dei costi di biglietti e abbonamenti, bonus proporzionati alla frequenza d’uso, partecipazione a concorsi a premi, erogazione
di benefits consistenti in assai vantaggiose convenzioni con agenzie fornitrici
di beni di consumo e servizi, lancio di campagne pubblicitarie con il ricorso a
testimonial autorevoli e credibili, ecc.), dirette a gruppi di cittadini accomunati
da alcune caratteristiche socio-economiche (tipo di professione, reddito, titolo
di studio, età, sesso, ecc.16: lavoratori con qualifica professionale media, in
possesso di diploma di scuola media superiore/laurea, appartenenti a una definita fascia di reddito, di età compresa tra i 35 e i 50 anni, uomini, ecc.). Lasciando da parte i motivi che dettano l’adozione di un tale provvedimento, facilmente riconducibili a specifici indirizzi di politica sociale, potremmo rilevare che, a seguito dell’implementazione delle misure in parola, si ottiene un significativamente maggiore uso del mezzo pubblico, localizzato, tuttavia, ad alcuni, ma non a tutti i segmenti della popolazione considerata ai fini dell’obiettivo.
Per spiegare tale differenza si potrebbe fare appello alla dimensione concettuale della «propensione all’uso del mezzo di trasporto privato» (perlopiù
l’automobile); propensione presumibilmente naturale, piuttosto che acquisita
culturalmente, ovviamente presente nei gruppi insensibili alle misure attivate e
assente negli altri. Ora, se, per un verso, varrebbe la pena riflettere sulle ragioni per le quali la dimensione concettuale in oggetto non sia stata minimamente
considerata ex ante tra le caratteristiche dei soggetti esposti al programma di
interventi (cfr. nota 16), per altro verso, si può pretendere che si tenga ben presente il requisito della controllabilità empirica, citato sopra, nella spiegazione
della differenza emersa nella fase ex post di analisi dei risultati. Infatti, non si
può pensare di addurre proprio l’evento da spiegare quale evidenza empirica a
sostegno della disposizione invocata quale causalmente rilevante rispetto
all’evento da spiegare. In questo modo, da un lato, spiegheremmo il mancato
uso del mezzo di trasporto pubblico con il ricorso alla disposizione all’uso del
mezzo di trasporto privato, dall’altro, evidenzieremmo la disposizione all’uso
del mezzo privato mediante il mancato uso del mezzo pubblico. Un argomento
siffatto risulterebbe, peraltro, assolutamente inutilizzabile a fini predittivi, dal
momento che l’inferenza della dimensione latente sarebbe possibile solo quando il fenomeno avesse già avuto luogo e non prima. Una spiegazione così formulata sarebbe una spiegazione circolare o autoevidenziante o, per dirla con
Pap, una non-spiegazione o ancora, nella migliore delle ipotesi, una promessa
di spiegazione futura, dal momento che essa «si limita a dire che la
spiegazione che si spera di trovare sarà una spiegazione in termini (sconosciuti
al momento dell’enunciazione) di proprietà dell’oggetto e non una spiegazione
in termini di un fortuito insieme di circostanze» (Pap, ibid., p. 177).
Per uscire dal circolo vizioso, come si lasciava intendere, occorre sottomettersi al requisito della controllabilità empirica. Nel caso or ora considerato si
16. Per brevità e in considerazione del fatto che si tratta solo di un esempio, si ricorre alla formula
et cetera, sapendo tuttavia di dover esplicitare tutti gli altri fattori esplicativamente rilevanti, pena la
violazione della clausola ceteris paribus.
74
tratta di produrre evidenza empirica indipendente dall’explanandum, in termini
di indicatori osservabili della dimensione concettuale chiamata in causa, come,
per non fornire che qualche esempio suscettibile di attenta valutazione sotto il
profilo della validità, l’uso dell’automobile (in caso si tratti di automobile) 1)
in situazioni particolarmente sfavorevoli di gestione (alto costo del carburante,
difficoltà di parcheggio, costi crescenti di assicurazione e manutenzione, ecc.);
2) anche per tragitti molto brevi; 3) per attività che non comportano necessariamente spostamenti (ascolto della radio, di musica, lettura, ecc.); 4) in condizioni di insicurezza del veicolo e/o della rete stradale; 5) in condizioni di traffico intenso; ecc. Certo, non si fornisce così, né si pretende di fornire, un elenco completo, definitivo di indicatori, ovvero una definizione esplicita della
propensione all’uso dell’automobile, ma solo, si potrebbe dire, una probabile
interpretazione empirica, necessariamente parziale, del concetto.
È d’obbligo, a questo punto, aprire una sia pur breve parentesi. Il tema qui
evocato non si presta a essere liquidato nello spazio di poche battute: sarà sufficiente dire che la questione ha costituito un’autentica spina nel fianco della
riflessione neoempirista17, come testimonia la molteplicità dei contributi ad essa dedicati da autori direttamente o indirettamente legati al positivismo logico
(operando una severa selezione, si vedano Carnap, 1936-1937; tr. it. 1971,
parr. 9, 15 e 16; 1938; tr. it., 1973, pp. 60-72; 1939; tr. it., 1956, parr. 21 e 24;
Hempel, 1952a; tr. it., 1976 e 1958; tr. it., 1976; Bridgman, 1949; tr. it., 1969,
1954; tr. it., 1969 e 1959; tr. it., 1969; Quine, 1951; tr. it., 1966; Nagel, 1961;
tr. it., 1968, pp. 100 e ss.; Reichenbach, 1951; tr. it., 1966, cap. VIII; Northrop,
1959, capp. IV e VII; Margenau, 1950, cap. IV e V). Nell’ambito della ricerca
sociale, alla questione del rapporto tra dimensioni latenti e dati manifesti Paul
Lazarsfeld ha dedicato numerosi lavori (si vedano, per tutti, Lazarsfeld, 1958;
tr. it., 1969; 1966; tr. it., 2001), dai quali sostanzialmente emerge la difficoltà,
dovuta alla complessità dei fenomeni oggetto di indagine delle scienze sociali,
di saldare in modo deterministico l’esistenza di un definito e circoscritto numero di osservazioni alla esistenza in atto di tratti o di propensioni sottostanti
non direttamente osservabili, come invece accade per i concetti disposizionali
in uso nelle scienze fisico-naturali (cfr. Lazarsfeld, 1966; tr. it., 2001, p. 151).
Lazarsfeld parla di rapporto probabilistico tra dimensione latente e indicatore
osservabile, intendendo in questo modo che una variazione della proprietà latente non determina necessariamente, ma solo, probabilisticamente, una variazione della proprietà osservabile (la proprietà prescelta come indicatore della
dimensione concettuale latente); analogamente, una variazione della proprietà
osservabile non riflette regolarmente ma solo tendenzialmente una variazione a
livello della proprietà latente (cfr. ibid., p. 133). A fronte di tale difficoltà, il
procedimento suggerito per pervenire ad una corretta formulazione dei concetti
inferenziali18 è definita, da Lazarsfeld stesso, «procedura diagnostica» (ibid., p.
17. Hempel (1952a; tr. it., 1976, p. 40) fa coincidere il passaggio campale dalla tesi ristretta alla
tesi liberalizzata dell’empirismo con la proposta di Carnap in merito alla specificazione del significato
proprio dei concetti disposizionali, che riguarda, com’è noto, la distinzione tra procedure di definizione
e procedure di riduzione.
18. Nell’apertura del saggio del 1966, Lazarsfeld scrive: «Si analizzerà in questo saggio una parti-
75
136). Sulla base dell’assunto secondo cui «è poco probabile che molti di questi
[indicatori] cambino in una medesima direzione, se la posizione fondamentale
dell’individuo rimane immutata» (Lazarsfeld, 1958; tr. it., 1969, p. 46), la procedura consiste: 1) nella selezione di numerosi indicatori ritenuti dipendenti da
un determinato tratto sottostante; 2) nell’analisi della struttura delle correlazioni, intraindividuali ed interindividuali, tra tutti gli indicatori prescelti con
l’obiettivo di circoscrivere, dai molteplici indicatori disponibili, almeno un nucleo più piccolo caratterizzato da un’omogeneità di «condotta» che legittimi in
qualche modo l’inferenza del tratto sottostante.
Proviamo, a questo punto, a chiudere la parentesi e a riprendere la riflessione dal punto in cui si era arrestata, cercando di fare tesoro degli spunti emersi.
La disponibilità di materiale osservativo collegabile alla nozione di «propensione all’uso del mezzo di trasporto privato» (l’automobile) consente di
formulare e controllare empiricamente un’ipotesi di relazione tra ciascuno degli indicatori della dimensione sottostante, oppure, più verosimilmente, tra un
indice che sintetizzi le informazioni derivanti dai vari indicatori, previo controllo della validità19 del rapporto di indicazione, e ciascuno degli indicatori
(ovvero, anche in questo caso, un indice) della «fruizione del servizio di trasporto pubblico». Così che si possa postulare, sembra chiaro, 1) che quanto
maggiore sarà la propensione all’uso del mezzo privato tanto minore risulterà
la fruizione del servizio pubblico, anche in presenza di significativi provvedimenti volti ad agevolarla; 2) che, di conseguenza, i gruppi meno sensibili a
detti interventi, a parità di altre caratteristiche, risulteranno, rispetto ai gruppi
più sensibili, contraddistinti da una più accentuata propensione all’uso del
mezzo privato. Questa impostazione presenta degli innegabili vantaggi sul versante della spiegazione, nel senso che rende possibili controlli ripetuti e su
gruppi di attori sociali con caratteristiche diverse da quelle sopra indicate, così
da consentire un allargamento delle conoscenze che si rivelerà senz’altro prezioso per la messa a punto di nuovi programmi di interventi nel settore in questione. Inoltre, se in assenza di un’interpretazione empirica indipendente dall’explanandum la nozione di propensione all’uso del mezzo di trasporto privato risultava logicamente impraticabile per formulare predizioni controllabili, a
causa dell’identità tra prædicens e prædicendum, seguendo il procedimento
appena descritto sarebbero formulabili asserti circa gli effetti prevedibili dell’implementazione di un certo programma in presenza di un certo numero di
caratteristiche osservabili, attribuibili in anticipo ai soggetti cui il programma
stesso rivolge.
Quelle richiamate rappresentano le condizioni affinché la formazione
concettuale investita nella spiegazione possa ritenersi euristicamente feconda.
colare procedura che consente di effettuare quelle che potremmo definire classificazioni inferenziali.
Questa formulazione provvisoria è applicabile a diverse procedure ben note: l’atteggiamento di un individuo così come inferito dal suo comportamento; il significato di un documento così come inferito
dalle sue caratteristiche linguistiche; la morale di un gruppo così come inferita dalle sue molteplici espressioni pratiche, e molti altri» (Lazarsfeld, 1966; tr. it., 2001, p. 118).
19. Per una rassegna critica delle modalità di controllo della validità si veda Marradi, 1989; Giampaglia, 1990; Fasanella e Allegra, 1995.
76
cettuale investita nella spiegazione possa ritenersi euristicamente feconda. Ma
il riconoscimento della fecondità euristica, è il caso di ribadirlo una volta ancora, non può vincolare definitivamente alla credenza dell’esistenza reale della
proprietà concettualizzata: nel caso studiato, la «propensione all’uso del mezzo di trasporto privato». Per comprendere meglio cosa ciò significhi, vale la
pena tornare per un momento all’esempio riportato sopra.
Tra i possibili indicatori della propensione all’uso del mezzo di trasporto
privato (sopra ne sono stati elencati alcuni) potrebbe essere annoverato altresì
la frequenza d’uso del mezzo di trasporto pubblico. Tuttavia, si è visto come
quest’ultimo, unicamente considerato, non potrebbe essere assunto quale indicatore della dimensione latente teoricamente rilevante, a causa delle aporie logiche derivanti dalla coincidenza di detto indicatore con il fenomeno che si intende spiegare ricorrendo ad esso. Inoltre, si deve considerare la possibilità che
l’indicatore corrispondente alla frequenza d’uso del mezzo di trasporto pubblico possa essere collegato, piuttosto che alla propensione all’uso del mezzo di
trasporto privato, a una dimensione concettuale esterna, alternativa, rappresentata, per esempio, dalla «valutazione soggettiva circa l’efficienza/inefficienza
del servizio di trasporto pubblico».
Ora, a ben vedere, anche altri indicatori tra quelli prescelti come significativi rispetto alla dimensione latente considerata nell’esempio potrebbero essere
collegati, altrettanto significativamente, alla dimensione, probabilmente meno
nascosta, della valutazione in merito al funzionamento del servizio di trasporto
pubblico: è il caso degli indicatori di cui ai punti 1), 2) e 5) sopra elencati. Più
banalmente, il ricorso al mezzo di trasporto privato (così come evidenziato in
modo particolare da alcuni degli indicatori 1-5, di cui sopra), usato alternativamente rispetto a quello pubblico, non dipenderebbe, come supposto, da una
vocazione naturale, da un impulso nascosto e irrefrenabile, da un meccanismo
soggiacente che spinge verso l’uso dell’automobile, bensì, da una opinione di
segno critico, espressa da parte degli utenti perfino consapevolmente, rispetto
all’efficienza del servizio pubblico. Si tratterà di concettualizzare nella maniera più precisa possibile la nozione di efficienza; inoltre, occorrerà ragionevolmente escludere che la valutazione soggettiva sia essa stessa un «effetto»
del meccanismo sottostante piuttosto che l’esito di alcune considerazioni se
non fondate su, in qualche modo coerenti con, dati di fatto oggettivi circa l’efficienza.
Così, si potrebbe definire l’efficienza in termini di rapidità, diffusione, frequenza, comfort a bordo, sicurezza, puntualità del servizio di trasporto pubblico, e poi selezionare un certo numero di indicatori osservabili per ciascuna delle dimensioni concettuali enucleate. Una volta rilevati dati «oggettivi» in merito a ciascuna delle componenti concettuali dell’efficienza, è opportuno, da un
lato, confrontare tali dati con le valutazioni «soggettive» degli utenti in merito
a ciascuna delle dimensioni di efficienza isolate20, dall’altro, analizzare
20. Le valutazioni potrebbero essere rilevate empiricamente in svariati modi: per esempio, richiedendo ai soggetti di esprimere un giudizio in merito a ciascuno degli aspetti dell’efficienza (avendo naturalmente cura di esplicitarne il significato in fase di formulazione della richiesta) lungo una scala au-
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l’andamento della variabile relativa all’uso del mezzo di trasporto privato in
funzione delle valutazioni «soggettive» espresse circa l’efficienza del servizio
pubblico.
In definitiva, vale la pena chiedersi: che cosa potremmo concludere se si rilevasse 1) una significativa associazione tra le «misure oggettive» e le «misure
soggettive» dell’efficienza; e 2) una altrettanto significativa associazione tra le
«misure soggettive» dell’efficienza e l’uso del mezzo di trasporto privato? La risposta a tale quesito non è immediata. Evidentemente l’associazione di cui al
punto 1) non autorizza a sostenere l’esistenza di una relazione di dipendenza necessaria della valutazione «soggettiva» dalla situazione «oggettiva». Sulla rappresentazione del soggetto giocano svariati e complessi elementi di carattere cognitivo, collegabili ad esperienze di uso personale, all’esposizione a fonti personali o impersonali di informazione, all’adesione a determinati valori, all’appartenenza effettiva o virtuale a determinate comunità culturali, a meccanismi psicologici. A questo proposito, si potrebbe facilmente ipotizzare, introducendo una
chiave di lettura in termini di coerenza/dissonanza cognitiva, che un uso ritenuto
dallo stesso soggetto come eccessivo, disdicevole, del mezzo privato di trasporto
possa essere giustificato proprio da una valutazione estremamente negativa, non
necessariamente basata su dati di fatto, circa le possibili alternative ad esso.
Nondimeno, le associazioni di cui ai punti 1) e 2), se non consentono di formulare alcuna conclusione finale, permettono quanto meno di ipotizzare, sia pure
prudentemente, che l’uso del mezzo di trasporto privato, così come rilevato con
il ricorso ad alcuni degli indicatori suddetti, possa configurarsi come la conseguenza di un giudizio consapevole in merito al funzionamento del servizio pubblico, piuttosto che come il risultato, in termini di comportamento manifesto, di
una spinta latente o di un impulso intrinseco.
Tale ipotesi non può che essere recepita con cautela, richiedendo, chiaramente, che si proceda ad analisi più approfondite tese a controllare attentamente la possibilità di letture alternative. In ogni caso, sarebbe comprensibile la
scelta di sospendere il giudizio sull’esistenza reale della dimensione latente, attendendo i risultati di ulteriori controlli e prefigurando l’eventualità che «la
propensione all’uso del mezzo di trasporto privato» possa costituire, citando
una volta ancora Hacking, uno «stupendo errore».
4. Alcune considerazioni (conclusive) sul modello di spiegazione OCM
L’assunto che Pawson pone alla base della cosiddetta «metodologia realista» riguarda l’esistenza di una «realtà sociale stratificata» (Pawson, 2000, p.
293).
Il modello di una realtà sociale stratificata - afferma Pawson - conduce direttamente al
primo e maggiormente caratteristico strumento della spiegazione realista, che è la nozione
toancorante ai cui estremi siano fissate, rispettivamente, una posizione massimamente negativa e una
posizione massimamente positiva.
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di «meccanismo esplicativo». L’immagine preferita per esprimere il concetto è quella di
meccanismo sottostante, dal momento che l’aggettivo cattura l’idea di scavare sotto la superficie apparente (le uniformità empiriche) per penetrare le dinamiche interne (nascoste)
(ibid., p. 295).
La nozione di «meccanismo sottostante» è introdotta in entrambi i modelli
di spiegazione realista cui Pawson fa riferimento, il modello OCM (Outcome=Context+Mechanism) e il modello RCM (Regularity=Context+Mechanism) (cfr. Pawson, ibid.; Pawson e Tilley, 1997; Pawson, in questo volume),
così detti a seconda che si tratti della spiegazione di un singolo evento o risultato di un programma di intervento, ovvero della spiegazione di una connessione, a volte intesa come isolata, a volte come tendenzialmente regolare.
L’ulteriore nozione coinvolta nei modelli di spiegazione realista è quella di
contesto, il partner del meccanismo che si colloca tra il processo generativo e
gli effetti da esso prodotti. L’idea di fondo è che gli effetti del processo generativo non sono prestabiliti, ma dipendono dal contesto e perciò sono contingenti (cfr. Pawson, 2000, p. 296, v. anche Pawson, in questo volume).
La trattazione sin qui svolta ha inteso argomentare, innanzitutto, l’opportunità che gli elementi che entrano a far parte di un resoconto esplicativo/predittivo siano, per un verso, sufficientemente precisati sul piano della concettualizzazione, per l’altro, in qualche modo associabili a materiale osservativo.
Non c’è nulla che autorizzi a credere che tale opportunità non debba valere per
i modelli della spiegazione realista ora menzionati, e che il richiamo a fattoridi-contesto e a fattori-di-meccanismo nell’explanans di un dato evento e/o di
una data generalizzazione possa prescindere da una immagine sufficientemente chiara e da una qualche interpretazione empirica di quanto richiamato. In
secondo luogo, soprattutto nella parte conclusiva del paragrafo precedente, si è
inteso riflettere su una possibile lettura necessarista, che Pawson sembra aver
fatto propria, del realismo sociologico. Ciò, tradotto nel linguaggio del modello OCM, significa che ogni spiegazione sociologica autentica, nessuna esclusa,
è tale se e solo se fa riferimento ad un processo (meccanismo) generativo sottostante (non osservabile) che, entro un dato contesto, produce un determinato
esito. Detto in termini ancora più chiari: dietro ogni fenomeno sociologico va
cercata l’azione del meccanismo che, soddisfatte alcune condizioni al contorno, lo ha determinato.
Entro tale ambito interpretativo, la nozione di «contesto» appare assai meno problematica di quella di «meccanismo». Tutta la trattazione che Pawson
dedica al concetto di contesto, corredata da un rispettabile numero di esempi
tratti dalle scienze naturali e sociali, è rivolta a mostrare come il campo di validità di una qualunque connessione tra eventi, descritta da una qualche regolarità, non può considerarsi in nessun modo illimitato, ma necessariamente delimitato. Così, per riprendere alcuni degli esempi riportati da Pawson, si può
stabilire una relazione tra status culturale e status professionale, in una condizione di alta ricettività del mercato del lavoro; analogamente, il contatto tra una
definita fonte di calore e una data quantità di zolfo innesca un processo di
combustione in condizioni di assenza di umidità e di presenza di ossigeno
(Pawson, 2000, pp. 296-7). Fin qui, a onor del vero, niente di nuovo.
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Il tema riveste una rilevanza epistemologica generale, come testimoniato
dalla cosiddetta «tesi di Duhem-Quine», secondo la quale la circoscrizione e il
controllo delle condizioni di validità di una connessione è operazione indispensabile, che al tempo stesso può rivelarsi complessa, soprattutto quando
una data ipotesi di connessione risulti essere invalidata da qualche risultato
sperimentale, con tutte le conseguenze che ciò comporta per un approccio falsificazionista al problema del controllo empirico. Ma la questione è ben presente, diffusa e attempata tanto nella riflessione incentrata sulla spiegazione
sociologica, quanto nella pratica della ricerca sociale empirica, al punto da
rendere improponibile citazioni bibliografiche. Simbolicamente, e solo simbolicamente, è opportuno il richiamo ai contributi di Max Weber, il quale affronta il tema nel quadro del problema relativo al «grado di determinatezza dei
giudizi di possibilità» (cfr. Weber, 1906; tr. it., 1958, pp. 227-32), e di Paul
Lazarsfeld, che, proprio occupandosi dell’argomento, mette a punto uno specifico modello di analisi multivariata, espressamente il modello della «specificazione » (cfr. Lazarsfeld, 1946; tr. it., 1969, pp. 25-42). Il primo rileva che, ai
fini della spiegazione storica, un giudizio relativo alla connessione causale tra
due eventi deve tenere conto di ulteriori eventi, indipendenti dall’evento imputato causalmente, la cui presenza può far aumentare o diminuire il «grado di
favoreggiamento» dell’evento da spiegare. Il secondo, con il «modello della
specificazione», fa riferimento alla validità di una connessione tra una variabile X (indipendente) e una variabile Y (dipendente), che dipende dall’esistenza
di una variabile Z (interveniente, antecedente o susseguente), la cui presenza/assenza, pur non mostrando Z alcuna relazione con X, rende possibile o
meno la relazione tra X e Y.
Rimanendo nello stesso quadro rappresentativo e passando dalla nozione di
contesto a quella di meccanismo, subentra un’innegabile problematizzazione
dell’assunto, più o meno esplicito, in base al quale tutte le spiegazioni sociologiche rispondono al modello OCM. La preoccupazione nasce dal tipo di esempi che Pawson adduce a chiarificazione del concetto di meccanismo sottostante (underlying mechanism). In particolare, riprendendo la lettura de Il suicidio
di Durkheim svolta da Merton (cfr. 1949; tr. it., 1983, pp. 241 e ss.), Pawson
apprezza il fatto che Merton abbia colto l’importanza di approfondire il senso
delle generalizzazioni formulate da Durkheim, rienunciando l’uniformità empirica originaria tra l’affiliazione religiosa e il comportamento suicida, nei termini di «una relazione tra gruppi aventi certi attributi concettualizzati (la coesione sociale) ed il comportamento» (Merton, ibid., p. 244, cit. in Pawson,
2000, p. 296). Ciò basta a Pawson perché possa concludere che la coesione
sociale costituisce il meccanismo che dà conto della connessione originaria;
più precisamente, l’esempio appena riportato consente di trarre «il principio
fondamentale del realismo di medio raggio: la struttura base della formulazione di ipotesi prende forma da una speculazione circa il meccanismo generativo che origina i modelli di relazione risultanti dall’osservazione» (Pawson, ibid.; cfr. anche Pawson e Tilley, 1997, p. 68).
Questa formulazione non appare completamente convincente, dal momento
che in essa il meccanismo generativo (la coesione sociale) sembra imporsi come una sorta di categoria a-priori in grado di spiegare (la connessione tra ap80
partenenza religiosa e suicidio), ma non suscettibile di essere spiegata. Imposizione, tuttavia, manifestamente insostenibile sul piano logico, dal momento
che è del tutto legittimo chiedersi perché alcuni gruppi siano caratterizzati da
una maggiore/minore coesione sociale e rappresentare questo fatto in termini
di conseguenza della diversa appartenenza religiosa. Ciò è più facilmente
comprensibile se si ripercorre analiticamente il quadro di ipotesi teoriche formulato da Merton in merito al problema specifico:
1) un’ipotesi di relazione tra la coesione sociale e il sostegno socio-psichico
derivante ai membri di un gruppo soggetti a tensioni acute;
2) un’ipotesi di relazione tra il comportamento suicida e l’essere soggetti a
forme specifiche di disagio socio-psichico;
3) un’ipotesi circa la minore coesione sociale entro il gruppo dei protestanti
rispetto a quello dei cattolici;
4) un’ipotesi predittiva circa una percentuale di suicidi minore tra i cattolici
rispetto ai protestanti (cfr. Merton, ibid., pp. 243-4).
Il quadro, già chiaro, si illumina se si considera una nota al testo relativo
all’articolazione di ipotesi appena considerata, in cui Merton descrive la «coesione sociale» in termini di «variabile interveniente» e ammonisce in merito ai
problemi che possono derivare dall’introduzione, nella spiegazione, di dimensioni concettuali che non siano state «misurate direttamente» (ibid., p. 244, nota 22).
Sugli ultimi problemi evocati nella citazione da Merton si ritiene inutile
soffermarsi, dal momento che ad essi è stata prestata la - si spera - sufficiente
attenzione nel corso del paragrafo precedente. Il punto su cui vale la pena trattenersi ha a che vedere con il fatto che la proposta di Merton non sembra richiamare alcun meccanismo, almeno nei termini logici in cui la questione è
posta da Pawson (il meccanismo della coesione sociale spiega la relazione tra
appartenenza religiosa e suicidio). Diversamente, il ragionamento di Merton
rimanda ad un modello di lettura conosciuto come modello della «interpretazione» (cfr. Lazarsfeld, 1946; tr. it., 1969, p. 40) o modello di intermediazione
causale (causal betweeness), in cui la relazione originaria tra due variabili X
(indipendente) e Y (dipendente) è interpretata, chiarita, o mediata da una terza
variabile Z (interveniente) che si trova in una posizione susseguente rispetto ad
X, da cui dipende, e antecedente rispetto a Y (X→Z→Y). Ma, approfittando
della circostanza della chiamata in causa di Durkheim, vale la pena sottolineare che il modello dell’interpretazione è già presente ne Le regole del metodo
sociologico, dove, nella parte dedicata alle regole relative all’amministrazione
della prova, si può leggere: «La concomitanza può essere dovuta non al fatto
che uno dei due fenomeni è la causa dell’altro, ma al fatto che entrambi sono
effetti della medesima causa oppure anche al fatto che esiste tra essi un terzo
fenomeno - intercalato ma inosservato - che è effetto del primo e causa del secondo» (Durkheim, 1895; tr. it., 1969, p. 121, corsivo aggiunto). Nel nostro
caso Z costituisce la coesione sociale, che gioca un ruolo di interposizione tra
l’affiliazione religiosa (X) e il comportamento suicida (Y). Per riformulare la
relazione nei termini prediletti da Pawson, dovremmo dire che l’affiliazione religiosa innesca un meccanismo di coesione/anomia sociale, il quale, a sua volta, è in grado di produrre un comportamento adattato/non adattato.
81
Introdotto questo aggiustamento logico, resta da chiedersi se il modello della variabile interveniente, così come è stato qui sommariamente descritto, possa applicarsi a tutti i casi di spiegazione sociologica, come vorrebbe Pawson.
È bene esplicitare che l’accettazione di un simile assunto comporta che, data una qualunque connessione tra due fenomeni sociali, descrivibili o meno in
base all’andamento di determinate variabili, sarà sempre possibile individuare
un terzo fenomeno in una posizione di intermediazione causale tra i primi due.
In realtà, se si considera, ancora una volta, la teorizzazione proposta da Merton
e sopra riprodotta, ci si rende conto che il modello X (appartenenza religiosa)
→Zii (coesione sociale) →Y (suicidio) rappresenta una semplificazione del
modello X (appartenenza religiosa) →Zii (coesione sociale) → Ziii (sostegno
socio-psichico) →Y (suicidio). Come è stata introdotta la variabile del sostegno socio-psichico (Ziii) quale meccanismo innescato dalla coesione sociale
(Zii) e in grado di spiegare il comportamento più o meno adattato (Y), così si
dovrebbe pensare a un congegno Zi (l’adesione a certi valori, o più in generale
a una certa concezione del mondo; una particolare gerarchia di status; la frequenza di certi rituali; ecc., ecc.) messo in moto dall’affiliazione a questo o a
quel gruppo religioso (X) in grado di spiegare la maggiore o minore coesione
sociale (Zii), ad arricchire ulteriormente il modello (X→Zi→Zii→ Ziii→Y). Si
presenta dunque l’opportunità di apprezzare ulteriormente l’opera del positivista Durkheim, il quale aveva già provveduto a ripercorrere le dinamiche (o i
meccanismi) attraverso cui l’appartenenza religiosa è in grado di riprodurre
coesione sociale, qualificando la forma particolare del fatto sociale suicidio in
analisi, come «egoistico» (cfr. Durkheim, 1897; tr. it., 1969). A ogni buon conto, non si può non rilevare che quanto ricondotto al meccanismo Zi (l’adesione
a certi valori, o più in generale a una certa concezione del mondo; la frequenza
di certi rituali; ecc.), in veste di intermediario causale tra l’affiliazione religiosa
(X) e la coesione sociale (Zii), tende insidiosamente a confondersi con ciò che
rappresenta il senso stesso della nozione di affiliazione religiosa, la quale, rimosse le dimensioni concettuali sociologicamente rilevanti appena richiamate,
e ricomprese in Zi, non si capisce davvero cos’altro possa costituire, escludendo sicuramente l’ipotesi che il fatto di appartenere all’ebraismo piuttosto che al
cattolicesimo o al protestantesimo possa conquistare in sé e per sé un interesse
teorico superiore all’interesse derivante, poniamo, dal fatto di chiamarsi Antonio, invece che Giovanni o Francesco. In tal caso, il meccanismo «nascosto» Zi
attraverso il quale l’affiliazione religiosa (X) produce coesione sociale (Zii), altro non sarebbe che (…) la stessa affiliazione religiosa (X).
Il problema toccato introduce direttamente al tema della chiarificazione
concettuale, rispetto al quale l’insegnamento di Merton si deve considerare irrinunciabile. Nel già citato primo volume di Teoria e struttura sociale, specificamente nel paragrafo intitolato «Analisi dei concetti sociologici», Merton,
dopo aver premesso che la scelta dei concetti che orientano la raccolta e
l’analisi dei dati sociologici costituisce un’operazione «decisiva per l’indagine
empirica», sostiene che «una delle funzioni della chiarificazione concettuale è
quella di rendere esplicito il carattere dei dati sussunti sotto un concetto. Essa
serve perciò a ridurre la probabilità che dati empirici spuri vengano espressi in
termini di quel concetto»; e poco oltre: «Essa ci fornisce una ricostruzione dei
82
dati, indicando in modo più preciso appunto ciò che essi includono e ciò che
essi escludono»; e ancora: «l’analisi concettuale spesso può risolvere apparenti
antinomie relative ai risultati empirici, mostrando che tali contraddizioni sono
più apparenti che reali»; infine: «Nella misura in cui il suo apparato concettuale cambia, egli [il ricercatore] trae conseguenze differenti dalla ricerca empirica» (Merton, ibid., pp. 232-4). La chiarezza e la rilevanza per la presente analisi delle posizioni espresse da Merton è fuori discussione; del resto, il tema della chiarificazione concettuale e delle anomalie derivanti dall’assunzione di
concetti vaghi, pletorici e dalla limitata o nulla portata empirica si può dire costituisca il centro della trattazione svolta in tutto il precedente paragrafo. Qui è
solo il caso di ricordare che l’esempio lì riportato, relativo alla distinzione tra
una dimensione concettuale di «propensione all’uso del mezzo di trasporto
privato» e una dimensione concettuale di «valutazione dell’efficienza del mezzo di trasporto pubblico», può essere letta nei termini mertoniani di un’analisi
teorica volta alla precisazione dei concetti in campo e alla risoluzione di una
possibile ridondanza che non si rivelerebbe di alcun aiuto per la spiegazione
sociologica.
Avviandoci verso la conclusione, sorvolando sulla questione relativa alla
possibilità di rilevare empiricamente i meccanismi causali generativi degli esiti sociali e ricordando la lezione di Weber secondo la quale le cause possono
essere imputate, ma non osservate, occorre precisare che l’applicazione fedele
del modello OCM non dovrebbe condurre a un regresso senza fine. Di fatto, è
proprio l’assunto realista dell’esistenza, per dirla con Pawson, di una «realtà
sociale stratificata» che implica il riferimento a uno «strato di fondo» al di là
del quale non sarebbe possibile spingersi. Senza, con ciò, sottovalutare il problema delle procedure seguendo le quali sia possibile stabilire se e quando
questo livello sia stato raggiunto.
A questo punto, acquisiti i necessari elementi di valutazione, è possibile
avanzare una risposta alla domanda sull’applicabilità del modello della variabile interveniente, che è parte integrante del modello OCM, a tutti i casi di
spiegazione sociologica.
Tenendo conto delle insidie di una - per così dire - «concettualizzazione disinvolta», la risposta più corretta consiste, a parere di chi scrive, nel considerare il problema come materia di indagine empirica. Ciò evidentemente implica
l’assunzione del modello non in termini prescrittivi, come sembrerebbe desiderare Pawson, ma in termini ipotetici. Si dichiara così implicitamente la disponibilità a prendere atto di explanans di fenomeni sociali in cui non figurino necessariamente asserti singolari e leggi generali che contengano riferimenti a
quelli che sono stati più sopra definiti fattori-di-meccanismo. Occorre riflettere
attentamente sul fatto che da tale punto di vista non consegue la richiusura della famigerata «scatola nera» e la riproposizione di un modello vetero-behaviorista di spiegazione sociologica. Né affermando tale disponibilità si rinuncia,
d’altra parte, alla costruzione di modelli teorici caratterizzati da un sempre
maggiore livello di specificazione. Si intende sostenere semplicemente la possibilità, per esempio, di spiegazioni sociologiche corrette che non si fondino su
una diligente connessione fra una variabile Y e una variabile X, ma che invochino, al contrario, l’azione di ulteriori e potenzialmente numerosi fattori (Zi,
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Zii, Ziii, …. Zn ), i quali, tuttavia, non si configurano quali meccanismi indotti
da X e tali da mediare l’azione di X su Y, ma quali elementi indipendenti da X
eppure in qualche modo determinanti rispetto all’esito atteso/osservato (Y) (i
fattori-di-contesto, come sono stati definiti più sopra). Così, nell’esempio riportato nel paragrafo precedente, il mancato uso del mezzo pubblico (Y) a seguito di una campagna di attuazione di significativi incentivi (anche economici) all’uso stesso (X) è stato posto in relazione con l’alta propensione all’uso
del mezzo privato (Zi) e/o con la valutazione negativa dell’efficienza del servizio pubblico (Zii), entrambi elementi configurabili piuttosto come preesistenti
fattori-di-contesto che non come fattori-di-meccanismo indotti da X.
Inutile dire che la concezione secondo cui a volte può bastare il contesto a
dar conto della relazione o della mancata relazione tra eventi è negata da una
rigida interpretazione /applicazione del modello OCM. Francamente, in modo
particolare con riferimento al settore degli studi e delle ricerche sulla valutazione, il rifiuto di una considerazione meno intransigente del modello OCM,
che includa l’idea di una variante OC, basata sull’ipotesi di una relazione diretta tra intervento e risultato con l’esclusivo sostegno/vincolo di significativi fattori contestuali, appare incomprensibile. Tanto più alla luce del fatto che non
ci sono motivi per escludere che tra questi fattori di specificazione (cfr. sopra)
figurino proprio quegli elementi cui si rivolge l’attenzione di Pawson, ovvero
disposizioni, tratti, valori, dimensioni latenti che, chiaramente concettualizzati
e opportunamente, anche se non completamente, ridotti in termini di osservabili, consentano la formulazione di ipotesi di lavoro, la cui adeguatezza potrà
essere accertata mediante l’indagine sul campo. Tutto ciò persino prescindendo da un giudizio definitivo sulla loro esistenza reale.
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