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L`anno del tempo matto La storia che vi racconterò è una storia del

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L`anno del tempo matto La storia che vi racconterò è una storia del
L’anno del tempo matto La storia che vi racconterò è una storia del mio paese che si chiama Sompazzo ed è famoso per due specialità: le barbabietole e i bugiardi. Il vecchio del paese, Nonno Celso, profetizzò che quell'anno il tempo sarebbe stato balordo. Disse che lo si poteva capire da tre segni: le folaghe che ogni anno passavano sopra il paese, erano passate, ma in treno. Il capostazione ne aveva visti due vagoni pieni; le ciliegie erano in ritardo: quelle che c'erano sugli alberi erano dell'anno prima; le ossa dei vecchi non facevano male. In compenso tutti i bambini avevano la gotta e le bambine i reumatismi. Nonno Celso disse che ne avremmo viste di belle. Bene, a febbraio era già primavera. Tutte le margherite spuntarono in una sola mattina. Si sentì un rumore come se si aprisse un gigantesco ombrello, ed eccole tutte al loro posto. Dagli alberi cominciò a cadere il polline a mucchi. Tutto il paese starnutiva, e arrivò un'epidemia di allergie stranissime: ad alcuni si gonfiava il naso, ad altri spuntava una maniglia. La frutta maturava di colpo: ti addormentavi sotto un albero di mele acerbe e ti svegliavi coperto di marmellata. Poi toccò alla pioggia dare i numeri. Pioveva solo un'ora al giorno, ma sempre nello stesso punto: sulla casa del sindaco. Poi il nuvolone si metteva a passeggiare avanti e indietro sul paese e appena vedeva qualcuno col cappello, zac, glielo incendiava con un fulminino. Poi venne un vento profumato e afrodisiaco. Quando soffiava, la gente si imbirriva e correva nelle fratte a due, a tre, a gruppi. Il prete era disperato. Un giorno, mentre inseguiva una coppia sorpresa a porcellare in sagrestia, prese una folata in faccia e lo trovarono in un pagliaio con una fedele ma non troppo. Ad aprile ecco di colpo l'estate. Quarantasette gradi. Il grano maturò e in due giorni era cotto. Raccogliemmo duecento quintali di sfilatini di pane. Faceva così caldo che le uova bollivano non solo sul tetto delle macchine, ma anche nel culo delle galline, le poverette starnazzavano e la mattina trovavamo le omelettes nella paglia del pollaio. Il laghetto si prosciugò in un soffio. I pesci trovarono rifugio nelle vasche da bagno e non c'era verso di mandarli via, ci toccava far la doccia insieme alla trota. I pesci gatto davano la caccia ai topi. Tutti portavamo dei cappelli di paglia, ma il sole incendiava anche quelli, e allora ci mettemmo dei cappelli di zinco e lamierino, e venne l'esercito a controllare perché un ricognitore aereo aveva detto che a Sompazzo c'era stata una invasione di marziani. Subito dopo cominciò a grandinare. Ogni volta iniziava con tre tuoni, poi in cielo si sentiva un vocione che diceva "alè" e venivano giù dei panettoni di grandine. A Biolo ne cadde uno grande come una forma di parmigiano, con dentro un corvo ben conservato. Tornò un caldo da Africa. La gente dormiva per strada, dentro i frigoriferi con la prolunga. Il gelataio lavorava ventiquattrore su ventiquattro e dopo quell'estate si comprò un grattacielo a Montecarlo. In autunno finalmente caddero le foglie. Ne caddero due, una nel giardino della scuola e una a Rovasio. Le altre sembravano attaccate con la colla e non c'era verso di tirarle giù neanche con le cesoie. L'uva era matura ma salata, giuro, salata come un'aringa e il vino di quell'anno era buono solo per condire gli arrosti. La temperatura tornò mite e a novembre arrivarono, in ritardo, le rondini. Uno sciame di nove milioni. Nessuno usciva più di casa, c'era un vocìo a diecimila decibel. Le rondini se ne andarono e arrivarono le cicogne. Sganciarono giù sessanta bambini cinesi e ripartirono. Poi ecco la nebbia. Non si vedeva al di là del proprio naso. L'unico che camminava tranquillo era Enea che aveva il naso lungo ventotto centimetri. Giravamo tutti con un faro antinebbia in testa e la notte spesso ci sbagliavamo di casa e non era poi male, perché c'erano sempre delle sorprese nel letto. La cosa più pericolosa erano i camion che passavano in mezzo al paese ai centoventi, perché per i camionisti la nebbia non è un problema. Bisognò fare dei ponti tra tetto e tetto per attraversare, e dei passaggi sotterranei. Alla fine decidemmo di costruire un bel muro in mezzo alla strada e camionisti non se ne videro più, solo qualche pezzo. Ed ecco che venne l'inverno e subito nevicò venti giorni di fila. Ben presto il paese fu sommerso dalla bianca visitatrice. Sbucavano solo i camini. Ma non ci perdemmo d'animo. A squadre andavamo a spalare la neve: noi di Sompazzo di sotto la spalavamo su Sompazzo di sopra e viceversa, così la neve era sempre alta uguale ma ci scaldavamo. Ettore il fornaio continuava a lavorare in mutande, perché i fornai sono atermici, e ogni mattina passava e buttava il pane giù per i camini. Per scambiarci informazioni ci facevamo i segnali di fumo e la sera ci raccontavamo le barzellette di fumo. Il più bravo a raccontarle era il fuochista. Noi umani non ce la passavamo male. Avevamo il pane e il formaggio di Sompazzo, tremila calorie la fetta. Ma per gli animali era dura. Le mucche non avevano erba da mangiare e rifiutarono le bistecche. Le nutrimmo per giorni a cipolle e avevano un fiato da ammazzare Gesù Bambino nel presepe. Gli uccellini dimagrivano, e anche le volpi, le donnole passavano dalla serratura e i lupi scesero a valle e poi in paese e ce li trovammo in tinello con la pantofola in bocca, quei ruffiani. Intanto la bianca rompicoglioni continuava a cadere e molti paesi erano isolati: si diceva che su a Monte Macco venti famiglie non avevano quasi più viveri e mangiavano solo i fagioli. Ci venne un dubbio atroce perché a Monte Macco c'era in effetti una famiglia che si chiamava Fagioli, noi andammo su a vedere ma i poveretti mangiavano proprio fagioli con la effe minuscola e stavano in cinquanta tutti nella stessa casa per risparmiare legna, e con la dieta borlotta tiravano certe scoregge che sembrava di essere in guerra, e il nonno Fagioli prendeva le più grosse con un retino da pescatore e le rimetteva nella pentola per non sprecare niente. A fine anno la neve era alta sette metri e il fornaio aveva finito la farina, così chiedemmo aiuto alla città e ci mandarono tre elicotteri, ma non erano un granché da mangiare, tranne forse i sedili. Eravamo allo stremo delle forze quando Nonno Celso sentenziò che l'unico che poteva salvarci era Ufizéina. Ufizéina era un meccanico che sapeva riparare tutto, da una gru idraulica a un biberon, e non c'era a memoria di sompazzese un guasto che l'avesse messo in difficoltà. Gli spiegammo il problema: e cioè che c'era da riparare nientemeno che il tempo. Ufizéina ci pensò un po' su e poi disse: "Se è guasto s'aggiusta." Studiò la situazione, prese un cric, due pezzi di copertone, del mastice e una pompa, e sparì all'orizzonte. Alla sera era già di ritorno. Spiegò che il problema era semplice: il sole, venendo giù all'alba da Monte Macco, si era impigliato in un albero scheggiato dal fulmine, e si era forato. Infatti stava di là, sull'altro versante, sgonfio da far pena. Ufizéina l'aveva vulcanizzato e poi gli aveva attaccato la pompa. Entro poco tempo si sarebbe gonfiato e avrebbe ripreso a salire. Infatti poco alla volta ecco il sole, dapprima fioco, poi sempre più rotondo e splendente, salire su da Monte Macco e riscaldare tutto. La neve si sciolse e ogni cosa tornò normale, meno noi. Stefano BENNI, Il bar sotto il mare, Milano, Feltrinelli, 2008, p.11-­‐14
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