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il rischio di bourne - storia della libreria
Eric Van Lustbader Robert Ludlum IL RISCHIO DI BOURNE Traduzione di Claudia Valentini Titolo originale dell'opera: The Bourne Deception 2010 RCS Libri S.P.a. Trama TENGANAIM, INDONESIA La sagoma di Jason Bourne si staglia nitida nel mirino. Un solo proiettile, e la vendetta di Leonid Arkadin è consumata: Bourne è morto. O almeno, così sembra. Perché l'agente segreto che non esiste è miracolosamente scampato alla morte ed è rinato ancora una volta, con una nuova identità e un solo obiettivo: scoprire chi ha tentato di ucciderlo e ricostruire il puzzle sempre più intricato della sua vita. Così, mentre tutti lo credono morto, Bourne diventa il trafficante d'arte Adam Stone, ufficialmente diretto a Siviglia per vendere un preziosissimo dipinto di Goya. Bourne è già in Europa, sulle tracce del suo nemico numero uno, quando nei cieli d'Egitto un aereo di linea americano viene abbattuto da un missile di provenienza iraniana. Per scoprire chi si nasconde dietro quella che ha tutta l'aria di essere una dichiarazione di guerra, la CIA riunisce una task force pronta a collaborare con al-Mukhabarat, la polizia segreta egiziana. Ma le ricerche dell'intelligence americana, guidate da Soraya Moore, finiscono presto per intrecciarsi con quelle di Bourne, scatenando una caccia all'uomo da cui dipende il destino del mondo. Un nuovo, emozionante capitolo nella storia dell'agente segreto più affascinante e amato, interpretato sul grande schermo da Matt Damon. ROBERT LUDLUM nato a New York nel 1927, è scomparso, nel 2001. Dopo le carriere di attore, regista e produttore, dalla fine degli anni Sessanta si è dedicato esclusivamente alla scrittura, diventando maestro indiscusso del romanzo di spionaggio. I suoi romanzi, tra i quali le serie di Jason Bourne e Covert-One, tradotti in 33 lingue, hanno venduto almeno 200 milioni di copie in tutto il mondo, e sono in gran parte disponibili nel catalogo Bur. Gli ultimi titoli pubblicati da Rizzoli sono: Lazarus Vendetta (2008), Il Vettore di Mosca (2009) e La scelta di Bourne (2009). ERIC VAN LUSTBADER, nato a New York nel 1946, è un acclamato autore di thriller. I suoi romanzi sono tutti editi da Rizzoli. AJeff, che con una sola, semplice domanda ha dato inizio a tutto. Prologo Monaco, Germania/Bali, Indonesia «Me la cavo abbastanza bene con il russo» precisò il segretario alla Difesa Bud Halliday, «ma preferirei usare l'inglese.» «Non c'è problema» disse il colonnello con un forte accento russo. «Non mi dispiace parlare una lingua straniera, quando ne ho l'occasione.» Halliday rispose alla provocazione con un sorriso scontroso. L'abitudine degli americani di ricorrere all'inglese anche all'estero era risaputa. «Bene, faremo più in fretta.» Ma invece di iniziare si fermò a osservare la parete piena di foto di pessima qualità, ritagliate senza dubbio dai giornali, di alcuni grandi del jazz come Miles Davis e John Coltrane. Dopo aver visto il colonnello di persona, Halliday aveva iniziato a farsi strane idee su quell'incontro. Tanto per cominciare, era più giovane di quanto avesse immaginato. I capelli folti e liscissimi erano tagliati corti, come imponeva la disciplina militare; sembrava un uomo d'azione: aveva notato che i muscoli si gonfiavano sotto il vestito di tessuto scadente. Ostentava una strana calma, che inquietava il segretario. Ma erano stati i suoi occhi pallidi, incavati e immobili, a farlo innervosire. Aveva uno sguardo quasi fisso, come in una fotografia. Un'impressione rafforzata dal naso schiacciato, ricoperto di capillari, che gli conferiva un'aria vacua, come se l'anima di quell'uomo non esistesse, come se fosse animato soltanto da una volontà monolitica, una forza ancestrale e maligna che ad Halliday ricordò una storia di Lovecraft che aveva letto quand'era ragazzo. Frenò l'istinto di alzarsi e andarsene senza nemmeno voltarsi. Era venuto per una ragione ben precisa, ricordò a se stesso. Lo smog che soffocava Monaco - grigio sporco come il colore degli occhi di Karpov - rispecchiava alla perfezione l'umore di Halliday. Sarebbe stato felicissimo di non rivedere più quel pallido tentativo di città. E invece, eccolo lì, in un jazz club sotterraneo dimenticato da Dio, avvolto in una cappa irrespirabile, dopo aver lasciato il sedile di una limousine Lincoln in una Rumfordstrasse gremita di turisti. Per quale diavolo di motivo il russo avrebbe dovuto trascinare il segretario alla Difesa degli Stati Uniti in una città che odiava, a quasi tremila chilometri di distanza dalla sua? Boris Karpov era un colonnello della FSB-2, ufficialmente la nuova agenzia antidroga russa. Il fatto che uno dei membri della FSB-2 fosse in grado di inviare un messaggio ad Halliday e farlo partire da Washington era indicativo del livello di autorità che l'agenzia aveva raggiunto negli ultimi tempi. Karpov aveva lasciato intendere che si trattava di qualcosa che Halliday desiderava parecchio, ma in quel momento il segretario alla Difesa era più impegnato a immaginare cosa avrebbe voluto in cambio il russo. Questo genere di affari prevedeva sempre un do ut des, Halliday lo sapeva; conosceva fin troppo bene le lotte per il potere che si consumavano all'ombra del presidente. I do ut des potevano essere dolorosi da accettare, ma il gioco politico a cui stava partecipando aveva un nome soltanto, a livello nazionale e internazionale: compromesso. Un tempo, però, Halliday avrebbe potuto non accettare la proposta di Karpov, ma ora la sua posizione si era all'improvviso indebolita agli occhi del presidente. La repentina caduta di Luther LaValle, lo zar dell'intelligence che era stato il suo mentore, aveva minato la sua posizione. Amici e alleati avevano iniziato a criticarlo e a tramare alle sue spalle, e lui si chiedeva quale delle due schiere lo avrebbe pugnalato alla schiena. D'altro canto, conosceva quell'ambiente così bene da sapere che la soluzione, a volte, può arrivare sotto forma di situazioni all'apparenza spiacevoli. Confidava nell'accordo con Karpov per ristabilire il suo prestigio agli occhi del presidente e nel panorama militare-industriale multinazionale. Mentre il trio sul palco iniziò a esibirsi, Halliday ripassò mentalmente il dossier di Boris Karpov, come se stavolta potesse trovarci qualche informazione in più -una foto del colonnello fatta da una telecamera di sorveglianza, anche sgranata o sfocata o altro. Purtroppo, però, una foto del genere non esisteva. C'erano solo i quattro paragrafi di informazioni scontate stampati nell'unico foglio di carta filigranato top secret. Per via dei pessimi rapporti tra l'amministrazione e la Russia, la Sicurezza nazionale aveva una conoscenza limitata dei meccanismi operanti all'interno del sistema politico russo, e ancor più limitata della FSB-2, i cui veri scopi superavano in segretezza quelli della FSB, erede politica dell'ex KGB. «Mr. Smith, mi sembra un po' distratto» osservò il russo. Avevano deciso di usare gli pseudonimi Mr. Smith e Mr. Jones in pubblico. Il segretario alla Difesa si voltò di scatto. Era molto a disagio, in quel posto, a differenza di Karpov, che gli sembrava sempre più una creatura dell'oscurità. Alzando la voce per sovrastare la musica, disse: «Niente affatto, Mr. Jones. Sto solo cercando di godermi come un turista l'atmosfera particolare che ha scelto». Il colonnello rise di gusto. «Ha un gran senso dell'umorismo, Mr. Smith.» «Mi ha letto nel pensiero.» Il colonnello scoppiò di nuovo in una risata fragorosa. «Non ne sono così sicuro, Mr. Smith. Se conosciamo a malapena le nostre mogli, figuriamoci le nostre... controparti?» La leggera esitazione portò Halliday a chiedersi se Karpov avrebbe voluto usare il termine nemici, al posto di quello che aveva scelto. Non gli importava sapere se il russo fosse a conoscenza delle sue vicissitudini politiche, perché era irrilevante. Gli interessava soltanto capire se l'accordo che stava per proporgli lo avrebbe aiutato o meno. Il trio cambiò ritmo, e il segretario alla Difesa intuì che si sarebbero cimentati in un'altra serie di brani. Si curvò sopra la birra troppo amara che aveva solo assaggiato. Non c'era traccia della sua amata Coors, in quella bettola. «Arriviamo al dunque.» «Ma certo.» Il colonnello Karpov toccò l'avambraccio del segretario alla Difesa. Le nocche sembravano piccole montagne spigolose, ricoperte di cicatrici e calli. «Mr. Smith, so che non c'è alcun bisogno che io le spieghi chi è Jason Bourne, dico bene?» Nell'udire quel nome l'espressione di Halliday si indurì. Era come se il russo gli avesse spruzzato addosso del freon. «Quindi?» chiese in tono secco. «Quindi, Mr. Smith, ucciderò Jason Bourne per suo conto.» Halliday non perse tempo a domandarsi come mai Karpov fosse a conoscenza del suo desiderio di vedere Bourne morto. La NSA aveva svolto parecchie attività a Mosca di recente, mentre Bourne si trovava in città: non c'era bisogno di un genio per capire che lo stavano cercando per ucciderlo. «Molto gentile da parte sua, Mr. Jones.» «La gentilezza c'entra poco. Ho le mie buone ragioni per volere la sua morte.» A queste parole, il segretario alla Difesa si rilassò un po'. «Bene, supponiamo che lei uccida Bourne. Cosa vuole in cambio?» Nessuno avrebbe notato qualcosa di strano nel movimento dell'occhio del colonnello a quella domanda, ma per Halliday, che lo stava ancora studiando, fu come se qualcuno stesse camminando sulla tomba di Bourne. La morte gli aveva fatto l'occhiolino. «Conosco quello sguardo, Mr. Smith. Immagino che si starà aspettando il peggio, un prezzo enorme da pagare. Ma, in cambio della sua licenza a eliminare Bourne nella completa immunità e senza che vi siano conseguenze o danni collaterali, voglio che lei mi aiuti a togliere una mia spina nel fianco.» «Qualcuno che non riuscite a mettere fuori gioco da soli.» Karpov annuì. «Mi ha letto nel pensiero.» I due uomini risero insieme, ma con toni del tutto diversi. «Dunque» Halliday unì le mani, «chi è l'obiettivo?» «Abdullah Khoury.» Il cuore del segretario alla Difesa si arrestò per un istante. «Il capo della Fratellanza Orientale? Cristo santo, è come chiedermi di uccidere il papa.» «Uccidere il papa non servirebbe né a me né a lei. Ma Abdullah Khoury è tutta un'altra storia...» «Certo. E un estremista, un fondamentalista islamico, nonché una minaccia. Sta stringendo accordi con il presidente iraniano. Ma la Fratellanza Orientale è un'organizzazione internazionale, e Khoury ha amici nelle alte sfere.» Halliday scosse la testa con veemenza. «Tentare di ucciderlo è un suicidio politico.» Karpov assentì. «E tutto vero. Ma non possiamo più tollerare le attività terroristiche della Fratellanza Orientale.» Halliday grugnì. «Ipotesi, dicerie. Nessuno dei nostri servizi segreti ha mai trovato uno straccio di prova che dimostri il minimo legame con organizzazioni terroristiche. E, mi creda, ci abbiamo provato in tutti i modi.» «Non ho dubbi al riguardo. Il che significa che non avete trovato alcuna prova riconducibile ad attività terroristiche, neanche a casa del professor Specter.» «Che il caro vecchio professore desse la caccia ai terroristi è fuori questione, ma riguardo all'accusa che si trattasse di qualcosa di più...» Halliday si strinse nelle spalle. Un sorriso improvviso si disegnò sul volto del colonnello, e sopra il tavolo che separava i due comparve una busta. «Allora questa le sarà molto utile.» Karpov spinse con le dita la busta verso Halliday, come se stesse muovendo la regina in scacco matto. Mentre il segretario alla Difesa apriva la busta e ne studiava il contenuto, Karpov continuò: «Come saprà, la FSB-2 si occupa principalmente di traffici internazionali di droga». «Così mi hanno riferito» si limitò a dire Halliday, nonostante sapesse che l'attività della FSB-2 era di gran lunga più articolata. «Dieci giorni fa» proseguì il russo, «abbiamo effettuato una retata antidroga in Messico, frutto di un lavoro di indagine di oltre due anni, grazie alla Kazanskaja, una nostra grupperovka di Mosca che ha trovato un canale sicuro nel mercato degli stupefacenti.» Halliday annuì. Aveva alcune informazioni sulla Kazanskaja, una delle famiglie criminali più conosciute di tutta Mosca, e sul suo capo, Dimitrij Maslov. «Devo ammettere che è stato un successo» riprese il colonnello. «Durante l'ultima ispezione in casa dell'ormai defunto signore della droga, Gustavo Moreno, abbiamo confiscato un portatile prima che venisse distrutto. Le informazioni che sta leggendo in questo momento sono state trovate nell'hard disk di quel computer.» Le punte delle dita di Halliday si erano raffreddate. Su quei fogli vedeva figure, riferimenti incrociati e annotazioni. «Questo è il percorso che faceva il denaro. I trafficanti erano finanziati dalla Fratellanza Orientale. La metà dei profitti era destinata all'acquisto di armi, che raggiungevano poi varie zone del Medio Oriente attraverso la Afrika Airways.» «Che è controllata da Nikolaj Evsen, il più grande trafficante d'armi del mondo.» Il colonnello si schiarì la voce. «Vede, Mr. Smith, ci sono esponenti di spicco del mio governo che guardano con favore all'Iran, perché noi vogliamo il loro petrolio e loro il nostro uranio. L'energia muove ogni cosa, al giorno d'oggi, non è vero? E così mi trovo nell'assurda posizione di avere prove schiaccianti contro Abdullah Khoury e di non poterle usare.» Alzò la testa. «Ma forse lei mi può dare una mano.» Cercando di frenare il nervosismo, Halliday domandò: «Perché vuole far fuori Khoury?». «Potrei anche dirglielo» rispose Karpov, «ma poi sarei costretto a far fuori anche lei.» Era un vecchio scherzo, usato spesso in quell'ambiente, ma negli occhi del colonnello, già implacabili, passò di nuovo quel lampo inquietante che innervosì Halliday e lo indusse a temere che Karpov non stesse affatto scherzando. Non aveva voglia di scoprirlo a proprie spese, quindi prese in fretta la sua decisione. «Uccida Jason Bourne e io userò tutto il potere del governo americano per mettere Abdullah Khoury al suo posto.» Ma il colonnello scosse la testa. «Non è abbastanza, Mr. Smith. Occhio per occhio e dente per dente è il vero significato di do ut des.» «Noi non siamo degli assassini, colonnello Karpov» replicò Halliday. Al russo sfuggì una risatina scortese. «Certo che no» ribatté seccamente, poi alzò le spalle. «Non importa, segretario Halliday. Io non mi faccio tanti scrupoli.» Halliday esitò per un attimo. «Nella foga del momento ho dimenticato il nostro protocollo, Mr. Jones. Mi invii l'intero contenuto dell'hard disk e procederemo.» Cercando di farsi coraggio, fissò quegli occhi di ghiaccio. «D'accordo?» Boris Karpov fece un breve cenno con la testa. «D'accordo.» Quando uscì dal jazz club, il colonnello localizzò le guardie del corpo presidenziali e quelle dei servizi segreti di Halliday appostate come soldatini nell'isolato della Rumfordstrasse. Camminando nella direzione opposta, voltò l'angolo, si infilò un dito in bocca ed estrasse le protesi che avevano modificato il contorno inferiore del suo viso. Tirò il bulbo venoso del naso di lattice e se lo sfilò insieme al volto di gomma; si tolse le lenti a contatto grigie e le ripose in una confezione di plastica. Rise di gusto. Esisteva un colonnello della FSB-2 di nome Karpov, che in realtà era molto amico di Bourne; era per questo che Leonid Danilovic Arkadin aveva scelto di assumere la sua identità. Era l'ironia della situazione ad affascinarlo: un amico di Bourne che si offriva di ucciderlo. Inoltre, Karpov rappresentava una trama della rete che stava tessendo. I politici americani non costituivano una minaccia e gli uomini di Halliday non conoscevano l'aspetto di Karpov. Tuttavia, anche se la Treadstone e l'addestramento gli avevano insegnato a non lasciare mai nulla al caso, aveva le sue buone ragioni per scegliere di diventare il più possibile simile al colonnello russo. Nascosto tra la folla, salì a bordo della Ubahn a Marienplatz. Tre fermate e quattro isolati più avanti, in un punto ben preciso, trovò un'auto anonima ad aspettarlo. La vettura si mise in moto e, non appena salì a bordo, si diresse alla volta dell'Aeroporto internazionale Franzjosef Strauss. Aveva prenotato un posto sul volo Lufthansa dell'1:20 per Singapore, dove avrebbe preso la coincidenza delle 9:35 per Denpasar, Bali. Era stato più facile rintracciare Bourne che rubare il computer di Gustavo Moreno: alla NextGen Energy Solutions, dove Moira Trevor aveva lavorato in passato, sapevano tutti dove si erano cacciati quei due. Ma, grazie a Dio, aveva diversi uomini nella Kazanskaja. Uno di loro era stato così fortunato da ritrovarsi all'interno della casa di Gustavo Moreno un'ora prima della retata della FSB-2. Era scappato con le prove che condannavano Abdullah Khoury a morte. Morte che sarebbe avvenuta in contemporanea a quella di Bourne per mano di Arkadin. Jason Bourne stava bene. Il dolore per la morte di Marie, col passare del tempo, si era attenuato, e così anche il senso di colpa. Era disteso di fianco a Moira su un baie, il tipico lettino balinese dal tetto in paglia sorretto da quattro pali di legno intarsiato, sistemato a lato della piscina che dominava lo stretto di Lombok, nel sudest di Bali. Il baie veniva preparato ogni mattina per la loro nuotata prima di colazione, dopodiché la cameriera arrivava puntuale, senza bisogno di chiedere nulla, con il cocktail preferito di Moira: Bali Sunrise, fatto con succo di arancia amara, mango e frutto della passione. «Il tempo sembra sospeso, in questo posto» disse Moira con aria sognante. Bourne cambiò posizione. «Scusa?» «Sai che ora è?» «Non mi interessa.» «Siamo qui da dieci giorni e mi sembrano dieci mesi» continuò lei sorridendo. «In senso buono, intendo.» Le rondini si libravano di albero in albero, e ogni tanto scendevano fino a sfiorare la superficie dell'acqua. Pochi minuti prima due ragazze balinesi avevano portato fiori freschi in una ciotola fatta di foglie di palma intrecciate a mano. L'aria era satura dei profumi esotici del frangipani e della tuberosa. Moira si girò verso Jason. «Come dicono qui, il tempo a Bali si ferma, e in questa immobilità scorrono molte esistenze.» Bourne, con gli occhi socchiusi, sognava un'altra vita, ma le immagini erano buie e sfocate, come se le vedesse attraverso un proiettore difettoso. Era già stato lì, in passato, ne era certo. C'era qualcosa nel vento, nel mare riposante, nel sorriso delle persone, nell'isola stessa, che risuonava dentro di lui. Non si trattava soltanto di un déjà vu. Quel luogo lo aveva attratto come una calamita, ma la sua mente non riusciva ancora a capirne il motivo. Cos'era successo su quell'isola? Qualcosa di importante, qualcosa che doveva ricordare. Si abbandonò alla memoria del suo passato sconosciuto. In quello stato onirico viaggiò in lungo e in largo per Bali, fino a raggiungere l'Oceano Indiano. Dalle onde schiumose si ergeva una colonna di fuoco. Si alzava nel cielo azzurro fino a toccare il sole. Era un'ombra, e attraversava la sabbia soffice come talco per accogliere l'abbraccio delle fiamme... Si svegliò con il desiderio di raccontare il sogno a Moira, ma non lo fece. Quella sera, mentre scendevano al beach club ai piedi della scogliera sulla quale era abbarbicato il loro hotel, Moira si fermò in uno dei tanti santuari sparsi nella zona. Era fatto di pietra, gli archi drappeggiati con tessuti a scacchi bianchi e neri. Un piccolo parasole giallo ne riparava la sommità, sulla quale erano state lasciate abbondanti offerte di fiori colorati in coppe di foglie di palma intrecciate. Il drappeggio e il parasole indicavano che lo spirito era presente. Il motivo del tessuto aveva anche un altro significato: il bianco e il nero rappresentavano per i balinesi la contrapposizione tra dèi e demoni, tra bene e male. Moira si tolse i sandali e si incamminò sulla pietra quadrata davanti al santuario, giunse le mani all'altezza della fronte e piegò la testa in avanti. «Non sapevo conoscessi le pratiche indù» disse Bourne quando lei ebbe terminato. «Stavo ringraziando lo spirito per il tempo che abbiamo trascorso e che trascorreremo qui, e per tutti i doni che Bali ci offre.» Moira fece un sorrisetto ironico a Bourne e raccolse i sandali. «E stavo anche ringraziando lo spirito del maialino che abbiamo mangiato ieri per essersi sacrificato per noi.» Avevano prenotato il beach club solo per loro, quella sera. Li aspettavano soffici asciugamani, bicchieri ghiacciati di lassi, una bevanda a base di yogurt e mango, e brocche di succhi tropicali e acqua gelata. Gli inservienti si erano ritirati con discrezione nella cucina priva di finestre. Moira e Bourne trascorsero un'ora a nuotare nell'acqua calda dell'oceano, che accarezzava la pelle come velluto. Sulla spiaggia buia, granchi solitari procedevano con il loro movimento laterale, e si intravedevano pipistrelli entrare e uscire dalle grotte aperte nelle rocce dalla parte occidentale dell'insenatura a mezzaluna. Gustarono i lassi in piscina, sorvegliati da un enorme maialino sorridente di legno, con medaglione al collo e corona in testa. «Sorride» disse Moira, «perché ho reso omaggio al maialino di ieri.» Nuotarono ancora un po', nascosti agli sguardi indiscreti da un bellissimo frangipani dai fiori bianchi e gialli sotto il quale si abbracciarono guardando la luna vestirsi e svestirsi di nubi. Una folata di vento mosse le fronde delle palme, e il buio si infittì. «Siamo quasi alla fine, Jason.» «Di cosa?» «Di questo. Di tutto questo. Tra pochi giorni ce ne andremo.» Bourne guardò la luna fare capolino da una nuvola e sentì le prime gocce sul viso. Un secondo dopo, la pioggia picchiettava sulla superficie della piscina. Moira gli appoggiò la testa sulle spalle. «Che ne sarà di noi?» Bourne sapeva che lei non voleva la risposta, ma desiderava solo assaporare il gusto di quelle parole sulle labbra. Percepì il corpo di lei attraverso l'acqua e il suo calore nel cuore. Si sentì stanco. «Jason, cosa farai una volta che saremo tornati?» «Non lo so» rispose lui sincero. «Non ci ho ancora pensato.» Ma iniziò a domandarsi se sarebbe partito con lei oppure no. E come avrebbe potuto farlo, se una parte del suo passato era lì ad aspettarlo, su quell'isola, così a portata di mano? Non condivise con lei quelle riflessioni, perché avrebbe dovuto darle una spiegazione che non aveva. Era solo una sensazione. Quante volte nella sua vita sensazioni come quella lo avevano salvato? «Non tornerò alla NextGen» disse Moira. Bourne si concentrò di nuovo su di lei. «Quando l'hai deciso?» «Mentre eravamo qui.» Si illuminò. «Bali ha un modo tutto suo per aprire la strada a nuove scelte. Ero stata qua, prima di entrare nella Black River. A quanto pare, è l'isola dei cambiamenti, almeno per me.» «E che farai?» «Vorrei avviare un'impresa tutta mia che si occupi di gestione del rischio.» «Ottimo, direi. In diretta competizione con la Black River» commentò Jason sorridendo. «Se vuoi vederla così...» «Saranno altri a vederla in questo modo.» Pioveva a dirotto adesso, e le fronde delle palme erano frustate dal vento. «Potrebbe essere pericoloso.» «La vita è pericolosa, Jason, come ogni cosa governata dal caos.» «Non sono contrario, ma ti ricordo solo che c'è il tuo vecchio capo, Noah Petersen.» «Quello è il nome in codice. Il suo vero nome è Perlis.» Bourne guardò in alto, verso i fiori bianchi che iniziavano a cadere intorno a loro come fiocchi di neve. Il profumo dolce del frangipani si mescolava all'odore della pioggia. «Non mi sembrava troppo felice di vederti, quando lo abbiamo incontrato a Monaco, due settimane fa.» «Noah non è mai felice.» Moira si accoccolò tra le braccia di lui. «Ho smesso di cercare di compiacerlo sei mesi prima di lasciare la Black River. Tanto era inutile.» «Rimane il fatto che avevamo ragione, riguardo all'attacco terroristico alla nave cisterna di gas naturale liquefatto, mentre lui aveva torto marcio. Scommetto che se l'è legata al dito. Se invaderai il suo territorio, diventerà tuo nemico.» Lei rise dolcemente. «Senti chi parla!» «Arkadin è morto» replicò Bourne con aria seria. «E colato a picco nel Pacifico al largo di Long Beach insieme alla cisterna. Non è sopravvissuto. Nessuno ci sarebbe riuscito.» «Era un prodotto del progetto Treadstone. Non ti ha forse detto così, Willard?» «Willard, che era sul posto, pensa che Arkadin fosse il più grande successo e il più grande fallimento di Alex Conklin. Gli era stato mandato da Semén Ikoupov, il numero due della Legione Nera e della Fratellanza Orientale. Poi però Arkadin gli ha sparato per vendicare la sua fidanzata, morta per mano di Ikoupov.» «E il suo socio segreto, Asher Sever, tuo mentore in passato, è in coma permanente.» «Ognuno ha ciò che si merita» disse Bourne, cupo. Moira ritornò alla Treadstone. «Secondo Willard, lo scopo di Conklin era quello di creare un guerriero superiore, una macchina da combattimento.» «E Arkadin lo era» puntualizzò Bourne, «ma poi ha abbandonato la Treadstone ed è scappato in Russia, dove ha organizzato rivolte di ogni genere, offrendosi come mercenario ai capi di tutte le grupperovke moscovite.» «E tu hai preso il suo posto, incarnando il successo di Conklin.» «I membri della direzione della CIA non hanno quest'opinione di me. Mi farebbero fuori all'istante.» «Eppure non si sono fatti troppi scrupoli, quando si trattava di costringerti a lavorare per loro, quando hanno avuto bisogno di te.» «E acqua passata.» Moira aveva appena deciso di cambiare argomento, quando andò via la luce. L'oscurità calò sulla piscina e il beach club. Bourne tese i muscoli e scostò Moira in modo da potersi alzare e andare a scoprire la causa del guasto. «Jason» gli sussurrò lei, «è tutto a posto. Siamo al sicuro, qui.» Insieme raggiunsero il lato opposto a quello in cui erano seduti. Moira sentì il battito di Jason accelerare, il suo livello di attenzione alzarsi; capiva che lui si aspettava che accadesse qualcosa di orribile, e in quel momento aggiunse un tassello al quadro che si era fatta della vita di Bourne. Avrebbe voluto ripetergli di non preoccuparsi, che le interruzioni di elettricità sono all'ordine del giorno a Bali, ma sarebbe stato inutile: era programmato per questo tipo di reazione e lei non poteva cambiare le cose. Si mise in ascolto del vento e della pioggia, domandandosi se lui avesse captato qualcosa che a lei era sfuggito. Per un istante si sentì in preda all'ansia: e se non si fosse trattato di un semplice guasto? Se fosse stato un agguato dei nemici di Jason? All'improvviso la luce ritornò e lei rise dei propri pensieri sciocchi. «Te l'avevo detto!» esclamò, indicando il sorridente maialino in legno intarsiato. «Ci sta proteggendo.» Bourne si ributtò in acqua. «Non c'è via di scampo» disse. «Neanche qui.» «Tu non credi negli spiriti, nel bene e nel male, non è vero Jason?» «Non posso permettermelo» rispose lui. «Ho dovuto affrontare fin troppa malvagità.» Quel tono a Moira non piaceva, così portò il discorso sul tema che le stava più a cuore: «Dovrò mettere su una squadra tutta da sola. Avremo meno occasioni di vederci, almeno fino a che non avrò avviato l'attività». «E un avvertimento o una promessa?» Lei fece una risata nervosa. «Okay, il solo pensiero mi ha fatto agitare.» «Perché?» le domadò. «Sai come vanno queste cose.» «No, dimmelo tu.» «Jason, né io né te siamo il tipo di persona... voglio dire, entrambi conduciamo una vita che ci rende difficile pensare a qualcosa di duraturo, soprattutto per quanto riguarda le relazioni, per cui...» disse lei, accostandogli dentro l'acqua. Bourne la interruppe con un bacio. Quando tornarono in superficie per prendere una boccata d'aria le sussurrò in un orecchio: «Va bene, non c'è problema. Questo è quello che abbiamo al momento. Se avremo bisogno di qualcosa di più, torneremo qui». Il cuore di lei era colmo di gioia. Lo abbracciò. «Affare fatto!» Il volo di Leonid Arkadin da Singapore arrivò in orario. Pagò alla dogana il suo visto d'ingresso e poi camminò a passo spedito nel terminal alla ricerca di un bagno. Trovatolo, si infilò in una cabina, chiuse la porta e fece scattare la serratura. Da uno zainetto estrasse il naso in lattice, tre scatole di make-up, inserti in plastica per le guance e le lenti a contatto grigie che aveva usato a Monaco. Pochi minuti dopo uscì dalla toilette, si avvicinò alla fila di lavandini e contemplò nello specchio il suo aspetto modificato, che ancora una volta era quello dell'amico di Bourne, il colonnello della FSB-2 Boris Karpov. Risistemò il tutto nello zaino, attraversò il terminal e si immerse nella folla compatta e nel caldo. L'aria condizionata dell'auto che aveva noleggiato lo ritemprò quando salì a bordo. Mentre il taxi si allontanava dall'Aeroporto internazionale Ngurah Rai, Arkadin si piegò verso l'autista e gli disse: «Badung Market». Il giovane alla guida annuì, sorrise e si ritrovò bloccato, insieme a un esercito di ragazzini in scooter, dietro un enorme camion diretto al traghetto per Lombok, che ingombrava la strada. Dopo venti minuti strazianti riuscirono a superare il veicolo e, schivando le auto che arrivavano dal senso opposto e le moto che sfrecciavano sulla strada, evitando per un pelo di investire uno dei tantissimi cani randagi che vivevano sull'isola, arrivarono finalmente a Jalan Gajah Mada, sull'altra riva del fiume Badung. Il taxi rallentò e la folla in fermento impedì all'auto di procedere oltre. Arkadin pagò l'autista affinché lo aspettasse fino al suo ritorno, scese dalla macchina e si avviò sotto i tendoni delle bancarelle. Venne subito investito da una moltitudine di odori pungenti - pasta di gamberetti neri, peperoncini, aglio, karupuk, cannella, citronella, foglie di pandano e di alloro, kencur e di voci urlanti dei mercanti che vendevano di tutto, dai galli da combattimento con le piume dipinte di rosa e arancione ai maialini vivi legati a canne di bambù per facilitarne il trasporto. A una bancarella che esponeva numerosi cestini di spezie, la proprietaria, una vecchia priva del labbro superiore, affondò la mano come una tenaglia in un vaso pieno di radici commestibili e gliene mostrò il palmo ricolmo. «Kencur» gli offrì. «Kencur molto buono oggi.» Il kencur, per quello che Arkadin riuscì a desumere, assomigliava allo zenzero, ma era una radice più piccola. Disgustato sia dal kencur, sia dall'orribile donna, si allontanò dalla bancarella e proseguì oltre. Era diretto verso uno dei negozietti di maiali. A metà strada, venne fermato da un insistente picchiettio sul suo braccio, come di una zampa di gallina essiccata. Si voltò e vide una giovane donna che teneva in braccio un bambino; i suoi occhi lo imploravano mentre le dita scure continuavano a tamburellare sul braccio, come se fosse l'unica cosa che fossero in grado di fare. La ignorò, consapevole del fatto che, se le avesse dato qualcosa, sarebbe stato subito circondato da una moltitudine di altri come lei. Il mercante di maiali era un uomo basso e tarchiato, con occhi neri luccicanti, una faccia tonda come la luna e una zoppia molto pronunciata. Dopo che Arkadin ebbe pronunciato la frase concordata in indonesiano, l'uomo gli fece strada nel retro, attraverso file intere di maialini legati, con i corpi tremanti e gli occhi terrorizzati. All'ombra, sotto una tenda, c'erano due cataste di maiali spellati, puliti e pronti per lo spiedo. Dalla pancia di uno di questi un altro uomo estrasse un Remington 700P che cercò a più riprese di mettere in mano ad Arkadin, fino a che questi non rifiutò in modo così risoluto da convincerlo a passare al piano di riserva, che sembrava essere proprio quello che faceva al caso di Arkadin: un Parker Hale M85, un fucile con canna pesante e otturatore a cilindro. Aveva una capacità garantita di colpire il bersaglio al primo colpo. Il venditore aggiunse anche un mirino telescopico Schmidt & Bender 4-16x50 Police Marksman II. Il prezzo sembrava eccessivo, persino dopo estenuanti contrattazioni, ma, a un passo dal suo obiettivo, Arkadin non aveva tempo da perdere. E poi, stava pur sempre comprando un prodotto di altissima qualità. Riuscì a convincere l'uomo a mettere il tutto in una scatola piena di proiettili MI 18 full metal jacket calibro 30, dopodiché pagò, ritenendosi soddisfatto. Il mercante smontò il fucile e lo ripose insieme al mirino nella scatola rigida. Mentre il taxi agonizzava per uscire da Denpasar, Arkadin mangiò fino all'ultimo boccone e con estrema calma le banane al latte che si era comprato. Una volta in autostrada, la vettura prese velocità. L'assenza di traffico rendeva più facile superare i camion che intasavano le vie. A Gianyar vide un mercato sulla sua sinistra e ordinò all'autista di accostare. Malgrado le banane, il suo stomaco reclamava cibo. Al mercato ordinò un piatto di babi guling, maialino da latte arrostito, con un contorno di lawar, cocco e pezzettini di tartaruga piccante, il tutto servito su un'enorme foglia verde di banano. Masticava con gusto ogni boccone di maialino e poi lo ingoiava in fretta per poter passare a quello successivo. Poiché il mercato era molto rumoroso, controllava con regolarità il cellulare. Più aspettava e più cresceva la tensione, ma doveva essere paziente, perché ci sarebbero voluti diversi giorni per studiare gli spostamenti di Bourne. Inoltre, si sentiva stranamente ansioso, forse perché era così vicino alla sua preda. C'era qualcosa di Bourne che era penetrato nella sua pelle, qualcosa che era diventato come un prurito che non riusciva a placare. Nel tentativo di controllarsi, spostò i pensieri sugli avvenimenti recenti che lo avevano portato lì. Due settimane prima, Bourne lo aveva scaraventato fuori dalla nave cisterna di gas naturale liquefatto. Solo il suo duro allenamento fisico aveva impedito alla sua spina dorsale di rompersi al momento dell'impatto. La forza del lancio l'aveva spinto verso il fondale e lui non aveva più visto la luce; era stato assalito da un freddo terribile che gli era penetrato nelle ossa, e poi era riuscito a iniziare la risalita. Quando aveva raggiunto la superficie, la nave cisterna era solo un puntino lontano che si dirigeva verso il porto di Long Beach. Tenendosi a galla con la forza delle gambe, aveva girato il corpo come il capitano di un sottomarino avrebbe fatto con un periscopio. L'imbarcazione più vicina era un motopeschereccio, ma non voleva attirare l'attenzione dell'equipaggio, a meno che non fosse stato davvero necessario. Il capitano avrebbe dovuto denunciare il salvataggio di un uomo in mare alla guardia costiera americana, ed era proprio quello che Arkadin voleva evitare, perché Bourne sarebbe di certo andato a controllare i verbali. Quella situazione non lo aveva allarmato e nemmeno preoccupato. Sapeva che non sarebbe annegato. Era un nuotatore provetto e di grande resistenza, persino dopo la lotta corpo a corpo con Bourne a bordo della nave cisterna. Il cielo era blu, mentre in lontananza, sopra Los Angeles, una foschia marroncina restava sospesa lungo la costa. Le onde lo trascinavano su e giù. Muoveva le gambe per mantenere il galleggiamento; di tanto in tanto, si avvicinavano dei gabbiani curiosi. Venti minuti dopo, la sua pazienza era stata ripagata. All'orizzonte era comparso un panfilo di diciotto metri che viaggiava a una velocità quattro volte superiore a quella del motopeschereccio. In pochi minuti era abbastanza vicino e Arkadin aveva iniziato a fare dei segnali verso l'imbarcazione, che cambiò direzione quasi subito. Quindici minuti dopo si trovava a bordo, avvolto da due asciugamani e una coperta, perché la temperatura del suo corpo era scesa ben al di sotto dei livelli normali. Tremava e le labbra gli erano diventate blu. Il proprietario della barca, che si chiamava Manny, gli aveva offerto un po' di brandy e del pane e formaggio. «Se mi dai un minuto, sbrigo le pratiche con la guardia costiera, così comunico che sei a bordo del mio panfilo. Come ti chiami?» «Willy» aveva mentito Arkadin. «Ma vorrei che non lo facessi.» Manny alzò le spalle tonde come per scusarsi. Non era altissimo, aveva il viso rubicondo e stava perdendo i capelli. I suoi vestiti erano pratici, ma costosi. «Mi dispiace, amico, queste sono le regole.» «Aspetta, Manny, aspetta un momento. Mettila così...» Arkadin parlava il classico inglese nasale del Midwest. Il tempo trascorso in America gli era tornato utile in più situazioni. «Sei sposato?» «Divorziato. Due volte.» «Lo vedi? Sapevo che mi avresti capito. Ho noleggiato una nave per passare una bella giornata insieme a mia moglie: pensavo di andare a Catalina per un drink. Come potevo immaginare che la mia amante si sarebbe imbarcata di nascosto? Le avevo detto che sarei uscito a pescare con degli amici, così ha deciso di farmi una sorpresa.» «E te l'ha fatta bella grossa.» «Cristo santo, se me l'ha fatta!» aveva esclamato Arkadin. Aveva finito il suo brandy, scuotendo la testa. «Le cose si sono messe male. E scoppiato l'inferno. Non conosci mia moglie: sa essere una vera stronza, quando vuole.» «Hai fatto l'identikit preciso delle mie due ex.» Manny si era seduto di nuovo. «E quindi che hai fatto?» «Cosa potevo fare? Mi sono tuffato in acqua.» Manny aveva buttato indietro la testa ed era scoppiato a ridere, battendo la mano su una coscia. «Maledizione, Willy, che gran figlio di puttana che sei!» «Adesso capisci perché sarebbe meglio se nessuno venisse a sapere che mi hai salvato?» «Certo, capisco, ma...» «Manny, posso chiederti che lavoro fai?» «Ho una società che importa e vende microchip di alta qualità.» «Perfetto» aveva detto Arkadin. «Ho in mente un piano che potrebbe far fare quattrini a tutti e due.» Mentre finiva il suo lawar nel mercato di Gianyar, rise tra sé e sé. Manny aveva guadagnato duecentomila dollari e, con una normale spedizione, Arkadin aveva ricevuto il computer del signore della droga Gustavo Moreno a Los Angeles, senza che la FSB-2 o la Kazanskaja ne sapessero niente. Trovò un bed & breakfast - che a Bali corrisponde a una sistemazione in famiglia - poco lontano dal centro di Gianyar. Prima di prepararsi per la notte, tirò fuori il fucile, lo assemblò, lo caricò, lo scaricò e lo smontò. Il tutto dodici volte di seguito. Poi chiuse la zanzariera, si distese sul letto e iniziò a fissare il soffitto. Gli passò davanti l'immagine di Devra, quando l'aveva trovata pallida, ormai ridotta a un fantasma, nell'appartamento di Semèn Ikoupov a Monaco, colpita a morte dall'artista che aveva approfittato del secondo in cui era stata distratta dall'ingresso di Jason Bourne nella stanza. Gli occhi di lei cercavano qualcosa nei suoi. Arkadin si chiedeva ancora cosa. Persino un uomo crudele come lui nutriva dei sentimenti. Dopo la morte di Devra si era convinto che lei era stata l'unica donna che avrebbe potuto amare, perché questa convinzione alimentava la sua sete di vendetta. Aveva ucciso Ikoupov, ma Bourne era ancora vivo e non solo si era reso complice della morte di Devra, ma aveva anche trucidato Misca, il miglior amico di Arkadin. Così, Bourne gli aveva dato una ragione di vita. Il piano per assumere il controllo della Legione Nera - che gli aveva permesso di consumare la sua vendetta contro Ikoupov e Sever - non era sufficiente, malgrado fosse su larga scala e perfettamente organizzato. Lui voleva di più: un bersaglio preciso su cui concentrare la sua vendetta. Con la zanzariera abbassata, iniziò a sudare freddo a intervalli regolari. I suoi pensieri sembravano prima infiammati, e qualche secondo dopo fatti di ghiaccio. Non riusciva a dormire - e comunque era stato impossibile farlo, negli ultimi tempi. Ma il sonno ebbe il sopravvento a un certo punto della notte, perché si ritrovò in balia di un sogno: Devra gli tendeva le esili braccia bianche, ma nel momento dell'abbandono al suo abbraccio, la sua bocca si spalancava coprendolo di bile nera. Era morta, ma non riusciva ancora a dimenticarla, o a dimenticare quello che aveva provocato dentro di lui: una minuscola fessura nella sua anima granitica, attraverso la quale la luce misteriosa di quella ragazza era riuscita a penetrare, come i primi raggi di sole che sciolgono la neve in primavera. Moira si svegliò percependo l'assenza di Bourne al suo fianco. Rotolò fuori dal letto ancora mezza addormentata, pestando i petali che avevano trovato cosparsi sul pavimento al ritorno dalla serata al beach club. A piedi nudi sul freddo pavimento in piastrelle, raggiunse la porta scorrevole e l'aprì. Bourne era seduto sulla terrazza che si affacciava sullo stretto di Lombok. Strisce di nubi color salmone scorrevano all'orizzonte verso est. Anche se il sole doveva ancora sorgere, la sua luce si irradiava verso l'alto, come un faro che respinge gli ultimi, inermi sprazzi di oscurità. Moira uscì sul terrazzo. L'aria era satura del profumo che diffondeva il vaso di tuberosa sopra il tavolino di malacca. Bourne si accorse di lei quando la porta si richiuse, e si voltò a guardarla. Lei gli appoggiò le mani sulle spalle. «Cosa fai?» «Penso.» Moira si piegò e gli sfiorò l'orecchio con le labbra. «A cosa?» «Al fatto che io sono come un messaggio cifrato, un mistero persino per me stesso.» Come al solito, non c'era traccia di autocommiserazione nelle sue parole, ma soltanto frustrazione. Lei si soffermò un istante a riflettere. «Sai quando sei nato.» «Sì, ma nient'altro.» Moira si spostò di fronte a lui. «Forse c'è qualcuno che può aiutarti.» «Che vuoi dire?» «C'è un uomo che vive a mezz'ora di auto da qui. Ho sentito raccontare storie incredibili sulle sue capacità.» Bourne la guardò. «Stai scherzando, vero?» Lei si strinse nelle spalle. «Scusa, ma che cos'hai da perdere?» Il telefono squillò e, con una scarica di adrenalina che non provava da prima della morte di Devra, Arkadin salì in sella alla moto che aveva noleggiato il giorno antecedente. Ricontrollò una mappa locale e partì. Superato il complesso dei templi a Klungkung, sulla destra di Goa Lawah, l'autostrada scendeva sempre più vicino all'oceano. Poi, le quattro corsie si riducevano da quel punto in avanti a due. A est di Goa Lawah si diresse verso nord, lungo uno stretto sentiero che si inerpicava sui pendii delle montagne. «Tanto per iniziare» esordì Suparwita, «che giorno sei nato?» «Il 15 gennaio» rispose Bourne. Suparwita lo fissò a lungo negli occhi. Era seduto, perfettamente immobile, sul pavimento in terra battuta della sua capanna. Solo i suoi occhi si muovevano attenti e veloci come se stessero eseguendo dei complessi calcoli matematici. «L'uomo di fronte a me non esiste...» «Che vuoi dire?» replicò brusco Bourne. «... quindi non sei nato il 15 gennaio.» «Così è scritto sul mio certificato di nascita.» Era stata Marie in persona a cercarlo. «Tu mi parli di un certificato di nascita» riprese Suparwita scandendo le parole, «che non è altro che un pezzo di carta.» Sorrise e i suoi denti bianchi sembrarono illuminare l'oscurità. «Io so quel che so.» Suparwita era molto grasso, per essere un balinese, e aveva la pelle scura come mogano, perfetta, liscia e senza rughe; era impossibile indovinare la sua età. Aveva tantissimi capelli, neri e mossi, tirati indietro da quella che a Bourne sembrava la stessa fascia a forma di corona che indossava lo spirito del maialino. Le braccia e le spalle erano possenti, ma non muscolose come quelle dei palestrati occidentali. Il corpo glabro era liscio come il vetro. Indossava un tipico pareo balinese bianco, marrone e nero, che gli lasciava scoperto il torso e aveva i piedi scalzi. Dopo colazione Moira e Bourne si erano diretti con una moto a noleggio verso la campagna verde e lussureggiante alla ricerca di una casa con il tetto in paglia, alla fine di un sentiero stretto immerso nella giungla, dove abitava un guaritore chiamato Suparwita, che sosteneva di essere in grado di scoprire dettagli interessanti del passato di Bourne. Suparwita li aveva accolti calorosamente e senza alcuna sorpresa, come se li stesse aspettando. Aveva servito loro del caffè balinese in piccole tazze e delle frittelle alla banana appena cucinate, entrambi addolciti con lo sciroppo di zucchero di palma. «Se il mio certificato di nascita è sbagliato, può dirmi lei in che giorno sono nato?» chiese Bourne. Gli occhi espressivi di Suparwita non avevano cessato di fare calcoli misteriosi. «Trentuno dicembre» rispose il guaritore senza esitazioni. «Vedi, il nostro universo è governato da tre divinità: Brahma, il creatore, Vishnu, il conservatore, e Shiva, il distruttore.» Pronunciò Shiva alla balinese, ossia «Siwa». Fece una pausa, come se non fosse sicuro di voler procedere. «Quando avrai lasciato questo posto, troverai te stesso a Tenganan.» «Tenganan?» ripetè Moira. «Perché mai dovremmo andarci?» Suparwita le sorrise indulgente. «Il villaggio è famoso per la tessitura di ikat doppi. Vikat doppio è sacro, protegge dai demoni del nostro universo. Viene realizzato in soli tre colori, i colori delle nostre divinità. Blu per Brahma, rosso per Vishnu, giallo per Shiva.» Il guaritore consegnò un biglietto a Moira. «A Tenganan comprerai un ikat doppio dal miglior tessitore.» La fissò con uno sguardo severo. «Non te ne dimenticare, mi raccomando.» «Perché me ne dovrei dimenticare?» chiese Moira. Suparwita si concentrò di nuovo su Bourne, come se la domanda di Moira non meritasse risposta. «Il mese in cui sei nato, dicembre, è governato da Shiva, il dio della distruzione.» Dopo un momento di silenzio, riprese: «Ma vorrei che tenessi a mente che Shiva è anche il dio della trasformazione». Il guaritore si girò verso un basso tavolino sul quale erano appoggiate una serie di piccole ciotole piene di polveri diverse e di frutti che sembravano noci o baccelli essiccati. Ne scelse una, ne versò il contenuto in un'altra scodella e lo pestò con un mortaio di pietra. Poi aggiunse un pizzico di polvere gialla e spostò il tutto in un piccolo bollitore in ferro che mise sul fuoco. Una nuvola di vapore fragrante inondò la stanza. Dopo sette minuti Suparwita versò il decotto in un guscio di noce di cocco intarsiato in madreperla. Senza dire una parola, porse la tazza a Bourne. Poiché titubava, il guaritore lo esortò sorridendo: «Bevi, per favore. E un elisir di succo di cocco verde, cardamomo e kencur. Soprattutto kencur. Sai cos'è? Viene anche chiamato "il giglio della resurrezione"». Bourne bevve l'infuso dal sapore di canfora. «Cosa sei in grado di dirmi della vita che io stesso non ricordo?» «Tutto» rispose enigmatico Suparwita, «e niente.» Bourne chiese con disappunto: «Ma cosa significa?». «Non posso rivelarti niente di più, per il momento.» «Ma, a parte la mia vera data di nascita, non mi hai detto nulla.» «Ti ho detto tutto quello che ti occorre sapere.» Suparwita piegò il capo da un lato. «Non sei ancora pronto per ascoltare altro.» Ogni secondo che passava, Bourne si spazientiva sempre di più. «Che cosa te lo fa pensare?» Gli occhi del guaritore si fissarono su quelli di Bourne: «Il fatto che tu non ti ricordi di me». «Ci siamo già incontrati?» «Tu cosa ne dici?» Bourne si alzò di scatto, in preda a una rabbia che non riusciva a controllare. «Sono venuto fin qui perché pensavo di trovare delle risposte, non altre domande.» Il guaritore lo osservò con aria mite. «Sei venuto fin qui con la speranza che ti venisse detto ciò che invece devi scoprire da solo.» «Forza, andiamocene.» Bourne afferrò la mano di Moira e la strattonò. Mentre stavano per uscire, il guaritore gli si rivolse un'ultima volta: «Tutto questo è già successo in passato. E succederà ancora». «E stata un'inutile perdita di tempo» si lamentò Bourne con Moira. Lei salì sulla moto e non disse niente. Mentre ripercorrevano lo stesso sentiero stretto e sterrato da cui erano venuti, un indonesiano dal viso color mogano pieno di rughe emerse dalla giungla a bordo di una moto truccata, si diresse verso di loro ed estrasse una pistola. Bourne fece ruotare la moto su se stessa e si diede alla fuga verso la collina. L'imboscata per fortuna era fallita. Con un'occhiata alla mappa del posto dedusse che da lì a breve sarebbero usciti dalla giungla e avrebbero proseguito sulle risaie terrazzate che circondavano il villaggio di Tenganan. «C'è un sistema di irrigazione che passa sopra le risaie» gli urlò Moira nell'orecchio. Lui annuì, mentre una distesa verde smeraldo si apriva davanti ai loro occhi. Uomini e donne con cappelli a righe e lunghi coltelli erano chini sulle piante di riso. Altri seguivano le mandrie di mucche che procedevano lentamente per arare le zone in cui il riso era già stato raccolto. Quel che rimaneva veniva bruciato, in modo che vi si potessero poi coltivare altri prodotti, come peperoncini, patate o fagiolini, garantendo alla ricca terra vulcanica il giusto apporto di minerali. Donne dall'incedere sicuro portavano enormi sacchi in equilibrio sulla testa. Sembravano funamboli che avanzavano, un piede avanti all'altro, con estrema attenzione, lungo i margini sinuosi e stretti tra una risaia e l'altra. A un tratto si udì uno scoppio. Bourne e Moira si abbassarono sulla moto, mentre le teste dei contadini si sollevarono. L'indonesiano aveva sparato appena era uscito dall'ultimo gruppo di alberi al limitare delle risaie. Bourne cambiò rapidamente direzione, immettendosi sulla stretta serpentina tra le risaie. «Ma che fai?» protestò Moira. «Così all'aperto, senza riparo, saremo dei bersagli facilissimi!» Bourne si diresse a una delle risaie in cui il fuoco era già stato appiccato. Un fumo denso e pungente si alzava verso il cielo limpido. «Prendi una manciata di stoppie quando passiamo di lì!» gridò alla ragazza. Lei capì al volo. Con il braccio destro si strinse alla vita di lui, si piegò sulla sinistra e afferrò una manciata di steli in fiamme per poi lanciarli all'indietro. Una volta lasciati, volarono in aria verso l'inseguitore. L'indonesiano si fermò per qualche istante, poiché non ci vedeva più. Bourne tornò indietro. Piegando verso destra, seguì il sentiero tortuoso attraverso il labirinto di risaie. Doveva stare attento: al minimo errore sarebbero sprofondati nell'acqua torbida, impantanandosi. E a quel punto sarebbero davvero stati dei bersagli facili. L'indonesiano si lanciò di nuovo all'inseguimento, ma prima una donna, poi due mucche gli sbarrarono la strada. Dovette riporre la pistola per non sbandare sul sentiero impervio che Bourne aveva imboccato. Nel tentativo di uscire dalla zona delle risaie, Bourne si lanciò sulla collina, terrazza dopo terrazza. Alcune erano coperte di piante di riso di un verde brillante, altre invece, dove il riso era già stato raccolto, erano piene di cenere. Un odore di fumo aromatizzato si levò nell'aria. «Qui!» urlò Moira. «Qui!» Bourne vide il muro di contenimento del sistema di drenaggio, una lingua di cemento di nemmeno quindici centimetri di lunghezza sulla quale avrebbe dovuto guidare la moto. Attese fino all'ultimo secondo, poi fece una repentina svolta a sinistra, correndo parallelo alle terrazze che si stendevano sotto di loro in un percorso vertiginoso, come geroglifici immensi e misteriosi incisi sui pendii delle colline. Il loro inseguitore riuscì a ridurre la distanza dalla moto. Era ormai vicinissimo, quando un vecchio, magro e con gli occhi piccoli come chicchi di caffè, si parò davanti a Moira e Bourne. L'uomo reggeva in una mano uno di quei coltelli dalla lama larga usati per raccogliere il riso e nell'altra un fascio di piantine. Vedendo le due moto venirgli incontro a quella velocità, rimase di sasso. Quando gli fu abbastanza vicino, Bourne gli sfilò il coltello di mano. Pochi secondi dopo, Jason scorse alla sua destra un'asse di legno a guisa di ponte sul canale d'irrigazione che portava nella giungla. Ci passò sopra, ma la tavola mezza marcia scricchiolò e si spezzò proprio mentre la ruota anteriore atterrava sul terriccio dalla parte opposta. La moto sbandò pericolosamente, mandando Bourne e Moira quasi a sbattere contro gli alberi. L'indonesiano accelerò e saltò il ponte distrutto. Seguì Bourne e Moira lungo un ripido sentiero in discesa disseminato di rocce e radici mezze bruciate. La strada si faceva sempre più scoscesa, e Moira si strinse ancora più forte a Bourne, che poteva sentire il battito impazzito del cuore di lei, e il respiro caldo contro la guancia. Gli alberi sfrecciavano da entrambe le parti. Alcune rocce fecero impennare la moto come un cavallo imbizzarrito, imponendo a Jason uno sforzo enorme per controllarla. Il minimo errore li avrebbe gettati fuori strada, in mezzo alla fitta foresta, piena di alberi dal tronco enorme. A un certo punto comparvero degli scalini in pietra, sui quali passarono saltando e rombando a una velocità mozzafiato. Moira si arrischiò a guardare indietro e vide l'indonesiano piegato sul manubrio della sua moto, tutto concentrato. All'improvviso la scalinata terminò e il sentiero riprese, adesso meno scosceso. L'inseguitore cercò di mirare con la pistola, ma Bourne tagliò dei tronchi di bambù con il coltello sottratto all'anziano contadino, e ostruì il sentiero. L'uomo dal viso di mogano fu costretto a tenere la pistola con i denti. Ci volle tutta la sua abilità per evitare che la moto uscisse di strada. Quando il sentiero si fece di nuovo pianeggiante, Bourne e Moira oltrepassarono rapidi delle piccole baracche, accanto alle quali degli uomini tagliavano legna o rimestavano in pentoloni sul fuoco, mentre alcune donne tenevano in braccio i loro bambini. Al passaggio della moto, cani randagi, scheletrici e impauriti, scappavano. Era chiaro che si stavano avvicinando a un villaggio. Bourne si chiese se potesse essere Tenganan. Chissà se Suparwita aveva previsto l'inseguimento. Poco dopo passarono sotto un arco di pietra ed entrarono nel villaggio vero e proprio. Alcuni bambini che giocavano a badminton fuori dalla scuola si fermarono a guardare le moto che schizzavano via. Le galline si sparpagliarono ovunque, mentre i galli da combattimento con le piume dipinte di rosa e arancione si agitarono così tanto che rovesciarono le gabbie di vimini, disturbando a loro volta mucche e vitelli che pascolavano pigri al centro del villaggio. Gli abitanti uscirono dalle loro case inseguendo i preziosissimi galli da combattimento. Al pari di tutti i villaggi di collina, anche questo si estendeva su alcune terrazze, come le risaie: zone di terra compatta ed erba incolta si alternavano a rampe di pietra aggettanti al livello superiore. In basso, verso il centro dell'abitato, era stata costruita una tettoia per le riunioni degli anziani. Su entrambi i lati della strada sorgevano negozi che vendevano ikat singoli e doppi. In tutto quel caos, Bourne sentì un brivido corrergli lungo la schiena. E così, quello era Tenganan, il villaggio che Suparwita aveva visto nel suo futuro. Al suo passaggio, Jason strappò un filo con degli abiti stesi ad asciugare che ondeggiò nell'aria come un serpente prima di sbattere contro l'inseguitore. Guidando con maestria la moto in un vicolo stretto, riprese la strada da dove erano venuti. Purtroppo si accorse di non essere riuscito a seminare l'indonesiano, che sopraggiungeva rombando, per nulla disturbato dalla biancheria che gli era finita addosso. Accelerando, Bourne riuscì a distanziare l'inseguitore quel tanto che bastava per compiere un'inversione a U, cambiare di nuovo direzione e uscire dal villaggio. Ancora una volta, però, l'inseguitore non sembrò sorpreso, quasi come se si aspettasse una mossa del genere. Accelerò, estrasse la pistola e sparò, costringendo Bourne a girare velocemente la moto e a invertire il senso di marcia, mentre un secondo proiettile gli sfiorava la spalla sinistra. Jason continuò a procedere sulle terrazze nel tentativo di seminare l'uomo tenace che aveva alle calcagna. Nascosto all'ombra della foresta, Leonid Arkadin udì il boato dei motori sovrastare i canti provenienti dal tempio sulla cui terrazza si era appostato. Da qui aveva un'eccellente visuale. Sollevò il Parker Hale M85 in modo che il calcio aderisse alla perfezione alla spalla e guardò nel mirino Schmidt & Bender. Era calmo, adesso: l'agitazione aveva lasciato il posto a un ardore fatto di astuzia e curiosità che bruciava tutto ciò che era estraneo al suo obiettivo, lasciandogli la mente sgombra come un cielo azzurro e quieta come la foresta in cui si era nascosto, simile a una vipera su un albero in paziente attesa della sua preda. Il piano era perfetto. Si era servito dell'indonesiano come un cacciatore di un battitore per stanare la preda e farla avvicinare il più possibile. A un tratto una moto comparve nella radura dei templi. Arkadin fece un profondo respiro, mentre teneva Bourne sotto tiro. E in quel momento la sagoma del suo nemico si disegnò nitida nel mirino. Il russo stava per sorbire il nettare avvelenato della vendetta. Bourne e Moira irruppero nella radura dove si innalzavano tre templi, uno più largo al centro e due più piccoli ai lati. Udendo i cori provenienti dall'interno del tempio principale, Jason si fermò. In quell'istante, Arkadin, sistematosi su un ramo quasi orizzontale, premette il grilletto; Bourne venne scaraventato giù dalla moto e Moira gridò. Messo da parte il fucile, Arkadin impugnò un coltellaccio con la lama seghettata, balzò giù dall'albero e corse verso la radura per tagliare la gola del suo nemico e assicurarsi che fosse morto davvero. Ma il suo piano fu ostacolato da una mandria di mucche seguite da alcune donne che portavano offerte di frutti e fiori sulla testa ed erano accompagnate dai bambini del villaggio che sfilavano in processione verso il tempio. Arkadin cercò di superarli, ma una mucca, infastidita dai suoi movimenti bruschi, si voltò verso di lui scuotendo le lunghe corna appuntite. Il gruppo si fermò all'improvviso, gli occhi di tutti fissi su di lui. Dopo aver dato un'occhiata al corpo insanguinato di Bourne, Arkadin si dileguò nella giungla. La processione raggiunse il luogo dell'agguato; le offerte furono lasciate sull'erba rada dove Jason giaceva di schiena. Bourne cercò di alzarsi, ma non ci riuscì. Trasse Moira a sé, per parlarle all'orecchio. Il sangue gli aveva macchiato la camicia, e ora gocciolava sul terreno. Capitolo 1 Tre mesi dopo In un esclusivo quartiere di Monaco, due guardie del corpo con occhio indagatore e Glock 9mm infilate nelle fondine ascellari scortavano un uomo magro e iperattivo appena uscito da un appartamento. Un secondo uomo, più anziano, con la pelle più scura e rughe profonde che partivano da entrambi gli angoli della bocca, emerse dall'ombra che lo proteggeva per stringere la mano all'altro. Poi, quest'ultimo e i due bodyguard scesero le scale e salirono su un'auto che li stava aspettando. Una delle guardie del corpo prese posto davanti, mentre l'altra occupò il sedile posteriore insieme all'uomo magro. La riunione era stata intensa ma breve, il motore era già acceso e ronzava come un gatto che fa le fusa. La sua mente era occupata a pensare come avrebbe strutturato le domande da rivolgere al suo capo, Abdullah Khoury, riguardo ai rapidi cambiamenti della Turchia che gli avevano appena presentato. Il mattino da poco iniziato era ancora sonnolento, pigro e silenzioso. Gli alberi, curati e carichi di foglie, proiettavano sul marciapiede macchie d'ombra color inchiostro. L'aria era fresca, il caldo cocente avrebbe schiarito il cielo solo di lì a qualche ora. Il momento dell'appuntamento era stato scelto di proposito. Come previsto, non c'era traffico. C'era in giro solo un ragazzo che, in fondo all'isolato, cercava di imparare ad andare in bicicletta. Il camion della nettezza urbana svoltò l'angolo all'estremità opposta della via, e le sue enormi spazzole iniziarono a fargli ingurgitare quel poco sporco depositato sulla strada quasi immacolata. Era tutto normale: la maggior parte degli abitanti di quel quartiere esercitava una discreta influenza sull'amministrazione comunale, e andava molto fiera del fatto che le loro strade fossero le prime a essere pulite ogni mattina. Mentre l'auto prendeva velocità lungo la via, l'enorme camion cambiò direzione e riprese ad andare nel senso opposto a quello del veicolo che stava sopraggiungendo, bloccando il passaggio. Senza alcuna esitazione, l'autista ingranò la retromarcia e premette il piede sull'acceleratore. L'auto schizzò indietro facendo stridere le gomme e si allontanò dal camion. Al rumore delle ruote, il ragazzo alzò la testa. Era in piedi e teneva la bici ferma, come se stesse riprendendo fiato. Ma, all'ultimo momento, quando la vettura gli si avvicinò, infilò una mano nel cestino in vimini ed estrasse una strana arma dalla canna lunghissima. Il lanciagranate esplose un colpo, il lunotto posteriore dell'auto andò in mille pezzi e la macchina si trasformò in una palla di fuoco arancione e nera. Il ragazzo, curvo sul manubrio della bici, si allontanò pedalando veloce con un sorriso di soddisfazione dipinto sul volto. Intorno alle dodici di quello stesso giorno, Arkadin si trovava in una birreria di Monaco e ascoltava musica popolare circondato da tedeschi ubriachi, quando il cellulare iniziò a vibrare. Riconobbe il numero, uscì dal locale per cercare un posto un po' meno chiassoso e salutò l'interlocutore con un grugnito, senza dire una parola. «Il tuo tentativo di distruggere la Fratellanza Orientale è fallito, come tutti gli altri.» La fastidiosa voce di Abdullah Khoury ronzò nelle sue orecchie come un'ape. «Hai ucciso il mio ministro delle Finanze stamattina. È tutto qui quello che sai fare? Ne ho già nominato un altro.» «Forse non hai capito. Non ho alcuna intenzione di distruggere la Fratellanza Orientale» ribatté Arkadin. «Io voglio prenderne il comando.» La risposta fu una risata stridula, priva di umorismo e del tutto incolore. «Non importa quanti dei miei riuscirai a fare fuori, Arkadin. Io, ti assicuro, sopravviverò sempre.» Moira Trevor era seduta dietro la sua nuova scrivania in vetro e acciaio, nei nuovi uffici della Heartland Risk Management LLC, la sua nuova società, che occupava i primi due piani di un edificio postmoderno nel cuore del nordest di Washington. Parlava al telefono con Steve Stevenson - uno dei contatti che aveva al Dipartimento della Difesa - di un incarico redditizio che le era stato affidato. In effetti gliene erano stati offerti molti, nelle ultime cinque settimane. Nel frattempo dava un'occhiata ai vari rapporti giornalieri dell'intelligence sul suo computer. Di fianco allo schermo c'era una foto di lei e Jason Bourne. Sullo sfondo si intravedeva il monte Agung, il vulcano sacro, che avevano scalato una mattina presto, prima che il sole di Bali illuminasse con i suoi raggi l'orizzonte. Aveva il volto disteso e sembrava più giovane di dieci anni. E Bourne sorrideva in quel modo enigmatico che le piaceva tanto. Quando aveva quell'impressione, lei passava i polpastrelli lungo il contorno delle sue labbra, come una non vedente che potesse cogliere un significato nascosto con le dita. Suonò l'interfono e lei sobbalzò, realizzando che stava fissando la fotografia con la mente rivolta al passato - come ormai le succedeva spesso -, a quei giorni meravigliosi trascorsi a Bali prima che Jason venisse ucciso a Tenganan. Diede un'occhiata all'orologio elettronico sulla sua scrivania, si ricompose, terminò la sua telefonata e, nel microfono dell'interfono, disse: «Lo faccia entrare». Pochi istanti dopo, Noah Perlis entrò nell'ufficio. Era il suo vecchio capo alla Black River, un esercito mercenario privato a cui gli Stati Uniti si rivolgevano per occuparsi dei punti caldi in Medio Oriente. La società di Moira ne era ora la diretta concorrente. Il viso aguzzo di Perlis era più giallognolo che mai, i capelli ancora più grigi. Il naso lungo incombeva come la spada di Damocle su una bocca che si era dimenticata come si sorride. Si vantava di essere in grado di cogliere l'essenza più profonda delle persone. La cosa risultava ironica, dato che stava talmente sulla difensiva da risultare inaccessibile persino a se stesso. Moira indicò una delle nuove sedie di pelle e acciaio cromato di fronte alla scrivania. «Accomodati.» Noah rimase in piedi come se stesse già per andarsene: «Sono venuto solo per dirti di smetterla di rubarci il personale». «Dunque sei qui in veste di comune messaggero?» Moira alzò lo sguardo e sorrise accomodante, anche se, d'istinto, avrebbe fatto tutt'altro. I suoi occhi marroni, spalancati e inquisitori, non lasciavano trasparire alcuna emozione. Il suo viso aveva un'espressione stranamente forte o intimidatoria, a seconda del punto di vista. Tuttavia, la calma straordinaria di cui era dotata le era già stata utile in altre situazioni di tensione come quella. Bourne l'aveva avvertita, prima ancora che fondasse la Heartland, che quel momento sarebbe giunto. E qualcosa dentro di lei lo stava aspettando con ansia. Noah era venuto come rappresentante della Black River, e Moira era stata alle sue dipendenze per troppo tempo. Dopo aver fatto alcuni passi verso di lei, Perlis prese la foto incorniciata dalla scrivania e la osservò. «Che peccato, per il tuo ragazzo!» disse. «Ucciso in un villaggio schifoso nel bel mezzo del nulla. Devi aver sofferto parecchio.» Moira non aveva alcuna intenzione di permettergli di farle perdere il controllo. «Che piacere rivederti, Noah.» Perlis rimise a posto la foto, sogghignando: «La classica frase che usa chi mente in maniera educata». Moira mantenne un'espressione innocente, un'ottima corazza contro i colpi e le frecciatine di Noah. «Perché dovremmo continuare a usare l'educazione tra di noi?» L'uomo ritornò in posizione eretta, con le mani strette talmente forte che le nocche erano diventate bianche. Forse Noah avrebbe preferito mettergliele attorno al collo e strozzarla. «Sto parlando seriamente, cazzo!» I suoi occhi si fissarono su quelli della ragazza. Noah sapeva incutere terrore, quando voleva. «Non puoi più tornare indietro, Moira, ma se continui su questa strada...» Scosse la testa in segno di avvertimento. Moira si strinse nelle spalle. «Non c'è problema. La gente rimasta a lavorare per te non soddisfa i miei requisiti morali.» Queste parole lo rilassarono a tal punto da indurlo a usare tutt'altro tono: «Perché ti comporti così?». «Perché mi fai una domanda di cui conosci già la risposta? Perché c'è bisogno di un'alternativa legittima alla Black River, in cui non si agisca al limite della legalità per poi oltrepassarla appena possibile.» «Questo è un lavoro sporco, e tu lo sai meglio di chiunque altro.» «Certo che lo so. E il motivo che mi ha spinta a fondare la mia società.» Si alzò e si appoggiò alla scrivania. «L'Iran è nel mirino di tutti. Non me ne starò buona in disparte permettendo che si ripeta quello che è successo in Afghanistan e in Iraq.» Noah girò sui tacchi e uscì dall'ufficio. Con una mano ancora sulla maniglia della porta, si voltò e le lanciò uno sguardo intenso e freddo, uno dei suoi vecchi trucchi. «Sai benissimo di non poter contenere il flusso di acqua sporca. Non essere ipocrita, Moira. Muori dalla voglia di sguazzare nel fango in cui siamo immersi tutti noi, perché alla fin fine è solo questione di soldi.» I suoi occhi brillavano di una luce oscura. «Ci sono miliardi di dollari da guadagnare allo scoppio di una guerra in uno scenario tutto nuovo.» *** Capitolo 2 Bourne è a Tenganan, disteso a terra, e sussurra qualcosa all'orecchio di Moira. «Di' a tutti...» Lei è curva su di lui, tra la polvere e il sangue che scorre, e tiene in mano il cellulare. «Non muoverti, Jason. Sto chiamando aiuto.» «Di' a tutti che sono morto» dice Bourne prima di perdere conoscenza. Jason Bourne si svegliò dal suo sogno ricorrente, sudato tra le lenzuola. La calda notte tropicale era oscurata dalle zanzariere che lo circondavano. Da qualche parte, sulle montagne, stava piovendo. I fulmini colpirono il suo udito come zoccoli, il vento leggero e umido sul petto nudo accarezzava la ferita che si stava cicatrizzando. Erano passati tre mesi da quando il proiettile lo aveva colpito, tre mesi da quando Moira aveva eseguito i suoi ordini alla lettera. Ora, chiunque lo conoscesse, lo credeva morto. Tre persone soltanto sapevano la verità: Moira, Benjamin Firth, il chirurgo australiano che viveva al villaggio di Manggis, da cui Moira lo aveva portato, e Frederick Willard, l'ultimo componente rimasto della Treadstone, nonché l'uomo che aveva rivelato a Bourne il tipo di addestramento a cui era stato sottoposto Leonid Arkadin in quel programma. Era stato Willard, contattato da Moira su richiesta di Bourne, a rimetterlo a nuovo non appena il dottor Firth aveva dato il via libera. «E una fortuna che tu sia ancora vivo, amico» aveva detto Firth, quando Bourne aveva ripreso conoscenza dopo la prima delle due operazioni subite. Moira era presente. Aveva da poco terminato di organizzare ufficialmente il rimpatrio della «salma» di Bourne negli Stati Uniti. «Se non fosse stato per un'anomalia cardiaca congenita, saresti morto sul colpo. Chi ti ha sparato sapeva bene dove mirare.» Poi aveva afferrato l'avambraccio di Jason e aveva sfoderato un sorriso tirato: «Non preoccuparti, amico. Ti rimetteremo in sesto nel giro di un mese o due». Un mese o due. Bourne ascoltò la pioggia torrenziale farsi più vicina, si distese fino a toccare il tessuto àeWikat doppio che pendeva vicino al suo letto, e si sentì più tranquillo. Tornò con la mente alle lunghe settimane in cui era stato costretto a rimanere nella sala operatoria del dottore di Bali; per ragioni di salute, ma anche di sicurezza. Per molti giorni dopo la seconda operazione tutto quello che riusciva a fare era mettersi seduto. Durante quel periodo, fatto di cure e medicine, Bourne aveva scoperto il segreto del dottor Firth: era un bevitore accanito. Si poteva essere certi di trovarlo sobrio solo quando aveva un paziente disteso sul tavolo operatorio. Dimostrava di essere un bravissimo chirurgo, quando stava alla larga dall'arak, il liquore di palma tipico di Bali, talmente forte che lo usava persino per pulire la sala operatoria e gli strumenti chirurgici quando si dimenticava di ordinare l'alcol puro. Bourne era venuto a sapere anche perché il dottore viveva nascosto e lontano dal mondo. Era stato bandito da tutti gli ospedali dell'Australia occidentale. All'improvviso l'attenzione di Jason si concentrò all'esterno. Il dottore entrò nella stanza dalla parte opposta dell'ambulatorio rispetto alla sala operatoria. «Firth» lo apostrofò Jason, sedendosi. «Che ci fai qui a quest'ora della notte?» Il dottore si lasciò andare con un tonfo sulla poltrona di vimini vicina al muro. Zoppicava visibilmente: aveva una gamba più corta dell'altra. «I fulmini e i lampi non mi piacciono» rispose. «Sembri un bambino.» «Sì, per molti aspetti lo sono» annuì il dottore. «Ma, a differenza di tanti altri, io lo ammetto.» Bourne accese la lampada. Un cono di luce illuminò il letto e il pavimento circostante. Mentre i tuoni si facevano sempre più vicini, Firth andò verso la luce, come se cercasse protezione. Teneva in mano una bottiglia di arak. «La tua fedele compagna» osservò Bourne. Il dottore contrasse il viso in una smorfia. «Stanotte non basterà nemmeno tutto l'alcol del mondo...» Jason allungò la mano verso Firth perché gli passasse la bottiglia, bevve qualche sorso e poi gliela restituì. Nonostante fosse seduto comodamente, il medico era tutto fuorché rilassato. Lo schianto dei tuoni squarciava il cielo, e in un attimo l'acquazzone si abbatté sul tetto in paglia dell'ambulatorio con il fracasso di un colpo di pistola. «Spero di convincerti a rallentare un po' con l'allenamento.» «Perché dovrei farlo?» domandò Bourne. «Perché Willard sta esagerando.» Firth si passò la lingua sulle labbra, come se il suo corpo desiderasse un altro sorso di arak. «E il suo lavoro.» «Sì, ma non è un dottore. Non è stato lui a tagliarti e a ricucirti.» Si strinse la bottiglia tra le gambe. «E poi me la faccio sotto dalla paura quando lo vedo.» «Tu te la fai sempre sotto!» «No, non è vero, non sempre.» Il dottore si fermò, mentre un tuono rimbombava nell'aria. «Davanti a un cadavere maciullato non faccio una piega.» «Un corpo maciullato non può replicare» puntualizzò Jason. Firth sorrise triste. «Tu non hai avuto gli incubi che hanno assalito me.» «Be', può darsi.» Bourne si vide di nuovo a Tenganan, disteso a terra e coperto di sangue. «Ma io ho i miei.» Il silenzio regnò per qualche istante. Poi Bourne fece una domanda, ma non arrivò nessuna risposta: il dottore ronfava beato, e lui tornò a distendersi sul letto, chiuse gli occhi e sperò di addormentarsi. Prima che la pallida luce del giorno lo svegliasse, era tornato ancora una volta a Tenganan, dove il profumo al muschio di Moira si mescolava all'odore del suo sangue. «Ti piace?» Moira sollevò Vikat intessuto con i colori di Brahma, Vishnu e Shiva: blu, rosso e giallo. L'intricato motivo rappresentava fiori intrecciati; frangipani, forse. Dato che i colori usati erano tutti naturali - alcuni a base di acqua, altri di olio -, ci voleva un anno e mezzo o due per completare il lavoro. Il giallo, che corrispondeva a Shiva il distruttore, avrebbe poi impiegato altri cinque anni per ossidarsi e rivelare la tonalità finale. Sugli ikat doppi il motivo veniva dipinto sull'ordito e sulla trama di modo che, una volta tessuti, i colori risultassero puri; negli ikat singoli, invece, il motivo veniva realizzato in una sola parte del filato, mentre la restante presentava un unico colore di sfondo, spesso il nero. In ogni casa balinese un ikat doppio era appeso al muro in un posto degno di onore e rispetto. «Sì» rispose Bourne. «Mi piace molto.» Stava per recarsi alla sala operatoria per il primo dei due interventi che avrebbe subito. «Suparwita ha detto che era importante che io prendessi un ikat doppio per te.» Gli si avvicinò. «E sacro, Jason, ricordi? Brahma, Vishnu e Shiva ti proteggeranno dal male e dalla malattia. Farò in modo che ti sia sempre vicino.» Poco prima che il dottor Firth lo conducesse nella sala operatoria, lei si chinò sopra di lui e gli sussurrò in un orecchio: «Andrà tutto bene, Jason. Hai bevuto il tè con il kencur». Kencur, pensò Bourne mentre Firth gli iniettava l'anestetico. Il giglio della resurrezione. Mentre Benjamin Firth gli apriva il corpo, quasi senza speranza che potesse sopravvivere, Jason sognò di un tempio sulle montagne balinesi. Al di là dei cancelli intarsiati e dipinti di rosso, si ergeva la fosca piramide del monte Agung, blu e imponente sullo sfondo giallo del cielo. Gli sembrava di contemplare la scena da una grande altezza, e guardandosi attorno si rese conto di trovarsi sul gradino più alto di una scalinata tripla molto ripida, circondato da sei feroci dragoni di pietra, le cui zanne scoperte erano lunghe venti centimetri. I corpi degli animali mitici seguivano ondulati entrambi i lati delle tre scale, formando dei solidi corrimani. Quando Bourne volse di nuovo lo sguardo ai cancelli e al monte Agung, notò una figura stagliarsi contro il vulcano sacro, e il cuore iniziò a battergli forte in petto. Il sole stava tramontando di fronte a lui; si schermò gli occhi con una mano sforzandosi di identificare la figura che si era appena girata verso di lui. Provò dolore e piacere insieme. In quel preciso istante, il dottor Firth scoprì la curiosa anomalia nel cuore di Bourne e si mise al lavoro, sapendo di avere una possibilità di salvare il suo paziente. Quattro ore dopo, il chirurgo, stanco ma soddisfatto, accompagnò Bourne nella stanza di convalescenza adiacente alla sala operatoria. Quella sarebbe diventata la sua casa per le sei settimane successive. Moira li stava aspettando. Era pallida come un cencio, l'ansia le serrava lo stomaco. «Ce... ce la farà?» balbettò. «Mi dica che ce la farà, dottore!» Firth si abbandonò stancamente su una sedia pieghevole, mentre si toglieva i guanti. «Il proiettile lo ha attraversato in modo netto. Il che è positivo, perché non l'ho dovuto estrarre. Ritengo che possa farcela, signorina Trevor. Ma nella vita nulla è certo, soprattutto in medicina.» Mentre Firth si faceva il primo goccio di arak della giornata, Moira si avvicinò a Bourne con un misto di euforia e trepidazione. Nelle ultime quattro ore era stata talmente terrorizzata che aveva temuto le venisse un infarto. La stessa cosa, pensava, che doveva aver provato Jason. Guardandogli il volto pallidissimo ma sereno, gli prese le mani e gliele strinse forte per ristabilire una connessione fisica tra di loro. «Jason» lo chiamò. «È ancora sotto anestesia» la avvertì Firth. «Non può sentirla.» Moira lo ignorò. Cercò di scacciare l'immagine del foro nel petto di Bourne sotto le bende, ma non ci riuscì. I suoi occhi erano colmi di lacrime, come lo erano stati per tutta la durata dell'intervento, ma l'abisso di disperazione sul ciglio del quale aveva camminato si stava pian piano richiudendo. Però sentiva ancora aleggiare la minaccia che li aveva fatti precipitare in quell'incubo. «Jason, ascoltami. Suparwita sapeva quello che ti sarebbe successo e ti ha preparato nel miglior modo possibile. Ti ha fatto bere il kencur, e mi ha detto di comprare un ikat doppio per te. Entrambi ti hanno protetto, io lo so, anche se tu non ci crederai mai.» La luce del mattino inondò la stanza dei tenui colori del rosa e del giallo sullo sfondo di un cielo azzurrino. Brahma, Vishnu e Shiva si stavano librando in aria quando Bourne aprì gli occhi. La tempesta della notte precedente aveva dissolto la striscia di foschia provocata dagli steli di riso dati alle fiamme nelle risaie sui pendii delle colline. Bourne si mise seduto e il suo sguardo cadde sull'ikat doppio. Stringendo il tessuto ruvido tra le mani, vide, come in un flash, la figura che si frapponeva tra lui e il monte Agung, incorniciata dai cancelli del tempio, e si chiese chi mai potesse essere. *** Capitolo 3 La cabina del volo di linea 891 decollato dal Cairo ferveva di attività. Il pilota e il copilota, amici di lunga data, scherzavano sull'assistente di volo che si sarebbero volentieri portati a letto. Stavano scommettendo su chi per primo avrebbe conquistato la bella hostess, quando sullo schermo del radar comparve un segnale luminoso intermittente in avvicinamento. Attenendosi alla procedura, il pilota attivò l'interfono e ordinò ai passeggeri di allacciarsi le cinture di sicurezza, poi tentò di portare l'aereo fuori dalla rotta prestabilita con una manovra evasiva. Ma il 767 era troppo grande. Non era stato progettato per manovre rapide. Il copilota cercò di ottenere un fermo immagine dell'oggetto, mentre chiamava via radio la torre di controllo del Cairo. «Volo Otto-Nove-Uno, nessun volo di linea in avvicinamento» rispose l'addetto in tono calmo. «Avete già un fermo immagine?» «Non ancora. Il velivolo è molto piccolo, forse è un jet privato» suggerì il copilota. «Non ci sono voli previsti. Ripeto: nessun piano di volo registrato.» «Ricevuto» disse il copilota. «Ma continua ad avvicinarsi.» «Otto-Nove-Uno, salite a quattordicimila metri.» «Ricevuto.» Il pilota obbedì, regolando i comandi sul pannello di controllo. «Stiamo salendo a quarantacinque...» «Eccolo, lo vedo!» lo interruppe il copilota. «Va troppo veloce per essere un jet privato!» «Che cos'è?» La voce della torre di controllo aveva assunto un tono allarmato. «Che sta succedendo? Otto-Nove-Uno, rispondete!» «Eccolo!» urlò il pilota. Un istante dopo, l'aereo di linea fu avvolto da una fiammata accecante. Seguì un'esplosione devastante che frantumò la fusoliera, come una bestia che con una zampata lacera la sua preda, e i resti contorti e anneriti del 767 piombarono a terra a una velocità sorprendente. Ben al di sotto dell'ala ovest della Casa Bianca, in un'ampia stanza di cemento armato rinforzato da un'anima d'acciaio spessa oltre due metri, il presidente degli Stati Uniti d'America partecipava a una riunione di massima sicurezza in cui erano presenti il segretario alla Difesa Halliday; la direttrice della CIA Veronica Hart;Jon Mueller, capo del Dipartimento della Sicurezza Interna e Jaime Hernandez, il nuovo zar dell'intelligence che aveva assunto il controllo della NSA sulla scia dello scandalo che aveva affondato il suo predecessore. Halliday, rubicondo, i capelli biondi pettinati all'indietro, gli occhi scaltri da politico e il sorriso smagliante, leggeva un rapporto scritto per la Sottocommissione del Senato. «Dopo mesi di duro lavoro preparatorio, giudiziose ricompense e ispezioni discrete» disse, «la Black River ha finalmente stabilito il primo contatto con un gruppo di dissidenti iraniani filoccidentali.» Fece una pausa; proprio come un vero uomo di spettacolo, fissò i volti raccolti intorno al tavolo lucido, cercando lo sguardo di tutti i presenti. «Questa è una notizia strepitosa» aggiunse senza motivo e facendo un cenno al presidente. «E quello che l'amministrazione ha cercato di ottenere per anni, dato che l'unico gruppo dissidente noto si è finora rivelato inutile.» Halliday era più eloquente del solito e la Hart pensava di conoscerne il motivo. Anche se le sue quotazioni erano salite grazie alla morte di Jason Bourne per la quale si era tanto adoperato e poi preso tutto il merito, la Hart sapeva che Halliday aveva bisogno di un'altra vittoria, una vittoria che implicasse la diplomazia internazionale e di cui il presidente avrebbe potuto vantarsi come un suo personale successo politico. «Per lo meno è un gruppo con cui possiamo lavorare» continuò Halliday con grande entusiasmo, mentre distribuiva il rapporto preparato dalla Black River con il dettaglio di date e luoghi di incontri, con tanto di trascrizioni di alcune intercettazioni telefoniche intercorse tra alcuni membri della Black River e gli esponenti di spicco del gruppo dissidente, i cui nomi erano stati criptati per motivi di sicurezza. Veronica Hart notò che tutti i colloqui sottolineavano sia la loro militanza, sia l'impegno di accettare l'aiuto occidentale. «Sono senza ombra di dubbio filoccidentali» concluse il segretario, come se il suo pubblico necessitasse di una guida verbale per affrontare le pagine dense di informazioni. «Inoltre, si stanno preparando a una rivoluzione armata e attendono impazienti tutto il sostegno che possiamo offrire.» «Quali sono le loro reali capacità?» chiese Jon Mueller, che aveva l'aria del tipico ex membro della NSA, da soldato sopravvissuto a una battaglia in cui ha visto ogni sorta di orrori e atrocità. Il suo fisico imponente sembrava in grado di spezzare il corpo di un uomo come fosse uno stuzzicadenti. «Ottima domanda, Jon. Se andate a pagina trentotto, potrete prendere visione delle valutazioni forniteci dalla Black River sulla preparazione e la competenza in fatto di armi di questo gruppo. Entrambe sono pari: otto su dieci della loro scala di valutazione.» «Sembra affidarsi molto al lavoro della Black River, signor segretario» intervenne la Hart in tono asciutto. Halliday non la degnò nemmeno di uno sguardo. Erano stati i suoi uomini Soraya Moore e Tyrone Elkins - a far affondare Luther LaValle, suo protettore. La odiava con tutto se stesso, ma la direttrice della CIA sapeva che Halliday era un politico troppo scaltro e non avrebbe mai mostrato la sua ostilità di fronte al presidente, che invece per lei nutriva la massima stima. Il segretario alla Difesa annuì saggiamente. «Vorrei davvero che non fosse così, direttrice. Non è un segreto che siamo a corto di risorse a causa dei conflitti in Afghanistan e Iraq, e ora che l'Iran costituisce un pericolo presente e concreto, ci troviamo obbligati ad appaltare una fetta sempre più consistente del nostro lavoro, concedendo sempre maggiore libertà d'azione al nostro gruppo di intelligence.» «Forse è la NSA che si trova obbligata. La CIA ha creato la Typhon lo scorso anno proprio per le questioni mediorientali» puntualizzò Veronica Hart, e proseguì: «Tutti gli agenti della Typhon parlano fluentemente i vari dialetti arabi e il farsi. Mi dica, signor segretario, quanti agenti della NSA sono altrettanto preparati?». La Hart notò il rossore salire dal collo di Halliday fino alle guance, e si piegò in avanti, come a parare lo scoppio d'ira imminente. Purtroppo la riunione fu interrotta dal suono del telefono blu alla destra del presidente. Su tutta la stanza cadde un silenzio così assoluto che il minimo rumore aveva la risonanza di un martello pneumatico. Il telefono blu portava solo brutte notizie, lo sapevano tutti. Con espressione crucciata il presidente alzò la cornetta e se la portò all'orecchio: gli arrivò la voce del generale Leland dal Pentagono che gli riferì qualcosa; un documento più dettagliato sarebbe arrivato alla Casa Bianca nel giro di un'ora e mezza. Il presidente reagì alla notizia con la sua solita calma. Non era tipo da prendere decisioni affrettate o farsi sopraffare dal panico. Mentre riattaccava annunciò: «C'è stato un disastro aereo. L'Otto-Nove-Uno, decollato dal Cairo, è esploso in aria». «Una bomba?» chiese il nuovo zar dell'intelligence. Era un uomo magro e attraente, con due occhi calcolatori scuri come la pece. Sembrava uno di quelli che contano i ravioli nel piatto per accertarsi di non essere stati imbrogliati. «Ci sono superstiti?» si informò la Hart. «Non sappiamo rispondere a nessuna delle due domande, per il momento» rispose il presidente. «Quello che sappiamo è che c'erano 181 persone, su quell'aereo.» «Santo cielo!» La Hart scosse la testa. Ci fu un momento di silenzio attonito, mentre tutti contemplavano l'enormità della catastrofe e le terribili ripercussioni che avrebbe potuto avere. Qualunque fosse stata la causa, tantissimi civili americani erano morti, e se la peggiore delle ipotesi si fosse rivelata vera, se si fosse provato che quei cittadini americani erano stati vittime di un attacco terroristico... «Signore, credo che l'unica cosa da fare sia mandare una squadra congiunta formata da membri della NSA e del Dipartimento della Sicurezza Interna sul luogo del disastro» intervenne Halliday nel tentativo di assumere il controllo della situazione. «Non sgomitiamo tra di noi» replicò Veronica Hart. Le parole di Halliday avevano risvegliato tutti dallo shock iniziale. «Questo non è l'Iraq. Avremo bisogno del permesso del governo egiziano per inviare le nostre truppe laggiù.» «Ma si tratta di cittadini americani, nostri connazionali fatti saltare in aria!» ribatté Halliday. «Che gli egiziani vadano al diavolo, che cos'hanno fatto per noi, negli ultimi tempi?» Prima che la foga prendesse il sopravvento, il presidente sollevò la mano. «Una cosa alla volta. Veronica ha ragione.» Si alzò in piedi e proseguì: «Continueremo questa discussione dopo che avrò parlato con il presidente egiziano». Esattamente un'ora dopo il presidente rientrò nella stanza, fece un cenno ai presenti e si sedette prima di rivolgersi a loro. «Bene, è deciso. Hernandez, Mueller, organizzate una task force congiunta composta dai vostri migliori uomini e mandatela subito al Cairo. Prima cosa: superstiti. Seconda: identificate i feriti. Terza: accertate le cause dell'esplosione, per l'amor di Dio.» «Se posso permettermi, signore» intervenne la Hart, «suggerisco di includere Soraya Moore, direttrice della Typhon, nella squadra. E mezza egiziana. La sua conoscenza profonda dell'arabo e degli usi e costumi locali ci tornerà utile nei rapporti con le autorità egiziane.» Halliday scosse la testa e disse con impeto: «La questione è già abbastanza complicata senza il coinvolgimento di una terza agenzia. La NSA e il Dipartimento della Sicurezza Interna hanno a disposizione tutti gli strumenti necessari per gestire la situazione». «Dubito che...» «Non credo ci sia bisogno che le ricordi, direttrice Hart, che la stampa si butterà su questo caso come mosche sulla merda» la anticipò Halliday. «Dobbiamo mandare là i nostri uomini, condurre le nostre indagini e agire nella maniera più rapida possibile, altrimenti rischiamo di trasformare questa catastrofe in un circo mediatico.» Si girò verso il presidente. «E questo è proprio quello di cui l'amministrazione non ha bisogno in questo momento. L'ultima cosa che le serve, signore, è apparire debole e inefficiente.» «Il vero problema» replicò il presidente, «è che la polizia segreta egiziana... come si chiama?» «AlMukhabarat» rispose la Hart, rapida come la concorrente di un quiz televisivo. «Sì, grazie, Veronica.» Il presidente prese un appunto sul suo taccuino. Non avrebbe più dimenticato quel nome, da allora in poi. «Il problema» riprese, «è che un contingente di questa al-Mukhabarat accompagnerà la squadra.» Al segretario alla Difesa sfuggì un gemito. «Signore, se posso permettermi, la polizia segreta egiziana è corrotta, violenta e arcinota per le sadiche violazioni dei diritti umani. Io proporrei di estrometterla del tutto.» «Niente mi farebbe più felice, mi creda» disse il presidente con una punta di disgusto, «ma temo che queste siano le condizioni stabilite dal presidente egiziano per farci partecipare alle indagini.» «Per farci partecipare? Cos'è, uno scherzo?» Halliday fece una risata forzata. «Quei dannati egiziani non riuscirebbero a trovare una mummia in una tomba.» «Forse, ma sono nostri alleati» ribadì il presidente con aria severa. «Mi aspetto che tutti voi lo teniate a mente durante i giorni e le settimane campali che ci aspettano.» Quando il presidente passò in rassegna tutti quelli che erano nella stanza, la direttrice della CIA colse al volo l'opportunità. «Signore, le vorrei soltanto ricordare che l'egiziano è la lingua madre della direttrice Moore.» «Motivo per cui non dovrebbe rientrare nella squadra» disse Halliday, pronto. «E musulmana, santo Dio.» «Signor segretario, questo è proprio il tipo di risposta da ignoranti di cui non abbiamo bisogno in questo momento. E poi mi dica, quanti dei suoi uomini parlano un arabo egiziano fluente?» Halliday schizzò in piedi. «Ma gli egiziani parlano un buon inglese!» «Non tra di loro.» Dato che il segretario alla Difesa era giusto davanti a lei, la Hart si voltò per rivolgersi direttamente al presidente. «Signore, è importante - o meglio, vitale - che in questa fase la squadra abbia a disposizione quante più informazioni possibili sugli egiziani, soprattutto sui membri di al-Mukhabarat, perché il segretario Halliday ha ragione sul loro conto. Una conoscenza del genere può rivelarsi cruciale.» Il presidente ponderò la cosa per non più di un secondo, poi, annuì: «Direttrice, la sua proposta ha senso, procediamo. Facciamo in modo che la direttrice Moore sia pronta all'azione, ma in fretta». La Hart sorrise. E adesso poteva anche aumentare il vantaggio. «Potrebbe avere degli uomini...» Il presidente annuì immediatamente. «Tutto quello che le serve, non c'è tempo per le mezze misure.» La Hart guardò Halliday che le stava indirizzando uno sguardo velenoso, al quale lei rispose sorridendo mentre la riunione terminava. Uscì rapida all'Ala Ovest, per evitare un altro confronto al vetriolo con il segretario alla Difesa, e prese una scorciatoia verso la sede della CIA, dove aveva convocato Soraya Moore nel suo ufficio. Abdullah Khoury ritornava dal lago di Starnberg diretto al quartier generale della Fratellanza Orientale, che si trovava a meno di cinque chilometri. Dietro di lui, le Alpi innevate e l'acqua azzurra e ghiacciata del lago - il quarto più grande della Germania - brillavano al sole. Il lago era pieno di lussuose barche a vela e di yatch. Non c'era mai stato spazio per una distrazione frivola come quella della vela, nella vita di Khoury, persino prima che diventasse capo della Fratellanza Orientale. La svolta avvenne quando, all'età di sette anni, sentì la chiamata: doveva essere il messaggero di Allah. Quella chiamata se l'era tenuta dentro di sé per lungo tempo, consapevole che nessuno gli avrebbe creduto, tanto meno suo padre, che trattava i figli persino peggio di quanto trattasse la moglie. Khoury aveva il dono di essere estremamente paziente. Anche da piccolo, aspettare il momento giusto per approfittare di una situazione non gli richiedeva alcuno sforzo. Come è facile immaginare, la sua naturale serenità fu interpretata come una forma di idiozia da suo padre e da tutti i suoi maestri tranne uno, che vide la scintilla sacra che Allah aveva riposto in lui nel momento del suo concepimento. Da quell'istante in poi, la vita di Khoury prese tutt'altra strada. Iniziò a frequentare la casa del suo maestro per ricevere delle lezioni speciali. L'uomo viveva da solo, e lo accolse come suo protetto. Da ragazzo, Khoury entrò a far parte della Fratellanza Orientale, salendo con pazienza tutti i gradini della gerarchia interna. Lo fece alla sua maniera, cominciando a distinguere in modo netto il bene dal male. Nel suo caso, il bene era costituito da tutti coloro che condividevano la sua visione ristretta dell'Islam. Era stato lui a convincere gli accoliti che bisognava combattere per cambiare le cose dall'interno. La sua era una natura sovversiva, era determinato a stravolgere l'ordine esistente per far spazio al suo. E ci riuscì, un passo alla volta, sempre volando al di sotto del radar di Semèn Ikoupov e Asher Sever, perché quelli non erano uomini da sottovalutare o da inimicarsi senza motivo. Stava ancora mettendo in piedi il suo arsenale, quando entrambi furono uccisi, lasciando un vuoto di potere enorme e impressionante. Non per Abdullah Khoury. Cogliendo la palla al balzo mentre la Fratellanza Orientale era ancora sotto shock, si mise a capo dell'organizzazione. Strappò la pagina del manuale strategico di Ikoupov e piazzò, senza perder tempo, i suoi compatrioti in posizioni nevralgiche all'interno della Fratellanza Orientale, assicurandosi il successo a breve e a lungo termine del suo colpo di Stato. Il corteo di auto si fermò alla prima delle tre fermate previste prima del ritorno al quartier generale. Aveva bisogno di incontrare alcuni assistenti responsabili di due aree del Medio Oriente e una dell'Africa per discutere degli ultimi sviluppi in Iran. Mentre veniva accompagnato da una riunione all'altra, Khoury non poteva fare a meno di pensare alle recenti interferenze di Leonid Arkadin. Aveva avuto a che fare con uomini come lui, in passato, gente che crede che tutte le situazioni si possano risolvere con la canna fumante di una pistola, gente armata senza fede. A che servivano le armi se non erano al servizio di Allah e dell'Islam? Sapeva qualcosa, sul conto di Leonid Danilovic Arkadin. Era diventato il killer dei killer passando da una grupperovka moscovita all'altra, offrendosi come mercenario. Si diceva che fosse intimo di Dimitrij Maslov, capo della Kazanskaja, ma non così tanto quanto lo era stato con il suo mentore, Semèn Ikoupov, prima che Arkadin gli voltasse le spalle e lo uccidesse. La cosa, forse, non sorprende più di tanto, se si considera che Arkadin era nato e cresciuto a Niznij Tagil, un posto dimenticato da Dio che può esistere solo in Russia: una cittadina industriale dove si producono carri armati per l'esercito, costruita in una conca melmosa circondata da prigioni di massima sicurezza i cui occupanti, una volta messi in libertà, rimanevano in città per sfruttarne gli abitanti. Era già un miracolo che Arkadin avesse avuto la fortuna di scappare. Conoscendo il contesto così sordido e sanguinario da cui proveniva il russo, Khoury sapeva bene che quell'uomo aveva perso l'anima, ed era condannato a camminare tra i viventi pur avendo già seppellito la parte migliore di se stesso. Proprio per questo Khoury aveva preso delle precauzioni speciali. Nell'auto dalle fiancate blindate e dai vetri antiproiettile era ben protetto da due guardie del corpo, nonché da ottimi tiratori con tanto di fucili da caccia nella vettura davanti e in quella dietro la sua. Dubitava che Arkadin potesse essere tanto stupido da seguirlo. Ma, non potendo leggere nella mente del nemico, era meglio essere prudenti e agire come se il bersaglio fosse lui, invece che la Fratellanza Orientale. Nel giro di quindici minuti il corteo entrò nell'area di parcheggio privata dell'organizzazione e gli uomini nelle auto di scorta scesero per perlustrare la zona. Solo allora comunicarono, attraverso una rete wireless, il via libera alle guardie del corpo che viaggiavano con Khoury. L'ascensore portò Khoury e quattro guardie del corpo all'ultimo piano dell'edificio della Fratellanza Orientale. Due uomini della scorta uscirono per primi dall'ascensore, assicurandosi che tutto fosse a posto, poi controllarono i volti di ogni membro dello staff personale di Khoury per essere certi di riconoscere tutti. Infine si spostarono di lato e Khoury corse dalla reception al suo ufficio. Quando il segretario si voltò verso di lui con la faccia ossuta pallidissima, Khoury capì che c'era qualcosa che non andava. «Mi dispiace, signore» disse. «Non c'è stato niente da fare.» Khoury alzò lo sguardo e vide i tre sconosciuti. La parte più primitiva del suo cervello, il centro in cui risiede l'istinto di sopravvivenza, capì all'istante. Tuttavia la parte civilizzata rimase sotto shock, paralizzandolo. «Che significa?» chiese, poi camminò come un sonnambulo sul magnifico tappeto dai colori sgargianti, dono del presidente dell'Iran, fissando con aria stupefatta i tre uomini dai vestiti su misura che stavano in piedi davanti alla sua scrivania. L'uomo a destra e quello a sinistra tenevano le braccia lungo i fianchi e gli mostrarono due distintivi luccicanti che li identificavano come agenti del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Quello al centro, con i capelli grigio ferro e un volto duro e spigoloso, si presentò: «Buon pomeriggio, signor Khoury. Mi chiamo Reiniger». Un distintivo della Bundespolizei pendeva da una cordicella che aveva intorno al collo. C'era scritto che era un agente di spicco della GSG9, l'unità di élite antiterrorismo. «Sono venuto per prenderla in custodia.» «Custodia?» Khoury era sconcertato. «Non capisco. Come avete...?» Le parole gli morirono in gola quando il suo sguardo cadde sul dossier che Reiniger gli allungava. Pieno di orrore, Khoury sfogliò a una a una le foto inondate di luce verde impresse sulla pellicola a infrarossi che lo ritraevano con il cameriere sedicenne del See Café che incontrava tre volte alla settimana, quando andava, come diceva, a pranzo al lago di Starnberg. Raccogliendo le forze con grande fatica, Khoury gettò le foto dall'altra parte del tavolo. «Ho tanti nemici con grandi risorse. Queste schifezze sono false. E evidente che non sono io a fare queste cose disgustose.» Alzò lo sguardo, fissando i denti gialli di Reiniger con uno sguardo da bigotto scandalizzato. «Come si permette di accusarmi di tali...» Reiniger fece un piccolo gesto con la mano e l'uomo alla sua destra si spostò sulla sinistra, scoprendo il cameriere sedicenne del See Café. Il ragazzo non aveva il coraggio di guardare Khoury, così si fissava immobile la punta delle scarpe. In quella stanza dall'aria surriscaldata, in mezzo a quegli agenti americani alti e con le spalle enormi, sembrava ancora più giovane, sottile e fragile come una porcellana. «Farei le dovute presentazioni» iniziò uno dei due agenti con una risatina trattenuta. «Ma credo non ce ne sia bisogno.» Khoury bruciava dentro. Com'era possibile che quell'orrore riguardasse proprio lui? Perché, se era il prescelto di Allah, il suo segreto così torbido, appreso dal suo maestro d'infanzia, era stato svelato? Non aveva idea di chi potesse averlo tradito, ma non avrebbe sopportato vivere nella vergogna. Avrebbe perso il potere e il prestigio che si era guadagnato nell'arco di decenni. «È la fine, per te» disse l'altro americano. Khoury non riusciva a distinguerli: avevano lo stesso sguardo maligno da infedeli dissoluti. Avrebbe voluto ucciderli entrambi. «È la fine, per te, come figura pubblica» continuò l'americano con la sua implacabile voce robotica. «Ma soprattutto è la fine per la tua influenza e il tuo potere. Il tuo gruppo estremista si è rivelato una barzelletta vergognosa...» Khoury bolliva di rabbia e si scagliò sul ragazzo. Vide che l'americano vicino al cameriere aveva in mano un Taser, ma ormai non poteva fermarsi. I due uncini gli entrarono nella carne, uno sul petto e l'altro sulla coscia, e il dolore lo spinse indietro. Le ginocchia gli si piegarono e cadde a terra, dimenandosi e inarcando la schiena, ma tutt'intorno c'era un silenzio assoluto, quasi ultraterreno. Anche quando la stanza prese a vorticare freneticamente, anche quando, pochi minuti dopo, Khoury venne messo su una barella e portato al pianoterra con l'ascensore, spinto a gran velocità verso l'atrio tra le macchie ammutolite e scioccate che una volta dovevano essere state delle facce, tutto era avvolto dal silenzio. Era avvolta dal silenzio pure la strada, nonostante il traffico, anche se i paramedici e gli americani vestiti di scuro sgomitavano vicini alla barella con le bocche spalancate, forse per urlare ai passanti, che si stavano radunando, di farsi da parte. Silenzio, solo silenzio. E poi venne sollevato dalla mano di Allah e condotto sull'ambulanza. Due paramedici salirono con lui insieme a una terza persona, e l'ambulanza partì a tutta velocità, con i portelloni che si stavano ancora chiudendo. La sirena doveva essere in funzione, ma Khoury non riusciva a sentire niente; non riusciva a sentire nemmeno il suo corpo, che sembrava incollato alla barella come un peso di piombo. Tutto quello che riusciva a sentire era il fuoco nel petto, la fatica che faceva il suo cuore a battere, il sangue che pulsava in maniera irregolare dentro di lui. Sperava con tutto se stesso che il terzo uomo non fosse uno dei due americani. Aveva paura di loro. Sapeva di poter affrontare il tedesco, una volta riacquistato l'uso della voce. Si era fatto molti amici nella Bundespolizei, e, se fosse riuscito a tenere gli americani lontani per almeno un'ora, l'avrebbe scampata. Con immenso sollievo, vide che il terzo uomo era Reiniger. Sentì un formicolio alle estremità e scoprì di aver ripreso l'uso delle dita di mani e piedi. Stava per provare a parlare, quando Reiniger si piegò sopra di lui e, con una mossa tipica di un illusionista sul palco, si tolse naso, guance di silicone e i denti gialli incastrati sopra i suoi. In un attimo, una premonizione colse Khoury di sorpresa, come il tremito dell'onda nera della morte. «Ciao, Khoury» disse Reiniger scandendo ogni sillaba. Khoury cercò di parlare, ma si morse la lingua. Reiniger sogghignò, mentre gli dava una pacca sulle spalle. «Come va? Non tanto bene, vedo.» Alzò le spalle facendo un gran sorriso. «Non importa, perché oggi è un gran giorno per morire.» Spinse forte il polpastrello del pollice contro il pomo d'Adamo di Khoury finché qualcosa di vitale non scoppiò dentro di lui. «Almeno per te.» *** Capitolo 4 Quando Soraya Moore entrò nell'ufficio della direttrice della CIA, Veronica Hart si alzò da dietro la scrivania e la invitò a sedersi accanto a lei sul divano. Nell'ultimo anno le due donne erano diventate ottime amiche, oltre che colleghe. Erano state costrette dalle circostanze a fidarsi l'una dell'altra dal momento in cui la Hart era salita a bordo a seguito della morte prematura del Grande Uomo. Le due si erano coalizzate contro il segretario alla Difesa Halliday, mentre Willard faceva fuori il suo cane da difesa, Luther LaValle, infliggendogli la sconfitta più umiliante della sua carriera politica. La convinzione di essersi fatte un nemico mortale non le abbandonava mai. Così come il pensiero di Jason Bourne con cui Soraya aveva lavorato due volte e che la Hart era riuscita a conoscere meglio di chiunque altro alla CIA, eccezion fatta per Soraya. «Allora, come stai?» le chiese Veronica non appena si furono sedute. «Sono passati tre mesi e il dolore per la morte di Jason non accenna a diminuire.» Soraya era una donna tanto forte quanto bella, i cui profondi occhi azzurri erano in netto contrasto con la carnagione scura e i lunghi capelli neri. Ex agente della CIA, era stata spinta in maniera poco cerimoniosa verso la Typhon, organizzazione che aveva contribuito a creare quando il suo mentore, Martin Lindros, era morto diversi anni prima. Da allora, si era districata nel labirinto delle varie manovre politiche che ogni direzione di un gruppo di intelligence era costretta a conoscere molto bene. Tuttavia, dalla lotta contro Luther LaValle aveva imparato molto. «A essere sincera, continuo a vederlo ovunque. Ma quando guardo meglio, mi accorgo che si tratta sempre di qualcun altro.» «Ma certo che si tratta di qualcun altro» disse la Hart in tono comprensivo. «Tu non lo conoscevi come lo conoscevo io. Ha imbrogliato la morte così tante volte che mi sembra impossibile che ora sia stato sconfitto.» Soraya abbassò la testa e la Hart le strinse la mano per un istante. La notte in cui fu comunicata loro la morte di Bourne, Veronica l'aveva portata fuori a cena e poi aveva insistito affinché passasse la notte nel suo appartamento, ignorando decisa tutte le proteste della collega. La serata fu difficile, tra le altre cose anche a causa della religione di Soraya che le impediva di prendersi una bella sbronza. Sopportare il dolore da sobri era impossibile, e Soraya aveva pregato Veronica di bere, se ne aveva voglia, ma lei rifiutò. Quella notte si era instaurato un legame talmente profondo tra le due che niente da lì in poi avrebbe potuto scioglierlo. Soraya alzò la testa e sorrise a Veronica. «Ma non mi hai chiamata qui solo per consolarmi ancora, vero?» «No, hai ragione.» La Hart informò Soraya dell'aereo di linea abbattuto in Egitto. «Jaime Hernandez ejon Mueller stanno scegliendo membri della NSA e del Dipartimento della Sicurezza Interna per mettere insieme una task force da mandare al Cairo.» «Auguro loro buona fortuna» disse Soraya con sarcasmo. «Chi si rivolgerà agli egiziani parlando nella loro lingua? E chi sarà in grado di interpretare i loro pensieri sulla base delle loro risposte?» «Tu.» Notando lo sguardo di stupore sul volto di Soraya, la Hart aggiunse: «Ho reagito come te all'idea di una simile task force». «Con quanta forza si è opposto Halliday?» «Ha sparato le solite obiezioni, includendo anche qualche insulto razziale nei tuoi confronti» rispose sincera la Hart. «Ci odia da morire» replicò Soraya. «Non è in grado nemmeno di distinguere tra arabi e musulmani, figuriamoci tra sunniti e sciiti.» «Comunque» continuò la Hart, «ho esposto le mie ragioni al presidente, che mi ha dato ragione.» La direttrice della CIA tirò fuori il dossier che stavano leggendo quando era arrivata la notizia del disastro aereo. Dopo avergli dato uno sguardo, Soraya disse: «Queste informazioni vengono dalla Black River». «Avendo lavorato per la Black River, questa è la cosa che mi preoccupa di più. E visti i metodi che avranno usato per raccoglierle, mi sembra che Halliday si stia affidando un po' troppo a loro» osservò, indicando il dossier con la testa. «Che ne pensi delle informazioni riguardo a questo gruppo dissidente filoccidentale in Iran?» Soraya aggrottò le sopracciglia. «Si è parlato della loro esistenza per anni, questo è vero, ma posso dirti con certezza che nessun membro di alcuna intelligence occidentale è stato mai contattato da questo gruppo. A essere sincera, l'ho sempre considerata parte della fantasia neoconservatrice di destra che sogna un Medio Oriente democratico» rispose, continuando a sfogliare il dossier. «Però in Iran esiste un movimento dissidente genuino che lotta per ottenere elezioni democratiche» replicò la Hart. «Sì, ma non si è capito se il suo leader, Akbar Ganji, sia filoccidentale oppure no. E io credo di no. Tanto per cominciare, è stato abbastanza accorto da rifiutare le costanti offerte di denaro da parte dell'amministrazione del nostro paese in cambio di un'insurrezione armata. E poi lui sa, a differenza dei nostri, che a gettare dollari americani in quelle che chiamiamo in maniera eufemistica "forze liberali indigene" si ottengono solo disastri. Non solo metterebbe a rischio il movimento, già fragile, peraltro, e il loro obiettivo di una rivoluzione di velluto, ma incoraggerebbe i loro leader a diventare dipendenti dall'America per qualunque tipo di aiuto. Ne alienerebbe la costituzione, così come è successo in Afghanistan, in Iraq, e in molti altri paesi mediorientali, e trasformerebbe quelli che vengono chiamati i combattenti per la libertà in nostri acerrimi nemici. Il tempo e, di nuovo, l'ignoranza della cultura, della religione e dei veri scopi di questi gruppi segneranno la nostra sconfitta.» «Ed ecco perché tu farai parte della task force» disse la Hart. «Comunque, come puoi vedere, le informazioni della Black River non riguardano Ganji, né i suoi uomini. Qui non si tratta di velluto, ma di una rivoluzione molto sanguinosa.» «Ganji ha sostenuto di non volere alcuna guerra, ma per un certo periodo la sua politica è stata confusa. Sai bene quanto me che il regime non lo lascerebbe in vita, né tanto meno lo lascerebbe parlare se avesse un vero potere. Ganji non è di nessun aiuto, per Halliday, ma gli scopi di questo nuovo gruppo gli vanno a pennello.» La direttrice della CIA annuì. «E esattamente ciò che stavo pensando. Per questo, mentre sei in Egitto, vorrei che ficcassi un po' il naso qua e là. Utilizza i contatti egiziani della Typhon per trovare quante più informazioni possibili sulla legittimità di questo gruppo.» «Non sarà facile» la avvertì Soraya. «Posso garantirti che la polizia segreta nazionale ci starà addosso, soprattutto a me.» «Perché soprattutto a te?» chiese la Hart. «Perché il capo di al-Mukhabarat è Amun Chalthoum. Abbiamo avuto un acceso scambio di opinioni, io e lui.» «Quanto acceso?» Soraya represse all'istante i suoi ricordi. «Chalthoum ha un carattere complesso, difficile da interpretare. Ho passato la vita a far carriera nella polizia segreta nazionale, un'associazione di criminali e assassini alla quale sembra legato a vita.» «Romantico» commentò la Hart senza nessun sarcasmo. «Ma sarebbe da ingenui ritenere che sia tutto qui, quello che c'è da sapere sul suo conto.» «Ce la farai, con lui?» «Non vedo perché no. Credo abbia un debole per me» rispose Soraya chiedendosi perché mai non stesse dicendo a Veronica tutta la verità. Otto anni prima, durante una missione come corriere, era stata catturata dagli agenti di al-Mukhabarat che, a sua insaputa, si erano infiltrati nella rete locale della CIA a cui doveva consegnare un microdot sul quale erano stati salvati i nuovi ordini per la rete. Non aveva idea di cosa contenesse il microdot, e non era curiosa di scoprirlo. Venne rinchiusa nel sotterraneo degli uffici di al-Mukhabarat nel centro del Cairo. Tre giorni dopo, senza aver dormito e avendo ricevuto soltanto acqua e una crosta di pane ammuffito una volta al giorno, venne condotta al cospetto di Amun Chalthoum, che la guardò e ordinò che la facessero lavare e sistemare. L'accompagnarono a una doccia, dove si strofinò ogni centimetro di pelle con uno straccio insaponato. Quand'ebbe terminato, trovò dei vestiti nuovi. Evidentemente i suoi erano stati analizzati da cima a fondo dagli agenti della Scientifica di al-Mukhabarat in cerca delle informazioni che lei doveva trasmettere. Ogni capo le calzava a pennello. Si stupì quando la portarono fuori dall'edificio. Era notte. Aveva perso del tutto la cognizione del tempo. Un'auto la stava aspettando sul ciglio della strada trafficata, i fari illuminavano guardie in borghese che la studiavano con attenzione. Quando salì sulla macchina, si stupì ancora di più. Al volante c'era Amun Chalthoum. Ed era solo. Con il piede premuto sull'acceleratore, guidò lungo le strade della città puntando a ovest, verso il deserto. Non disse niente, ma di tanto in tanto, quando il traffico lo permetteva, la guardava con i suoi occhi avidi da rapace. Lei era affamata, ma altrettanto determinata a tenersi la fame. La portò a Wadi al-Rayan. Fermò la vettura, e le ordinò di scendere. Rimasero in piedi fissandosi al chiarore della luna. Wadi al-Rayan era un posto desolato, avrebbero potuto essere gli ultimi due esseri umani sulla faccia della terra. «Qualsiasi cosa tu stia cercando» lo anticipò lei, «io non ce l'ho.» «Sì che ce l'hai.» «E già stata consegnata.» «Le mie fonti mi dicono di no.» «Forse non le paghi abbastanza. E poi hai già controllato i miei vestiti e ogni altra cosa avessi.» Amun non rise, e non lo fece mai per tutto il tempo che restò con lei. «E nella tua testa. Dammela.» Lei non rispose, così lui aggiunse: «Resteremo qui fino a quando non mi darai l'informazione che voglio». Soraya riconobbe la minaccia, e ciò che essa sottintendeva. Ai suoi occhi lei era una donna egiziana e, in quanto tale, educata a obbedire agli uomini senza discutere. Perché avrebbe dovuto essere diversa dalle altre? Solo perché era per metà americana? Gli americani gli facevano schifo. All'improvviso lei vide il vantaggio che quell'errore le stava offrendo. Lo affrontò, mantenne la sua versione della storia, lo sconfisse sotto ogni punto di vista e, soprattutto, gli dimostrò che non poteva intimidirla. Alla fine Chalthoum gettò la spugna e la accompagnò all'aeroporto cairota. All'imbarco le riconsegnò il passaporto, da vero gentiluomo. Era un gesto formale, ma stranamente toccante. Lei si voltò, sicura che non lo avrebbe rivisto mai più. La direttrice della CIA annuì. «Se ci riesci, usa il potere che il tuo fascino esercita su di lui. Te lo dico perché ho lo strano presentimento che Halliday possa richiedere un'iniziativa militare più massiccia, accampando come scusa la prevenzione di un'insurrezione armata dall'interno, in Iran.» Leonid Arkadin era seduto in un bar di Campione d'Italia, pittoresca enclave italiana in territorio svizzero, nascosta nelle Alpi. Il piccolo comune sorgeva sulle rive del lago di Lugano, pieno di barche di tutte le dimensioni, da quelle a remi fino agli yacht dei miliardari con tanto di piattaforma per gli atterraggi degli elicotteri. I più grandi avevano anche le donne in dotazione. In uno stato di divertimento distaccato, Arkadin guardò le lunghe gambe di due modelle dalla pelle abbronzata che solo i più ricchi e privilegiati potevano permettersi di acquistare. Mentre beveva un espresso, le modelle scavalcarono un uomo pelato ma in compenso con il corpo molto villoso, e si sdraiarono sui cuscini azzurri del ponte posteriore. Perse subito interesse, perché per lui il piacere era un concetto effimero che mancava di forma e di senso. La sua mente e il suo corpo erano ancorati al grigio regno dei morti di Niznij Tagil. Un uomo del resto può scappare dall'inferno, ma non dagli effetti che l'inferno ha su di lui. Aveva ancora in bocca il gusto acido del cielo tossico della sua cittadina quando, alcuni istanti dopo, gli si avvicinò un uomo dalla carnagione dello stesso colore del caffè che aveva appena bevuto. Arkadin lo osservò con aria indifferente mentre prendeva posto sulla sedia di fronte alla sua. «Mi chiamo Ismael» esordì l'uomo color del caffè. «Ismael Bey.» «Il braccio destro di Khoury.» Arkadin finì il suo caffè e appoggiò la tazzina sul tavolino rotondo. «Ho sentito molto parlare di te.» Bey era piuttosto giovane, magro e ossuto come un cane che muore di fame, e aveva uno sguardo spettrale. «Hai vinto tu, Arkadin. Ce l'hai fatta. Dopo la morte di Abdullah Khoury sono diventato il nuovo capo della Fratellanza Orientale, ma tengo alla mia vita molto più del mio predecessore. Che cosa vuoi?» Arkadin prese di nuovo in mano la tazzina, la sistemò al centro del suo piattino senza mai staccare gli occhi da quelli del suo interlocutore. Quando fu pronto, disse: «Non voglio la tua posizione, ma avrò il tuo potere». Le sue labbra formarono il fantasma di un sorriso, ma c'era qualcosa in quell'espressione che procurò un brivido di presentimento a Bey. «Agli occhi di tutti avrai preso il posto del tuo vecchio leader. Ma ogni cosa, ogni decisione, ogni azione da intraprendere verranno da me; ogni dollaro che guadagnerà la Fratellanza passerà da me. Queste sono le nuove condizioni.» Il sorriso del russo assunse un'aria lupesca, e il volto di Ismael Bey si fece verdognolo. «Per prima cosa c'è da scegliere un contingente di un centinaio di uomini della Legione Nera. Li voglio tutti al campo che ho preparato per loro sui monti Urali entro la fine di questa settimana.» Bey drizzò la testa. «Un campo?» «Li addestrerò io personalmente.» «Per cosa?» «Per uccidere.» «E chi dovrebbero uccidere?» Arkadin spinse la tazzina vuota dall'altra parte del tavolo e si fermò quando fu di fronte a Ismael Bey. Il gesto era chiaro. Non aveva niente, e non avrebbe avuto niente se non obbediva agli ordini di Arkadin, il quale, senza aggiungere una parola, si alzò e lasciò solo Bey ad affrontare il tetro abisso del suo futuro. «Oggi mi sono svegliato pensando a Soraya Moore» disse Willard. «Credo che soffra ancora molto per la tua morte.» Era da poco passata l'alba e, come ogni mattina, il dottor Firth stava visitando Bourne seguendo una trafila accurata, quasi noiosa. Jason, che aveva imparato a conoscere Willard molto bene negli ultimi tre mesi, rispose: «Non ho provato a contattarla». Willard annuì. «Hai fatto bene.» Era piccolo e svelto, aveva gli occhi grigi e un viso molto espressivo. «Fino a quando non avrò scoperto e affrontato chi ha cercato di uccidermi tre mesi fa, voglio tenerla fuori da tutto questo.» Non era perché non si fidava di lei, tutt'altro. Aveva deciso che la verità sarebbe stata un fardello troppo pesante, per lei, una cosa da nascondere ogni giorno ai colleghi con cui lavorava e a quelli della CIA, con cui aveva numerosi contatti. «Sono tornato a Tenganan, ma non c'è traccia del proiettile» lo informò Willard. «Ho provato tutte le strade che mi sono venute in mente per capire chi possa averti sparato, ma finora non ho ottenuto niente. Chiunque sia stato, ha cancellato le tracce del suo passaggio con grande maestria.» Frederick Willard aveva indossato una maschera così a lungo che ormai era diventata parte di lui. Bourne aveva chiesto a Moira di contattarlo perché era un uomo per cui i segreti erano sacri. Aveva custodito fedelmente quelli di Conklin legati alla Treadstone; Bourne sapeva con l'istinto di un animale ferito che Willard non avrebbe mai rivelato a nessuno che lui era ancora vivo. Quando Conklin venne ucciso, Willard aveva già il suo incarico alla NSA in Virginia, al sicuro in una bella casa sicura in campagna. Era stato lui a far uscire, violando la legge, le foto che avevano gettato Luther LaValle nel fango e avevano reso necessario un serio intervento di contenimento dei danni da parte del segretario alla Difesa Halliday. «Ho finito» comunicò Benjamin Firth, alzandosi dal suo sgabello. «Va tutto bene. Più che bene, potrei dire. Le ferite d'entrata e d'uscita si stanno rimarginando a una velocità sorprendente.» «E tutto merito del suo addestramento!» esclamò Willard sicuro di sé. Ma in cuor suo, Bourne si domandava se la sua guarigione dipendesse dal miscuglio a base di kencur, il giglio di risurrezione, che Suparwita gli aveva fatto bere proprio poco prima che gli sparassero. Sapeva di dover parlare di nuovo con il guaritore, se voleva scoprire cosa era successo in quei luoghi tempo prima. Bourne si alzò. «Vado a fare una passeggiata.» «Come sempre, io lo sconsiglierei» lo ammonì Willard. «Ogni volta che metti il naso fuori di qui, rischi di compromettere la tua sicurezza.» Bourne tirò le cinghie di uno zainetto che conteneva due bottiglie d'acqua. «Ho bisogno di allenarmi.» «Non c'è bisogno di uscire» sottolineò Willard. «Arrampicarmi su queste montagne è l'unico modo che ho per migliorare la resistenza.» La stessa identica discussione si ripeteva ogni mattina dal giorno in cui Jason si era sentito abbastanza in forze da fare una passeggiata, e regolarmente lui ignorava i consigli di Willard. Aprì il cancello e partì a passo spedito verso le colline ripide, ricoperte di foreste e risaie terrazzate, della zona orientale di Bali. Non era solo la noia per il fatto di essere rinchiuso fra le pareti dell'ambulatorio di Firth a spingerlo fuori, e neppure il bisogno di buttarsi in un addestramento pesante e rigoroso, anche se era già un motivo sufficiente. Era più che altro il tormento della fiamma del passato a fargli sentire la necessità di ritornare in continuazione in quelle zone di campagna, perché aveva la sensazione che in quei luoghi gli fosse successo qualcosa di importante che voleva riuscire a ricordare. Durante quelle camminate Bourne costeggiava burroni profondi e fiumi impetuosi, percorreva sentieri che lo portavano a templi animisti dedicati a spiriti di tigri o dragoni, attraversava malfermi ponti in bambù, risaie e piantagioni di cocco, e per tutto il tempo si sforzava di immaginare il volto della figura che nel sogno si era girata verso di lui. Invano. Quando si sentì davvero in forma, tornò a cercare Suparwita, ma il guaritore non si trovava. A casa sua abitava una donna che sembrava vecchia come il mondo; aveva il viso grande, il naso piatto ed era senza denti. Probabilmente era anche sorda, perché fissò lo straniero con indifferenza quando le chiese, prima in balinese e poi in indonesiano, dove avrebbe potuto trovare Suparwita. Una mattina, quando l'aria cominciava già a essere calda e umida, si fermò a riprendere fiato in una risaia e attraversò i condotti d'irrigazione per sedersi all'ombra fresca di un warung, un ristorantino a gestione familiare che vendeva bibite e spuntini. Giocò con il più piccolo dei tre bambini e bevve latte di cocco direttamente dalla noce con una cannuccia. La più grande, una bambina sui dodici anni, lo osservava con gli occhi scuri e seri mentre intrecciava alcune fronde di palma secondo un disegno complicato per farne un cestino. Il piccolino, di circa un anno, stava sul tavolo dove era seduto Bourne, che si divertiva a farlo giocare. Poco dopo sua madre lo prese in braccio per dargli da mangiare. I piedi dei bambini balinesi non devono toccare terra prima dei tre mesi, il che in pratica significa che devono stare sempre in braccio a qualcuno. Forse è per questo che sono così felici, pensò Bourne. La donna gli servì un piatto di riso avvolto in una foglia di banano, e lui la ringraziò. Mentre mangiava, parlò con il marito della donna, che aveva un fisico asciutto, denti enormi e un sorriso allegro. «Bapak, vieni qui ogni mattina» gli disse l'uomo. Bapak, «padre», è il modo rispettoso con cui i balinesi si rivolgono a qualcuno. «Ti osserviamo mentre ti arrampichi fin quassù. A volte devi fermarti per riprendere fiato. Un giorno mia figlia ti ha anche visto piegato a vomitare. Se sei malato, possiamo aiutarti.» Bourne sorrise. «Grazie, ma non sono malato. Sono solo un po' fuori forma.» Forse non l'aveva bevuta, ma non lo diede a vedere. La sua grande mano con le vene in rilievo era appoggiata sul tavolo come un blocco di granito. Sua figlia finì il cestino, fissò Jason mentre le sue dita agili ne iniziavano un altro, come se fossero del tutto indipendenti. Sua madre ritornò e mise il bambino in braccio a Bourne. Sentendo il suo peso e il battito del cuoricino contro il petto gli venne in mente Moira, con la quale aveva scelto di non avere più contatti da quando aveva lasciato l'isola. «Bapak, in che modo posso aiutarti a tornare in forma?» chiese il padre del bimbo con gentilezza. Sospettava qualcosa o voleva soltanto rendersi utile? Ma che importanza aveva? Era sincero, e in fin dei conti era tutto quello che contava, Bourne l'aveva imparato interagendo con i balinesi, che erano agli antipodi delle persone malvagie e corrotte che abitavano il suo mondo immerso nell'ombra. Qui le uniche ombre erano quelle dei demoni, e oltretutto esistevano mille modi con cui potevi proteggerti da loro. Pensò aìVikat doppio che Suparwita aveva detto a Moira di comprare per lui. «C'è una cosa che potresti fare per me» rispose Jason. «Potresti aiutarmi a trovare Suparwita.» «Ah, il guaritore, sì.» L'uomo si fermò, come se stesse ascoltando una voce che solo lui era in grado di sentire. «Non è a casa sua.» «Lo so, ci sono stato» rispose Bourne. «Ci ho trovato solo una vecchietta sdentata.» L'uomo sorrise, mostrando una chiostra di denti bianchissimi. «E la madre di Suparwita. Una donna molto anziana. Sorda come una campana e muta come un pesce.» «Non mi è stata di alcun aiuto.» L'uomo annuì. «Solo Suparwita sa quello che si nasconde dentro la sua testa.» «Tu sai dove posso trovarlo?» chiese Bourne. «E molto importante.» L'uomo studiò Bourne in modo gentile, quasi cortese. «E andato a Goa Lawah.» «Allora andrò là.» «Bapak, non è saggio seguirlo.» «A essere sincero» ribatté Bourne, «non faccio quasi mai la cosa più saggia.» L'uomo si mise a ridere. «Bapak, sei solo un uomo, dopotutto» concluse sorridendo. «Non ti preoccupare, Suparwita perdona i folli come i saggi.» Il pipistrello, uno dei tantissimi che stavano aggrappati al muro umido, spalancò gli occhi e fissò Bourne. Batté le palpebre come se non potesse credere a ciò che vedeva. Jason aveva la parte bassa del corpo avvolta in un sarong tradizionale e si trovava nel complesso dei templi di Goa Lawah, circondato da una folla di balinesi raccolti in preghiera e di turisti giapponesi che facevano una pausa dopo le varie incursioni di shopping. Goa Lawah, poco distante dalla città di Klungkung, nella parte sudorientale di Bali, veniva chiamata dalla gente del posto la Grotta dei Pipistrelli. Nei suoi pressi c'era una sorgente di acqua sacra: gli oranti la bevevano o se la versavano sulla testa per purificarsi. Quella grotta, come dice il nome, era abitata da migliaia di pipistrelli che di giorno sognavano appesi al soffitto gocciolante di calcite e di notte volavano nel cielo nero come l'inchiostro in cerca di insetti di cui ingozzarsi. Anche se i balinesi mangiavano spesso i pipistrelli, quelli di Goa Lawah venivano risparmiati da quel destino perché tutto ciò che vive in una zona sacra diventa a sua volta sacro. un sogno, o un'altra identità che gli era stata assegnata come quella di Bourne. In ginocchio davanti alla Grotta dei Pipistrelli, con le sue migliaia di abitanti che si agitavano senza tregua, cullato dalle litanie del sacerdote, Bourne contemplava la landa chimerica della sua anima, avvolta da un'insolita luce crepuscolare, come una città deserta un'ora prima dell'alba, o una spiaggia desolata un'ora dopo il tramonto; un posto che gli sfuggiva come sabbia tra le dita. Mentre si avventurava per questo paese sconosciuto, si chiedeva: Chi sono, io? *** Capitolo 5 La task force della NSA e del Dipartimento della Sicurezza Interna arrivò al Cairo e, con grande costernazione da parte di tutti tranne che di Soraya, fu accolta all'aeroporto da un contingente d'élite di al-Mukhabarat. I membri della squadra insieme ai loro effetti personali vennero fatti salire su veicoli militari e portati nel caos e nel caldo bollente della capitale. Diretti verso sudest, fuori città, viaggiarono verso il deserto in una fila tetra e silenziosa. «Ci stiamo recando vicino a Wadi al-Rayan» disse Amun Chalthoum rivolgendosi a Soraya. L'aveva individuata subito e l'aveva invitata a sedersi al suo fianco, sul secondo veicolo che procedeva dietro un potente mezzo corazzato a trazione posteriore che Chalthoum stava, com'era evidente, usando per mostrare i muscoli agli americani. Per Chalthoum il tempo sembrava essersi fermato. I suoi capelli erano ancora folti e neri e la fronte color rame senza una ruga. Gli occhi neri da corvo infossati, ai lati del naso aquilino, bruciavano ancora per l'emozione repressa. Era grande e muscoloso, con due fianchi stretti da nuotatore. Per contrasto, aveva delle dita lunghe e affusolate da pianista. Eppure, qualcosa di importante doveva essere cambiato, perché si percepiva la sensazione di un fuoco controllato a fatica. Più lo si avvicinava e più si sentiva l'agitazione della sua rabbia tenuta al guinzaglio. Ora che gli era seduta di fianco, ora che riprovava quell'emozione così familiare, Soraya realizzò perché non aveva detto a Veronica Hart tutta la verità. Non era affatto sicura di potercela fare. «Sei così silenziosa. Non sei felice di essere di nuovo a casa?» «In realtà stavo pensando all'ultima volta che mi hai portato a Wadi al-Rayan.» «Sono passati otto anni, e io volevo solo arrivare alla verità» si giustificò, scuotendo la testa. «Ammettilo che stavi nel mio paese per trasmettere segreti...» «Io non ammetto un bel niente.» «... che appartenevano di diritto allo Stato.» Si batté la mano sul petto. «E io sono lo Stato.» «Le Roi le veut» mormorò lei. «Il re lo vuole» annuì Chathoum. «Proprio così.» E in quel momento lasciò il volante e aprì le braccia come per accogliere il deserto che stavano attraversando. «Questa è la terra dell'assolutismo, Umm al-Dunya, "la madre dell'universo", ma non ti sto dicendo niente di nuovo. Dopotutto sei egiziana, come me.» «Per metà» replicò lei con un'alzata di spalle. «Comunque, non ha importanza. Sono qui per aiutare la mia gente a scoprire cosa è successo a quell'aereo.» «La tua gente.» Chalthoum scandì le parole come se soltanto il pensiero gli lasciasse l'amaro in bocca. «E tuo padre? E la sua, di gente? L'America ha disintegrato l'araba fiera che è in te?» Soraya appoggiò la testa contro il sedile e chiuse gli occhi. Sapeva che era meglio controllare i sentimenti in fretta: c'era in gioco l'intera missione. Poi sentì il braccio di Amun contro il suo e un brivido le percorse la spina dorsale. Santo cielo, pensò, non posso provare queste cose per lui. E iniziò a sudare freddo. E per questo che ho tenuto nascosta la verità a Veronica? Perché ero sicura che se avesse saputo tutto non mi avrebbe mai lasciata tornare? Si sentì di colpo in pericolo, non per via di Amun, ma per quello che provava. Sforzandosi di riacquistare un po' di equilibrio, gli disse: «Mio padre non si è mai dimenticato di essere egiziano». «Tanto da cambiare il suo nome da Mohammed a Moore» replicò Chalthoum con sarcasmo. «Si innamorò dell'America quando si innamorò di mia madre. La grande stima che ho per quel grande paese mi viene da lui.» Chalthoum scosse la testa: «Perché nasconderlo? E stata colpa di tua madre». «Come tutti gli americani, mia madre dava per scontato ogni cosa che gli Stati Uniti avevano da offrire. Non gliene importava niente del 4 luglio. Era mio padre ad accompagnarmi a vedere i fuochi d'artificio sul National Mail a Washington, dove mi parlava di indipendenza e libertà.» Chalthoum digrignò i denti. «La sua ingenuità mi fa ridere, e anche la tua. Immagino che hai una visione più... pragmatica, diciamo così, dell'America, il paese che esporta Topolino e forze armate d'occupazione con lo stesso entusiasmo.» «Però ti fa comodo dimenticare che siamo anche il paese che vi protegge dagli estremisti, Amun!» Chalthoum serrò le labbra, e stava per ribattere quando il veicolo, tra un sobbalzo e l'altro, passò attraverso un gruppo di suoi uomini armati di mitra addetti a tenere la stampa internazionale a debita distanza dal luogo del disastro. Gli ordinarono di fermarsi. Soraya scese per prima, sistemandosi gli occhiali da sole sul naso e il cappello leggero in testa. Chalthoum aveva ragione su una cosa: l'aereo era precipitato a meno di seicento metri dalla punta sudorientale del wadi, un corso d'acqua con tanto di cascate, reso ancor più spettacolare dal deserto che lo circondava. «Dio mio» mormorò Soraya iniziando il sopralluogo sulla scena in cui era avvenuto l'impatto, che era già stato delimitato da un cordone della polizia. Dovevano essere stati gli uomini di Amun. La fusoliera era spezzata in due parti conficcate nella sabbia come grotteschi monumenti a un dio sconosciuto; altri pezzi, che si erano staccati violentemente dal corpo dell'aereo, erano sparsi tutt'intorno, e insieme a un'ala, piegata in due come un ramoscello spezzato, formavano un cerchio. «Guardate i numeri delle sezioni della fusoliera» disse Chalthoum rivolto alla task force che si stava schierando. Indicava qua e là mentre gli americani si muovevano lungo il perimetro del sito. «Guardate anche qui e qui. E chiaro che l'aereo è esploso in volo e non per via dell'impatto, che, considerando la conformazione del terreno, non ha causato che lievi danni ulteriori.» «Quindi quello che vediamo è più o meno l'aspetto dell'aereo subito dopo l'esplosione.» Chalthoum annuì. «Esatto.» Se ne potevano dire molte, sul suo conto, ma non che non fosse un vero professionista. Il problema era che il suo lavoro spesso includeva pratiche di tortura che avrebbero rivoltato anche gli aguzzini di Abu Ghraib. «E tutto distrutto» osservò. Non stava scherzando. Soraya vide gli uomini della task force infilarsi le tute di plastica e i copriscarpe. Kylie, il golden labrador antiesplosivi, andò avanti con il suo addestratore. Poi la squadra si divise in due gruppi. Il primo si diresse verso l'interno carbonizzato dell'aereo, mentre il secondo iniziò a ispezionare le lamiere contorte nella speranza di capire se l'esplosione fosse stata interna o esterna. Tra i membri di questo gruppo c'era Delia Trane, un'amica di Soraya e un'esperta di esplosivi della ATF, l'Ufficio Federale per il Controllo di Alcol, Tabacco e Armi da fuoco. Nonostante avesse solo trentaquattro anni, vantava una tale esperienza che veniva spesso richiesta da numerose agenzie federali preposte all'ordine pubblico, bisognose delle sue perizie. Marcata stretta da Amun, Soraya si diresse verso il circolo della morte, schivando pezzi di metallo talmente ingarbugliati e carbonizzati che era impossibile capire quale potesse essere la loro forma originaria. Pezzi grandi come un pugno somiglianti a chicchi di grandine si rivelarono parti in plastica sciolte nell'esplosione. Poi si fermò e si accovacciò quando si accorse della presenza di una testa umana. Gran parte dei capelli e della carne era stata ridotta a cenere che chiazzava lo scheletro, evidente in parecchi punti. Poco oltre, un avambraccio emergeva dalla sabbia in un angolo. La mano sembrava una bandiera di benvenuto nel regno della morte. Soraya sudava, e non solo per il caldo brutale. Prese un sorso d'acqua da una bottiglia di plastica che le passò Chalthoum e poi proseguì. Poco distante dalle fauci spalancate della fusoliera come in uno sbadiglio, alcuni addetti offrirono loro una tuta di plastica e dei copriscarpe, che indossarono nonostante il caldo. Quando i suoi occhi si furono abituati all'oscurità, Soraya si tolse gli occhiali da sole e con uno sguardo passò in rassegna ciò che la circondava. Le file dei sedili erano inclinate a novanta gradi; il pavimento era dove si trovava la paratia di sinistra quando l'aereo era ancora alto nel cielo e tutti i passeggeri erano pieni di vita, parlavano e ridevano, stringevano mani o litigavano stupidamente nel momento prima dell'oblio. Ovunque c'erano corpi, alcuni ancora seduti, altri schizzati via con l'impatto. L'esplosione aveva ridotto in frantumi un'altra sezione del velivolo e tutti quelli che vi si trovavano. Soraya notò che i membri della task force venivano seguiti ovunque dagli uomini di Amun. Se il contesto non fosse stato così tragico, sarebbe stata una scena comica. Il suo accompagnatore era deciso a non permettere agli americani di muoversi, né di riprendere fiato riparandosi dal caldo impossibile e dall'odore delle latrine portatili, senza che lui ne venisse subito avvisato. «La mancanza di umidità gioca a vostro vantaggio» disse Chalthoum. «Rallenterà la decomposizione dei corpi non del tutto inceneriti.» «Una buona notizia per le famiglie.» «Certo. Ma siamo sinceri, non hai mai pensato né ai passeggeri né alle famiglie. Sei qui per scoprire cos'è successo. Vuoi capire se si è trattato di un guasto o di un atto terroristico.» Aveva ancora la capacità, rara negli egiziani, di andare dritto al sodo. Quel paese era un inferno burocratico. Non si muoveva niente, non si poteva ricevere nemmeno una semplice risposta se non venivano interpellate almeno quindici persone in sette diverse divisioni. Soraya ci rifletté giusto un secondo, prima di rispondere: «Sarebbe stupido fingere che non sia così». Chalthoum annuì. «Sì, perché il mondo vuole sapere, ha bisogno di sapere. Ma la mia domanda è un'altra: e poi quali saranno le conseguenze?» Un quesito a trabocchetto, pensò lei. «Non lo so. Quello che accadrà non è di mia competenza.» Fece un cenno a Delia, che annuì e li raggiunse con in mano la torcia, evitando le macerie e gli addetti che lavoravano ricurvi su di esse. «Hai trovato qualcosa?» «Stiamo iniziando gli esami preliminari.» Gli occhi chiari di Delia si fissarono sull'egiziano e poi sulla sua amica. «Va bene» la rassicurò Soraya. «Voglio sapere tutto ciò che scoprite, ogni cosa, anche se sembra una stupidaggine.» «Okay.» La madre di Delia era una colombiana dell'alta società di Bogotà, e sua figlia aveva ereditato il sangue fiero degli avi. La sua pelle era scura come quella di Soraya, ma le analogie si fermavano qui. Delia aveva un viso piatto e un aspetto mascolino, con i capelli tagliati corti, le mani forti e un fare deciso che spesso veniva scambiato per maleducazione. A Soraya piaceva, era una persona con cui poteva lasciarsi andare. «Ho l'impressione che non sia stata una bomba. L'esplosione non è avvenuta nella stiva.» «E quindi pensi a un guasto tecnico?» «Kylie ci sta dicendo di no» rispose Delia, riferendosi al cane. Soraya esitò un momento; pensava di chiedere altre cose alla sua amica, ma poi lasciò perdere. Doveva trovare un modo per parlare con lei senza Amun fra i piedi a scandagliare ogni singola parola. Così fece un cenno con la testa a Delia, che tornò al suo lavoro. «Sa più di quello che ha riferito» commentò Chalthoum. «Voglio sapere cosa sta succedendo.» Quando Soraya rispose «Niente», lui aggiunse: «Va' a parlarle. Da sola!». Soraya si voltò verso di lui. «E poi?» Amun alzò le spalle. «E poi mi riferisci tutto, no?» Era già tarda sera quando Moira fu pronta per lasciare l'ufficio. Stanca morta, spense la tv sintonizzata sulla CNN. L'aveva tenuta accesa senza volume dal momento in cui si era diffusa la notizia del disastro aereo in Egitto. L'incidente l'aveva innervosita, e aveva avuto lo stesso effetto su molte altre persone nel campo della sicurezza. Nemmeno una parola su ciò che era davvero successo, neanche dal suo canale secondario: quelle fonti indipendenti avevano risposto in maniera talmente concisa da dare i brividi. Intanto la stampa attraversava una giornata campale; i mezzibusti della tv ipotizzavano uno scenario terroristico. Senza contare la miriade di congetture intitolate La verità che non vogliono farvi vedere che apparivano sui siti Internet, compresa quella che girava già dall'1 settembre, secondo cui dietro l'attentato c'era il governo americano bisognoso di rafforzare il suo casus belli. Mentre scendeva in ascensore verso il garage, la sua mente era in due posti diversi allo stesso tempo: lì con lei e la nuova organizzazione che stava mettendo in piedi, e a Bali con Bourne. Le ferite, l'intervento chirurgico e la riabilitazione avevano reso ancor più doloroso il distacco. Il suo futuro che sembrava così semplice quando ne avevano parlato in piscina, era diventato vago e nebuloso. Era attanagliata dall'ansia, non tanto perché sentiva il bisogno di prendersi cura di lui - Dio solo sapeva che pessima infermiera sarebbe stata -, ma perché in quel tempo infinito in cui la sua vita era appesa a un filo lei era stata costretta a rivedere i suoi sentimenti per lui. La possibilità che le venisse strappato via per sempre la spaventava tanto da toglierle il fiato, una sensazione di buio soffocante che oscurava il sole di giorno e le stelle di notte. Era amore?, si chiedeva. Come poteva questo sentimento provocare quella pazzia che trascendeva tempo e spazio, che le faceva battere forte il cuore e le faceva tremare le gambe? Quante volte si era svegliata di notte da un sonno leggero e inquieto, con il bisogno di correre in bagno e guardarsi allo specchio senza riconoscersi? Era come se fosse stata gettata nella vita di qualcun altro senza essere stata invitata, una vita che non voleva e non capiva. «Chi sei?» domandava all'immagine riflessa nello specchio. «Come sei arrivata qui? Che cosa vuoi?» Né lei, né il suo riflesso avevano le risposte. Nell'immobilità della notte si sfogava piangendo la perdita di quella che era stata una volta, disperata per il futuro nuovo e incomprensibile che le aveva invaso il corpo. Ma di mattina tornava in sé: pragmatica, concentrata, inflessibile nella ricerca di nuove persone da assumere e nel mettere in pratica le regole ferree che aveva stabilito per i suoi collaboratori. Ognuno doveva giurare fedeltà alla Heartland come se fosse la patria. La Black River, il suo diretto rivale, sotto alcuni aspetti, lo era già. E poi il sole calava all'orizzonte, il crepuscolo e l'incertezza si impadronivano di lei, e la sua mente tornava a Jason, che non aveva più sentito da quando aveva lasciato Bali tre mesi prima, insieme al corpo di un vagabondo australiano e i documenti che lo identificavano come Bourne. Quel malessere le era iniziato sull'isola: il pensiero della morte imminente di Jason le faceva venir voglia di correre per non fermarsi mai. Ma ovunque andasse si ritrovava nello stesso punto da cui era partita, nel momento in cui Bourne era caduto a terra e il suo cuore aveva smesso di battere. La porta dell'ascensore si aprì nella distesa di cemento immersa nell'ombra del garage, e Moira si incamminò verso la macchina con le chiavi dell'auto in mano. Non le piaceva affatto camminare di sera in quel garage deserto. Le macchie di olio e carburante, la puzza dei gas di scarico, l'eco dei tacchi sul pavimento la rendevano triste e provava un'immensa solitudine, come se non ci fosse posto al mondo in cui si sentisse a casa. La sua auto era una delle poche rimaste. Ascoltando la cadenza ritmica dei suoi passi, seguiva il movimento della propria ombra deformata sulle colonne quadrate. Sentì il rumore di una vettura che si metteva in moto e si fermò, immobile, i sensi all'erta. Un'Audi grigio tortora sbucò dalla colonna, accese i fari e si diresse verso di lei prendendo velocità. Moira sfilò la Lady Hawk 9mm dalla fondina, si nascose con una mossa da vero cecchino e tolse la sicura. Stava quasi per premere il grilletto quando il finestrino dal lato del passeggero si abbassò e l'Audi inchiodò in uno stridio di gomme. «Moira...!» Lei si abbassò ancora di più sulle ginocchia, per mantenere l'eventuale bersaglio sotto tiro. «Moira, sono io, Jay!» Sbirciando dentro la macchina riconobbe Jay Weston, un agente che aveva rubato alla Hobart, il più grande appaltatore della Difesa internazionale di cui il governo disponeva. In un attimo ripose la pistola nella fondina. «Cristo santo, Jay, avrei potuto ucciderti!» «Ho bisogno di parlarti.» Moira lo guardò di traverso. «Be', avresti potuto chiamare, no?» L'uomo scosse la testa. Aveva il volto tirato e rigido per la tensione. «I cellulari non sono abbastanza sicuri. Non potevo correre rischi.» «Okay» disse lei appoggiandosi al finestrino. «Cosa c'è di tanto urgente?» «Non qui. Né in qualunque altro posto in cui possano sentirci.» Moira aggrottò le sopracciglia. «Non credi di essere un tantino paranoico?» «Essere paranoico è il mio mestiere.» Lei annuì. «Va bene, come vuoi che...?» «Devo mostrarti una cosa.» E con la mano batté sulla tasca di una giacca blu dall'aspetto costoso sul sedile del passeggero, poi partì sgommando verso la rampa che portava sulla strada senza darle il tempo di salire né di rispondergli. Lei scattò verso la sua macchina, azionò il telecomando, aprì lo sportello, sedette al volante e mise in moto. Il tutto in pochissimi secondi. L'Audi di Jay la stava aspettando in cima alla rampa. Quando l'uomo dallo specchietto retrovisore la vide arrivare, partì girando verso destra. Moira lo seguì. Il traffico della notte, fatto di persone che tornavano a casa dai teatri e dai cinema, era poco intenso; non c'era un vero motivo per cui Jay dovesse passare con il semaforo rosso lungo P Street, eppure era ciò che continuava a fare. Moira aumentò la velocità per stargli dietro, evitò per un pelo più di una volta di restare bloccata al semaforo, tra ruote che stridevano a causa delle brusche frenate e clacson impazziti. A tre isolati dall'ufficio di Moira si imbatterono in un poliziotto in moto. Moira lampeggiò a Jay, ma forse non stava guardando, oppure scelse di ignorarla e passò con il rosso. Il poliziotto la sorpassò come un razzo, puntando verso l'Audi di fronte a lei. «Cazzo!» imprecò schiacciando a tavoletta l'acceleratore. Stava già preparando mentalmente le giustificazioni per le ripetute infrazioni del suo agente, quando il poliziotto, che si era accostato all'Audi, tirò fuori la pistola d'ordinanza, la puntò dritta verso il finestrino del guidatore e sparò due colpi in successione. Moira ebbe solo un secondo per non tamponare l'Audi, che era fuori controllo, lottando contro la velocità smodata a cui stava andando. Con la coda dell'occhio vide la moto deviare e dirigersi in direzione nord, verso un incrocio. L'Audi sembrava un pendolo impazzito, e dopo una serie di sbandate si scaraventò contro la sua auto facendola roteare. L'impatto fece capovolgere l'Audi come uno scarafaggio che si rovescia sulla livrea dura e luccicante. Poi, iniziò a girare su se stessa; sembrava una biglia colpita da un dito maligno. Moira, però, ne perse le tracce, perché la sua auto andò a sbattere contro un lampione e finì in un parcheggio, sfondando il parabrezza. Una tempesta di vetri in frantumi la travolse, lei fu strattonata in avanti, sbatté contro l'airbag che si era gonfiato, poi fu spinta violentemente di nuovo contro il sedile. E tutto si fece nero. Procedere tra le file posteriori dei sedili era come attraversare un mare denso di cadaveri. Era impossibile passare vicino ai corpicini dilaniati dei bambini senza sentirsi male. Soraya recitava una preghiera per ogni anima a cui era stata strappata la vita. Quando raggiunse Delia, si accorse che aveva trattenuto il respiro per tutto il tempo. Si rilassò, buttando fuori l'aria con un sibilo leggero. Il prepotente, acre odore di bruciato le invase le narici. Lei toccò la spalla della sua amica e, attenta a non farsi sentire dalla guardia egiziana, le disse sottovoce: «Vieni, facciamo due passi». La guardia fece per seguirle, ma si fermò al cenno di Chalthoum. Fuori i loro occhi furono colpiti dalla luce del deserto, accecante anche con gli occhiali da sole. Ma l'aria era asciutta, arida; il sole micidiale sembrava attirarle, con il suo caldo respiro, nella cava della morte in cui erano affondate. Ritornare nel deserto, pensava Soraya, era come riabbracciare un amante desiderato per tanto tempo. La sabbia sussurrava alla pelle una carezza intima. Nel deserto potevi vedere tante cose venirti incontro. E questo era il motivo per cui gente come Amun mentiva: perché il deserto invece diceva sempre la verità. Quelli come Amun pensavano che così tanta verità fosse nociva, perché non ti lasciava niente in cui credere, nessuna illusione per cui valesse la pena vivere. Soraya sentì di capirlo molto più di quanto lui capisse lei. Amun era convinto del contrario, forse perché gli faceva comodo pensarla così. «Delia, dimmi la verità. Cosa sta succedendo?» le chiese Soraya una volta che furono a debita distanza dalle sentinelle di al-Mukhabarat. «Niente di certo, ancora.» Si guardò intorno per essere sicura che fossero sole. Vedendo che Chalthoum le stava fissando, disse: «Quell'uomo mi fa venire la pelle d'oca». Soraya si allontanò ulteriormente dallo sguardo penetrante dell'egiziano. «Non preoccuparti, non può sentirci. Che idea ti sei fatta?» «Maledetto sole!» Non riuscendo a tenere gli occhi aperti nemmeno dietro le lenti scure degli occhiali, Delia si portò una mano sulla fronte per farsi ombra. «Mi si spaccheranno le labbra prima di domani.» Soraya aspettò, mentre il sole continuava a pulsare nel cielo. «Fanculo» sbottò infine Delia. «Credo che il disastro non sia dovuto a un'esplosione interna. Mi ci giocherei qualsiasi cosa.» La Trane era un'accanita giocatrice di poker, riduceva tutto a una puntata. «Secondo il mio istinto è un'esplosione particolare.» «Quindi non è stato un incidente.» Il sangue di Soraya si gelò nelle vene. «Se escludi una bomba, a cosa stai pensando? A un missile aria-aria?» Delia alzò le spalle. «Potrebbe essere, ma hai letto anche tu le trascrizioni dell'ultima conversazione dell'equipaggio con la torre di controllo del Cairo. Dicevano di non vedere alcun jet in avvicinamento.» «E se fosse arrivato da sotto o di lato?» «Potrebbe essere, ma in quel caso il radar lo avrebbe segnalato. E poi il copilota ha urlato di aver visto qualcosa più piccolo di un jet.» «Ma l'ha visto solo all'ultimo secondo. L'esplosione è avvenuta prima che avessero il tempo di descrivere cosa fosse.» «Se la tua ipotesi è giusta, allora si tratterebbe di un missile terra-aria.» Delia annuì. «Se siamo fortunati troveremo la scatola nera intatta, e il suo contenuto ci rivelerà qualcosa di più.» «Quando?» «Hai visto com'è là dentro. Ci vorrà un po' anche solo per capire se potrà essere recuperata.» Nel sussurro arido e sinistro del vento caldo che modella le dune, risuonarono le parole di Soraya: «Un missile terra-aria aprirebbe una serie infinita di scenari». «Lo so» concordò Delia. «Compresa quella del possibile coinvolgimento del governo egiziano.» Soraya non riuscì a trattenersi dal voltarsi verso Chalthoum. «O di al-Mukhabarat.» *** Capitolo 6 Moira si svegliò ai battiti del cuore di sua madre. Risuonavano forte, come il ticchettio dell'orologio del nonno, e la terrorizzavano. Per un momento si ritrovò distesa nell'oscurità a rivivere i suoni e le immagini sfocate, per via delle lacrime che le velavano gli occhi, dei paramedici che portavano sua madre all'ospedale. Quella fu l'ultima volta che la vide viva. Non ebbe mai la possibilità di dirle addio. Le ultime parole che aveva rivolto a sua madre erano state: «Ti odio! Stai fuori dalla mia vita!». E all'improvviso lei era morta. Moira aveva diciassette anni. Poi il dolore cominciò a farsi sentire, forte come un urlo. Il ticchettio era reale. Era l'impianto di raffreddamento. Delle mani tentavano di tirarla fuori, districandosi tra la cintura di sicurezza e l'airbag sgonfio. Come in un sogno, percepì il movimento del suo corpo, l'effetto della forza di gravità sulle spalle e alla bocca dello stomaco. La testa si rovesciò all'indietro come se fosse staccata dal corpo, il dolore intenso la nauseava. Poi, con un fragore che riecheggiò ovattato nelle sue orecchie, venne liberata dalla gabbia d'acciaio. Sentì la dolce brezza notturna sulle guance, il brusio delle voci attorno a lei come di tanti insetti ronzanti. Sua madre... la sala d'attesa dell'ospedale, con l'odore pungente di disinfettante e disperazione... la vista della bambola di cera, il corpo di colei che le aveva dato la vita, nella bara, orribile nella sua totale immobilità... il cimitero... il cielo giallo che puzzava di gas e trasudava dolore... il terreno che la inghiottiva, come una bestia che chiude le fauci... zolle di terra sopra la bara inondate di lacrime e pioggia... Lentamente riprese coscienza, la nebbia nella sua testa si diradò e ritornò in pieno possesso delle sue facoltà. Come se si fosse appena svegliata da un incubo, ricordò dove si trovava e cos'era successo. Avvertiva la vicinanza della morte, sapeva che l'aveva sfiorata. Ogni respiro sembrava fatto di ghiaccio e fuoco, ma era viva. Mosse le dita dei piedi e delle mani. Tutto a posto, funzionavano. «Jay» sussurrò al paramedico piegato sopra di lei. «Jay, sta bene?» «Chi è Jay?» chiese una voce fuori dal suo campo visivo. «Non c'era nessun altro in macchina.» Il ragazzo aveva una faccia simpatica. Forse era troppo giovane per questo tipo di lavoro. «Non nella mia macchina» riuscì a spiegare Moira, «in quella davanti.» «Oddio!» esclamò la voce al suo fianco. La faccia simpatica sopra di lei cambiò espressione. «Il suo amico... Jay. Non ce l'ha fatta.» «No!» gridò lei piangendo disperata. «Maledetti!» I paramedici ripresero le procedure, ma Moira li interruppe: «Voglio tirarmi su e mettermi seduta». «Non è una buona idea, signorina» disse Faccia simpatica. «E ancora sotto shock e...» «Mi metterò seduta» insistette Moira, «con o senza il tuo aiuto.» Mettendole le mani sotto le braccia, il ragazzo l'aiutò ad alzarsi. Era in strada, vicino alla macchina. Quando cercò di dare un'occhiata in giro trasalì alla vista delle luci che l'accecavano. «Fammi alzare in piedi» disse stringendo i denti. «Devo vederlo.» «Signorina...» «Ho qualcosa di rotto?» «No, signorina, ma...» «Allora, Cristo santo, fammi alzare in piedi!» Ora riusciva a vederli entrambi, il secondo paramedico sembrava ancora più giovane del primo. «Ma siete due bambini!» disse, mentre la facevano alzare sull'asfalto. Le ginocchia stavano per cederle e vide tutto nero, così dovette appoggiarsi a loro per un po'. «Signorina, è bianca come un fantasma» si preoccupò Faccia simpatica. «Io credo che...» «Per favore, piantala di chiamarmi signorina. Sono Moira.» «La polizia sarà qui a momenti» mormorò l'altro. Lei sentì una fitta alla bocca dello stomaco. Faccia simpatica le disse: «Moira, mi chiamo Dave, e il mio collega qui è Earl. Ci sono dei poliziotti che vorrebbero farle qualche domanda sull'accaduto». «Tutto questo è successo per colpa di un poliziotto» rispose Moira. «Come!?» esclamò Dave. «Cos'ha detto?» «Voglio vedere Jay.» «Mi creda» tentò di convincerla Earl, «è meglio di no.» Moira si abbassò e accarezzò la sua Lady Hawk. «Non mettetevi in mezzo, chiaro?» Senza aggiungere una parola, i due la portarono in fondo alla strada. Il selciato era ricoperto di pezzi di auto e frammenti luccicanti dei finestrini. Moira vide un autocarro dei pompieri e un'ambulanza dietro ciò che rimaneva dell'Audi. Nessuno avrebbe potuto sopravvivere a un incidente del genere. A ogni passo comunque lei acquistava forza e sicurezza. Era ancora sottosopra, piena di lividi, e forse aveva subito un trauma, come le avevano detto, ma era viva. Miracolosamente. Pensò a Bali e allo spirito del maialino: continuava a proteggerla. «Ecco che arriva la cavalleria» avvertì Earl. «Parla dei poliziotti» tradusse Dave. «Ragazzi» disse Moira, «ho bisogno di passare qualche minuto da sola con il mio amico e la polizia non me lo permetterà.» «Neanche noi dovremmo» replicò Dave dubbioso. «Me ne occupo io.» Earl si allontanò per trattenerli. «Fai attenzione.» Dave mise più forza nel sorreggere Moira, ora che Earl non c'era più ad aiutarlo. Lei fece un paio di respiri profondi per rinfrescare la mente e rinvigorire il corpo. Sapeva di avere pochissimo tempo prima che i poliziotti superassero qualsiasi ostacolo Earl avesse frapposto. Passarono accanto alla carcassa irriconoscibile dell'Audi. Moira prese una grossa boccata d'aria per farsi forza, poi si trovarono davanti a quello che restava di Jay Weston. Il corpo, ridotto a brandelli, non era più quello di un uomo. «Come diavolo avete fatto a tirarlo fuori?» «Con delle cesoie, ma purtroppo è servito a ben poco.» Dave l'aiutò ad accovacciarsi vicino al cadavere, mentre un altro attacco di vertigini minacciava di farla cadere. «Sto rischiando il posto di lavoro.» «Tranquillo, i miei amici ti aiuteranno.» Moira osservò ogni centimetro del corpo devastato di Jay. «Gesù, non dev'essersi salvato niente.» «Cosa sta cercando?» «Vorrei saperlo anch'io, ma la sua giacca...» Dave si piegò e tirò fuori qualcosa da sotto le macerie. «Si riferisce a questa?» Il cuore di Moira iniziò a batterle veloce nel petto. Era la sua giacca blu, miracolosamente integra nonostante le bruciacchiature sulle maniche e l'odore di fumo misto a colonia che emanava. «Sembra assurdo, ma cose come questa accadono in continuazione» le disse Dave. Si era messo di proposito tra Moira e i due poliziotti che avevano appena spinto Earl da una parte, stanchi di tutto quel gergo medico. «Ci capita di trovare gli oggetti più impensabili, dai portafogli alle chiavi, dai cappelli ai condom, integri nella distruzione più macabra.» Moira lo ascoltava con un orecchio, mentre le sue dita ispezionavano le tasche interne ed esterne della giacca. Un pacchetto di gomme, due elastici, una graffetta, un pezzettino di garza. Nelle tasche interne non c'erano né il portafogli né la carta d'identità, come richiedeva la procedura. I soldi li aveva addosso, da qualche parte, ridotti in cenere. Toccò il cellulare proprio mentre Dave si alzò per trattenere i poliziotti. Moira stava per arrendersi, quando sentì il filo lento di una cucitura. Tirandolo, si formò un buco dal quale fece uscire una chiavetta USB da due giga. Sentendo i passi che si avvicinavano si fece il segno della croce e, con l'aiuto di Dave che le sosteneva il gomito, si mise in piedi per affrontare l'interrogatorio della cavalleria. Si rivelò del tutto inutile, ridicolo e stupido, come aveva previsto, ma si fece una bella risata quando, alla terza volta che le rivolgevano la stessa domanda, tirò fuori il distintivo del Federal Securities Act, davanti al quale ammutolirono tutti. Dave e Earl erano rossi in viso e non riuscivano a trattenere le risatine. «Voglio sapere chi era quell'agente» disse Moira. «Vi ho già ripetuto due volte, anche se ovviamente non mi avete creduto, che ha tirato fuori la pistola e ha sparato al finestrino dell'Audi di Weston.» «Weston lavorava per lei?» Il più alto dei due aveva un distintivo con su scritto severin. Quando Moira rispose di sì, fece un cenno con la testa al collega che si allontanò per telefonare. «Perché era inginocchiata sopra il cadavere?» le chiese Severin. Era probabile che stesse solo prendendo tempo, dato che l'aveva visto coi suoi occhi e, soprattutto, lei glielo aveva già raccontato due volte. «Pregavo per l'anima del mio amico.» Severin aggrottò la fronte, poi annuì, partecipe, e si voltò verso Dave e Earl. «Questi due buzzurri non avrebbero mai dovuto lasciare che si avvicinasse al suo amico e rovinasse la scena del crimine.» «Capisco.» L'espressione del poliziotto si fece ancora più perplessa, ma la natura dei suoi pensieri rimase un mistero. Intanto il collega ritornava dopo aver finito la telefonata. «Qualcuno qui sta raccontando stronzate» disse con aria arguta. «Non c'è traccia di una pattuglia della Municipale o di qualunque altro dipartimento in zona a quell'ora.» «Maledetto!» Moira prese in mano il cellulare, ma prima di avere il tempo di fare una chiamata, due uomini le si pararono davanti. Indossavano lo stesso vestito scuro, ma con il tipico portamento militare degli agenti della NSA. Capì di essere in pericolo l'istante in cui mostrarono i distintivi ai due poliziotti. «Avete finito, qui, ragazzi» disse Vestito Scuro Numero Uno, mentre l'altro lanciava uno sguardo che non ammetteva repliche ai due colleghi. Quando questi si furono ritirati, Vestito Scuro Numero Uno infilò la mano nelle tasche di Moira con la maestria di un borseggiatore esperto. «Questo lo prendo io, signorina Trevor» le disse, tenendo in mano il cellulare di Jay. Moira cercò di riprenderlo, ma Vestito Scuro Numero Due lo allontanò dalla sua portata. «Ehi, è di proprietà della mia azienda!» «Spiacente» disse Vestito Scuro Numero Uno, «ma questa è stata dichiarata questione di sicurezza nazionale.» Subito dopo le afferrò un braccio. «E ora, se fosse così gentile da seguirci...» «Non avete il diritto di fare una cosa del genere!» si ribellò Moira. «Temo invece di sì» replicò Vestito Scuro Numero Uno, mentre il suo collega la prendeva per l'altro braccio, tenendo sollevato il cellulare di Jay. «Lei stava alterando la scena di un crimine.» Mentre la portavano via, Dave fece un passo verso di lei. «Fuori dai piedi!» gridò Vestito Scuro Numero Due. Il tono rude fece indietreggiare il paramedico, che le rivolse una parola di scusa prima di andarsene. Ora la visuale della scena era diversa, e Moira riuscì a vedere un uomo dietro l'agente della NSA. Era Noah, che la guardava con un sorrisetto malvagio. Prese il cellulare di Jay e se lo mise nella tasca della giacca. «Non puoi dire di non essere stata avvertita» furono le sue ultime parole. In sella alla moto che il dottor Firth aveva noleggiato, Bourne guidò verso le montagne orientali dell'isola di Bali - ripidissime in certi punti - fino ad arrivare ai piedi del monte Lempuyang, il complesso del tempio dei Dragoni. Parcheggiò la moto sotto gli occhi vigili di un guardiano seduto all'ombra di un albero. Comprò una bottiglia d'acqua in un chiosco che serviva sia i turisti curiosi sia i pellegrini devoti, e s'incamminò su per il pendio, vestito con il suo solito sarong tradizionale stretto in vita da una fascia. Il sacerdote alla Grotta dei Pipistrelli non sapeva dove fosse Suparwita, anche se lo conosceva, ma quando Bourne gli aveva raccontato il suo sogno ricorrente aveva riconosciuto subito le scale con i dragoni sul monte Lempuyang e gli aveva spiegato la strada per raggiungerlo. Non impiegò molto ad arrivare al primo tempio, un edificio dalle forme essenziali, poi prese a salire i gradini scoscesi che portavano al secondo tempio. Quando si ritrovò davanti la porta d'ingresso riccamente intarsiata, il dolore al petto lo costrinse a fermarsi. Guardando attraverso l'arco vide le tre scalinate, che erano persino più ripide delle due appena percorsa, custodite da sei enormi dragoni di pietra i cui corpi sinuosi e squamati salivano verso l'alto fungendo da corrimano. Il sacerdote non si era sbagliato. Quello era il posto del sogno, lì aveva visto la figura di donna contornata dall'arco mentre si voltava verso di lui. Si girò e scrutò il monte Agung, che in lontananza sembrava blu, la cui cima era coperta dalle nuvole. Attratto dalle scale dei dragoni, Bourne continuò la sua salita. Si fermò a metà strada e si guardò di nuovo alle spalle, verso il vulcano che riusciva a intravedere al di là dell'arco d'ingresso. Il cuore gli balzò in petto quando scorse una figura delinearsi contro il monte Agung. Scese un gradino, e vide che la sagoma era quella di una giovane ragazza vestita con un sarong rosso e giallo. Lei si voltò nel modo liquido e sinuoso tipico dei bambini balinesi, e svanì all'improvviso, lasciando al suo posto la luce del sole invasa dal pulviscolo. Riprendendo la salita, Jason raggiunse la piazza superiore del tempio, dove sostavano alcune persone. Vagò senza meta tra gli edifici decorati, sentendosi quasi fluttuare, come se fosse all'interno del suo sogno, il sogno del suo passato. Era uno straniero che ritorna in un posto familiare che aveva dimenticato. Sperava che quel luogo toccasse delle corde dentro di lui, ma non fu così, e fu invaso da un senso di frustrazione. L'esperienza dell'amnesia gli aveva insegnato che un nome, un'immagine, un odore, spesso facevano riaffiorare ricordi abbandonati. Perché era già stato a Bali? Essere lì, nel luogo che aveva sognato per mesi, avrebbe dovuto accendere qualcosa nella sua mente. E invece no. A un tratto si avvide di un uomo che stava recitando le sue preghiere. Poco dopo si alzò e Bourne si accorse che era Suparwita. I battiti del cuore accelerati, si incamminò verso di lui. «Stai bene, a quanto sembra» constatò Suparwita. «Sono sopravvissuto. Moira pensa sia tutto merito tuo.» Il guaritore sorrise, guardò oltre Bourne per un momento, verso il tempio. «Hai trovato una parte del tuo passato, vedo.» Bourne si voltò e guardò anche lui verso il tempio. «Se è così» disse, «non so quale sia.» «Però sei venuto.» «Ho sognato questo posto dalla prima notte che sono arrivato, sull'isola.» «Ti stavo aspettando. La potente entità che ti ha guidato e protetto ti ha condotto da me.» «Shiva? Shiva è il dio della distruzione.» «E della trasformazione.» Suparwita fece un cenno col braccio come a invitarlo a camminare. «Parlami del tuo sogno.» «Io sono qui e guardo indietro verso il monte Agung attraverso l'arco d'ingresso. All'improvviso una figura si staglia proprio in quel punto e si volta nella mia direzione.» «E poi?» «E poi mi sveglio.» Suparwita annuì, come se si fosse aspettato una risposta simile. Avevano seguito l'intera circonferenza della piazza del tempio ed erano arrivati nell'area antistante la porta d'ingresso. La luce era uguale a quella del sogno. Bourne fu percorso da un brivido. «Nel sogno hai visto la donna con cui sei stato qui» disse Suparwita. «Holly Marie Moreau.» Quel nome gli suonava vagamente familiare, ma Jason non riuscì a dargli un volto. «E dov'è adesso?» «Purtroppo è morta.» Suparwita indicò lo spazio tra l'entrata. «Era lì, come te la ricordi nel sogno, e poi se n'è andata.» «Se n'è andata?» «E caduta.» Suparwita si voltò verso di lui. «O l'hanno spinta.» *** Capitolo 7 «Dio santo, fa più caldo che all'inferno, qui, anche senza le tute di plastica.» Delia si asciugò il sudore sul viso. «Buone notizie, abbiamo trovato la scatola nera.» Soraya, in piedi vicino ad Amun Chaltoum in una delle tende vicino al luogo del disastro, si sentì sollevata da quell'interruzione. Stare vicino a lui in spazi così stretti era troppo per i suoi nervi. Il fatto che ci fosse più di un livello nella loro relazione - professionale, personale ed etnico - la rendeva già abbastanza difficile, in più erano anche amici-nemici, apparentemente schierati dalla stessa parte ma divisi da una competizione spietata per accaparrarsi le informazioni preziose per due governi dai programmi molto diversi. E così il balletto delle loro azioni si faceva molto complesso. «Che ci dice?» domandò l'egiziano. Delia gli riservò uno sguardo enigmatico. «Abbiamo appena iniziato a esaminare i dati a partire dagli ultimi momenti, ma dalla conversazione della cabina di pilotaggio è chiaro che l'equipaggio non ha avvistato nessun aereo. Però, il copilota ha visto qualcosa all'ultimissimo istante. Era piccolo e si avvicinava ad alta velocità.» «Un missile» concluse Soraya guardando in faccia Amun. Si chiedeva se già lo sapesse. Lo sapeva di sicuro, se al-Mukhabarat era coinvolta nell'incidente. Ma il volto scuro di lui rimase impassibile. Delia annuiva. «Un missile terra-aria sembra la cosa più probabile, a questo punto.» «Bene» disse Chalthoum in arabo nonostante la presenza di Delia nella tenda, «a quanto pare gli Stati Uniti non ci proteggono poi così tanto bene dagli estremisti.» «Credo sarebbe più utile per entrambi concentrarci sul possibile colpevole» disse Soraya, «anziché puntare il dito, non trovi?» Chalthoum la fissò negli occhi per un momento, poi annuì, e si ritirarono in due angoli opposti della tenda per aggiornare i rispettivi superiori. Usando il telefono satellitare della Typhon, Soraya chiamò Veronica Hart. «Questa è una brutta notizia» disse Veronica dall'altra parte del mondo. «La peggiore.» «Halliday ci si butterà anima e corpo.» Mentre parlava, Soraya intuì che Chalthoum stava riportando le informazioni appena ricevute da Delia al presidente egiziano. «Perché le cose buone succedono sempre alle persone cattive?» «Perché la vita è caos, e il caos non distingue tra bene e male.» Dopo un secondo di pausa, la Hart proseguì: «Novità sul fronte GIM?». Si riferiva al Gruppo indigeno militante iraniano. «Non ancora, l'incidente ci ha impegnato molto. La scena è orribile e le condizioni in cui operiamo rasentano l'impossibile. Non ho avuto un momento per me.» «Ma la cosa non può aspettare» le ricordò la Hart con fermezza. «Trovare informazioni sul gruppo iraniano è la tua principale missione.» «Tu e lei eravate venuti da me» cominciò a raccontare Suparwita. «Holly era molto agitata, ma non ti aveva detto il motivo.» Bourne fissò il punto in cui doveva essere finito il corpo, dove il suo nuovo inizio giaceva in frantumi. Perché era stato così stupido da pensare che il suo passato fosse morto e sepolto, quando invece lo aspettava in un angolo remoto del mondo come quello? Un altro pezzo di passato, un altro epilogo tragico. Perché era sempre coinvolto nella morte di qualcuno? Continuò a fissare dall'alto le tre scalinate con i dragoni come corrimani. Cercò di ricordare quel giorno, di ricordare se era venuto lì di corsa, se la donna fosse già in un lago di sangue, mentre lui si precipitava giù per le scale. Ma la sua mente era ottenebrata da una nebbia grigia, impenetrabile come la pietra dei dragoni, i guardiani fieri e implacabili del tempio. Quella nebbia lo stava proteggendo da un evento terribile accaduto in quel luogo? Il dolore al petto, quel compagno fedele che non lo lasciava mai da quando gli avevano sparato, si fece più intenso. Non doveva avere un bell'aspetto, perché Suparwita gli disse: «Vieni da questa parte». Dall'architrave, dall'abisso del passato, tornarono alla piazza del tempio, all'ombra fresca di un muro altissimo sul quale era raffigurato l'esercito dei demoni opposto agli spiriti dei dragoni locali. Jason si sedette e bevve un sorso d'acqua. Ripensò a ciò che gli piaceva così tanto di Moira: niente storie, niente smancerie, niente risposte senza senso. Il guaritore rimase in piedi con le mani giunte e aspettò paziente. «Eri venuto per Holly. Aveva sentito parlare di me, immagino» riprese infine il guaritore. Mentre il dolore lo costringeva a fare dei respiri lunghi e controllati, rispose: «Raccontami cos'è successo». «C'era un'ombra sopra di lei, come se portasse qualcosa di orribile con sé.» Gli occhi lucidi di Suparwita si fermarono sul volto dell'americano con gentilezza: «Era sempre stata serena, o meglio, senza emozioni. Ma in quel momento era terrorizzata. Di notte si svegliava di sopprassalto, si spaventava per i rumori violenti e non si sedeva mai vicino alle finestre. Quando andavate al ristorante, esigeva di sedersi al tavolo in fondo, da dove poteva avere una visuale di tutta la sala. Tu mi dicesti che anche nell'ombra potevi vedere le sue mani tremare. Lei cercava di nascondere il suo disagio stringendo forte il bicchiere, ma tu lo potevi notare comunque quando prendeva una forchetta o allontanava il piatto». Il rumore di un aeroplano interruppe per un attimo il cinguettio degli uccelli. Sul versante vicino si alzavano delle piccole colonne di fumo dai fuochi nelle risaie. Bourne raccolse le forze. «Forse non era più in sé.» Il guaritore annuì incerto. «Forse, ma posso garantirti che il suo terrore veniva da una fonte reale. Penso che tu sapessi quale fosse, comunque, perché facevi di tutto per aiutarla.» «Magari scappava da qualcosa o da qualcuno. E poi cos'è successo?» «L'ho purificata» rispose Suparwita. «Era intrappolata dai demoni.» «E quindi l'ha fatto.» «L'hai quasi fatto anche tu.» Bourne ripensò all'insistenza di Moira per incontrare il guaritore. Gli risuonarono le parole di Suparwita: « Tutto questo è già successo in passato. E succederà ancora.» La morte che sta alle calcagna della vita. «Stai dicendo che i due incidenti sono in qualche modo connessi?» «Sì, anche se sembra impossibile.» Suparwita si sedette dietro di lui. «Shiva era qui allora, ed è qui oggi. Se ignoriamo questi segni, lo facciamo a nostro rischio e pericolo.» Quello era l'ultimo paziente del giorno, per Benjamin Firth. Era un neozelandese alto e cadaverico, con la pelle gialla e gli occhi febbrili. Non veniva da Manggis, né da nessun altro villaggio della zona, dove Firth conosceva tutti. Eppure quell'uomo gli sembrava familiare, e quando disse di chiamarsi Ian Bowles il medico si ricordò che in effetti l'aveva già visitato un paio di volte negli ultimi mesi per delle forti emicranie. Ora si lamentava di un dolore allo stomaco e di problemi all'intestino, così Firth lo fece distendere sul lettino. «Come vanno le emicranie?» si informò mentre lo visitava. «Bene» disse Bowles con aria assente. Poi, con un tono più concentrato, aggiunse: «Meglio». Dopo avergli tastato lo stomaco e l'addome, il dottore gli disse: «Non trovo niente che non va. Le farò delle analisi del sangue accurate, tra un paio di giorni...». «Ho bisogno di alcune informazioni.» Firth rimase in piedi, immobile. «Scusi?» Bowles fissò il soffitto come se stesse decifrando i giochi di luce che vi si formavano. «Lasciamo perdere gli esami del sangue, io sono sano come un pesce.» Il dottore scosse la testa. «Non capisco.» Bowles sospirò. Poi si portò di colpo in posizione seduta, spaventando Firth. Gli prese il polso in una stretta violenta. «Chi è il paziente che hai nascosto qui negli ultimi tre mesi?» «Quale paziente?» Bowles fece schioccare la lingua contro il palato. «Ascoltami bene, dottorino. Non sono qui per problemi di salute» sogghignò. «Tu nascondi un paziente e voglio sapere chi è.» «Perché? Che ti importa?» Il neozelandese strinse ancora più forte il polso di Firth, tirandolo a sé. «Tu lavori in questo posto senza nessun tipo di problemi, ma tutte le cose belle hanno una fine.» Il tono della sua voce si abbassò. «Ora, stammi bene a sentire, idiota. Sei ricercato per omicidio colposo dalla polizia di Perth.» «Ero ubriaco» sussurrò Firth. «Non sapevo quel che facevo.» «Hai operato un paziente mentre eri sotto l'effetto dell'alcol, e quello è morto. Questo è quanto.» Diede a Firth una scossa violenta. «Non è così?» Il dottore chiuse gli occhi e bisbigliò un «sì». «Quindi?» «Non ho niente da dirti.» Bowles si spostò e scivolò più in giù sul lettino. «E allora andremo dalla polizia. La tua vita è finita.» Firth, dimenandosi, ribadì di non saperne niente. «Non ti ha mai detto come si chiama?» «Adam» rispose Firth. «Adam Stone.» «Ti ha detto lui di chiamarsi così? Adam Stone?» Firth annuì. «Ho controllato il passaporto.» Bowles cercò in una tasca e tirò fuori un cellulare. «Bene, dottorino, ecco tutto quello che dovrai fare per non finire dietro le sbarre.» Gli porse il cellulare. «Fammi una foto di questo Adam Stone. Una foto bella e nitida della sua faccia.» Firth si passò la lingua sulle labbra. Aveva la bocca talmente secca che non riusciva quasi a parlare. «Se lo faccio, mi lascerai in pace?» Il neozelandese gli fece l'occhiolino. «Ci puoi scommettere, dottorino.» Firth prese in mano il cellulare con la morte nel cuore. Ma cos'altro poteva fare? Non sapeva come trattare con persone del genere. Quanto meno non aveva detto il vero nome di Jason Bourne, ma non sarebbe servito a nulla se poi avesse dato la foto a quell'uomo. Bowles saltò giù dal lettino senza lasciare il polso di Firth. «Non fare cazzate, dottorino. Racconta a qualcuno del nostro incontro e ti ritroverai con un proiettile in testa, intesi?» Firth annuì in modo meccanico. Uno strano torpore si era impossessato di lui, inchiodandolo al pavimento. Bowles infine lo liberò dalla stretta al polso. «Grazie per aver trovato il tempo di visitarmi, dottore» disse a voce alta nel caso orecchie indiscrete fossero in ascolto. «Allora torno domani, alla stessa ora, per i risultati delle analisi, okay?» *** Capitolo 8 Il Nagorno-Karabakh si trovava nell'ovest dell'Azerbaigian, un'area molto contesa fin dai tempi in cui Joseph Stalin cercò di ripulirla dagli armeni. Il vantaggio che aveva Arkadin nell'addestrare una squadra da combattimento in Azerbaigian era che il paese a nordovest confinava con l'Iran. I punti di forza di quella particolare zona erano tre: offriva un terreno aspro e accidentato, identico a quello iraniano; era scarsamente popolata; inoltre i locali lo conoscevano perché aveva dato loro molto più di quanto avessero fatto Dimitrij Maslov e Semén Ikoupov. Rifornendo di fucili semiautomatici, bombe a mano, lanciarazzi e altre armi i capi delle tribù armene si poteva portare avanti la guerriglia contro il regime azerbaigiano, così come avevano fatto contro quello sovietico fino alla sua caduta. In cambio, Arkadin riceveva pacchetti di morfina di ottima qualità che portava fino al porto di Baku, dove venivano caricati su una nave mercantile che, attraverso il Mar Caspio, raggiungeva la Russia. Tutto sommato, il Nagorno-Karabakh era il posto più sicuro che Arkadin potesse trovare. Lui e i suoi uomini sarebbero stati al riparo, mentre i membri delle tribù avrebbero protetto le loro vite. Senza le armi fornite da Arkadin e dagli uomini per cui lavorava, sarebbero stati trascinati nella loro terra rossa e arida e sterminati come vermi. Gli armeni vivevano in quella zona, tra i fiumi Kura e Araxes, sin dall'epoca romana. Arkadin capiva l'orgoglio che sentivano per la loro terra, ed ecco perché aveva scelto proprio il Nagorno-Karabakh per dare inizio al suo traffico. Era stata una mossa azzeccata anche dal punto di vista politico. Dato che le armi che vendeva agli armeni contribuivano a destabilizzare il paese e, quindi, a dargli una grande spinta verso l'orbita moscovita, il Cremlino era ben felice di chiudere un occhio su quell'attività a dir poco losca. E ora la sua squadra da combattimento si sarebbe addestrata lì. Non fu sorpreso quando, al suo arrivo, i capitribù lo salutarono come un eroe. Non che un simile ritorno a casa fosse semplice e piacevole: niente nella vita di Arkadin lo era. Forse i ricordi che aveva di quel posto non coincidevano con la realtà, o forse qualcosa era cambiato dentro di lui. A ogni modo, nel momento in cui entrò nell'area del Nagorno-Kara-bakh, per lui fu come essere catapultato di nuovo a Niznij Tagil. Il campo era stato preparato come aveva richiesto: dieci tende mimetiche circondavano una zona ovale. Verso est c'era la pista dove era atterrato il suo aereo. Dalla parte opposta, una nuova ala a forma di L in cui si trovava un cargo della Air Afrika Transport. Le tende avevano un aspetto che non aveva previsto e, nella sua mente, le collegò all'anello delle prigioni di massima sicurezza intorno a Niznij Tagil, la città in cui era nato e cresciuto, sempre che venire su con due genitori psicotici si potesse definire crescere. Ma di nuovo, i ricordi non erano una cosa semplice. Venti minuti dopo entrò nella tenda che era stata allestita come stazione di comando e iniziò a passare in rassegna l'impressionante quantità di armi che aveva trasbordato: Lancaster AK47, mitragliatori calibro 6.8mm Bushmaster ARI5 e LWRC SRT, lanciafiamme M2A1-7 usati dai marines americani durante la Seconda guerra mondiale, granate perforanti, missili a spalla Stinger FIM-92, obici mobili, e il fiore all'occhiello della sua missione: tre elicotteri Apache AH-64 caricati con missili Hellfire AGM114 con ogive a doppia carica di uranio impoverito appositamente progettate, in grado di perforare anche il veicolo più blindato, secondo quanto garantito dal produttore. Con indosso l'uniforme mimetica, un manganello in metallo appeso a un fianco e una Colt .45 all'altro, Arkadin uscì dalla tenda più grande e si trovò di fronte Dimitrij Maslov, a capo della Kazanskaja, la famiglia più potente della mafia moscovita. Maslov sembrava un guerriero intento a pianificare come far fuori il suo nemico nel minor tempo possibile e nella maniera più dolorosa. Le sue grosse mani erano in grado di afferrare il collo di chiunque. Rispetto alle gambe muscolose, i piedi erano inaspettatamente graziosi e delicati, come se fossero stati presi dal corpo di qualcun altro. I suoi capelli erano cresciuti molto, dall'ultima volta che aveva incontrato Arkadin, e con la tuta mimetica aveva l'aria anarchica di un Che Guevara. «Leonid Danilovic» disse Maslov con una cordialità simulata, «vedo che non hai perso tempo, per utilizzare il nostro materiale di guerra. Bravo, hai fatto bene, costa una fortuna.» Maslov era accompagnato da due guardie del corpo con le mimetiche chiazzate dal sudore. Era evidente che non si sentivano a loro agio, in quel caldo infernale. Arkadin passò lo sguardo sulle due armi umane per poi posarlo, con una certa dose di diffidenza, dritto negli occhi del capo della grupperovka. Da quando non era più il principale collaboratore della Kazanskaja e aveva iniziato ad accettare incarichi solo da Semén Ikoupov, non era sicuro di quale fosse la sua relazione con Maslov. Il fatto che ora fossero in affari non significava nulla. Era stata una combinazione di circostanze obbligate e partner potenti a farli lavorare insieme. Arkadin aveva l'impressione che fossero come due pitbull, ognuno deciso a finire l'altro. La sensazione fu confermata dalle parole di Maslov: «Non mi sono ancora ripreso dalla perdita dell'anello messicano nella mia catena della droga. Non riesco a smettere di pensare che, se solo tu fossi stato reperibile, non sarebbe successo». «Adesso esageri, Dimitrij Ilinovic.» «E invece sei sparito dalla circolazione» continuò Maslov, ignorando Arkadin. «Eri introvabile.» Arkadin capì che era meglio iniziare a prestare attenzione alle parole di Maslov. Sospettava forse che fosse stato lui a prendere il computer di Gustavo Moreno, premio che Maslov riteneva fosse suo di diritto? Meglio cambiare argomento, si disse. «Perché sei qui?» «Mi piace controllare di persona i miei investimenti. E poi Triton, che coordina l'intera operazione, voleva un resoconto dettagliato dei tuoi progressi.» «Bastava che mi chiamasse» fece notare Arkadin. «E un uomo accorto, il nostro Triton, o per lo meno così mi hanno riferito. Non l'ho mai incontrato di persona. A esser sincero, non so nemmeno chi sia, so solo che è uno che ha delle tasche belle grosse e i mezzi per mettere in piedi questo progetto. E non dimenticarti, caro Arkadin, che sono stato io a raccomandarti a lui. "Non c'è nessuno in grado di preparare questi uomini meglio di lui", gli ho detto senza tanti giri di parole.» Arkadin ringraziò Maslov, anche se gli costò molto. D'altro canto, però, sapere che Maslov non avesse idea di chi fosse Triton, o per chi lavorasse, lo rassicurava, perché al contrario lui sapeva tutto. I milioni accumulati da Dimitrij Ilinovic lo avevano reso troppo sicuro di sé e poco accorto, e quindi pronto per il massacro, pensò Arkadin. E questo sarebbe successo fin troppo presto. Quando Maslov gli aveva telefonato per proporgli il piano di Triton, all'inizio si era tirato indietro. Ora che era a capo della Fratellanza Orientale non aveva più bisogno né voglia di mettersi a disposizione come mercenario. Maslov allora lo aveva corteggiato descrivendogli il ruolo che avrebbero avuto lui e la Legione Nera nel piano, ma non era servito a convincerlo, così gli sventolò davanti al naso un assegno da ventimila dollari. Arkadin rimase titubante, fino a che non capì che nel mirino c'era l'Iran e che l'obiettivo era sovvertire il regime attuale. A quel punto la prospettiva allettante degli oleodotti iraniani cominciò a ronzargli nella mente: milioni a non finire; potere sterminato. Solo l'idea gli tolse il respiro. Era abbastanza furbo, però, da capire che, malgrado Maslov non ne avesse fatto parola, gli oleodotti erano anche l'obiettivo finale di Triton. Il suo progetto prevedeva di mettere fuori gioco Triton all'ultimo momento e tenersi gli oleodotti tutti per sé, ma per farlo aveva bisogno di conoscere perfettamente le risorse del suo nemico. Doveva sapere chi era questo Triton. Arkadin vide qualcuno scendere dalla jeep che gli avevano segnalato le vedette delle varie tribù e che aveva portato Maslov e i suoi scagnozzi. Il caldo che saliva dall'asfalto appena steso oscurò il volto dell'uomo. Ma non fu un problema: Arkadin riconobbe l'andatura disinvolta e ciondolante che cercava di imitare quella di Clint Eastwood in Per un pugno di dollari. «Che ci fa qui?» Arkadin si sforzò di mantenere un tono di voce tranquillo. «Chi? Oserov?» ribatté Maslov con aria innocente. «Vylaceslav Germanovic è diventato il mio braccio destro.» Scosse la testa con fare ingenuo. «Non te l'avevo detto? Lo avrei fatto, se fossi stato in grado di mettermi in contatto con te per proteggere i miei interessi in Messico.» Si strinse nelle spalle. «E invece...» Oserov sorrideva con quell'espressione fra il condiscendente e l'ironico che si era impressa nella mente di Arkadin a Niznij Tagil. Bastava aver studiato a Oxford per sentirsi superiore a qualsiasi altro membro della grupperovkaì Arkadin pensava di no. «Arkadin, sei tu?» Oserov si rivolse a lui con un perfetto inglese britannico. «Accidenti, sei ancora vivo, che sorpresa!» Arkadin gli diede un pugno violento allo zigomo. Oserov, sempre con lo stesso sorriso stampato in faccia, cadde in ginocchio con gli occhi rivolti all'indietro, mentre le guardie del corpo di Maslov si mossero per intervenire. Maslov le fermò con un gesto della mano. Ma era nero di rabbia. «Non avresti dovuto farlo, Leonid Danilovic!» «E tu non avresti dovuto portarlo qui!» Noncurante delle armi puntate su di lui, Arkadin si accovacciò all'altezza di Oserov. «E così eccoti qua, sotto il sole cocente dell'Azerbaigian, tanto lontano da casa. Come ci si sente?» Gli occhi di Oserov erano iniettati di sangue e un rigagnolo rossastro iniziò a scendere come una ragnatela dall'angolo della bocca, ma non smise mai di sorridere. All'improvviso allungò una mano e afferrò Arkadin per il colletto della camicia, tirandolo a sé. «Ti pentirai amaramente di avermi insultato in questo modo, Leonid Danilovic, ora che non c'è più Misca a proteggerti.» Arkadin si divincolò e si alzò in piedi. «Ti avevo detto cosa gli avrei fatto se l'avessi rivisto di nuovo.» Maslov strizzò gli occhi, sul volto la stessa espressione piena di rabbia di poco prima. «Ma è passato tanto tempo.» «Non per me» replicò Arkadin. Quella era una presa di posizione netta, un'affermazione inequivocabile che Maslov non poteva ignorare. Niente sarebbe stato come prima tra i due, e per Arkadin era un sollievo, considerato il suo orrore innato per l'inerzia, tipico dei prigionieri. Per lui cambiare significava vivere. Dimitrij Maslov lo aveva sempre considerato un lavoratore, qualcuno da ingaggiare e di cui poi dimenticarsi in fretta. Ma le cose dovevano cambiare. Maslov doveva rendersi conto che loro due erano ormai alla pari. Arkadin non poteva concedersi il lusso del tempo per introdurre il suo nuovo status. Mentre Oserov si rialzava da terra, Maslov rovesciò la testa all'indietro e iniziò a ridere, ma si riprese quasi subito. «Vylaceslav Germanovic, torna in macchina» gli ordinò sottovoce. Oserov fece per dire qualcosa, poi cambiò idea. Rivolgendo ad Arkadin uno sguardo crudele, girò i tacchi e se ne andò. «E così sei un grand'uomo, adesso» disse Maslov con un tono tranquillo che rivelava una nota di minaccia nella voce. Arkadin comprese il vero significato di quelle parole: Ti conosco da quando non eri altro che uno straccione in fuga da Niznij Tagil, perciò non provarci nemmeno con me. «Non esistono grandi uomini» replicò Arkadin sereno, «ma solo grandi idee.» I due si fissarono in silenzio. Poi iniziarono a ridere all'unisono. Ridevano così di gusto che le guardie del corpo si guardarono con aria interrogativa e riposero le pistole. Maslov e Arkadin si diedero dei leggeri colpetti e poi si abbracciarono come due fratelli. Ma Arkadin sapeva che quell'abbraccio era peggio di una lama che si infilava tra le costole. Bourne lasciò il warung e si incamminò lungo il ripido pendio che sovrastava le risaie. Più in basso, due ragazzini uscivano di casa per andare a scuola nel villaggio di Tenganan. Continuò la sua discesa lungo il sentiero ripido passando vicino alla casa da cui erano appena usciti i due studenti. Un uomo - il padre, presumeva - tagliava la legna, mentre una donna cucinava qualcosa in un wok sopra il fuoco vivo. Due cani scheletrici uscirono fuori per osservare il passaggio di Jason, mentre i due adulti non gli prestarono la minima attenzione. La stradina si fece pianeggiante, un po' più larga, ma disseminata di rocce e pile di letame di mucca da evitare. Era lo stesso sentiero che lui e Moira avevano imboccato quando erano stati inseguiti dal motociclista che li aveva spinti verso l'area di caccia di Tenganan. Dopo essere passato sotto l'arco d'entrata, s'incamminò verso la scuola e il campo da badminton deserto. Si ritrovò subito nello spazio sacro occupato dai tre templi. A differenza della prima volta che era stato in quel posto, i luoghi di culto erano vuoti. In alto, le nuvole si stagliavano contro il cielo ceruleo formando dei ghirigori. Una brezza delicata scosse le cime degli alberi. I suoi passi leggeri e silenziosi non infastidirono le mucche e i vitelli che girovagavano lungo le fresche pareti del tempio più lontano, avvolto nell'ombra. Oltre agli animali, non c'era nessuno. Mentre passava tra il tempio centrale e quello a destra, provò uno strano turbamento. Superò il punto in cui si era ritrovato disteso coperto di sangue con Moira che si piegava sopra di lui con il volto contorto dal terrore. Il tempo sembrò distendersi all'infinito per poi tornare indietro di scatto come un elastico. Si lasciò i muri posteriori dei templi alle spalle e si ritrovò di nuovo su un terreno ripido. La foresta incombeva come una maestosa parete verde sopra di lui. Il tiratore che lo aspettava doveva essersi nascosto proprio lì. Sotto l'ultima frangia della foresta impenetrabile c'era un piccolo santuario in pietra avvolto dal tradizionale tessuto a scacchi bianchi e neri, protetto da un parasole giallo. Lo spirito locale era presente, ma non era solo. Notando un leggero movimento con la coda dell'occhio, Bourne balzò tra la vegetazione, afferrò un braccio scuro e sottile e tirò fuori la figlia più grande della famiglia che gestiva il warung. Stettero a lungo a fissarsi in silenzio. Poi Bourne si accovacciò sulle ginocchia in modo da trovarsi alla stessa altezza degli occhi della ragazzina. «Come ti chiami?» le chiese. «Kasih» rispose lei. Bourne sorrise. «Che ci fai qui, Kasih?» Gli occhi della ragazza erano profondi come il mare e scuri come la pece. I lunghi capelli le sfioravano le spalle minute. Indossava un sarong color caffè con un motivo di frangipani in fiore, lo stesso delYikat doppio di Bourne. La sua pelle era pura e liscia come la seta. «Kasih...?» «Tu sei stato ferito a Tenganan tre lune piene fa.» Il sorriso sul volto di Bourne si fece impercettibile. «Ti sbagli, Kasih. Quell'uomo è morto. Sono stato al suo funerale a Manggis prima che il suo corpo fosse spedito negli Stati Uniti.» La ragazzina fece un sorriso enigmatico come quello della Monna Lisa. Poi gli si avvicinò, e con le dita sottili gli slacciò la camicia coperta di sudore, scoprendo le bende che proteggevano la ferita. «Ti hanno sparato, bapak» disse con il tono serio di un adulto. «Non sei morto, ma è difficile per te scalare la nostra collina così ripida.» Scosse la testa e proseguì: «Perché lo fai?». «Così un giorno ci riuscirò senza fare fatica» rispose Jason riabbottonandosi la camicia. «Questo sarà il nostro piccolo segreto, Kasih. Non deve saperlo nessuno, oltre a noi, altrimenti...» «L'uomo che ti ha sparato tornerà.» Bourne si alzò in piedi, sentì il battito del cuore accelerare. «Come lo sai, Kasih?» «Perché i demoni tornano sempre.» «Che vuoi dire?» La ragazzina si avvicinò riverente al santuario, mise una manciata di fiori rossi e viola in una piccola nicchia, congiunse i palmi delle mani e abbassò la testa per recitare una breve preghiera affinché gli dèi li proteggessero contro i demoni cattivi che si nascondevano nelle cupe ombre irrequiete della foresta. Fece un passo indietro e, dopo essersi inginocchiata, iniziò a scavare nella parte posteriore del santuario. Un secondo dopo tirò fuori dalla nera terra vulcanica un piccolo involucro fatto con foglie di banano legate insieme. Si voltò e lo offrì a Bourne con il terrore negli occhi. Pulendolo della terra che era rimasta, Bourne slegò le foglie e le separò a una a una. Dentro vi trovò un occhio umano fatto di vetro o di acrilico. «E l'occhio del demone, bapak» disse, «del demone che ti ha sparato.» Bourne la guardò. «Dove l'hai trovato?» «Laggiù» rispose indicando la base di un pule, l'albero del latte, non più lontano di cento metri. «Fammi vedere.» Bourne la seguì attraverso le felci a forma di ventaglio. La ragazzina si fermò a tre passi dall'albero, mentre lui si accovacciò sul punto che lei gli stava indicando, dove le felci erano spezzate, come se qualcuno le avesse calpestate e poi se ne fosse andato di gran fretta. Alzando la testa, notò la rete di rami. Cominciò ad arrampicarsi, ma Kasih iniziò a urlare. «Per favore, non farlo! Lo spirito di Durga, la dea della morte, vive nel pule.» Bourne alzò una gamba, fissando bene il piede sulla corteccia, e sorrise alla ragazzina per rassicurarla. «Non ti preoccupare, Kasih: Shiva mi protegge.» Con movimenti veloci e sicuri, arrivò a un ramo spesso e quasi del tutto orizzontale che aveva notato da terra. Vi si distese a pancia in giù, e, attraverso una piccola fessura tra il groviglio degli alberi, vide il punto esatto in cui gli avevano sparato. Si alzò su un gomito per guardarsi intorno. Trovò una piccola cavità in corrispondenza dell'attaccatura del ramo all'albero. Qualcosa luccicava, lì dentro. Bourne si avvicinò e scovò un piccolo astuccio; se lo mise in tasca, poi scese per raggiungere la ragazzina visibilmente scossa. «Vedi? Sono sano e salvo» la rassicurò. «Credo che oggi Durga sia su un altro pule, magari dalla parte opposta di Bali.» «Non sapevo che la dea potesse muoversi.» «Ma certo che può» le rispose Bourne. «Questo non è l'unico pule dell'isola, vero?» Kasih scosse la testa. «Ecco confermata la mia idea. Oggi non è qui. Siamo al sicuro.» Lei sembrava ancora un po' turbata. «Ora che hai l'occhio del demone sarai in grado di trovarlo e di impedirgli di tornare, vero?» Bourne le si accovacciò accanto. «Il demone non tornerà, Kasih, te lo prometto.» Strinse forte l'occhio finto e aggiunse: «E con questo riuscirò di sicuro a trovare chi mi ha sparato». Moira venne portata da due agenti della NSA al Bethesda Naval Hospital, dove la sottoposero a una serie di accertamenti talmente accurati da risultare strazianti e ridicoli. La notte trascorse così. Quando la mattina successiva, poco dopo le dieci, le assicurarono che stava bene, gli agenti della NSA le comunicarono che era libera di andarsene. «Aspettate un momento» disse lei. «Non mi avete arrestata per aver alterato la scena del crimine?» «Sì, infatti» rispose uno dei due con l'accento rapido e secco del Midwest. Poi, gli agenti si allontanarono, lasciandola confusa e preoccupata. I suoi timori crebbero quando telefonò a quattro diverse persone al Dipartimento della Difesa, e tutte e quattro risultarono «in riunione», «fuori ufficio» o, cosa persino più inquietante, «non rintracciabili». Aveva appena finito di sistemarsi un pochino, quando le squillò il cellulare. Era un messaggio di Steve Stevenson, il sottosegretario alla Difesa con delega all'acquisizione, alla logistica e alla tecnologia, che le aveva da poco affidato un incarico. perry ihr, lesse sullo schermo. Cancellò subito il messaggio e si passò il rossetto sulle labbra. Poi, presa la borsa, uscì dall'ospedale. Erano trentasette i chilometri che separavano il Bethesda Naval Hospital dalla Biblioteca del Congresso. Secondo Google Maps ci volevano trentasei minuti; forse alle due di notte, però. Alle undici del mattino, quando Moira prese un taxi, per compiere quel tragitto ci vollero venti minuti di più, e così non aveva tempo da perdere una volta arrivata a destinazione. Per strada aveva telefonato in ufficio per chiedere un'auto che l'aspettasse a tre isolati dal luogo in cui era diretta. «Portate un computer e un burner» disse prima di riagganciare. Soltanto dopo essere scesa dalla macchina le fitte e i dolori cominciarono dappertutto. Stava per venirle un tremendo mal di testa, così rovistò nella borsa, estrasse tre pastiglie e le ingoiò senz'acqua. Faceva caldo, quel giorno, ma il cielo era coperto e l'aria immobile. I petali rosa dei ciliegi tappezzavano già i marciapiedi, i tulipani erano in fiore e, a mano a mano che la primavera avanzava, arrivava alle narici un inconfondibile odore di terra. Nel messaggio di Stevenson, perry si riferiva a Roland Hilton Perry, che, appena ventisettenne, aveva realizzato la scultura della Fontana della Corte di Nettuno sul lato ovest dell'entrata della Biblioteca del Congresso. Si trovava al livello del marciapiede, sotto a quello del porticato dell'entrata principale. Collocata nelle tre nicchie del muro di sostegno in pietra, la fontana, con la sua scultura in bronzo del dio romano del mare alta tre metri e mezzo come terrificante elemento centrale, emanava un'energia pura e irrequieta che contrastava con la semplicità della facciata dell'edificio. Molti visitatori della biblioteca non sapevano nemmeno che esistesse. Moira e Stevenson invece sì. Era uno dei tanti luoghi di incontro che avevano concordato qua e là nel distretto. Lei lo vide subito. Indossava una giacca blu scuro e pantaloni grigi di lana leggera, le spalle curve molto vicine alle orecchie di un rosso intenso. Non stava semplicemente guardando, ma osservando l'espressione violenta di Nettuno. Aveva piegato la testa all'indietro, mettendo in mostra una calvizie incipiente. Non si mosse nemmeno quando lei si avvicinò. Potevano essere due comunissimi turisti. Lui aveva in mano una guida di Washington, che ostentava come un pavone fa con la sua coda. «Non è stato un bel giorno per te, eh?» le disse senza voltarsi verso di lei e muovendo le labbra in modo impercettibile. «Che diavolo sta succedendo?» chiese Moira. «Nessuno al Dipartimento della Difesa, incluso te, prende le mie chiamate.» «A quanto pare, cara mia, sei finita in un bel mucchio di merda fumante.» Stevenson girò una pagina della sua guida. Era uno di quei funzionari vecchio stampo che andavano dal barbiere tutti i giorni, si facevano la manicure una volta alla settimana, erano nei circoli giusti e si accertavano che le loro opinioni fossero condivise dalla maggior parte delle persone prima di esprimerle. «E nessuno vuole sentire la puzza.» «Ma io non ho fatto proprio niente.» Tranne fare incazzare il mio vecchio capo, aggiunse tra sé. Pensò a quanto dovesse essersi adoperato Noah per arrivare a prendere il cellulare di Jay e farla arrestare. Aveva calcolato tutto nel tragitto fino a lì. L'unico motivo per cui gli agenti della NSA avrebbero potuto arrestarla per aver alterato la scena del crimine per poi liberarla senza alcuna accusa era che Noah avesse bisogno di averla fuori dai piedi quella notte. Ma perché? Forse lo avrebbe capito una volta scaricati i file dalla chiavetta che aveva trovato nella giacca di Jay, ma per ora la strategia migliore era quella di fare finta di non sapere niente. «No.» Stevenson scosse la testa. «C'è qualcosa di più. Credo che uno dei tuoi uomini abbia pestato i piedi a qualcuno. Il povero Jay Weston, magari?» «Tu sai che cosa aveva scoperto?» «Se lo sapessi» disse Stevenson, «a quest'ora sarei morto.» «E qualcosa di così grosso?» Steve si sfregò la guancia rossa immacolata. «Di più.» «Che diavolo sta succedendo tra la Black River e la Sicurezza nazionale?» insistette lei. «Sei un ex membro della Black River, dovresti dirmelo tu.» Contorse le labbra. «No, anzi, ci ho ripensato. Non voglio sapere niente, nemmeno le supposizioni. Da quando si è diffusa la notizia dell'esplosione di quell'aereo il Pentagono e il Dipartimento della Difesa sono stati investiti da una nube tossica.» «Cioè?» «Non parla nessuno.» «Nessuno là dentro ha mai parlato.» Stevenson annuì. «E vero, ma ora è diverso. Si sono rinchiusi tutti nel loro piccolo guscio. Anche le segretarie sembrano terrorizzate. In vent'anni di servizio governativo non ho mai visto niente di simile. Tranne...» Moira sentì lo stomaco chiudersi. «Tranne quando?» «Prima che invadessimo l'Iraq.» *** Capitolo 9 Willard osservò Ian Bowles uscire dall'ambulatorio. Aveva iniziato a tenerlo d'occhio dalla seconda volta che si era presentato dal dottor Firth, e si era informato sul suo conto, così come faceva con tutti gli altri pazienti. Bowles era l'unico di cui non si sapeva niente in giro. Willard non aveva trascorso gli ultimi tre mesi solo ad allenare Bourne. Come tutti gli agenti che si rispettino, aveva iniziato fin da subito a familiarizzare con l'ambiente. Era diventato amico di tutte le persone che contavano nella zona, che, di fatto, divennero i suoi occhi e le sue orecchie. Era un vantaggio trovarsi a Manggis, perché quel villaggio, e quelli vicini, erano scarsamente popolati. A differenza di Ruta e Ubud, a Manggis arrivavano pochissimi turisti, così non era difficile identificare i pazienti del dottore. Utilizzando questo metodo casalingo, Willard notò subito Bowles, che spiccava come un baobab tra i bonsai. Non avrebbe agito, però, finché non avesse fatto un passo falso. Da quando aveva portato a termine il suo incarico sotto copertura in Virginia, Willard aveva pensato a lungo a come impiegare al meglio il servizio clandestino, che era diventato ormai tutta la sua famiglia. La Treadstone era stata il sogno di Conklin. Solo lui e Willard ne conoscevano lo scopo finale. Aveva iniziato questo lavoro con estrema cautela, perché aveva un handicap con cui Conklin non aveva mai avuto a che fare. Quando c'era ancora Alex, il Grande Uomo si era tirato fuori dalla Treadstone. Conklin aveva dovuto solo stare attento a non farsi beccare dai radar della CIA, per mantenere le promesse fatte al Grande Uomo e al contempo lavorare in segreto per raggiungere i suoi scopi. Willard non poteva godere dello stesso privilegio. Per Veronica Hart e la CIA, la Treadstone era morta e sepolta, così come Conklin. Willard era troppo astuto per credere che la Hart gli avrebbe permesso di ricominciare, così si trovò a lavorare clandestinamente all'interno di una delle più grandi organizzazioni clandestine al mondo. L'ironia della sorte non mancava davvero. Mentre pedinava Bowles lungo una strada deserta, rifletté sulla chiamata di Moira e sul fatto che fosse arrivata a pennello: un'isola remota, lontano dalla CIA, era il posto adatto per dare inizio alla resurrezione della Treadstone. Vide il neozelandese fermarsi davanti a uno scooter parcheggiato all'ombra di un frangipani, prendere il cellulare e schiacciare il tasto della chiamata rapida. Willard tirò fuori un sottile filo di metallo dotato di maniglie in legno a entrambe le estremità. Si avvicinò rapido dietro l'uomo e gli avvolse il filo attorno alla gola, tirando così forte che Bowles si sollevò sulla punta dei piedi e lasciò cadere il telefono; tentò di reagire e afferrare l'uomo che lo aveva assalito. Lontano da sguardi indiscreti, Willard serrava le maniglie con la stessa forza letale. I movimenti di Bowles si facevano sempre più convulsi. Si strappò la pelle del collo nel tentativo disperato di respirare, gli occhi uscirono dalle orbite, mentre il bianco si riempiva di chiazze rosse. Si sentì un fetore improvviso e Bowles collassò. Riawolgendo il filo, Willard raccolse il cellulare; mentre si allontanava spedito, controllò la telefonata che il neozelandese aveva effettuato. Riconobbe le prime cifre: era un numero russo. La chiamata si era interrotta, così si avviò verso un punto in cui sapeva esserci il segnale e riprovò. Un secondo dopo, rispose una voce maschile a lui molto familiare. Willard rimase interdetto, ma si riprese subito: «Bowles, il tuo uomo, è morto. Non cercare di mandarne un altro». E riattaccò, prima che Leonid Danilovic Arkadin avesse il tempo di dire una parola. Dopo essersi congedata da Stevenson, Moira camminò in direzione opposta a quella che doveva prendere. Trascorse venti minuti a fare giri tortuosi, controllando specchietti e vetrine per vedere se aveva dei pedinatori alle spalle, e quando fu sicura di non essere stata seguita, ritornò verso l'auto che l'aspettava a tre isolati a ovest rispetto alla Fontana di Nettuno. Vedendola arrivare, l'autista scese dalla macchina. S'incamminò verso di lei senza guardarla né accennare a un saluto. Si sfiorarono in modo che l'uomo riuscisse a passarle le chiavi continuando a camminare. Lei superò la macchina parcheggiata, attraversò la strada e rimase ferma a guardarsi intorno, come se fosse incerta sulla direzione da prendere. In realtà stava studiando l'ambiente, sezionandolo in comparti in cui osservava chiunque avesse un'aria minimamente sospetta. Un ragazzo e una ragazza, forse sua sorella, giocavano con un golden labrador sotto lo sguardo attento del padre. Una mamma spingeva il passeggino; due che facevano footing saltellavano su e giù con i vestiti zuppi di sudore e gli auricolari collegati agli iPod fissati sugli avambracci. Niente sembrava fuori luogo: era proprio quello che la spaventava. Sebbene fosse in grado di affrontare gli agenti della NSA per strada o nelle vetture che le passavano vicino, erano gli uomini nascosti dietro le finestre o appostati sui tetti a preoccuparla. Bene, non ci posso fare niente, pensò. Aveva seguito la procedura, ora non restava che mettere un piede davanti all'altro e sperare di aver seminato l'eventuale inseguitore che l'aveva aspettata fuori dal Bethesda Naval Hospital. Come ulteriore precauzione, tolse la SIM dal cellulare e la buttò per terra. La spostò con il piede facendola precipitare in un tombino, dove, subito dopo, buttò anche il telefono. Teneva le chiavi in mano mentre si avvicinava alla macchina arrivando dalla parte opposta della strada. Attraversò proprio in corrispondenza dell'auto e lasciò cadere la borsa. Piegandosi per raccoglierla, tirò fuori lo specchietto per controllare la parte inferiore della vettura meglio che poteva. Controllò anche sotto la parte posteriore. Che si aspettava di trovare? Niente, sperava. Ma c'era la possibilità che un agente della NSA avesse messo una cimice sotto il telaio. Non vedendo nulla di strano, aprì lo sportello e si sedette al volante. Era una Chrysler grigio metallizzato ultimo modello che i suoi meccanici di fiducia le avevano personalizzato con un potentissimo motore turbo. Sotto il sedile trovò il portatile e il burner, che liberò dall'involucro di plastica. I burner erano cellulari prepagati usa e getta. A meno che non si effettuassero chiamate molto lunghe erano sicuri, e nessuno sarebbe riuscito, attraverso la SIM, a intercettarli, al contrario di quanto succedeva con i telefoni registrati. Reprimendo l'istinto di accendere il computer in quell'istante, mise in moto la macchina e si immise nel traffico. Non si sentiva sicura, a rimanere nello stesso posto molto a lungo, né poteva tornare in ufficio o a casa. Lasciò Washington e si diresse in Virginia, girando senza meta per circa un'ora, passata la quale si rese conto di non riuscire a controllare oltre la sua curiosità. Doveva scoprire cosa conteneva la chiavetta USB di Jay. Avrebbe svelato ciò che stava succedendo tra la Sicurezza nazionale e la Black River che, secondo Stevenson, teneva in pugno l'intero Dipartimento della Difesa? Per quale altra ragione Noah e la NSA si erano messi a inseguire prima Jay e adesso lei? Quello in moto non era un agente di polizia, quasi di certo era un membro della Sicurezza nazionale o della Black River. Stevenson era terrorizzato. L'intero scenario la faceva rabbrividire. Attraversando Rosslyn, si rese conto di aver fame. Non ricordava nemmeno l'ultima volta che aveva mangiato; quella mattina in ospedale le avevano dato qualcosa di ributtante che si era rifiutata di mandar giù: chi aveva potuto improvvisare una poltiglia insipida e stracotta come quella? Svoltò in Wilson Boulevard, passò vicino all'Hotel Hyatt e accostò in un parcheggio poco distante dall'entrata dello Shade Grown Café, un posto che conosceva molto bene e in cui, quindi, si sentiva al sicuro. Prese il portatile e il burner, scese dalla macchina, la chiuse ed entrò di corsa nel locale. L'odore di bacon e pane tostato le fece venire l'acquolina in bocca. Si sedette su una poltroncina rosso ciliegia, diede un'ultima occhiata veloce al menu plastificato e ordinò tre uova all'occhio di bue, una doppia porzione di bacon e pane integrale tostato. Alla cameriera che le chiedeva se volesse del caffè rispose: «Sì, grazie. Con panna». Sola attorno al tavolo di formica, la schiena rivolta al muro, aprì il portatile in modo che lo schermo fosse rivolto verso di lei. Mentre il computer si accendeva, Moira tirò fuori la chiavetta dal reggiseno. Il piccolo rettangolo elettronico era caldo e sembrava pulsare come un secondo cuore. Appoggiando il pollice sullo speciale lettore ebbe accesso al computer, poi rispose alle tre domande di sicurezza. Infine, inserì la chiavetta nella porta USB sul lato sinistro del portatile. Cliccò su risorse del computer, posizionò il cursore sull'icona della chiavetta che era appena comparsa e fece un doppio click. Il monitor si fece nero e per un momento Moira pensò che la chiavetta le avesse mandato in crash il sistema operativo. Ma poi la schermata iniziò a scomporsi in righe di parole incomprensibili. Non c'erano né cartelle né file, solo una schiera di lettere, numeri e simboli. L'informazione era criptata. Tipico del caro, vecchio e prudente Jay. Premendo il tasto esc tornò sulle risorse del computer. Cliccò su c e aprì la connessione wireless. Il bar, o qualche negozio vicino, doveva predisporre di una connessione Wi-Fi, perché il computer aveva rilevato una rete non protetta. Notizia buona e cattiva allo stesso tempo. Significava che poteva accedere al Web, ma anche che la rete non era sicura. Per fortuna, tra le tante misure di sicurezza, aveva fatto installare su tutti i computer della Heartland un programma di criptaggio che ora le avrebbe garantito che se anche il suo provider fosse stato individuato nessuno sarebbe stato in grado di localizzarla, né di leggere i pacchetti di informazioni che inviava o riceveva. Le fu servita la colazione e spostò il computer da una parte. Il programma per decifrare i messaggi in codice di proprietà della Heartland ci avrebbe messo un po', per analizzare i dati contenuti nella chiavetta. Caricò i dati e premette invio. Il programma si mise in funzione. Mentre divorava l'ultimo rosso d'uovo con un pezzo di pane tostato e una fetta di bacon sentì un suono leggero. Il boccone le rimase in gola. Bevve un sorso di caffè e spostò il piatto sul bordo del tavolo. Le dita indugiarono su invio per una frazione di secondo prima di premere il tasto. Un'ondata di parole invase lo schermo, poi iniziò a spostarsi verso il basso, rivelando l'intero contenuto della chiavetta. PINPRICKBARDEM, lesse. Non riusciva a crederci. I suoi occhi scorrevano le varie righe e pinprickbardem si ripeteva in continuazione. Le linee terminarono e lei ricominciò da capo. Il disco della chiavetta era stato riempito di quelle quattordici lettere. Tentò di scomporle: Pin Prick Bar Dem. Poi tentò un'altra combinazione: PinP Rick Bar Dem. Se l'annotò: picture in picture (tv digitale?) rick bar (?) democratico/l. Andò su Google per una ricerca veloce. C'era un Rick Bar a Chicago e uno a San Francisco, un Andy 8c Rick's Bar a Truth Or Consequences, nel New Mexico, ma non c'era traccia di un Rick Bar nel distretto o nelle immediate vicinanze. Cancellò ciò che aveva scritto. Che diavolo potevano significare quelle lettere?, si chiese. Magari erano un altro codice. Stava per farle analizzare di nuovo dal programma della Heartland, quando la presenza improvvisa di un'ombra all'angolo del suo campo visivo le fece alzare lo sguardo. Due agenti della NSA la stavano fissando attraverso i vetri del bar. Chiuse in fretta il portatile, mentre uno dei due apriva la porta del locale. Benjamin Firth era attaccato con avidità alla bottiglia di arak quando Willard irruppe nella stanza. Il dottore era seduto al tavolo con il capo chinato e trangugiava grandi sorsate del liquore di palma fermentato. Willard si fermò a guardarlo per un momento, ripensò a suo padre che aveva bevuto fino alla demenza e all'insufficienza epatica. Lui ne aveva sofferto molto, da ragazzo, anche perché il suo vecchio era stato protagonista di episodi spiacevoli dovuti alla doppia personalità, stile Dottor Jekyll e Mr Hyde, di cui soffrono molti alcolizzati. Quella volta che gli aveva sbattuto la testa contro il muro, Willard, che all'epoca aveva solo otto anni, imparò che non doveva avere paura. Iniziò a tenere la sua mazza da baseball sotto il letto, e quando una sera suo padre gli si scagliò contro avvolto dalla puzza di alcol, lui tirò fuori la mazza e, facendole compiere un arco perfetto, gli ruppe due costole. Dopo quella volta, suo padre non lo toccò mai più, né per sfogare la rabbia né per manifestare i suoi sentimenti. Willard pensava di aver ottenuto quello che voleva, ma poi quando l'uomo morì iniziò a chiedersi se quel giorno non avesse ferito se stesso, oltre a suo padre. Con un gesto di disgusto attraversò l'ambulatorio, strappò la bottiglia dalle mani di Firth e al suo posto vi sistemò un libricino. Il dottore lo guardò per un secondo con gli occhi vacui iniettati di rosso, come se stesse cercando di ricordarsi chi fosse il visitatore. «Forza, dottore, leggi.» Firth spostò in basso gli occhi e sembrò sorpreso. «Dov'è il mio arak?» «E finito. Ti ho portato qualcosa di meglio.» Il dottore sbuffò. «Non c'è niente di meglio dell'arai.» «Vuoi scommettere che c'è?» Willard aprì il libricino e il dottore fissò la fotografia sul passaporto di Ian Bowles, il neozelandese che si era finto un paziente per ricattarlo e costringerlo a scattare delle foto a Jason Bourne. Questo era il motivo per cui quella sera si stava devastando. Non poteva pensare a ciò che avrebbe dovuto fare, o a quello che sarebbe successo se non l'avesse fatto. «Che...?» Scosse la testa, confuso. «Che ci fai tu con questo?» Willard gli si sedette accanto. «Diciamo che il signor Bowles non è più un problema, per te.» Firth si riprese. Era come se gli avessero gettato un secchio di acqua gelida in faccia. «Sai tutto?» «Sì, ho sentito ogni cosa che vi siete detti.» La schiena del dottore fu percorsa da un brivido. «Non potevo fare altro.» «Per fortuna che passavo di qua.» Firth annuì scoraggiato. «Ora ho bisogno che tu faccia qualcosa per me.» «Qualunque cosa» disse il dottore. «Ti devo la vita.» «Jason Bourne non deve sapere niente di quello che è successo.» «Niente di niente?» Firth lo guardò dritto negli occhi. «Qualcuno sospetta che sia qui. Sono sulle sue tracce.» Il volto di Willard rimase impassibile. «Niente di niente, dottore.» Gli strinse la mano. «Ho la tua parola?» Firth prese la mano di Willard, che era ferma e asciutta, in un certo qual modo rassicurante. «Io non so niente, giusto?» *** Capitolo 10 Moira si alzò di scatto dal tavolo, estrasse la chiavetta dalla porta USB e attraversò di corsa il corridoio stretto che portava alla cucina e ai bagni. Quando girò a sinistra per entrare nella cucina fu assalita da un'ondata di caldo, vapore e confusione. Si diresse verso la dispensa, ma la porta sul retro si aprì e gli si parò davanti un agente della NSA che avanzava spedito verso di lei. In quel momento Moira premette il pollice sul lettore due volte di fila anche se il computer era ancora acceso. Poi lo gettò verso l'agente, che lo afferrò, e intanto lei corse nella piccola celletta della dispensa. Si accovacciò a terra e sollevò l'anello della botola; mentre lo alzava, udì l'esplosione del portatile. Le grida e le urla causati dall'incendio che seguì nel piccolo ambiente le permisero di scendere la scala e richiudere la botola sopra di sé. Era una misura di sicurezza d'emergenza che aveva chiesto ai suoi tecnici di installare in tutti i portatili della Heartland. Premendo il pollice sul lettore due volte di fila quando il computer era ancora acceso, si attivava un dispositivo che sarebbe esploso entro dieci secondi. Si ritrovò nel seminterrato dove si conservavano grandi quantità di provviste. Tastò il soffitto fino a trovare una cordicella, che tirò per accendere la luce. Una lampadina illuminò lo spazio intorno a lei, creando contrasti d'ombra. Vide la porta metallica che portava al livello della strada, e l'aprì. C'era una rampa di ferro che veniva usata per far scivolare i cartoni di lattine nel seminterrato. Ci si arrampicò, arrivando quasi a piegarsi in due per tenersi stretta al bordo e non finire sulla superficie scivolosa. Per farlo, dovette mettere in tasca la chiavetta, che aveva tenuto ben stretta in mano fino a quel momento, e con il dorso della mano sfiorò un cartoncino. Uscì in strada e si ritrovò di fronte all'entrata del locale, da dove la gente stava uscendo a frotte. Mentre si allontanava a piedi, sentì in lontananza le sirene dei pompieri. Continuò a camminare fuori dalla mischia, infilò la mano nella tasca per controllare che la chiavetta ci fosse ancora e tastò di nuovo il bigliettino. Lo tirò fuori e vide il logo del Pronto intervento sanitario e il nome di Dave. Sotto c'era scritto un numero di telefono. Ricordò all'istante che, quando le era passato accanto, le aveva infilato il bigliettino in tasca. In tempo di tempesta tutti i porti sono buoni, pensò. Fece scattare lo sportellino del suo cellulare e compose il numero. Si guardò alle spalle e vide uno degli agenti della NSA uscire dal locale. Iniziò a camminare più svelta, ma lui l'aveva già individuata e si era gettato al suo inseguimento. Svoltando l'angolo, si portò il cellulare all'orecchio. «Pronto» le rispose la voce familiare di Dave. «Sono in pericolo.» Gli diede un indirizzo più o meno preciso. «Sarò sul Fort Myer Drive sul lato nord della 17a Strada fra tre minuti.» «Aspettaci lì.» «Semplice da dire ma non da fare» rispose, correndo dietro l'angolo verso North Nash Street. Osservando Maslov e le sue spalle da uomo di Neanderthal salire sulla jeep e allontanarsi, Arkadin represse un attacco di follia omicida. Non riusciva a placare il desiderio di prendere un fucile semiautomatico e trivellare di proiettili quella macchina finché i quattro passeggeri non fossero tutti morti. Per fortuna quel che rimaneva della parte razionale del suo cervello gli impedì di fare una mossa tanto azzardata. Avrebbe potuto sentirsi meglio, in quel momento, ma avrebbe rimpianto presto la scomparsa prematura di Maslov. Finché il capo della Kazanskaja gli fosse tornato utile lo avrebbe lasciato in vita. Ma non oltre. Con Maslov non avrebbe commesso lo stesso errore che aveva commesso con Stas Kuzin, il capo della mafia di Niznij Tagil di cui era diventato socio e che poi aveva ucciso. Allora Arkadin era giovane e inesperto; aveva permesso a Kuzin di vivere troppo a lungo. O comunque abbastanza da consentirgli di torturare e uccidere la sua donna. Ovviamente, il giovane Arkadin non aveva considerato quello che sarebbe successo dopo la morte di Kuzin e di un terzo della sua banda di corrotti. I killer di Kuzin che erano rimasti in vita volevano la sua testa, così fu costretto a nascondersi. Dato che controllavano tutte le strade e avevano trasformato gli abitanti di Niznij Tagil in informatori, era fondamentale trovare un nascondiglio il prima possibile, un posto in cui non avrebbero mai pensato di andare a guardare. Aveva sparato al capo della mafia nell'edificio di loro comune proprietà, dove Kuzin aveva stabilito il suo quartier generale e dove teneva le ragazze che Arkadin prendeva dalla strada apposta per lui. Era il posto che faceva al caso suo, o per lo meno Maslov non sarebbe stato così furbo da andare a cercarlo proprio lì. La mente di Arkadin tornò bruscamente a fatti più recenti. La chiamata di Willard gli ronzava ancora nella testa quando si girò verso le nuove reclute della Legione Nera, che lo stavano aspettando fuori dalle tende piantate all'estremità della pianura azerbaigiana. Si era fidato di quell'idiota di Wayan che gli aveva raccomandato Ian Bowles. Ingaggiare Ian Bowles era stato un errore. Ma anche questo pensiero svanì, quando.si rivolse alle sue truppe. Non erano pronti per un raid congiunto come aveva sperato. Quegli uomini erano stati preparati e impiegati soltanto per missioni solitarie. Molti avevano atteso ordini per allacciare giubbotti esplosivi, infiltrarsi in un mercato, una stazione di polizia, o una scuola e azionare il detonatore. Le loro menti erano già rivolte al Paradiso, e Arkadin capì quasi subito che era suo compito, nonché suo dovere in quanto capo della Fratellanza Orientale - legittima organizzazione corollaria della Legione Nera - compattarli in un'unità in cui ognuno avrebbe potuto fidarsi dell'altro e sacrificarsi per lui senza esitazioni, se ce ne fosse stato bisogno. Il gruppo di uomini coraggiosi, perfetti dal punto di vista fisico e psicologico, era schierato davanti a lui. Non erano a loro agio, perché aveva ordinato loro di radersi barba e capelli a zero, cosa che andava contro le loro usanze e gli insegnamenti islamici. Tutti si stavano chiedendo come diavolo avrebbero fatto a penetrare in qualunque luogo del mondo islamico conciati in quel modo. Uno di loro, Farid, decise di dar voce alle loro preoccupazioni. Lo fece in maniera energica, consapevole di parlare anche a nome di tutte le altre novantanove reclute. «Scusa?» Arkadin alzò la testa con un impeto tale da far scrocchiare una vertebra del collo, che risuonò come un colpo di fucile. «Puoi ripetere quello che hai detto, Farid?» Se avesse conosciuto almeno un po' Arkadin, Farid avrebbe tenuto la bocca chiusa. Ma non lo conosceva affatto, e non c'era nessuno in quella terra desolata che poteva metterlo in guardia. Così, fece un'altra volta la domanda. «Signore, ci stavamo chiedendo perché ci ha ordinato di raderci barba e capelli, quando Allah ci dice il contrario. Vorremmo saperne il motivo. Esigiamo una risposta, perché lei ci ha umiliati.» Senza dire una parola, Arkadin prese il manganello dal fianco e lo scaraventò sulla faccia di Farid, che rovinò a terra. Mentre si piegava sulle ginocchia, ondeggiando per il dolore e lo sgomento, Arkadin tirò fuori la Colt e gli sparò a bruciapelo nell'occhio destro. L'uomo cadde all'indietro sul terreno sabbioso, muto e inerte. Appena girato l'angolo, Moira si fermò e si appiattì contro la parete dell'edificio. Alzò il gomito destro e, quando l'agente della NSA svoltò correndo, lo colpì sul petto. Aveva mirato alla gola, ma aveva mancato il colpo, e anche se l'agente oscillò per un attimo all'indietro verso il muro le fu subito addosso e le tirò un pugno che lei riuscì a bloccare. Ma era solo una finta. L'agente le afferrò il braccio sinistro dalla parte inferiore e provò a spezzarglielo all'altezza del gomito. Moira, immobilizzata, gli calpestava il collo del piede, ma la presa non sembrava allentarsi. L'uomo forzò ancora di più, fino a che dalla bocca della ragazza non uscì un grido di dolore, poi si preparò a darle un pugno sul naso. In una frazione di secondo Moira spostò di lato la testa e raccolse tutte le sue energie nel bassoventre per piantargli il ginocchio all'altezza dell'inguine. L'agente allentò la presa e rovinò a terra, non prima però di riafferrare il braccio di Moira, trascinandola con sé nella caduta. Gli occhi gli lacrimavano e faceva lunghi respiri per controllare il dolore lancinante. Ma Moira non si commosse: gli piantò le nocche in gola facendolo quasi soffocare, poi si divincolò. Gli afferrò la testa e la sbatté contro il muro in pietra dell'edificio. L'uomo rovesciò gli occhi all'indietro e crollò sul marciapiede. Lei gli prese la pistola e il tesserino e scappò tra la gente stupita, attirata dall'evento come gli squali dal sangue. Iniziò a gridare: «Quell'uomo mi ha aggredita. Qualcuno chiami la polizia!». Si fermò di colpo all'angolo tra il Fort Mayer Drive e l'inizio della 17a Strada. Respirava con affanno, il battito del cuore accelerato. L'adrenalina le bruciava in corpo come un fiume di fuoco, ciononostante riuscì a rallentare il passo e camminare come se niente fosse in direzione opposta rispetto alla marea di curiosi che sopraggiungevano da ogni parte sentendo le sirene della polizia. Una sembrava si stesse avvicinando proprio a lei. Ma no: era un'ambulanza. Dave era arrivato puntualissimo. L'ambulanza rallentò e lei riuscì a vedere Earl al volante. Quando il veicolo le arrivò di fianco i portelloni posteriori si aprirono e Dave si sporse verso l'esterno, le afferrò la mano sinistra e la tirò a bordo, lasciandola senza fiato. Dopodiché richiuse i portelloni e gridò: «Vai!». Earl spinse il piede sull'acceleratore. Moira perse l'equilibrio quando l'ambulanza prese una curva a gran velocità. Dave la abbracciò per farla stare ferma e la accompagnò verso i sedili. «Stai bene?» le chiese. Lei annuì, ma le si mozzò il respiro quando cercò di piegare il braccio sinistro. «Fammi vedere» le disse Dave, tirandole su la manica della camicia. «Bene!» esclamò, e si mise subito al lavoro sul braccio gonfio e pieno di lividi. Moira capì di essere alle strette. Uno dei suoi uomini aveva scoperto un segreto talmente grosso che la Legione Nera o la Black River, o entrambi in un'azione congiunta, aveva dovuto farlo fuori. Ora stavano inseguendo lei. La sua nuova società aveva reclutato oltre un centinaio di agenti dalle fila della Black River. Il traditore si nascondeva di sicuro tra di loro, perché di una cosa era convinta: qualcuno all'interno della Heartland aveva collegato l'indirizzo del provider alla rete Wi-Fi dello Shade Grown Café e lo aveva comunicato alla NSA. Solo questo poteva spiegare la tempestiva comparsa degli agenti. Adesso non aveva alternative. Non c'era più nessuno di cui poteva fidarsi. Tranne una persona, pensòdesolata. L'unica a cui si era ripromessa di non rivolgere più la parola dopo quello che era successo, che riteneva imperdonabile. Chiuse gli occhi, oscillando leggermente per la velocità dell'ambulanza. Quello non era certo il momento di perdonare, ma forse era ora di concedere una tregua. Chi altri avrebbe potuto chiamare? Di chi avrebbe potuto fidarsi? Si lasciò scappare un piccolo sospiro di sconforto. Se non fosse stata così triste, la situazione sarebbe risultata perfino comica. Chiedere aiuto all'unica persona da cui non avrebbe accettato nulla. Ma quello era il passato, pensò risoluta, e questo è il presente. Imprecando in silenzio, Moira usò il suo burner per fare una telefonata urbana. Quando la voce femminile all'atro capo rispose, fece un respiro profondo e disse: «Potrei parlare con Veronica Hart, per cortesia?». «Chi la desidera?» Al diavolo, imprecò tra sé. «Moira.» «Moira? Mi scusi, credo che alla signora Hart serva il suo cognome.» «No, glielo assicuro» ribatté Moira. «Le dica semplicemente Moira, e veda di farlo anche alla svelta!» «La luna è sorta» disse Amun Chalthoum. «È ora che io e te parliamo un po'.» Soraya era stata al telefono con gli agenti della Typhon del posto. Tutti stavano cercando di trovare informazioni sul nuovo Gruppo indigeno militante iraniano, ma brancolavano ancora nel buio. Il gruppo era talmente clandestino che i loro contatti non erano riusciti a trovare niente. Forse non sapevano nulla davvero, o magari erano così spaventati da dichiarare che l'esistenza del gruppo era solo una congettura. Se le cose stavano così, non c'era che da ammirare il loro livello di segretezza. Si trovò d'accordo con l'invito di Amun, ma non con i modi voluti dall'egiziano. Mentre lui le teneva sollevato il lembo della tenda, Soraya gli disse: «Lascia qui tutte le tue armi». «E proprio necessario?» le chiese. Non ricevendo alcuna risposta, socchiuse gli occhi in segno di disapprovazione, poi estrasse la pistola dalla fondina e, sospirando, la appoggiò su un tavolo da campo. «Soddisfatta?» Abbandonando il tepore della tenda, Soraya uscì al freddo della notte. Poco distante, la task force americana era impegnata a setacciare il relitto in cerca di indizi, ma fino a quel momento Delia non le aveva comunicato niente di nuovo, anche se - come aveva ribadito Veronica -l'aereo non era la sua missione principale. La luna, immensa, conferiva un'aura di maestosità all'infinita distesa di sabbia. Si diressero verso la zona del perimetro in cui dovevano essere appostate le guardie di Chalthoum, ma non c'era nessuno, e Moira si fermò. L'uomo le stava camminando davanti, ma quando Soraya si bloccò di colpo, fece lo stesso anche lui. «Cosa c'è?» «Non faccia un altro passo in quella direzione» gli disse. «Voglio rimanere a una distanza che mi permetta di essere sentita nel caso mi dovessi mettere a urlare.» Indicò il bagliore dalla parte opposta a quella in cui si trovavano. Oltre il perimetro stabilito da Chalthoum si vedevano le luci dell'accampamento della stampa di tutto il mondo, come una nave incagliata tra gli scogli. «Loro?» la schernì. «Loro non possono proteggerti. I miei uomini non li lasceranno entrare nel perimetro.» Lei gesticolò, indicando intorno: «Ma dove sono i tuoi uomini, Amun? Io non li vedo». «Perché ho fatto in modo che non ci fossero.» Alzò un braccio. «Vieni, abbiamo poco tempo.» Soraya stava per rifiutare, ma qualcosa nella voce di Amun la convinse. Ripensò alla tensione che aveva sentito in lui, a quella rabbia tenuta al guinzaglio. Cosa stava succedendo laggiù? Era riuscito a stimolare la sua curiosità. Lo aveva fatto di proposito? Stava per farla cadere in una trappola? Ma a che prò? Di riflesso, lui aveva infilato la mano nella tasca in cui teneva il coltello a serramanico, pronto a difenderla. Camminarono in silenzio. Il deserto sembrava sussurrare tutto intorno a loro, mutando senza tregua, infiltrandosi nei vestiti e nella pelle. La lucentezza della civiltà si affievolì fino a restare soltanto un punto lontano. Chalthoum si crogiolava nel suo ambiente naturale, ecco perché l'aveva condotta lì tanti anni fa e perché ci tornavano adesso. A mano a mano che si allontanavano dagli altri, l'uomo sembrava crescere in statura e potenza, fino a diventare un gigante. Quando si voltò verso Soraya, i suoi occhi scuri riflettevano la luce bluastra della luna. «Ho bisogno del tuo aiuto» le disse con la solita franchezza. Soraya si mise quasi a ridere. «Tu hai bisogno del mio aiuto?» Lui distolse lo sguardo per un istante. «Sei una delle ultime persone a cui chiederei qualcosa.» Da questa frase, Soraya capì che la situazione non doveva essere delle più rosee. «E se rifiutassi?» Chalthoum indicò il telefono satellitare che lei aveva in mano. «Pensi che io non sappia chi stavi chiamando? Pensi che non conosca il vero motivo per cui sei qui? Il disastro aereo non c'entra nulla. Sei qui per il nuovo GIM iraniano.» *** Capitolo 11 Willard se ne stava in piedi al centro dell'ambulatorio del dottor Firth ad aspettare impaziente il ritorno di Bourne. Gli era passato per la mente di andarlo a cercare, ma poi aveva cambiato idea. Come succedeva spesso, ormai, ogni volta che pensava a Jason i suoi ricordi andavano al figlio Oren. Non lo vedeva né sentiva da quindici anni, cioè dal funerale di sua moglie. Oren si era risentito perché lui non aveva versato una lacrima, non aveva detto una parola davanti alla bara. «Ma non provi niente? Niente di niente?» gli aveva domandato. «Sono felice che sia finita» gli aveva risposto Willard. Solo molto tempo dopo si rese conto che dire la verità a suo figlio era stato un grave errore. Quello era stato il periodo della sua vita, per quanto breve, in cui si era davvero stancato delle bugie. Non commise mai più lo stesso sbaglio. Capì che la vita degli esseri umani è basata su falsità; ne hanno bisogno per sopravvivere e anche per essere felici, dato che la verità è spesso spiacevole e alla gente non interessa. In più, molti non sono tagliati per la verità. Preferiscono mentire anche a se stessi, e circondarsi di persone che dicono loro bugie per preservare l'illusione di una bellezza inesistente. La realtà non è bella; eccola, la verità. Ma ora, lì a Bali, si chiedeva se fosse anche lui come gli altri, in grado di costruire una prigione di menzogne in cui nascondere la verità. Per anni si era fatto strada lentamente nella NSA come una talpa, fino a raggiungere la casa sicura nelle campagne della Virginia dove risiedevano tutte le bugie. Per anni si era detto che quello era il suo dovere. Gli altri, persino i suoi uomini, erano dei fantasmi, ai suoi occhi, facevano parte della vita di qualcuno che non era lui. Che cos'altro aveva? Questa era la domanda che si era fatto più e più volte mentre lavorava come un servo per la NSA. Dovere, solo con il dovere riusciva a stabilire delle relazioni. La missione alla NSA era stata portata a termine, e di conseguenza la sua copertura era saltata insieme a tutti gli altri, ed era libero. Nessuno all'interno della CIA aveva ancora capito a cosa potesse servire ormai. Anzi, la nuova direttrice pensava che stesse facendo la lunga vacanza che aspettava da molto tempo. Liberato dal ruolo di servo alla NSA, cominciò a pensare che quella era stata soltanto una parte che aveva recitato, una parte che non gli apparteneva affatto. Quando Alex Conklin aveva iniziato ad addestrarlo, Willard si era immaginato le situazioni più pericolose negli angoli più remoti del mondo. Si era letto centinaia di volte tutti i libri di James Bond. Bramava le scariche di adrenalina delle operazioni segrete. Le sue abilità miglioravano e, a mano a mano che superava le prove ogni volta più difficili del suo maestro, anche la fiducia che Conklin riponeva in lui aumentava. E poi l'errore fatale: via via che imparava i segreti della Treadstone, si lasciò andare all'idea di diventare il successore di Conklin, la mente. Ma la realtà lo riportò ben presto con i piedi per terra. Il Grande Uomo aveva offerto a Willard un ruolo per il quale era già stato scelto. Venne inviato di nascosto in una prigione dalla quale non sembrava esistere alcuna sospensione della pena. Aveva fatto tutto quello che gli era stato richiesto, e lo aveva fatto bene, anzi egregiamente. Glielo avevano detto tutti. Ma lui che ne aveva ricavato? La verità? Niente, niente di niente. Ora per lo meno aveva la libertà necessaria a realizzare il suo sogno di diventare un grande manipolatore e superare il maestro. Perché in fondo Conklin aveva fallito. Aveva permesso a Leonid Arkadin di svignarsela e, invece di inseguirlo per fermarlo, aveva lasciato perdere il russo e si era concentrato su Jason Bourne. Ma non si può tornare indietro, quando si crea un mostro come Arkadin. Willard conosceva ogni decisione che Conklin aveva preso riguardo alla Treadstone ed era consapevole di ogni singolo errore. L'ultimo, lui di certo non l'avrebbe commesso. Non avrebbe lasciato che Arkadin scappasse. Avrebbe fatto meglio, molto meglio. Avrebbe raggiunto lo scopo finale della Treadstone: creare la più potente macchina da guerra mai esistita. Si voltò al rumore della porta d'ingresso che si apriva lasciando entrare Jason Bourne. Il sole stava tramontando, il cielo blu cobalto verso occidente aveva striature di mille colori. Bourne si avvicinò tenendo un piccolo oggetto tra il pollice e l'indice della mano destra. «Bossolo di un proiettile MI 18 calibro .30» disse. Willard gli prese la mano e osservò con cura il proiettile. «Alta qualità militare, fatto appositamente per un fucile da cecchino.» Fece un fischio breve e squillante. «Ecco perché ti ha passato da parte a parte in maniera perfetta.» «Dai bombardamenti del 2005 di Kuta e Jimbaran il governo è diventato fanatico riguardo alle armi. Per quanto possa essere bravo il nostro cecchino, non è possibile che sia riuscito a introdurre nel paese il fucile e le munizioni.» Bourne ghignò. «E quindi, in quanti posti di Bali avrebbe potuto trovare dei proiettili MI 18 full metal jacket e il fucile per spararli?» «Qualcuno ha altre domande?» minacciò Arkadin. Teneva ancora in mano entrambe le armi. Guardò negli occhi di tutte e novantanove le reclute rimaste, e vi scorse paura e obbedienza incondizionata. Qualsiasi cosa fosse successa da quel momento in avanti, ovunque li avesse condotti, quei ragazzi sarebbero stati suoi. In quell'istante il telefono satellitare iniziò a suonare. Diede le spalle agli uomini e si allontanò da loro, che rimasero in silenzio rigidi come pietre. Non avrebbero mosso un muscolo fino al prossimo ordine, che non sarebbe arrivato presto. Si asciugò il sudore e avvicinò il telefono all'orecchio. «Che altro c'è, adesso?» «Com'è stata la visita di Maslov?» La voce di Triton risuonò nell'etere. «Elettrizzante» rispose Arkadin, «come sempre.» Mentre parlava, ruotava su se stesso cercando di individuare la posizione degli uomini di Triton. «Non li troverai, Leonid» gli disse. «Tu non vuoi trovarli.» Mi sta bene, pensò Arkadin. Triton era colui che aveva messo in piedi questa missione, o quanto meno che lavorava per chi aveva messo i soldi, anche per pagare il suo compenso molto generoso. Non vedeva perché avrebbe dovuto farselo nemico. Arkadin sospirò per tenere sotto controllo la rabbia. «Cosa posso fare per te?» «Be', oggi la domanda è: che cosa posso fare io per te?» replicò Triton. «La nostra tabella di marcia ha subito delle variazioni.» «Variazioni?» Arkadin fissò i suoi uomini, in buone condizioni ma ancora impreparati per la missione. «Ti ho detto fin dall'inizio che avevo bisogno di tre settimane, e tu mi hai assicurato...» «Ma quello era ieri, questo è oggi. Le cose sono cambiate» disse Triton. «La fase teorica è finita, ora si fa sul serio. L'orologio che ticchetta non appartiene né a me né a te.» Arkadin sentì i muscoli contrarsi come se stesse per affrontare uno scontro fisico. «Cos'è successo?» «Il topo sta per uscire dalla tana.» Arkadin aggrottò la fronte. «Che diavolo significa?» «Significa» spiegò Triton, «che le prove, quelle prove incontrovertibili che metteranno in moto tutto, stanno venendo a galla. Non si torna più indietro.» «Lo sapevo fin dall'inizio» ringhiò Arkadin. «E anche Maslov lo sapeva.» «Hai tempo fino a sabato per portare a termine la tua missione.» Ci mancò poco che Arkadin saltasse all'indietro: «Che cosa!?». «Non sono ammesse obiezioni.» Triton terminò la chiamata in una maniera talmente drastica e definitiva che lo scatto risuonò nelle orecchie di Arkadin come un colpo di pistola. Willard avrebbe voluto andare con lui, ma Bourne si era rifiutato. Era abbastanza intelligente da capire che Jason voleva solo realizzare il suo desiderio. Durante il periodo in cui Bourne era stato ricoverato, Willard aveva buttato giù una lista di tredici individui residenti sull'isola coinvolti, o sospettati di essere coinvolti, nel traffico di armi, ma solo uno di quelli trattava fucili di alta qualità e munizioni full metal jacket che erano stati usati per sparare a Bourne. Su un'isola piccola come quella di Bali, indagare sui presunti trafficanti d'armi avrebbe voluto dire distruggere la rete di sicurezza che aveva innalzato attorno ajason. Avrebbe subito attirato l'attenzione su di lui. Firth noleggiò un'auto per Jason, che guidò nel caos della capitale Denpasar. Non fu difficile localizzare il Badung Market, ma trovare un parcheggio era pressoché impossibile. Alla fine, riuscì a trovare un'area custodita da un uomo anziano con un enorme sorriso stampato sulla faccia. Passando attraverso spezie e verdure, Bourne si portò verso il retro del mercato, dove si trovavano le bancarelle dei macellai. Willard gli aveva detto che l'uomo che cercava assomigliava a una rana e non era difficile individuarlo. L'uomo stava vendendo diversi maialini da latte, ancora legati alle canne di bambù, a una giovane donna che, a giudicare dai modi e dai vestiti, doveva lavorare per qualcuno che aveva soldi e prestigio. La gente stava facendo la fila alla bancarella vicina per comprare lombi e petti, le mannaie rompevano tendini e ossa, il sangue schizzava ovunque. La donna pagò e fece cenno ai due uomini che la stavano aspettando di portare via la spesa. Bourne si fece avanti e si rivolse all'uomo tarchiato. Si chiamava Wayan, che significa «primo». Tutti i balinesi si chiamavano secondo il loro ordine di nascita, dal primo al quarto. Un eventuale quinto figlio si sarebbe chiamato Wayan di nuovo. «Wayan, devo parlarti.» L'uomo lo guardò con indifferenza. «Se ha bisogno di comprare un maiale...» Bourne scosse la testa. «Sono i migliori dell'isola, chieda pure in giro.» «Si tratta di un'altra questione» disse Bourne. «Meglio parlare in privato.» Wayan sorrise appena e allargò le braccia. «Come può vedere anche lei, non esiste privacy, qui. Se non desidera comprare niente...» «Non ho detto questo.» Wayan socchiuse gli occhi. «Non so proprio di cosa stia parlando.» Stava per girarsi e andarsene, quando Bourne tirò fuori cinque bigliettoni da cento dollari. Wayan guardò il denaro e un lampo si accese nei suoi occhi. Bourne riconobbe l'avidità. Il macellaio si umettò le labbra. «Purtroppo non ho così tanti maiali.» «Ma io ne voglio uno solo.» Come per magia Bourne fece comparire il bossolo del proiettile MI 18 calibro .30 tra le dita, e lo mise nel palmo della mano di Wayan. «Uno dei tuoi, immagino.» Il mercante, fermo e recalcitrante, si limitò a stringersi nelle spalle. Bourne tirò fuori altri cinque bigliettoni arrotolati. «Non ho tempo per contrattare.» Wayan raccolse i mille dollari e piegò la testa da una parte, facendogli capire che doveva seguirlo. Al contrario di quanto aveva detto, c'era uno spazio chiuso nel retro della bancarella. Su una sgangherata panca di bambù c'erano sbucciatoli e coltelline. Bourne seguì Wayan nel retro, ma un uomo corpulento lo raggiunse da sinistra, mentre un tipo alto gli si parò davanti da destra. Jason colpì al volto l'uomo corpulento, rompendogli il naso, e si piegò per non farsi prendere da quello alto. Si chiuse a palla e attraversò lo spazio chiuso. Finì contro le canne di bambù, rovesciando maiali e coltelli. Afferrò uno sbucciatore e tagliò le corde che tenevano legati i maiali. Guairono per la ritrovata libertà e iniziarono a correre via, obbligando Wayan a togliersi di mezzo. Bourne lanciò il coltello che aveva in mano verso l'uomo alto, conficcandoglielo nel fianco sinistro. Fu impossibile distinguere il suo verso da quello dei maiali, che continuavano a scorrazzare qua e là. Bourne li ignorò e afferrò Wayan per la camicia. Proprio in quell'istante, però, l'uomo più grasso raccolse una coltellina da terra e si avventò contro di lui, che frappose Wayan tra loro due. Quando l'aggressore tentò di affondare il coltello, Bourne ne approfittò per colpire l'arma con un calcio, afferrare l'uomo e scaraventargli la testa contro il terreno. Fuori due. Jason si alzò, trattenne Wayan, lo fece voltare con decisione e gli assestò un manrovescio. «Ti avevo avvertito che non avevo tempo per contrattare. Ora mi dici il nome di chi ha comprato queste munizioni?» «Il nome non lo so.» Bourne lo colpì di nuovo, stavolta ancora più forte. «Non ti credo.» «E vero.» L'aria indifferente di Wayan era scomparsa: adesso era davvero spaventato. «Lo hanno mandato da me, ma non mi ha mai detto il suo nome. E io non gliel'ho chiesto. Nel mio lavoro, meno so e meglio è.» Questo quanto meno corrispondeva a verità. «Che aspetto aveva?» «Non me lo ricordo.» Bourne lo afferrò per la gola. «Non mi stai mentendo, vero?» «No, certo che no.» Gli occhi di Wayan si mossero rapidi nelle orbite. La pelle aveva preso una tinta verdastra, come se stesse per vomitare da un momento all'altro. «Okay, okay. Sembrava russo. Altezza media, muscoloso.» «E poi?» «Io non...» Cacciò fuori un urlo quando Bourne gli diede un altro ceffone. «Aveva i capelli neri, e gli occhi... erano chiari. Non mi ricordo...» Bourne alzò una mano. «Aspetta, aspetta... erano grigi.» «E...?» «Basta, è tutto.» «No, non è vero» disse Bourne. «Chi lo ha mandato?» «Un cliente...» «Il nome.» L'americano scosse il grassone come una bambola di pezza. «Voglio il suo nome.» «Mi ucciderà.» Jason si piegò sopra di lui, tolse il coltello dal fianco dell'uomo a terra e lo puntò alla gola di Wayan. «Io posso farlo ora.» Premette la lama quel tanto che bastò a far uscire un rivolo di sangue che colò lungo il petto dell'uomo, macchiandogli la camicia. «Scegli tu.» «Don...» L'uomo deglutì a fatica. «Don Fernando Herrera... vive in Spagna, a Siviglia.» L'uomo fornì l'indirizzo completo, senza bisogno di ulteriori minacce. «Come si guadagna da vivere questo Don Herrera?» «Servizi bancari internazionali.» Bourne non potè trattenere un sorriso sardonico. «Bene, e come potresti tornare utile tu a uno che si occupa di servizi bancari internazionali?» Wayan alzò le spalle. «Come le ho già detto, meno so sul conto dei miei clienti e meglio è per me.» «In futuro dovresti stare più attento.» Bourne lo lasciò andare, spingendolo con violenza contro le gambe di uno dei due uomini che stava iniziando a muoversi. «Certi clienti sono peggio del veleno.» La luna era stata portata nel mondo degli inferi dai fantasmi di Anubi e Thot, lasciando nel cielo soltanto la luce solitaria delle stelle. «Mi sono sbagliato sul tuo conto ancora una volta» disse Chalthoum senza acredine. «La tua principale missione è il Gruppo indigeno iraniano.» Lei non rispose, allora Amun proseguì: «Ho bisogno del tuo aiuto». Si guardò intorno, forse per controllare che le sue sentinelle non fossero tornate, pensò Soraya scrutandolo. Il fatto che si preoccupasse di non farsi sentire dai suoi significava qualcosa. Ma cosa? Aveva finalmente lasciato al-Mukhabarat? Aveva iniziato a lavorare da solo? Ma no, doveva esserci un'altra spiegazione. «C'è una talpa, nella mia divisione» le disse. «Qualcuno di molto influente.» «Amun, tu sei il capo di al-Mukhabarat, chi...?» «Ho il sospetto che sia qualcuno più in alto di me.» Sospirò. «I tuoi contatti, gli uomini della Typhon, ecco... credo che loro possano essere in grado di capire chi sia.» «Non è forse il tuo lavoro, stanare spie e traditori?» «Secondo te, non ci ho già provato? Ecco quello che ho ottenuto con i miei sforzi: quattro agenti uccisi in servizio e un grave ammonimento per la crescente incompetenza della mia agenzia.» La rabbia tornò prepotente nei suoi occhi. «Credimi se ti dico che quella era una minaccia nei miei confronti neanche troppo velata.» Soraya si fermò un secondo a riflettere. Perché avrebbe dovuto dargli una mano quando poteva essere stata proprio la sua agenzia ad abbattere l'aereo? «Dammi una buona ragione per cui dovrei aiutarti» gli disse. «So che i tuoi uomini non stanno facendo grandi passi in avanti con l'identificazione del Gruppo indigeno iraniano, e non ne faranno mai, te lo garantisco. Ma io posso riuscirci.» In quel momento un fascio di luce fece scomparire una parte di stelle. Soraya fece alcuni passi verso sinistra per vedere chi si stava avvicinando. Era Delia. La luce della pila giocò per un attimo con le due figure e trasformò il suo viso in una maschera terrificante. «Abbiamo scoperto l'origine del missile che ha colpito l'aereo.» Chalthoum scambiò uno sguardo veloce con Soraya, poi incrociò le braccia sul petto. «Allora?» «Allora...» Delia fece un respiro profondo, poi espirò, «... era un missile terra-aria Kowsar 3.» «Iraniano!?» Soraya rabbrividì. «Delia, ne sei sicura?» «Ho trovato dei frammenti del sistema elettronico di guida» le rispose la collega. «Sono cinesi, simili a quelli dei C-701, che sono missili aria-superficie. Mentre l'EGS è simile a quello dello Sky Dragon, che aveva un inseguitore automatico dotato di un radar millimetrico.» «Il che spiegherebbe come è riuscito a raggiungere l'aereo con tanta precisione» aggiunse Soraya. Delia annuì. «Quell'EGS è tipico del Kowsar» spiegò rivolgendo a Soraya uno sguardo eloquente. «Questo gioiellino andava a una velocità di poco inferiore a quella del Mach One. L'aereo non aveva alcuna possibilità di sfuggirgli, nessuna.» Soraya fu assalita dalla nausea. La voce di Chalthoum risuonò piena di rabbia. « Yakhrab byutihum! Che le loro case possano crollare! Sono stati gli iraniani.» Quelle parole rivelavano che il mondo aveva compiuto un passo enorme verso la guerra. Ma non una guerra come quelle del Vietnam, in Afghanistan e in Iraq, che comunque erano state abbastanza sanguinose e cruente, ma una guerra mondiale devastante. La guerra delle guerre. *** Capitolo 12 «Ho appena parlato al telefono con il leader iraniano» disse il presidente. «Nega qualsiasi coinvolgimento nella sciagura.» «Che è anche la stessa risposta del suo ministro degli Esteri» aggiunse Jaime Hernandez. Si aprì la porta e lo zar dell'intelligence ricevette una pila di fogli stampati da un uomo magro con i capelli neri ingrigiti sulle tempie. Aveva il viso insipido dei ragionieri, eppure nei suoi occhi c'era un'espressione oscura che ne smentiva la facciata. Dopo aver controllato le carte, Hernandez annuì e lo presentò a tutti come Errol Danziger, il vicedirettore di SIGINT alla NSA. «Come potete vedere» esordì Hernandez mentre distribuiva i fogli, «non lasciamo nulla al caso.» «Il materiale è destinato soltanto ai massimi dirigenti. E strettamente confidenziale.» A queste parole, Danziger fece un cenno con la testa e se ne andò silenzioso come era arrivato. Cinque persone presero posto attorno al tavolo in una delle enormi stanze del Pentagono destinate alla guerra elettronica, tre piani sotto il seminterrato. Ognuna con davanti fogli stampati identici: i rapporti su quanto scoperto dalla task force inviata al Cairo, oltre gli ultimissimi aggiornamenti dell'intelligence sulla situazione, che si stava evolvendo molto in fretta. Dietro ogni sedia in pelle c'era un tritadocumenti. Il segretario alla Difesa iniziò a parlare, come se la pausa di Hernandez fosse un invito a prendere la parola. «È ovvio che neghino ogni coinvolgimento. Ma ci sono loro, dietro questa enorme provocazione.» «Non possono negare le prove che abbiamo inviato» intervenne Jon Mueller, capo del Dipartimento della Sicurezza Interna. «Purtroppo l'hanno già fatto.» Il presidente fece un sospiro profondo. «Questo è stato l'argomento principale della conversazione. Ritengono che la nostra task force abbia manipolato le "cosiddette prove". Testuali parole del presidente iraniano.» «Ma perché avrebbe ordinato di abbattere il nostro aereo?» chiese Veronica Hart. Halliday la fulminò con lo sguardo. «Perché è stanco delle accuse mosse contro il programma nucleare del suo paese. Abbiamo fatto molta pressione, ora è il suo turno.» «Secondo me, questo affronto serve a due scopi» suggerì Hernandez. «Come ha già sottolineato Bud in maniera chiara, attira l'attenzione internazionale lontano dal programma nucleare, e allo stesso tempo rappresenta un grande ammonimento per noi e per il resto del mondo: state alla larga!» «Mi faccia capire» la Hart si piegò in avanti. «Sta dicendo che hanno deciso di passare dalle minacce ai fatti per chiudere lo stretto di Hormuz e impedire l'esportazione di petrolio?» «Proprio così» annuì Mueller. «Ma è un suicidio, e lo sanno bene.» Halliday assistette a questo scambio di battute come un falco che osserva due conigli rincorrersi su un prato. Poi colse l'attimo: «Abbiamo sempre sospettato che il presidente iraniano fosse uno squilibrato». «Matto da legare, direi» lo appoggiò Hernandez. Halliday si trovò d'accordo. «Ancora peggio.» Si guardò intorno. Gli schermi piatti dei computer che tappezzavano le pareti illuminavano il suo viso conferendogli un'espressione misteriosa. «Ora ne abbiamo le prove.» «Credo che dovremmo rendere pubblico tutto quello che abbiamo scoperto, condividerlo con i media, non solo con i nostri alleati» disse Hernandez. Poi Halliday, rivolgendosi al presidente: «Sono d'accordo, signore. Inoltre, dovremmo convocare una sessione straordinaria del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, al quale si rivolgerà di persona. Un vile atto terroristico come questo va condannato di fronte a tutto il mondo, i colpevoli vanno additati all'opinione pubblica». «Dobbiamo accusare e condannare l'Iran» aggiunse Mueller. «Non hanno compiuto nient'altro che un atto di guerra.» «Giusto.» Hernandez curvò le spalle come un pugile sul ring. «In sostanza, dobbiamo intervenire militarmente.» «Ecco, questo sarebbe un vero suicidio» disse la Hart con enfasi. «Concordo con la direttrice della CIA» esclamò Bud Halliday. La Hart non si aspettava una risposta del genere, e per un attimo lo guardò incredula. Halliday continuò, e a quel punto Veronica capì ogni cosa. «Dichiarare guerra all'Iran sarebbe un errore. Dato che in Iraq stiamo per vincere, ci troviamo già costretti a ridislocare le nostre truppe in Afghanistan. Un attacco diretto all'Iran sarebbe un passo falso, a mio modesto parere. Non solo graverebbe sui nostri uomini, già molto provati, ma le conseguenze per gli altri paesi della zona, soprattutto per Israele, potrebbero essere catastrofiche. L'alternativa sarebbe abbattere il regime iraniano dall'interno. Sarebbe un ottimo obiettivo.» «Ma per farlo avremo bisogno di qualcosa che destabilizzi il paese, insomma, di un casus belli.» Halliday annuì: «... che, grazie al nostro duro lavoro, è già a disposizione nella forma del Nuovo gruppo indigeno militante iraniano. Così riusciremo a colpire il paese in due modi: diplomatico, attraverso le Nazioni Unite, e militare, appoggiando il GIM con sostegno economico, armi, consigli strategici, e via dicendo». «Sono d'accordo» disse Mueller, «anche se per migliorare l'attività del GIM avremo bisogno di un budget colossale.» «E ci serve subito» aggiunse Hernandez. «Questo significa che dovremo tenere il Congresso all'oscuro di tutto.» Halliday scoppiò a ridere, ma il suo sguardo rimase serio. «Che novità! L'unica cosa che interessa a quella gente è essere rieletti. Non sanno nemmeno cosa sia il bene del paese.» Il presidente appoggiò i gomiti sul tavolo e le mani chiuse a pugno davanti la bocca, assumendo la posizione tipica di quando si metteva a riflettere. La sua mente passò in rassegna tutte le proposte, le implicazioni e le possibili conseguenze, gli occhi esaminarono ogni collaboratore a uno a uno. Infine, il suo sguardo si fermò sulla direttrice della CIA. «Veronica, non abbiamo sentito il suo parere. Che ne pensa?» La Hart non rispose subito. La sua risposta era troppo importante, non poteva essere affrettata. Sapeva di avere i brillanti occhi avidi di Halliday puntati su di lei. «Non c'è dubbio che il missile che ha ucciso i nostri connazionali fosse un Kowsar 3 iraniano, per cui concordo con la risposta diplomatica, anzi, prima arriverà e meglio sarà. Ottenere il consenso mondiale è fondamentale.» «Quello della Cina e della Russia non l'avremo» la interruppe Halliday. «Sono grandi alleati economici dell'Iran e non si metteranno mai dalla nostra parte, malgrado tutte le prove che potremo portare. Questo è il motivo per cui ci serve una terza colonna per fomentare la rivoluzione dall'interno.» Ecco che veniamo al dunque, pensò la Hart. «Il problema che riscontro per quanto riguarda l'intervento mi litare è che abbiamo provato l'opzione della terza colonna già molte volte in passato, anche in Afghanistan, e che cosa abbiamo ottenuto? Abbiamo accresciuto il potere dei talebani, che all'inizio non erano altro che un gruppo locale che si opponeva all'invasione sovietica, e di Osama bin Laden.» «Questa volta è diverso» insistette Halliday. «Abbiamo la parola dei leader del gruppo. Sono moderati, democratici, in poche parole filoccidentali.» Il presidente tamburellò con le dita sul tavolo. «Bene, è deciso. Andremo avanti con questo doppio attacco. Metterò in moto la macchina diplomatica. Bud, lei intanto prepari un budget preventivo per il GIM. Prima lo avremo, prima potremo metterci al lavoro, ma lo voglio lontano dalla mia scrivania e dalla Casa Bianca. Per quanto mi riguarda, io non ho mai partecipato a questa riunione.» Si alzò dal tavolo, fissando i suoi collaboratori. «Facciamo in modo che funzioni, ragazzi. Lo dobbiamo ai 181 americani innocenti che hanno perso la vita su quell'aereo.» Veronica Hart osservò Moira Trevor entrare nel suo ufficio, fredda ed elegante come sempre. Eppure vide qualcosa di oscuro, negli occhi della sua ex collega. Le si accapponò la pelle. «Accomodati» le disse da dietro la scrivania, non credendo ancora ai suoi occhi. Da quando aveva lasciato la Black River era sicura che non l'avrebbe mai più rivista e non avrebbe più avuto a che fare con lei. E ora, invece, se la ritrovava davanti. La sua gonna fece un rumore secco mentre si sedeva guardando Veronica dritta negli occhi; accavallò le ginocchia, e la sua schiena assunse la posizione eretta tipica dei militari. «Immagino tu sia sorpresa tanto quanto me» iniziò Moira. La Hart non disse niente, ma continuò a fissarle gli occhi castani, cercando di indovinare la ragione della sua visita. Dopo poco, però, si arrese. Era impossibile penetrare quella facciata di marmo, già lo sapeva. Analizzò i pochi elementi a sua disposizione: il braccio sinistro, gonfio e fasciato, i graffi sul viso e sul dorso della mano. Non potè fare a meno di chiederle: «Ma che ti è successo?». «E il motivo per cui sono venuta da te.» «No, sei venuta qui per chiedermi aiuto.» La Hart si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sul tavolo. «E difficile essere tagliati fuori, vero?» «Cristo, Ronnie.» «Che c'è? Il passato ci sta aspettando entrambe, come un serpente nascosto tra i fili d'erba.» Moira annuì. «Suppongo sia così.» «Supponi?» La Hart scosse la testa. «Scusa se non mi faccio prendere dai sentimentalismi, ma sei stata tu a minacciarmi. Aspetta, aspetta, com'è che mi hai detto?» Si morse le labbra. «Ah sì: "Ronnie, la pagherai cara. Ti rovescerò tanta di quella merda addosso che non riuscirai più a venirne fuori".» La direttrice della CIA si appoggiò di nuovo allo schienale. «Ho dimenticato qualcosa?» Sentì il battito accelerare. «E adesso ti trovo qua.» Moira la fissava senza dire una parola. La Hart aprì una credenza e versò dell'acqua fredda in un bicchiere che spinse dall'altra parte della scrivania. Per un momento Moira non fece niente. Forse, pensò Veronica, non lo prende perché non sa se lo considererò un gesto di fiducia o di resa. Moira si avvicinò, e con il dorso della mano colpì il bicchiere, che si schiantò contro il muro andando in mille pezzi. Acqua e frammenti di vetro si sparsero in aria come esplosi da un cannone. Moira si era alzata in piedi, le braccia tese, i pugni stretti sul tavolo. Due uomini irruppero subito nella stanza con le pistole spianate. «Smettila, Moira.» La voce della Hart era bassa ma ferma. Moira si rifiutò di sedersi, girò le spalle a Veronica e si spostò nella parte opposta dell'ufficio con fare imperioso. La direttrice della CIA fece un gesto ai due uomini, che riposero le pistole nelle fondine e si ritirarono. Una volta che ebbero chiuso la porta, Veronica iniziò a tamburellare con le dita sulla scrivania, aspettando che l'altra si calmasse, e poi le rivolse parola: «Perché non mi dici che cosa sta succedendo?». Quando Moira si voltò aveva di nuovo un'espressione calma. «Non hai capito niente, Ronnie. Sono io che aiuterò te.» Mentre i suoi combattenti seppellivano Farid, Arkadin si sedette su una roccia che affiorava dal crepuscolo color zaffiro. Anche senza il rumore ritmico dei picconi e la vista del cadavere disteso a terra, l'atmosfera sarebbe stata lo stesso piena di malinconia. Il vento soffiava incostante, come un cane che ansima; gli uomini delle tribù si erano inginocchiati verso La Mecca, raccolti in preghiera con i mitra appoggiati a terra vicino a loro. Oltre le colline grigie c'era l'Iran, e Arkadin sentì d'un tratto la nostalgia di Mosca. Gli mancavano le strade con i ciottoli, le cupole, e i locali notturni dove regnava indiscusso. Soprattutto sentiva la mancanza delle innumerevoli dev alte, bionde e con enormi occhi azzurri. Si perdeva sulla loro pelle profumata, riuscendo a dimenticare Devra. Un tempo l'aveva amata, ma ora la odiava, perché non era morta davvero. Lo perseguitava come un fantasma notte e giorno, spingendolo a vendicarsi con Jason Bourne che l'aveva uccisa e che era rimasto l'ultimo legame che aveva con lei. A rendere le cose ancora peggiori c'era il fatto che l'americano aveva ucciso anche Misca, suo mentore e amico prediletto. Se non fosse stato per Misca Tarkanian, Arkadin non sarebbe sopravvissuto a Niznij Tagil. Misca e Devra, le persone più importanti della sua vita, erano entrambi morti per mano di Bourne. Per questo la doveva pagare cara. Gli uomini avevano quasi finito con la fossa. Una coppia di avvoltoi, due ombre nere che incombevano dall'alto, volavano pigri descrivendo ampi cerchi nel cielo. Come loro, pensò, anch'io aspetterò paziente il momento per colpire. Appollaiato sulla roccia, Arkadin teneva le ginocchia piegate vicino a sé e meditava giocherellando con il telefono satellitare. Nonostante tutto, la chiamata di Willard aveva avuto dei risvolti positivi. Willard non era uno pratico, era solo una talpa, e aveva commesso un errore fatale: il suo ego aveva avuto la meglio su di lui. Avrebbe potuto fare a pezzi Ian Bowles, seppellirne i resti da qualche parte e andare avanti indisturbato con il suo lavoro. Certo, voleva sapere chi era stato a mandarlo, ma il suo errore era stato rivelarsi ad Arkadin, per non parlare delle minacce. Era stato come dirgli chiaro e tondo che Bourne era ancora vivo. Per quale motivo altrimenti stava dal dottor Firth? Perché aveva ucciso Bowles? In questo modo Arkadin aveva avuto la certezza che l'americano era ancora in vita, anche se non riusciva davvero a spiegarsi come avesse fatto a sopravvivere con un proiettile piantato nel cuore. Per quanto forte, quell'uomo non era Superman. Perché non era rimasto ucciso? Scuotendo la testa con veemenza, Arkadin rimandò a un altro momento la soluzione del mistero e compose un numero di telefono. Bowles era solo un tappabuchi temporaneo, uno che avrebbe dovuto fare qualche domanda e riferire le informazioni raccolte, niente di più. Aveva fallito, e adesso era ora di mettere in campo l'artiglieria pesante. Gli uomini gettarono il cadavere nella fossa in modo sbrigativo. Sudati e irritabili, avevano già perso la pazienza da tempo. Farid aveva violato le leggi del gruppo, non era più uno di loro. Bene, pensò Arkadin, hanno imparato la lezione. La linea era libera. «Hai parecchio lavoro, spero» disse Arkadin non appena la voce familiare rispose dall'altra parte. «Ottimo, perché ho deciso di fare a modo tuo. L'orologio ticchetta inesorabile. Ti manderò i dettagli aggiornati nel giro di un'ora.» La direttrice della CIA scosse la testa. «Moira, temo di non capire.» Le vene del collo di Moira erano gonfie. Da quanto tempo aspettava quel confronto diretto! «Non capivi niente nemmeno quando mi hai abbandonata a Safed Koh?» Safed Koh, o le Montagne Bianche, come le chiamavano gli abitanti del posto. All'interno di quei monti le famigerate caverne di Torà Bora si estendevano lungo il confine fino ad arrivare nella parte occidentale del Pakistan, controllata dai terroristi. La Hart allargò le braccia. «Non ti ho mai abbandonata!» «Ma davvero!?» Moira avanzò verso di lei. «Allora spiegami come hanno fatto a catturarmi nel cuore della notte e a tenermi per sei giorni sul monte Sikaram senza niente da mangiare e solo con dell'acqua inquinata da bere!» «Non ne ho idea.» «I batteri che c'erano in quell'acqua mi hanno messa fuori gioco per tre settimane...» Moira si avvicinava sempre di più al bordo della scrivania di Veronica «... durante le quali tu hai condotto la mia missione.» «Era una missione della Black River.» «Per la quale io ero stata scelta e addestrata. Una missione che volevo più di ogni altra cosa al mondo.» La Hart tentò di accennare un sorriso, ma non ci riuscì. «Quella missione è stata un successo, Moira.» «Vuoi dire che sarebbe fallita se ci fossi stata io?» «Lo stai dicendo tu, non io.» «Tu pensavi che fossi una testa calda.» «E vero» riconobbe la Hart, «e lo penso tuttora.» L'uso del tempo presente paralizzò Moira. «E così tu sei ancora convinta che...» La direttrice della CIA allargò di nuovo le braccia. «Ma guardati. Che altro penseresti se fossi al posto mio?» «Vorrei sapere come Moira Trevor potrebbe aiutarmi a far fuori il mio vero nemico.» «E chi sarebbe?» Moira scorse un lampo di curiosità negli occhi di Veronica e lo disse con schiettezza: «L'uomo che ce l'ha con te dal momento in cui il presidente ha proposto il tuo nome per la carica di DCI. Bud Halliday». In quel momento Moira ebbe la sensazione di sentire lo scoppiettio del fuoco. Veronica spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. «Ma tu cosa vuoi esattamente da me?» «Un'ammissione di colpa.» «Una confessione scritta? Stai scherzando, vero?» «No» disse Moira. «Soltanto una cosa tra me e te.» La Hart scosse la testa. «Perché dovrei farlo?» «Perché così potremo mettere da parte il passato, guardare avanti e cancellare l'astio che ci divide.» Il telefono squillò diverse volte, ma la direttrice della CIA lo ignorò. Quando smise, nella stanza si sentivano solo il ronzio del condotto di aerazione, i loro respiri e i battiti dei loro cuori. La Hart sospirò. «Non credo tu voglia sapere.» Finalmente!, pensò Moira. «Mettimi alla prova.» «Ho fatto quello che ho fatto» disse la Hart, «solo per il bene della Black River.» «Stronzate, lo hai fatto per il tuo, di bene.» «Non sei mai stata in pericolo sul serio» proseguì Veronica. «L'ho verificato io stessa.» Invece di stare meglio, Moira si incattivì ancora di più. «E come lo avresti verificato?» «Moira, non possiamo fermarci qui?» La ragazza non voleva saperne di finirla lì e tornò all'attacco. Appoggiò le mani sul tavolo. «Finisci la storia» insistette. «Va bene.» La direttrice della CIA si passò le dita tra i capelli. «Ero sicura che non ti sarebbe successo niente perché Noah mi disse che si sarebbe preso cura di te.» «Oh.» Moira sentì il pavimento cederle sotto i piedi. La sensazione di capogiro la costrinse a tornare alla sedia, sulla quale si accasciò pesantemente, con lo sguardo perso nel vuoto. «Noah.» Poi capì tutto, e le venne da vomitare. «E stata tutta opera di Noah, non è vero?» La Hart annuì. «Io ero solo la portaborse. Ho fatto il lavoro sporco al posto suo: dovevo essere la persona che avresti odiato una volta tornata, in modo che lui potesse continuare a usarti a suo piacimento.» «Dio mio!» Moira guardò in basso fissando le sue mani. «Non si fidava di me.» «Non per quella missione.» Veronica lo disse talmente piano che Moira dovette sporgersi verso di lei per capire. «Ma per le altre sai benissimo che preferiva te.» «Non ha alcuna importanza. » Un senso di torpore quasi le paralizzò il corpo. «E una cosa disgustosa.» «Sì, hai ragione. E questo è il motivo per cui me ne sono andata dalla Black River.» Moira alzò lo sguardo, i suoi occhi si concentrarono sulla donna che per tanto tempo aveva rappresentato il suo peggior nemico. Era confusa. «Non capisco...» «Ho fatto un mucchio di cose orribili, per la Black River, e tu dovresti capirmi molto bene. Ma quella volta Noah mi costrinse a fare...» Si fermò e scosse la testa. «Mi vergognavo talmente tanto per quello che avevo fatto che non avevo il coraggio di guardarti in faccia, così dopo la missione venni subito a cercarti. Volevo scusarmi...» «E io non te l'ho permesso, anzi non ho fatto altro che insultarti.» «Non posso biasimarti. Non me la presi. In fondo avevi perfettamente ragione. Ma era tutta una messa in scena. Avrei voluto disobbedire agli ordini e confessarti la verità, e invece me ne sono andata. Sono stata una codarda, lo so, ma almeno non avrei più dovuto affrontare il tuo sguardo.» «Ed eccoci qua» disse Moira sfinita e amareggiata. Sapeva che Noah era subdolo e amorale. Non avrebbe fatto carriera all'interno della Black River, altrimenti. Ma non avrebbe mai immaginato che potesse imbrogliarla in quel modo, usarla come una delle tante pedine che aveva a disposizione. «Eccoci qua» ripetè la Hart. «Noah mi ha cacciato in questa situazione, ecco perché sono qui e non so dove altro andare.» Veronica corrugò la fronte. «Che vuoi dire? Hai la tua nuova organizzazione.» «E stata compromessa da Noah o dalla Sicurezza nazionale.» «C'è una bella differenza tra la Black River e la Sicurezza nazionale.» Moira fissò Veronica e scoprì di non essere più in grado di capire i propri sentimenti. Come ci si riprende da un tradimento così? All'improvviso fu assalita da una furia incontenibile. Se Noah fosse stato in quella stanza, lei avrebbe preso la lampada sulla scrivania di Veronica e gliel'avrebbe fracassata in testa. Fortunatamente per lui non c'era, meglio così. Le venne in mente un passo di Le relazioni pericolose, il suo romanzo preferito perché parlava di spie da salotto: «La vendetta è un piatto che va servito freddo». E in questo caso, pensò, anche in una cucina linda e splendente. Fece un respiro profondo e poi buttò fuori tutta l'aria che aveva in corpo. 174 «Non in questo caso.» E poi spiegò cosa le era successo: «Jay Weston, uno dei miei uomini, è stato ucciso, e io non ho fatto la stessa fine solo per un pelo. Questo perché la Black River e la Sicurezza nazionale stanno lavorando a un obiettivo comune. Quale sia, non lo so, ma è talmente grande che sono disposti a uccidere chiunque si metta in mezzo». La Hart ruppe il silenzio agghiacciante che era sceso nella stanza: «Spero tu abbia delle prove per supportare simili accuse». Moira le passò la chiavetta USB che aveva ritrovato nella giacca blu di Jay Weston. Dieci minuti dopo, la direttrice della CIA distolse lo sguardo dal computer e disse: «Moira, finora hai solo un agente in moto che non si riesce a trovare, e una chiavetta piena di cose incomprensibili». «Jay Weston non è morto in un incidente stradale» si scaldò Moira. «Gli hanno sparato. E Steve Stevenson, il sottosegretario alla Difesa con delega all'acquisizione, alla logistica e alla tecnologia, mi ha confermato che Jay è stato ucciso perché aveva scoperto qualcosa. Mi ha detto che, da quando si è diffusa la notizia dell'aereo esploso, il Pentagono e il Dipartimento della Difesa sono stati avvolti da una nube tossica.» Continuando a fissare Moira, Veronica prese in mano il telefono e chiese alla sua assistente di metterla in contatto con il sottosegretario Stevenson al Dipartimento della Difesa. «Non farlo» le disse Moira. «Era terrorizzato. L'ho dovuto pregare anche solo per incontrarmi.» «Mi dispiace» rispose la direttrice della CIA, «ma non abbiamo alternative.» Attese in silenzio, tamburellando con le dita sul tavolo. Poi la sua espressione cambiò: «Sì, salve sottosegretario Stevenson, sono... Ah, capisco. Quando dovrebbe tornare?». Il suo sguardo si spostò di nuovo su Moira. «Be', ma almeno lei lo saprà quando... Va bene. Non importa, richiamo più tardi. Grazie.» Riattaccò, e le sue dita ricominciarono a tamburellare. «Che succede?» chiese Moira. «Dov'è Stevenson?» «A quanto pare nessuno lo sa. Ha lasciato l'ufficio alle undici e mezza di stamattina.» «Sì, per incontrarsi con me.» «E non è mai più rientrato.» Moira afferrò il cellulare e chiamò Stevenson, ma la chiamata fu trasferita alla segreteria telefonica. «Non risponde» disse mettendo via il telefono. La Hart fissò lo schermo del computer. Le sue labbra composero in silenzio la parola «Pinprickbardem», poi tornò a guardare Moira. «Credo sia meglio cercare di capire cosa diavolo è successo al sottosegretario.» Wayan, contento per gli affari di quel giorno, se ne stava nel retro della sua bancarella e preparava un paio di maialini rimasti per riportarli alla fattoria, quando comparve un uomo. Non lo aveva sentito arrivare per via del rumore infernale del grande mercato che stava per chiudere. «Tu devi essere il grassone di nome Wayan.» «E chiuso» disse Wayan senza alzare lo sguardo. «Torni domani.» Percependo che il tizio non si era spostato di un millimetro, iniziò a girarsi dicendo: «E in caso non possa tornare...». Il pugno devastante lo colpì alla mascella, mandandolo a finire contro i maiali che iniziarono a guaire di spavento. Anche Wayan guaì. Non fece in tempo a vedere il viso infuriato dell'uomo che si sentì strattonare verso l'alto. Il secondo pugno lo prese in pieno stomaco, togliendogli il respiro e gettandolo di nuovo a terra, in ginocchio. Ansimando e trattenendo i conati di vomito, guardò l'immagine dell'uomo altissimo di fronte a lui distorta dalle lacrime che gli riempivano gli occhi. Il vestito nero troppo grande che indossava lo faceva sembrare orribile. Una barba corta e ispida gli copriva il viso, cupo come le ombre della notte; gli occhi neri come la pece fissavano Wayan senza pietà. Aveva una leggera cicatrice sul lato del collo che gli arrivava fino alla mascella, dove era stato tagliato il muscolo che era rimasto raggrinzito. Sull'altro lato del collo aveva un tatuaggio con tre teschi: uno guardava dritto avanti a sé, gli altri due erano di profilo, uno rivolto davanti e l'altro dietro il corpo. «Che cos'hai detto a Bourne?» L'uomo parlava inglese con un forte accento gutturale che Wayan, ridotto com'era, non riuscì a identificare. Forse era europeo, inglese o francese. Oppure romeno, o magari serbo. «Che cos'hai detto a Bourne?» ripetè. «C... chi?» L'uomo scosse Wayan talmente forte che si sentì il rumore dei denti sbattere uno contro l'altro. «L'uomo che è venuto qui da te. L'americano. Che cosa gli hai detto?» «Non so di chi...» Il tentativo di Wayan di mentire si trasformò in un grugnito di dolore quando l'uomo gli prese il dito indice della mano destra e lo spinse indietro fino a spezzarlo. Wayan stava per perdere conoscenza a causa del dolore, ma l'uomo lo colpì due volte in faccia. I suoi occhi si focalizzarono di nuovo sull'aguzzino, che si piegò sopra di lui, e il macellaio ne sentì l'odore. Doveva essere volato fin lì senza nemmeno farsi una doccia o cambiarsi i vestiti. «Non ti conviene giocare con me, lurido figlio di puttana.» Afferrò il dito medio della mano destra: «Hai cinque secondi, Wayan». «Si sta sbagliando!» strillò quando l'uomo gli ruppe il secondo dito. Aveva la sensazione che tutto il sangue gli fosse defluito dalla testa. L'uomo lo prese a pugni in faccia, ripetutamente. «Siamo a due, ne abbiamo ancora otto» lo minacciò, prendendo il pollice destro di Wayan, che spalancò la bocca come un pesce in cerca di ossigeno. «Va bene, va bene. Gli ho detto dove poteva trovare Don Fernando Herrera.» L'uomo si piegò sulle gambe, lasciando andare un piccolo sospiro. «Quanto sei inaffidabile!» Poi si voltò, prese una canna di bambù e, con la massima noncuranza, la conficcò nell'occhio destro di Wayan. *** Capitolo 13 Nelle diciotto ore che seguirono Arkadin non fece altro che addestrare le sue reclute. Non permise loro di mangiare, di bere, né di prendersi una pausa se non per urinare. Trenta secondi era tutto il tempo che avevano per svuotare le vesciche nella polvere rossa dell'Azerbaigian. Chi sgarrava, riceveva un sonoro colpo di manganello dietro le ginocchia. Triton lo aveva avvertito: aveva solo cinque giorni a disposizione per trasformare quegli assassini in un plotone di truppe d'assalto. Più facile a dirsi che a farsi. Arkadin, però, aveva molta esperienza in questo campo, visto che avevano fatto una cosa simile con lui, quando era ancora un ragazzino di Niznij Tagil in fuga per aver ucciso Stas Kuzin e un terzo della sua banda. Niznij Tagil era stata fondata in una zona molto ricca di ferro. Di conseguenza, ben presto comparve un'enorme cava. Era il 1698. Nel 1722 nacque il primo stabilimento per la fusione del rame, e da lì si formò il nucleo della futura cittadina, mettendo in moto una macchina viziata e corrotta che offriva case e servizi a lavoratori stremati. Centocinquant'anni dopo in quel luogo venne costruita la prima locomotiva a vapore russa. Come in molte cittadine di confine governate dall'avidità, prima dei nobili, proprietari delle industrie, e poi dei pezzi grossi del partito, a Niznij Tagil si viveva senza legge, e nemmeno l'influenza semicivilizzatrice della modernità è riuscita a portarvi un minimo di legalità. Ecco perché il governo federale aveva circondato quel sito tossico con un anello di penitenziari di massima sicurezza, spegnendo così le poche luci che cercavano di rischiarare l'oscurità. A Niznij Tagil si sentivano soltanto suoni terrificanti, come il fischio lontano del treno che si allontanava verso gli Urali o il rumore improvviso delle sirene di una delle prigioni; il pianto di un bambino abbandonato sulla strada sudicia o lo schianto delle ossa che si rompevano durante una rissa tra ubriachi. Cercando di sfuggire ai suoi aguzzini che setacciavano ogni via e ogni baracca della città, Arkadin imparò a imitare i cani bastardi che camminavano furtivi nei vicoli bui con la coda tra le gambe. Poi, una volta si ritrovò davanti due tipi arroganti che ficcavano il naso in quei posti poco raccomandabili. Si voltò di scatto facendo credere ai due brutti ceffi che fossero riusciti a incastrarlo. Voltato l'angolo, afferrò un pezzo di legno, si accucciò e lo scagliò con forza contro le gambe del primo uomo, che urlò per il dolore e cadde in avanti. Arkadin gli fu sopra in un secondo, gli prese la testa e la scaraventò con violenza contro l'asfalto. L'altro gli si buttò addosso, ma Arkadin gli piantò una gomitata sul pomo d'Adamo. L'uomo stava per soffocare. A quel punto Arkadin tirò fuori la pistola e gli sparò a bruciapelo. Poi rivolse la pistola verso quello a terra e gli conficcò una pallottola nella nuca. La strada non era più sicura, per lui, doveva trovare un posto in cui nascondersi. Pensò di farsi arrestare, così l'avrebbero messo in una delle prigioni della zona e sarebbe stato protetto, ma cambiò subito idea. Avrebbe potuto funzionare in un'altra parte del paese, ma non a Niznij Tagil, dove i poliziotti erano così corrotti che non si riusciva a distinguerli dai criminali. Arkadin, comunque, non era a corto di risorse. Tutt'altro. Le esperienze precedenti lo avevano reso scaltro. Andò avanti a prendere in considerazione e scartare migliaia di possibilità. Tutte sembravano esporlo troppo o buttarlo in pasto a potenziali spie pronte a consegnarlo in cambio di una bottiglia di liquore o di una notte di eccessi in compagnia di minorenni. Alla fine si decise per quella che sembrava la soluzione perfetta: si sarebbe nascosto nello scantinato del suo edificio, dove la banda e quel maniaco del nuovo capo, Lev Antonin, avevano ancora il proprio quartier generale. Lo scopo ultimo del boss era trovare e annientare l'assassino dell'uomo che lo aveva preceduto. Non si sarebbe dato pace finché non avesse ottenuto la testa di Arkadin. Lui, dal canto suo, aveva una conoscenza millimetrica dell'edificio, dato che lo aveva comprato durante la fase di acquisizione della sua attività nel mercato immobiliare. Era a conoscenza, per esempio, di un nuovo sistema di fognature previsto per lo stabile, iniziato e mai portato a termine. Attraverso un'area municipale sfitta da molto tempo, piena di erbacce e rifiuti, entrò nel simbolo stantio e degradato della sua città natale: un condotto sotterraneo che puzzava di morte e decomposizione. Si ritrovò subito nelle viscere oscure dell'edificio. Era stato facile, un gioco da ragazzi, ma la situazione in cui si trovava non era molto allegra. Era prigioniero nel luogo da cui voleva disperatamente fuggire. L'aereo traballò in modo nauseante, svegliando Bourne di soprassalto. La pioggia batteva sull'oblò di plexiglas. Si era addormentato sognando la conversazione che aveva avuto con Tracy Atherton, la ragazza seduta vicino a lui. Nel sogno parlavano di Holly Marie Moreau, invece che di Francisco Goya. Aveva dormito profondamente durante il volo della Thai Airways, durato quasi ventiquattr'ore, da Bali a Bangkok e poi da lì a Madrid. Ora si trovava su un aereo della Iberia che da Madrid lo stava portando a Siviglia. Era il volo più breve, ma si stava rivelando il peggiore. Continui vuoti d'aria, dovuti a una tempesta in corso, facevano oscillare l'aereo che perdeva spesso quota. Tracy Atherton tentò di guardare dritto avanti a sé, ma impallidì comunque. Bourne le aveva sorretto la testa mentre vomitava nel sacchetto apposito, per ben due volte. Era una ragazza bionda e magrissima, con enormi occhi azzurri e un sorriso che le illuminavano il volto; aveva denti bianchissimi e regolari. Le unghie erano ben curate. Gli unici gioielli che indossava erano la fede d'oro e gli orecchini di diamante, di certo costosi ma non vistosi. Portava una camicetta rossa sotto il leggero tailleur di seta grigia. «Lavoro al Prado di Madrid» gli aveva detto. «Un collezionista privato mi ha fatta chiamare per autenticare un Goya venuto da poco alla luce. Però io credo che sia un falso.» «Perché?» «Perché vorrebbero farlo passare per una delle Pitture nere di Goya realizzate in un periodo successivo, quando l'artista era già sordo e stava impazzendo per via dell'encefalite. Sono quattordici opere. Il collezionista che mi ha contattata è convinto di essere in possesso della quindicesima.» Tracy si fermò e scosse la testa. «Francamente, i dati storici non giocano a suo favore.» Quando le condizioni atmosferiche migliorarono, la ragazza ringraziò Bourne e si alzò per andare alla toilette a sistemarsi. Jason aspettò qualche secondo, poi si abbassò, prese la cartellina di Tracy e l'aprì per sbirciare tra i vari fogli che conteneva. Si era presentato come Adam Stone, il nome scritto sul passaporto che Willard gli aveva dato prima che lasciasse l'ambulatorio del dottor Firth. Adam Stone in teoria era un capitalista di ventura che aveva un appuntamento con un potenziale cliente a Siviglia. Con l'immagine dell'uomo che aveva cercato di ucciderlo stampata in testa, Jason studiava chiunque avesse vicino, chiunque attaccasse bottone con lui per sapere dove fosse stato e dove fosse diretto. All'interno della cartellina c'erano alcune foto, dell'insieme e dei particolari, del dipinto di Goya: uno studio raccapricciante di un uomo legato a quattro energici stalloni che lo tiravano in direzioni opposte, sotto gli occhi di ufficiali divertiti che fumavano, ridevano e punzecchiavano la vittima con le baionette. Inoltre, c'era una serie di radiografie del dipinto accompagnate da una lettera che ne certificava l'autenticità, firmata da un certo professor Alonzo Pecunia Zuniga, un esperto di Goya del Museo del Prado. Non vedendo nient'altro di sospetto, Bourne ripose i fogli nella cartellina e la richiuse. Perché la ragazza gli aveva mentito dicendo di non credere che il quadro fosse autentico? Perché gli aveva detto che lavorava al Prado se nella lettera che aveva letto Zuniga si riferiva a lei come a un'esterna e non come a una collega del museo? Le sue domande avrebbero presto trovato risposta. Guardò fuori dal finestrino il cielo biancastro, e il pensiero andò al suo nascondiglio. Aveva usato il computer di Firth per raccogliere informazioni su Don Fernando Herrera. Innanzitutto, Herrera era colombiano e non spagnolo. Era nato a Bogotà nel 1946, ultimo di quattro figli. Si era laureato in Economia a Oxford con il massimo dei voti. Poi, inspiegabilmente, la sua vita prese tutt'altra strada. Iniziò a lavorare come petrolero alla Tropical Oil Company e arrivò ai vertici della carriera. Si spostò poi da un campo di trivellazione all'altro, riuscendo ad aumentare in ognuno la produzione giornaliera di barili. Ebbe il colpo di fortuna di comprare un campo per quattro soldi, dato che alcuni esperti della Tropical Oil Company lo consideravano esaurito. E invece lui lo risollevò e nel giro di tre anni lo rivendette a dieci volte tanto alla compagnia petrolifera. E così fece il suo ingresso nel capitalismo di ventura, impiegando le enormi somme guadagnate nel più stabile settore bancario. Comprò una piccola banca regionale sull'orlo del fallimento, a Bogotà, ne cambiò il nome, e durante gli anni Novanta la trasformò in un colosso nazionale. Aprì filiali in Brasile, in Argentina e, di recente, anche in Spagna. Due anni prima aveva rifiutato una proposta d'acquisto da parte del Banco Santander, preferendo rimanere indipendente. Ora la sua Aguardiente Bancorp, che prendeva il nome dal liquore alla liquirizia tipico del suo paese natale, vantava più di venti filiali. L'ultima aveva aperto cinque mesi prima a Londra, centro di tutte le attività internazionali. Era stato sposato due volte, aveva due figlie che vivevano in Colombia, e un figlio, Jaime, che Don Fernando aveva messo a capo della filiale della Aguardiente di Londra come amministratore delegato. Sembrava un tipo sveglio, serio e pacato; Bourne non era riuscito a trovare nemmeno l'ombra di qualcosa di torbido nella sua vita o nell'attività della Aguardiente, nei resoconti dei circoli bancari internazionali. Percepì che Tracy stava tornando al suo posto prima ancora di essere raggiunto dal profumo di felce e agrumi. Si sedette nel posto accanto al suo tra i fruscii della seta. «Ti senti meglio?» La ragazza annuì. «Da quanto tempo lavori al Prado?» le chiese. «Da circa sette mesi.» Ma nel rispondere aveva esitato un secondo di troppo e Bourne ebbe la conferma che stava mentendo. Di nuovo si chiese perché. Cos'aveva da nascondere? «Se non ricordo male» disse Bourne, «ci sono stati dei dubbi riguardo alcune delle ultime opere di Goya.» «Sì, nel 2003» rispose Tracy. «Ma da allora le quattordici Pitture nere sono state autenticate.» «Tutte tranne quella che stai andando a vedere.» Tracy storse le labbra. «Nessuno l'ha ancora vista, tranne il collezionista.» «E chi è?» La giovane donna distolse lo sguardo, sentendosi tutt'a un tratto a disagio. «Non posso dirlo.» «Capisco...» «Perché lo stai facendo?» Si voltò verso Bourne con la faccia arrabbiata. «Pensi che sia una stupida?» disse, rossa di rabbia. «So perché ti trovi su questo volo.» «Ne dubito.» «Ma per favore! Stai andando da Don Fernando Herrera, proprio come me.» «Don Herrera è il collezionista?» «Vedi che ho ragione?» Una luce vittoriosa si accese nei suoi occhi. «Lo sapevo!» sbottò, scuotendo la testa. «Te lo dico una volta sola: non riuscirai a prendere quel quadro. Sarà mio, a qualunque costo.» «A quanto pare non lavori al Prado, allora» le disse Bourne, «né in qualsiasi altro museo. E perché mai saresti disposta a spendere una montagna di soldi per un falso?» Tracy incrociò le braccia sul petto e si morse le labbra, determinata a non aprire bocca. «Il Goya non è un falso, vero?» Lei non rispose. Bourne si mise a ridere. «Tracy, ti giuro che il motivo del mio viaggio non è quel quadro di Goya. Non sapevo nemmeno che esistesse, prima che me ne parlassi tu.» La ragazza lo guardò furente. «Non ti credo!» Bourne tirò fuori un foglio ripiegato dal taschino della giacca e glielo fece vedere. «Tieni, leggi» le disse. «Davvero, non mi importa. Leggi pure.» Willard aveva fatto un lavoro eccellente, pensò, mentre Tracy apriva il documento. La giovane lo guardò in faccia. «Ma questo è un prospetto per l'avviamento di una società di e-commerce.» «Mi servono dei finanziamenti, e in fretta. Dobbiamo imporci sul mercato prima dei nostri concorrenti» mentì Bourne. «Mi hanno riferito che Don Fernando Herrera è un tipo che odia la burocrazia e che potrebbe farci avere i soldi in tempi rapidissimi.» Non poteva rivelarle il vero motivo per cui doveva incontrare Herrera, e prima l'avrebbe convinta che fosse un suo alleato, prima avrebbe raggiunto il suo obiettivo. «Non lo conosco per niente. Se potessi accompagnarmi da lui, te ne sarei grato.» Tracy gli restituì il documento che Bourne ripose nel taschino, ma la sua espressione era ancora diffidente. «Come faccio a sapere che posso fidarmi di te?» Bourne alzò le spalle. «Nello stesso modo in cui riesci a sapere qualsiasi altra cosa.» Lei ci rifletté per un istante, poi annuì. «Hai ragione. Mi dispiace, non mi posso fidare.» «Ma io posso darti una mano.» Tracy aggrottò la fronte, scettica. «Davvero?» «Ti farò avere il Goya per una cifra irrisoria.» Lei scoppiò in una risata fragorosa. «E come pensi di fare?» «Concedimi un'ora a Siviglia e vedrai.» «Ferie e permessi sono stati revocati, tutti i dipendenti sono stati richiamati dalle vacanze» disse Amun Chalthoum. «Ho messo tutti i miei uomini al lavoro per cercare di capire come diavolo hanno fatto gli iraniani a oltrepassare il mio confine con un missile terraaria.» La situazione non era bella per lui, Soraya lo sapeva, anche se non aveva ancora avuto un faccia a faccia con i suoi superiori. Questa violazione della sicurezza diceva a chiare lettere: «disastro personale». O forse no? E se tutto quello che le aveva detto fosse servito solo per confonderla e distrarla dalla verità? E se magari, con la complicità del governo egiziano o di un ministro troppo impaurito per alzare la voce contro l'Iran, al-Mukhabarat avesse deciso di servirsi degli Stati Uniti come mandatario? Si erano allontanati da Delia e il luogo del disastro, avevano attraversato la falange degli avvoltoi mediatici che circondava il perimetro, e stavano viaggiando a una velocità inaudita sulla 4x4 di Amun. Il sole mattutino illuminava il cielo di una luce chiara. Nuvole pallide oziavano verso occidente, stanche di nuotare attraverso l'oscurità della notte. Il vento soffiava gli ultimi refoli di aria fresca. Di lì a poco Amun avrebbe dovuto tirare su i finestrini della macchina e accendere l'aria condizionata. Dopo aver setacciato ogni minima parte del punto in cui era avvenuta l'esplosione all'interno della fusoliera, la task force aveva creato un rendering in 3D dei quindici secondi precedenti l'esplosione. Amun e Soraya erano entrati nella tenda in cui si trovava il portatile e si erano raccolti intorno allo schermo. Il caposquadra li aveva avvertiti: «E ancora molto grezzo. Abbiamo avuto poco tempo per ricostruirlo». Quando il missile apparve sullo schermo, aggiunse: «E non possiamo essere sicuri al cento per cento della traiettoria effettiva del missile. Potremmo aver sbagliato di un grado o due». Il missile colpì l'aereo, spezzandolo in due parti e facendolo precipitare con movimenti a spirale. A differenza di quanto aveva detto il caposquadra, l'effetto era molto realistico e agghiacciante. «Ciò che sappiamo per certo è la portata massima del Kowsar.» Premette un tasto per cambiare l'immagine e si materializzò una mappa topografica satellitare della zona. Indicò una croce rossa. «Questo è il punto d'impatto.» Poi un cerchio azzurro si sovrimpresse all'immagine precedente contenendo la zona intorno all'area del disastro. «Il cerchio corrisponde alla portata massima del missile.» «Il che significa che deve essere partito da un'area all'interno di questo cerchio» osservò Chalthoum. Soraya gli lesse in viso tutta la preoccupazione. «Esatto.» Il caposquadra annuì. Era un uomo corpulento, calvo, con la grossa pancia tipica degli americani e un paio di occhialini molto piccoli che continuava a spingere sul naso. «Ma possiamo circoscrivere ulteriormente la zona, se volete.» Premette un altro tasto e sullo schermo si formò un cono giallo. «Il punto in alto è la zona in cui il missile ha impattato con l'aereo. La parte in basso è più ampia perché abbiamo considerato un errore di circa il tre per cento nella traiettoria.» Premette un altro tasto e l'immagine si ingrandì fino a rivelare un'area quadrata nel vicino deserto. «Il missile è stato lanciato da un punto interno a questa zona.» Chalthoum diede un'occhiata più da vicino. «Cosa sarà, un chilometro quadrato?» «Poco meno» rispose il caposquadra con un sorrisino di esultanza. In quel momento Soraya e Amun si stavano recando proprio in quell'area, sperando di trovare qualche traccia dei terroristi e delle loro identità. Facevano parte di un convoglio di cinque jeep su cui viaggiavano gli uomini di alMukhabarat. Soraya trovò strano e un po' inquietante il fatto che si stesse abituando ad averli intorno. Teneva una mappa spiegata sulle ginocchia. L'area che avevano visto sullo schermo del computer era segnata, mentre un'altra immagine ingrandita presentava un reticolato di linee. Anche le altre auto erano dotate dello stesso materiale. Il piano di Chalthoum era quello di mandare una jeep a ogni angolo della sezione e farla lavorare verso l'interno, mentre lui e Soraya avrebbero iniziato le loro ricerche dal centro. Stavano sfrecciando a una velocità assurda, Soraya alzò lo sguardo verso Amun. Il suo volto era scuro e teso. Dove la stava portando?, si domandò. Di certo, se al-Mukhabarat era coinvolto, non le avrebbe permesso di sapere neppure un briciolo della verità. Stavano facendo un buco nell'acqua? «Li troveremo, Amun» replicò lui, non tanto perché ne fosse convinta, quanto per alleviare la tensione. La risata di Amun risultò più sgradevole del latrato di uno sciacallo. «Certo che li troveremo» replicò lui sardonico. «Anche se per miracolo dovessimo riuscire a trovarli, per me è comunque troppo tardi. I miei nemici faranno leva su questa violazione della sicurezza, mi accuseranno di aver riempito di vergogna non solo al-Mukhabarat, ma tutto l'Egitto.» Quell'inusuale tono di autocommiserazione scosse Soraya. «Ma allora perché sprechi tempo con le indagini? Faresti prima a tagliare la corda» osservò. Stava cominciando ad arrabbiarsi. Il volto di Amun si fece ancora più scuro. Soraya ebbe l'impressione che faticasse a trattenersi, e per un momento pensò che l'avrebbe colpita. Ma poi la tempesta di emozioni passò e la sua risata risuonò allegra e profonda. «E sì, dovrei averti sempre al mio fianco, azizti.» Lei si spaventò di nuovo, questa volta per l'appellativo affettuoso, e provò un'improvvisa ondata di affetto per quell'uomo. Non potè fare a meno di chiedersi se fosse tutta una recita, e fu assalita da un senso di vergogna perché dentro di sé voleva credere che fosse del tutto estraneo a quell'orrendo crimine. Voleva qualcosa da lui che forse non poteva avere, ma che di certo non avrebbe mai avuto se fosse stato colpevole. Il suo cuore le diceva che era innocente, ma la sua mente rimaneva ancorata all'ombra del dubbio. Amun si voltò verso di lei per un momento, la fissò con i suoi occhi scuri. « Troveremo quegli stronzi. Li porterò di fronte ai miei superiori ammanettati e in ginocchio. Lo giuro sulla tomba di mio padre.» Nel giro di quindici minuti raggiunsero un'area del deserto che sembrava molto diversa dal paesaggio brullo che avevano attraversato. Le altre quattro jeep si erano separate già da tempo, rimanendo in contatto radio costante tra di loro e con Amun. Gli equipaggi comunicavano ogni passo delle loro ricerche. Soraya prese un binocolo e iniziò a ispezionare la zona in cerca di qualsiasi cosa potesse risultare sospetta, ma era tutto fuorché ottimista. Il deserto, poi, era il loro peggior nemico. Il vento, spostando la sabbia, poteva aver seppellito qualsiasi cosa i terroristi avessero potuto per sbaglio lasciarsi alle spalle. «Trovato niente?» le chiese Chalthoum venti minuti dopo. «No... aspetta!» Soraya scostò il binocolo e indicò un punto alla loro destra. «Laggiù, a ore due... a circa cento metri da qui.» L'egiziano svoltò in quella direzione e aumentò la velocità. «Che cosa vedi?» «Non lo so... sembra una macchia» rispose lei cercando di mettere a fuoco. Appena arrivarono sul posto, Soraya saltò giù dalla jeep. Vacillò per lo slancio e la morbidezza della sabbia, ma avanzò imperterrita. Quando Chalthoum la raggiunse, era piegata a esaminare la chiazza scura. «Non è niente» disse Amun disgustato. «Solo un ramo annerito.» «Forse no.» Soraya scavò con le mani vicino al ramo quasi del tutto bruciato, mentre Chalthoum cercava di evitare che la sabbia scivolasse di nuovo nella buca. A circa cinquanta centimetri di profondità le sue dita trovarono qualcosa di freddo e solido. «Il ramo è impigliato in qualcosa!» esclamò eccitata. Ma tirò fuori soltanto una lattina vuota: il ramo era impigliato sulla linguetta. Quando tirò via il pezzo di legno, dalla lattina uscì una cascata di cenere. «Qualcuno qui ha fatto un fuoco» dedusse. «Ma non c'è modo di capire da quanto tempo queste ceneri sono conservate in questo luogo.» «Forse invece c'è.» Chalthoum scrutò il cumulo di cenere della stessa forma a cono che avevano visto sullo schermo e che rappresentava il margine di errore per il luogo da dove il missile era stato lanciato. «Tuo padre ti ha mai parlato del Nowruz?» «Il capodanno persiano prerivoluzionario?» Soraya annuì. «Sì, ma non l'abbiamo mai celebrato.» «Nel corso degli ultimi due anni, più o meno, è tornato molto in voga.» Chalthoum aprì la lattina, la scosse per svuotarla del contenuto e annuì. «C'è più cenere di quella che potrebbe servire per cucinare. E poi, un gruppo terroristico mangerebbe cibo in scatola, qualcosa che non richieda cottura.» Soraya si sforzava di ricordare qualcosa sui riti legati al Nowruz, ma alla fine si arrese e chiese a Chalthoum di rinfrescarle la memoria. «Si accende un fuoco sopra il quale salta ogni membro della famiglia, chiedendo che il pallore dell'inverno venga sostituito dalle gote rosse, simbolo di salute. Poi si partecipa a un banchetto durante il quale si raccontano storie ai bambini. Mentre la festa continua i fuochi si spengono, e le ceneri, che rappresentano il grigiore dell'inverno, vengono seppellite nei campi.» «Non riesco a credere che i terroristi abbiano celebrato qui il Nowruz» disse Soraya. Chalthoum separò le ceneri con il ramo. «Questo sembra un pezzo di guscio d'uovo, e qui c'è una scorza d'arancia bruciata. L'uovo e l'arancia sono simboli finali del banchetto.» Soraya scosse la testa. «Non avrebbero mai rischiato così tanto. Qualcuno avrebbe potuto vedere il fuoco.» «Giusto» ammise Chalthoum, «ma questo è un posto perfetto per seppellire il grigiore dell'inverno.» La guardò dritta negli occhi e le chiese: «Sai quando è iniziato il Nowruz?». Il viso di Tracy s'illuminò; rise di gusto. «Che bel tipo che sei, Adam.» D'un tratto, però, venne sopraffatta da un dubbio: «Ma se ti presenti come esperto di Goya, poi come farai a farti dare i soldi da Don Fernando per la tua attività?». «Semplice» spiegò Bourne. «L'esperto se ne va e io ritorno come Adam Stone.» Si liberò un posto, così Tracy iniziò ad avviarsi, ma Bourne la fermò con un energico movimento della testa. Allo sguardo interrogativo della ragazza, Jason rispose con un filo di voce quasi impercettibile: «L'uomo che è appena entrato... no, non guardarlo. L'ho visto sul nostro aereo». «E allora?» «Era anche sul mio stesso volo della Thai Air» aggiunse. «Ha fatto tutto il viaggio con me, da Bali.» Tracy gli voltò le spalle e, con l'aiuto di uno specchietto, riuscì a intravedere il tizio per un momento. «Chi è?» Cercò di focalizzare bene il soggetto. «E cosa vuole?» «Non lo so» le rispose Bourne. «Ma hai visto la cicatrice che ha sul lato del collo? Gli arriva fino alla mascella.» Tracy azzardò un'altra occhiata nello specchietto, poi annuì. «Chiunque lo mandi, vuole farmi sapere che è qua.» «Tuoi concorrenti?» «Sì, sono dei criminali» improvvisò Bourne. «E una tipica tattica intimidatoria.» Uno sguardo spaventato comparve sul volto di Tracy, che si allontanò da lui: «In che razza di affari sporchi sei invischiato?». «Le cose stanno esattamente come ti ho detto» la rassicurò Bourne. «Ma nel mondo del capitalismo di ventura lo spionaggio industriale è all'ordine del giorno. Uscire per primi sul mercato con un nuovo prodotto può fare la differenza: puoi ritrovarti a vendere una quota a Google o Microsoft per mezzo miliardo di dollari, oppure finire in miseria.» La spiegazione sembrò calmarla, ma era chiaro che era ancora sotto pressione. «Che farai?» «Per il momento, niente.» Bourne andò dall'altra parte della stanza e si sedette. Tracy lo seguì. Non appena scrisse museo del prado sulla pagina di Google, lei si piegò sopra le sue spalle e gli sussurrò: «Non stare a perdere tempo. La persona che cerchi è il professor Alonzo Pecunia Zuniga». Era l'esperto del Museo del Prado che aveva autenticato il Goya di Herrera. Bourne si ricordò di aver letto quel nome sulla lettera contenuta nella cartellina di Tracy. Senza dire una parola, inserì il suo nome. Dovette scorrere diverse pagine di notizie prima di poter vedere la foto del professore, ritratto mentre riceveva un'onorificenza da parte di una delle tante fondazioni spagnole che si occupavano di promuovere la storia e le opere di Goya nel mondo. Capitolo 14 Alonzo Pecunia Zuniga era un uomo magro sulla cinquantina. Aveva la barba lunga e le sopracciglia folte. Bourne controllò la data della foto per essere sicuro che fosse recente. La ingrandì e poi la stampò per un paio di euro in più. Utilizzando Google Local cercò l'indirizzo di alcuni negozi. «La nostra prima meta» comunicò a Tracy, «è in una traversa del Paseo de Cristóbal Colon, poco distante dal Teatro de la Maestranza.» «E l'uomo con la cicatrice?» Bourne chiuse la pagina, poi andò sulle impostazioni del browser per cancellare i cookies e la cronologia dei siti che aveva appena visitato. «Spero che ci segua.» «Dio mio.» Tracy ebbe un brivido. «Io no.» Il grande paseo correva lungo il ramo orientale del fiume Guadalquivir, nel barrio E1 Arenai di Siviglia. Era un quartiere storico, molto conosciuto dalle confraternite della Semana Santa. Dalla bellissima arena Maestranza, adiacente all'omonimo teatro, riuscivano a vedere l'imponente Torre del Oro del Tredicesimo secolo. Faceva parte della fortificazione che aveva protetto la città dai suoi nemici di sempre: i musulmani dell'Africa del Nord, gli Almohadi, fondamentalisti berberi provenienti dal Marocco che furono scacciati da Siviglia e da tutta l'Andalusia nel 1230 dagli eserciti dei regni cristiani di Castiglia e d'Aragona. «Sei mai stata a una corrida?» le chiese Bourne. «No. Mi vengono i brividi solo all'idea.» «Be', ora hai la possibilità di vederne una.» Le prese la mano e si avviò verso la cassa dell'entrata principale dove comprò due sol barreras, gli unici posti in prima fila rimasti, nella zona dove batteva sempre il sole. Tracy esitò per un attimo. «Non sono sicura di volerlo fare.» «O vieni con me» disse Bourne, «o ti lascio affrontare da sola il nostro Scarface.» La ragazza si irrigidì: «Ci ha seguiti fin qui?». Bourne annuì. «Andiamo.» Mostrò i biglietti e passò attraverso i cancelli d'entrata. «Non ti preoccupare. Penserò a tutto io. Fidati di me.» Il fragore violento indicava che la corrida era già cominciata. C'erano molte file di posti a sedere sopra le quali si ergeva una linea continua di archi decorativi. Tracy e Bourne si fecero largo lungo il corridoio, mentre il primo toro subiva la suerte de picar. I picadores, che montavano cavalli bendati e dotati di protezioni, conficcavano le punte corte delle loro lance nel collo dell'animale, mentre questo sprecava energie cercando di disarcionarli. Negli orecchi dei cavalli erano stati inseriti dei tessuti imbevuti di olio, per evitare che gli animali si imbizzarrissero a causa del boato della folla. Le loro corde vocali erano state tagliate per renderli muti, in modo che non potessero distrarre il toro. «Okay» disse Bourne porgendole il biglietto. «Voglio che tu vada a prendere una birra a quel chiosco laggiù. Bevila in mezzo alla gente, poi avviati verso i nostri posti.» «E tu dove andrai?» «Fa' come ti ho detto e aspettami seduta.» Poi Bourne individuò l'uomo con la cicatrice, che era appena entrato nella parte superiore dell'arena per ottenere un vantaggio e accorciare la distanza che li separava, e seguì Tracy con lo sguardo mentre si recava al chiosco delle bibite, tirò fuori il telefono e fece Finta di parlare con uno dei suoi contatti che voleva far credere a Scarface di dover incontrare all'arena. Annuì con enfasi, poi mise via il cellulare e iniziò a fare il giro dell'arena. Doveva trovare un posto in ombra, dove avrebbe potuto fare i conti con quell'uomo senza alcuna interferenza. Con la coda dell'occhio vide che Scarface aveva gettato un'occhiata veloce a Tracy prima di muoversi lungo il corridoio che si intersecava con la fila di sedili disposta più in basso, dove si stava recando anche lui. Bourne era già stato in quell'arena e ne conosceva a grandi linee la pianta. Stava cercando il toril, il recinto dei tori, perché sapeva che lì vicino poteva trovare un passaggio che lo avrebbe portato ai bagni di quel lato della Maestranza. Un paio di giovani toreros erano appoggiati alla gabbia dei tori. Vicino a loro, il matador, avendo sostituito il drappo rosa e oro con quello rosso, stava fermo immobile in attesa del momento della suerte de matar, quando avrebbe fatto il suo ingresso nell'arena armato soltanto della spada, della muleta e delle sue capacità atletiche per finire la bestia ansante. O almeno, i fan della corrida la vedevano così. Altri, come l'Asociación para la defensa del animal, la vedevano diversamente. Mentre si avvicinava al toril, un colpo violento alla porta fece sobbalzare i giovani toreros. Il matador si voltò per un momento in direzione dell'animale nel recinto. «Bene, sei impaziente di uscire a sentire l'odore del sangue» disse in spagnolo, rivolgendosi al toro. Poi si concentrò di nuovo sulla corrida, perché, con il toro da finire, quello era il suo momento. «Fuera!» urlarono gli aficionados. «Fuera!» «Fuori!» gridarono ai picadores che per paura avevano indebolito troppo il toro, temendo di non godere di uno spettacolo cruento per il quale invece avevano pagato il biglietto. Mentre i picadores cavalcavano lontani dalla bestia, il matador iniziò a muoversi per entrare nella corrida. Il tumulto della folla fu assordante. Nessuno fece caso a Bourne che si era avvicinato alla zona vicino al toril, tranne Scarface che, come Bourne potè vedere in quell'istante, aveva tre teschi tatuati sull'altro lato del collo. Erano brutti e rudimentali, senza dubbio eseguiti in prigione, forse in un penitenziario russo. E il compito di quell'uomo non si fermava di certo alla semplice intimidazione. I teschi indicavano che era un killer professionista: tre scheletri, tre omicidi. Bourne era nell'ultima sezione degli spalti, oltre la quale si trovava l'arcata decorativa che conduceva nell'area sottostante. Proprio ai suoi piedi si trovava il muro che creava i divisori degli spazi in cui si riparavano i toreros per evitare le cariche dei tori. Alla fine del muro, alla destra di Bourne, c'era il toril. Scarface si avvicinava a grandi falcate, muovendosi come un fantasma lungo il corridoio e tra le file di sedili. Bourne si voltò e passò sotto l'arcata, prendendo la rampa che portava nell'area sotto, buia e piena di ombre. Fu subito investito da un miasma di urina umana e muschio animale. Alla sua sinistra scorse il corridoio in cemento che portava ai bagni. C'era una porta lungo la parete alla sua destra, davanti alla quale stava una guardia in uniforme. Mentre camminava verso quella figura alta e magra, un uomo oscurò la poca luce del sole che riusciva a penetrare: Scarface. Bourne si avviò verso l'agente che gli disse, in modo abbastanza brusco, che non poteva rimanere lì: era troppo vicino ai tori. Bourne gli sorrise e si posizionò tra l'uomo e Scarface, e mentre si avvicinava al primo iniziando un'amabile conversazione gli premette con forza l'arteria al lato del collo. La guardia cercò di tirare fuori la pistola, ma Bourne la bloccò con l'altra mano. L'uomo tentò di lottare, majason, con movimenti rapidi, gli paralizzò la spalla destra con il gomito. L'agente stava per perdere coscienza per il mancato apporto di sangue al cervello, e mentre cadeva in avanti Bourne lo aiutava a stare dritto continuando a parlare con lui per far credere a Scarface che fosse l'uomo con cui aveva parlato al telefono, un collega della persona che doveva incontrare. Era importantissimo continuare a recitare bene. Nel frattempo Scarface avanzava inesorabilmente. Prendendo le chiavi dal fianco della guardia, Jason aprì la porta e spinse l'uomo all'interno dello spazio buio. Entrò anche lui, poi chiuse la porta dietro di sé, ma non prima di aver dato un'occhiata veloce a Scarface che stava correndo giù per la rampa. Ora che aveva individuato il luogo in cui l'americano doveva incontrarsi con l'uomo con cui aveva parlato al telefono, era pronto a cogliere di sorpresa la sua preda. Bourne si ritrovò in una piccola anticamera piena di bidoni in legno che contenevano il cibo per i tori e un enorme lavabo in pietra saponaria con i rubinetti e i tubi di scarico in zinco, sotto al quale c'erano secchi, stracci, scopettoni, e bottiglie di plastica con sapone liquido. Il pavimento era ricoperto di paglia, che riusciva ad assorbire soltanto una piccola parte del tanfo. Il toro, nascosto dietro un muretto di cemento che arrivava fino al petto di Bourne, sbuffò e muggì percependo una presenza estranea. Le urla frenetiche della folla si riversavano come onde sopra il toril, sul quale la luce del sole, carica dei mille colori che si riflettevano dai costumi del matador e dai vestiti degli spettatori, chiazzava il muro più alto del recinto come fossero ampie e istintive pennellate di un artista. Bourne prese uno straccio da uno dei secchi, e aveva già attraversato l'anticamera per metà, quando la porta dietro di lui si aprì in maniera così lenta che Bourne dovette fissarla bene per accertarsi che si stesse davvero muovendo. Appoggiando la schiena contro il muretto, si spostò verso sinistra in modo che il battente, spalancandosi, avrebbe impedito a Scarface di individuarlo. Il toro, spaventato e irritato dagli odori umani che lo raggiungevano, colpì il muretto con le zampe talmente forte che un pezzo di stucco volò vicino a Bourne. Scarface sembrò esitare per un secondo: stava senz'altro cercando di capire cosa fosse quel rumore. Bourne era sicuro che non sapesse che ci fosse un toro lì, in attesa del suo turno di morire agonizzante nella prossima corrida. Era una creatura fatta solo di muscoli e istinto, facile da provocare, facile da disorientare, veloce e micidiale, a meno che non fosse sopraffatta dallo sfinimento e dalle centinaia di ferite dalle quali la sua vita sarebbe gocciolata via nella polvere della corrida. Bourne si mosse furtivo dietro la porta mentre Scarface varcava la soglia con un coltello dalla lama lunga e sottile, come la spada del matador. La punta era rivolta verso l'alto, in modo che il coltello potesse tagliare, conficcarsi o essere lanciato con estrema facilità. Jason si avvolse con lo straccio le nocche della mano sinistra, per proteggerle. Lasciò che Scarface facesse un primo passo nell'anticamera, poi lo attaccò di lato. L'istinto dell'uomo fu di far compiere alla lama movimenti semicircolari, mentre lui si spostava verso l'ombra sfocata che aveva intravisto con la coda dell'occhio. L'americano deviò la lama con la mano rivestita di stracci. L'assalitore scattò sulla difensiva, Bourne gli si parò davanti e, piantando bene il piede a terra, gli assestò un pugno micidiale al plesso solare. Scarface rantolò spalancando gli occhi per lo stupore. Un momento dopo, però, afferrò il braccio destro di Jason, esercitando una forte pressione con l'intenzione di rompergli l'osso dell'avambraccio. Bourne vacillò per il dolore fortissimo e Scarface approfittò di quell'attimo di smarrimento per accoltellarlo al petto. L'americano però scartò in avanti, cogliendolo di sorpresa; gli intrappolò il braccio sinistro mentre continuava a spingerlo in un angolo della stanza, contro il muretto di cemento. Scarface, irritato, raddoppiò gli sforzi per rompere il braccio di Bourne. Ancora un secondo e l'osso si sarebbe spezzato. Dall'altro lato del muretto, il toro percepì l'odore del sangue nell'aria e gli zoccoli si scagliarono di nuovo con violenza contro il cemento. Le vibrazioni si trasmisero anche alla schiena di Scarface, facendogli sobbalzare il braccio con cui teneva bloccato Bourne. Per un momento Jason si liberò, ma l'altro aveva mosso il coltello nella mano intrappolata in modo che la lama gli squarciasse la schiena in verticale, facendo fuoriuscire il sangue. Bourne ruotò su se stesso, ma la lama gli si conficcò ancora di più nella pelle, finché non saltò dall'altra parte del muretto. Scarface lo seguì senza esitare. Adesso si trovavano entrambi su un territorio sconosciuto, dovendo affrontare non solo il proprio nemico, ma anche il toro infuriato. Nonostante Bourne sapesse, a differenza del suo avversario, cos'avrebbe trovato al di là del muro, fu sorpreso dalle dimensioni dell'animale. Come la corrida, anche il recinto aveva una zona di luce e una d'ombra. Si vedeva la polvere sospesa nel chiarore della parte superiore, ma nella zona sottostante regnava un buio da caverna del Minotauro. Vide il toro, gli occhi rossi che luccicavano nel buio, le labbra nere macchiate di schiuma. Lo fissava, scavando la terra con gli zoccoli enormi. La coda si muoveva avanti e indietro, le spalle immense erano un fascio di muscoli e tendini. Abbassò la testa con fare minaccioso. In quell'istante Scarface gli fu sopra. Non si era ancora accorto della creatura con cui condividevano il recinto. I tre teschi, ognuno rivolto in una direzione diversa, oscurarono la vista di Bourne. Alzò il gomito mirando alla gola, ma colpì il petto dell'avversario, che era riuscito a deviare il colpo. Quasi nello stesso istante, Scarface piantò un pugno in una tempia ajason, facendolo cadere sul pavimento di terra compressa; lo seguì nella caduta e lo afferrò per l'orecchio per sollevargli la testa e poi sbattergliela di nuovo contro il terreno. Bourne stava per svenire. Scarface si mise a cavalcioni sulla sua cassa toracica con tutto il peso. Sogghignò per un momento poi gli sbatté la testa a terra ripetutamente, ogni volta provando maggior piacere. Dov'è il suo coltello?, riuscì a domandarsi Jason in quel momento. Tastò il pavimento con entrambe le mani, ma i suoi occhi erano abbagliati, l'ombra e la luce della stanza gli roteavano intorno fondendosi in una girandola di scintille d'argento. Sentì il respiro farsi pesante, il cuore martellargli in petto, ma quando il nemico gli sbatté la testa un'altra volta sul terreno, anche queste flebili sensazioni iniziarono a scomparire lasciando il posto a un tepore che dalle estremità si propagava verso l'interno, intontendolo. Quel calore era lenitivo, si portava via tutto il dolore, lo sforzo e la volontà. Si ritrovò a galleggiare su un fiume di luce bianca che lo portava lontano dal suo mondo di tenebre. Di colpo sentì qualcosa di freddo e per un attimo credette che fosse il respiro di Shiva, il distruttore, poiché sentiva il suo volto incombere sopra di lui. Poi capì che la sensazione di freddo veniva dalla lama del coltello. Ne afferrò il manico e con l'ultimo barlume di istinto di sopravvivenza conficcò la lama nel fianco di Scarface, trapassando la pelle che ricopriva le costole e arrivando al cuore. L'uomo con la cicatrice si alzò, le spalle gli tremavano, ma forse, pensò Bourne, era solo l'effetto della sua testa che continuava a girargli per i colpi che aveva preso. Faticò a mettere a fuoco. Come diavolo era possibile che la testa di Scarface si fosse trasformata in quella di un toro? Non si trovava a Creta, e quella non era la caverna del Minotauro. Stava a Siviglia, alla corrida Maestranza. A quel punto tornò in sé e comprese in quale parte della corrida si trovasse. Il recinto del toro! Guardò verso l'alto, ancora disteso a terra, e vide l'animale imponente e minaccioso incombere su di lui a testa bassa, lo zoccolo alzato pronto a sventrarlo. Il sottosegretario Stevenson non sembrava messo bene quando Moira e Veronica lo trovarono, così come gli altri corpi distesi sui lastroni di pietra all'obitorio del Distretto di Columbia. Le due donne avevano cercato intorno alla zona della Fontana della Corte di Nettuno nei pressi dell'entrata della Biblioteca del Congresso. Come prevedeva il protocollo, avevano iniziato le ricerche dal punto di origine, in questo caso la fontana, per poi muoversi a spirale verso l'esterno, sperando di trovare qualche traccia che Stevenson poteva aver lasciato per capire cosa gli fosse successo. Moira aveva già chiamato la moglie del sottosegretario e sua figlia, che era sposata, ma nessuna delle due lo aveva visto o sentito. Stava cercando il numero di Humphry Bamber, un vecchio amico di Stevenson e suo compagno di stanza ai tempi del college, quando la Hart ricevette una telefonata in cui le comunicavano che era stato trovato un cadavere corrispondente alla descrizione del sottosegretario. La polizia aspettava qualcuno per il riconoscimento. Se si fosse trattato di Stevenson, i poliziotti avrebbero poi potuto contattare la moglie per il riconoscimento formale. «È ridotto malissimo» osservò la Hart in piedi davanti al corpo del povero Stevenson. «Cosa gli è successo?» chiese al medico legale. «Lo hanno investito e lasciato in mezzo alla strada. Le vertebre cervicali dalla C1 alla C4 sono rotte, così come gran parte del bacino. Si deduce, quindi, che il veicolo che lo ha tirato sotto doveva essere molto grande: un SUV o un camion.» Il medico legale era una donna piccola ma ben fatta, con un'aureola di ricci ribelli. «E morto sul colpo, non ha sentito niente, se può consolare.» «Dubito che possa essere di consolazione per la famiglia» disse Moira. Il coroner andò avanti con estrema serenità, abituata com'era a vedere e sentire cose del genere. Non era insensibilità, né cinismo, era solo il suo lavoro che le imponeva di rimanere distaccata. «La polizia sta indagando, ma dubito che troveranno qualcosa.» Alzò le spalle sfiduciata. «In casi del genere non trovano mai niente.» Moira si innervosì. «Ha notato qualcosa di anomalo?» «No, non nei primi esami, almeno. Il tasso alcolico rilevato era quasi pari a due, il doppio del limite consentito dalla legge, quindi è molto probabile che fosse disorientato quando si è avvicinato alla strada, e che abbia attraversato in un momento in cui invece avrebbe dovuto rimanere sul marciapiede» ipotizzò il medico legale. «Aspetteremo il riconoscimento formale, comunque, per iniziare l'autopsia completa.» Le due donne si allontanarono e la Hart disse a Moira: «Quello che mi sembra strano è che non gli abbiano trovato addosso un portafoglio, le chiavi, niente che indicasse chi fosse». «Se lo hanno investito con premeditazione» ragionò Moira, «è probabile che gli assassini non volessero che il cadavere fosse subito identificato.» «Di nuovo la tua teoria del complotto.» La Hart scosse la testa. «Okay, ammettiamo per un attimo che tu abbia ragione. Se fosse stato assassinato, perché avrebbero lasciato che lo ritrovassimo? Gli assassini avrebbero potuto rapirlo, ucciderlo, e seppellirlo in un luogo in cui non si sarebbe mai andato a scavare per secoli.» «Per due motivi» rispose Moira. «Innanzitutto, è uno dei sottosegretari del Dipartimento della Difesa. Ti immagini che genere di caccia all'uomo si sarebbe scatenata nel momento in cui sarebbe stato dichiarato scomparso o per quanto tempo il suo nome sarebbe stato sulle prime pagine di tutti i giornali? No, queste persone lo volevano morto una volta per tutte, ecco il perché della messa in scena dell'incidente.» La Hart alzò la testa. «E il secondo motivo?» «Vogliono mettermi paura per farmi stare alla larga da quello che spaventava Weston a morte.» «Pinprickbardem. » «Proprio così.» «Sei diventata peggio di Bourne, con queste teorie sui complotti.» «Tutte le teorie di Jason si sono rivelate esatte» ribatté Moira con impeto. La direttrice della CIA non sembrava ancora convinta. «Non esageriamo, okay?» Quando raggiunsero la porta, Moira si voltò indietro per dare un ultimo sguardo a Stevenson. Poi uscirono dalla stanza. In corridoio, Moira chiese a Veronica: «Penseresti ancora che sto esagerando se ti dicessi che Stevenson era un ex alcolista?». «Magari è stata proprio la paura a spingerlo a rimettersi a bere.» «Tu non lo conoscevi» le disse Moira. «Per lui rimanere sobrio era diventato una religione, la ragione per cui continuare a vivere. Non aveva bevuto nemmeno un bicchiere, negli ultimi vent'anni. Non avrebbe ricominciato per niente al mondo.» Il toro si stava avvicinando e niente avrebbe potuto fermarlo. Bourne afferrò il coltello, lo estrasse dal fianco di Scarface, e rotolò su se stesso spostandosi da una parte. L'animale sentì l'odore di sangue fresco, agitò le corna e le conficcò nell'inguine dell'uomo con la cicatrice. Il toro scosse la testa enorme, sollevando Scarface, che sembrava fatto di cartapesta, e lo sbatté contro il muretto. Sbuffando e agitando gli zoccoli anteriori, la bestia caricò il cadavere, impalandolo con tutte e due le corna e sbattendolo di qua e di là. Lo avrebbe ridotto a brandelli in pochissimi secondi. Bourne si alzò in fretta, muovendosi verso l'animale con passi sicuri. Quando fu abbastanza vicino, lo colpì con la parte piatta della lama sul muso nero e luccicante. Il toro si arrestò di colpo, confuso, e indietreggiò, lasciando andare il corpo ricoperto di sangue, che cadde a terra. L'animale tenne la posizione, le zampe anteriori ben divaricate, scosse la testa da una parte all'altra, come se non riuscisse a capire da dove fosse arrivato il colpo o cosa significasse. Il sangue gli colava sulle corna, gocciolando sul pavimento. Fissò Bourne, incerto su come affrontare questo secondo intruso nel suo territorio, poi emise un verso gutturale. Nell'attimo in cui fece il primo passo verso di lui, Bourne lo colpì di nuovo con la lama, e l'animale si arrestò, sorpreso, sbuffando e muovendo la testa come volesse liberarsi del dolore pungente. Bourne si voltò e si accovacciò vicino al cadavere. Cercò in fretta nelle tasche di Scarface. Doveva scoprire chi lo aveva mandato. Secondo la descrizione che Wayan aveva fatto di un uomo con gli occhi grigi, Scarface non doveva essere lo stesso che aveva cercato di ucciderlo a Bali. E se lo avesse mandato lo stesso uomo che si celava dietro l'abile tiratore? Doveva trovare le risposte, Scarface gli era del tutto estraneo. E se lo avesse conosciuto in passato, ma non riuscisse a ricordarlo? Come ogni altra volta in cui erano saltati fuori degli interrogativi che potevano far affiorare dettagli della sua vita precedente, si sentiva come se non sarebbe riuscito a darsi pace finché non avesse trovato le risposte. Tranne un rotolino di euro insanguinati, le tasche di Scarface erano praticamente vuote. Doveva aver lasciato il passaporto falso e altri documenti, sempre contraffatti, in un posto protetto, oppure in una cassetta di sicurezza all'aeroporto. Ma dov'era la chiave? Bourne spostò il corpo per cercarla, quando il toro si riprese dalla confusione temporanea e gli venne incontro caricando. Il suo braccio era nella traiettoria delle corna. Jason riuscì a tirarlo via all'ultimo secondo, ma il toro scosse la testa con violenza e il corno gli tagliò il braccio per tutta la lunghezza, portandosi via la pelle che rimase appesa come un piccolo nastro sottile. Afferrando tutte e due le corna, Bourne le usò come perno per saltare a cavallo della bestia. Per un momento il toro rimase disorientato. Poi, sentendo il peso del corpo modificarsi, si lanciò in avanti, andando a sbattere di nuovo contro il muretto. Ma questa volta lo fece di lato, e se Bourne non avesse sollevato la gamba in tempo sarebbe rimasta schiacciata tra il muretto e i muscoli della bestia. Per l'urto, sobbalzò oltre la metà del dorso dell'animale. Se fosse caduto, sarebbe stata la fine. Nel giro di pochi secondi sarebbe stato calpestato. Dovette reggersi forte di nuovo, poiché il toro si stava preparando per una nuova carica nel tentativo di scrollarselo di dosso. Bourne aveva ancora il coltello di Scarface. Forse la lama era abbastanza lunga per dare il colpo di grazia al toro e farlo cadere in ginocchio, ma doveva scegliere il punto preciso e l'inclinazione perfetta. Dentro di sé, però, sapeva che non lo avrebbe mai fatto. Uccidere una bestia del genere da dietro, considerando anche che era spaventata a morte, gli sembrava un atto da codardi. Pensò al maialino di legno della piscina di Bali, al sorriso eterno da saggio mistico intarsiato sul muso dipinto. Quel toro doveva vivere la sua vita, Bourne non aveva nessun diritto di sottrargliela. In quel momento venne quasi sbalzato via. Il toro aveva di nuovo colpito il muretto in un angolo, muovendo la testa verso il basso e verso sinistra, nel disperato tentativo di liberarsi del peso che aveva addosso. Bourne si lanciò con dolore verso le corna a cui si aggrappò con forza. Il braccio gli faceva male nel punto in cui Scarface aveva cercato di romperlo, la ferita sulla schiena sanguinava ancora, ma la cosa peggiore era che si sentiva come se gli avessero spaccato la testa in mille pezzi. Sapeva di non poter resistere a lungo, ma finire sul pavimento significava morire. Nel momento in cui le urla della corrida si fecero più forti, il toro piegò le zampe anteriori, inclinando il dorso verso il basso. Bourne dovette allentare la presa, andando a sbattere contro il muretto, che era ormai pieno dei segni delle cariche. Cadde a terra stordito. Sentiva il respiro del toro sopra di sé, le corna erano a un soffio dal suo viso. Cercò di muoversi, ma non ci riuscì. L'aria entrava e usciva con affanno dai suoi polmoni, e venne colto da una terribile sensazione di vertigine. Gli occhi rossi lo fissavano con uno sguardo truce, i muscoli sotto la pelle lucida erano pronti per l'attacco finale e Bourne sapeva che di lì a un secondo le corna insanguinate lo avrebbero trafitto come una bambola di pezza, così com'era successo a Scarface. *** Capitolo 15 Il toro barcollò, bagnando il viso di Bourne con uno spruzzo di vapore caldo. La bestia gettò gli occhi all'indietro e la testa enorme si schiantò a terra vicino ai piedi di Jason con un tonfo pesante. Bourne, faticando per schiarirsi la mente confusa, si strofinò gli occhi con l'avambraccio, appoggiò la testa al muretto e vide la guardia che aveva atterrato e condotto nell'anticamera. Stava in piedi nella classica posa di chi sa sparare bene: gambe divaricate, piedi ben piantati al suolo; la mano salda sul calcio della pistola con la quale aveva appena sparato due colpi al toro, ormai morto, puntava adesso dritta verso Bourne. «jLevàntate!» gli ordinò. «Alzati e metti le mani bene in vista.» «Va bene» disse Bourne. «Un momento.» Con una mano fece leva sulla parte superiore del muretto per aiutarsi e, tra molti sforzi, riuscì a tirarsi su. Appoggiò con attenzione il coltello di Scarface sempre sulla parte superiore del muretto e mostrò alla guardia i palmi delle mani. «Che stai facendo?» Il viso dell'uomo era livido di rabbia. «Figlio di puttana, guarda cosa mi hai costretto a fare. Hai una vaga idea di quanto costi un toro così?» Bourne indicò il cadavere ridotto a brandelli di Scarface. «Io non ho fatto niente. E stato lui. E un killer professionista. Io ho solo cercato di difendermi.» L'agente in uniforme aggrottò le sopracciglia. «Chi? A chi ti riferisci?» Fece alcuni passi verso Bourne, poi vide quel che rimaneva di Scarface. «Madre de Dios!» urlò. Bourne saltò oltre il muretto e si ritrovò nel recinto del toro, mentre la guardia barcollava all'indietro. Per un secondo i due lottarono per la pistola, poi Bourne vibrò un colpo al lato del collo dell'uomo, che si accasciò a terra privo di sensi. Prima di andarsene, gli controllò il polso, accertandosi che fosse regolare, poi scavalcò di nuovo il muretto e mise la testa sotto il getto d'acqua fredda del lavabo in pietra saponaria, sia per mandare via le macchie del sangue del toro sia per riprendersi un po'. Utilizzò lo straccio più pulito tra quelli riposti sotto il lavandino, si asciugò - ancora un po' stordito - e salendo i gradini della rampa si ritrovò nel bagliore colorato della corrida, dove il matador stava compiendo trionfante il giro dell'arena mostrando alla folla in visibilio l'orecchio del toro. La bestia giaceva quasi al centro della corrida, mutilata, abbandonata, con le mosche che ronzavano intorno alla testa immobile. Soraya percepì la presenza di Amun al suo fianco. Quante bugie le aveva raccontato?, si chiese. Aveva dei nemici nelle alte sfere del governo egiziano, o erano state proprio queste persone a dargli l'ordine di barattare un Kowsar 3 e colpire l'aereo americano? «Quello che mi preoccupa di più» disse Amun rompendo il breve silenzio che si era creato tra loro due, «è che qualcuno deve per forza aver aiutato gli iraniani ad arrivare fin qui. E facile passare inosservati nel caos dell'Iran, ma poi che scelte avevano? Non avrebbero mai preso la strada verso nord, avrebbero dovuto attraversare la Giordania e il Sinai. E troppo rischioso. I giordani li avrebbero fatti fuori, e il Sinai è troppo scoperto e pieno di pattuglie.» Scosse la testa. «No, devono per forza aver attraversato l'Arabia Saudita e il Mar Rosso. E questo significa che, con tutta probabilità, sono arrivati a Hurghada.» Soraya conosceva quella località turistica sul Mar Rosso, una mecca di relax baciata dal sole adatta a chi è troppo stressato, proprio come Miami Beach. Amun aveva ragione: la sua atmosfera tranquilla e festaiola la rendeva un ottimo punto d'approdo per il gruppo terroristico, che poteva essersi mischiato alla folla di turisti, o meglio ai pescatori egiziani, passando così inosservato. Amun premette sull'acceleratore, sfrecciando tra macchine e camion. «Ho fatto preparare un piccolo aereo che ci porterà a Hurghada. Faremo colazione a bordo. Nel frattempo possiamo buttare giù un piano strategico.» Soraya chiamò Veronica, che rispose subito. Una volta informata sugli ultimi avvenimenti, la Hart disse: «Il presidente parlerà al Consiglio di Sicurezza dell'ONU domani mattina. Chiederà una condanna formale dell'Iran». «Senza prove definitive?» «Halliday e il suo entourage della NSA hanno convinto il presidente che la relazione scritta da loro fornita è l'unica prova di cui abbiamo bisogno.» «Mi sembra di capire che non sei d'accordo» disse Soraya con freddezza. «No, non del tutto. Se ci mettiamo ancora una volta in una posizione difficile, come abbiamo già fatto con le armi di distruzione di massa in Iraq, e veniamo smentiti, si scatenerà un disastro completo sia politico sia militare. Avremo imprigionato il mondo in una guerra: impossibile da condurre per ogni paese, compreso il nostro, checché ne dica Halliday. Devi trovare le prove definitive del coinvolgimento iraniano.» «Io e Chalthoum stiamo lavorando proprio a questo, ma la situazione si è fatta un po' più complicata.» «Che vuoi dire?» «Secondo Chalthoum gli iraniani devono essere stati aiutati da qualcuno per far entrare il missile in Egitto, e anch'io sono d'accordo con questa teoria.» Ripetè alla direttrice della CIA le statistiche che Amun le aveva fornito poco prima. «La maggior parte di quelli che hanno preso parte all'attacco dell'11 settembre erano sauditi. Se lo stesso gruppo risulta essere coinvolto con una rete terroristica iraniana o, cosa ancora peggiore, con il governo iraniano stesso, le implicazioni sarebbero persino più gravi. Gli iraniani infatti sono sciiti, mentre la stragrande maggioranza dei sauditi è wahabita, diramazione della setta sunnita. Come saprai, sunniti e sciiti sono acerrimi nemici. Questo apre la possibilità che abbiano concordato una tregua temporanea, oppure che abbiano stretto un'alleanza per raggiungere uno scopo comune.» A Veronica mancò il respiro. «Santo cielo, stiamo parlando dello scenario apocalittico che ha terrorizzato per anni noi e l'intelligence europea.» «E non senza un motivo» concluse Soraya, «perché significa che l'Islam ormai unito si sta preparando a muovere una guerra totale all'Occidente.» Bourne sentì fitte di dolore alla ferita vicino al cuore e temette che si fosse riaperta. Uscendo dal recinto si era diretto verso i bagni, dove avrebbe potuto ripulirsi un po' del sangue che aveva imbrattato i suoi vestiti, ma scorse due poliziotti che stavano venendo verso il recinto. Qualcuno nell'arena si era accorto di ciò che stava succedendo e aveva dato l'allarme? O forse la guardia aveva ripreso conoscenza? Non c'era tempo per le congetture. Fece dietrofront incamminandosi nella direzione opposta e salì la rampa che lo portò alla luce del crepuscolo di Siviglia. Udì alcune voci chiamare dietro di sé. Stavano cercando lui? Senza voltarsi, iniziò a cercare Tracy, che, forse intuendo la pericolosità della situazione, aveva già abbandonato il suo posto per andarlo a cercare. Quando i loro sguardi si incrociarono, lei non gli andò incontro, ma prese a camminare verso l'uscita più vicina, in modo da fargli strada. La folla che riempiva l'arena era inquieta; c'era chi parlava con il suo vicino di posto, chi faceva la fila ai chioschi delle bibite, o ai bagni. Alcuni uomini portarono via la carcassa del toro dal centro dell'arena, rastrellando la sabbia per coprire il sangue fresco e per preparare il terreno per lo spettacolo successivo. Bourne sentì il dolore al petto detonare come una bomba. Vacillò e cadde contro due donne, che si voltarono a guardarlo mentre si rialzava. Persino in quello stato riuscì a rendersi conto della quantità di poliziotti che stavano entrando nello stadio. Non c'era più alcun dubbio: era stato dato l'allarme. Uno degli agenti che l'aveva seguito nelle profondità dell'arena era emerso e gli stava dando la caccia. Si diresse verso il pubblico sugli spalti approfittando del fatto che tutti si stavano muovendo, rendendogli più facile perdersi tra la moltitudine. Si avviò verso l'uscita dove Tracy lo stava aspettando. Ma l'agente lo doveva aver scorto tra la calca, perché stava correndo verso di lui facendosi spazio. Bourne cercò di capire quanto fosse distante dall'uscita e si chiese se ce l'avrebbe fatta, data la velocità con cui il poliziotto stava sopraggiungendo. Un secondo dopo vide Tracy emergere fra la gente. Senza nemmeno guardarlo, gli passò vicino nel verso contrario. Che stava facendo? Mantenendo l'andatura, Jason si arrischiò per un secondo a lanciarsi un'occhiata alle spalle e vide la ragazza parlare con l'agente. Riuscì a sentire la sua voce a tratti, lamentosa e accusatoria, che reclamava per il furto del cellulare che le avevano scippato dalla borsa. Il poliziotto era ovviamente impaziente di liberarsi di lei, ma quando cercò di andarsene e ignorarla Tracy alzò la voce talmente tanto che tutti si girarono a curiosare e l'agente fu costretto ad ascoltarla. Malgrado il dolore lancinante, sul viso di Bourne comparve un sorriso. Ancora tre passi e raggiunse l'uscita, ma no'n appena la oltrepassò sentì una fitta di dolore persino più forte e cadde contro il muro di cemento, sforzandosi di riuscire a respirare tra la gente che andava e veniva spingendolo da ogni parte. Accampando qualche scusa, Tracy si allontanò dall'agente per recuperare Bourne, che dovette concentrarsi parecchio sulla respirazione per non svenire. «Forza» lo incitò lei, mettendogli un braccio sotto il suo e aiutandolo a confondersi tra la folla per scendere nell'enorme vestibolo, dove la gente fumava commentando le prodezze del matador. Intravidero le porte a vetro che portavano in strada e cercarono di guadagnare l'uscita. «Cristo santo, ma che ti è successo là dentro?» gli domandò Tracy. «Hai ferite gravi?» «No, non sono gravi.» «Sei sicuro? Sembri un cadavere.» In quel momento tre agenti di polizia si avvicinarono alle porte a vetro dell'arena. Moira e Veronica Hart decisero di prendere la berlina che la Trevor aveva noleggiato, dato che la Buick bianca era una macchina del tutto anonima. Trovarono Humphry Bamber, l'amico più caro del sottosegretario Stevenson, nel suo centro benessere. Aveva appena finito di allenarsi, e uno dei dipendenti era andato a chiamarlo nella sauna. Uscì con indosso delle infradito blu, un asciugamano avvolto intorno alla vita e un altro, più piccolo, intorno al collo che usava per tamponarsi il sudore sul viso. Non aveva proprio bisogno di indossare nient'altro, pensò Moira. Aveva un corpo scolpito e modellato come quello di un atleta professionista. Doveva passare un mucchio di tempo in palestra a curare addominali e bicipiti. Salutò le due ragazze con un sorriso enigmatico. I capelli biondi gli scendevano sulla fronte facendolo apparire ancora più giovane. I grandi occhi chiari le osservarono con fredda precisione, che a Moira parve stranamente neutrale. «Ragazze» disse, «cosa posso fare per voi? Marty mi ha detto che era urgente.» Si riferiva al ragazzo che era andato a interrompere la sua sauna. «Sì, lo è, infatti» rispose la Hart. «C'è un posto dove possiamo parlare in privato?» L'espressione di Bamber si fece più seria. «Siete della polizia?» «E se rispondessimo di sì?» Humphry si strinse nelle spalle. «Sarei ancora più curioso...» La Hart gli fornì alla svelta le sue credenziali, che lo lasciarono a bocca aperta. «Sono sospettato di passare informazioni segrete al nemico?» «Quale nemico?» chiese Moira. Bamber si mise a ridere. «Lei mi piace» le disse. «Come si chiama?» «Moira Trevor.» «Uh-oh.» L'espressione dell'uomo si fece cupa. «Mi hanno avvertito di stare attento a lei.» «Avvertito!?» esclamò Moira. «Chi?» Ma conosceva già la risposta. «Un tizio chiamato Noah Petersen.» Moira ripensò a quando Noah le aveva preso il cellulare di Weston dalle mani. Era probabile che fosse riuscito a rintracciare Bamber proprio attraverso quel telefono. «Mi ha detto...» «Il suo vero nome è Perlis» lo interruppe Moira. «Noah Perlis. Non dovrebbe credere a niente di quello che afferma.» «Mi ha avvertito che l'avrebbe detto.» Moira fece una risata sarcastica. La Hart intervenne: «Troviamo un luogo appartato, per cortesia, signor Bamber». Humphry annuì e si incamminarono verso un ufficio inutilizzato. Entrarono e si chiusero la porta alle spalle. Quando furono tutti seduti, la Hart esordì: «Temo che dovremo darle delle brutte notizie. Steve Stevenson è morto». Bamber sembrò affranto. «Che cosa!?» La Hart continuò: «Il signor Peter... Perlis non l'ha avvertita?». L'uomo scosse la testa. Si avvolse l'asciugamano più piccolo intorno alle spalle, come se all'improvviso sentisse un gran freddo. Moira non poteva biasimarlo. «Oh, mio Dio.» Guardò le due donne in modo quasi supplichevole. «Dev'esserci un errore, uno di quegli stupidi casini burocratici di cui Steve si lamentava sempre.» «Temo di no» disse la Hart. «Noah... uno degli uomini del signor Perlis... ha ucciso il suo amico mettendo in scena un incidente» disse Moira, in preda all'emozione. Continuò, ignorando lo sguardo di ammonimento che la Hart le aveva rivolto: «Il signor Perlis è una persona pericolosa che lavora per un'organizzazione altrettanto pericolosa». «Io...» Bamber si passò una mano tra i capelli. «Cazzo, io non so a chi credere.» Il suo sguardo passò dall'una all'altra. «Posso vedere il corpo di Steve?» La Hart annuì. «Provvederemo non appena avremo terminato con lei.» «Ah.» Bamber le fece un sorriso triste. «Cos'è, una specie di ricompensa?» La direttrice della CIA decise di non rispondere. Bamber annuì in segno di capitolazione. «Okay, come posso aiutarvi?» «Non so se è in grado» replicò la Hart rivolgendo a Moira un'occhiata eloquente. «Perché se potesse Noah non l'avrebbe di certo lasciata in vita.» Per la prima volta Bamber sembrò spaventato sul serio. «Che diavolo vuol dire?» domandò indignato. «Steve e io eravamo amici dai tempi del college, tutto qui.» Dalla prima volta in cui aveva visto Bamber, Moira aveva iniziato a porsi qualche domanda sulla lunghissima amicizia tra quel fanatico dello sport e Stevenson, un uomo che non sapeva quale differenza ci fosse tra il softball e il football, e a cui soprattutto non importava niente dell'attività fisica. Ogni cosa che Bamber diceva le metteva una pulce nell'orecchio. «Credo ci sia un'altra ragione per cui Noah si è sentito tranquillo a lasciarla in vita, signor Bamber» disse. «Non è così?» Bamber corrugò la fronte. «Non so di cosa parla.» «Cosa potrebbe spaventarla così tanto da assicurare a Noah che non avrebbe parlato?» Bamber si alzò di scatto. «Ora basta, mi avete infastidito abbastanza.» «Si sieda, signor Bamber» gli ordinò la Hart. «Lei e il sottosegretario Stevenson eravate molto di più che semplici compagni di stanza, ai tempi del college» continuò Moira. «Ed eravate qualcosa di più di due buoni amici. O mi sbaglio?» Bamber si sedette come se tutta la forza avesse abbandonato le sue gambe. «Voglio essere protetto da Noah e i suoi uomini.» «Va bene» disse la Hart. Humphry le lanciò uno sguardo intenso. «Non sto scherzando.» Veronica tirò fuori il cellulare e compose un numero. «Tommy» disse al telefono, «ho bisogno di una scorta in tempi brevissimi.» Fornì al suo interlocutore l'indirizzo del centro benessere. «Tommy, non devi farne parola con chiunque sia al di fuori della squadra, è chiaro? Perfetto.» Mise via il telefono e disse a Bamber: «Neanch'io». «Bene.» Humphry fece un sospiro di sollievo. Poi si girò verso Moira e le sorrise desolato. «Non si sbaglia sul mio rapporto con Steve, e Noah sapeva che nessuno dei due poteva sopravvivere se la vera natura della nostra relazione fosse stata scoperta.» A Moira si mozzò il respiro. «Lo ha chiamato Noah. Vuol dire che lo conosce?» «In un certo senso ho lavorato per lui. Questo è l'altro, più importante motivo per cui non può toccarmi. Vedete, io ho creato un software apposta per lui. Ha ancora dei piccoli problemi e io sono l'unico che può risolverli.» «Strano» obiettò la Hart. «Non sembra proprio un fanatico della tecnologia.» «Sì, lo so, Steve diceva sempre che faceva parte del mio fascino. La mia apparenza non ha mai coinciso con ciò che sono in realtà.» «Che cosa fa questo software?» chiese Moira. «E un programma di analisi statistica molto sofisticato che riesce a considerare milioni di fattori. Non so per cosa gli serva. Secondo il nostro accordo, io devo restare fuori da questa parte del progetto. Pertanto ho chiesto e ottenuto un compenso più alto.» «Ma ha detto che lavora al miglioramento del programma.» «Sì, è così» rispose Bamber. «Ma è necessario che io lavori su una copia pulita del programma. Una volta terminato, trasferisco il tutto nel computer di Noah e solo Dio sa cosa succede dopo.» «Ma si sarà pur fatto un'idea.» Bamber sospirò di nuovo. «Okay, ecco l'ipotesi più verosimile. Il livello di complessità del programma mi fa supporre che venga usato su base reale.» «Che tradotto significa...» «Ci sono scenari di laboratorio e scenari reali» spiegò Bamber. «Come potrete immaginare, un programma che cerchi di raffigurare cosa succederebbe in una certa situazione reale deve essere incredibilmente complesso, perché vengono coinvolti tutti i fattori.» «Milioni di fattori.» Bamber annuì. «Che vengono forniti dal mio programma.» Un'idea balenò nella mente di Moira, che si appoggiò allo schienale, confusa. «Ha dato un nome a questo programma?» «Sì.» Bamber sembrava imbarazzato. «E un vecchio scherzo tra me e Steve.» L'uso del presente rinnovò il dolore per la notizia della morte del suo caro amico e amante. Si fermò e abbassò la testa, gemendo a bassa voce: «Gesù, Gesù, Steve...». Moira aspettò un momento, poi si schiarì la voce. «Signor Bamber, siamo davvero dispiaciute per la perdita che ha subito. Conoscevo il sottosegretario Stevenson, ero in buoni rapporti con lui. Mi ha sempre aiutata, anche quando significava esporsi in prima persona.» Bamber sollevò la testa, gli occhi rossi di pianto. «Sì, Steve era fatto così.» «Che nome ha dato al programma che ha creato per Noah Perlis?» «Oh, il nome. Non significa niente, è un vecchio scherzo, perché sia a me sia a Steve piace... piaceva... Javier...» «Bardem» disse Moira. Bamber sembrò sorpreso. «Sì, come lo sa?» E Moira pensò: Pinprickbardem. *** Capitolo 16 Il Museo Taurino si trovava all'interno della Maestranza, ed era lì che Tracy aveva portato Jason. Avevano avuto giusto il tempo per cambiare direzione e procedere controcorrente rispetto alla folla. Due agenti infatti si erano già precipitati all'interno dell'arena e altri due scrutavano tra la gente in cerca del sospettato. Il museo non era aperto al pubblico, quel giorno, le porte interne erano chiuse. Bourne fece scattare la serratura con una graffetta che Tracy aveva trovato in fondo alla borsa. Quindi entrarono e si chiusero la porta alle spalle. Le teste impagliate di tutti i grandi tori uccisi in quell'arena li fissavano con gli occhi di vetro. Passarono vicino a una teca contenente gli splendidi costumi indossati dai più famosi matadores dal Diciassettesimo secolo - quando fu costruita la Maestranza - fino ai giorni nostri. Tutta la storia della corrida era esposta in quelle sale che odoravano di muffa. Bourne non prestò attenzione a nessuno degli espositori dai mille colori. Cercava soltanto il ripostiglio. Era nel retro del museo, vicino a una stanza che non veniva quasi mai usata. Tracy prese del disinfettante e lo applicò sulla ferita che Bourne aveva sulla schiena. La sensazione di bruciore gli tolse il respiro, e perse i sensi. Si svegliò grazie alla presa di Tracy sulle sue spalle. Lo stava scuotendo, il che gli procurava ancora più dolore. «Svegliati!» lo chiamava insistente. «Sei messo proprio male. Devo portarti via di qua.» Bourne annuì; diceva parole confuse, ma Tracy capì «casa». Lei lo sostenne barcollando fino alla porta d'ingresso che si apriva sulla strada dalla parte opposta all'entrata principale dell'arena. Tracy fece scattare la serratura e mise fuori la testa. Al suo segnale, Jason uscì nella semioscurità. Tracy doveva aver usato il suo telefono per chiamare un taxi, perché l'unica cosa di cui Bourne si rese conto era che lo stava aiutando a sistemarsi su un sedile posteriore, prima di salire anche lei sulla vettura e. dare l'indirizzo all'autista. Una volta partiti, Tracy si voltò a guardare attraverso il lunotto posteriore. «La polizia ha circondato la Maestranza» disse. «Qualsiasi cosa tu abbia fatto li ha mandati in delirio.» Ma Bourne non la sentiva, era già svenuto. Soraya e Amun Chalthoum arrivarono a Hurghada poco prima di mezzogiorno. Fino a pochi anni prima quel posto era soltanto un villaggio di pescatori, ma dopo una serie di iniziative del governo egiziano combinate con alcuni investimenti stranieri era diventata una rinomata meta turistica del Mar Rosso. Il fulcro della città era E1 Dahar, il più antico dei tre quartieri, dove si potevano ancora trovare le ville e i bazar tradizionali. Come molte cittadine costiere egiziane, Hurghada non si estendeva molto verso l'interno, ma piuttosto si allungava a dismisura lungo la costa del Mar Rosso. Il quartiere di Sekalla era più moderno, e imbruttito dalla proliferazione di hotel di basso livello. E1 Korra Road, invece, era molto carino, pieno di alberghi esclusivi, una vegetazione rigogliosa, fontane sontuose e case private con tanto di mura di cinta, proprietà dei magnati russi che non sapevano più come spendere i loro soldi facili. I due si recarono subito dai pescatori, o meglio da quei pochi rimasti: il tempo e il turismo li avevano difatti decimati. Erano vecchi uomini con la pelle avvizzita e abbronzata come cuoio consumato, gli occhi schiariti dal sole, le mani indurite dal lavoro, come tavole dai nodi sporgenti rese ruvide da decenni di acqua marina. I loro figli se n'erano andati per lavorare in uffici dotati di aria condizionata o sui jet che volavano alto nel cielo, abbandonando la terra natia. Erano gli ultimi della loro stirpe e avevano sempre meno spazio, per questo erano sospettosi nei confronti degli egiziani pieni di belle parole che si prendevano le loro aree di rimessaggio per parcheggiarvi scooter acquatici di ogni sorta. La loro innata paura di Chalthoum e di al-Mukhabarat si manifestò sotto forma di fredda ostilità. Dopotutto non avevano più niente da perdere. D'altro canto, però, erano rimasti incantati da Soraya e dal suo modo gentile di parlare, dal viso bellissimo e il corpo aggraziato. Rispondevano alle sue domande, anche se ripeterono in continuazione che era impossibile per qualcuno esterno al loro circolo chiuso passare per un pescatore del luogo senza che se ne accorgessero. Riconoscevano a vista tutte le navi e le barche che solcavano le acque locali, e le assicurarono che la loro memoria collettiva recente non aveva registrato nessun fatto fuori dall'ordinario. «Ma ci sono i centri di immersione» disse un lupo di mare brizzolato. Le mani che tiravano la rete erano grandi come la sua testa. Sputò a terra per manifestare il proprio disgusto. «Chi lo sa che clienti hanno? E per quanto riguarda il personale, be', quello sembra cambiare ogni settimana, per cui nessuno può ricordarsi tutti i volti, né i loro andirivieni.» Soraya e Chalthoum si divisero i venticinque centri che i pescatori elencarono loro e si diressero in due parti opposte della città. Si sarebbero rivisti più tardi al negozio di tappeti nel bazar di el-Dahar, il cui proprietario era un buon amico di Amun. Soraya andò verso il mare, visitò uno dopo l'altro otto centri di immersione, depennandoli a mano a mano dalla lista. Salì sulle loro barche, interrogò gli skipper e gli equipaggi, controllò la lista dei clienti delle ultime tre settimane. A volte doveva aspettare che le barche tornassero a riva. Altre, trovava dei proprietari talmente gentili da accompagnarla sui punti d'immersione. Dopo quattro ore di lavoro frustrante in cui ripeteva le stesse domande e riceveva sempre le stesse risposte, dovette guardare in faccia la realtà. Era un'impresa impossibile, come cercare un ago in un pagliaio. Anche se i terroristi avessero usato questo metodo per entrare in Egitto, non c'era alcuna garanzia che i centri di immersione ne fossero a conoscenza. Ma come diavolo avrebbero potuto giustificare una gabbia tanto grande da contenere un Kowsar 3? Venne di nuovo assalita da mille dubbi riguardo alla versione della storia di Amun e dalla paura che lui potesse essere coinvolto nell'abbattimento dell'aereo. Cosa ci faccio qui?, si chiese. E se Amun e al-Mukhabarat fossero i veri colpevoli? In preda alla disperazione, Soraya decise che avrebbe sospeso le ricerche dopo aver finito con il nono centro d'immersione. Venne traghettata verso la barca da un vecchio egiziano che non la smetteva di sputacchiare. Faceva più caldo del solito, il sole le picchiava forte sulla testa, quel poco di vento che si sentiva veniva dal rullio della barca. Anche con gli occhiali da sole ogni cosa le appariva sbiadita dal bagliore. La salsedine le riempiva le narici, irruenta e carica di minerali. Doveva aver perso l'interesse per le identiche risposte che riceveva per l'ennesima volta, altrimenti si sarebbe accorta del ragazzo dai capelli biondo cenere tutti arruffati che si allontanò da lei con fare furtivo quando venne presentata al proprietario del negozio di materiali per l'immersione. Ripropose le stesse domande: Avete notato qualche faccia particolare nelle ultime tre settimane? Nessun gruppo di persone apparentemente egiziane a bordo di un'altra barca e che poi sono scese a terra lo stesso giorno? Imballaggi troppo grandi? No, no e ancora no. Che altro sperava di ottenere? Nel frattempo il giovane dai capelli arruffati prese la sua attrezzatura e iniziò a indietreggiare. Fu solo quando saltò giù dalla barca che Soraya si svegliò dal suo letargo. Si liberò della borsa, si tolse le scarpe e si tuffò in mare per inseguirlo. Il ragazzo si era munito di maschera e bombola d'ossigeno prima di gettarsi in mare, e lei riuscì a vederlo proprio sotto di sé. Anche se non indossava le pinne, stava nuotando in profondità, convinto che Soraya, non disponendo della stessa attrezzatura, non sarebbe riuscita a stargli dietro. Ma si sbagliava di grosso riguardo alle sue capacità e alla sua tenacia. Il padre l'aveva buttata in una piscina il giorno del suo primo compleanno, sotto gli occhi atterriti della mamma, e le aveva insegnato così la resistenza e la velocità, cose che le erano tornate utili anche alle superiori e al college, facendole vincere tutte le coppe possibili e immaginabili. Avrebbe potuto far parte della squadra olimpica, se non fosse stata già assunta dall'intelligence americana che le aveva dato incarichi più importanti da svolgere. Saettava nell'acqua come una sirena, ma non appena raggiunse il ragazzo quello si voltò, sorpreso che Soraya si fosse spinta fin laggiù in così poco tempo, e impugnò il fucile subacqueo. Stava sollevando il meccanismo che riawolgeva la freccia dentellata, quando lei lo colpì. Il giovane mantenne con tenacia la presa sull'arma, preparandola per il colpo anche se Soraya lo spingeva all'indietro; impugnò il fucile subacqueo in modo da puntarlo alla tempia della ragazza, e quando lei mollò la presa abbassò la punta per mirare al petto. Soraya mosse le gambe in una potente sforbiciata poco prima che lui premesse il grilletto e l'asta del fucile subacqueo la sfiorò. Lei lo afferrò: voleva togliergli la maschera per eliminare il vantaggio che aveva su di lei, perché i polmoni iniziavano a bruciarle e sapeva che non sarebbe durata ancora a lungo. Mentre i due lottavano, il rumore del suo cuore scandiva i secondi, uno, due, tre, infine riuscì nel suo intento. Il getto d'acqua investì il viso del ragazzo, Soraya gli prese il boccaglio e lo avvicinò alle proprie labbra, fece un paio di boccate e poi risalì velocemente in superficie, tenendo il ragazzo ben stretto per il braccio. Il capitano aveva levato l'ancora, mentre Soraya e il giovane erano sott'acqua, e la barca fu presto abbastanza vicina da permettere all'equipaggio di tendere le braccia ai due per aiutarli a salire a bordo. «Passatemi la borsa» disse Soraya senza fiato mentre si sedeva sulla schiena del ragazzo immobilizzandolo sul ponte. Fece dei respiri profondi e regolari, scostò i capelli davanti al viso e sentì che il sole cocente aveva già scaldato l'acqua che gocciolava dalle sue spalle. «E lui l'uomo che state cercando?» chiese il proprietario preoccupato, passandole la borsa. «Sta con noi da non più di tre giorni.» Scuotendo le mani per farle asciugare, Soraya cercò il cellulare in borsa, aprì lo sportellino e chiamò Chalthoum. Quando rispose, Soraya gli indicò dove si trovava. «Ottimo lavoro. Ci vediamo al molo tra dieci minuti.» Mettendo via il telefono, Soraya guardò in basso verso il giovane sotto di lei. «Alzati» la pregò lui ansimando. «Non riesco a respirare.» Gli stava seduta sul diaframma e capiva la sofferenza del ragazzo, ma non provava alcuna compassione. «Ragazzo mio» gli disse. «Sei nei guai fino al collo.» Bourne si svegliò al buio. Il rumore dolce e intermittente del traffico attrasse il suo sguardo verso la finestra. Le luci della strada illuminavano l'oscurità. Era disteso di fianco su quello che sembrava un letto. Muovendo la testa si guardò intorno e analizzò la camera, che era piccola e ben arredata ma poco accogliente. Dalla porta semiaperta si intravedeva uno spicchio di soggiorno. Si mosse nel letto, capendo di essere solo. Dove si trovava? Dov'era Tracy? Sentì la porta di casa aprirsi e i passi decisi e veloci di Tracy sul parquet del soggiorno. Quando entrò nella camera da letto, Bourne cercò di mettersi seduto. «No, ti prego, non muoverti. Peggioreresti soltanto la ferita» si preoccupò lei. Appoggiò a terra dei sacchetti e si sedette sul letto vicino a lui. «Ma avevo solo qualche graffietto alla schiena.» Lei scosse la testa. «Be, non proprio, comunque sto parlando della ferita che hai al petto. Ha iniziato a spurgare.» Prese dalle buste alcuni prodotti che aveva appena comprato in farmacia: alcol, una pomata antibiotica, cotone sterile e altre cose del genere. «Adesso sta' fermo.» Mentre rimuoveva le bende vecchie per pulire la ferita, gli disse: «Mia madre mi ha messo in guardia sui tipi come te». «E che tipo sarei?» «Uno che si ficca sempre nei guai.» Le sue dita lavoravano in modo agile, veloce, sicuro. «L'unica differenza è che tu sai come tirarti fuori dai pasticci.» Il viso di Bourne era contorto dalle smorfie di dolore, ma lui non si mosse di un millimetro. «Non ho altra scelta.» «Oh, non credo sia la verità.» La giovane donna tolse il cotone sterilizzato ormai sporco, ne prese dell'altro e lo immerse nell'alcol, poi lo applicò sulla carne viva. «Credo piuttosto che tu i guai te li vada a cercare. Se non lo facessi saresti molto triste, se non addirittura annoiato.» Bourne rise appena: non era andata molto lontana dalla realtà. Tracy esaminò la ferita appena disinfettata. «Non male. Possiamo fare a meno degli antibiotici.» «Sei un dottore?» Lei sorrise. «Quando serve.» «Una risposta del genere necessita di una spiegazione.» Tracy tastò la pelle attorno alla ferita. «Ma che diavolo ti è successo?» «Mi hanno sparato, ma non tergiversare.» La ragazza annui. «Okay, quando ero più giovane, molto più giovane, sono stata per due anni in Africa occidentale. C'erano tumulti, lotte, scontri. Accadevano delle atrocità orribili. Mi assegnarono a un ospedale da campo, dove imparai il triage e a medicare una ferita. Un giorno eravamo talmente pieni di moribondi e feriti che il dottore mi mise in mano un bisturi e disse: "C'è una ferita d'entrata, ma non c'è quella d'uscita. Se non estrai il proiettile, il paziente morirà". Poi mi lasciò lì da sola, doveva occuparsi di altri due pazienti.» «Ed è morto?» «Sì, ma non per la ferita. Era un malato terminale.» «Questo deve averti aiutata in qualche modo.» «No» disse. «Affatto.» Gettò il batuffolo di cotone nel cestino dei rifiuti, applicò la pomata antibiotica e iniziò il bendaggio. «Mi devi promettere che non la sforzerai più. La prossima volta sanguinerà ancora di più.» Si spostò indietro per analizzare il suo lavoro. «La cosa ideale sarebbe che tu andassi in ospedale, o almeno a farti visitare da un dottore.» «Questo non è un mondo ideale.» «L'ho notato» ribatté Tracy, aiutandolo a mettersi seduto. «Dove siamo?» chiese Bourne. «Nel mio appartamento. Dall'altra parte della città rispetto alla Maestranza.» Bourne si spostò con cautela su una sedia. Il petto sembrava di piombo. Pulsava per lo stesso dolore che aveva provato tanto tempo prima. «Non hai un appuntamento con Don Fernando Herrera?» «L'ho rimandato.» Tracy guardò Bourne con aria interrogativa. «Non ci posso andare, senza di lei, professor Alonzo Pecunia Zuniga.» Si riferiva all'esperto di Goya del Prado che Bourne doveva impersonare. Poi, sorrise: «Amo troppo i soldi, per spenderli quando ne posso fare a meno». Si alzò, accompagnando Bourne di nuovo verso il letto. «Ma ora devi riposare.» Jason stava per risponderle, ma i suoi occhi si erano già chiusi. L'oscurità portò un sonno calmo e profondo. Arkadin spingeva le sue reclute nel paesaggio desolato del Nagorno-Karabakh, facendole allenare per venti ore al giorno. Quando i loro occhi cominciavano a chiudersi per il sonno, li colpiva con il manganello. Non si trovò mai a dover colpire lo stesso uomo più di una volta. Dormivano tre ore al giorno ovunque capitasse, distesi a terra. Dormivano tutti tranne Arkadin, che aveva bandito il sonno dalla sua vita già da parecchi mesi. La sua mente si riempiva di immagini del passato, degli ultimi giorni trascorsi a Niznij Tagil, quando gli uomini di Stas gli stavano alle calcagna e l'unica soluzione sembrava essere quella di ucciderne il più possibile, prima che uccidessero lui. Non aveva paura di morire, questo gli era chiaro fin da quando aveva iniziato la sua incarcerazione forzata nello scantinato, avventurandosi fuori solo di notte per il rifornimento di cibo e acqua. Sopra di lui fervevano le attività degli uomini di Stas, impegnati alacremente nella sua ricerca. I giorni si allungavano in settimane e le settimane in mesi. La banda avrebbe potuto dedicarsi ad altre faccende, ma no, covavano il rancore come una chioccia fa con le uova, inalando il veleno fino a esserne ossessionati. Avrebbero avuto pace solo quando avrebbero trascinato il suo corpo in giro per la città come monito per chiunque pensasse di invischiarsi nei loro affari. Erano stati persino mandati degli agenti di polizia, che comunque erano sul libro paga della banda, a controllare la situazione in città, sconvolta notte dopo notte da ondate di una violenza inaudita. Erano soliti chiudere un occhio, a volte anche farsi una bella risata, ma non adesso che gli scontri li avevano resi lo zimbello della polizia di Stato. Invece di prendere delle misure contro la banda di Stas, preferivano abbassare la testa e accettarne le richieste. Così, erano quasi tutti a caccia di Arkadin: non c'era via di scampo. Quand'ecco comparire Michail Tarkanian, che Arkadin avrebbe poi chiamato Misca, arrivato a Niznij Tagil da Mosca. Era stato mandato dal suo boss, Dimitrij Ilinovic Maslov, capo della Kazanskaja, la famiglia più importante della grupperovka moscovita, la mafia russa coinvolta in traffici di droga e nel mercato nero delle auto. Grazie ai suoi tanti occhi e alle tante orecchie, Maslov era venuto a sapere di Arkadin, del bagno di sangue che aveva causato tutto da solo e del periodo di stallo che era seguito. Voleva Arkadin nel suo gruppo. «Il problema» disse Maslov ai suoi, «è che gli scagnozzi di Stas lo vorrebbero ridurre a pezzettini.» Consegnò loro un dossier. Dentro c'erano le foto sgranate in bianco e nero scattate da una telecamera di sorveglianza. Ritraevano gli ultimi uomini rimasti nella banda di Stas, ognuna con il nome scritto sul retro. Gli occhi e le orecchie di Maslov erano stati molto impegnati, e Tarkanian pensò - cosa che non fece il torvo Oserov - che Maslov doveva volere Arkadin a tutti i costi se si era adoperato così tanto per tirarlo fuori da una situazione che sembrava senza via d'uscita. Maslov avrebbe potuto mettere il suo comandante, Vylaceslav Germanovic Oserov, a capo di una squadra che sarebbe dovuta andare a prendere Arkadin con la forza ma era molto accorto nel gestire il suo potere. Capì che era meglio rendere la banda di Stas parte del suo impero, anziché dare vita a una faida sanguinosa con i pochi uomini che sarebbero sopravvissuti dopo l'intervento dei suoi. Così, decise di mandare Tarkanian, il negoziatore, e ordinò a Oserov di proteggerlo, un compito che quello aveva palesemente disprezzato, convinto che, se solo Maslov lo avesse ascoltato, lui, Oserov, avrebbe strappato Arkadin dalle grinfie di quei babbuini di campagna di Niznij Tagil, come li chiamava lui. «Porterò quell'Arkadin a Mosca nel giro di quarantott'ore, garantito» aveva ripetuto più volte a Tarkanian durante il lungo viaggio verso le pendici dei monti Urali. Quando arrivarono a Niznij Tagil, Tarkanian non ne poteva già più di Oserov. Comunque, prima che gli emissari di Maslov lasciassero Mosca, Tarkanian aveva già pianificato come tirar fuori dai guai Arkadin. La natura lo aveva dotato di una mente machiavellica. Gli affari che portava a termine per conto di Maslov erano leggendari sia per la loro stupefacente complessità, sia per l'infallibile efficacia. «Il nostro compito è confonderli» disse Tarkanian a Oserov, mentre si avvicinavano a destinazione. «E per farlo dovremo lanciare un'esca agli uomini di Stas.» «Dovremo?» ripetè Oserov nel suo tipico tono brusco. «Sei l'uomo perfetto per fare da esca.» « Oserov mi guardò con il suo solito sguardo torvo» raccontò Tarkanian ad Arkadin molto tempo dopo, « ma l'unica cosa che potè fare fu guaire come un cane bastonato. Sapeva quanto fossi importante agli occhi di Dimitrij, e questo lo fece stare in riga. Più o meno.» «Hai ragione su una cosa: abbiamo a che fare con dei babbuini» disse a Oserov lanciandogli un osso. «E i babbuini si possono stimolare solo con due cose: il bastone e la carota. Io darò loro la carota.» «Perché pensi che vorranno avere a che fare con te?» chiese Oserov. «Perché dal momento in cui arriverai in città, inizierai a fare la cosa che ti riesce meglio: rendere la loro vita un inferno.» Questa risposta fece comparire un ghigno sul volto di Oserov. «E sai cosa mi ha risposto a quel punto?» sussurrò Tarkanian ad Arkadin in seguito. «Mi disse: "Più sangue verrà versato, più sarò contento".» E faceva sul serio. Quarantatré minuti dopo essere entrati a Niznij Tagil, Oserov aveva già trovato la sua prima vittima, uno dei più vecchi e leali soldati di Stas. Gli piantò un proiettile in un orecchio da distanza ravvicinata, poi lo fece letteralmente a pezzi. Lasciò la testa intatta, e iniziò dalla cavità toracica, come una raccapricciante parodia di un film horror di second'ordine. Inutile precisare che gli uomini di Stas andarono su tutte le furie. Gli affari si interruppero. Vennero sguinzagliati tre squadroni della morte, formati da tre uomini ciascuno, con il compito di scovare il nuovo killer. Sapevano che non poteva essere stato Arkadin: non era la sua firma. Ancora non avevano paura, ma presto l'avrebbero avuta. Se c'era una cosa che Oserov era bravo a fare, quella era infondere paura. Scelse la vittima successiva prendendo una fotografia a caso dal dossier fornito da Maslov, e prese a pedinarla. La bloccò sul gradino di casa, la porta aperta e i figli che si affacciavano, gli sparò frantumandogli il femore destro. I bambini urlarono e la moglie accorse dalla cucina, Oserov scattò sul marciapiede, saltò sul gradino di cemento e conficcò tre proiettili nell'addome dell'uomo, nei punti in cui sarebbe uscito più sangue. Era il secondo giorno. Oserov si stava solo scaldando. il peggio doveva ancora venire. «Che significa "pinprick"» domandò Humphry Bamber. Veronica Hart lanciò un'occhiata innervosita a Moira. «Speravo ce lo potesse dire lei» rispose. Il telefono di Veronica squillò e lei si allontanò per non farsi sentire. Quando fu di ritorno, comunicò: «I rinforzi che ho chiesto ci stanno aspettando di fuori». Moira annuì, si piegò in avanti verso Bamber con i gomiti appoggiati sulle gambe incrociate. «Il termine "pinprick" accompagnava il nome del tuo software.» Bamber guardò prima lei e poi la direttrice della CIA. «Non capisco.» La pazienza di Moira si stava esaurendo. «Ho incontrato Steve poco prima che... sparisse. Era terrorizzato per quello che stava succedendo al Pentagono e al Dipartimento della Difesa. Diceva che là dentro si stavano addensando nubi di guerra.» «E, così, lei crede che Bardem abbia qualcosa a che fare con queste nubi di guerra?» «Sì» rispose Moira con fermezza, «proprio così.» Bamber aveva iniziato a sudare. «Cristo santo» mormorò, «se avessi anche solo sospettato che la situazione reale su cui Noah avrebbe usato il programma includeva una guerra...» «Mi scusi» lo interruppe Moira con foga, «ma Noah Perlis è uno dei principali membri della Black River. Come faceva a non saperlo, o almeno a non avere qualche dubbio?» «Calmati, Moira» intervenne la Hart. «No che non mi calmo. Questo... idiota totale... ha dato a Noah la chiave del castello. Grazie alla stupidità di Bamber, Noah e la NSA stanno progettando qualcosa.» «Che cosa?» Il tono di Bamber era supplichevole e disperato: voleva sapere di quale malefatta era stato l'inconsapevole complice. Moira scosse la testa. «E questo il problema. Non lo sappiamo. Ma ti dico una cosa: se non lo scopriamo in tempo per fermarli, temo che lo rimpiangeremo per tutta la vita.» Bamber si alzò, visibilmente provato. «Qualsiasi cosa posso fare... in qualsiasi modo posso rendermi utile... basta che me lo diciate.» «Si vada a vestire» disse la Hart. «Poi daremo un'occhiata a Bardem. Speriamo di capire qualcosa su ciò che Noah e la NSA hanno in mente, studiando il programma.» «Ci metto un secondo.» Poi Bamber uscì dall'ufficio. Per un attimo le due donne restarono in silenzio. Per prima parlò la Hart: «Perché ho la sensazione di essere stata raggirata?». «Parli di Halliday?» Veronica annuì. «Il segretario alla Difesa ha deciso di allungare la mano sul settore privato per raggiungere i suoi obiettivi. E per quanto Noah Perlis possa essere intelligente, non c'è dubbio che stia prendendo ordini da Bud Halliday.» «Non solo gli ordini, anche i soldi» precisò Moira. «Sarei proprio curiosa di sapere quale conto la Black River pagherà per questa bravata.» «Moira, malgrado le divergenze che abbiamo avuto in passato, su una cosa siamo d'accordo: il nostro ex datore di lavoro è senza scrupoli. La Black River si macchierà di qualsiasi crimine, se la posta in gioco è alta.» «Halliday ha a disposizione una risorsa virtualmente illimitata: lo United States Mint, lo stampatore del dollaro. Entrambe siamo state testimoni delle mazzette di bigliettoni da cento dollari che la Black River ha trasportato in Iraq nei primi quattro anni di guerra.» La Hart annuì. «Cento milioni ogni volta. E dove sono finiti tutti quei soldi? Sono serviti per finanziare i ribelli? Per pagare gli eserciti di informatori locali da cui la Black River sosteneva di ricevere le informazioni? No, tutt'e due sappiamo, perché l'abbiamo visto con i nostri occhi, che il novanta per cento di quei soldi finiva sui conti correnti, in Liechtenstein e alle isole Cayman, di società fittizie di proprietà della Black River.» «Ora non devono più rubarli» disse Moira con una risata cinica, «perché c'è Halliday a darglieli.» Un secondo dopo, le due si alzarono e lasciarono l'ufficio nel momento in cui Humphry uscì dallo spogliatoio degli uomini. Indossava jeans stirati alla perfezione, mocassini lucidi, una camicia a scacchi bianchi e blu e una giacca di camoscio grigia. «C'è un'altra uscita?» gli chiese Moira. Bamber gliela indicò. «C'è un ingresso sul retro, dietro gli uffici dell'amministrazione.» «Vado a prendere la macchina» disse Moira. «Aspetta.» La Hart prese il cellulare. «E meglio che vada io. I miei uomini sono qua fuori, ordinerò loro di schierarsi di fronte all'entrata principale, in modo da far sembrare che scortiamo Bamber da quella parte.» Tese la mano e Moira le passò le chiavi. «Poi passo a prendere la tua macchina e vi aspetto sul retro. Okay?» Moira tirò fuori la sua Lady Hawk dalla fondina, mentre Bamber indietreggiava con la bocca semispalancata. «Che diavolo succede?» domandò. «E la protezione che ha richiesto» tagliò corto la Hart. Mentre scompariva in fondo al corridoio, Moira fece cenno a Bamber di farle strada verso il retro attraverso gli uffici amministrativi. Usò il tesserino del Dipartimento della Difesa per giustificare la sua presenza ai vari manager che le chiedevano cosa ci facesse lì. Raggiunsero la porta sul retro, prese il cellulare e chiamò la Hart sul suo numero privato. Quando la voce di Veronica rispose, comunicò: «Siamo in posizione». «Conta fino aventi» le disse la Hart, «poi portalo fuori.» Moira chiuse lo sportellino del telefono e lo mise via. «Pronto?» Bamber annuì, anche se quella non gli sembrava una vera domanda. Fece il conto alla rovescia, dopodiché aprì la porta strattonandola con la mano libera, e con la pistola spianata nell'altra, uscì fuori, mostrando solo il suo profilo. La Hart era ferma con la Buick bianca proprio di fronte all'entrata. Aprì lo sportello posteriore sinistro. Moira si guardò intorno. Erano in una sezione remota del parcheggio. L'asfalto era circondato da un recinto di tre metri e mezzo, con del filo spinato in cima. Sulla sinistra c'era una fila di enormi bidoni dell'immondizia. Sulla destra c'era la rotatoria che serviva per uscire dal parcheggio, oltre la quale si stagliavano isolati di edifici dall' aspetto anonimo. Non c'era nessun altro veicolo in quella zona del parcheggio, e la vista della strada era impedita da una protezione al di là del recinto. Voltandosi, Moira incrociò lo sguardo di Bamber. «Okay» disse, «tieni giù la testa e siediti sul sedile posteriore più in fretta che puoi.» Bamber si abbassò e corse per il breve tratto che separava la porta del centro benessere e lo sportello della Buick. Moira lo coprì finché non fu a bordo dell'auto. Una volta dentro, Bamber si spostò verso la parte opposta del sedile. «Tenga giù la testa!» gli ordinò Veronica, che si era girata verso di lui dal posto di guida. «E non la alzi per niente al mondo.» Poi chiamò Moira. «Forza! Andiamo! Che stai aspettando? Muoviamoci!» Moira passò dietro la parte posteriore della macchina, dando un'ultima occhiata ai bidoni dell'immondizia. Aveva visto qualcosa? Un'ombra si era mossa o era solo un'impressione? Fece qualche passo in quella direzione, ma Veronica mise la testa fuori dal finestrino. «Maledizione, Moira, vuoi salire su questa dannata macchina o no?» Moira si voltò. Piegandosi sul retro dell'auto, si fermò immobile. Si inginocchiò e guardò nel tubo di scappamento. C'era qualcosa, lì dentro. Qualcosa con un piccolo occhio rosso, un LED che iniziò a lampeggiare. Gesù, imprecò tra sé. Oh mio Dio! Si precipitò verso lo sportello aperto e iniziò a urlare: «Fuori! Scendete subito dalla macchina!». Si sporse per afferrare Bamber e tirarlo fuori. «Ronnie» urlò, «scendi! Scendi da questa cazzo di macchina!» Vide la Hart girarsi, stupita, poi muoversi per slacciarsi la cintura di sicurezza. Fu subito chiaro che qualcosa non andava, non riusciva a liberarsi: il meccanismo si era bloccato oppure non funzionava bene. «Ronnie, hai un coltello?» Veronica aveva un coltellino e iniziò a tagliare la cintura di sicurezza che la imprigionava. «Ronnie!» gridò Moira. «Per l'amor del cielo...!» «Porta via lui!» le ordinò la Hart, poi, quando Moira cercò di fare un passo verso la macchina, gridò: «Stai indietro!». L'attimo dopo la Buick saltò in aria come un fuoco d'artificio. L'onda d'urto fu così forte che scaraventò Moira e Bamber sull'asfalto, investendoli con una pioggia di pezzi di plastica e metallo incandescente che li colpì come uno sciame di api inferocite. *** Capitolo 17 Il suono gutturale delle campane svegliò Bourne, mentre la luce del sole filtrava nella stanza attraverso la persiana in losanghe oro pallido che scivolavano sul pavimento di legno. «Buongiorno, Adam. La polizia ti sta cercando.» Tracy si era affacciata alla porta, appoggiata contro lo stipite. Il profumo corposo del caffè appena fatto entrò nella stanza insieme alla giovane donna e turbinò intorno a lui come una ballerina di flamenco. «L'ho sentito alla tv poco fa.» Aveva le braccia incrociate sopra il petto. I capelli ancora umidi dopo la doccia erano raccolti in una coda di cavallo con un elastico in velluto nero. Aveva il viso luminoso. Indossava pantaloni sportivi marroni, una camicia da uomo color crema e scarpe basse. Sembrava pronta per l'incontro con Don Fernando Herrera o per qualsiasi altra cosa la giornata le avrebbe riservato. «Non c'è da preoccuparsi, però, non sanno chi sei, e l'unico testimone, una guardia della Maestranza, non ha dato... o non è riuscita a dare una tua descrizione dettagliata.» «C'era pochissima luce.» Bourne si mise seduto. «Anzi, in alcuni punti era proprio buio.» «Meglio per te.» Il sorriso che gli aveva indirizzato era per caso sarcastico? Nelle condizioni in cui si trovava in quel momento non riusciva a capirlo. «Ho preparato la colazione e abbiamo un appuntamento con Don Fernando Herrera alle tre di questo pomeriggio.» La testa gli faceva ancora male, aveva la bocca secca come il deserto, e sentiva un gusto acre che lo nauseava. «Che ore sono?» «Le nove appena passate.» Provando a piegare il braccio che Scarface aveva cercato di rompergli, constatò che il dolore si era affievolito e la ferita sulla schiena non gli bruciava quasi più. La fitta al petto, invece, gli mozzò il fiato, quando si avvolse il lenzuolo intorno alla vita e si alzò dal letto. «Perfetto» commentò Tracy. «Sembri proprio un senatore romano.» «Speriamo che oggi pomeriggio avrò un aspetto più catalano che romano» ribatté, dirigendosi verso il bagno, «perché sarà il professor Alonzo Pecunia Zuniga ad accompagnarti all'appuntamento con Don Herrera.» La ragazza lo guardò incuriosita, poi si girò e tornò in soggiorno. Bourne si chiuse alle spalle la porta del bagno e fece scorrere l'acqua della doccia. Sopra il lavandino c'era uno specchio circondato da piccole lampadine: un bagno decisamente femminile, pensò, ideale per il trucco. Di ritorno in camera, trovò un morbido accappatoio di spugna che subito indossò. Tracy aveva applicato sulla ferita al petto uno strato di plastica resistente all'acqua, che Bourne aveva notato soltanto quando si trovava già sotto il getto d'acqua bollente. Andò in soggiorno e trovò la ragazza intenta a versare il caffè. La cucina era molto piccola e sembrava una nicchia nel soggiorno, spazioso ma, come la camera da letto, arredato nello stile anonimo e spartano delle camere d'albergo. Sopra il tavolo di legno retto da cavalletti c'era la tipica colazione andalusa: una tazza di cioccolata calda e un piatto di churros, dolci di forma allungata fritti nell'olio e ricoperti di zucchero. Nonostante Tracy gli avesse lasciato tutti i churros, Bourne aveva ancora fame e andò verso il frigo. «Non c'è molto, là dentro, temo» lo avvertì Tracy. «Sono via da un po'.» Ma Jason scovò del bacon in freezer. «Scrivimi la tua taglia, così ti comprerò dei vestiti nuovi» disse la ragazza. Bourne, che stava friggendo le fettine di bacon, annuì. «Intanto che sei in giro, faresti una commissione per me?» In cucina trovò una matita e un blocchetto, strappò un foglio, scrisse una lista di cose da comprare e la sua taglia, e poi lo passò alla ragazza. «Per il professor Zuniga, immagino» commentò Tracy dopo un'occhiata veloce. Bourne fece di sì con la testa, mentre controllava che le fettine di bacon non bruciassero. «Ti ho dato gli indirizzi di alcuni negozi di maschere e costumi che ho trovato ieri. Era lì che volevo andare, prima che Scarface mi rovinasse i piani.» Tracy si alzò, prese la borsa e si avvicinò alla porta. «Mi ci vorrà più o meno un'ora» disse. «Tu, nel frattempo, goditi la colazione.» Quando uscì, Bourne tolse la padella dal fuoco e ripose le fettine di bacon su un tovagliolo di carta. Poi ritornò al blocchetto degli appunti. Il foglio che aveva dato a Tracy lo aveva strappato dalla parte centrale, perché voleva lasciare il primo intatto. Con una matita lo colorò tutto partendo dall'angolo superiore sinistro. Iniziarono a formarsi delle lettere, i segni dell'ultimo appunto preso da qualcuno, probabilmente da Tracy. Emersero il nome e l'indirizzo di Don Herrera, insieme all'orario dell'appuntamento: le tre, proprio come gli aveva detto poco prima. Strappò il pezzo di carta e se lo mise in tasca. Fu a quel punto che notò quel che rimaneva di un foglietto strappato sulla parte superiore del secondo foglietto. Bourne strappò anche quello. La matita portò alla luce lettere e numeri tutti attaccati. Mangiò il bacon in piedi vicino alla finestra, lo sguardo perso nel bagliore del mattino. Era ancora troppo presto per trovare qualcuno che fosse già fuori per la feria. Tuttavia il balcone dell'edificio di fronte era già pieno di decorazioni moresche e agghindato con fiori e tessuti dai colori accesi. Gli occhi di Bourne scandagliarono entrambi i lati della strada in cerca di cose o persone dall'aria sospetta. Sembrava tutto regolare. Osservò una donna attraversare la strada con tre bambini. Una signora anziana, bassa e ingobbita, portava un sacchetto di rete pieno di frutta e verdura. Mise in bocca l'ultimo pezzo di bacon e si pulì le mani su uno strofinaccio, poi si avvicinò al portatile di Tracy sul tavolo. Era acceso, e Bourne notò la connessione wireless a Internet. Si sedette e inserì su Google la stringa di lettere e simboli, ottenendo, però, soltanto questo risultato: La ricerca di 779elgamhuriaave non ha prodotto risultati in nessun documento. Suggerimenti: Assicurarsi che tutte le parole siano state digitate correttamente. Provare con parole chiave diverse. Provare con parole chiave più generiche. Poi notò l'errore e aggiunse degli spazi tra le parole: 77g el gamhuria avenue. Un indirizzo, ma dove si trovava? Ritornando su Google, inserì elgamhuria avenue e subito apparve la città di Khartoum, in Sudan. Interessante. Che ci faceva Tracy con l'indirizzo di una città nordafricana? Inserì l'indirizzo completo, compreso il numero, che risultò essere quello della Air Afrika Corporation. Si appoggiò allo schienale della sedia. Perché quel nome gli suonava così familiare? C'erano parecchi risultati, per la Air Afrika, alcuni dei quali relativi a siti molto strani, altri a blog dalla dubbia natura, ma l'informazione che voleva lui era in un risultato della seconda pagina, pieno di congetture secondo le quali la compagnia era gestita da Nikolaj Evsen, il noto trafficante d'armi. Da quando Viktor Anatolievic Bout era stato arrestato, Evsen aveva preso il suo posto. Bourne si alzò dalla sedia e tornò alla finestra per controllare di nuovo la strada. Tracy era un'esperta d'arte che doveva comprare un Goya sconosciuto fino a poco tempo prima. Il prezzo doveva essere astronomico, solo poche persone al mondo potevano permetterselo. Quindi, chi era il suo cliente? Mentre i rintocchi delle campane segnavano l'ora, il suo sguardo si focalizzò di nuovo sulla strada nel momento in cui Tracy entrò nel suo campo visivo. Aveva un sacchetto di rete. Osservò la cadenza del suo passo, i tacchi che battevano sul marciapiede. Un giovane comparve dietro di lei; i muscoli di Bourne si contrassero. Mezzo isolato dopo, il ragazzo alzò un braccio, salutò qualcuno e corse dall'altra parte della strada, dove la sua bella lo stava aspettando. Mentre i due si abbracciavano, Tracy entrava nel suo palazzo. Pochi secondi dopo apparve alla porta e posò il sacchetto sul tavolo. «Se hai ancora fame, ho comprato del prosciutto Serrano e del formaggio Garrotxa.» Prese le due confezioni avvolte nella carta bianca e le appoggiò sul tavolo. «Qui c'è tutto quello che avevi ordinato.» Dopo aver indossato gli abiti nuovi e leggeri che Tracy aveva scelto per lui, tirò fuori vari oggetti dal sacchetto e li allineò sul tavolo, aprì i coperchi per annusare il contenuto e annuì soddisfatto. Lei lo guardava con aria solenne. «Adam» iniziò, «non so in che genere di affari sei coinvolto...» «Te l'ho già detto» rispose lui in tono gentile. «Sì, ma ho visto la ferita, ed è gravissima, in più l'uomo che ci stava seguendo aveva uno sguardo malvagio.» «Perché era un uomo malvagio» riconobbe Bourne. Poi le sorrise. «Queste cose nel mio campo sono all'ordine del giorno, Tracy. Non girano gli stessi soldi che giravano nel 2000, quindi le aziende si fanno una concorrenza spietata per ottenere il poco denaro disponibile» le spiegò, facendo spallucce. «E impossibile da evitare.» «Ma guarda come sei ridotto: un lavoro così può farti finire all'ospedale!» «Devo solo stare un po' più attento, tutto qua.» Tracy aggrottò le sopracciglia. «Non prendermi in giro.» Si andò a sedere vicino a lui. «Non c'è da scherzare, con la ferita che hai al petto.» Bourne tirò fuori la foto che aveva stampato nell'Internet café e la mise tra loro due. «Per diventare il professor Alonzo Pecunia Zuniga avrò bisogno del tuo aiuto.» Lei rimase quasi immobile, i suoi occhi lucidi lo scrutarono per un momento. Poi fece segno di sì. Il terzo giorno del regno del terrore di Oserov portò l'acquazzone più devastante che gli abitanti di Niznij Tagil potessero ricordare, ma portò anche una carneficina così brutale e violenta da terrorizzare gli ultimi uomini rimasti nella banda di Stas Kuzin. Il terrore penetrò nelle loro ossa, insediandosi come polonio ed erodendo la sicurezza che avevano in se stessi proprio come il materiale radioattivo divora la carne. Tutto iniziò nelle prime ore di quella giornata: erano da poco passate le due, Oserov si vantò poi con Arkadin. «Mi sono introdotto nella casa del loro uomo di spicco, l'ho legato e l'ho costretto a guardare quello che facevo alla sua famiglia» avrebbe raccontato ad Arkadin. Una volta terminato, trascinò la vittima in cucina e iniziò a lavorarla con la punta incandescente di un coltello da scalco che aveva trovato in una credenza. Il dolore per quello che Oserov gli stava facendo risvegliò il malcapitato dallo stato di shock, e continuò a urlare finché l'assassino non gli tagliò la lingua. Un'ora dopo, il killer aveva terminato. Lasciò l'uomo in una pozza di sangue e vomito, vivo, ma quasi del tutto incosciente. Quando al mattino gli altri membri della banda si recarono a casa sua per iniziare la ronda quotidiana in città, trovarono la porta spalancata, come un invito a contemplare lo spettacolo dell'orrore che c'era all'interno. Fu allora, e solo allora, che Michail Tarkanian fece il suo ingresso a Niznij Tagil. A quel punto i criminali erano in uno stato di agitazione totale, e si dimenticarono completamente di Arkadin. «Lev Antonin, penso di avere la soluzione adatta al tuo problema» disse Tarkanian al nuovo capo della banda di Stas quando lo incontrò nel suo ufficio. C'erano ben sette uomini armati fino ai denti a proteggerlo. «Troverò il killer e me ne occuperò io.» «Ma chi sei tu, straniero? Perché faresti una cosa del genere?» Lev Antonin lo guardò di traverso, sospettoso. Aveva un viso grigio, orecchie lunghe e una barba ispida sulle guance e sul mento. Aveva l'aria di uno che non sa più cosa significa dormire. «Chi sono io non è importante, se non per il fatto che so trattare con gente come l'assassino a cui state dando la caccia» spiegò Tarkanian. «E per quanto riguarda il motivo della mia visita, la risposta è semplice: voglio Leonid Danilovic Arkadin.» All'improvviso l'espressione di Antonin si fece glaciale. «E perché mai vorresti quel maledetto figlio di puttana?» «Questi sono affari miei» rispose Tarkanian con voce gentile. «I tuoi, invece, dovrebbero essere tenere in vita i tuoi uomini.» E questo era vero. Antonin era un tipo pragmatico, non un pazzo come il suo predecessore. Tarkanian riusciva a leggergli dentro: i suoi uomini erano paralizzati dalla paura, e questo pregiudicava le loro prestazioni e il suo potere. E la paura si allarga a macchia d'olio, si sa. D'altro canto, però, non aveva intenzione di cedere. Da quando Arkadin aveva ucciso Kuzin e messo il loro mondo a ferro e fuoco spargendo ovunque morti e proiettili, tutti sognavano di farlo fuori. Rinunciando a quel sogno si sarebbe inimicato le sue truppe. Si sfregò il viso con le mani. «Va bene, ma dovrai portarmi la testa dell'assassino, così i miei ragazzi possono vedere coi loro occhi la fine di questo schifo. E a quel punto, se troverai quel bastardo di Arkadin, potrai averlo». Tarkanian non si fidava affatto di quel cavernicolo. Nei suoi occhi gialli aveva scorto una bramosia senza fine, e aveva intuito che non si sarebbe accontentato di avere la testa del killer: avrebbe voluto anche Arkadin. Le due teste insanguinate insieme avrebbero consolidato il suo potere sulla sua gente, per sempre. «Ma quello che voleva Lev Antonin era irrilevante» raccontò in seguito Tarkanian ad Arkadin. «Avevo previsto quest'eventualità.» Oserov si sarebbe divertito non poco a «trovare l'assassino» per quel babbuino di Lev Antonin e a portargli la testa fresca fresca di taglio, ma questo piacere gli venne negato. Si incupì quando Tarkanian gli comunicò che avrebbe trovato e «consegnato» l'assassino ad Antonin di persona. «Ho un altro compito per te, che calmerà la furia che hai in corpo» proseguì Tarkanian. «Un compito ben più importante, che solo tu sei in grado di portare a termine.» «Dubito che ci abbia creduto veramente» riferì Tarkanian più tardi, «ma dopo aver sentito quello che volevo facesse, ha fatto un sorrisetto compiaciuto.» Tarkanian aveva bisogno di qualcuno da consegnare a Lev Antonin. Ma non uno qualunque: doveva avere l'aria dell'assassino. Tarkanian fece il giro dei bar delle strade degradate di Niznij Tagil, alla ricerca della vittima perfetta. Di tanto in tanto incappava in pozzanghere così grandi che sembravano stagni, create dal diluvio passato da poco e che si era ridotto a una pioggerellina leggera. Fin dalle prime ore del giorno nubi plumbee basse e minacciose avevano oppresso la città, ma ora il volto del cielo era sfigurato qua e là da lividi gialli e color lavanda, come se la tempesta l'avesse brutalizzato. Tarkanian si appostò fuori dal bar più chiassoso, e si accese una sigaretta turca dall'odore pungente, aspirando il fumo a pieni polmoni e buttandolo fuori in una nuvola densa e impenetrabile come quelle che gli incombevano sopra la testa. Le tenebre gli si raccolsero intorno come accoliti fedeli, mentre gli arrivavano alle orecchie risate ubriache e il rumore di vetri infranti e dei cazzotti che volavano nei tafferugli. Un secondo dopo, un uomo grosso che perdeva sangue dal naso e da una ferita al viso barcollò fuori dal locale. Quando si piegò appoggiando le mani alle ginocchia e ansimando tra i conati di vomito, Tarkanian spense la sigaretta con il tacco degli stivali, gli si avvicinò e lasciò partire un colpo secco sul coppino. L'ubriaco crollò in avanti, battendo forte la fronte contro il marciapiede. Tarkanian lo prese sottobraccio e lo spinse nel vicolo. I passanti vedevano, ma se ne fregavano e tiravano dritto. Correvano tutti presi dai loro affari, e nessuno si azzardò neppure a rivolgere un'occhiata fugace verso loro due. Vivere a Niznij Tagil aveva insegnato loro a ignorare tutto ciò che non li riguardava. Era l'unico modo per salvarsi la pelle in quella città. Tarkanian controllò l'orologio nel buio del vicolo puzzolente. Contattare Oserov era impossibile, c'era solo da sperare che avesse portato a termine la sua parte del piano. Quindici minuti dopo entrò in una panetteria e comprò la torta più grande tra quelle esposte. Tornò nel vicolo, buttò via la torta e sollevò la testa appena recisa del malcapitato prendendola per i capelli sporchi di birra e sangue, poi la sistemò al centro della scatola del dolce. Gli occhi vitrei lo fissarono fino a quando non richiuse la scatola. Andò dall'altra parte della città, dove venne fatto entrare nell'ufficio di Lev Antonin, sempre protetto da sette scagnozzi. «Lev Antonin, come promesso ti ho portato un regalo» esordì, mettendo la scatola sulla sua scrivania. Lungo il tragitto si era fatta più pesante. Antonin guardò prima lui e poi la scatola, manifestando pochissimo entusiasmo. Fece un cenno a una delle sue guardie del corpo, che aprì la scatola. Poi si alzò e diede un'occhiata al suo interno. «Chi diavolo è questo?» chiese. «L'assassino.» «Come si chiama?» «Michail Gorbacév» rispose sarcastico Tarkanian. «E cosa ne so, io?» Antonin sogghignò e la sua faccia si trasformò in un'orrenda maschera. «Se non conosci il suo nome, come fai a sapere che è quello giusto?» «L'ho preso con le mani nel sacco» rispose Tarkanian. «Si era introdotto in casa tua e stava per uccidere tua moglie e i tuoi figli.» Antonin fece la faccia scura, afferrò il telefono e compose un numero. I suoi lineamenti si distesero quando la voce della moglie rispose dall'altra parte. «Stai bene? State tutti bene?» domandò in tono preoccupato. «Che significa? Cosa...? Chi diavolo sei? Dov'è mia moglie?» Ridivenne serio e tornò a guardare Tarkanian. «Che diavolo sta succedendo?» Tarkanian mantenne la voce calma e tranquilla. «La tua famiglia è al sicuro, Lev Antonin, e rimarrà al sicuro fin quando avrò via libera per prendermi Arkadin. Se ti metterai in mezzo...» «Farò circondare la casa, i miei uomini faranno irruzione...» «E tua moglie morirà insieme ai vostri tre bambini.» Antonin tirò fuori una pistola Stechkin e la puntò verso Tarkanian. «Ti sparo lì dove sei, e ti prometto che non avrai una morte veloce.» «In questo caso, tua moglie morirà insieme ai vostri tre bambini» ribadì Tarkanian in tono più duro. «Qualsiasi cosa farai a me, verrà fatta a loro.» Antonin fissò Tarkanian, poi appoggiò la Stechkin sulla scrivania vicino alla scatola. Sembrava che volesse mettersi le mani nei capelli e strapparseli tutti. «L'unica cosa da fare con gli uomini di Neanderthal» ripetè poi Tarkanian ad Arkadin, «è accompagnarli passo passo per tutte le possìbili risposte, mostrando loro la futilità di ognuna.» «Ascoltami, Lev Antonin, hai avuto quello che avevamo stabilito. Se vuoi ancora tutto, mi trovo costretto a ricordarti che i maiali finiscono al macello» lo minacciò Tarkanian. Quindi lasciò l'ufficio per andare a cercare Leonid Danilovic Arkadin. Tracy Atherton e Alonzo Pecunia Zuniga si presentarono alla porta di Don Fernando Herrera alle tre in punto. La casa era avvolta dalla luce brillante del sole, amplificata da un cielo senza nuvole. Bourne, con la barba e il nuovo taglio di capelli, aveva girato diversi negozi in cerca dei vestiti più adatti a un distinto professore di Madrid. Per ultimo, si era fermato da un ottico, dove aveva comprato delle lenti a contatto dello stesso colore degli occhi del professore. Herrera viveva nel barrio Santa Cruz di Siviglia, in una bellissima casa a tre piani dipinta di giallo e bianco con balconcini in ferro battuto alle finestre dell'ultimo piano. La facciata costituiva un lato di una piazzetta al centro della quale c'era un vecchio pozzo che era stato trasformato in una fontana ottagonale. Piccole mercerie e negozi di suppellettili in porcellana, all'ombra di palme e aranci, formavano gli altri tre lati. La porta si aprì poco dopo che ebbero bussato. Tracy diede i loro nomi, e un ragazzo ben vestito li accompagnò lungo l'ingresso di legno e marmo dal soffitto molto alto. Al centro era disposto un tavolo con sopra un vaso di fiori freschi bianchi e gialli, mentre su una credenza intarsiata c'era una ciotola d'argento lavorato piena di aranci profumati. Dal pianoforte li raggiunse una dolce e struggente melodia. Videro un salotto in stile antico con una parete ricoperta da librerie in mogano, illuminato dalla luce che penetrava dalla fila di portefinestre che davano sul cortile interno. C'erano un elegante scrittoio, una coppia di divani in pelle color cannella, una credenza sulla quale erano state sistemate cinque delicate orchidee, che sembravano cinque ragazze a un concorso di bellezza. Ma il salotto era dominato da un piccolo pianoforte d'antiquariato, dietro il quale era seduto un uomo con una folta chioma di capelli bianchi pettinati all'indietro, che lasciavano scoperta la fronte ampia e intelligente. Il corpo era piegato in avanti in una posa di concentrazione assoluta, quasi di sofferenza. Stringendo una matita tra i denti, l'uomo stava componendo un pezzo con una melodia elaborata, che si rifaceva ai virtuosi iberici e alle arie popolari di flamenco. Quando entrarono nella stanza, l'uomo alzò lo sguardo. Don Herrera aveva gli occhi azzurri e leggermente all'infuori, che lo facevano sembrare una mantide religiosa. La sua pelle scura e coriacea suggeriva che viveva molto all'aria aperta. Aveva un corpo magro e piatto, come se fosse stato costruito soltanto in due dimensioni. Sembrava che vestisse una seconda pelle: quella degli anni passati nei campi di petrolio colombiani. Prese la matita che teneva in bocca e sorrise in modo cordiale. «Ah, ecco i miei ospiti di riguardo, che piacere.» Baciò la mano di Tracy e strinse quella di Bourne. «Carissima signora, professore, è un onore avervi in casa mia.» Indicò i divani in pelle. «Prego, accomodatevi.» Indossava una camicia bianca con gli ultimi due bottoni slacciati, sotto una giacca di seta leggera color crema, liscia come la guancia di un bambino. «Gradite dello sherry, o volete qualcosa di più forte?» «Dello sherry con Garrotxa, se ce l'ha, grazie» rispose Bourne recitando la parte. «Ottima idea» rispose Herrera, chiamando il ragazzo per ordinare. Agitò l'indice lungo e affusolato in direzione di Bourne. «Lei è un uomo di buon gusto, professore.» Bourne sembrò compiacersi, mentre Tracy cercava di mascherare il proprio divertimento agli occhi del vecchio uomo. Arrivò il ragazzo portando un vassoio d'argento cesellato sul quale erano stati sistemati un decanter in cristallo e tre bicchieri, insieme a un piatto di formaggio di pecora, cracker, e una marmellata d'arance molto densa. Appoggiò il vassoio su un tavolinetto basso e se ne andò in silenzio così com'era entrato. Il padrone di casa versò lo sherry e porse i bicchieri. Herrera alzò il suo per fare un brindisi e i due ospiti lo imitarono. «Alla nobile causa della ricerca accademica! » Don Herrera sorseggiò lo sherry, e lo stesso fecero Jason e Tracy. Mentre gustavano il formaggio con la marmellata, si rivolse a Tracy: «Mi dica cosa ne pensa. E vero che il mondo sta andando verso una guerra contro l'Iran?». «Non ho abbastanza informazioni per esprimere un giudizio» rispose la ragazza, «ma credo che l'Iran abbia fatto sfoggio del suo programma nucleare per troppo tempo.» Don Herrera annuì con aria saggia. «Penso che stavolta gli Stati Uniti abbiano ragione: l'Iran ci ha provocato troppo a lungo. Ma pensare a un'altra guerra mondiale, be', sì, insomma, la guerra non fa bene agli affari di moki, ma è ottima per quelli di pochi.» Si girò sullo sgabello del pianoforte. «E lei, professore, che opinione si è fatto?» «Quando si parla di politica» disse Bourne, «mantengo sempre una posizione neutrale.» «Ma, professore, si deve pur esser fatto un'idea su un argomento che ci riguarda tutti.» «Le assicuro, Don Herrera, che sono molto più interessato al Goya che all'Iran.» Il colombiano gli riservò uno sguardo di disapprovazione, ma poi non perse altro tempo e si mise a parlare di affari. «Senorita Atherton, le ho garantito un accesso incondizionato al mio tesoro da poco portato alla luce e lei mi ha portato il migliore esperto di Goya del Prado e, per estensione, di tutta la Spagna. Dunque» disse allargando le braccia, «qual è il verdetto?» Tracy fece un sorriso evasivo e disse: «Professor Zuniga, perché non risponde lei?». «Don Herrera» prese la parola Bourne, «il dipinto in suo possesso e attribuito a Francisco José de Goya y Lucientes non è opera di quest'ultimo.» Herrera aggrottò la fronte e strinse le labbra. «Mi vorrebbe dire, professor Zuniga, che per tutto questo tempo ho avuto per le mani un falso?» «Be', dipende dalla sua definizione di falso» disse Bourne. «Con tutto il dovuto rispetto, professore, o è falso o non lo è.» «Questo è un modo di vedere la cosa, ma ce ne sono degli altri. Lasci che le spieghi. Malgrado il dipinto non valga di certo il prezzo che lei ha stabilito, è tutto fuorché privo di valore. Vede, alcuni test che ho svolto hanno confermato che l'opera è stata realizzata nello studio di Goya. E anche probabile che lo schizzo sia stato realizzato dal maestro stesso prima di morire. In ogni caso, però, rimangono dei dubbi sul fatto che il disegno possa essere il suo. La tela nel complesso non presenta la classica pennellata guidata dai leggeri attacchi di pazzia, nonostante cerchi di ricrearla in maniera molto convincente anche per gli occhi di un esperto.» Don Herrera finì il bicchiere di sherry, poi si sedette con le grandi mani giunte sopra la pancia. «E così» disse, «il mio dipinto vale qualcosa, ma non il prezzo indicato alla senorita Atherton.» «Esatto» confermò Bourne. Herrera produsse un profondo suono gutturale. «Ci vorrà un po' per abituarsi.» Si voltò verso Tracy. «Senorita, date le circostanze, immagino che rinuncerà al nostro accordo.» «Assolutamente no» replicò lei. «Sono ancora interessata al dipinto, anche se bisognerà rivedere il prezzo.» «Capisco» disse Herrera. «Be', è ovvio.» Si fermò un attimo, perso nei suoi pensieri, poi riprese: «Prima di procedere vorrei fare una telefonata». «Ma certo» rispose Tracy. Don Herrera annuì, si alzò e si diresse verso un tavolo con delle delicatissime gambe a capriolo. Compose un numero sulla tastiera del suo cellulare, rimase un secondo in attesa, poi disse: «Sono Don Fernando Herrera. Sì, sta aspettando una mia chiamata». Mentre era in attesa, sorrise ai suoi ospiti. «Porfavor, un momentito.» Passò inaspettatamente il cellulare a Bourne, che lo guardò con aria interrogativa, ma nel viso di Don Herrera non c'era nessun indizio di ciò che stava succedendo. «Pronto» rispose Bourne in perfetto spagnolo. «Sì» disse la voce dall'altra parte, «sono il professor Pecunia Zuniga, con chi parlo?» *** Capitolo 18 «Niente» disse Amun Chalthoum con evidente disgusto. Fissava il ragazzo che Soraya aveva ripescato dal Mar Rosso dopo che si era buttato in acqua per sfuggire alle sue domande. Si trovavano in una delle cabine di bordo, messa a disposizione dal proprietario del negozio di materiali per l'immersione. Era uno spazio stretto, soffocante e dall'odore nauseabondo. L'espressione di Chalthoum era un misto di frustrazione e paura. «Non è nient'altro che un trafficante di droga, uno di quelli che sondano il terreno per i contrabbandieri.» A Soraya non sembrava affatto una cosa da niente, ma Amun non era dell'umore adatto per considerare qualcosa che non riguardasse il gruppo terroristico. Fu in quel momento di fragilità che abbandonò l'idea che Amun la stesse imbrogliando. Era sicura che Chalthoum non si sarebbe lasciata prendere dall'emozione se stava coprendo il coinvolgimento di al-Mukhabarat. La sensazione di sollievo le fece tremare le gambe. Dopodiché tornò a concentrarsi sulla cellula terroristica. «Bene, vuol dire che non sono passati di qua» disse, «ma ci deve essere un altro posto lungo la costa...» «I miei uomini hanno controllato» la interruppe Amun, serio e preoccupato. «Questo significa che il percorso che ho suggerito è sbagliato. Non sono passati per l'Iraq.» «E allora come hanno fatto a entrare in Egitto?» chiese Soraya. «Non lo so.» Chalthoum sembrò rimuginarci sopra per un po'. «Non possono essere stati tanto stupidi da trasportare il missile con un aereo. Sarebbe stato rilevato dai nostri radar... o da uno dei nostri satelliti.» Era vero, pensò Soraya. Allora come avevano fatto i terroristi iraniani a far entrare quel missile in Egitto? L'enigma la riportò, come a chiudere un cerchio, al sospetto iniziale che fossero coinvolti gli egiziani, anche se non quelli di al-Mukhabarat. Ma fu solo quando furono di nuovo sul ponte, con il trafficante in stato d'arresto e la barca che tornava verso terra, che propose quell'ipotesi a Chalthoum. Stavano in piedi vicino al parapetto di tribordo, il vento soffiava tra i capelli, la luce del sole cospargeva la superficie dell'acqua di scintille abbaglianti. Amun aveva appoggiato le braccia sul parapetto, le dita delle mani intrecciate, mentre fissava l'acqua sotto di sé. «Amun» gli disse Soraya gentilmente, «è possibile che qualcuno interno al tuo governo - uno dei tuoi nemici, uno dei nostri nemici - abbia aiutato i terroristi a introdurre il missile?» Anche se era stata molto attenta a formulare la domanda, percepì che lui si era irrigidito. Un muscolo della guancia guizzò, ma la risposta che arrivò la sorprese non poco. «Ci ho già pensato, azizti, e con grande dispiacere ho fatto le mie indagini oggi, mentre ero solo. Mi è costato molto, dal punto di vista politico, però non ha portato a niente.» Si voltò verso di lei, gli occhi scuri più afflitti che mai. «Azizti, sarebbe stata davvero la fine per me se l'eventualità che hai appena formulato si fosse rivelata vera.» E fu proprio in quel preciso istante che lei capì. Amun aveva intuito quali erano i sospetti di Soraya e li aveva accettati con tutto il carico di disagio che portavano, fino a che il bagaglio era diventato troppo pesante. Aveva messo da parte l'orgoglio per fare quelle chiamate, perché anche solo chiedere una cosa del genere significava tradirsi, e ora Soraya comprendeva quello che intendeva per «capitale politico»: era molto probabile che una o più delle persone che aveva chiamato non avrebbe mai dimenticato i suoi dubbi. Anche questo faceva parte del moderno Egitto, e Amun ci avrebbe dovuto vivere per il resto dei suoi giorni. A meno che... «Amun» sussurrò, così piano che Chalthoum dovette sporgersi per sentirla, «quando tutto questo sarà finito, perché non vieni via con me?» «In America?» esclamò lui, come se stesse parlando di Marte o di un posto persino più alieno e lontano, ma quando rispose le sue parole erano colme di dolcezza. «Sì, azizti, questo risolverebbe molti problemi. D'altro canto, però, ne farebbe sorgere altri. Che cosa mi metterei a fare, per esempio?» «Sei un agente dell'intelligence, potresti...» «Sono egiziano. E, cosa persino peggiore, sono il capo di alMukhabarat.» «Pensa alle informazioni che potresti fornire.» Le fece un sorriso triste. «Immagina come mi insulterebbero, sia qui sia nella tua America. Per loro sarei sempre il nemico, sospetterebbero di me, mi osserverebbero in continuazione, e non mi accetterebbero mai.» «Non se ci sposassimo.» Le parole uscirono prima che Soraya avesse il tempo di riflettere. I due rimasero in silenzio, sconvolti. La barca, ormai vicina al molo, aveva rallentato e non tirava più un filo di vento. Il sudore che usciva dai loro corpi si asciugava sulla pelle. Amun prese la mano di Soraya, con il pollice le accarezzava le piccole ossa del dorso. «Azizti» le disse, «se mi sposassi, sarebbe la fine anche per te... non potresti più continuare a lavorare nell'intelligence.» «E allora?» I suoi occhi avevano un'espressione fiera. Adesso che aveva tirato fuori quello che aveva nel cuore, assaporava un senso di libertà mai provata prima. Lui le sorrise. «Non lo pensi davvero.» Lei si voltò. «Non voglio fingere con te, Amun. I segreti che mi tengo dentro mi fanno solo star male, e continuo a ripetermi che tutto questo dovrà finire, prima o poi, con qualcuno.» Amun le cinse la vita esile con un braccio e annuì, mentre l'equipaggio intorno a loro si rianimava fissando le cime alle luccicanti gallocce di metallo sulla darsena. «Almeno su questo possiamo essere d'accordo.» E Soraya sollevò il viso verso il sole. «Questa è l'unica cosa che importa, azizti.» «Signorina Trevor, ha idea di chi possa aver...?» Anche se l'uomo che conduceva le indagini sulla morte della direttrice della CIA Veronica Hart - come si chiamava? Simon qualcosa... Simon Herren; sì, giusto - continuava a farle domande, Moira aveva smesso di ascoltare. Quella voce era un ronzio leggero nelle orecchie, in cui risuonava ancora il rumore degli istanti successivi all'esplosione. Lei e Humphry Bamber erano distesi l'uno accanto all'altra nella sala del Pronto soccorso dopo essere stati medicati. Erano stati fortunati, aveva detto il medico del Pronto soccorso, e Moira sapeva che era vero. Erano stati trasportati con l'ambulanza, li avevano attaccati all'ossigeno e adesso li stavano sottoponendo ai primi esami di routine per verificare se avessero concussioni, ossa rotte o cose del genere. «Per chi lavori?» domandò Moira a Simon Herren. Lui le sorrise con aria benevola. Aveva i capelli castani tagliati corti, occhi piccoli e una brutta dentatura da roditore. Il colletto della camicia era rigido per via dell'amido e la cravatta in reps era di quelle degli agenti governativi. Non le avrebbe risposto, lo sapevano tutti e due. E, in ogni caso, che importava a quale parte dell'universo dell'intelligence appartenesse? In fin dei conti non erano forse tutti uguali? Be', no, Veronica Hart non era come tutti gli altri. All'improvviso sentì come se qualcosa l'avesse colpita nel profondo e le lacrime sgorgarono dagli occhi. «Cosa c'è?» Simon Herren si guardò intorno in cerca di un'infermiera. «Sente dolore?» Moira riuscì a ridere tra le lacrime. Che idiota, pensò. Per contenersi e non insultarlo a voce alta, s'informò sulle condizioni del suo compagno. «Il signor Bamber è ancora sconvolto» rispose Herren senza alcuna empatia. «La cosa non sorprende, visto che è un civile.» «Va' a quel paese!» Moira girò la testa dall'altra parte. «Mi avevano detto che aveva un caratteraccio.» Quella frase attirò la sua attenzione. Moira si voltò di nuovo per fissarlo negli occhi. «Chi ti ha detto che ho un caratteraccio?» Herren le rivolse un sorriso enigmatico. «Ah sì, Noah Perlis» si rispose da sola. «Chi?» Non avrebbe dovuto ribattere così alla sua affermazione, pensò Moira. Se avesse tenuto la bocca chiusa, avrebbe potuto trattenere il guizzo di quella risposta negli occhi prima di tradirsi. E così Noah le stava ancora alle calcagna. Perché? Visto che non voleva niente da lei, forse aveva cominciato a temerla. Buono a sapersi: questa consapevolezza l'avrebbe aiutata nei giorni bui che l'aspettavano, quando, sola e in pericolo, si sarebbe addossata la colpa della morte di Ronnie. Dopotutto, la bomba non era forse destinata a lei? Era stata fatta scivolare nel tubo di scappamento della macchina che aveva noleggiato. Nessuno, nemmeno Noah, avrebbe potuto immaginare che al volante ci sarebbe stata Ronnie. Ma anche la piccola soddisfazione per il fatto che Noah avesse fallito si annullava di fronte al danno collaterale. Era stata vicina alla morte anche in passato, aveva visto colleghi o nemici morire sul campo, faceva parte del suo lavoro. Era stata preparata per quello, per quanto un essere umano può essere preparato alla morte di qualcuno che conosce. Ma il campo era lontano, oltre l'oceano; era distante dalla civiltà, dalla sua vita privata, dalla sua casa. La morte di Ronnie era tutt'altra faccenda. Era stata causata da una serie di eventi e di sue reazioni a quegli eventi. All'improvviso venne investita da una marea di «se». Se non avesse avviato la sua attività, se Jason non fosse «morto», se non fosse andata da Ronnie, se Bamber non avesse lavorato per Noah, se, se, se... Ma tutte quelle cose erano successe e, come una ghirlanda di margherite, riusciva a vedere la concatenazione di quegli avvenimenti; ciascuno di essi aveva portato inesorabilmente a quello successivo, e alla fine il risultato era sempre lo stesso. Pensò al guaritore balinese, Suparwita, che l'aveva guardata negli occhi con un'espressione che lei non era stata in grado di decifrare fino a quel momento. Era come se allora, a Bali, lui avesse già previsto cosa l'attendeva, come se sapesse tutto. Il ronzio insistente della voce di Simon Herren la distrasse dai suoi pensieri cupi. Gli occhi tornarono a focalizzarsi su di lui. «Cosa? Che hai detto?» «Bamber è stato dimesso e affidato alla mia custodia.» Herren stava tra il letto di Moira e quello di Bamber, come se la stesse sfidando. Bamber era già vestito e pronto a essere dimesso dall'ospedale, ma sembrava spaventato, indeciso, sconvolto. «Il dottore dice che lei deve rimanere qui per ulteriori accertamenti.» «Col cavolo!» Si mise seduta, tirò giù le gambe dal lato del letto e si alzò in piedi. «Credo sia meglio che rimanga distesa» ribadì Herren nel suo modo vagamente derisorio. «Va' al diavolo!» Moira iniziò a vestirsi, noncurante della sua presenza. «Va' al diavolo tu e la scopa che hai usato per volare fin qua.» Simon Herren non riuscì a nascondere l'indignazione per l'oltraggio subito. «Non è una risposta molto professionale, è...» L'attimo dopo si ritrovò piegato in due per il pugno che Moira gli aveva affondato nel plesso solare. Il ginocchio della ragazza raggiunse il suo mento mentre si abbassava in avanti, poi lo tirò su e lo buttò sopra il letto. A questo punto si girò verso Bamber e gli disse: «Hai una sola scelta. O vieni con me adesso, oppure apparterrai a Noah per sempre». Bamber non si muoveva ancora. Fissava stordito Simon Herren ma, quando Moira gli offrì la mano, lui la prese. Aveva bisogno di una guida adesso, di qualcuno che gli dicesse la verità. Stevenson era morto, Veronica Hart era stata fatta saltare in aria di fronte ai suoi occhi, e ora c'era solo Moira, la persona che lo aveva tirato fuori da quella Buick maledetta, la donna che gli aveva salvato la vita. Moira lo condusse fuori dal Pronto soccorso nella maniera più rapida ed efficiente possibile. Per fortuna, il Pronto soccorso era un manicomio: tirocinanti e paramedici correvano di qua e di là dietro i loro pazienti, fornendo relazioni mediche al volo ai dottori interni, che a loro volta urlavano gli ordini agli infermieri. Erano tutti oberati di lavoro e molto stressati, nessuno li notò né li fermò. Un gruppo di uomini di Amun li aspettava sul molo, dove condusse il giovane trafficante di droga tenendolo per la collottola. Il povero ragazzo era spaventato a morte. Non era uno di quegli egiziani duri e impassibili che sapevano bene a cosa andavano incontro. Sembrava proprio quello che era: un turista squattrinato che sperava di racimolare qualche soldo per continuare il suo viaggio. Di certo era quello il motivo per cui era stato scelto. Sembrava un tipo innocente. Chalthoum avrebbe potuto lasciarlo andare dopo una bella strigliata, ma non si sentiva per niente magnanimo. Fece un balzo all'indietro quando il ragazzo vomitò. «Amun, perché non lasci perdere?» gli suggerì Soraya. «I trafficanti di droga non possono cavarsela così, come se niente fosse.» Questo era l'Amun che conosceva, duro e dalla vista acuta. Un brivido involontario le corse lungo la schiena. «Ma non è che un ragazzino, l'hai detto tu stesso. Se lo metterai dentro, troveranno un altro stupido per rimpiazzarlo.» «E noi troveremo anche quello» ribatté Chalthoum. «Portatelo dentro e buttate via la chiave.» A questo punto il giovanotto scoppiò in singhiozzi. «Per favore, aiutatemi. Non è il mio lavoro.» Chalthoum lo guardò con un'aria talmente torva da farlo indietreggiare. «Avresti dovuto pensarci prima di prendere i soldi dei criminali.» Lo scaraventò tra le braccia dei suoi uomini. «Sapete cosa fare con lui.» «Aspettate! Aspettate!» Il ragazzo tentò di puntare i piedi, mentre gli uomini di Amun si voltarono per portarlo via. «E se avessi delle informazioni? Mi aiutereste, in quel caso?» «E che informazioni potresti mai avere, tu?» chiese Chalthoum con aria disinteressata. «So benissimo come è strutturato il mondo della droga. Gli unici contatti li hai con chi sta sul gradino subito sopra di te, e dato che tu stai nel gradino più basso...» «Non parlavo di quelle persone.» La voce del ragazzo si era alzata per la paura. «Ho sentito qualcosa, altri sommozzatori che parlavano tra di loro.» «Quali sommozzatori? Di che parlavano?» «Se ne sono andati, ormai» rispose il ragazzo. «Erano qui circa dieci giorni fa, forse qualcuno in più...» Chalthoum scosse la testa. «E passato troppo tempo, chi fossero e cosa avessero da dire ormai è del tutto irrilevante, per me.» Soraya fece un passo verso il giovane. «Come ti chiami?» «Stephen.» Soraya annuì. «Io mi chiamo Soraya, Stephen. Ti prego, dimmi: erano iraniani, questi sommozzatori?» «Ma guardalo» la interruppe Chalthoum. «Non sarebbe in grado di distinguere un iraniano da un indiano.» «I sommozzatori non erano arabi.» Chalthoum sbuffò. «Vedi che ho ragione? Sonny, gli iraniani sono persiani, discendono dai nomadi sciti-sarmati provenienti dall'Asia centrale. Sono musulmani sciiti, non arabi.» «Quello che volevo dire...» Stephen deglutì a fatica la saliva. «Quello che volevo dire è che i sommozzatori erano bianchi come me. Caucasici.» «Di che nazionalità erano?» chiese Soraya. «Americani» disse Stephen. «E allora?» Chalthoum stava perdendo la pazienza. Soraya si avvicinò al ragazzo. «Stephen, cos'hai sentito? Di cosa stavano parlando questi sommozzatori?» Dopo aver rivolto uno sguardo terrorizzato ad Amun, Stephen continuò: «Erano quattro. Era chiaro che stavano tornando da una vacanza, ma parlavano di licenza». Soraya cercò gli occhi di Chalthoum. «Militari.» «Così dice lui» brontolò. «Va' avanti.» «Avevano da poco finito la seconda immersione del giorno ed erano un po' storditi. Li ho aiutati a togliersi le bombole, ma si comportavano come se io non ci fossi. Comunque, si lamentavano perché erano stati richiamati. C'era stata una specie di emergenza, un incarico che sarebbe stato affidato a loro e che era venuto fuori dal nulla. Questo è quello che hanno detto.» «Non ha senso» commentò Chalthoum. «E chiaro che sta inventando tutto di sana pianta per salvarsi dalla galera a vita.» «Oh Dio!» A quelle parole di Amun, le ginocchia del ragazzo cedettero e gli uomini dovettero tenerlo ancora più forte per farlo stare in piedi. «Stephen.» Soraya si avvicinò e girò il viso del giovane verso di lei. Era pallido, e nei suoi occhi si vedeva soprattutto la parte bianca. «Dicci che altro hai sentito. I sommozzatori hanno parlato dell'incarico?» Il giovane scosse la testa. «Ho avuto l'impressione che non lo sapessero.» «Basta così!» urlò Chalthoum. «Portate via questo pezzo di carne rancida.» Stephen non la smetteva più di singhiozzare. «Ma sapevano qual era la destinazione.» Soraya alzò la mano per fermare gli uomini di Amun. «Qual era? Dove erano diretti quegli uomini?» «Avrebbero preso un aereo per Khartoum» disse Stephen tra le lacrime, «ovunque sia quel posto dimenticato da Dio.» *** Capitolo 19 Il segretario alla Difesa Halliday andò incontro al presidente al termine dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dopo aver mandato tutti in delirio con la notizia delle prove del coinvolgimento dell'Iran nel bombardamento dell'aereo americano su cui viaggiavano 181 passeggeri, il presidente si era fermato per una conferenza stampa estemporanea con i rappresentanti dei media che si erano raccolti intorno a lui come formiche intorno a una briciola di pane. Con aria compiaciuta diede loro una dozzina di frasi d'effetto da trasmettere in diretta o da passare ai rispettivi direttori, poi qualcuno gli sussurrò all'orecchio che il segretario Halliday lo stava aspettando per comunicargli notizie della massima importanza. Il presidente era euforico. Era passato molto tempo dall'ultima volta in cui un presidente americano aveva potuto rivolgersi a quel maestoso corpo delle Nazioni Unite adducendo prove talmente schiaccianti da sconvolgere i rappresentanti di Russia e Cina e lasciarli senza parole. Il mondo stava cambiando, e si rivoltava contro l'Iran come mai era successo prima. Il presidente, il cui intervento era dovuto in gran parte a Bud Halliday, ritenne che la prima persona con cui parlare di quel successo indiscusso dovesse essere proprio il segretario alla Difesa. «Stappa lo champagne!» gli urlò il presidente, facendogli un cenno da lontano, poi i due uomini entrarono nella lunga limousine blindata, antimina e antiproiettile. Di fronte a loro c'era l'addetto stampa, le cui guance erano rosse come quelle del presidente, che stringeva una bottiglia ghiacciata in mano. «Signore, se non le dispiace, rimanderei i festeggiamenti» disse Bud Halliday. «Dispiacermi?!» esclamò il presidente. «Certo che mi dispiace! Solly, apri lo champagne!» «Signore» insistette Halliday, «c'è stato un incidente.» Il presidente rimase di stucco, poi si voltò piano verso il segretario alla Difesa. «Che tipo di incidente, Bud?» «Veronica Hart, la direttrice della CIA, è morta.» Il presidente sbiancò di colpo. «Cristo santo, cos'è successo, Bud?» «Pensiamo a un'autobomba. C'è un'indagine in corso, ma questa è la teoria più recente.» «Ma chi...?» «Il Dipartimento della Sicurezza Interna, l'ATF e l'FBI stanno operando in modo congiunto sotto la direzione della NSA.» «Bene.» Il presidente, adesso di nuovo concentrato, annuì brusco. «Prima risolviamo questo casino dell'autobomba, meglio sarà.» «Come al solito siamo sulla stessa lunghezza d'onda, signore.» Halliday lanciò uno sguardo in direzione di Solly. «A proposito, è il caso di organizzare una conferenza stampa generale. Dopo l'incidente aereo, l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono le illazioni su un'altra bomba e sui terroristi.» «Solly, faccia preparare i giornalisti» ordinò il presidente, «poi si dia da fare per rilasciare un comunicato stampa ufficiale. Lavorerà insieme al segretario Halliday, okay?» «Certo, signore.» Solly ripose la bottìglia gocciolante nel cestello del ghiaccio e iniziò a telefonare ai suoi contatti. Halliday aspettò che l'addetto stampa fosse impegnato nella prima conversazione. «Signore, dobbiamo pensare a un sostituto alla direzione della CIA.» Prima che il presidente avesse il tempo di rispondere qualcosa, continuò: «Mi sembra giusto sottolineare che l'esperimento di scegliere una persona dal settore privato abbia fatto il suo corso. In ogni caso, dobbiamo muoverci al più presto». «Mi fornisca una lista dei dirigenti della CIA.» «Senz'altro.» Halliday mandò un SMS al suo ufficio, poi alzò lo sguardo. «La lista sarà sulla sua scrivania nel giro di un'ora.» Ma il suo viso era ancora scuro. «Che c'è, Bud?» «Niente, signore.» «Su, andiamo. Ci conosciamo da tanto tempo... Ha qualcosa in mente, e questo non è il momento di tirarsi indietro.» «Okay.» Halliday sospirò. «Credo che sia ora di fondere tutte le organizzazioni dell'intelligence in un unico grande organico che condivida informazioni, prenda decisioni coordinate ed elimini la burocrazia che tanto odiamo tutti quanti.» «Ho già sentito questa idea in passato, Bud.» Halliday si sforzò di reprimere una smorfia. «Nessuno lo sa meglio di me, signore, e la capisco. In passato lei ha seguito il direttore della CIA, chiunque fosse.» Il presidente si morse il labbro inferiore. «La storia ci insegna, Bud. La CIA è la più antica delle organizzazioni di intelligence. Sotto molti punti di vista è il nostro fiore all'occhiello. Capisco perché vuole metterci le mani sopra.» Invece di perdere tempo a negare la verità, Halliday decise di provare una tattica diversa. «La crisi attuale è un altro dei motivi. Stiamo avendo molte difficoltà a coordinarci con la CIA, in particolare con la Typhon, che molto probabilmente dispone delle informazioni di cui abbiamo bisogno per assicurarci che la ritorsione contro l'Iran non si riveli un passo falso.» Il presidente guardò fuori dal finestrino appannato, osservando i monumentali edifici pubblici nel cuore del distretto. «Hai ricevuto i soldi per... lo sai... per... com'è che avete chiamato l'operazione?» Il segretario alla Difesa smise di inseguire il treno dei pensieri del presidente. «Pinprick, signore.» «Ma chi inventa questi nomi?» Halliday comprese che il suo superiore non voleva davvero una risposta, il presidente si voltò di nuovo verso di lui. «Chi hai in mente?» Con la scelta già in cima ai suoi pensieri, Halliday si trovò pronto a rispondere. «Danziger, signore.» «Davvero? Pensavo avresti proposto il tuo zar dell'intelligence.» «Jaime Hernandez deve ancora crescere. Abbiamo bisogno di qualcuno con più esperienza.» «Giusto» riconobbe il presidente. «Chi diavolo è questo Danziger?» «Errol Danziger. Il vicedirettore della SIGINT per l'Analisi e la produzione.» Il presidente tornò di nuovo a contemplare la strada che scorreva fuori dal finestrino. «L'ho già incontrato?» «Sì, signore, due volte. L'ultima è stata quando al Pentagono si è tenuta la riunione...» «Rinfrescami la memoria, per favore.» «Ha portato i fogli che poi Hernandez ha distribuito.» «Non me lo ricordo.» «Non mi sorprende, signore. Non ha niente di particolare.» Halliday soffocò una risata. «Ed è proprio per questo che è stato così prezioso durante il periodo in cui ha lavorato sul campo. Ha lavorato nel Sudest asiatico prima di entrare nel Direttorato delle Operazioni della NSA.» «Lavoro sporco?» Halliday rimase sbigottito per la domanda, ma non trovò alcun motivo per mentire. «Esatto, signore.» «E poi è tornato per riferire tutto.» «Sì, signore.» Il presidente produsse un rumore quasi impercettibile in gola. «Lo aspetto nello Studio Ovale alle...» Schioccò le dita per attirare l'attenzione dell'addetto stampa. «Solly, c'è un buco nel pomeriggio?» Solly mise la chiamata in attesa e fece scorrere alcune schermate nel suo palmare. «Alle 17:25, signore. Ma ha soltanto dieci minuti prima della conferenza stampa. Dobbiamo essere in onda con il notiziario delle sei.» «Certo.» Il presidente alzò una mano sorridendo. «Alle 17:25, Bud. Dieci minuti sono più che sufficienti per decidere.» Poi, in modo repentino, passò a occuparsi di altre questioni: un ordine del giorno pieno di sconfortanti problemi di sicurezza, al termine del quale non lo aspettavano di certo un bagno caldo e una buona cena, ma una conferenza telefonica con il direttore del Protocollo per decidere chi invitare ai funerali di Stato della direttrice della CIA, Veronica Hart. Il ragazzo che lavorava per Herrera si era introdotto furtivamente nella stanza alcuni secondi dopo che Bourne aveva preso il telefono in mano. Ora stava premendo la canna di una Beretta Px4 9mm contro la tempia sinistra di Tracy. La ragazza aveva gli occhi sgranati, ed era rimasta immobile, seduta perfettamente eretta sul bordo del divano. «Mio caro amico» disse Fernando Herrera prendendo il cellulare dalla mano di Jason, «non so chi sei, ma una cosa la so: non trarrò alcun vantaggio a minacciare te.» Il suo sorriso era dolce, quasi gentile. «Invece, se ordinerò a Fausto di far saltare le cervella della signorina... Perdoni la crudezza delle mie parole, senorita Atherton... a meno che tu non mi dica chi sei, credo che sarai più incline a raccontarmi la verità.» «Ammetto di averla sottovalutata, Don Herrera» disse Bourne. «Adam, per favore, digli la verità» lo supplicò Tracy, spaventata. «So che sei un truffatore, così come so che sei venuto per raggirarmi e appropriarti del mio Goya, che però il professor Alonzo Pecunia Zuniga, il vero Don Alonzo, mi ha confermato essere autentico.» Indicò Tracy. «Mi ha anche assicurato che la senorita è una persona genuina. Come l'hai convinta a far parte del tuo piano sono affari vostri e non mi interessa.» Ma nella sua espressione si leggevano lo sgomento e il disappunto per la caduta di stile di Tracy. «Quello che voglio sapere è chi sei e quale dei miei nemici ti ha pagato per truffarmi.» Tracy stava tremando. «Adam, per l'amor del cielo...» Herrera alzò la testa. «Forza, forza, senor Truffatore, non hai il diritto di torturare così questa povera ragazza.» Era il momento di agire, Jason lo sapeva. Sapeva anche che la situazione era sul filo del rasoio. Herrera aveva una doppia faccia. Visto dal di fuori sembrava improbabile che un gentiluomo di Siviglia così distinto potesse ordinare al ragazzo di premere il grilletto. D'altra parte, però, il lavoro illecito nei campi di petrolio colombiani tradiva la sua attuale identità tanto perbene. In fondo poteva ancora essere quell'uomo violento che aveva sconfitto, raggirato e intimidito tutti gli altri per fare fortuna all'interno del settore petrolifero. Non si potevano portare a termine affari di successo con la Tropical Oil Company se non si aveva un cuore duro come il marmo e non si era sparso un po' di sangue intorno. In ogni caso, però, Bourne non poteva giocare con la vita di Tracy. «Ha ragione, Don Herrera. Le porgo le mie scuse» disse infine. «Ecco la verità: mi ha mandato uno dei suoi nemici, ma non per portarle via il Goya.» Tracy sgranò gli occhi. «Ho solo usato questo espediente per riuscire a incontrarla.» Gli occhi di Don Fernando Herrera luccicarono, mentre prendeva una sedia per sistemarsi di fronte a Bourne. «Continua.» «Mi chiamo Adam Stone.» «Perdonami se sono scettico.» Fece schioccare le dita. «Il passaporto. E usa la mano sinistra. Non vorrai mica allarmare Fausto!» Bourne eseguì gli ordini. Con i polpastrelli della mano sinistra tirò fuori il passaporto, che Herrera analizzò come se fosse un agente speciale dell'Ufficio immigrazione. Riconsegnando il documento al proprietario, aggiunse: «Bene, senor Stone, di cosa ti occupi?». «Sono un professionista freelance in... chiamiamole armi di natura speciale.» Herrera scosse la testa. «Sono confuso.» «Don Herrera, lei conosce un mercante balinese di nome Wayan.» «No.» Bourne ignorò la bugia. «Io lavoro per le persone che riforniscono Wayan.» «Adam, ma che significa? Hai detto che cercavi dei capitali per l'avviamento della tua società di e-commerce» intervenne Tracy. Dopo queste parole, Herrera si appoggiò allo schienale della sedia, intento, a quanto pareva, a osservare Bourne sotto una nuova luce. «Senorita Atherton, sembra proprio che Adam Stone le abbia mentito con la stessa facilità con cui ha mentito a me.» Jason sapeva di rischiare molto. Aveva calcolato che l'unico modo per assumere il controllo della situazione era sorprendere il colombiano. In questo sembrava aver avuto successo. «La domanda è: perché?» Bourne vide l'opportunità di far pendere la bilancia in suo favore. «Le persone che mi hanno mandato... le stesse che riforniscono Wayan...» «Ti ribadisco che non conosco nessun Wayan.» Bourne alzò le spalle. «Le persone per cui lavoro la pensano in modo diverso. A loro non piace come conduce i suoi affari. La vogliono fuori dal giro.» Don Herrera si mise a ridere. «Fausto, hai sentito?» Si piegò in avanti avvicinando il viso a quello di Bourne. «Mi stai minacciando, Stone? Percepisco delle vibrazioni non proprio positive in casa mia.» Nella sua mano comparve un pugnale dal manico intarsiato di giada, la lunga lama affusolata come le sue dita. La spinse in avanti fino a sfiorare la pelle sopra il pomo d'Adamo di Bourne. «Dovresti saperlo che non reagisco molto bene alle minacce.» «Quello che succederà a me, non ha importanza.» «Il sangue della senorita scorrerà per colpa tua.» «Sa benissimo quanto siano potenti le persone per cui lavoro. Quel che sarà, sarà.» «A meno che non cambi il modo in cui conduco i miei affari, vero?» Bourne percepì il tentennamento di Herrera prima ancora che pronunciasse quelle parole. Non negava più il coinvolgimento nel traffico di armi. «Esatto.» Don Herrera sospirò e fece un gesto a Fausto, che ripose la Beretta alla cintura. Poi gettò il pugnale su uno dei cuscini del divano e, battendosi le mani sulle cosce, disse: «Credo, senor Stone, che una passeggiata in giardino farebbe bene a entrambi». Fausto fece scattare la serratura delle portefinestre ed Herrera e Bourne uscirono sul sentiero lastricato. Il giardino era un ottagono, che pareva circondato dalle possenti braccia della casa. C'erano piante di limoni e, al centro, una fontana in stile moresco all'ombra di una palma. Qui e là c'erano delle panchine di pietra. L'aria era carica del profumo dei limoni, le cui foglie uscivano dai bozzoli dell'inverno come farfalle. Dato che faceva fresco, Don Herrera indicò una panchina al sole. Quando si furono seduti fianco a fianco iniziò a parlare: «Devo ammettere che Evsen mi sta sorprendendo. Mi manda un uomo che non solo è un criminale, ma possiede anche una saggezza fuori dal comune». Inclinò leggermente la testa, come a voler sollevare il cappello in segno di rispetto nei confronti di Bourne. «Quanto ti paga quel figlio di puttana di un russo?» «Non abbastanza.» «Eh, già, Evsen... un fottuto tirchio!» Bourne si mise a ridere. Aveva rischiato, ma ora raccoglieva i suoi frutti. Aveva avuto la risposta che cercava. Era Nikolaj Evsen che riforniva Wayan. Ed era stato sempre lui a mandare Scarface a seguirlo da Bali fino alla corrida. Ancora non sapeva perché lo volesse morto, ma era convinto di aver fatto un enorme passo in avanti verso la soluzione di quel mistero. Riuscì a farsi un'idea più precisa sul conto di Don Fernando Herrera: era il rivale di Nikolaj Evsen. E se Bourne avesse convinto Herrera che poteva corromperlo e portarlo dalla sua parte, Herrera gli avrebbe rivelato tutto ciò che sapeva sul conto di Evsen, incluso quello che aveva bisogno di scoprire. «Di sicuro non abbastanza per ritrovarsi un coltello puntato alla gola.» «Sono il primo a essere rammaricato per essere stato costretto a farlo.» I solchi del viso di Herrera si rilassarono sotto i raggi del sole. L'uomo aveva accantonato il suo orgoglio fiero per interpretare il ruolo del gentiluomo, una fermezza granitica invidiabile. «Conosco la sua storia. So cos'ha fatto in Colombia» disse. «So che ha sfidato la Tropical Oil Company.» «Sì, be', è stato tanto tempo fa.» «L'intraprendenza «Senti chi parla.» Il colombiano lo guardò di traverso in maniera scaltra. «Dimmi un po', secondo te, dovrei vendere il mio Goya alla senorita Atherton?» «Lei non ha niente a che fare con me» disse Burne. «Molto cavalleresco da parte tua, ma non è la verità.» Herrera alzò un dito in tono di ammonimento. «Era pronta a prendersi il Goya a un prezzo ingiusto.» «Questo dimostra soltanto che è una donna d'affari in gamba.» Herrera scoppiò in una risata. «Giusto... Immagino che non mi dirai mai il tuo vero nome.» «Ha controllato il mio passaporto.» «Lo prendo come un insulto alla mia intelligenza.» «Quello che volevo dire è che un nome vale l'altro» disse Bourne, «soprattutto nel nostro campo.» Herrera iniziò a tremare. «Cristo, si sta facendo freddo.» Si alzò. Le ombre si erano allungate durante la loro chiacchierata. Era rimasta soltanto una striscia di sole nella parte superiore della facciata occidentale, mentre il giorno scompariva in una notte effimera. «Torniamo dalla donna d'affari, ti va? Andiamo a scoprire quanto è forte il suo desiderio di avere il mio Goya.» Errol Danziger, l'attuale vicedirettore della SIGINT per l'Analisi e la produzione, stava leggendo in contemporanea su tre schermi diversi i rapporti in tempo reale dall'Iran, Egitto e Sudan, e prendeva appunti. Di tanto in tanto parlava anche al microfono attaccato alle cuffie, comunicando in un linguaggio in codice che lui stesso aveva ideato, nonostante stesse utilizzando una linea criptata della NSA. Il segretario alla Difesa Bud Halliday trovò Danziger intento ad analizzare e coordinare le informazioni, nonché gli elementi remoti della più segreta delle missioni top secret. Quelli che lavoravano a stretto contatto con lui lo soprannominavano l'Arabo, per via delle tante missioni che aveva portato a termine con successo contro gli estremisti islamici di tutte le sette religiose. Non c'era nessun altro nella stanza, erano da soli. Danziger alzò la testa per un attimo, indirizzando al suo capo un'espressione deferente prima di tornare al lavoro. Halliday si mise a sedere. Il trattamento poco cortese riservatogli da Danziger non lo disturbava: fosse stato un altro, si sarebbe preso una bella lavata di capo. Danziger era speciale e meritava un trattamento speciale. Anzi, il fatto che fosse tanto concentrato significava che tutto stava andando per il meglio. «Dammi il tuo spuntino, Triton» disse Danziger al microfono. «Spuntino» era la parola in codice per «programma». «In posizione. Bardem ha fatto centro.» Triton era il nome in codice di Noah Perlis, il segretario lo sapeva. Era responsabile di Bardem, il programma che faceva le analisi di tutte le variabili in tempo reale. «Inizia la Final Four» disse l'Arabo. La «Final Four», l'ultima fase della missione. Halliday ebbe un tuffo al cuore. Erano ormai vicini al traguardo, a un passo dal più potente colpo di Stato che un funzionario americano fosse mai riuscito a portare a termine. Contenendo l'entusiasmo, disse: «Spero che questa sessione finisca presto». «Dipende» rispose Danziger. Halliday gli si avvicinò. «Fa' in modo che succeda. Abbiamo un appuntamento con il presidente fra meno di tre ore.» Quelle parole colpirono l'attenzione di Danziger, che spostò lo sguardo dagli schermi e parlò al microfono. «Triton, cinque.» Poi schiacciò un interruttore per mettere in attesa. «Hai incontrato il presidente?» Halliday annuì. «Ho fatto il tuo nome, e sembra interessato.» «Interessato tanto da incontrarmi, ma non è ancora fatta.» Il segretario alla Difesa fece un sorriso carico di significato. «Non c'è di che preoccuparsi. Non sceglierà nessuno dei candidati interni alla CIA.» L'Arabo annuì. Sapeva meglio di chiunque altro quale ascendente esercitasse il suo capo sul presidente. «Sta accadendo qualcosa in Egitto.» Halliday si piegò più in avanti. «Cioè?» «Soraya Moore, che conosciamo entrambi, e Amun Chalthoum, il capo dell'intelligence egiziana, stanno ficcando il naso in giro per la fattoria.» La «fattoria» era il nome in codice che si riferiva al teatro dell'operazione. «Cos'hanno scoperto?» «La prima squadra si trovava in licenza quando gli ordini sono stati trasmessi. A quanto pare gli uomini erano talmente furiosi per essere stati richiamati dalla licenza che si sono lamentati e a qualcuno è giunto all'orecchio qual era la loro destinazione.» Halliday si accigliò. «Mi stai dicendo che la Moore e Chalthoum sanno che la squadra è diretta a Khartoum?» Danziger annuì. «Questo problema va stroncato sul nascere, è l'unica soluzione.» Halliday rimase sconcertato. «Ma come? E i nostri uomini...?» «Hanno violato il protocollo di sicurezza.» Il segretario scosse la testa. «Sì, ma...» «Arginare, Bud, dobbiamo arginare finché siamo in tempo.» L'Arabo diede un colpetto sul ginocchio di Halliday. «Pensala come fosse un altro spiacevole caso di fuoco amico.» Halliday si lasciò andare sulla sedia, si strofinò il viso con la mano. «E una cosa positiva che gli uomini abbiano un'infinita capacità di razionalizzare» considerò. Prima di girarsi di nuovo verso gli schermi, Danziger disse: «Bud, questa è la mia missione. Io ho ideato Pinprick e l'ho progettato fino all'ultimo dettaglio. Ma tu l'hai approvata. E sono certo che non permetterai che quattro figli di puttana qualunque facciano cadere le nostre teste». *** Capitolo 20 Don Fernando Herrera si fermò davanti alla portafinestra, alzò un dito e guardò dritto negli occhi di Bourne. «Prima di tornare dentro, vorrei chiarire una cosa. In Colombia ho preso parte alla guerra tra l'esercito e i guerriglieri indigeni, una lotta tra fascismo e socialismo. Entrambe le fazioni sono deboli e imperfette, perché una cerca soltanto di controllare l'altra.» Le ombre azzurre di Siviglia gli conferivano un aspetto bramoso e famelico, come un lupo che avvista la preda. «Io sono stato addestrato, insieme ad altri come me, a uccidere una vittima che non è più in grado di difendersi, di reagire. Si chiama delitto perfetto. Mi capisci?» Continuò a scrutare il volto di Bourne come se lo stesse passando ai raggi X. «So che non sei stato mandato da Nikolaj Evsen o da Dimitrij Maslov, suo socio non operante. Come faccio a saperlo? Anche se non so praticamente niente di te, compreso il tuo vero nome, che comunque è soltanto un dettaglio, so che non sei il tipo da lavorare per conto di qualcun altro. Il mio istinto mi dice questo, perché il mio istinto è imbevuto del sangue dei miei nemici, che ho fissato spesso negli occhi mentre vuotavano il sacco, uomini che misurano la loro intelligenza solo sulla base dello zelo e della fortuna.» Bourne si sentiva galvanizzato. E così Evsen e Maslov erano soci. Aveva incontrato Maslov a Mosca diversi mesi prima, quando il capo della grupperovka si trovava nel bel mezzo di una guerra con una famiglia rivale. Il fatto che ora stesse con Evsen significava che aveva vinto la guerra e consolidato il suo potere. E se fosse Maslov, e non Evsen, a volerlo morto? «Capisco» disse Bourne. «Lei non teme né Evsen, né Maslov.» «Non solo, ma non mi interesso proprio di loro» ribatté Herrera. «Invece tu mi interessi molto. Perché sei venuto da me? Non l'hai fatto né per il mio Goya, né per la senorita là dentro, per quanto possa essere bella e desiderabile. Quindi, cosa vuoi davvero?» «Sono stato seguito fin qui da un killer russo con una cicatrice su un lato del collo e un tatuaggio con tre teschi sull'altro.» «Ah sì, Bogdan Macin, meglio noto come il Torturatore.» Herrera si diede un colpetto sul labbro inferiore con il polpastrello dell'indice. «E così sei stato tu a uccidere quel bastardo, ieri alla Maestranza.» Guardò Bourne con uno sguardo pieno di stima. «Sono impressionato. Macin ha lasciato dietro di sé una scia di morti e mutilazioni, peggio di un tornado.» Anche Jason rimase impressionato. Le informazioni arrivavano a Herrera in maniera veloce e impeccabile. Si slacciò la camicia, mostrando la ferita al petto. «Ha cercato di spararmi a Bali. Ha comprato un Parker Hale M85 e un mirino telescopico Schmidt & Bender Marksman II da Wayan. E stato Wayan a farmi il suo nome. Ha detto che è stato lei a raccomandarlo a Macin.» Herrera sollevò le sopracciglia. «Devi credermi, io non so di cosa stai parlando.» Bourne afferrò il colombiano per il colletto della camicia e lo scaraventò contro la portafinestra. «Perché dovrei crederti?» lo minacciò a un centimetro dalla sua faccia. «Se l'uomo che ha comprato il Parker Hale non può essere Macin, come mai aveva gli occhi grigi?» In quel momento comparve Fausto da una portafinestra su un altro lato del giardino. Puntò la pistola verso Bourne, che stava già premendo il pollice contro la gola di Herrera. «Non voglio ferirti, ma scoprirò chi ha cercato di uccidermi a Bali.» «Fausto, siamo tutte persone civili, qui» disse Herrera, fissando l'americano negli occhi. «Metti via la pistola.» Il ragazzo obbedì e Bourne lasciò andare il colombiano. A quel punto si aprì la portafinestra e apparve Tracy. Guardò uno per uno tutti e tre gli uomini, poi domandò: «Ma che diavolo sta succedendo?». «Don Herrera sta per dirmi quello che ho bisogno di sapere» le rispose Jason. Lo sguardo della ragazza si posò sul colombiano. «E il Goya?» «Sarà suo, ma al prezzo di mercato» rispose Herrera. «Sono pronta a...» «Senorita, non metta alla prova la mia pazienza. Venderò il quadro al prezzo di mercato, e con lo scherzetto che ha tentato di giocarmi dovrebbe ritenersi fortunata.» Tracy tirò fuori il telefono. «Devo fare una chiamata.» «Prego» disse Herrera alzando un braccio. «Fausto, mostra alla senorita una stanza in cui potrà avere la sua privacy.» «Preferisco stare fuori» replicò la ragazza. «Come desidera.» Il colombiano si diresse verso l'interno, seguito dagli altri. Dopo che Fausto ebbe chiuso la porta, sparendo poi in fondo al corridoio, si girò verso Bourne e in un tono basso ma serio gli chiese: «Ti fidi di lei?». Harvey Korman stava addentando un panino di segale con formaggio Havarti e roast-beef, quando, con stupore, vide Moira Trevor e Humphry Bamber uscire dal Pronto soccorso del George Washington University Hospital senza il suo collega, Simon Herren. Korman lasciò venti dollari sul tavolo, si alzò, si infilò di corsa il giubbotto e si lanciò fuori dalla porta del bar di fronte all'entrata del Pronto soccorso. Korman era basso e un po' tozzo, con due guance rotonde e praticamente senza capelli. Con quel fisico e l'aria ordinaria, nessuno immaginava fosse un agente dell'intelligence, tanto meno un membro della Black River. Ma che diavolo succede?, si chiese, seguendo la coppia. Dove cavolo sta Simon? Noah Perlis gli aveva detto che la Trevor era pericolosa, ma lui non gli aveva dato troppo peso. Non che lui o Simon l'avessero mai incontrata, motivo per cui Noah aveva scelto proprio loro. Ma tutti alla Black River sapevano che Noah Perlis aveva un debole per Moira Trevor che ne influenzava quindi il giudizio. Non avrebbe mai dovuto essere il suo maestro alla Black River. Secondo Korman, Perlis aveva commesso errori fatali, compreso quello di utilizzare Veronica Hart come paravento in modo che Moira non pensasse che fosse stato lui a strapparle da sotto il naso la missione. Ma tutto questo faceva ormai parte del passato. Korman doveva concentrarsi sul presente. Voltò l'angolo e si guardò attorno, incredulo. Bamber e la Trevor stavano mezzo isolato davanti a lui. Dove diavolo erano finiti? «Da questa parte! Vieni!» Moira condusse Bamber nel negozio di biancheria all'angolo. Aveva due porte, una sulla parte nordovest della New Hampshire Avenue, e l'altra su quella della 1a Strada. Moira parlava al telefono, mentre aiutava Bamber ad attraversare il negozio e a uscire sulla New Hampshire Avenue, dove si confusero tra la folla. Cinque minuti e quattro isolati dopo, il taxi che Moira aveva chiamato accostò al marciapiede, e loro due vi salirono rapidi a bordo. Quando l'auto partì a gran velocità, lei spinse la testa di Bamber verso il sedile. Una frazione di secondo prima di abbassarsi anche lei, vide di sfuggita l'uomo dall'aria buffa che li aveva seguiti. Non c'era niente di buffo, però, nell'espressione torva che aveva mentre parlava al telefono, di certo con Noah, e lo aggiornava sulla situazione. «Qual è la destinazione?» chiese il tassista, girandosi verso il sedile posteriore. Moira realizzò che non sapeva dove poteva andare. «Conosco un posto» propose Bamber con un po' di esitazione, «un posto dove non potranno trovarci.» «Tu non sai con chi hai a che fare» disse Moira. «Ormai Noah ti conosce meglio di tua madre.» «Ma non conosce questo posto» insistette Bamber. «Non lo conosceva nemmeno Steve.» «Perché dovrei fidarmi di qualcuno?» chiese Bourne, cominciando a parlare in un tono più confidenziale. «Perché, amico mio, nella vita bisogna pur fidarsi di qualcuno. Altrimenti la paranoia e la voglia di morire hanno la meglio.» Herrera versò tre dita di tequila Asom-Broso Anejo in due bicchieri, e ne allungò uno a Jason. Sorseggiò il suo, poi aggiunse: «Io non mi fido delle donne, punto e basta. Tanto per cominciare parlano troppo, soprattutto tra di loro». Camminò verso la parete piena di libri e fece scorrere le dita lungo i dorsi rilegati. «Nel corso della storia non si contano gli uomini, sacerdoti, principi eccetera, mandati in rovina dalle confidenze indiscrete fatte dalle donne ai loro mariti.» Si voltò. «Mentre noi per il potere lottiamo e uccidiamo, loro se lo prendono così.» Bourne si strinse nelle spalle. «E di sicuro tu non le biasimi.» «Invece sì che le biasimo!» Herrera finì il suo bicchiere di tequila. «Quelle stronze sono la causa di tutti i mali.» «E così, escludendo Tracy, mi rimani solo tu a cui credere.» Detto questo, Bourne appoggiò il bicchiere che non aveva toccato. «Il problema, Don Herrera, è che mi hai già dimostrato che non posso fidarmi di te. Mi hai già mentito una volta.» «E quante volte mi hai mentito, tu, da quando hai varcato quella porta?» Il colombiano attraversò la stanza, prese la tequila di Bourne e la bevve tutta d'un fiato. Fece schioccare le labbra e si pulì la bocca con il dorso della mano. «L'uomo che ti ha descritto Wayan, quello che ha cercato di ucciderti, è stato mandato da uno dei vostri.» «Voglio il nome del killer.» «Boris Illic Karpov.» Bourne rimase pietrificato, incapace di credere a quello che aveva appena sentito. «Ci dev'essere un errore.» Herrera scosse la testa. «Lo conosci?» «Perché un colonnello della FSB-2 dovrebbe lavorare per un americano?» «Non un semplice americano» puntualizzò il colombiano. «Il segretario alla Difesa Ervin Reynolds Halliday, che, come sappiamo entrambi, è l'uomo più potente del pianeta. E non è stato ingaggiato da lui, comunque.» Ma non poteva essere Boris, si disse Bourne. Boris era un amico, lo aveva aiutato a Reykjavik e a Mosca, dove si era presentato a un incontro con Dimitrij Maslov, del quale era chiaramente amico. E se quei due fossero più che amici? Se Boris fosse un alleato di Evsen insieme a Maslov? Iniziò a sudare freddo. La ragnatela in cui era caduto si allargava in maniera esponenziale a mano a mano che scopriva i fili collegati tra di loro. «Ma tieni...» Herrera si era allontanato per un momento per cercare qualcosa nel cassetto dello scrittoio. Quando si voltò di nuovo verso Bourne, aveva una cartelletta in manila in una mano e un registratore portatile nell'altra. «Dai un'occhiata a questi.» Bourne aprì la cartelletta e vide alcune foto scattate da una telecamera di sorveglianza. Erano sgranate e in bianco e nero, ma si potevano riconoscere le figure di due uomini impegnati in una conversazione piuttosto seria. Anche se i volti erano in primo piano, erano sfocati a causa della luce troppo forte. «Si sono incontrati in una birreria di Monaco» spiegò Herrera con aria disponibile. Bourne riconobbe i tratti di Boris. L'altro uomo, più anziano e più alto, era probabilmente americano. Si trattava proprio del segretario alla Difesa, Bud Halliday. Poi notò la data elettronica stampata sull'immagine. Risaliva a qualche giorno prima che gli sparassero. «E un'immagine ritoccata con Photoshop» disse restituendo la foto. «Non posso darti torto.» Herrera gli porse il registratore portatile come fosse un premio. «Ma forse questo ti convincerà che le foto non sono ritoccate.» Quando Bourne premette il tasto play, quello che riuscì a distinguere dal rumore di sottofondo fu: « Uccida Jason Bourne e io userò tutto il potere del governo americano per mettere Abdullah Khoury al suo posto». «Non è abbastanza, Mr. Smith. Occhio per occhio e dente per dente è il vero significato di do ut des.» «Noi non siamo degli assassini, colonnello Karpov.» « Certo che no. Non importa, segretario Halliday. Io non mi faccio tanti scrupoli.» Dopo una breve pausa, Halliday continuò: «Nella foga del momento ho dimenticato il nostro protocollo, Mr. Jones. Mi invii l'intero contenuto dell'hard disk e procederemo». «D'accordo.» Bourne premette stop e guardò Herrera. «Di che hard disk stanno parlando?» «Non ne ho idea, ma come potrai immaginare sto cercando di scoprirlo.» «Come hai avuto questa roba?» Il colombiano sorrise e mise l'indice davanti alla bocca. «Perché Boris dovrebbe volermi morto?» «Il colonnello Karpov non me l'ha detto quando è venuto a chiedere il favore.» Herrera alzò le spalle. «Ma, com'è mia consuetudine, ho controllato il telefono dal quale stava chiamando. Era un satellitare ed era localizzato a Khartoum.» «A Khartoum...» ripetè Bourne. «Magari al 779 di el-Gamhuria Avenue, dove si trova il quartier generale di Nikolaj Evsen.» Herrera sgranò gli occhi. «Adesso sì che sono davvero impressionato.» Bourne si chiuse in un silenzio meditativo. C'era, forse, una connessione tra Boris e Nikolaj Evsen? Era possibile che fossero alleati anziché nemici? Quale piano diabolico poteva far lavorare insieme quei due, spingendo Boris a volere la sua morte e, una volta scoperto che era ancora in vita, a ingaggiare il Torturatore per terminare il lavoro? C'era qualcosa che non tornava, ma non era quello il momento di cercare di capire cosa potesse essere, perché Tracy aveva appena aperto la portafinestra per entrare in casa. «Il tuo principale ha preso una decisione?» le chiese Herrera, sorridendo. «Vuole il Goya.» «Fantastico!» Don Herrera si fregò le mani. Sogghignava come un gatto che ha appena catturato un bocconcino raro e molto appetitoso. «Il mondo non ha idea di chi sia Noah Petersen, ma ho l'impressione che per la nostra amica qui non sia lo stesso.» Alzò le sopracciglia e rivolse un'occhiata a Bourne. «Non dici niente? Non importa. Noah Petersen è il principale della senorita Atherton.» Tracy fissò Bourne. «Conosci Noah? Com'è possibile?» «Il suo vero nome è Noah Perlis.» Bourne guardò i due, attonito. La ragnatela aveva raggiunto una dimensione completamente nuova. «Lavora per una compagnia militare americana, chiamata la Black River. Ho avuto a che fare con lui in passato.» «Ma quante ne sai!» esclamò Herrera. «Il mondo è pieno di camaleonti, e guarda caso si conoscono tutti tra di loro.» Voltò le spalle a Jason e fece a Tracy un fìnto inchino. «SenoritaAtherton, perché non dice al signore dove dovrà consegnare il Goya?» Vedendo che Tracy esitava, rise in maniera cordiale. «Avanti, non ha niente da perdere. Ci fidiamo tutti gli uni degli altri, qui, non è vero?» «Devo consegnare il Goya di persona a Khartoum» rispose Tracy. Bourne rimase senza fiato. Che diavolo stava succedendo? «Per favore, non dirmi che lo devi consegnare al 779 di el-Gamhuria Avenue.» La bocca di Tracy si spalancò per lo stupore. «Come fai a saperlo?» Herrera scosse la testa. «E una domanda a cui tutti noi vorremmo dare una risposta.» Capitolo 21 «Americani! Cristo santo, questa è pura follia!» imprecò Soraya. Si aspettava un commento pungente di Amun, che invece rimase muto a fissarla con i suoi grandi occhi da scarabeo. «Un gruppo di militari americani in licenza qui a Hurghada viene richiamato per una missione che dovrebbe iniziare a Khartoum più o meno due settimane prima che un Kowsar 3 iraniano mandi in frantumi un velivolo americano nello spazio aereo egiziano. Non è possibile.» Soraya si passò una mano tra i folti capelli neri. «Maledizione, Amun, di' qualcosa!» Erano seduti al tavolo di un ristorante sul lungomare, cercando di mandare giù qualcosa giusto perché sapevano di doverlo fare. Soraya non aveva per niente fame, e anche Amun non sembrava avere un grande appetito. Vicino a loro sedevano tre dei suoi uomini. Tenevano d'occhio Stephen che si stava ingozzando come se fosse l'ultimo pasto della sua vita. Il disco rossastro del sole galleggiava nel desolato cielo senza nuvole proprio sopra la linea dell'orizzonte. Chalthoum con la forchetta scansò il cibo da una parte del piatto. «Io sono sempre dell'idea che il ragazzo stia mentendo per salvarsi la pelle» disse in maniera stizzita. «E se non fosse così? Il proprietario ha confermato la sua versione. Quattro americani hanno usato la sua barca per immergersi più o meno due settimane fa per tre giorni di fila, hanno pagato in contanti e se ne sono andati all'improvviso, tutto questo senza mai rivolgere la parola a nessuno.» «Ma potrebbe trattarsi di chiunque.» Amun lanciò un'occhiata velenosa al prigioniero. «Come storia è avvincente, non è vero?» «Amun, credo che non possiamo permetterci di prendere in considerazione l'ipotesi che stia mentendo. Penso che dovremmo andare a Khartoum.» «E abbandonare la pista dei terroristi iraniani entrati qui in Egitto?» Scosse la testa. «Neanche per sogno.» Soraya aveva già il cellulare in mano, pronta a chiamare Veronica Hart. Se stava partendo per Khartoum, con o senza Amun, doveva riferirlo alla direttrice della CIA. Andare in Sudan era una faccenda seria. Iniziò a preoccuparsi sentendo il telefono squillare senza che la segreteria entrasse in funzione. Alla fine rispose una voce maschile. «Chi parla?» «Soraya Moore. Ma chi diavolo sei?» «Sono Peter, Soraya. Peter Marks.» Marks era il capo delle Operazioni della CIA. Un tipo sveglio e affidabile. «Perché rispondi tu al cellulare privato della Hart?» «Soraya... la Hart è morta.» «Che cosa!?» A Soraya si gelò il sangue nelle vene. «Morta? Come è potuto...?» La sua voce sembrava debole, smorzata, lontana. A poco a poco realizzò di essere sotto shock. «Cos'è successo?» «C'è stata un'esplosione... Pensiamo a un'autobomba.» «Oh, mio Dio!» «C'erano altre due persone con lei: Moira Trevor e un tizio di nome Humphry Bamber, un programmatore.» «Sono sopravvissuti o sono morti?» «Probabilmente sono sopravvissuti» rispose Marks, «anche se è soltanto una supposizione. Non abbiamo idea di dove siano finiti. Tutto quello che sappiamo è che sono responsabili della morte della direttrice della CIA.» «Oppure sono fuggiti per salvarsi.» «E un'altra possibilità» convenne Marks. «Dobbiamo quanto meno interrogarli come testimoni dell'incidente.» Si fermò per un istante. «Il fatto è che la Trevor è stata molto legata a Jason Bourne.» Stava succedendo tutto in maniera troppo veloce, Soraya non riusciva a tenere il passo nello stato in cui si trovava. «E un elemento rilevante?» replicò in tono brusco. «Non lo so, ma era molto legata anche a Martin Lindros. Qualche mese fa la direttrice della CIA aveva iniziato a condurre delle indagini per trovare un collegamento tra le due relazioni.» «Ho preso parte a quelle indagini» puntualizzò Soraya. «Non abbiamo trovato nulla. Martin e Moira Trevor erano solo amici. Punto.» «E ora sia Bourne sia Lindros sono morti.» Marks si schiarì la voce. «Sapevi che la Trevor era con Bourne quando lo hanno ucciso?» Il brivido di un presentimento le corse lungo la schiena. «No, non lo sapevo.» «Ho fatto qualche ricerca. Sembra che Moira lavorasse per la Black River.» Soraya si sentiva la mente confusa. «Anche la Hart ha lavorato per la Black River.» «Interessante, no? Ma c'è di più: la Trevor e Bamber sono stati ricoverati al Pronto soccorso del George Washington University Hospital meno di venti minuti dopo l'esplosione. Nessuno li ha visti uscire, ma... e qui viene il bello... un uomo con un distintivo governativo ha chiesto i loro nomi meno di cinque minuti dopo avere iniziato gli accertamenti.» «Qualcuno li ha seguiti.» «E quello che penso anche io» disse Marks. «Come si chiamava quell'uomo, e a quale dipartimento governativo appartiene?» «E una domanda da un milione di dollari. Non se lo ricorda nessuno. Era peggio di un manicomio, là dentro. Così ho controllato di persona. Le cose sono due: o lo stanno coprendo, o non è un agente governativo. D'altro canto non mi sorprenderebbe scoprire che il Dipartimento della Difesa ha autorizzato qualche membro della Black River a tenersi un distintivo governativo.» Soraya fece alcuni respiri profondi per calmarsi e per dar modo al suo cervello di mettere insieme i tasselli di quel puzzle. «Peter, la Hart mi ha inviata in Egitto per cercare di trovare delle notìzie sul Gruppo indigeno militante iraniano con cui la Black River ha avuto dei contatti, ma durante l'ultima conversazione che ho avuto con lei abbiamo deciso che avrei indagato per scoprire se l'ipotesi che i terroristi iraniani possano essere stati aiutati a trasportare il missile, probabilmente dai sauditi, potesse avere un fondamento.» «Oh, Gesù... e quindi?» «Il motivo per cui la stavo chiamando era che c'è una possibilità che gli iraniani non siano affatto coinvolti.» «Che cosa!?» sbottò Marks. «Starai scherzando?» «Lo vorrei tanto, ma due settimane fa quattro militari americani sono stati improvvisamente richiamati dalla licenza e spediti in missione a Khartoum.» «E allora?» «Amun Chalthoum e io stavamo cercando degli indizi che confermassero che i sauditi avessero aiutato i terroristi iraniani a trasportare il Kowsar 3 attraverso l'Iraq e il Mar Rosso, fino ad arrivare da qualche parte lungo la costa orientale dell'Egitto. I suoi uomini hanno scandagliato il litorale tutto il giorno, ma non è emerso niente di interessante, così abbiamo pensato a delle alternative. L'unico altro punto possibile per varcare il confine egiziano è a sud.» Soraya sentì il forte sospiro di Marks. «Cioè dal Sudan.» «E Khartoum sarebbe un'area strategica, un luogo in cui il Kowsar 3 potrebbe essere passato inosservato.» «Non capisco. Cosa c'entrano i nostri militari con i terroristi iraniani?» «E questo il punto. Non c'entrano niente» disse Soraya. «Stiamo prendendo in considerazione la possibilità che non siano coinvolti né gli iraniani, né i sauditi.» Marks fece una risata isterica. «Stai dicendo che siamo stati noi ad abbattere il nostro aereo?» «Il governo, no» replicò Soraya in tono serio. «Ma la Black River, sì.» «E una teoria folle.» «E se i terribili incidenti che stanno succedendo in America fossero connessi con quello che sta succedendo qui?» «Questo è troppo, anche per te.» «Ascoltami bene, Peter. Veronica Hart era molto preoccupata per gli attuali rapporti tra la NSA, nella fattispecie tra il segretario Halliday e la Black River. E ora è rimasta vittima di un'autobomba.» Lasciò che quelle parole risuonassero nell'aria per un secondo prima di continuare. «L'unico modo di svelare questo mistero è andare sul posto. Devo recarmi a Khartoum.» «Soraya, il Sudan è troppo pericoloso per un direttore...» «La Typhon ha degli agenti laggiù.» «Bene, lascia che siano loro a investigare.» «No, è una cosa troppo grossa, questa. Peter, è una rete molto ingarbugliata. E poi, dopo tutto quello che è successo, non mi fido più di nessuno.» «E ti fidi di questo Chalthoum? E il capo di al-Mukhabarat, Cristo santo!» «Credimi, ha da perdere tanto quanto noi in questa brutta storia.» «Comunque il mio ruolo mi impone di ricordarti che gli agenti della Typhon in zona possono garantire la tua incolumità.» Dal tono della sua voce, Soraya capì che Marks era d'accordo. «Nessuno può farlo, Peter. Tieni con te il telefono della Hart. Ti terrò informato.» «Va bene, ma...» Soraya chiuse la comunicazione e guardò verso Amun. «La direttrice della CIA è stata uccisa a Washington da un'autobomba. Qualcosa non quadra, Amun. Non c'entrano niente i terroristi iraniani, ne sono certa. Vieni con me a Khartoum?» Amun alzò gli occhi al cielo, poi sollevò le mani in aria. «Azitzi, mi lasci altra scelta?» Moira e Humphry Bamber scesero dal taxi a Foggy Bottoni e presero verso ovest, attraversarono un ponte e si incamminarono in direzione di Georgetown. Bamber stava davanti per indicare la strada. Era nervoso, procedeva a un passo talmente spedito che, di tanto in tanto, Moira doveva trattenerlo per un braccio perché era troppo agitato. Lungo la strada Moira controllava le vetrine e faceva finta di guardarsi in uno specchietto per vedere se qualcuno li stesse seguendo, a piedi o in auto. Solo quando fu certa di non essere pedinata, lasciò che Bamber la portasse a destinazione. Il luogo sicuro si trovava sulla R Street: era una villetta a mattoncini rossi in stile federale, con un tetto a mansarda in rame e quattro abbaini, davanti ai quali tubavano dei sonnolenti piccioni. Salirono delle scale di pietra e Bamber bussò a un'elegante porta di legno usando il batacchio in ottone. Un secondo dopo comparve un uomo magro con i capelli piuttosto lunghi, occhi verdi e zigomi spigolosi. «H, sembri... ma che ti è successo?» «Chrissie, lei è Moira Trevor. Moira, Christian Lamontierre.» «Il ballerino?» Bamber era già sulla soglia. «Moira mi ha salvato la vita. Possiamo entrare?» «Ti ha salvato...? Certo.» Lamontierre fece un passetto all'indietro nel piccolo ingresso, un gesto che fondeva insieme vigore ed eleganza impareggiabili. «Ma certo, che maleducato che sono!» Aveva la faccia terrorizzata. «State bene? Volete che chiami il mio medico?» «No, niente dottori» rispose secca Moira. Il padrone di casa accostò la porta pesante e Bamber la chiuse con due mandate. Notando il gesto, Lamontierre disse, indicando un soggiorno arredato magnificamente in grigio e crema: «Preparo qualcosa da bere». Era il regno della calma e della raffinatezza. Il tavolino era ricoperto di libri sulla danza classica e moderna; sulle mensole c'erano foto di Lamontierre sul palco e in pose informali con Martha Graham, Mark Morris, Bill T. Jones, Twyla Tharp e tanti altri. Si accomodarono su un divano a strisce grigie e argento, mentre Lamontierre attraversava la stanza per raggiungere la credenza, poi si voltò di colpo. «Vi si legge in faccia che avete bisogno di riposo e di qualcosa da mettere sotto i denti. Che ne dite se vado in cucina a preparare qualcosa?» Senza aspettare una risposta, si allontanò lasciandoli soli. Moira gliene fu grata: aveva molte domande da fare a Bamber e non voleva metterlo in imbarazzo. Humphry stava a un passo davanti a lei. Sospirò quando si appoggiò contro lo schienale del divano. «Verso i trent'anni mi sono reso conto che gli uomini non sono fatti per essere monogami, né fisicamente né sotto il profilo emotivo. Siamo stati creati per riprodurci, per continuare la nostra specie a tutti i costi. Essere gay non cambia questo imperativo biologico.» Moira si ricordò che le aveva detto che l'avrebbe portata in un posto che Stevenson non conosceva. «E così hai una storia con Lamontierre» concluse lei. «Parlarne con Steve significava ucciderlo.» «Quindi, lui sapeva?» «Steve non era uno stupido, anzi, era molto intuitivo, se non per le cose che lo riguardavano, quanto meno per quelle che riguardavano le persone che gli stavano intorno. Non so se sospettasse qualcosa. Comunque era insicuro. Aveva sempre paura che lo lasciassi.» Si alzò e versò dell'acqua in due bicchieri, porgendone uno a Moira. «Non lo avrei mai lasciato. Mai» disse tornando a sedersi sul divano. «Non ti giudico per questo.» «No? Be', sei la prima.» Moira bevve una lunga sorsata d'acqua; stava morendo di sete. «Raccontami di te e Noah Perlis.» «Quel figlio di puttana!» Bamber fece una smorfia. «Una guerra da niente, ecco cosa voleva da me. Una cosa talmente piccola che avrebbe potuto impacchettare e offrire come dono al suo cliente.» «Sei stato pagato bene, immagino.» «Preferirei dimenticare.» Bamber finì il suo bicchiere. «Quei soldi sporchi finiranno dritti dritti per la ricerca sull'AIDS.» «Torniamo a Noah» disse Moira con aria gentile. «Va bene.» «Mi puoi spiegare che cosa significa "una guerra da niente"?» In quel momento Lamontierre li chiamò e si alzarono. Bamber fece strada verso la cucina sul retro della casa. Moira era impaziente di scoprire la verità, ma il suo stomaco brontolava e sapeva di dover mangiare qualcosa per rimettersi in forze. Quando stava cercando casa, ne aveva visitate molte come quella. Lamontierre aveva fatto installare un lucernario per trasformare lo spazio buio e cupo in una cucina allegra e luminosa. Era di un giallo ocra intenso e il rivestimento dietro il piano di lavoro in granito era fatto di tessere di vetro che componevano un mosaico in stile bizantino oro, verde e blu. Si sedettero attorno a un tavolo antico. Lamontierre aveva preparato uova strapazzate, fettine di tacchino e pane integrale. Mentre mangiavano, il ballerino continuava a lanciare occhiate terrorizzate verso Bamber. Quando gli chiese che cosa gli fosse successo, lui rispose: «Non mi va di parlarne». Poi si accorse di averlo ferito, e aggiunse: «Lo faccio per il tuo bene, Chrissie, credimi». «Non so cosa dire, davvero» riprese Lamontierre. «Steve è morto...» «Meno se ne parla e meglio è» tagliò corto Bamber. «Mi dispiace. E tutto quello che volevo dire. Mi dispiace.» Finalmente Bamber alzò lo sguardo dal piatto accennando un sorriso. «Grazie Chrissie. Lo apprezzo molto. Scusami se mi sto comportando da vero stronzo.» «Ne ha passate molte, oggi» lo giustificò Moira. «Tutti e due ne abbiamo passate molte.» Gli occhi di Bamber tornarono sul piatto. Lamontierre guardò prima l'uno e poi l'altra. «Va bene, io devo allenarmi.» Si alzò. «Se avete bisogno di me, mi trovate nella sala prove di sotto.» «Grazie, Chrissie.» Lo sguardo di Bamber si era raddolcito. «Scendo tra poco.» «Fai pure.» Lamontierre si voltò verso Moira: «Signorina Trevor». Uscì dalla stanza, e i due si accorsero che non aveva toccato cibo. «E andata bene, no?» Moira cercò di alleggerire l'atmosfera, ma con scarsi risultati. Bamber si prese la testa fra le mani. «Mi sono comportato da grandissimo bastardo. Ma cosa mi sta succedendo?» «E lo stress» rispose Moira. «E tutto lo shock accumulato. Succede, quando si cerca a tutti i costi di far stare un chilo di merda in una scatola da mezzo chilo.» Bamber ridacchiò, ma quando sollevò la testa Moira notò che aveva gli occhi lucidi. «E per te non è lo stesso? O le autobombe fanno parte della routine quotidiana?» «A dire il vero, in passato era così. E non solo le autobombe: molto altro...» Humphry sgranò gli occhi. «Gesù, ma in che cosa mi ha coinvolto Noah?» «Vorrei che fossi tu a spiegarmelo.» «Mi disse che aveva un cliente che... voleva gestire scenari reali che si avvicinassero il più possibile a quelli delle simulazioni basate sul mondo reale. Gli risposi che non c'era niente di simile, sul mercato, ma che io ero in grado di creare un programma su misura per lui.» «In cambio di un compenso.» «E ovvio» disse brusco Bamber, «non gestisco mica un'organizzazione no-profit.» Moira si rimproverò: perché sei così dura con lui? Capì quasi subito che il suo malumore non aveva niente a che fare con Bamber. Aveva chiamato il dottor Firth a Bali, ansiosa di parlare con Willard per avere aggiornamenti riguardo al recupero di Bourne, ma le avevano detto che Willard era tornato a Washington. Il dottore non sapeva dove si trovasse Bourne, o per lo meno questo era quello che sosteneva. Tentò allora di chiamarlo sul cellulare, ma la chiamata veniva subito trasferita alla segreteria telefonica. Era molto nervosa, anche se cercava di mantenere la calma ripetendosi che se Jason era con Willard, si trovava al sicuro e in buone mani. «Va' avanti» disse a Bamber, provando un improvviso senso di vergogna e ripromettendosi di essere più gentile nei suoi confronti. L'uomo si alzò, gettò il cibo avanzato nella pattumiera e infilò i piatti nella lavastoviglie. Quando ebbe terminato pulì il tavolo e rimase in piedi dietro una sedia, con le mani aggrappate alla spalliera. Il rinnovato sentimento di paura creò un circuito di energia nervosa che non riusciva a contenere. «A essere onesti, credo che il suo cliente volesse testare una nuova formula per un fondo di investimento. E Noah mi ha offerto così tanti soldi che mi sono detto: al diavolo, ma chi se ne importa, in un paio di mesi mi faccio un bel po'di grana, poi qualsiasi cosa succeda avrò un bel gruzzolo da parte. Non è facile lavorare in proprio: se c'è un calo, un momento sfavorevole, ti trovi col culo per terra.» Moira si appoggiò allo schienale per un attimo. «Tu non sapevi che Noah lavorava per la Black River?» «Si è presentato come Noah Petersen. E tutto ciò che sapevo di lui.» «Vuoi dire che non controlli l'identità dei tuoi clienti?» «Non quando ti versano due milioni e mezzo di dollari sul conto corrente.» Alzò le spalle. «E poi mica sono un agente dell'FBI.» Moira non poteva biasimarlo. E in ogni caso sapeva quanto Noah potesse essere convincente, quanto fosse bravo a essere quello che non era. Recitava meglio di un attore di Hollywood. Così non doveva mai essere se stesso. «Durante la messa a punto di Bardem non ti sei mai reso conto che il programma non era destinato a un fondo d'investimento?» Sul volto di Bamber comparve una tristezza improvvisa. Annuì. «Soltanto verso la fine, però. Non mi sono venuti dei dubbi nemmeno quando Noah mi trasmise le istruzioni che il suo cliente gli aveva dato per ulteriori revisioni. Mi disse che dovevo ampliare i parametri dei dati reali fino a includere le reazioni del governo a un attacco terroristico, incursioni militari e cose simili.» «E questo non ti ha fatto scattare nessun campanello d'allarme?» Bamber sospirò. «Perché avrebbe dovuto? Fattori come questi sono importantissimi, per un fondo d'investimento, dal momento che influenzerebbero in maniera significativa i mercati finanziari. E per quanto ne so io, alcuni fondi d'investimento sono studiati apposta per trarre vantaggio dalle dislocazioni di mercato di breve durata.» «Ma a un certo punto hai capito che qualcosa non quadrava.» Bamber camminava per la cucina, sistemando oggetti che non avevano alcun bisogno di essere sistemati. «A ogni revisione continuavano a sorgere delle anomalie. Adesso vedo tutto in modo più chiaro.» Si interruppe di colpo. «E allora, invece?» Moira cercò di farlo proseguire. «Continuavo a ripetermi che andava tutto bène» disse con voce angosciata. «Mi concentravo sempre di più sugli algoritmi via via più complessi di Bamber. Di notte, quando venivo assalito dai dubbi, pensavo ai due milioni e mezzo di dollari che avevo investito in buoni del Tesoro, pensavo a quei soldi maledetti.» Si piegò sopra il lavandino, a testa bassa. «Poi un paio di giorni fa ho capito che non potevo andare avanti così. Non sapevo più cosa fare.» «E così hai parlato a Steve di Bardem, e Steve ha fatto delle ricerche su Noah, scoprendo che lavorava per la Black River.» «Steve era Steve, sappiamo com'era fatto. Non poteva starsene con le mani in tasca, con tutto quello di cui era a conoscenza. Aveva paura di rivolgersi ai suoi superiori, così passò la chiavetta all'uomo di cui si era già fidato quando la sua ricerca interna non aveva prodotto nessuna informazione su Noah.» «Jay Weston» dedusse Moira. «Ma certo! L'ho rubato alla Hobart, un altro esercito privato. Immagino che avrà dato a Steve informazioni immediate su Noah.» «E ora Steve è morto» gemette Bamber, «a causa della mia stupidità e della mia cupidigia.» Piena di rabbia, Moira si alzò e attraversò la cucina. «Santo cielo, Bamber, contieniti. Questo vittimismo è l'ultima cosa di cui ho bisogno.» Si voltò verso di lei. «Ma che ti prende? Non ti è rimasto nemmeno un briciolo di umanità? Il mio compagno è appena stato ucciso e...» «Non ho tempo per i sentimenti, io!» «E se non ricordo male, una tua amica è stata incenerita sotto i tuoi occhi. Non provi nessun rimorso? Nessuna pietà? Hai qualcosa dentro, oltre alla sete di vendetta contro Noah?» «Che cosa?» «Ho detto quello che ho detto. Non è così, forse? Si tratta solo di questo: di una guerra fra te e Noah, e tutti i danni collaterali che causate passano in secondo piano. Be', sai che ti dico? Andatevene al diavolo tutti e due!» Mentre Bamber usciva dalla stanza, Moira si aggrappò al lavandino per non perdere l'equilibrio. All'improvviso la cucina iniziò a vorticare e lei perse l'orientamento, le pareva di non avere più i piedi per terra, di non riuscire più a distinguere il pavimento dal soffitto. Oh, Dio, pensò, che mi sta succedendo? E all'improvviso vide l'immagine di Veronica Hart: quegli occhi vivaci che la guardavano da dentro la Buick bianca sapevano che la fine era arrivata e che non c'era modo di cambiare le cose. L'esplosione avvenne di nuovo nella sua testa, cancellando ogni cosa, ogni suono, ogni pensiero. Perché non l'aveva salvata? Perché non c'era tempo. Perché almeno non ci aveva provato? Sempre perché non c'era tempo e anche perché Bamber la teneva. Perché non si era liberata? Perché l'onda d'urto l'aveva già colpita spingendola indietro, e se fosse stata più vicina sarebbe stata colpita dalla deflagrazione e adesso sarebbe morta anche lei, o, peggio, sarebbe ricoverata in un reparto ustionati, con la pelle lacerata e carbonizzata, con il corpo ricoperto di ustioni di terzo grado che l'avrebbero uccisa in modo lento e doloroso. Però Ronnie era morta, mentre lei era sopravvissuta. Cosa c'era di giusto in tutto ciò? La parte razionale del suo cervello le trasmetteva il senso di colpa, quella irrazionale le diceva che il mondo è governato dal caos e che la giustizia non ha alcuna importanza, perché è comunque un concetto umano e, quindi, soggetto a una sua forma di irrazionalità. Quel dibattito interiore, però, non riusciva ad arginare il fiume di lacrime che le sgorgava dagli occhi e le scorreva lungo le guance, facendola tremare da capo a piedi. Le parole di Bamber tornarono a tormentarla. Si trattava davvero solo di una faida sanguinaria tra lei e Noah? All'improvviso si ritrovò a Monaco insieme a Bourne, mentre saliva le scalette dell'aereo che li avrebbe portati a Long Beach, in California. Poi era comparso Noah; si ricordò del suo sguardo velenoso. Che fosse gelosia? Era troppo distratta, in quel periodo, troppo presa dall'obiettivo imminente di arrivare a Long Beach. Ma ora era ossessionata da quella sua espressione. Stava dando un'interpretazione sbagliata a quel gesto? No, si rispose. La reazione che Noah aveva avuto quando lei aveva lasciato la Black River era stata personale, simile a quella di un amante respinto. E quindi, se le cose stavano davvero così, la sua decisione di fondare una società rubando gli uomini migliori della Black River, poteva essere stata una ritorsione nei confronti di Noah che non aveva cercato di fermarla quando avrebbe potuto? D'un tratto si ricordò la conversazione che aveva avuto con Jason quella notte a Bali, mentre si rilassavano in piscina. Quando gli aveva confessato di voler iniziare un'attività in concorrenza con la Black River, lui l'aveva messa in guardia dicendole che si sarebbe inimicata Noah, e aveva ragione. Che sapesse dei sentimenti di Noah nei suoi confronti? E lei, che cosa aveva provato per Noah? «Ho smesso dì cercare dì compiacerlo sei mesi prima di lasciare la Black River. Tanto era inutile» aveva detto a Jason quella notte. Qual era il loro significato recondito? Quelle parole riverberarono nella sua mente, mischiandosi a tutte le altre subdole rivelazioni, e sembravano proprio quelle di un'amante ferita. Santo cielo, quanti danni collaterali avevano causato lei e Noah! Piano piano, come da una gomma bucata, la rabbia irragionevole uscì dal suo corpo, la stretta si fece più debole, e lei scivolò a terra. Se non fosse stata appoggiata con la schiena ai mobiletti in legno, Moira avrebbe sbattuto sul pavimento. Le sembrò che fosse passato molto tempo - ma di sicuro non fu così - prima che si rendesse conto che c'era qualcuno con lei in cucina. Due persone accovacciate al suo fianco. «Cos'è successo?» chiese Bamber. «Stai bene?» «Sono scivolata, tutto qui.» Gli occhi di Moira adesso erano asciutti. «Ti verso del brandy.» Lamontierre, in pantacollant bianchi, scarpette da danza e un asciugamano attorno al collo, si diresse verso il soggiorno. Moira, allontanando le mani che Bamber le stava offrendo, si alzò in piedi da sola. Lamontierre ritornò con un bicchierino pieno di un liquido ambrato, che Moira bevve tutto d'un fiato. Sentì il fuoco bruciargli fino in gola e poi diffondersi in tutto il corpo, aiutandola a riprendere il controllo di sé. «Signor Lamontierre» disse, «la ringrazio davvero per l'ospitalità, ma ho urgenza di parlare con Bamber in privato.» «Certo, certo. Se sta bene...» «Sì, sto bene, grazie.» «Benissimo. Allora io vado a farmi una doccia. H, se vuoi restare qui finché...» guardò Moira per un istante. «Anzi, siete tutti e due invitati a rimanere qui finché ne avrete bisogno.» «Molto gentile da parte sua» disse Moira. «Si figuri» le rispose il ballerino con un gesto della mano. «Temo, però, di non avere dei vestiti puliti per lei.» Moira si mise a ridere. «Posso risolvere abbastanza facilmente.» «Bene, allora.» Lamontierre abbracciò Bamber e li lasciò soli. «È un bravo ragazzo.» «Sì, è vero» riconobbe Bamber. Senza dire una parola, si capirono al volo e si mossero verso il soggiorno, dove si lasciarono andare sul divano, esausti. «E adesso che succederà?» chiese Humphry. «Mi aiuterai a scoprire per che cosa Noah sta usando Bardem.» «Davvero?» Il corpo gli si irrigidì. «E come penseresti di fare?» «Che ne dici di entrare nel suo computer?» «Be', a noi due dovrebbe riuscire proprio facile facile! Purtroppo però è impossibile. Noah usa un portatile. Lo so perché ha voluto che gli inviassi le versioni aggiornate di Bardem direttamente su quel computer.» «Accidenti!» Era risaputo che le reti Wi-Fi erano vulnerabili, ma quella della Black River non lo era affatto. Aveva creato una propria rete che, per quanto ne sapeva, era impenetrabile. Certo, in teoria nessuna rete era sicura al cento per cento, ma ci sarebbero voluti eserciti di hacker e anni. A meno che... «Aspetta un attimo» disse lei d'un tratto in preda all'eccitazione. «E se potessi usare un portatile su cui è installato il sistema di criptaggio della rete Wi-Fi della Black River, cambierebbe qualcosa?» «Forse sì, ma come pensi di procurartene uno?» «Lavoravo per la Black River» rispose. «Ho clonato l'hard disk del mio portatile prima di restituirlo.» Si fermò a prendere in considerazione gli ostacoli che questa soluzione poneva loro davanti. «L'unico ostacolo è che ogni volta che un agente lascia la Black River il sistema di criptaggio viene aggiornato.» «Non c'è problema. Se utilizzano sempre lo stesso algoritmo, e sono sicuro che lo fanno, dovrei essere in grado di crackare la rete.» Scosse la testa. «Non che importi molto.» La sua voce si era inasprita. «Non possiamo tornare nei nostri appartamenti, ricordi? Di certo gli uomini di Noah ci staranno aspettando.» Moira si alzò e si guardò intorno in cerca del cappotto. «Non importa» concluse, «devo provarci lo stesso.» *** Capitolo 22 Durante il volo da Siviglia a Madrid, Bourne si accorse che Tracy non portava più la fede. Quando le chiese il motivo, lei la tirò fuori dalla borsa. «Di solito la indosso quando viaggio, in modo da scoraggiare conversazioni non gradite» spiegò, «ma adesso non ce n'è bisogno.» A Madrid avrebbero preso un volo Egyptair per Il Cairo. Una volta lì, sarebbero stati accompagnati a un campo d'aviazione militare poco lontano dal Cairo International Airport, dove avrebbero trovato ad attenderli un charter diretto a Khartoum. Tracy aveva già ottenuto i suoi visti, e Don Herrera era stato tanto gentile da spedire quelli di Bourne, ovviamente sotto il nome di Adam Stone. Aveva anche dato a Jason un telefono satellitare, perché il suo cellulare avrebbe ricevuto il segnale solo in alcune zone dell'Africa. Tracy mise via l'anello e si mise una cartellina sulle gambe. «Mi dispiace per la telefonata del professor Zuniga.» «Perché? Non è stata mica colpa tua.» La ragazza sospirò. «Temo di sì.» Aprì la cartellina con uno sguardo imbarazzato. «Credo di avere una terribile confessione da farti.» Tirò fuori tutti i fogli che Bourne aveva già visto: i raggi X del Goya e la lettera del professore. Passandoli a Bourne, disse: «Vedi, io l'avevo già incontrato. Questi sono gli esami ai raggi X che lui ha eseguito, e questa è la lettera che autentica il Goya. Era tanto eccitato per la scoperta che scoppiò in lacrime quando gli portai via il dipinto». Bourne spostò lo sguardo su di lei. «Perché non me lo hai detto fin da subito?» «Pensavo fossi un concorrente. Avevo l'ordine tassativo di evitare una guerra al prezzo. Per cui puoi capire perché non volessi rivelare nessun dettaglio che avrebbe potuto farlo alzare.» «E dopo?» Tracy sospirò di nuovo, riprendendo i fogli e mettendoli via con estrema cura. «E dopo era troppo tardi. Non volevo ammettere di averti mentito, soprattutto dopo che hai salvato le nostre vite alla corrida.» «E stata colpa mia» ammise. «Non avrei mai dovuto coinvolgerti nelle mie operazioni.» «Non fa nessuna differenza, adesso. Ormai sono dentro questa storia quanto te.» Bourne non poteva di certo contraddirla. Oltretutto, non era affatto contento che Tracy viaggiasse con lui fino a Khartoum, nel cuore dell'impero delle armi di Nikolaj Evsen, in quello che, con ogni probabilità, si sarebbe rivelato il punto centrale della ragnatela in cui si era trovato imprigionato dopo il proiettile che lo aveva quasi ucciso. Khartoum era il luogo in cui Evsen aveva il suo quartier generale, al 779 di el-Gamhuria Avenue. Stando a ciò che sapeva Tracy, era lì che Noah Perlis avrebbe ricevuto il Goya. E Don Herrera credeva che ci sarebbe stato anche Boris Karpov. Solo un mese prima gli aveva detto di essere appena tornato da Timbuctù, Mali, e invece aveva visto le foto e ascoltato la registrazione del suo accordo con Bud Halliday. Non era ancora riuscito a capire come gestire la situazione in cui si scopre che un amico fidato è l'uomo che tenta di ucciderti. La questione del Torturatore gli ronzava ancora in testa. Perché Boris avrebbe ingaggiato qualcun altro, quando avrebbe potuto dargli la caccia di persona? «Ma a proposito di bugie» disse Tracy, «perché mi hai mentito riguardo al vero motivo per cui volevi incontrare Don Herrera?» «Mi avresti condotto lo stesso da lui, se ti avessi detto la verità?» «Probabilmente no.» Sorrise. «Bene, ora che abbiamo ammesso i nostri sbagli perché non ricominciamo da capo?» «Se ti fa piacere.» Tracy rivolse a Bourne uno sguardo meditabondo. «A te non farebbe piacere?» Bourne si mise a ridere. «Quello che volevo dire è che, a quanto pare, mentire ci riesce molto bene.» Tracy arrossì. «Nel mio lavoro - e anche nel tuo, come ho avuto modo di constatare - mi imbatto di continuo in gente senza scrupoli, truffatori, imbroglioni, persino criminali violenti. E non c'è da sorprendersi, visto che negli ultimi tempi le opere d'arte hanno raggiunto prezzi astronomici. Ho dovuto imparare diversi metodi per difendermi da questi pericoli, e uno di questi consisteva nel diventare una bugiarda convincente.» «Non avrei potuto definirti con parole migliori» si complimentò Bourne. Interruppero la conversazione nel momento in cui un'assistente di volo si avvicinò per chiedere che cosa desiderassero da bere. Dopodiché Bourne riprese: «Vorrei tanto sapere per quale ragione lavori per Noah Perlis». Lei alzò le spalle e assaggiò lo champagne. «E un cliente come un altro.» «Chissà se mi stai dicendo la verità oppure no.» «E la verità. A questo punto non ho più bisogno di mentirti.» «Noah Perlis è un uomo molto pericoloso che lavora per una società eticamente scorretta.» «Forse, ma i suoi soldi sono come quelli di chiunque altro. Quello che fa Noah non mi riguarda.» «Ti riguarda nel momento in cui ti espone alla linea del fuoco.» Tracy assunse un'espressione corrucciata. «Ma perché dovrebbe? Questo è un lavoro pulito. Credo che ci veda cose che non esistono.» Quando c'era di mezzo Noah Perlis, nessun lavoro era pulito. Bourne lo aveva imparato da Moira. Ma capì che continuare su quella strada non avrebbe portato da nessuna parte. Se Noah stava giocando con lei, l'avrebbe scoperto presto. L'aggiunta di Noah a quella matassa di eventi lo disturbava parecchio. Nikolaj Evsen era un importante trafficante d'armi, Dimitrij Maslov era il capo della Kazanskaja; riusciva a spiegarsi anche il coinvolgimento incidentale di Boris. Ma cosa c'entrava Noah Perlis, membro di spicco della Black River, con quei disgustosi criminali russi? «Che c'è, Adam? Sembri perplesso.» «Non avevo idea» disse Bourne, «che Noah Perlis fosse un collezionista d'arte.» Tracy aggrottò le sopracciglia. «Credi che ti stia mentendo?» «No. Ma sono pronto a scommettere che qualcun altro lo stia facendo.» Arkadin ricevette la chiamata di Triton all'ora stabilita. Noah poteva anche essere arrogante, irrispettoso, geloso del suo potere e della sua influenza, ma quanto meno era puntuale. Qualità di poco conto per gli altri, ma non per lui. Arkadin era un camaleonte a livello fisico: sapeva infatti trasformare il suo viso, l'andatura e l'aspetto, a seconda del ruolo da recitare; Noah era un camaleonte a livello vocale: poteva essere cordiale e socievole, convincente e intrigante, tutto e il contrario di tutto. Ci voleva un attore, pensava Arkadin, per smascherare un altro attore. «Il discorso del presidente alle Nazioni Unite ha sortito l'effetto desiderato» disse Noah ad Arkadin. Invece di aspettare una risposta dal suo interlocutore, aveva proseguito: «Non abbiamo convinto soltanto gli alleati americani, ma ben presto saliranno a bordo anche i neutrali e un paio di nazioni storicamente antagoniste. Hai otto ore per portare a termine l'addestramento. Poi troverai un aereo sulla pista di atterraggio, pronto per portarti al punto di lancio nella zona rossa. Tutto chiaro?». «Mai stato più chiaro di così» disse Arkadin in maniera automatica. Le sciocchezze che Noah continuava a blaterare non gli interessavano più. Aveva il suo piano da ripassare per la millesima volta, quella modifica cruciale all'incursione congiunta di Russia e America in Iran. Sapeva di avere solo un colpo a sua disposizione, mentre il caos raggiungeva il picco più alto, per implementare il suo piano. La possibilità di fallire non lo sfiorava nemmeno. Avrebbe significato la morte per lui e per tutti i suoi uomini. Si fece trovare preparato, a differenza di Misca e Oserov quando gettarono l'esca nel tentativo di tirarlo fuori dalla sua prigione di Niznij Tagil. La notizia del massacro sempre più orribile e inspiegabile degli uomini di Stas si era diffusa per Niznij Tagil con una irrefrenabile virulenza, tanto che arrivò persino ad Arkadin, nascosto al sicuro nello scantinato del quartier generale della banda. Il turbamento per quello che stava accadendo fuori lo indusse a uscire dal suo nascondiglio umido e desolato. Chi osava invadere il suo territorio? Era suo il compito di rendere la vita impossibile alla banda di Stas, nessun altro aveva il diritto di farlo. Così, emerse nell'atmosfera infernale di Niznij Tagil. La notte lo proteggeva con una disgustosa pioggerellina cinerea, che non riusciva però a oscurare l'orizzonte incandescente della città, su cui spiccavano le ciminiere che vomitavano solfuro ferroso nell'aria. Come le campane di una chiesa in un paese normale, lì erano i fasci di luce abbaglianti che provenivano dall'alto delle prigioni di massima sicurezza a scandire il tempo con intervalli regolari e deprimenti. Arkadin la considerava ancora la banda di Stas Kuzin, anche se quell'idiota di Lev Antonin aveva preso il suo posto con forza brutale. Tre uomini avevano perso la vita durante la sua ascesa al potere, inutilmente. Arkadin lo sapeva bene, perché se avesse avuto un minimo di cervello sarebbe potuto arrivare con diplomazia a essere il successore di Stas. Lev Antonin non era quel tipo di uomo, per cui, da un certo punto di vista, era perfetto per stare a capo di quella banda di assassini, sadici e senza cervello. Era stata la morte del loro uomo di spicco, insieme a tutta la sua famiglia, a galvanizzare Arkadin: non c'era bisogno di essere un genio per capire che Lev Antonin sarebbe stato il prossimo obiettivo del misterioso killer. Chiunque si celasse dietro quell'ombra, avrebbe portato a termine il suo lavoro in modo metodico. Ogni vittima che aggiungeva lo aiutava a salire i gradini della gerarchia della banda, era il modo più sicuro per infondere paura in uomini che si consideravano immuni da quel sentimento. Nel cuore della notte, Arkadin si avvicinò all'abitazione di Lev Antonin, un'enorme casa a due piani che si rifaceva al brutale stile architettonico moderno. Trascorse una quarantina di minuti a perlustrare l'edificio da ogni angolo, calcolando ogni possibile fattore di rischio. Le luci di sicurezza erano tutte accese e la villetta sembrava piatta e bidimensionale in quel bagliore bluastro. Trovò un ciliegio malato su un lato della casa. Era vecchio e ritorto, sembrava un veterano orgoglioso ma esausto per le tante guerre che aveva combattuto. A metà della sua altezza l'intreccio di rami formava un nodo gordiano talmente spesso da sorreggere diversi uomini. Anche i rami erano molto robusti. La notte rimaneva intrappolata nella rete delle sue fronde, che parevano respingere persino la luce prodotta dall'uomo. Da ragazzo, ogni volta che riusciva a scappare dai confini della casa dei suoi genitori, simili a quelli di una prigione, Arkadin amava arrampicarsi su alberi, rocce, colline e montagne. Più arrivava in alto e più era contento. Più sfidava la morte e più si sentiva vivo e pronto a spingersi verso vette più alte. Se fosse morto nell'impresa, almeno lo avrebbe fatto a modo suo, mentre faceva qualcosa che gli piaceva, e non picchiato a sangue da sua madre. Senza esitare, si inerpicò sulla parte più bassa dell'albero, protetto dal largo tronco. Provava la stessa euforia di quando aveva nove o dieci anni, prima che sua madre gli rompesse una gamba dopo aver scoperto che usciva di casa di nascosto. Salì ancora e, in mezzo ai rami, si fermò per studiare la scena. Stava più o meno al livello delle finestre del secondo piano, che erano chiuse agli intrusi e alla cenere tossica della città. Non che una finestra chiusa fosse un problema per Arkadin, quello che importava era sceglierne una che dava su una stanza vuota. Si portò ancora più vicino, osservando a una a una le stanze buie attraverso il vetro. Al secondo piano c'erano quattro finestre, disposte a coppie di due che, quasi di certo, corrispondevano alle due camere da letto. Le luci spente non garantivano necessariamente che non ci fosse nessuno al loro interno. Strappò un pezzo di corteccia e lo tirò contro il vetro della seconda delle prime due finestre. Non successe niente, così ne staccò un altro pezzo e colpì il vetro con più slancio provocando un rumore più forte. Aspettò. Niente. Si spostò verso la parte frontale del nodo gordiano fino a trovarsi quasi contro il vetro della finestra. In quel punto, alcuni rami nodosi erano stati segati, e avevano la parte tagliata rivolta verso la casa. C'era un vuoto di circa cinquanta centimetri tra i rami potati e il muro chiazzato della casa, in cui le finestre erano incastonate come occhi spenti di una bambola cuboide. Arkadin si mise a cavalcioni su una biforcazione, e vide il suo riflesso che lo guardava come da una foresta fatata. Il suo pallore lo fece trasalire. Gli sembrava di osservare se stesso già morto, una versione nella quale la fiamma della vita era stata spenta in maniera brusca e crudele, non dal tempo, ma dalle circostanze. In quel volto vedeva uno sconosciuto che era entrato nella sua vita e, come un burattinaio esperto, aveva diretto le sue mani e i suoi piedi verso la rovina. Un momento più tardi l'immagine, o l'illusione, svanì, e sporgendosi sopra lo spazio vuoto Arkadin aprì la finestra forzandola con un piede. Si ritrovò in una camera del tutto ordinaria: un letto, un paio di lampade sui comodini, un cassettone con uno specchio; accanto, uno scendiletto rotondo fatto all'uncinetto. Eppure, in quel momento gli sembrò la stanza di un sultano. Si sedette per un attimo su un angolo del letto, godendosi il materasso morbido, respirando il profumo di talco che dava all'atmosfera un'aria casalinga e che lo fece sbavare come una bestia che fiuta il sangue. Come avrebbe voluto farsi un bagno caldo, o anche solo una doccia! Uno specchio stretto che arrivava fino a terra era sistemato sulla parte esterna dell'anta di un armadio, che Arkadin aprì. Nutriva un'avversione profonda per gli armadi, quello spazio ristretto in cui sua madre lo rinchiudeva per punizione. Ma in quel momento si fece coraggio e allungò il braccio per passare la mano sui soffici vestiti appesi: abiti, camicie da notte. Non respirava solo profumo di talco, ma anche un odore di solitudine, a lui così familiare. In quell'orribile covo nello scantinato era una presenza costante, quasi scontata, ma in una casa in cui abitava una famiglia gli sembrava strano e incredibilmente triste. Stava per voltarsi per andare a portare a termine la sua missione, quando nella parte bassa e buia dell'armadio sentì qualcosa. Teso e pronto a ogni eventualità, si accovacciò, spinse da una parte un gruppo di camicie orrende e scorse un volto pallido e ovale emergere dall'oscurità. Era un bimbo piccolo. Si fissarono l'un l'altro per un momento, pietrificati. Si ricordò che Lev Antonin aveva quattro figli: tre bambine e un bambino malaticcio, a cui i compagni avrebbero reso la vita un inferno se suo padre fosse stato un uomo qualunque. Quello che aveva davanti, accovacciato in un armadio come anche lui era stato molte volte, era proprio quel bambino. Un senso di ribrezzo verso il suo passato superò persino l'odio per Lev Antonin. «Perché te ne stai qui nascosto?» gli sussurrò. «Shhh, io e le mie sorelle stiamo facendo un gioco.» «Non ti hanno ancora trovato?» Il bimbo scosse la testa, poi sogghignò in maniera fiera. «E un sacco di tempo che sto qui.» Un rumore che proveniva dal primo piano li fece sobbalzare entrambi, un suono inaspettato che si intromise in quella momentanea e inconsueta conversazione. Era un gemito, una voce femminile, ma niente a che vedere con il sesso. Era un gemito di terrore assoluto. «Rimani qui» disse Arkadin. «Qualsiasi cosa succeda non venire di sotto fino a che non vengo a prenderti, okay?» Il bambino annuì, visibilmente spaventato. Uscendo dalla camera da letto, Arkadin avanzò con movimenti furtivi lungo il corridoio. Le luci del secondo piano dovevano essere spente, ma di sotto risplendevano come una casa in preda alle fiamme. Si avvicinò alla balaustra di legno e sentì di nuovo lo stesso gemito, stavolta più distinto. Iniziò a chiedersi cosa stesse facendo Lev Antonin a sua moglie da provocarle tutto quel terrore. Dov'erano le altre figlie, mentre lui puniva la consorte? Non lo stupiva il fatto che non fossero salite di sopra a cercare il fratello. La luce si faceva sempre più forte a mano a mano che Arkadin scendeva le scale piegato in due per non farsi vedere. All'improvviso si trovò davanti una strana scena. Un uomo stava in piedi con la schiena rivolta verso di lui. Di fronte c'era Joskar, la moglie di Lev Antonin, legata a una sedia della cucina. Il bavaglio che aveva sulla bocca si era allentato, per questo riusciva a gemere. Aveva un occhio gonfio e dei tagli sul viso da cui uscivano rivoli di sangue. Raggruppate intorno a lei, come dei pulcini intorno alla chioccia, c'erano le tre figlie, tutte con le caviglie, legate. In quelle condizioni non potevano muoversi e di sicuro non l'avrebbero fatto, trovandosi davanti quell'uomo che incombeva minaccioso su di loro. Dov'era Lev Antonin? L'uomo girò pigramente la testa di Joskar. «Smettila di frignare» le disse. «Il vostro destino ormai è segnato. Non importa che cosa deciderà tuo marito, tu e le tue marmocchie...» Vibrò dei calci, colpendo costole e fianchi con la punta della scarpa. Le bambine, già in lacrime, iniziarono a singhiozzare, e la madre gemette di nuovo. «Tu e le tue marmocchie siete finite. Morte. Sepolte. Capito?» Arkadin ebbe un'illuminazione improvvisa: quell'uomo, chiunque fosse, doveva venire da fuori, altrimenti si sarebbe accorto che uno dei figli di Lev Antonin era ancora libero. E se fosse il killer degli uomini di Stas? Sì, era senz'altro lui. Tornò allora all'armadio del piano di sopra, dove disse al figlio di Antonin di seguirlo, ma di stare in silenzio qualunque cosa fosse accaduta. Con il bimbo spaventato dietro, scese in silenzio le scale e si fermò a metà. La scena al piano di sotto non era molto cambiata, tranne per il bavaglio che era stato stretto e per il viso di Joskar, adesso letteralmente coperto di sangue. Quando il figlio di Antonin cercò di fare capolino, Arkadin lo spinse indietro, nascondendolo con le gambe. Si chinò e sussurrò al bimbo: «Non muoverti fino a che non ti dico che puoi farlo, okay?». Riconobbe la paura nello sguardo del bambino e qualcosa lo colpì nel profondo, forse un'emozione sepolta sotto i detriti del suo passato. Dopo avergli accarezzato la testa, si alzò e tirò fuori la Glock che teneva all'altezza della cintura. «Perché non ti allontani da queste persone?» disse minaccioso. L'uomo si girò di scatto verso di lui; il suo volto si trasformò in una maschera orrenda, subito sostituita dal sorriso accondiscendente che ben presto sarebbe diventato familiare ad Arkadin. Comunque quell'espressione rivelava molto di quell'uomo. Aveva davanti una persona che provava piacere a sottomettere gli altri, e utilizzava un solo strumento per raggiungere il suo scopo: la paura. «Chi diavolo sei? E come hai fatto a entrare?» Malgrado fosse sorpreso, malgrado avesse di fronte la canna di una Glock, non tradiva nessuna emozione. «Mi chiamo Arkadin. E tu, cosa cazzo stai facendo qui?» «Arkadin!? Davvero? Molto bene...» Il suo sorriso si fece ironico e compiaciuto. Era quel tipo di sorriso, pensò Arkadin, che ti faceva venir voglia di farlo scomparire con un pugno devastante. «Mi chiamo Oserov, Vylaceslav Germanovic Oserov, e sono venuto per portarti via da questo posto di merda.» «Che cosa?» «Esatto, idiota. Il mio capo, Dimitrij Ilinovic Maslov, ti vuole a Mosca.» «Chi diavolo è Dimitrij Ilinovic Maslov? E cosa vuole da me?» A quel punto, Oserov aprì la bocca e ne uscì uno stridio simile a quello delle unghie contro una lavagna. Arkadin sussultò e capì che l'uomo stava ridendo. «Sei proprio uno zotico. Dovremmo lasciarti qui in mezzo a tutti questi imbecilli.» Oserov tremò di gioia. «Per tua informazione, Dimitrij Ilinovic Maslov è il capo della Kazanskaja.» Si fermò e scosse la testa. «Hai mai sentito parlare della Kazanskaja?» «La grupperovka moscovita» rispose in automatico Arkadin. Era confuso. Com'era possibile che il capo di una delle più importanti famiglie mafiose al mondo avesse sentito parlare di lui? Aveva mandato Oserov, e probabilmente anche qualcun altro dal momento che Oserov aveva parlato al plurale. Ma perché? L'intera situazione era assurda. «Chi altro c'è con te?» chiese Arkadin, cercando di riprendersi. «Misca Tarkanian. E con Lev Antonin, adesso, sta negoziando il tuo trasferimento. Ora che ti ho davanti direi che non meriti proprio una tale impresa.» Poteva darsi che Tarkanian si trovasse da qualche parte al pianoterra, magari in bagno. «C'è qualcosa che non va nella tua storia, gospodin Oserov. Mi chiedo perché mai Maslov abbia mandato un incompetente come te.» Prima che il moscovita potesse replicare, Arkadin si voltò e fece uscire allo scoperto il bambino. Doveva riprendere il controllo della situazione, e il piccolo era il suo asso nella manica. «Lev Antonin ha quattro figli, non tre. Come hai potuto commettere un errore così grossolano?» La mano sinistra, che Oserov teneva al fianco nascosta alla vista di Arkadin, fece uno scatto e il coltello con cui stava tagliuzzando il volto di Joskar sibilò in aria. Arkadin spinse via il bambino, ma troppo tardi. La lama si conficcò fino al manico nel corpicino, che gli scivolò dalle mani. Con un grido feroce, Arkadin premette il grilletto della Glock, poi si scagliò dietro il proiettile come se volesse guidarlo verso l'anima oscura di Oserov. Il proiettile lo mancò, ma lui no. Atterrò sopra il moscovita ed entrambi rotolarono sul pavimento. Si fermarono contro le gambe del divano, grosse e robuste come le caviglie di una babuska. Arkadin lasciò che Oserov lo attaccasse, per farsi un'idea della sua forza e della sua capacità di coordinazione. Si dimostrò un combattente violento ma indisciplinato, uno che per vincere si basa sulla potenza e sull'istinto animalesco invece di puntare sull'arguzia. Arkadin incassò alcuni colpi al mento e alle costole, ma evitò all'ultimo istante un colpo di taglio diretto ai reni. Poi iniziò a lavorare su Oserov. Non era spinto soltanto dalla rabbia o dal desiderio di vendetta, ma da un senso di vergogna e umiliazione per aver messo il bambino in pericolo in modo quasi deliberato, puntando tutto sull'arma e sull'effetto sorpresa per assumere il controllo della situazione. In più, doveva ammettere di essere stato preso alla sprovvista dal fatto che Oserov fosse capace di uccidere un bambino a sangue freddo. Si aspettava che lo spaventasse, che gli facesse qualche graffietto, ma non che gli conficcasse un coltello in pieno cuore. Era impensabile. Le nocche si spaccarono, ricoprendosi di sangue, ma quasi non se ne accorse. Mentre colpiva ripetutamente l'uomo che gli stava sotto, venne assalito dalle immagini della sua infanzia, di quando non era nient'altro che un bambino dal viso cinereo, terrorizzato dalla mamma, chiuso in un armadio a volte anche per giorni, tra i topi che sgattaiolavano affamati e che, alla fine, gli mangiarono tre dita del piede sinistro. Il figlio di Lev Antonin aveva riposto la sua fiducia in lui, e ora era morto. Un epilogo del genere era troppo anche per Arkadin. L'unica possibile redenzione poteva venire soltanto dalla morte di Oserov. E l'avrebbe ucciso senza alcun rimorso, senza pensare alle conseguenze per aver fatto fuori un uomo di Dimitrij Maslov, il capo della Kazanskaja. In preda a quella follia omicida, Arkadin non pensava né a Maslov, né alla Kazanskaja, né a Mosca, né a nient'altro. Tutto quello che riusciva a vedere era quel viso nell'armadio al piano di sopra. Non era più in grado di distinguere se fosse il suo o quello del figlio di Antonin. Poi qualcosa di duro e pesante lo colpì a un lato della testa, e si fece tutto nero. *** Capitolo 23 Moira viveva in una villetta di mattoni rossi a Cambridge Place, Georgetown, vicino a Dumbarton Oaks. Più che una casa, per lei era un rifugio in cui poteva stendersi sul divano di ciniglia con in mano un bicchierino di brandy e nell'altra un buon romanzo in cui perdersi. Viaggiando di continuo, quei momenti erano diventati sempre più rari e preziosi. Mentre il crepuscolo lasciava posto alla sera, la turbava il pensiero che qualcuno potesse essersi appostato fuori. Così, fece due giri dell'isolato con una macchina presa a noleggio. Se c'era davvero qualcuno, una seconda ronda l'avrebbe di sicuro messo in allerta. Passando quindi di nuovo davanti a casa, sentì una vettura mettersi in moto e riconobbe nello specchietto retrovisore una Lincoln Town Car che la seguiva a un paio di macchine dietro di lei. Sorrise compiaciuta mentre zigzagava per Georgetown. Quelle strade le conosceva come le sue tasche. Bamber era rimasto da Lamontierre. Si era offerto di andare con lei, anche se terrorizzato. «Apprezzo che tu me l'abbia proposto» gli aveva detto seria, «ma mi sei molto più utile qui, sano e salvo. Non ho alcuna intenzione di permettere agli uomini di Noah di avvicinarsi a te.» Mentre faceva una serie di manovre evasive con la Town Car alle calcagna, fu sollevata di non averlo lì con lei, anche se sarebbe stato molto più facile risolvere la situazione in quel momento. Sarebbe potuta saltare giù, mentre lui, al volante, avrebbe condotto la Town Car lontano dandole il tempo di entrare in casa a recuperare il portatile della Black River. Ma niente era facile nella sua vita, né in quella di nessuno che conosceva, quindi era inutile lamentarsi. Gioca le carte che hai in mano nel miglior modo possibile, si disse. Era quello che aveva sempre fatto, e così avrebbe fatto anche stavolta. La notte stava calando, mentre lei guidava per le strade che si facevano sempre più anguste a mano a mano che si avvicinavano al canale. Alla fine svoltò un angolo, prese una via sulla sinistra, si fermò e uscì dalla macchina con i fari ancora accesi, permettendo all'autista della Lincoln, che invece aveva spento le luci, di intravederla girare l'angolo. La Lincoln fece una brusca frenata nel momento in cui Moira oltrepassava una porta, e due uomini scesero al volo scagliandosi verso il punto in cui era sparita. Nel buio trovarono una porta di metallo, poi estrassero le armi a canna corta. Uno dei due, un uomo con la testa rasata, si appiattì contro il muro di mattoni, mentre l'altro provava a spingere il pomello. Ma fu inutile, così scosse la testa, alzò la gamba destra e con un calcio violento aprì la porta, che andò a sbattere contro il muro. Con la pistola spianata, si incamminò minaccioso nell'oscurità. La porta lo colpì dritto in faccia, rompendogli il naso. Serrò le mascelle e si morse la lingua. Le grida di dolore durarono poco. Moira gli piantò un ginocchio all'inguine e, mentre quello si piegava per il male, gli assestò un colpo di taglio dietro il collo con le mani. L'uomo rasato sentì un rumore metallico e, senza esitare, fece un passo verso la porta, sparando tre colpi a bruciapelo: uno al centro, uno a destra e uno a sinistra dell'ambiente buio. Non sentendo alcun rumore, si lanciò dentro tenendosi basso. Moira lo colpì da dietro sulla testa con la pala su cui era inciampato. L'uomo cadde di faccia sul cemento. Lei stava già uscendo quando si accorse delle sirene della polizia in avvicinamento. Qualcuno doveva aver sentito gli spari. Ritornò svelta alla macchina con uno sguardo assorto stampato in faccia: sembrava una che è in ritardo per un appuntamento. Doveva apparire normale, mescolarsi al traffico di M Street fino a perdersi tra le strade acciottolate che riflettevano la luce dei lampioni vecchio stile. Dieci minuti dopo, Moira era tornata al suo isolato. Fece il giro, controllando di non avere nessun altro alle calcagna; tutto sembrava tranquillo. Parcheggiò e diede un'ultima occhiata tutt'intorno prima di salire le scale. Infilò la chiave nella serratura, aprì la porta ed entrò estraendo la Lady Hawk dalla fondina. Chiuse con delicatezza la porta, diede due mandate e rimase alcuni secondi in piedi per ascoltare i rumori della casa. A uno a uno identificò i suoni familiari della caldaia, del frigorifero, dell'impianto di riscaldamento. Poi annusò l'aria in cerca di odori estranei. Quando si ritenne soddisfatta, premette l'interruttore. L'ingresso e il corridoio vennero invasi da una luce giallastra. Moira lasciò andare l'aria che aveva trattenuto senza accorgersene fino a quel momento. Si mosse cauta, controllando la stanza e i ripostigli del pianterreno. Si assicurò che la porta dello scantinato fosse chiusa a chiave. Poi salì le scale. Più o meno a metà, sentì un rumore e si fermò raggelata, con un piede sollevato e il cuore che gli martellava in petto. Ancora lo stesso rumore, ma stavolta lo riconobbe. Era un ramo che batteva contro il muro sul retro della casa, che dava su un vicoletto. Moira ricominciò a salire, contando gli scalini dal primo in basso per essere sicura di evitare quello che scricchiolava. In cima alle scale successe qualcosa. La caldaia si fermò, facendo piombare la casa in un silenzio tetro e infausto. Poi, come se niente fosse, riprese a funzionare, e il suono familiare la tranquillizzò. Passò poi al primo piano. Si mosse di stanza in stanza, accendendo le luci, controllando dietro i mobili e persino sotto il letto. Che cosa idiota, pensò. Non trovò niente, e nessuno. La finestra alla sua sinistra era socchiusa e la chiuse del tutto. Il portatile della Black River stava nel vano posteriore del ripostiglio, sotto una pila di scatole di scarpe. Si avvicinò, aprì la porta ed entrò con la pistola puntata davanti a sé. Passò una mano sui vestiti appesi. Li riconobbe tutti, ma in quel momento avevano un aspetto sinistro, come se fossero delle tende che nascondevano qualcuno. Ma non le saltò addosso nessuno, così si lasciò andare a un sospiro di sollievo. Lo sguardo risalì tutta la pila di scatole sopra gli abiti appesi. Il portatile era lì, dove l'aveva lasciato. Si allungò per prenderlo quando sentì il rumore di una finestra che andava in frantumi e di qualcosa che atterrava sulla moquette. Si voltò di scatto, ma la porta del ripostiglio si richiuse sbattendo. Con la mano afferrò il pomello e iniziò a spingere, ma qualcosa bloccava la porta e non c'era modo di aprirla nemmeno a spallate. Indietreggiò e sparò quattro colpi. L'odore pungente della cordite le solleticò il naso, e le orecchie iniziarono a fischiarle per il rumore. Spinse di nuovo. Niente. Ma si accorse di avere altro a cui pensare. La fessura sotto la porta stava scomparendo. Qualcuno la stava otturando. Al livello del pavimento quello spazio strettissimo iniziava a farsi buio, tranne nel punto in cui Moira vide spuntare un accessorio del suo aspirapolvere. Poco dopo udì un generatore portatile mettersi in funzione e, in preda all'angoscia, capì che stavano aspirando l'ossigeno fuori dallo stanzino. Quando Peter Marks trovò il verbale della polizia su Moira Trevor, rimase sbalordito. Era appena tornato dalla Casa Bianca dopo il breve colloquio con il presidente sull'assegnazione del posto vacante da direttore della CIA. Sapeva di non essere l'unico candidato, ma non c'era nessun altro dell'Agenzia. Eppure, pensava che anche i capi degli altri sei direttorati fossero stati convocati dal presidente, per esempio Dick Symes, capo del Direttorato dell'Intelligence e attuale direttore ad interim della CIA. Lo considerava il candidato ideale per quel posto. Era più anziano, con molta più esperienza dello stesso Peter, che solo di recente aveva scalato i gradini della carriera arrivando a essere il capo delle Operazioni durante la breve permanenza come direttore di Veronica Hart, che non aveva nemmeno avuto il tempo di proporre dei nomi per il ruolo di vicedirettore, e mai l'avrebbe avuto. D'altro canto, però, Marks, a differenza di Symes, era stato scelto e addestrato dal Grande Vecchio in persona, e sapeva quanto rispetto nutrisse il presidente per quell'uomo che aveva ricoperto il ruolo di direttore della CIA per così tanto tempo. Peter non era sicuro di volere quella poltrona, perché avrebbe significato allontanarsi ancora di più dal suo primo amore, il campo. « Non importa quanto in alto riesci ad arrivare» gli aveva detto il Grande Vecchio, «il tuo primo amore non lo dimenticherai mai. Impari soltanto a vivere senza.» O forse, autoconvincersi di non volere quella poltrona era un modo di proteggersi dalla delusione nel caso non lo avessero scelto come successore di Veronica Hart. Senza dubbio era questo il motivo che lo aveva spinto a buttarsi sul verbale relativo a Moira Trevor non appena si era seduto dietro la scrivania. Quel documento, così breve e approssimativo, non era mischiato alle pile di fogli ammassate per lui dai suoi collaboratori perché voleva analizzarlo subito e di persona. Non che stesse cercando proprio un verbale della polizia, ma avendo terminato gli indizi a sua disposizione aveva deciso di uscire e andare a caccia di informazioni, proprio come aveva imparato quando era un agente in erba. «Non fidarti mai delle informazioni che ti danno gli altri, a meno che tu non sia del tutto impossibilitato a procurartele da solo soprattutto quando c'è in gioco la tua vita» gli aveva consigliato il Grande Vecchio quando lo aveva portato nell'ovile. Un insegnamento che Marks non aveva mai scordato. E ora contemplava quel verbale redatto il giorno prima che descriveva un incidente stradale tra due macchine in cui un uomo di nome Jay Weston, ex impiegato della Hobart Industries e attuale dipendente della Heartland Risk Management, era stato ucciso, e Moira Trevor, fondatrice e presidentessa della Heartland, era rimasta ferita. Due anomalie: la prima era che Weston non era morto a causa delle ferite riportate nell'incidente, ma gli avevano sparato. La seconda era che Moira Trevor aveva gridato «più volte e a voce alta», come descritto dall'agente accorso sul posto, che un poliziotto in uniforme a bordo di una moto aveva sparato alla testa di Weston attraverso il finestrino del lato guidatore. Le prove legali confermavano la versione della Trevor, almeno per quanto riguardava lo sparo. Il verbale riportava che nessun poliziotto in moto era nelle vicinanze nell'arco di tempo in cui si verificava l'incidente. Alla fine del verbale Marks riscontrò un'altra anomalia. Non c'erano state ulteriori indagini, nessuna ricerca sugli ultimi luoghi in cui Weston era stato visto o sul suo passato. A parte quel misero documento, l'incidente era come se non fosse mai avvenuto. Marks prese il telefono e chiamò il posto di polizia, ma quando chiese dell'autore del verbale si sentì rispondere che sia lui sia il suo collega erano stati «trasferiti». Non riuscì a carpire nessun'altra informazione sugli agenti. Chiese del tenente McConnell, loro diretto superiore, che si rifiutò di dirgli dove si trovassero o cosa gli fosse successo, anche dopo una valanga di minacce. «Sono ordini del commissario stesso» disse McConnell senza rancore. «E tutto quello che so, amico. E il mio lavoro. Se non ti sta bene, veditela con lui.» Per un attimo si fece tutto nero, poi due mani forti trascinarono Arkadin da sotto le ascelle lontano dal moscovita. Si scagliò di nuovo contro il suo nemico, ma gli arrivò un calcio alla cassa toracica e si ritrovò a terra, ansimante. «Ma cosa diavolo state combinando?» ruggì una voce. Alzò lo sguardo e vide un altro uomo incombere su di lui. Era in piedi con le gambe divaricate e i pugni chiusi. Non era Lev Antonin, così Arkadin dedusse che doveva trattarsi di Misca Tarkanian. «Mi chiamo Leonid Danilovic Arkadin» disse con affanno. «Il tuo animale non addomesticato qui, Oserov, ha appena trapassato il cuore di quel bambino con un coltello.» Mentre Tarkanian spostava lo sguardo sul piccolo ricurvo sulle scale, Arkadin continuò: «E il figlio di Lev Antonin, nel caso ti interessasse». Tarkanian sobbalzò come se avesse preso una scossa elettrica. «Oserov, ma per l'amor del...» «Se non finisci quello che ho cominciato» disse Arkadin, «lo farò io.» «Scordatelo» ruggì Tarkanian. «Tu adesso ti siedi e te ne stai buono fino a nuovi ordini.» Poi si inginocchiò vicino a Oserov. Era in una pozza di sangue, l'osso della clavicola destra usciva dalla carne. «Sei fortunato. Respira ancora.» Arkadin si chiese se parlasse a lui o a se stesso. Ma in fondo non aveva importanza. «Oserov. Oserov.» Tarkanian scosse con violenza il suo compatriota. «Cazzo, è una maschera di sangue.» «Faccio le cose per bene, io» replicò Arkadin. Mentre Tarkanian gli lanciava un'occhiata carica di odio, lui si alzò. Tarkanian sollevò l'indice con aria minacciosa. «Ti ho detto...» «Rilassati, non mi sto avvicinando a lui» disse Arkadin con una smorfia di dolore. Andò verso Joskar Antonin per slegarla e liberarla dalla stretta del bavaglio. In un attimo le urla di dolore della donna riempirono la stanza. Si precipitò sulle scale per prendere in braccio il figlio morto. Scossa dai singhiozzi, si sedette nel punto in cui giaceva il suo piccolo e lo cullò, annullando tutto il resto. Le bambine erano accovacciate ai piedi di Arkadin, in lacrime. Le liberò e loro corsero dalla loro mamma e accarezzarono le gambe e i capelli del fratellino, poi appoggiarono la testa sulle cosce della madre. «Com'è potuto succedere?» chiese Tarkanian. Ancora una volta Arkadin non fu in grado di capire se parlasse a lui o a se stesso. Nel dubbio, rispose e raccontò tutto quello che aveva visto e vissuto. Fu un racconto dettagliato e non tralasciò nulla. Tarkanian si sedette sui talloni. «Maledizione, sapevo che Oserov sarebbe stato un problema. Ho sbagliato a sottovalutarlo, però.» Diede un'occhiata all'ambiente domestico reso tragico dalle chiazze di sangue, dal pianto delle bambine e dalla puzza di morte. «Siamo fottuti. Quando Antonin verrà a sapere quello che Oserov ha fatto alla sua famiglia, la possibilità che ci permetta di lasciare questa merda di città svanirà prima ancora che tu abbia il tempo di dire: "Due assi nella manica!".» «Tony Curtis, Virna Lisi, George C. Scott» disse Arkadin. Tarkanian sollevò le sopracciglia. «Norman Panama.» «Adoro le commedie americane» aggiunse Arkadin. «Anch'io.» Riconoscendo che la discussione era del tutto fuori luogo, Tarkanian riprese irritato: «Ci restano solo questi ricordi, e non avremo neanche più questi, una volta che Lev Antonin ci avrà presi». La mente di Arkadin era un vortice di idee. Si trovava di nuovo in una situazione estrema: vivere o morire. A differenza dei due moscoviti, però, giocava in casa, sul suo territorio. Avrebbe potuto abbandonarli, certo, per poi darsi alla fuga. Ma per fare cosa? Per tornare di nuovo nello scantinato? Rabbrividì al pensiero di passare un minuto di più recluso là sotto. No, che gli piacesse o meno era legato a quei due. Erano i suoi biglietti per andarsene da quella città, e lo avrebbero portato dritto dritto a Mosca. «Quando sono arrivato, ho visto la macchina di Joskar davanti al garage. E ancora là?» Tarkanian annuì. «Io prendo lei e le figlie. Trova la borsa, le chiavi devono essere lì dentro.» «Non parto senza Oserov.» Arkadin alzò le spalle. «Quel pezzo di merda è roba tua. Se vuoi farlo venire con noi, caricalo tu in macchina, perché ti garantisco che se mi avvicino di nuovo lo faccio fuori una volta per tutte.» «E una cosa che a Maslov non piacerà, credimi.» Arkadin ne aveva abbastanza di quegli intrusi. Si alzò portando il viso vicinissimo a quello di Tarkanian. «Che Maslov vada affanculo. Dovresti preoccuparti di Lev Antonin, adesso.» «Quell'imbecille!» «Sì, ma un imbecille ti può uccidere nello stesso modo in cui può farlo un genio, anche se di solito lo fa molto più in fretta perché un imbecille non ha coscienza.» Indicò Oserov. «Proprio come il tuo ragazzo laggiù. Un cane ne ha molta più di lui.» Tarkanian guardò Arkadin con occhi penetranti, come se lo vedesse per la prima volta. «Mi piaci, Leonid Danilovic.» «Solo i miei amici mi chiamano Leonid Danilovic» gli disse Arkadin. «A quanto pare, non ne hai molti.» Tarkanian andò a cercare la borsa di Joskar; la trovò per terra, vicino al divano. Forse era caduta dal tavolo. La aprì, ci rovistò un po', poi alzò le chiavi della macchina in segno di trionfo. «Se siamo fortunati, ci saranno dei cambiamenti.» Morire asfissiata in casa sua era un'ipotesi che Moira non aveva mai preso in considerazione. Gli occhi le lacrimavano e cominciava a sentirsi stordita, ormai era parecchio che tratteneva il respiro. Ripose la Lady Hawk nella fondina e prese una scaletta, l'appoggiò alla parete posteriore e l'aprì. Si arrampicò fino a raggiungere il soffitto, che era fatto di legno di cedro come tutte le parti del ripostiglio. La mancanza di ossigeno le stava già facendo fischiare le orecchie. Cercò a tastoni un quadrato intagliato nelle assi, impossibile da vedere da lontano. Una volta trovatolo, cercò di aprire lo sportello a suon di pugni. Tirò fuori il portatile e strisciò nello spazio in cui teneva gli abiti invernali durante l'estate. Procedendo carponi sulle tavole di legno, risistemò lo sportello e fece entrare una boccata d'aria nei polmoni in fiamme. Consapevole di non poter restare là dentro molto a lungo, le sfuggì un lamento. Il monossido di carbonio sarebbe ben presto arrivato anche lì. L'ambiente angusto continuava con una serie di travi sulle quali avanzava con estrema cautela. Dato che lo aveva costruito con le sue mani, ne conosceva ogni centimetro quadrato. A tutte le estremità era stata collocata una presa d'aria triangolare, come previsto dal regolamento edilizio. Non ricordava se fossero grandi abbastanza da poterci passare, sapeva solo che doveva provarci. Non erano molto lontane, ma tra il sudore e il battito del cuore accelerato le sembrò di impiegare un'eternità per attraversare il groviglio di travi nella zona più distante, dove la luce di un lampione annunciava la presa d'aria. La luce cresceva a mano a mano che si avvicinava e Moira la seguiva come un insetto notturno. Una volta arrivata fu sopraffatta dalla frustrazione: la presa d'aria non sembrava abbastanza grande. Incastrò le unghie sotto la parte inferiore della striscia metallica e la tirò via. L'aria fresca della notte le sfiorò il viso come la carezza di un amante, e per un momento lei restò lì, ferma, a respirare. Spostò la grata e cercò di far passare la testa nell'apertura. Riuscì a vedere che si trovava nel retro di casa sua, sopra il vicoletto in cui lei e i suoi vicini gettavano i sacchi della spazzatura per il camion della nettezza urbana che ogni giovedì disturbava il sonno del quartiere allo spuntare del giorno. Il bagliore delle luci del giardino delle altre case filtrava nell'apertura illuminando il portatile che Moira aveva posizionato sul bordo. Fu in quel momento che si accorse che il disco fisso removibile non era al suo posto. Controllò e ricontrollò milioni di volte, come si fa quando si perde il portafoglio, incredula. Spinse il portatile lontano con un grido di disgusto. Tutto quello sforzo, aveva rischiato la vita... per niente! Con le mani si attaccò ai mattoni della facciata, e si spinse fuori muovendo le spalle verso la parte più ampia del triangolo. Riuscì a farle passare. Afferrò una delle pietre decorative per fare ancora più forza. Ora doveva vedersela con i fianchi, che sembravano l'ostacolo più grosso. Mentre cercava di risolvere quel problema di geometria, sentì un rumore proprio sotto di sé. Ruotò il collo con fatica e notò che la porta sul retro era aperta. Qualcuno stava uscendo. Il tizio era vestito di nero. Malgrado la visuale ridotta per via della posizione, Moira riuscì a vederlo bene. Stava immobile sulla soglia e si guardava intorno. Moira tornò a concentrarsi sul suo obiettivo, sentendo il disperato bisogno di mettersi in salvo. Si aggrappò con tutte le energie alla sporgenza della pietra ornamentale. I fianchi le restarono incastrati nel triangolo. Poi capì qual era il modo migliore per riuscire nell'impresa. Tentò di spingersi indietro per liberare i fianchi, ma era incastrata. Di sotto, l'uomo si era acceso una sigaretta. Dal modo in cui guardava da una parte all'altra del vicolo, Moira immaginò che stesse aspettando la Lincoln Town Car. Il tizio tirò fuori un telefono. Di lì a poco avrebbe chiamato quelli della Lincoln e, non ricevendo risposta, se ne sarebbe andato da solo, portandosi via il disco fisso e la possibilità di accedere alla rete Wi-Fi di Noah. L'uomo si portò il cellulare all'orecchio, e Moira cercò di buttare fuori tutta l'aria che aveva dentro in modo da rilassare il corpo. Ecco! Era libera! Ruotò i fianchi e si trascinò fuori. Si tenne in modo precario alla decorazione in pietra e si mise in ascolto della voce del tipo vestito di nero. Era troppo tardi ormai per capire qualcosa, così si lasciò andare nel vuoto e gli atterrò addosso. L'uomo cadde sui ciottoli facendo partire il cellulare che finì qualche metro più in là e battendo la testa con un rumore ripugnante. Scossa e disorientata, Moira si trascinò finché non trovò il cellulare. Lo fissò per un momento interdetta. Qualcos'altro era volato in aria, oltre il cellulare. Ma cos'era? Barcollando, raggiunse il punto in cui c'erano i pezzi sparsi tra i ciottoli. Su uno dei più piccoli c'era un fulmine rosso che lo tagliava a metà, simbolo presente su tutti i componenti hardware progettati per la Black River. «Oh, Dio» si lamentò. «No!» Si lasciò cadere in ginocchio e raccolse tutto ciò che rimaneva dell'hard disk, ormai inutilizzabile. *** Capitolo 24 Bourne e Tracy erano seduti nella sala d'attesa dell'aeroporto di Madrid. Jason si scusò e si avviò verso la toilette. Passò vicino a un'edicola che esponeva quotidiani scritti in ogni lingua del mondo, ma che riportavano tutti la stessa notizia: «Fine dei negoziati», «La rottura», «Addio all'ultima speranza di risoluzione diplomatica», e in ciascun sottotitolo comparivano le parole «Iran» e «Guerra». Quando fu sicuro che Tracy non poteva vederlo, chiamò Boris. Non rispondeva nessuno, non squillava nemmeno. Il telefono era spento. Bourne si fermò un momento a riflettere, poi si allontanò ulteriormente raggiungendo le vetrate, scorse la rubrica e selezionò un altro numero di Mosca. «Ma chi diavolo...?» imprecò la voce dall'altra parte. «Ivan, Ivan Volkin» disse, «sonoJason Bourne, un amico di Boris.» «Lo so io di chi sei amico tu. Sono vecchio, non scemo. Hai creato tanto di quello scompiglio mentre eri qui tre mesi fa che anche un malato di Alzheimer si ricorda di te.» «Sto cercando di mettermi in contatto con Boris.» «Sai che novità!» esclamò Volkin acido. «Perché non chiami lui invece di dar fastidio a me?» «L'avrei fatto, se mi avesse risposto.» «Ah... Quindi non hai il numero del suo satellitare?» Allora Boris era di nuovo in Africa, dedusse Bourne. «Mi stai dicendo che è tornato a Timbuctù?» «Ma quale Timbuctù!» rispose Volkin. «Come ti viene in mente un'idea del genere?» «Me l'ha detto Boris.» «Ah! No, no, no. Non Timbuctù. Khartoum.» Bourne si appoggiò alle vetrate, fredde per via dell'aria condizionata. Il mondo gli crollò sotto i piedi. Perché tutti i fili della ragnatela portavano a Khartoum? «Che ci fa Boris laggiù?» «Qualcosa che non vuole che tu, suo buon amico, venga a sapere.» A Volkin sfuggì una risata gutturale. «Ovvio.» Quelle parole ferirono Bourne come una coltellata. «Ma tu lo sai.» «Io!? Mio caro Bourne, io non lavoro più. Non mi occupo più del mondo della grupperovka. Hai problemi di memoria anche tu?» Qualcosa non andava, in quella conversazione, e Bourne lo capì subito. Con tutti i contatti di cui disponeva, Volkin doveva di sicuro essere stato informato della sua «morte». Eppure la sua voce non aveva tradito alcuna sorpresa quando si era presentato. Nessuna domanda. Sapeva già che era sopravvissuto all'agguato di Bali. E quindi anche Boris ne era al corrente. Provò un'altra tattica. «Conosci un uomo chiamato Bogdan Macin?» «Il Torturatore. Certo che lo conosco.» «E morto.» «Nessuno lo piangerà, credimi.» «Era stato mandato a Siviglia» disse Bourne, «per uccidermi.» «Ma tu non sei già morto?» ribatté Volkin ironico. «Tu sapevi che ero vivo.» «Mi sono rimasti ancora un paio di neuroni, a differenza del povero Bogdan Macin.» «Chi te l'ha detto? Boris?» «Boris? Amico mio, Boris si è sbronzato per una settimana quando gli è stato comunicato, da me aggiungerei, che eri stato ucciso. Ora, però, sa come stanno le cose.» «E quindi non è stato Boris a spararmi.» L'esplosione della risata che seguì costrinse Bourne ad allontanare il telefono dall'orecchio. Quando infine si calmò, Volkin aggiunse: «Che idea assurda! Voi americani! Ma che diavolo stai farneticando?». «Qualcuno a Siviglia mi ha mostrato delle foto che ritraevano Boris insieme al segretario alla Difesa Halliday.» «Davvero? E in quale pianeta sarebbe successo?» «So che sembra inverosimile, ma ho avuto modo di ascoltare anche una registrazione. Il segretario Halliday ha chiesto la mia testa e Boris ha accettato di consegnargliela.» «Boris è tuo amico.» Il tono di Volkin era tornato serio. «A noi russi non riesce facile stringere tante amicizie, e quelle poche che abbiamo non le tradiamo di certo.» «E stato un baratto» insistette Bourne. «Boris voleva in cambio la morte di Abdullah Khoury, il capo della Fratellanza Orientale.» «Che Abdullah Khoury sia stato ucciso di recente è vero, ma ti assicuro che Boris non c'entra niente.» «Ne sei certo?» «Boris lavorava nella Squadra antidroga, okay? Dovresti saperlo, o per lo meno avresti dovuto capirlo. Mi sembri un tipo intelligente! La Fratellanza Orientale procurava fondi ai suoi terroristi della Legione Nera attraverso un traffico di droga che andava dalla Colombia al Messico, fino a Monaco. Qualcuno degli uomini di Boris riuscì a infiltrarsi e a fornirgli il nome dell'anello più grosso della catena: Gustavo Moreno, un colombiano che viveva in una grande hacienda vicino a Città del Messico. Boris vi fece irruzione con la sua squadra di uomini della FSB-2. Fecero fuori Moreno, ma non trovarono la cosa più importante: il portatile che avrebbe condotto agli altri membri dell'organizzazione. Cos'è successo a quel computer? Prima di morire il colombiano continuava a ripetere che era nell'hacienda, così Boris passò diversi giorni a setacciarne ogni centimetro, ma invano. Non c'era, e il nostro amico, che sappiamo com'è fatto, intuì che c'era qualcosa che non quadrava.» «E così è arrivato a Khartoum.» Volkin ignorò il commento e proseguì: «Hai la data di questo presunto incontro tra Boris e il segretario alla Difesa americano?». «Era stampata sulle foto» rispose Bourne. Quando gliela comunicò, il russo reagì con enfasi: «Boris era qui con me in quel periodo. E rimasto tre giorni, incluso quello della foto. Non so chi ci fosse al tavolo con il segretario alla Difesa, ma quant'è vero che la Russia è corrotta, non era il nostro Boris Karpov». «E chi, allora?» «Un camaleonte, questo è certo. Ne conosci, Bourne?» «Sì, oltre a me ce n'è un altro, ma è morto. E lui per davvero.» «Sembri convinto.» «L'ho visto cadere nelle acque al largo del porto di Los Angeles.» «Non equivale ad averne riconosciuto il cadavere. Santo cielo, chi meglio di te dovrebbe saperlo?» Un brivido corse lungo la schiena di Bourne. «Quante vite hai già vissuto? Boris mi diceva che sono molte. Credo che per Leonid Danilovic Arkadin valga lo stesso.» «Mi stai dicendo che non è morto?» «Un gatto nero come lui ha nove vite, amico mio. Forse anche di più.» E così era stato Arkadin a cercare di assassinarlo. Il quadro si faceva sempre più chiaro, ma c'era ancora qualcosa che non tornava. «Sei sicuro, Volkin?» «Arkadin è il nuovo capo della Fratellanza Orientale. Ti basta, come garanzia?» «Ma perché avrebbe dovuto ingaggiare il Torturatore, quando sembrava così impaziente di uccidermi con le sue stesse mani?» «Non è lui il mandante» disse Volkin. «Il Torturatore è troppo inaffidabile, soprattutto contro un avversario come te.» «E allora chi?» «Questa, Bourne, è una domanda a cui nemmeno io so rispondere.» Avendo deciso di rintracciare di persona gli agenti scomparsi, Peter Marks stava aspettando l'ascensore per scendere al pianterreno. Le porte si aprirono e comparve l'enigmatico Frederick Willard. Fino a tre mesi prima era stato la talpa del Grande Vecchio nella casa sicura della NSA in Virginia. Willard, più anziano di Marks, trasudava eleganza e riservatezza. Indossava un impeccabile tre pezzi grigio, camicia bianca e cravatta. «Ciao, Willard» lo salutò Marks, entrando nell'ascensore. «Pensavo fossi in ferie.» «Sono tornato da qualche giorno.» Con quell'aria da professore vecchio stampo, Willard era perfetto per il ruolo di maggiordomo nella casa sicura. Non era difficile immaginare che si confondesse tra i mobili. Il fatto che riuscisse a essere invisibile gli permetteva di origliare anche le conversazioni più intime. Le porte si richiusero e i due iniziarono a scendere. «Immagino sia stata dura per te riprendere questi ritmi» disse Marks più per educazione che per altro. «A essere sinceri, è stato come se non fossi mai partito.» Willard fece una smorfia. «Com'è andato il colloquio con il presidente?» Marks non si aspettava che Willard ne fosse a conoscenza: «Abbastanza bene, credo». «Non che importi molto, non avrai quel posto.» «Lo so. E Dick Symes il favorito.» «Symes? E fuori dai giochi anche lui.» Marks rimase sgomento. «Come lo sai?» «Perché so chi è stato scelto. E non è uno della CIA.» «Ma non ha senso.» «Al contrario, tutto ha un senso» disse Willard, «se ti chiami Bud Halliday.» Marks si voltò verso l'uomo più anziano. «Cos'è successo, Willard? Avanti, sputa il rospo!» «Halliday ha usato la morte di Veronica Hart per proporre uno dei suoi uomini, Errol Danziger. E il presidente ha accettato dopo un solo incontro.» «Danziger, l'attuale vicedirettore della SIGINT per l'Analisi e la produzione?» «Sì, proprio lui.» «Ma non sa niente della CIA!» sbraitò Marks. «Credo» replicò Willard in tono aspro, «che sia proprio questo il punto.» Le porte si aprirono e i due uscirono nella reception deserta. «Date le circostanze, forse è il caso di parlarne» disse Willard. «Ma non qui.» «No, certo che no.» Marks stava per proporre un incontro dopo poche ore, ma cambiò subito idea. Chi meglio di un veterano come Willard, con i canali segreti di Conklin a disposizione, poteva aiutarlo a trovare gli agenti scomparsi? «Sto andando a fare un'indagine sul campo. Ti va di venire con me?» Sul volto di Willard si fece strada un sorriso. «Ah, sì, proprio quello che ci vuole!» Quando Arkadin si avvicinò a Joskar, lei gli sputò addosso e si voltò dall'altra parte. I suoi quattro figli - le tre bambine e il bimbo morto - le stavano intorno, come il mare che circonda lo scoglio. Nel momento in cui Arkadin fece un altro passo, le piccole si alzarono a proteggere la madre da quell'intrusione. Il russo si strappò una manica della camicia e le pulì il viso sporco di sangue. Fu quando arrivò alla guancia che si accorse dei lividi. La rabbia verso Oserov tornò ad accecarlo, ma poi notò che quei segni non erano recenti, non risalivano di certo agli ultimi giorni. Se non era stato Oserov, allora doveva essere stato il marito, Lev Antonin. Per un attimo, gli occhi della donna incrociarono i suoi, e Arkadin ci vide il riflesso della camera al piano di sopra, piena della sua solitudine e del suo profumo più intimo. «Joskar» disse, «sai chi sono io?» «Mio figlio» continuava a ripetere stringendo il bimbo al petto. «Mio figlio.» «Ti porteremo via da qui, Joskar, insieme ai tuoi figli. Non devi avere più paura di Lev Antonin.» Lei lo fissò sconcertata, come se le avesse detto che le avrebbe ridato la giovinezza perduta. Il pianto della più piccola la fece tornare in sé. Osservò Tarkanian caricarsi Oserov sulle spalle. «Viene anche lui? L'uomo che ha ucciso il mio Jasa?» Arkadin non disse nulla, la risposta era scontata. Quando la donna lo guardò di nuovo, la luce nei suoi occhi era sparita. «Allora viene anche il mio Jasa.» Tarkanian aveva già oltrepassato la porta, trasportando il corpo inerme. «Andiamo, Leonid Danilovic. Non c'è posto per i morti tra i vivi.» Ma quando Arkadin le prese il braccio, Joskar si staccò. «E quel bastardo? Nel momento in cui ha ucciso mio figlio, è morto anche lui.» Tarkanian aprì lo sportello con un grugnito. «Non c'è tempo per le negoziazioni» tagliò corto. «Sono d'accordo.» Arkadin raccolse il corpicino di Jasa. «Il bambino viene con noi.» A quelle parole, Tarkanian riservò ad Arkadin un altro dei suoi sguardi. Il moscovita alzò le spalle. «La donna è responsabilità tua. Tutti loro lo sono, da adesso in poi.» Si avviarono alla macchina, Joskar spingeva le bambine confuse e agitate. Tarkanian sistemò Oserov nel bagagliaio e legò il portellone al paraurti con dello spago, per far passare l'aria. Poi si mise al volante. «Voglio tenere il mio Jasa» disse Joskar, aiutando le figlie a salire sul sedile posteriore. «E meglio che stia davanti con me» le suggerì Arkadin. «Le bambine hanno bisogno di tutta la tua attenzione.» La donna esitò, Arkadin spostò i capelli dalla fronte del piccolo e aggiunse: «Mi prenderò cura di lui. Non ti preoccupare, starà bene». Entrò in macchina con il bambino appoggiato a un braccio, e chiuse lo sportello. Notò che il serbatoio era quasi pieno. Tarkanian mise in moto, schiacciò il piede sulla frizione e ingranò la marcia. «Tieni quel coso lontano» disse Tarkanian. Aveva preso troppo veloce una curva e la testa di Jasa gli aveva sfiorato il braccio. «E mostra un po' di rispetto!» scattò Arkadin. «Non può farti niente di male.» «Sei svitato come una tyolka in calore» ribatté Tarkanian. «Chi è che ha un amico chiuso nel bagagliaio, io o te?» Tarkanian si attaccò al clacson perché un camion rallentava la corsia. Con un po' di manovre sfidò il traffico che veniva in senso contrario e lo sorpassò, ignorando le macchine che sterzavano per evitarlo. Tornata la calma, Tarkanian voltò lo sguardo verso Arkadin. «Hai trovato un punto morbido su cui appoggiare quel bambino, eh?» Arkadin non rispose. Anche se i suoi occhi erano fissi fuori dal parabrezza, il suo sguardo si era spostato dentro di sé. Sentiva il peso di Jasa e, soprattutto, la sua presenza. Aveva aperto una porta nella sua infanzia. Quando guardava il viso di quel bimbo era come se guardasse se stesso, come se portasse la morte con sé. Non aveva paura di lui, Tarkanian invece sì. Per Arkadin tenerlo in braccio era quasi un bisogno, come se potesse proteggerlo. Perché si sentiva in quel modo? E poi un bisbiglio proveniente dal sedile di dietro lo spinse a guardare nello specchietto retrovisore. Vide Joskar con le tre figlie attorno. Le sue braccia le contenevano tutte, offrendo loro un rifugio contro il dolore e la paura. Raccontava delle storie abitate da fatine vivaci, elfi e animali parlanti. L'amore e la devozione della sua voce sembravano provenire da una galassia lontana. All'improvviso Arkadin venne travolto da una profonda ondata di dolore che lo costrinse a piegarsi sopra gli occhi azzurri di Jasa. In quel momento, la morte del bambino e l'infanzia che sua madre gli aveva negato divennero una sola cosa, sia per la sua mente febbrile, sia per la sua anima lacerata. A casa di Lamontierre, Humphry Bamber aspettava impaziente il ritorno di Moira. «Allora? Com'è andata?» le chiese appena arrivata. «Dov'è il portatile?» Moira gli mostrò il disco distrutto, e lui se lo rigirò tra le mani, incredulo. «Stai scherzando, spero.» «Vorrei anch'io che fosse così» disse Moira stanca. Si lasciò cadere sul divano, mentre Humphry andò a prepararle un drink. Quando ritornò, si sedette di fronte a lei. Il suo volto era smunto e teso: il segno di un'ansia che non lo abbandonava mai. «Il disco è inutile, in queste condizioni» iniziò, «lo sai?» Moira annuì, sorseggiando il drink. «Così come il cellulare che ho recuperato dal tizio che ha rubato il disco. Era un burner.» «Un che?» «Cellulari usa e getta che si trovano anche negli alimentari. Hanno un certo numero di minuti prepagati. I criminali li usano e li buttano via ogni giorno. Quindi, niente intercettazioni. E non si può nemmeno risalire ai luoghi delle chiamate.» Fece il gesto di scacciar via le sue parole. «Non che importi molto, ormai. Accedere al computer di Noah è impossibile, siamo fottuti.» «Non è detto.» Bamber si avvicinò a Moira. «Quando sei uscita, credevo di impazzire. Continuavo a rivivere la scena di te che mi tiri fuori dall'auto, la Hart dietro il volante, e poi l'esplosione che si è portata via tutto.» I suoi occhi guardarono da un'altra parte. «Avevo lo stomaco sottosopra. Tuttavia, mentre mi sciacquavo la faccia, ho avuto un'idea.» Moira appoggiò il bicchiere vuoto accanto ai resti dell'hard disk. «Quale idea?» «Adesso ti spiego. Ogni volta che dovevo consegnare una nuova versione di Bardem, Noah insisteva perché la scaricassi direttamente sul suo portatile.» «Per ragioni di sicurezza, immagino. E allora?» «Be', per installarlo bisogna chiudere tutti gli altri programmi.» Moira scosse la testa. «Ancora non ti seguo.» Bamber tamburellò con le dita pensando a un esempio. «Quando si installano dei programmi il setup richiede di chiudere le altre applicazioni, antivirus compreso. Fin qui ci sei?» Moira annuì. «Questo garantisce un'installazione corretta. E con Bardem è la stessa cosa, portata all'ennesima potenza. E molto complesso e sensibile, per cui necessita di un campo del tutto libero. Quindi ecco cosa mi è venuto in mente: potrei contattare Noah e dirgli che ho trovato un bug nella versione corrente di Bardem e che ho bisogno di mandargli un aggiornamento. Di solito, l'ultima sovrascrive la precedente, ma con un po' di lavoro credo di riuscire a caricare la sua mentre io scarico la nuova.» Moira si galvanizzò e con uno scatto fu subito in piedi. «Avremo tutto il contenuto di quel programma, inclusi gli scenari che sta utilizzando. Sapremo con precisione i piani di Noah, e dove vuole realizzarli!» Fece un salto e baciò Bamber sulla guancia. «Ma è fantastico!» «In più, nella nuova versione potrei inserire un dispositivo che ci permetta di tracciare in tempo reale i dati inseriti da Noah.» Moira, consapevole di quanto Perlis fosse astuto e paranoico, chiese: «Ma potrebbe scoprirlo?». «Tutto è possibile» ammise Bamber, «ma è improbabile.» «Allora non esageriamo.» Bamber fece cenno di aver capito, un po' imbarazzato. «È ancora un progetto campato per aria» precisò. «Devo trovare il modo di tornare nel mio ufficio e di convincere Noah che sto bene.» La mente di Moira stava già analizzando tutte le varie eventualità. «Non ti preoccupare. Tu concentrati sulla parte tecnica e sul doppio trasferimento di dati. A Noah ci penso io.» Dopo aver letto della situazione iraniana sull'«Internadonal Herald Tribune», Bourne rimase in silenzio a meditare per tutto il viaggio. Un paio di volte Tracy cercò di iniziare una conversazione, ma lui non si degnò nemmeno di risponderle. Stava pensando a come mai non avesse valutato l'ipotesi che Arkadin fosse sopravvissuto. Dopotutto era la stessa identica cosa che era successa a lui a Marsiglia, quando era stato ripescato mezzo morto dall'equipaggio di un peschereccio. Un dottore del posto, un alcolizzato cronico come il dottor Firth, si era preso cura di lui e, poco dopo, si era accorto dell'amnesia causata dal trauma subito. La sua vita era stata cancellata. Ogni tanto qualcosa di familiare gli riportava alla mente delle immagini che, però, emergevano incomplete. Da allora si sforzava di capire chi fosse. Malgrado i tanti anni ormai trascorsi, tutto ciò che era riuscito a ricordare era l'identità di Jason Bourne e in parte quella di David Webb. Aveva l'impressione che la strada che lo avrebbe portato a ritrovare se stesso passasse per Bali. Ma prima bisognava sistemare la questione di Leonid Arkadin. Che Arkadin lo volesse morto era fuor di dubbio, ma più andava avanti e più aveva la sensazione che non si trattasse di semplice vendetta. Pur avendo ormai imparato che niente con lui era semplice, aveva la sensazione di essersi imbattuto in un progetto più grande rispetto alla ragnatela in cui si trovava. Leonid Danilovic rappresentava solo un tassello che lo conduceva a Khartoum. Se Don Fernando Herrera fosse con lui oppure no - e, a quanto sembrava, era stato proprio Arkadin a mandargli le foto e la registrazione che «incriminavano» Boris -non aveva importanza in quel momento. Ora che sapeva che c'era il russo dietro il suo attentato, era convinto che al 779 di el-Gamhuria Avenue avrebbe trovato una trappola pronta ad attenderlo. Se questa prevedeva soltanto Arkadin, o includesse anche Nikolaj Evsen e Noah Perlis ancora non ne era certo. Gli interessava, però, capire che genere di affare potesse unire quei due. Chissà se Noah agiva per interessi personali o per conto della Black River? In ogni caso, erano una coppia molto sinistra, doveva saperne di più. E qual era il ruolo di Tracy? Aveva preso possesso del Goya solo dopo aver trasferito la somma necessaria e aver atteso che la banca depositasse quei soldi in un secondo conto, a lei sconosciuto. In quel modo Herrera era sicuro che i soldi sarebbero rimasti a lui. Gli anni trascorsi sui campi di petrolio avevano trasformato il colombiano in un'astutissima volpe. Bourne pensò che fosse ironico provare simpatia per lui, quando era chiaro che era in qualche modo alleato di Arkadin. Sperava di poterlo incontrare ancora, in futuro, ma adesso doveva occuparsi di Arkadin e Noah Perlis. Il sole era una palla di fuoco che scendeva verso la terra quando Soraya e Chalthoum raggiunsero il Chysis Military Airdrome. Amun mostrò le credenziali e venne accompagnato in un'area di parcheggio. Dopo aver superato altri controlli di sicurezza, i due si incamminarono verso l'aereo che l'egiziano aveva fatto preparare. D'un tratto l'attenzione di Soraya fu attratta da due persone che camminavano verso un jet della Air Afrika. La donna era magra, bionda e bella. Era più vicina a lei rispetto all'uomo, che per un momento rimase nascosto alla sua vista. Poi cambiarono posizione, e Soraya ne intravide il volto. Rimase senza parole e le ginocchia presero a tremarle. Chalthoum si accorse della sua andatura incerta e si avvicinò. «Che ti succede, azizti?» le chiese. «Sei pallida.» «Non è niente.» Soraya fece dei respiri profondi per cercare di calmarsi. Il nuovo direttore della CIA l'aveva chiamata e le aveva ordinato di tornare a Washington senza darle la possibilità di spiegare: niente poteva più calmarla. E poi aveva visto Jason Bourne in un aeroporto militare poco fuori del Cairo. Non può trattarsi di lui, deve trattarsi di qualcun altro, si disse all'inizio. Ma mentre si avvicinava, i tratti si facevano sempre più dettagliati e capì che non poteva essersi sbagliata. Oh, mio Dio. Ma che sta succedendo? Come fa a essere vivo? Dovette reprimere l'impulso di chiamarlo, di correre verso di lui per abbracciarlo. Se non l'aveva contattata doveva esserci un buon motivo, pensò. Bourne stava parlando con la donna e non l'aveva ancora vista, o quanto meno fingeva di non averla notata. Doveva trovare il modo di dargli il numero del suo satellitare. Ma come poteva riuscirci senza farsi scoprire da Amun e dalla compagna di Jason? «Il tuo silenzio fa male» disse Tracy. «Davvero?» Bourne non la guardava neanche. Fissava la fusoliera bianca e rossa del jet della Air Afrika davanti a sé. Si era accorto di Soraya nel momento in cui lei e l'egiziano avevano superato il controllo di sicurezza. Stava cercando di ignorarla perché farsi vedere da qualcuno della CIA era l'ultima cosa che voleva, anche se si trattava di Soraya. «Non hai spiccicato una parola per tutto il tempo.» Tracy era davvero ferita. «Sembra che stai sotto una campana di vetro.» «Stavo cercando di trovare il modo migliore di proteggerti una volta arrivati a Khartoum.» «Proteggermi da cosa?» «Non da cosa, ma da chi.» Don Herrera aveva mentito sulle foto e le registrazioni, e chissà riguardo a quanto altro. «Questo non ha niente a che fare con me» disse Tracy. «Starò più lontana possibile dai tuoi affari, che, a essere sincera, mi spaventano a morte.» Bourne annuì. «Capisco.» La ragazza teneva il Goya ben stretto sotto il braccio. «La parte difficile del mio lavoro è finita. Mi rimane solo da consegnare il dipinto, prendere il compenso e tornarmene a casa.» Tracy alzò lo sguardo in quel preciso istante: «Quella donna dai tratti esotici continua a fissarti. La conosci?». *** Capitolo 25 Tanto Tracy se n'era accorta, pensò Bourne. Soraya e l'egiziano erano ormai a pochi passi e lui li raggiunse con una falcata. «Ciao, sorellina» la salutò affettuoso, baciandola sulle guance. Prima che Soraya avesse il tempo di dire qualcosa, Bourne allungò la mano ad Amun. «Adam Stone. Sono il fratellastro di Soraya.» L'egiziano rispose veloce alla stretta e si presentò: «Amun Chalthoum». Poi, però, alzò le sopracciglia. «Non sapevo che Soraya avesse un fratello.» Bourne sorrise. «Sono la pecora nera della famiglia, immagino sia per questo.» Tracy lo raggiunse e Jason fece le presentazioni. «Nostra madre ha avuto dei problemi di salute, credo sia giusto che tu lo sappia.» Soraya stette al gioco. «Ci scusereste un attimo?» chiese Bourne. Quando furono abbastanza lontani dai due, Soraya gli chiese: «Jason, ma come hai fatto?». Più lo guardava più non riusciva a credere ai propri occhi. «E una storia lunga» le rispose, «e adesso non c'è tempo.» Spinse Soraya ancora qualche passo più in là. «Arkadin è ancora vivo. E quasi riuscito a uccidermi a Bali.» «Ora capisco perché non hai fatto sapere a nessuno che eri sopravvissuto.» Bourne lanciò un'occhiata a Chalthoum. «Che ci fai con quell'egiziano?» «Amun lavora per l'intelligence del suo paese. Stiamo cercando di scoprire il vero responsabile del disastro aereo.» «Credevo fossero stati gli iraniani...» «La nostra task force ha accertato che è stato un Kowsar 3 iraniano» spiegò Soraya, «ma dietro potrebbe esserci un gruppo di militari americani che lo ha introdotto in Egitto attraverso il Sudan. Ecco perché stiamo andando a Khartoum.» Bourne sentì i fili della ragnatela tendere verso il centro. Si avvicinò ancora di più a Soraya. «Ascoltami bene. Qualsiasi cosa Arkadin stia progettando coinvolge anche Nikolaj Evsen e Noah Perlis. Mi sono chiesto più volte cosa potesse far lavorare quei due gomito a gomito. Gli americani che state cercando forse non sono semplici militari, ma uomini della Black River.» Spostò l'attenzione sulla fusoliera bianca e rossa dell'aereo. «Si dice in giro che la Air Afrika sia di Evsen; e potrebbe anche essere vero, dato che ha bisogno di consegnare le armi ai suoi clienti. «Se la tua teoria è giusta, quelli della Black River dove hanno preso un Kowsar 3? Dagli iraniani?» continuò Bourne scuotendo la testa. «Evsen è l'unico trafficante d'armi in circolazione con il potere e i contatti per procurarsene uno.» «Ma allora perché la Black River...?» «La Black River deve solo fare il grosso del lavoro» disse Bourne. «E chi sta dietro che guida il tutto. Hai letto i titoli dei giornali? Credo che qualcuno ai vertici del governo americano voglia scatenare una guerra contro l'Iran. Hai qualche idea?» «Bud Halliday» gli rispose Soraya. «Il segretario alla Difesa.» «E stato Halliday a commissionare la mia morte.» Soraya lo guardò incredula. «Per ora sono solo congetture. Ho bisogno delle prove di queste connessioni, dobbiamo mantenerci in contatto. Ho un telefono satellitare» gli disse, ed elencò in fretta una serie di cifre. Bourne le fece un cenno con la testa e le lasciò anche il suo numero. Stava per andarsene, ma lei aggiunse: «C'è dell'altro. Veronica Hart è stata uccisa da un'autobomba. Errol Danziger è il nuovo direttore della CIA e mi ha già ordinato di rientrare». «Ordine che ti rifiuti di eseguire. Brava.» Soraya fece una smorfia. «Chissà in che guai mi andrò a cacciare.» Appoggiò la mano sul braccio di Bourne. «Jason, ascolta, questa è la parte più difficile. Non so per quale motivo, ma Moira era con Veronica Hart al momento dell'esplosione. So che è sopravvissuta perché è stata ricoverata al Pronto soccorso poco dopo. Ma ora è scomparsa.» Gli strinse forte il braccio. «E giusto che tu lo sappia.» Soraya lo baciò di nuovo sulle guance e, mentre lei tornava verso l'egiziano ormai impaziente, Bourne sentì il corpo svuotarsi. Guardò i tre come da un punto molto alto. Vide Soraya dire qualcosa a Chalthoum; quest'ultimo annuì, poi si avviarono verso il piccolo aereo militare. Vide Tracy fissarli con un'espressione curiosa. Vide se stesso da solo in disparte, come sospeso in aria. Le emozioni si erano anestetizzate, pervaso com'era dall'immagine di Moira a Bali. Era come se nei suoi ricordi avesse bisogno di proteggerla dai pericoli del mondo esterno. Era un impulso assurdo, ma umano, si disse. Dov'era adesso? Era ferita? Ma una cosa lo tormentava più di ogni altra: l'autobomba che aveva ucciso Veronica Hart era in realtà indirizzata a lei? Si aggiunse altra apprensione quando la chiamò e scoprì che il numero era fuori servizio. Doveva aver cambiato telefono. Era così immerso in queste elucubrazioni, che quasi non si accorse che Tracy gli stava parlando. Stava in piedi davanti a lui, sul volto le si leggeva la preoccupazione. «Adam, che succede? Tua sorella ti ha dato brutte notizie?» «Cosa?» Ci mise un po' prima di rispondere, ancora sconvolto dall'ondata di emozioni: «Sì. Ieri nostra madre è venuta a mancare». «Mi dispiace. C'è qualcosa che posso fare per te?» Sulle labbra gli si formò un sorriso, anche se con la mente era rimasto lontano anni luce. «Grazie, sei molto gentile, ma purtroppo nessuno può fare niente, ormai.» Errol Danziger aveva l'anima dura come la roccia. Fin da ragazzo si era impegnato a imparare tutto quello che c'era da sapere sui musulmani. Aveva studiato la storia della Persia e della Penisola araba, aveva una buona padronanza sia dell'arabo sia del farsi ed era in grado di recitare a memoria alcuni passi del Corano, così come molte preghiere musulmane. Aveva compreso le differenze fondamentali tra sunniti e sciiti, malgrado provasse per entrambi lo stesso disprezzo. Per anni aveva messo la sua conoscenza del Medio Oriente al servizio di un'oscura forza che lottava contro coloro che volevano colpire il suo paese. Quel profondo disprezzo nei confronti di tutti i musulmani era nato in lui durante gli anni in cui andava a scuola nel Sud, quando si diffuse la voce che nelle sue vene scorresse sangue siriano, facendolo diventare lo zimbello dei suoi compagni. Venne isolato ed escluso dalla vita sociale. Il fatto che la diceria avesse un fondamento di verità - il nonno da parte di padre era di origini siriane - lo infastidiva ancora di più. Seppellì tutto nel suo cuore di ghiaccio alle 8:00, quando assunse il controllo della CIA. Doveva ancora presentarsi al Campidoglio per rispondere alle assurde e subdole domande scritte dagli assistenti di alcuni legislatori boriosi, che avrebbero cercato di impressionare gli elettori. Ma quella messinscena era soltanto una formalità, lo aveva rassicurato Halliday. Il segretario alla Difesa aveva accumulato voti più che sufficienti per far approvare la sua nomina senza tanti sforzi. Alle 8:05 si presentò alla riunione con i dirigenti della CIA nella sala più grande del quartier generale. L'ovale allungato era privo di finestre: difatti il vetro è un ottimo conduttore di suoni, e alcuni esperti avrebbero potuto leggere il labiale. Danziger si rivolse, perfettamente padrone di sé, ai suoi interlocutori: i capi dei sette direttorati della CIA, i loro subalterni e i capi di tutti i dipartimenti correlati ai direttorati. La stanza era illuminata da luci indirette nascoste da enormi pannelli sul soffitto. La moquette, progettata ad hoc, era così spessa da assorbire tutti i suoni, costringendo i presenti a focalizzare l'attenzione su chiunque avesse la parola. Quella mattina si trattava di Errol Danziger, soprannominato l'Arabo. Scorrendo i presenti intorno al tavolo ovale, Danziger non vide nient'altro che facce pallide e ansiose, ancora lontane dal digerire la sconcertante notizia del suo nuovo incarico da direttore della CIA. Tutti si erano aspettati Dick Symes, capo del Direttorato dell'Intelligence e il più anziano tra i sette. Per questo, al termine del suo intervento, Danziger fissò lo sguardo proprio su Symes, così come aveva già fatto all'inizio del discorso inaugurale alle truppe. Dopo aver studiato il grafico dell'organizzazione della CIA, aveva deciso di presentarsi proprio da lui per renderselo alleato. Di alleati gliene sarebbero serviti parecchi. Il suo obiettivo era quello di portare dalla sua parte un gruppo di fedelissimi che avrebbe piegato al suo volere e a mano a mano indottrinato. I discepoli della nuova religione che avrebbe presto introdotto nella CIA avrebbero diffuso il vangelo come solo i prescelti sanno fare. Avrebbero svolto il lavoro al posto suo, lavoro che sarebbe stato troppo difficile, se non impossibile, per lui. Non avrebbe sostituito il personale, ma lo avrebbe convertito dall'interno per fare emergere una CIA rinnovata che seguisse il progetto preparato per lui da Bud Halliday. Aveva intenzione di promuovere Symes alla carica di vicedirettore il prima possibile. Voleva rafforzare il suo potere, servendosi della carta delle promozioni. «Buongiorno, signori. Immagino che vi siano giunte delle false voci, e proprio per questo stamattina vorrei mettere le cose in chiaro con tutti voi. Non ci saranno licenziamenti, né trasferimenti obbligatori, anche se, durante il corso naturale delle cose, ci sarà senz'altro bisogno, dato che ci muoveremo sempre in avanti, di effettuare dei trasferimenti che, per quanto ho avuto modo di constatare, ci sono sempre stati anche in passato, nella CIA come in qualsiasi altra organizzazione punti al miglioramento. Preparandomi a questo momento ho ripassato la venerabile storia della CIA, e posso confessarvi che nessuno può capire meglio di me cosa significhi raccogliere il testimone di una così grande organizzazione. Vi garantisco che la mia porta sarà sempre aperta a chiunque voglia discutere di questo e di qualsiasi argomento gli stia a cuore. Vi assicuro che nulla cambierà e che l'eredità del Grande Vecchio - per il quale, se posso aggiungere, nutro grande stima sin dai tempi in cui ero un ragazzino fresco di college -, rimane la cosa più importante per me. Insomma, è un privilegio, nonché un grande onore, trovarmi qui tra di voi, diventare parte del vostro gruppo, guidare questa rispettabile agenzia verso il futuro.» Gli uomini rimasero seduti attorno al tavolo in completo silenzio, cercando di analizzare quel lungo preambolo e di capire quante menzogne contenesse. La cosa curiosa di Danziger era che aveva assorbito la cadenza tipica dell'arabo, tanto da modificare anche il suo inglese, soprattutto quando si trovava a parlare davanti a un gruppo di persone. Dove bastava una parola, lui utilizzava una frase; quando bastava una frase, compariva un paragrafo. Nella stanza si diffuse una sensazione di sollievo quando si sedette e aprì il fascicolo che aveva davanti, sfogliandone alcune pagine. All'improvviso alzò lo sguardo. «Soraya Moore, la direttrice di Typhon, non è presente perché impegnata in una missione. Immagino sappiate già che il suo incarico è stato revocato e che le ho ordinato di tornare in sede per un rapporto approfondito.» Vide gli uomini guardarsi intorno costernati, ma nessuno si azzardò a dire niente. Diede un'ultima occhiata agli appunti che aveva in mano, poi disse: «Signor Doli, il suo superiore non c'è. Il signor Marks è per caso in ferie, oggi?». Rolly Doli mise una mano davanti alla bocca e tossicchiò. «Credo sia sul campo, signore.» L'Arabo guardò Doli, un uomo dai capelli biondi e gli occhi di un azzurro elettrico, e sorrise accattivante. «Lei crede o sa che è sul campo?» «Lo so, signore. Me l'ha detto lui stesso.» «Bene, allora.» Il sorriso di Danziger non era cambiato. «Dove sarebbe questo campo?» «Non l'ha specificato, signore.» «E lei non gliel'ha chiesto, vero?» «Signore, con il dovuto rispetto, se Marks avesse voluto informarmi, l'avrebbe fatto.» L'Arabo richiuse il fascicolo senza spostare gli occhi dal sottoposto di Marks. Era come se tutti gli uomini in quella stanza stessero trattenendo il respiro. «Ottimo. Approvo la procedura di sicurezza, è valida» commentò il nuovo direttore. «La pregherei di assicurarsi che Marks passi dal mio ufficio quando sarà di ritorno.» Distolse lo sguardo da Doli e passò in rassegna, a uno a uno, tutti gli altri dirigenti. «Bene, possiamo procedere? Da questo momento in poi tutte le nostre forze si concentreranno sull'indebolimento e la distruzione dell'attuale regime iraniano.» Un fremito di eccitazione attraversò gli agenti come un lampo. «Tra pochi secondi vi descriverò l'operazione studiata per sfruttare in segreto un nuovo gruppo indigeno filoamericano nato in Iran, pronto e addestrato, grazie al nostro supporto, a rovesciare il regime dall'interno.» «Quando c'è di mezzo il commissario di polizia di questa città» commentò Willard, «girovagare senza meta è proprio inutile. Te lo dico perché è abituato a fare le cose a modo suo, anche di fronte al sindaco. Non ha paura degli agenti dell'FBI, né si vergogna ad ammetterlo.» Willard e Peter Marks salirono i gradini di una casa in arenaria lontana abbastanza da Dupont Circle da non essere snob, ma tanto vicina da esigere le buone maniere. Era tutta opera di Willard. Dopo essersi accertato che Lester Burrows, il commissario di polizia, era irrintracciabile, Willard si era diretto insieme a Marks in quell'isolato. «Visto come stanno le cose, l'unico modo per incastrarlo è affidarsi a un po' di psicologia. La gentilezza di solito funziona bene, con i poliziotti.» «Conosci il commissario Burrows?» «Se lo conosco!» esclamò Willard. «Siamo andati al college insieme; abbiamo giocato a Othello insieme. Era assatanato, lasciamelo dire, metteva paura da quanto era bravo. Sapevo che la sua rabbia era genuina perché ne conoscevo l'origine.» Fece un cenno con la testa, come a se stesso. «Lester Burrows è un afroamericano che ha superato la terribile povertà in cui ha trascorso l'infanzia sotto ogni punto di vista. Non sto dicendo che l'abbia dimenticata, neanche per sogno. A differenza del suo predecessore che non ha fatto altro che prendere bustarelle, Lester Burrows è un uomo onesto, anche se si nasconde dietro la corazza dura che si è costruito per proteggere se stesso e i suoi uomini.» «E quindi ti ascolterà» disse Marks. «Non lo so» rispose Willard facendogli l'occhiolino. «Ma sono sicuro che non mi volterà le spalle.» Willard sbatté il batacchio d'ottone a forma di elefante che c'era sulla porta. «Dove siamo?» chiese Marks. «Presto lo scoprirai. Seguimi e andrà tutto bene.» La porta si aprì e comparve una giovane donna afroamericana vestita all'ultima moda. Strizzò gli occhi, poi disse: «Freddy, ma sei davvero tu?». Willard scoppiò a ridere. «E un po' che non ci si vede, eh, Reese?» «Direi anni» ribatté la donna con un sorriso. «Be', non state lì impalati, entrate, forza. Sarà contento di vederti.» «Di spennarmi, più che altro.» Questa volta la donna scoppiò a ridere. Quel suono caldo e pieno accarezzò le loro orecchie. «Reese, ti presento un mio amico, Peter Marks.» La donna porse la mano in modo piuttosto formale. Aveva un viso abbastanza squadrato, il mento pronunciato e due occhi vispi colore del whisky. «Gli amici di Freddy...» Il suo sorriso si fece più grande. «Reese Williams.» «Il braccio destro del commissario» spiegò Willard. «Oh, sì.» La donna rise. «Che farebbe senza di me?» Li fece accomodare in un ingresso a luci soffuse, decorato con foto e dipinti di animali africani. Elefanti, rinoceronti, zebre e qualche giraffa qua e là. Poco dopo si trovarono di fronte a una porta scorrevole. Reese la aprì, lasciando uscire una nuvola di fumo di sigari aromatizzati, il tintinnio dei bicchieri e il rumore delle carte distribuite su un panno verde al centro della biblioteca. Sei uomini, compreso il commissario Burrows, e una donna sedevano attorno al tavolo e facevano una partita a poker. Ricoprivano tutti incarichi importanti all'interno di vari dipartimenti della polizia. Willard elencò i nomi di quelli che Marks non aveva mai conosciuto di persona. Rimasero in piedi sulla soglia. Reese andò verso il tavolo, dove Burrows giocava paziente la sua mano. Aspettò dietro la spalla destra fino al momento in cui Lester rastrellò un piatto di un certo valore, poi si piegò e gli sussurrò qualcosa in un orecchio. Il commissario alzò lo sguardo, la bocca si aprì in un grande sorriso. «Per la miseria!» esclamò, spingendo indietro la sedia per alzarsi. «Che mi venga un colpo se questo non è quel farabutto di Freddy Willard.» Si incamminò verso i due e travolse Willard con un abbraccio vigoroso. Era un uomo massiccio, con una palla da bowling al posto della testa e il collo che sembrava una salsiccia troppo piena. Aveva le guance lentigginose, occhi scrutatori e un sorriso sardonico, da politico consumato, gli aleggiava sulla bocca. Willard gli presentò Marks e il commissario gli strinse la mano con quel calore sinistro tipico delle personalità pubbliche, che arriva e se ne va con la velocità di un lampo. «Se siete venuti per giocare» li invitò Burrows, «siete nel posto giusto.» «A dire il vero siamo venuti per farle qualche domanda riguardo detective Sampson e Montgomery» replicò Marks d'impulso. Le sopracciglia del commissario si abbassarono, trasformandosi in una tetra massa di peli. «E chi sarebbero Sampson e Montgomery?» «Con il dovuto rispetto, signore, credo che lei lo sappia bene.» «Ragazzo, hai qualche problema?» Burrows si voltò verso Willard. «Freddy, chi diavolo è questo qui che si permette di dirmi cosa so e cosa non so?» «Ignoralo, Lester.» Willard si mise tra Marks e il commissario. «Peter è un po' nervoso, negli ultimi tempi, da quando ha smesso la cura.» «Be', fategliela riprendere!» sbraitò Burrows. «Quella bocca è una grande minaccia.» «Lo farò, stai tranquillo» lo rassicurò afferrando Marks per toglierlo dal mirino. «Intanto, c'è un posto libero al tavolo?» Noah Perlis, seduto all'ombra del sontuoso tetto al 779 di el-Gamhuria Avenue, respirava il profumo dei tigli che riempiva l'aria e si godeva la vista di Khartoum, che si estendeva indolente ai suoi piedi, mentre a sinistra il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro dividevano la città in tre parti. Nella zona centrale l'orribile Friendship Hall costruita dai cinesi e il futuristico al-Fateh, così simile all'ogiva di un razzo, mal si assortivano con le moschee e le piramidi. L'inquietante giustapposizione, però, era un tratto distintivo dell'epoca in cui la religione dei musulmani reazionari cercava il suo spazio in un mondo moderno del tutto alieno. Perlis aveva il portatile aperto, la versione più recente di Bardem lavorava sugli ultimi scenari: l'incursione di Arkadin e di venti dei suoi uomini in quella zona dell'Iran dove scorrevano latte e miele sotto forma di petrolio, come in Palestina. Perlis non si accontentava mai di fare una cosa alla volta, quando poteva farne due o tre allo stesso tempo. Aveva una mente così veloce e irrequieta da aver bisogno di una specie di rete interna di obiettivi, dubbi e congetture per evitare di implodere nel caos. Così, mentre studiava le probabilità della fase finale di Pinprick che a mano a mano il programma gli forniva, pensava anche al patto infernale che era stato costretto a stringere con Dimitrij Maslov e, per estensione, con Leonid Arkadin. Innanzitutto, lo irritava a morte il fatto di essere diventato socio dei russi, di cui detestava e invidiava allo stesso tempo la corruzione e lo stile di vita dissoluto. Come potevano degli spregevoli maiali come loro essere pieni di soldi? La vita non era di certo giusta, ma a volte sapeva essere proprio maligna. Che poteva farci, però? Aveva tentato molte altre strade, ma alla fine Maslov si era rivelato l'unico modo per arrivare a Nikolaj Evsen, che provava per gli americani gli stessi sentimenti che Perlis nutriva per i russi. Di conseguenza, si era ritrovato a dover stringere accordi con molte, troppe persone per cui tradimenti e doppio gioco erano all'ordine del giorno. Davanti alla minaccia di un possibile voltafaccia si era subito mobilitato per approntare un piano d'emergenza, e questo aveva significato triplicare il progetto e la manodopera. E anche aumentare il compenso richiesto a Bud Halliday. Non che cambiasse molto per il segretario, dato che lo US Mint stampava banconote come fossero coriandoli. Proprio per questo, durante l'ultima riunione del consiglio della Black River, i membri del comitato direttivo, spaventati dalla minaccia dell'inflazione incontrollata, avevano votato all'unanimità per convertire i loro dollari in gettoni d'oro per i sei mesi successivi, e avvisarono i loro clienti che dal primo settembre avrebbero accettato pagamenti soltanto in oro e diamanti. Anche l'assenza di Oliver Liss, uno dei tre membri fondatori, e l'uomo a cui rispondeva, lo aveva infastidito non poco. Intanto pensava anche a Moira. Ormai lo irritava come la sabbia negli occhi. Da quando aveva lasciato la Black River per mettere in piedi una società in competizione con la sua, gli si era piantata in un angolo della testa. Perlis aveva preso quell'abbandono, e il tradimento che ne era seguito, come un fatto personale. Non era stata la prima volta, ma aveva giurato a se stesso che sarebbe stata l'ultima. La prima volta... be', c'erano buone ragioni per non rivangarla. Non lo aveva fatto per anni e non aveva alcuna intenzione di ricominciare. E poi, in fondo, come avrebbe dovuto reagire a un'azione mirata a strappargli i migliori collaboratori? Aveva sete di vendetta, proprio come un amante ferito; l'affetto tenuto dentro per tanto tempo si era trasformato in odio, non solo per lei ma anche per se stesso. Quando Moira era ancora sotto di lui, aveva giocato nascondendo troppo le sue carte e, doveva ammetterlo, aveva perso. Moira se n'era andata e ora era in competizione diretta con lui. Si consolava come poteva pensando che il suo ragazzo, Jason Bourne, fosse morto. Le augurava tutto il male del mondo, voleva vederla non solo sconfitta, ma umiliata e senza possibilità di riscatto. Nient'altro l'avrebbe placato. Quando il telefono satellitare squillò, pensò si trattasse di Bud Halliday che voleva dargli il segnale per l'avvio dell'ultima fase di Pinprick, invece scoprì che era Humphry Bamber. «Bamber» gridò, «dove diavolo sei?» «Nel mio ufficio, grazie a Dio.» La voce di Bamber era debole e metallica. «Sono riuscito a scappare, perché quella Moira qualcosa è rimasta ferita dopo l'esplosione e non ce l'ha fatta a trattenermi.» «Ho saputo dell'autobomba» disse Noah, tralasciando il fatto che era stato lui a ordinarla per impedire che Moira e Veronica Hart venissero a conoscenza di Bardem attraverso di lui. «Tu stai bene?» «Niente che non possa passare in un paio di giorni» lo rassicurò Bamber. «Ascolta, però, c'è un piccolo difetto nella versione di Bardem che stai utilizzando.» Noah fissò i due fiumi, l'inizio e la fine della vita dell'Africa del Nord. «Che tipo di difetto? Se il programma ha bisogno di un aggiornamento della sicurezza, scordatelo. Ho quasi finito, tra poco non mi servirà più.» «No, no, niente del genere. C'è solo un errore di calcolo. Il programma non sta producendo dati accurati.» Noah si preoccupò. «Come diavolo è potuto succedere, Bamber? Ti ho pagato non poco, per avere questo software, e ora mi vieni a dire che...» «Calmati Noah, ho già risolto l'errore interno. Tutto quello che dovrei fare è caricarlo nel tuo computer, ma devi chiudere tutti gli altri programmi.» «Lo so, lo so. Conosco le procedure a memoria, dopo tutte le versioni che abbiamo installato.» «Noah, tu non hai idea di quanto sia complesso questo programma. Devo incorporare milioni di fattori nell'architettura del software e mi chiedi di farlo alla velocità della luce, per giunta.» «Smettila Bamber, l'ultima cosa che mi serve è una tua predica. Fai quello che devi fare.» Le dita di Perlis si mossero sulla tastiera del portatile per chiudere i programmi. «Sei sicuro che ritroverò tutti i parametri che ho caricato nella nuova versione?» «Certo. E il motivo per cui Bamber ha una memoria così voluminosa.» «Non deve andare perduto niente» si raccomandò Noah, e tra sé aggiunse: Non in questa ultima fase, almeno. Siamo quasi sulla linea del traguardo. «Fammi sapere quando sei pronto» disse Bamber. Tutti i programmi erano stati chiusi ma, a causa dei protocolli molto complessi, passarono diversi minuti prima che Noah riuscisse a uscire dal software di protezione di proprietà della Black River. Intanto aveva trattenuto la telefonata di Bamber per chiamare un secondo telefono satellitare. «C'è un tizio da sistemare» disse. «Sì, adesso. Rimani in linea che ti darò tutti i particolari tra un minuto.» Riprese la chiamata di Bamber. «E tutto pronto.» «Andiamo, allora!» *** Capitolo 26 Khartoum sembrava un'indecorosa camera mortuaria. Il gusto dolce della morte era dappertutto e si mischiava all'odore pungente delle pistole. Ombre minacciose nascondevano uomini che fumavano e scandagliavano le strade buie con lo sguardo imperscrutabile dei cacciatori in cerca di prede. Bourne e Tracy erano a bordo di una scomodissima raksha a tre ruote e sfrecciavano contromano a una velocità assurda. Correvano lungo viali pieni di carretti trainati da asini, sfioravano minibus stracolmi e macchine che eruttavano nuvole di fumo azzurro. Erano entrambi stanchi e nervosi. Bourne non era riuscito a contattare né Moira né Boris, e Tracy era terrorizzata dall'imminente incontro con Noah. «Non voglio essere presa alla sprovvista quando varcherò quella porta» disse mentre entravano in un hotel del centro. «Ecco perché ho fissato l'appuntamento con Noah domani mattina. Stasera ho più bisogno di una bella dormita che dei suoi soldi.» «E lui cosa ti ha risposto?» Salirono in ascensore diretti all'ultimo piano, richiesto da Tracy al momento della prenotazione. «Non era contento, ma cos'avrebbe dovuto dire?» «Non si è offerto di venire lui qui?» Tracy arricciò il naso. «No.» Bourne pensò che fosse strano. Se Noah era così impaziente di entrare in possesso del Goya, perché non aveva proposto di completare la transazione in hotel? Avevano due camere attigue con la stessa vista su al-Morgan - il punto in cui il Nilo Azzurro e il Nilo Bianco si uniscono - con una porta comunicante. Il Nilo Bianco scorreva verso nord dal lago Victoria, mentre il Nilo Azzurro verso ovest dall'Etiopia. Il Nilo, il fiume principale, fluiva in Egitto. L'arredamento della stanza era in cattivo stato. Lo stile e il grado di usura suggerivano che fosse lo stesso dagli anni Settanta. I tappeti puzzavano di sigarette e profumo da quattro soldi. Tracy appoggiò il Goya sul letto, andò subito verso la finestra e la spalancò. La corrente era come un aspirapolvere che portava via tutti gli odori della stanza. La ragazza sospirò mentre tornava a sedersi vicino al suo gioiello. «E da troppo tempo che viaggio. Mi manca casa mia.» «Dov'è?» le chiese Bourne. «Di sicuro non a Siviglia.» «No, no, non a Siviglia.» Si sistemò i capelli dietro le orecchie. «Vivo a Londra, a Belgravia.» «Molto cool.» Tracy rise di gusto. «Sì, dovresti vedere il mio appartamento. E minuscolo, ma è mio e mi piace. Nel vicolo sul retro c'è un pesco che fa dei fiori bellissimi; in primavera le rondini vengono lì a fare il nido e le cicale mi fanno la serenata ogni sera.» «Perché te ne sei andata?» La sua risata era argentina, allegra. «Voglio farmi strada nel mondo, come tutti.» Intrecciò le dita, poi aggiunse: «Perché Don Herrera ti ha mentito?». «Le ragioni potrebbero essere tante.» Bourne guardò fuori dalla finestra. Le luci illuminavano l'ansa del Nilo, i riflessi della città danzavano sull'acqua nera e infestata di coccodrilli. «Ma la più logica è che si sia alleato con l'uomo che sto cercando, quello che mi ha sparato.» «Non è una strana coincidenza?» «Lo sarebbe» disse, «se non fosse una trappola.» A Tracy ci volle un momento per digerire la notizia. «Allora l'uomo che ha cercato di ucciderti vuole che tu vada al 779 di elGamhuria Avenue.» «Credo di sì.» Si voltò verso la ragazza. «Ecco perché non sarò con te quando varcherai quella porta.» Tracy sembrò preoccupata. «Non so se ho la forza di affrontare Noah da sola. Dove sarai?» «La mia presenza renderà la situazione ancora più pericolosa per te, credimi.» Le sorrise. «Comunque ci sarò, ma non passerò dalla porta principale.» «Vuoi dire che mi userai come diversivo?» Non solo era di una bellezza fuori dal comune, pensò Bourne, ma era anche intelligente. «Spero non ti dispiaccia.» «Per niente. Hai ragione, sarò più al sicuro se mi presento da sola.» Corrugò la fronte. «Perché la gente ha sempre bisogno di mentire?» I suoi occhi trovarono quelli di Jason. Forse lo stava paragonando a qualcun altro, o magari solo a se stessa. «Sarebbe così terribile se tutti dicessero la verità?» «La gente preferisce nascondersi per evitare di ferirsi.» «Ma si feriscono ugualmente, no?» Tracy scosse la testa. «Credo che le persone mentano a se stesse con altrettanta facilità con cui mentono agli altri, se non addirittura di più.» Piegò la testa da una parte. «E una questione di identità. Voglio dire, nella tua testa tu puoi essere chiunque, fare qualsiasi cosa. Tutto è malleabile, mentre nel mondo reale il cambiamento, ogni cambiamento, è difficile e faticoso. Si esce sconfitti dallo scontro con tutte quelle forze esterne che siamo incapaci di controllare.» «Puoi anche assumere un'identità del tutto nuova» replicò Bourne, «una in cui i cambiamenti sono meno difficili perché sei in grado di ricreare la tua storia.» Tracy annuì. «Sì, ma significherebbe niente famiglia, niente amici...» «Non a tutti importa.» Bourne guardò oltre le spalle di Tracy, come se il muro fosse una finestra nei suoi pensieri. Si chiedeva di nuovo chi fosse: David Webb, Jason Bourne o Adam Stone? La sua vita era tutta un'invenzione. Che non potesse continuare a vivere nei panni di David Webb gli era chiaro già da tempo, e per quanto riguardava Jason Bourne c'era sempre qualcuno che si nascondeva nella sua vita dimenticata e che lo voleva morto. E Adam Stone? Poteva definire la sua come una condizione vuota, ma non era del tutto vero, perché le persone che lo incontravano reagivano a lui, reagivano a chiunque fosse il vero Bourne. Più tempo passava con gente come Tracy, più cose imparava su se stesso. «E a te? A te non fa paura restare solo?» lo mise alle strette la ragazza dopo averlo raggiunto alla finestra. «Io non sono solo» le rispose. «Sono insieme a te.» Tracy sorrise e scosse la testa. «Complimenti, hai perfezionato l'arte di rispondere alle domande senza rivelare niente di te.» «E perché non so mai con chi sto parlando.» Tracy gli lanciò un'occhiata di sbieco, come per capire il vero significato di quelle parole, poi guardò fuori dalla finestra verso il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro che serpeggiavano attraverso l'Africa del Nord, come una storia che si legge prima di dormire. «Di notte le cose diventano trasparenti, incorporee.» Toccò il proprio riflesso nel vetro della finestra. «I nostri pensieri e le nostre paure, chissà perché poi, vengono in qualche modo ingigantiti, assumono le proporzioni dei titani o degli dèi.» Era in piedi molto vicina a Bourne, la sua voce si abbassò fino a sembrare un sussurro. «Siamo buoni o cattivi? Cosa c'è davvero nei nostri cuori? E scoraggiante non saperlo, o non saper decidere.» «Forse siamo buoni e cattivi» disse Jason, interrogandosi su tutte quelle identità e chiedendosi quale potesse essere la verità, «a seconda del momento e delle circostanze.» Arkadin si era smarrito nella notte azerbaigiana illuminata dalle stelle. Alle cinque di quella mattina, lui e il suo gruppo di soldati erano partiti per scalare le montagne. La loro missione era trovare i cecchini nascosti lungo il cammino e ucciderli con delle pistole per la guerra simulata con proiettili di vernice, che avevano lo stesso peso degli AK-47 e che erano stati inviati nel Nagorno-Karabakh. Venti membri delle tribù indigene, dotati anche loro di fucili per la guerra simulata, si erano imboscati lungo la strada. Quando Arkadin aveva dato loro i fucili, ne aveva dovuto spiegare il funzionamento perché credevano fossero giocattoli. Eppure, nel giro di mezz'ora i membri delle tribù erano diventati esperti nell'uso delle pseudoarmi da fuoco. I suoi uomini avevano mancato i primi due cecchini, ma gli altri novantotto erano stati «uccisi» prima che riuscissero ad accovacciarsi. Arkadin sperava che avessero imparato dalla loro disattenzione. Quell'esercitazione era durata tutto il giorno, il crepuscolo stava ormai calando, ma Arkadin li spronava a proseguire. Si fermarono una sola volta. Quindici minuti per mangiare le proprie razioni, poi continuarono a inerpicarsi sempre più in alto, fin quasi a toccare la volta celeste. A mezzanotte classificò gli uomini in base alla loro prestazione, alla resistenza e alla capacità di adattarsi alle più diverse situazioni, poi lasciò che si accampassero. Come al solito mangiò poco e non dormì affatto. Sentiva i dolori e le tensioni del suo corpo, ma erano lievi e gli sembravano molto lontani, come se appartenessero a un altro Arkadin che conosceva solo di sfuggita. L'alba era arrivata prima ancora che riuscisse a calmare la sua mente fervida; raccogliendo le energie tirò fuori il satellitare e digitò una serie di numeri, riuscendo a connettersi a una linea che smistò la chiamata più e più volte e ogni volta gli veniva richiesto di inserire un codice diverso che gli permetteva di continuare la telefonata. Infine una voce umana rispose all'altro capo del filo. «Non mi aspettavo di sentirti.» Le parole di Nikolaj Evsen non nascondevano rimprovero, ma solo curiosità. «A essere sinceri» disse Arkadin, «non pensavo di chiamare.» Sollevò la testa, fissando le ultime stelle. «Mi è stato riferito qualcosa che credo tu debba sapere.» «Come sempre, ti ringrazio per la premura.» La voce di Evsen era sgradevole come il suono di una sega sul metallo. C'era qualcosa di ferino, un potere terrificante che apparteneva a lui soltanto. «Quella donna, Tracy Atherton, non è sola.» «E perché quest'informazione dovrebbe interessarmi?» Soltanto Evsen, pensò Arkadin, aveva la capacità di trasmettere una calma letale con il solo tono della voce. Nel corso della sua carriera da mercenario con la grupperovka era riuscito a conoscere quel trafficante d'armi così bene da arrivare a diffidare di lui. «E insieme ajason Bourne» aggiunse, «che è in cerca di vendetta.» «Lo siamo tutti, in un modo o nell'altro. Perché lui la starebbe cercando qui?» «Bourne crede che tu abbia ingaggiato il Torturatore per ucciderlo.» «E da cosa l'avrebbe dedotto?» «Forse un rivale. Posso scoprirlo, se vuoi» si offrì Arkadin. «Non importa» rispose Evsen. «Questo Jason Bourne è già un uomo morto.» Proprio quello che volevo sentirmi dire, pensò Arkadin, incapace di impedire alla sua mente di tornare al passato. A circa ottocento chilometri da Niznij Tagil, mentre la luce del giorno a mano a mano lasciava il posto alla notte, Tarkanian guidava verso il villaggio di Jaransk in cerca di un dottore. Avevano già fatto tre soste lungo la strada, per rifocillarsi almeno un po'. E lui controllava le condizioni di Oserov. Alla terza fermata, ormai prossimi al tramonto, aveva trovato Oserov bagnato della sua stessa urina. Aveva la febbre e sembrava morto. Durante la veloce traversata lungo autostrade incomplete, deviazioni accidentate e strade sospette, le bambine erano rimaste tranquille, prese com'erano dai racconti strabilianti della madre: le avventure fantastiche e le imprese del dio del fuoco, del vento, e soprattutto del dio-guerriero, Chumbulat. Arkadin non aveva mai sentito nemmeno nominare quelle divinità, e si chiedeva come mai Joskar se le fosse inventate per le sue bambine. Non erano solo queste ultime a restare catturate da quei racconti: anche Arkadin li ascoltava come fossero dei documentari su un paese lontano nel quale sognava di andare. Così, quel lungo viaggio si tramutò per lui nell'esplorazione di un mondo onirico fantastico. Arrivarono a Jaransk troppo tardi per trovare un ambulatorio aperto. Tarkanian, chiedendo indicazioni ai passanti, giunse all'ospedale. Arkadin rimase in macchina con Joskar. Scesero entrambi per sgranchirsi le gambe, lasciando le ragazze sul sedile posteriore a giocare con la matrioska colorata che Arkadin aveva comprato lungo il tragitto. La donna si voltò indietro per guardare le bambine. Le ombre coprivano le ferite e i lividi sul suo viso, mentre le luci argentee ne sottolineavano i tratti esotici, uno strano miscuglio tra lineamenti asiatici e finlandesi. Aveva gli occhi grandi e un po' a mandorla, la bocca era generosa, con labbra carnose, di una sensualità quasi erotica. Il fatto poi che non sembrasse consapevole della sua bellezza la rendeva ancora più magnetica. «Le hai inventate tu le storie che hai raccontato alle tue figlie?» le chiese. Joskar scosse la testa. «Mi sono state raccontate quando ero solo una bambina che guardava il Volga. A mia madre erano state raccontate dalla sua mamma e così via indietro nel tempo.» Si voltò verso di lui. «Sono storie della nostra religione. Io sono una mari.» «Mari? Mai sentito prima.» «Il mio popolo viene definito ugro-finnico. Siamo quelli che voi cristiani definite pagani. Crediamo in molti dèi, gli dèi che popolano le mie storie, e in molte altre divinità che camminano tra noi con sembianze umane.» Quando si voltò verso le bimbe, al suo viso accadde qualcosa di inspiegabile. Era come se fosse diventata una di loro, una delle sue bambine. «In origine eravamo finlandesi. Poi, abbiamo iniziato a imparentarci con dei girovaghi venuti dal Sud e dall'Est. Piano piano, questo popolo dalla cultura germanica e asiatica si spostò sul Volga, nelle terre che vennero poi incorporate nella Russia. Ma non siamo mai stati accettati dai russi, per niente inclini a imparare nuove lingue e che temevano tradizioni e costumi diversi dai loro. Noi mari abbiamo un detto: "La cosa peggiore che può farti un nemico è ucciderti. La cosa peggiore che può farti un amico è tradirti. Temi soltanto gli indifferenti, perché nel loro consenso silenzioso prosperano il tradimento e la morte".» «E una lezione di vita piuttosto triste.» «No, se conosci la nostra storia in questo paese.» «Ho sempre pensato che fossi di etnia russa.» «Nessuno lo sapeva. Mio marito si vergognava delle mie origini, così come si vergognava di dovermi sposare. Non lo confidò mai a nessuno.» Guardandola, poteva capire perché Lev Antonin si fosse innamorato di lei. «Perché l'hai sposato?» Joskar rise in modo ironico. «Perché secondo te? Lui è di etnia russa, ed è un uomo potente. Protegge me e i miei bambini.» Arkadin le alzò il mento di modo che il suo viso fosse rischiarato dalla luce. «Ma chi ti protegge da lui?» La donna gli tolse subito la mano, come se le sue dita l'avessero ustionata. «Mi sono assicurata che non toccasse mai i bambini. Questa era l'unica cosa che contava.» «E avere invece un padre che li amasse in modo genuino... questo non ha nessuna importanza per te?» Arkadin pensava al suo di padre che, quelle poche volte che era presente, crollava a terra ubriaco. Joskar sospirò. «La vita è piena di compromessi, Leonid, soprattutto per noi mari. Sono ancora viva, mi ha dato dei figli che adoro e a cui ha giurato non avrebbe mai torto un capello. Questa era la mia vita. Come potrei lamentarmi quando i miei genitori sono stati uccisi dai russi, quando mia sorella è scomparsa che avevo tredici anni, forse rapita e torturata perché mio padre era un giornalista schierato contro la repressione dei mari? A quel punto mia zia mi mandò lontano dal Volga, per assicurarsi che sopravvivessi.» Arkadin osservò una delle piccole giocare sul sedile posteriore. Le sue sorelle si erano addormentate, una contro lo sportello, l'altra con la testa sulla spalla della prima. In quella luce pallida ed eterea, sembravano le fatine delle fiabe della loro mamma. «Dobbiamo trovare un posto in cui cremare mio figlio, e presto.» «Cosa?» «E nato durante il solstizio del dio del fuoco» spiegò, «per cui deve essere il dio del fuoco a condurlo nelle terre della morte, altrimenti vagherà per sempre su questa terra.» «Va bene» la assecondò Arkadin. Era impaziente di arrivare a Mosca, ma si riteneva colpevole della morte di Jasa e non se la sentiva di rifiutare. Inoltre, lei e la sua famiglia adesso erano responsabilità sua. Se non lo avesse fatto lui, nessuno si sarebbe preso cura di loro. «Appena Tarkanian e Oserov saranno di ritorno, noi andremo nel bosco, così potrai trovare il punto più adatto.» «Mi servirà il tuo aiuto. L'usanza mari prevede la partecipazione di un uomo. Faresti questo per Jasa, e per me?» Arkadin osservò il gioco di luci e ombre creato sul viso della donna dai fanali delle auto in transito che cercavano di spingere indietro la notte. Annuì in silenzio. Poco lontano, la guglia di una chiesa ortodossa si innalzava come un dito che ammonisce i peccatori del mondo. Arkadin si domandò come mai si spendessero tanti soldi per qualcosa che non si poteva vedere, ascoltare, toccare. A cosa servivano le religioni? Tutte le religioni? Come se gli avesse letto nel pensiero, Joskar disse: «Tu credi in qualcosa, Leonid, in qualche dio o in qualche divinità, in qualcosa più grande di te?». «Ci siamo noi e c'è l'universo» rispose. «Il resto è come i tuoi racconti.» «Ho visto che li ascoltavi, Leonid. Hanno toccato qualcosa dentro di te che nemmeno tu conosci.» «Era come guardare un film. Sono semplicemente interessanti, tutto qua.» «No, Leonid, fanno parte della storia. Parlano di fatica, migrazioni, sacrifìcio. Parlano di privazioni e sottomissioni, di pregiudizio e della nostra identità, della nostra volontà di sopravvivere a tutti i costi.» La donna lo scrutò più da vicino. «Ma tu sei russo, tu sei il vincitore, e la storia appartiene ai vincitori.» Arkadin non si era mai sentito un vincitore. Si era mai mosso nessuno per difenderlo? I tuoi genitori non dovrebbero sostenerti e proteggerti, invece di imprigionarti e abbandonarti a te stesso? C'era qualcosa di Joskar che toccava una corda nel profondo, come aveva notato lei, e che lui non sapeva esistesse. «Sono russo solo di nome» disse. «Non c'è niente dentro di me, Joskar. Sono un uomo svuotato. Quando prepareremo il rogo per Jasa e daremo fuoco al legno, invidierò il modo puro in cui lascerà questo mondo.» La donna lo guardò con i suoi occhi color dell'ambra, e Arkadin pensò: Se vedo pietà in quegli occhi, la schiaffeggio. Ma non c'era segno di pietà, solo curiosità. Arkadin abbassò lo sguardo e si accorse che Joskar gli stava porgendo la mano. Senza sapere perché, la prese; sentì il suo calore come se il sangue cantasse nelle sue vene. Poi la donna si voltò, fece scendere con delicatezza una delle figlie e gliela mise tra le braccia. «Tienila in questo modo» lo istruì. «Esatto, metti le braccia a forma di culla.» Poi fissò il cielo, dove si potevano scorgere le prime stelle. «Le più luminose si vedono per prime perché sono le più coraggiose» disse la donna con lo stesso tono di voce che usava per raccontare le storie di fate ed elfi. «Ma il momento che preferisco è quello in cui compaiono le più timide. Creano come una striscia di merletto: l'ultima decorazione della notte, prima che la mattina rovini tutto.» Arkadin teneva quella bimba così fragile tra le braccia, la sua pelle le sfiorava i capelli diafani, il piccolo pugno era già stretto attorno al suo indice calloso. Gli era entrata nel cuore. Percepiva il suo respiro. Era come se l'innocenza tornasse dentro di lui. Senza voltarsi, Joskar gli disse a bassa voce: «Non farmi tornare da lui». «Non ti sta riportando indietro nessuno. Perché hai questo timore?» «Il tuo amico non vuole avere niente a che fare con noi. Lo capisco dal modo in cui mi guarda. Sento il disprezzo bruciare sulla mia pelle. Se non fosse stato per te, ci avrebbe abbandonate per strada e io non avrei avuto potuto far altro che tornare da Lev.» «Questo non accadrà» le assicurò Arkadin, sentendo il battito del cuoricino della bimba addormentata contro il petto. «Dovranno uccidermi, prima.» «È giunto il momento di separarsi» disse Bourne a Tracy il mattino seguente. Erano più o meno a cinque isolati dal 779 di el-Gamhuria Avenue. «Non correrai nessun rischio. Mi introdurrò nell'edificio da un'altra entrata.» Erano scesi dalla raksha trovando el-Gamhuria Avenue bloccato da un raduno militare che aveva attirato una grande folla raccolta attorno a un palco su cui erano schierati soldati in uniformi blu, kaki e verdi, a seconda del grado. I volti rasati e sorridenti brillavano al sole, le mani salutavano calorosamente la gente. In mezzo a quel rumore era impossibile capire cosa stessero celebrando. Poco distante, su una strada laterale, un carro armato pieno di armi e con tanto di equipaggio a bordo si rannicchiava come un gatto grassoccio. I due pagarono e si incamminarono lungo il viale costeggiato di palme, rasentando la calca. Bourne guardò l'orologio. «Che ora fai?» «Le 9:27.» «Bene» disse Jason, regolando le lancette. «Dammi quindici minuti, poi corri al 779, entra per la porta principale e presentati alla reception. Mantieni l'attenzione dell'impiegato fissa su di te fino a che non arriva Noah.» Tracy annuì. L'agitazione era tornata. «Non voglio che ti accada niente.» «Ascoltami, Tracy. Ti ho già detto che non mi fido di Noah Perlis. E mi insospettisce il fatto che non sia venuto in hotel per concludere l'affare.» Tracy sollevò il vestito quel tanto che le permetteva di mostrare a Bourne una pistola fissata all'altezza della coscia. «Quando si trasportano oggetti tanto preziosi, non si è mai troppo accorti.» «Se al 779 ci sono metal detector te la troveranno» la avvisò. «No» replicò Tracy dando un colpetto al calcio. «E di ceramica.» «Sei molto furba... ma la sai usare?» Lei rise, poi gli scoccò un'occhiata decisa. «Ti prego, sta' attento, Adam.» «Anche tu.» Bourne si incamminò verso la folla, scomparendo quasi subito alla vista. *** Capitolo 27 Al 779 di el-Gamhuria Avenue c'era una grande struttura moderna in vetro e cemento che si restringeva dalla base alla cima come una ziqqurat. L'edificio aveva l'aria di una fortezza, nonostante il giardino sul tetto. Bourne aveva valutato che fosse proprio quella la parte più vulnerabile. Confuso tra la folla, aveva già fatto due giri del palazzo. Tutte le entrate, comprese quelle secondarie per le consegne, erano controllate. Un camion parcheggiò davanti a una delle porte di servizio, appesantita dalla scatola del condizionatore. Bourne calcolò distanza e vettori mentre attraversava la strada per avvicinarsi. Due uomini erano impegnati a scaricare cassette dal retro del furgoncino, sotto gli occhi vigili e arcigni di una guardia. Passandovi accanto, Bourne memorizzò le posizioni di tutti rispetto al camion. Qualche centinaio di metri più avanti, uno dei tanti tipi loschi della città saltò fuori dal buio e guardò Bourne sospettoso fumando indifferente. « Tour?» offrì in un pessimo inglese. «Migliore guida di tutta Khartoum. Tutto quello che vuoi vedere io porto, anche proibito.» Il ghigno che aveva sulla faccia sembrava uno sbadiglio. «Ti piace proibito, sì?» «Hai una sigaretta?» Il suono della sua lingua lo sorprese così tanto da farlo raddrizzare; lo sguardo all'improvviso più lucido. Offrì a Bourne una sigaretta, e lui la accese subito. «Ti piacciono i soldi?» «Presentami un uomo che non adora i soldi, e ti giuro che piangerò al suo funerale.» Jason sventolò alcuni bigliettoni e gli occhi del tipo losco si spalancarono. Non potè controllarsi, fu una reazione istintiva. Non aveva mai visto tante banconote in vita sua. «Bene.» L'uomo si umettò le labbra. «I posti proibiti di Khartoum saranno a tua disposizione.» Il suo inglese, d'un tratto, divenne fluente. «Me ne interessa uno soltanto» tagliò corto Bourne. «Il 779 di el-Gamhuria Avenue.» L'uomo sbiancò, si passò di nuovo la lingua sulle labbra e rispose: «Signore, c'è proibito e proibito...». Bourne aggiunse altri bigliettoni. «Questi dovrebbero bastare, no?» Non era una domanda, né un'affermazione. Era un ordine che mise l'uomo a disagio. «O devo trovare qualcun altro?» aggiunse. «L'hai detto tu che sei la migliore guida di Khartoum.» «Ed è così, signore!» ribatté afferrando i soldi e facendoli subito sparire. «Nessuno in tutta la città sarebbe in grado di farti entrare nel 779 di elGamhuria Avenue. Sono molto attenti con i visitatori, ma...» fece l'occhiolino, «il cugino di mio cugino lavora lì come vigilante.» Tirò fuori un cellulare e scaricò una raffica di parole in arabo. Seguì una breve discussione sul denaro, poi la sedicente guida turistica mise via il telefono e sorrise. «Non c'è problema. Il cugino di mio cugino adesso si trova al pianoterra, dove stanno scaricando il camion. Dice che è il momento migliore, andiamo.» Bourne lo seguì senza dire una parola. Dopo aver controllato l'orologio per l'ultima volta, Tracy camminò a grandi passi lungo el-Gamhuria Avenue e spinse la porta del 779. Dentro c'era un metal detector sorvegliato da due guardie ostili. Lei e il Goya passarono senza difficoltà. Quel posto non aveva l'aria di essere il quartier generale di una compagnia aerea. Si incamminò verso il tavolo circolare, imponente e austero come la facciata dell'edificio. Un ragazzo dal viso spigoloso tutt'altro che amichevole sollevò lo sguardo. «Tracy Atherton. Ho un appuntamento con Noah Per... Petersen.» «Passaporto e patente» chiese, porgendole la mano. Tracy si aspettava di poter riprendere subito i documenti, ma il ragazzo le disse: «Li riavrà al termine della visita». Esitò un attimo, come se avesse consegnato le chiavi del suo appartamento. Stava per protestare, ma quel giovanotto poco gentile era già al telefono interno. Mentre riagganciava cambiò del tutto atteggiamento. «Il signor Petersen scenderà subito ad accoglierla, signorina Atherton» le comunicò con un sorriso. «Nel frattempo si metta comoda. In quella credenza troverà tè, caffè e Una varietà di biscotti. Per qualsiasi altra esigenza, sono a sua completa disposizione.» Tracy iniziò a esaminare lo spazio intorno, opprimente come quello di un santuario. La divinità da riverire in questo caso era il denaro. Come le chiese, in particolare quelle cattoliche, ispirano sottomissione nell'individuo, così il quartier generale della Air Afrika cercava di intimidire e umiliare i penitenti che ne oltrepassavano il portale. «Signorina Atherton.» Tracy si voltò e vide un uomo magro e brizzolato, di bell'aspetto nonostante i lineamenti marcati. «Noah Petersen.» Sorrise in maniera accattivante e porse la mano a Tracy, che la strinse. Era energica e asciutta. «La puntualità è una qualità che apprezzo molto nelle persone» disse. «Rivela una mente metodica.» Poi inserì una chiave elettronica in uno slot e apri una porta ricavata a filo degli enormi pannelli in cemento. Tracy fu costretta a far passare l'involucro attraverso uno scanner a raggi X. Dopodiché, con un piccolo ascensore salirono al terzo piano. Noah si diresse verso un corridoio sul quale si affacciavano porte in mogano di sei metri senza targhette con nomi o numeri. Sembrava di essere in un labirinto. Da alcune casse nascoste alla vista si diffondeva della musica. Ogni tanto passavano davanti a una foto che raffigurava una modella mezza nuda vicino a un aereo della Air Afrika. La sala conferenze era preparata per una festa. C'erano palloncini colorati e un lungo tavolo carico di cibo. «Il Goya è qui con me. Bisogna festeggiare» le sorrise Noah. Da sotto la tovaglia a righe tirò fuori una valigetta che appoggiò nell'unico spazio libero sopra il tavolo. Tracy vide che dentro c'era l'assegno per il saldo del suo compenso. A quel punto, tolse l'involucro per rivelare il Goya. Noah non lo guardò neppure. «Dov'è il resto?» Tracy gli passò il certificato d'autenticità firmato dal professor Alonzo Pecunia Zuniga. Noah lo esaminò, annuì e lo mise accanto al dipinto. «Perfetto.» Si avvicinò alla valigetta e le porse l'assegno. «Credo che possiamo ritenere concluso il nostro affare, signorina Atherton.» In quel momento squillò il telefono e Noah, chiedendo scusa a Tracy, rispose. Aggrottò le sopracciglia. «Dove?» disse. «Chi? Che vuol dire solo? Dannazione! Non avevo forse... D'accordo, d'accordo, non muoverti finché non arrivo!» Terminò la chiamata con la faccia scura. «C'è qualcosa che non va?» chiese Tracy. «Niente che la riguardi.» Noah accennò un sorriso nonostante fosse chiaramente contrariato. «Si metta pure a suo agio. La verrò a prendere quando sarà sicuro.» «Sicuro? Che significa?» «C'è un intruso nell'edificio.» Noah correva già verso la porta. «Non si preoccupi, signorina Atherton, è con le spalle al muro.» «Sono venuti ad accoglierci nel preciso istante in cui siamo arrivati al KRT» disse Amun Chalthoum. KRT era il codice dell'aeroporto internazionale di Khartoum. «Li ho visti» aggiunse Soraya, «erano due uomini.» «Ed erano insieme ad altri due.» Chalthoum guardò nello specchietto retrovisore. «Sono tutti e quattro in quella Toyota Corolla grigia, tre macchine dietro di noi.» «L'uomo del terminal sembrava del posto.» Chalthoum annuì. «Strano, perché nessuno in loco è stato avvertito del nostro arrivo a Khartoum.» «Non proprio.» Amun sorrise reticente. «In quanto capo di al-Mukhabarat ero obbligato a riferire ai miei superiori che avrei lasciato il paese, anche se solo per poco tempo. Ho scelto di dirlo all'uomo che sospettavo stesse cercando di gettarmi fango addosso.» Gli occhi si fissarono di nuovo sullo specchietto. «Ora almeno ho la prova del suo tradimento. Niente può fermarmi. Porterò almeno uno di quei miscredenti al Cairo per denunciarlo.» «In altre parole» commentò Soraya, «dobbiamo lasciare che ci prendano.» Il sorriso di Amun si allargò. «Che ci raggiungano, così saremo noi a prendere loro.» La partita era finita ormai da un'ora. La casa era piena dell'odore tipico dei giocatori incalliti: cenere, avanzi di pizza, sudore, e il profumo effimero ma potente dei soldi. Quattro persone si erano sedute sul divano in stile art déco: Frederick Willard, Peter Marks, il commissario Lester Burrows, e Reese Williams, che si scoprì essere la proprietaria della casa. Su un tavolinetto c'erano una bottiglia di scotch, un secchiello di ghiaccio e quattro bicchieri. Tutti gli altri avevano raccolto e fiches rimaste e se ne erano andati a casa. Era da poco passata la mezzanotte, in cielo non c'erano né luna né stelle. Le nuvole erano così basse che anche le luci della città sembravano ombre oscure. «Hai vinto l'ultima mano, Freddy» disse Burrows, fissando il soffitto, «ma non mi hai detto cosa ti devo per aver scelto di vedere dopo l'ultimo giro di rilanci. Non avevo più un soldo, hai puntato per me. Mi devo sdebitare.» «Vorrei che rispondessi alla domanda di Peter sui due poliziotti scomparsi.» «Chi?» «Sampson e Montgomery» venne in aiuto Marks. «Ah, quelli.» Il commissario non staccava gli occhi dal soffitto, mentre Reese Williams osservava la scena con espressione enigmatica. «Ci sarebbe anche la questione dell'agente che ha sparato a Jay Weston causando l'incidente su cui Montgomery e Sampson sono stati mandati a investigare» continuò Marks. «Ma non c'è stata nessuna indagine. Soffocata.» Tutti in quella stanza sapevano cosa volesse dire soffocare un'indagine. «Freddy» disse Burrows, «anche questo rientra in quello che ti devo?» Gli occhi di Willard erano fissi sul volto inespressivo di Reese. «Ho puntato un sacco di soldi per permetterti di vedere, Lester.» Il commissario sospirò, distogliendo lo sguardo dal soffitto. «Reese, c'è una bella crepa lassù.» «Ci sono crepe in tutta la casa, Les» commentò la donna. Burrows sembrò riflettere su cosa dire. «Non devono esserci crepe nelle informazioni che vi darò. Qualsiasi cosa uscirà da questa bocca, signori, è strettamente confidenziale, top secret, o in qualunque altro modo lo vogliate definire. Raddrizzò la schiena. «Non solo negherò 382 ogni cosa, ma farò di tutto per provare il contrario e per mandare nella polvere chiunque affermi che sia stato io a parlare. Siamo intesi?» «Sì» disse Marks, mentre Willard annuiva in silenzio. «I detective Sampson e Montgomery sono andati a pesca sullo Snake River, nell'Idaho.» «Sono andati a pesca o sono morti?» andò dritto al punto Marks. «Santo Dio, no. Ci ho parlato ieri!» rispose Burrows infervorato. «Volevano sapere quando sarebbero potuti tornare a casa. Ho detto loro che non c'era alcuna fretta.» «Lester» intervenne Willard, «non sono a spese tue, spero.» «Lo Zio Sam ha tasche ben più profonde delle mie» riconobbe il commissario. Willard osservava le emozioni attraversare il viso di Burrows. «Per l'esattezza, quale parte dello Zio Sam?» «Non me l'hanno confidato. E la verità.» Burrows cambiò umore, come se nessuno gli confidasse mai niente di importante. «Ma mi ricordo il nome del suo rappresentante, se vi può aiutare.» «A questo punto» disse Willard deciso, «qualsiasi cosa può rivelarsi utile, anche uno pseudonimo.» «Maledizione, nessuno dice mai la verità in questa città!» Burrows alzò un dito con fare minaccioso. «Lasciate che.vi dica che nessuno dei miei agenti di polizia ha sparato al vostro Jay Weston, di questo ne sono certo. L'ho appurato di persona.» «Allora vuol dire che qualcuno si è travestito da uno dei tuoi agenti» rifletté Willard con calma, «per portarci fuori strada.» «Mi spaventi.» Burrows scosse la testa. «Tu vivi nel tuo mondo. Cristo santo, che casino!» Scrollò le spalle, attraversato da un brivido di terrore. «L'uomo che ha sistemato i miei detective si chiama Noah Petersen. Vi dice niente, o mi hanno raccontato un'altra balla?» Bourne lasciò l'improwisata guida turistica al via libera, poi si fece strada verso l'interno dell'edificio passando per la porta di servizio. Aggrappandosi alla maniglia posteriore del camion, si issò fino ad afferrare il bordo superiore e si rotolò sul tettuccio. Facendo leva sulla scatola del condizionatore raggiunse poi un appoggio in cemento sulla facciata dell'edificio e riuscì ad arrivare alla rientranza del secondo piano. Usando lo spazio tra i lastroni di cemento, si inerpicò fino al terzo. Si portò sopra il parapetto e approdò sul pavimento piastrellato del giardino pensile. Era un mosaico di fragranze e colori. Bourne si accovacciò nella zona d'ombra, respirò il profumo del tiglio e studiò la disposizione del giardino sul tetto deserto. Si vedevano due strutture più piccole: la porta che conduceva verso l'interno e una rimessa per gli attrezzi. Si diresse verso l'entrata e notò che era protetta da un allarme. Sarebbe scattato nell'attimo in cui avrebbe aperto la porta. Tornò indietro verso la rimessa degli attrezzi. Prese una potatrice e uno spelatili e li portò verso il parapetto. Sul bordo, trovò i fili elettrici. Con la potatrice tagliò un bel pezzo di filo, da cui tolse il materiale isolante. Una volta arrivato alla porta, tastò la parte superiore in cerca del cavo dell'allarme, tolse due sezioni di isolante e congiunse le due estremità del filo elettrico che aveva appena tagliato a quello dell'allarme, poi lo tagliò tra le due impiombature che aveva improvvisato. Aprì la porta con estrema cautela e si intrufolò dentro. Aveva funzionato: l'allarme non era scattato. Scese le scalette fino ad arrivare al terzo piano. La prima cosa da fare era scovare Arkadin. La seconda era trovare Tracy e portarla via da lì. Tracy stava vicino alla finestra, persa dietro il caos delle strade, quando sentì la porta aprirsi. Pensando si trattasse di Noah, si voltò, ma vide un uomo con la testa rasata, un orecchino di diamante e il tatuaggio di un pipistrello. Sembrava un wrestler o uno di quei lottatori che aveva visto alla tv americana. «E così tu sei quella che ha portato qui il mio Goya» disse l'Uomo-pipistrello. Aveva l'andatura ciondolante tipica degli uomini muscolosi. «E di Noah» precisò Tracy. «No, cara la mia signorina Atherton, è mio» disse l'Uomo-pipistrello, biascicando le parole con uno stridulo accento inglese. «Perlis l'ha comprato per me.» Teneva il dipinto alto di fronte a sé. «E il mio pagamento.» La sua risata soffocata sembrava l'ultimo rantolo di un moribondo. «Un prezzo unico per un servizio unico.» «Lei sa il mio nome» osservò Tracy, spostandosi verso il tavolo imbandito per la festa. «Ma io non so il suo.» «Sicura di volerlo conoscere?» Continuò ad analizzare il Goya con fare da esperto. Poi, senza lasciarle tempo per rispondere, disse: «Ah, bene... mi chiamo Nikolaj Evsen. Forse hai già sentito parlare di me. Sono il proprietario della Air Afrika, e di questo edificio». «Non ho mai sentito parlare né di lei né della Air Afrika. Io mi occupo di arte.» «Ah, davvero?» Evsen appoggiò di nuovo il Goya sul tavolo e la fissò. «E allora che ci fai insieme a Jason Bourne?» «Jason Bourne?!» Tracy corrugò la fronte. «Chi è Jason Bourne?» «L'uomo che è venuto qui con te.» «Ma di che sta parlando? Io sono venuta da sola. Noah glielo potrà confermare.» «Perlis è impegnato, al momento. Sta interrogando il tuo amico.» «Io non...» Le altre parole le morirono in gola quando vide comparire una pistola calibro .45. *** Capitolo 28 «Se ti occupi di arte» le chiese Evsen, «cosa ci fai in compagnia di un assassino senza scrupoli? Quell'uomo ti pianterebbe un proiettile in testa senza pensarci due volte.» «Non mi pare sia lui a minacciarmi con una pistola» ribatté Tracy. «L'hai portato qui in modo che mi uccidesse.» Il volto di Evsen trasmetteva forza bruta. Era abituato a ottenere quello che voleva, sempre e da chiunque. «Mi chiedo perché l'hai fatto.» «Non capisco.» «Per chi lavori?» «Lavoro per me stessa. Lo faccio da anni.» Evsen si morse le labbra carnose. «Okay, te lo spiego meglio, signorina Atherton. Nel mio mondo ci sono due tipi di persone: gli amici e i nemici. Devi decidere da che parte stare, adesso, in questo preciso momento. Se non mi dirai la verità, ti pianterò un proiettile nella spalla destra. Poi ti rifarò la stessa domanda. Il silenzio o una bugia ti faranno soltanto guadagnare un altro proiettile, stavolta in quella sinistra. Poi inizierò a lavorare su questo faccino dolce.» Mosse la pistola contro la ragazza. «Una cosa è certa: quando avrò finito, non avrai più un bell'aspetto.» Di nuovo quella risata soffocata. «Il ragazzo che è con me si chiama Adam Stone. E tutto ciò che so, davvero.» «Vedi, il problema, signorina Atherton, è che non percepisco verità nelle tue parole.» «Non sto mentendo!» Evsen si avvicinò alla ragazza. «Così mi offendi. Dovrei credere che hai portato con te una persona di cui non conosci nient'altro che il nome... che poi, tra l'altro, non è nemmeno il suo?» Tracy chiuse gli occhi. «No, certo che no.» Fece un respiro profondo. «Sì, sapevo che il suo vero nome era Jason Bourne, e sì, il mio compito non era solo quello di portare il Goya a Noah, ma di assicurarmi che arrivasse qui anche lui.» Gli occhi di Evsen si strinsero. «Perché è stato mandato qui? Cosa sta cercando?» «Non lo sai? Eppure hai inviato uno dei tuoi assassini a Siviglia. Un uomo con una cicatrice e un tatuaggio con tre teschi sul collo.» «Il Torturatore?» Il viso di Evsen si contorse in un'espressione di disgusto. «Preferirei tagliarmi un braccio che ingaggiare quell'individuo spregevole.» «Io so soltanto che lui crede che l'uomo che ha cercato di ucciderlo sia qui. Lo stesso uomo che deve aver mandato il Torturatore.» «Non sono io. Gli hanno fornito informazioni sbagliate.» «Allora non capisco perché mi abbiano chiesto di portarlo qui.» Evsen scosse la testa. «Chi ti manda?» «Leonid Arkadin.» Evsen puntò la calibro .45 contro la spalla destra di Tracy. «Un'altra bugia! Perché Leonid Danilovic dovrebbe volerlo qui?» «Non lo so, ma...» Notando lo sguardo di Evsen soppesò bene le parole prima di rispondere, e le venne in mente un collegamento. «Aspetta un attimo, dev'essere stato Arkadin a dirti che Bourne era con me. Dev'essere stato lui a mandare il Torturatore, il che significa che è qui ad aspettarlo.» «Essere a un passo dalla morte deve averti resa disperata. Leonid Danilovic Arkadin è nel NagornoKarabakh, in Azerbaigian.» «Ma ancora non capisci? Arkadin è l'unico che sapeva che Bourne era con me.» «Stronzate! Leonid Danilovic è un mio alleato.» «Perché dovrei mentire? Arkadin mi ha pagato ventimila dollari in diamanti.» Evsen balzò indietro per lo stupore. «I diamanti sono la firma di Leonid Danilovic. Maledetto, che cos'ha in mente quel bastardo? Se pensa di poter fare il doppio gioco con me...» In quel momento Tracy vide Bourne correre lungo il corridoio. Evsen riconobbe l'espressione di sorpresa nei suoi occhi. Si voltò verso la porta con la calibro .45 spianata. La sensazione di trionfo di Noah Perlis svanì non appena vide la cosiddetta guida turistica e il vigilante che gli uomini della sicurezza avevano fermato. «Che diavolo vuol dire?» domandò in arabo sudanese. Con un gesto della mano, mandò alcuni uomini in strada per controllare se ci fosse qualcun altro. Poi interrogò il vigilante, che però non sapeva nulla. Il capo della sicurezza, che intanto lo aveva raggiunto, lo licenziò su due piedi. «Chi sei e che ci fai, qui?» domandò, poi si voltò verso l'imbroglione. «Io... io mi sono perso, signore. Stavo parlando con il cugino di mio cugino, l'uomo che ha appena licenziato. Quando sentirà la mia storia, capirà che si tratta di una punizione troppo severa.» L'uomo teneva lo sguardo basso in segno di sottomissione. «Vede, il cugino di mio cugino doveva andare in bagno, ma non voleva mandarmi via perché avevo bisogno di soldi per i miei bambini...» «Basta così!» Noah lo colpì al volto. «Mi hai scambiato per un turista da imbrogliare con le tue storielle?» Gli mollò un altro ceffone, stavolta più forte. L'uomo balzò all'indietro. «O mi dici cosa ci fai qui, oppure ti lascio nelle mani di Sandur.» Il capo della sicurezza fece una smorfia. Sembrava un pitbull. «Sandur sa cosa farne di vermi come te.» «Io non...» Stavolta Noah gli assestò un pugno in bocca. La maglia sudicia si sporcò di sangue. «Ci sarà la luna piena, stasera, ma non sperare di arrivare a vederla.» L'uomo iniziò a raccontare di essere stato avvicinato da un americano che voleva entrare al 779 di el-Gamhuria Avenue. In quel momento ritornarono gli uomini della sicurezza che Noah aveva mandato in strada. Uno di loro gli sussurrò qualcosa in un orecchio. Perlis prese il poveraccio e lo lanciò tra le braccia di Sandur. «Tieni, occupati di lui.» «Signore, abbia pietà» protestò l'uomo, «non me lo merito, giuro che non mento.» Ma Noah non era più interessato a quell'uomo. L'improvviso istinto di mettersi al sicuro aveva preso il sopravvento. Si avvicinò alle luci dell'area di carico e spuntò fuori dalle tenebre. C'era un minibus parcheggiato dall'altra parte della via. Pieno. Per questo gli uomini della sicurezza si erano insospettiti. Poi Noah vide il luccichio di un pezzo di metallo - la bocca di un AK-47 - e le sue paure peggiori divennero realtà. Qualcuno stava per irrompere negli uffici della Air Afrika. Era così stordito da non riuscire nemmeno a pensare a chi potesse avere i mezzi per quell'impresa impossibile. Ma non era importante in quel momento. Doveva allontanarsi da lì prima di rimanere in mezzo al fuoco incrociato tra i mercenari di Evsen e gli incursori nel minibus dall'altra parte della strada. Bourne setacciò il terzo piano dell'edificio, mantenendosi a debita distanza dagli uomini della sicurezza. All'improvviso sentì una voce profonda rimproverare qualcuno. Proveniva dalla stanza davanti a lui. Quando capì che si trattava di Tracy iniziò a correre all'impazzata, convinto che fosse stata catturata da Arkadin. Si catapultò all'interno della stanza e vide un uomo massiccio con un pipistrello tatuato sul collo girarsi e fare fuoco. Si piegò e si spostò verso il tavolo stracolmo di cibo. In quel momento scorse Tracy che tirava fuori la pistola. Udì un altro sparo e si scaraventò contro le gambe dell'uomo. Evsen perse l'equilibrio proprio mentre sparava a Tracy. La ragazza riuscì a evitare il proiettile, che colpì una delle ciotole di vetro facendo schizzare i frammenti in tutte le direzioni, ma la sua pistola finì per terra. Bourne e l'Uomo-pipistrello caddero a terra. Jason cercava di sottrargli la calibro .45. Partì un altro colpo. Il proiettile gli sibilò nelle orecchie, rendendolo momentaneamente sordo. L'Uomo-pipistrello gli diede un pugno alle costole. Bourne rispose piantandogli le nocche nella mascella e colpendolo tre volte al collo. Evsen spinse la bocca della calibro .45 contro la tempia di Bourne, che ricacciò indietro l'avversario. Tre colpi in successione sulla gabbia toracica, però, gli tolsero il respiro e si ritrovò la pistola puntata alla testa. Jason riuscì a scartare e a deviare il colpo, che gli ferì una spalla. Bourne riuscì comunque a disarmarlo. L'Uomo-pipistrello ricacciò indietro l'americano, si diresse verso la pistola e gli abbatté il calcio contro la tempia. La testa di Jason rimbalzò sul pavimento con un colpo sordo. L'Uomo-pipistrello continuò ad attaccare, sentendo già odore di vittoria. Bourne si trascinò sotto il tavolo per ripararsi. Stava per perdere i sensi. L'uomo grugniva a ogni colpo, sollevandosi mentre agitava il calcio pesantissimo. Jason si trascinò quel tanto che bastava per raggiungere la pistola di Tracy sul pavimento. Freddo e determinato, la puntò verso l'Uomo-pipistrello e gli sparò in faccia. L'aria si riempì di sangue, ossa e pezzi di materia grigia. Anche se stordito, Bourne percepì il rumore di qualcosa che cadeva sul pavimento. Per un secondo rimase con la schiena a terra, il cuore impazzito. Il dolore della ferita riportata a Bali si era diffuso in tutto il corpo. Lo scontro di poco prima aveva avuto un effetto deleterio. Era come essere stato investito da un treno in corsa. Poi respirò e sentì il sangue circolare di nuovo nelle vene. Arrivò il tocco di Shiva a spazzare via il freddo della morte dalle sue ossa. Il dio lo aveva protetto ancora una volta, distendendo le sue enormi braccia per riportarlo nel mondo dei vivi. All'improvviso udì una raffica di colpi provenire dall'atrio. Contrasse i muscoli, si mosse e urlò di dolore dopo aver provato ad alzare il gomito. La testa era in un lago di sangue, ma non era il suo, era quello dell'Uomo-pipistrello, ormai morto e sfigurato. Fu allora, tra il rumore dei fucili che si faceva sempre più vicino, che si guardò intorno in cerca di Tracy. Era distesa su un fianco oltre il tavolo. «Tracy» sussurrò, poi la chiamò più agitato. «Tracy!» La ragazza mosse il braccio destro per rispondere. Bourne si trascinò dolorante sotto il tavolo, attraversando il mare di frammenti di vetro che gli si conficcarono nelle mani. «Tracy.» Lei aveva lo sguardo fisso. Appena Bourne comparve nel suo campo visivo, un piccolo sorriso le illuminò il volto. «Sei qui.» Si piegò su di lei, mettendole un braccio sotto le spalle. Quando si mosse per sollevarla, però, il volto le si contrasse e iniziò a piangere. «Oh, Dio... Dio, aiutami!» «Che c'è? Che succede?» Lo fissò in silenzio, una nuvola di dolore le aveva offuscato gli occhi. Le alzò il dorso facendo attenzione, e vide i due frammenti di vetro conficcati nella schiena. Asciugandole il sudore dalla fronte, le disse: «Tracy, prova a muovere i piedi. Fallo per me». I piedi rimasero immobili. «E le gambe?» Niente. Le pizzicò la coscia. «Senti qualcosa?» «Cosa...? Che cos'hai fatto?» Era paralizzata. Uno dei due frammenti le aveva reciso dei nervi importanti. E l'altro? Bourne cercò di capire fino a che punto andasse in profondità il pezzo di vetro. Erano lunghi più o meno venti centimetri. Rivide la scena in cui Tracy si era girata, mentre il proiettile di Evsen mandava in frantumi la ciotola di vetro. L'effetto era stato quello di una bomba imbottita di chiodi. Il tuono dei fucili semiautomatici era sempre più vicino. «Devo portarti in ospedale» disse Bourne, ma quando tentò di spostarla, Tracy vomitò sangue. Jason tornò ad appoggiarsi a terra, cullandola tra le sue braccia. «Non andrò da nessuna parte.» «Non ti lascerò...» «Lo so io e lo sai anche tu. Non voglio restare sola, Jason» mormorò Tracy a fatica. Bourne la sostenne, mentre si abbandonava contro il suo corpo. «Perché mi chiami così?» «So il tuo vero nome, l'ho sempre saputo, fin dal primo momento in cui ci siamo incontrati. E non è stato per caso. Sta' fermo» disse, «devo raccontarti un sacco di cose e non c'è molto tempo.» Tracy si passò la lingua sulle labbra insanguinate. «Arkadin mi ha pagata perché mi assicurassi che tu venissi qui. Nikolaj Evsen, l'uomo che hai appena ucciso, mi ha detto che Arkadin si trova nel Nagorno-Karabakh, in Azerbaigian. Il perché non lo so, ma non è qui.» E così lavorava per Arkadin. Bourne scosse la testa inorridito dalla bravura con cui aveva recitato. Aveva fatto in modo che sospettasse di lei, per poi fornire una spiegazione plausibile. Così lui aveva abbassato la guardia. Riconobbe la mano di Arkadin in quelle minacce, e l'ammirazione si mischiò alla rabbia contro se stesso. Gli occhi di Tracy si dilatarono di colpo. Bourne vide il bianco iniettato di sangue. «Jason!» Il suo respiro si era fatto corto e incostante. Cercò di sorridere. «E nell'ora più buia che i nostri segreti ci divorano vivi.» Bourne le appoggiò due dita sulla carotide. Il battito era debole. Stava scivolando via. Ripensò alla conversazione della sera prima. «Perché la gente ha sempre bisogno di mentire!» gli aveva detto. E capì che Tracy avrebbe voluto svelargli la verità in quel momento. «Sarebbe così terribile se tutti dicessero la verità ?» Parlava della sua doppia vita e dell'incapacità di rivelargliela. «E a te? A te non fa paura restare solo ?» Faticò a capire la situazione, a capire lei. Si impressionò di nuovo di fronte alla miriade di fili che intessevano la trama della vita umana. In quella di Tracy ce n'era qualcuno in più, perché, come lui, conduceva una doppia esistenza. Come Don Herrera e il Torturatore, aveva fatto parte del piano di Arkadin per indurlo a fare... che cosa? Ancora non lo sapeva. Ma lì, a terra, c'era una delle pedine del suo nemico, immobile tra le sue braccia. Era ovvio, ormai, che la notte precedente Tracy si era sentita combattuta riguardo al ruolo che Arkadin le aveva chiesto di recitare. Quel doppio gioco fu un pugno allo stomaco. L'aveva imbrogliato, ma lungo la strada si era ingannata da sola. Tutti quei dubbi andavano al cuore del suo dilemma: il non sapere, l'essere sempre sull'orlo di un'altra identità, il perdere le persone che gli stavano accanto... La morte gli era sempre vicina, era l'altra metà di Shiva, distruttore ma anche messaggero di resurrezione. Tracy iniziò a tremare. «Jason, non voglio restare sola.» Quelle parole malinconiche gli sciolsero il cuore. «Non sei sola, Tracy.» Si piegò sopra di lei e le sfiorò la fronte con le labbra. «Sono qui con te.» «Lo so, ed è bello. Ti sento vicino.» Le uscì un sospiro. «Tracy?» Bourne allontanò le labbra in modo da poter vedere i suoi occhi che fissavano immobili l'infinito. «Tracy.» *** Capitolo 29 «Sta arrivando!» esclamò Humphry. «Quanto ne arriva?» chiese Moira. Bamber guardò i numeri scorrere sullo schermo, mentre la barra del download registrava il trasferimento dal portatile di Noah. «Tutto» rispose quando la barra verde raggiunse il cento per cento. «E giunto il momento di capire cosa sta succedendo.» Moira era piena di adrenalina. I minuti le parevano ore. Si mise a fare avanti e indietro nell'ufficio di Bamber. Sapeva di metallo riscaldato e dischi che giravano veloci, il profumo dei soldi nel Ventunesimo secolo. La stanza era situata nel retro di un palazzo, la luce oscura che veniva da nord formava delle chiazze pallide tra le cataste di materiale elettronico. Come sottofondo il ronzio delle ventole e dei motori. Gli unici due spazi di muro liberi dalle strumentazioni, periferiche e cavi di ogni tipo, erano occupati da una finestra e da una foto di Bamber al college, in cui indossava un completo da football ed era persino più bello di quanto non fosse ora. Quando il giro della stanza portò Moira vicino alla finestra, si fermò a guardare fuori. Nel palazzo di fronte, delle luci fluorescenti illuminavano un ufficio pieno di archivi, fotocopiatrici e scrivanie tutte uguali. Persone di mezza età correvano stringendo fascicoli e relazioni come il naufrago che afferra un pezzo di legno. Nel piano superiore a quell'inferno vide l'atelier di un'artista: una ragazza buttava del colore su un'enorme tela. Era così presa da quello che stava cercando di riprodurre che sembrava ignorare ciò che le stava intorno. «Come va?» chiese Moira, voltandosi di scatto verso Humphry. Bamber era concentrato come l'artista dall'altra parte della via. «Ancora pochi minuti e lo saprò.» Moira annuì. Stava per ricominciare a girare per la stanza in preda all'ansia, quando un movimento rapido riportò la sua attenzione sulla strada. Un'auto si era fermata in fondo all'isolato e ne era sceso un uomo. Qualcosa nel modo in cui si comportava la mise in allarme. Guardava a destra e sinistra in continuazione, come se stesse cercando qualcosa. Un brivido le corse lungo la schiena. Il tipo sospetto, raggiunto l'edificio di Bamber, tirò fuori una serie di strumenti appuntiti. Ne provò diversi nella porta sul retro, fino a che non trovò la forma perfetta della chiave. Moira si chinò ed estrasse la Lady Hawk dalla fondina. «Ho quasi fatto!» annunciò Bamber trionfante. La porta si aprì e l'uomo entrò nel palazzo. «Sembra che Noah Perlis sia il fulcro della storia» osservò Peter Marks. «Ha progettato la morte di Jay Weston, ha fatto lo sgambetto alla polizia e si è infiltrato nella nuova organizzazione di Moira, mettendola in fuga.» «Noah è la Black River» rispose Willard. «E, per quanto sia potente, non credo che quella banda di mercenari riesca a compiere cose del genere senza farsi neanche una domanda . » «Cioè, non credi che ci sia Perlis dietro tutto questo?» «Non lo so.» Willard si grattò la barba sulle guance. «Tuttavia sono convinto che la Black River sia stata aiutata.» I due uomini erano seduti in un locale notturno. Dal jukebox usciva una canzone triste di Tammy Wynette, mentre fuori si udiva il ringhio insistente del camion della nettezza urbana. Un paio di prostitute scheletriche ballavano insieme, avendo ormai rinunciato a lavorare per quella notte. Un uomo coi capelli bianchi e ribelli era curvo sopra il bicchiere; un altro duettava con Tammy con una voce da tenore irlandese e gli occhi bagnati di lacrime. La puzza di vecchie sbronze e di una disperazione ancora più datata impregnava ogni centimetro del mobilio sconnesso. Il barista leggeva il giornale appoggiato sulla sua pancia con lo stesso entusiasmo con cui uno studente sfoglia il libro di matematica. «Da quel che ho capito» continuò Willard, «il principale cliente della Black River è la NSA nella persona del segretario alla Difesa, che si è fatto loro paladino con il presidente.» Marks stralunò gli occhi. «Come fai a sapere queste cose?» Willard sorrise e fece ruotare il bicchierino tra le dita. «Diciamo che stare nella casa sicura della NSA per tutti questi anni mi ha aiutato parecchio, e ha aiutato molto anche quelli come te, Peter.» Si alzò dal tavolo e passò vicino alle due prostitute che gli indirizzarono un bacio. Il jukebox suonava The boys of summer di Don Henley. La canzone sembrava far piangere ancora di più il tenore irlandese che cantava da solo. Willard tornò al tavolo con una bottiglia di whisky. Riempì il suo bicchiere e quello di Marks. «Prima di proseguire» riprese, «vorrei sapere perché non hai riferito air Arabo le notizie che avevi.» «Errol Danziger è il nuovo direttore della CIA» rispose Marks pensieroso, «ma non sono sicuro di volergli dire proprio tutto, tanto più se la NSA risulta essere coinvolta. E uno degli uomini di Halliday.» Willard bevve un sorso di whisky. «E allora che hai intenzione di fare? Andartene?» Marks fece cenno di no. «Amo troppo la CIA. E tutta la mia vita.» Lo guardò con occhi indagatori. «Ti faccio la stessa domanda: te ne vuoi andare?» «Certo che no.» Willard ingollò un altro goccio di whisky. «Ma sto progettando di muovermi a modo mio.» Marks scosse di nuovo il capo. «Non ti seguo.» Willard aveva assunto un'aria contemplativa, o forse era la sua innata riservatezza che lottava con il bisogno di trovare degli adepti. «Conoscevi Alex Conklin?» «Nessuno lo conosceva davvero.» «Io sì. Non lo dico per vantarmi, è la verità. Noi due lavoravamo insieme. Sapevo quello che stava facendo con la Treadstone. Non che lo approvassi, ma ero troppo giovane. Non avevo esperienza, al contrario di Alex. A ogni modo, mi confidava tutti i segreti di quell'operazione.» «Pensavo che non fosse rimasto nulla dei dossier sulla Treadstone.» Willard annuì. «Quelli lasciati intatti dal Grande Vecchio vennero distrutti da Conklin. O per lo meno questa è la sua versione dei fatti.» Marks rimase in silenzio. «Mi stai dicendo che quei dossier esistono ancora?» «Alex preparò una copia di tutti i dossier. Tipico del suo carattere. Soltanto due persone sanno dove sono. E una è morta.» Marks si scolò il whisky. Si appoggiò allo schienale e fissò Willard con attenzione. «Vuoi rimettere in piedi la Treadstone?» Willard riempì di nuovo i bicchieri. «E già in piedi, Peter. Voglio sapere se tu vuoi farne parte.» «Sono qui da non più di quarantott'ore. Forse anche meno.» Yusef, l'agente di Soraya di stanza a Khartoum, era un uomo basso, con la pelle color del cuoio. Aveva grandi occhi brillanti e due orecchie molto piccole che però sentivano sempre tutto. Era uno degli agenti migliori della Typhon, perché era sveglio, intelligente e così aperto da dare fiducia ai giovani che navigavano segretamente in Internet. «Questa è calce viva, vedete? Chiunque li abbia uccisi voleva far sparire i cadaveri. La calce viva corrode tutto, compresi denti e ossa, utili per l'identificazione.» Soraya aveva contattato Yusef subito dopo aver lasciato l'aeroporto e, su richiesta di Chalthoum, aveva organizzato un incontro con lui, nonostante gli uomini che li stavano seguendo. «Sono stati mandati dai miei nemici» le aveva detto Amun in macchina. «Voglio che si avvicinino parecchio, così riusciremo a prenderli.» Yusef aveva saputo dell'uccisione di alcuni uomini da un ragazzo che si era imbattuto nella fossa esplorando i forti di Ansar, poco distanti dal Gorge di Sabaloga. Quelle fortezze erano servite nel 1885 per attaccare le navi venute a liberare il generale britannico Gordon e i suoi uomini esausti. Tutta una rete di ragazzini di Khartoum venne presto a conoscenza del ritrovamento di alcuni cadaveri chattando su Internet. Dopo aver consegnato loro un paio di Glock e qualche munizione in più, Yusef aveva condotto Amun e Soraya per circa ottanta chilometri in direzione nord attraverso il deserto. Avevano utilizzato due veicoli a trazione integrale, perché era troppo rischioso viaggiare con uno solo, viste le strade accidentate e l'inaffidabilità delle auto sudanesi. «Guardate quanto è rimasto dei corpi» commentò, mentre gli altri osservavano la buca poco profonda scavata nel pavimento di terriccio, «malgrado la calce viva.» Soraya scacciò via un nugolo di mosche e si accovacciò. «Abbastanza per vedere che sono stati uccisi con un colpo di pistola alla nuca.» Arricciò il naso. Quanto meno la calce attutiva l'odore rivoltante della decomposizione. «Un'esecuzione in stile militare» osservò Chalthoum. «Ma siamo sicuri che siano quelli che stavamo cercando?» «Sì, sono loro» rispose Soraya. «Riesco a riconoscere quei maiali degli agenti governativi al primo sguardo.» Si girò verso Amun. «C'è una sola ragione per cui degli agenti americani potrebbero essere stati giustiziati a Khartoum e poi portati qui.» Chalthoum annuì. «Per evitare una perdita ben più grande.» In quel momento Yusef prese il cellulare che stava vibrando, lo portò all'orecchio e richiuse subito lo sportellino. «Le mie guardie mi comunicano che siamo in compagnia.» Bourne alzò lo sguardo, mentre una figura familiare compariva sulla porta. L'uomo dagli occhi scuri e torvi teneva in mano un AK-47 e indossava un giubbotto antiproiettile in kevlar. Fissò l'Uomopipistrello disteso a terra. «Nikolaj, stronzo che non sei altro» disse in un russo molto gutturale, «chi ti ha ammazzato prima che potessi riportarti nella nostra Madre Russia? Mi hanno privato del piacere di farti cantare come un usignolo.» Poi, vedendo Bourne, rimase impietrito. «Jason!» muggì il colonnello Karpov. «Avrei dovuto immaginarmelo che c'eri tu dietro tutto questo.» Il suo sguardo si mosse nella stanza, fermandosi sul corpo della giovane ricoperto di sangue. Gridò per chiamare un medico. «E troppo tardi ormai, Boris» mormorò Bourne. Karpov attraversò la stanza e si accovacciò accanto a Jason. Le sue dita grassocce si mossero sopra i frammenti di vetro piantati nella schiena di Tracy. «Che modo orribile di morire.» «Morire non è mai bello.» Karpov passò a Bourne una fiaschetta con del liquore. «Hai ragione.» Il medico della squadra d'assalto, anche lui in tenuta antisommossa, arrivò trafelato. Andò da Tracy cercando di trovarle il polso, ma scosse la testa. «Vittime?» chiese Karpov senza distogliere lo sguardo. «Un morto e due feriti non gravi.» «Chi è morto?» «Milinkov.» Karpov annuì. «E triste, però abbiamo preso l'edificio.» Bourne sentì il fuoco della Sljivovica bruciargli in corpo. Il calore crescente lo fece sentire meglio. «Boris» disse a voce bassa, «assicurati che i tuoi uomini si prendano cura del corpo di Tracy. Non voglio lasciarla qui.» «Certo.» Karpov fece un gesto al medico, che prese la ragazza. Jason la guardò mentre la portavano fuori provando una sensazione di perdita: anche lui, come lei, combatteva per accettare quella doppia vita e il senso di isolamento, cha dà vivere nelle ombre di un mondo che la maggior parte della gente ignorava e non poteva capire. La lotta di Tracy era stata anche la sua. Non voleva lasciarla andar via. Era come se una parte di lui gli venisse strappata con violenza. «Che cos'è questo?» chiese Karpov sollevando il dipinto. «È un Goya, un'opera finora sconosciuta. Appartiene alla famosa serie delle Pitture nere. Ha un valore inestimabile.» Il russo sogghignò. «Spero che non lo desideri con tutto te stesso, Jason.» «Al vincitore spettano le prede, Boris. E così la tua missione a Khartoum riguardava Evsen.» Karpov annuì. «Ho lavorato nell'Africa settentrionale per mesi, cercando di stanare i fornitori, i clienti e tutti i vari anelli della catena del contrabbando di armi che faceva capo a Evsen. E tu?» «Io ho parlato con Ivan Volkin...» «Sì, me l'ha detto. Quel vecchio ha un debole per te.» «Quando Arkadin ha scoperto che il suo attentato a Bali era fallito, ha ideato un nuovo piano. Voleva che arrivassi qui. Il motivo non lo so.» Dopo aver lanciato un'occhiata veloce al cadavere disteso a terra, Karpov aggiunse: «E un mistero, uno dei tanti. Speravamo di trovare sia la lista dei fornitori sia quella dei clienti, ma gli hard disk dei suoi server remoti sembrano essere stati formattati». «Non è stato Evsen» disse Bourne. Si alzò, e Boris fece altrettanto. «Era qui con Tracy, non sapeva della vostra incursione.» Boris si grattò la testa. «Perché Arkadin voleva che venissi qui, a Khartoum, e in più in compagnia di una ragazza bellissima?» «E un peccato che non possiamo chiederlo a Evsen» rispose Bourne. «Ma una domanda sorge spontanea: chi è stato allora a formattare gli hard disk di Evsen? Qualcuno se l'è svignata assieme a tutta la sua rete di collaboratori. Dev'essere stato uno dei suoi, qualcuno così in alto da avere i codici di accesso ai server.» «Chiunque si permettesse di contrariare Evsen, moriva.» «Finché era in vita. » Bourne cominciava a dare un senso ai fili della ragnatela. Inclinò la testa e invitò Karpov a fare due passi con lui. «Ma guardalo adesso. Non è più un pericolo per nessuno, nemmeno per Arkadin.» L'espressione del viso di Boris si fece cupa. «Arkadin?» Camminarono lungo il corridoio controllato dagli uomini di Karpov, e si avvicinarono al bagno degli uomini. «Ti farò visitare dal mio medico.» Bourne fece un gesto con la mano. «Non ce n'è bisogno, sto bene.» Era strabiliato dalla portata dell'ingegno di Arkadin. Jason andò verso i lavandini e iniziò a lavare via il sangue e i frammenti di vetro che aveva addosso. Karpov gli passò un rotolo di carta igienica. «Pensaci, Boris. Perché Arkadin mi tenderebbe una trappola per condurmi qui in compagnia di una bellissima ragazza?» Gli faceva male parlare di Tracy, ma aveva un mistero da risolvere e un nemico da affrontare. Negli occhi di Karpov comparve una luce improvvisa. «Arkadin confidava nel fatto che tu avresti ucciso Evsen.» Bourne si sciacquò il viso con dell'acqua tiepida. I lividi e i piccoli tagli gli bruciavano come ortica sulla pelle. «O che Evsen avrebbe ucciso me. Lui avrebbe vinto in ogni caso.» Karpov si agitò come un cane bagnato. «Se quello che dici è vero, doveva per forza sapere del mio raid. Non voleva che Evsen parlasse, né di lui né di chiunque altro. Maledizione, ho sottovalutato troppo quell'uomo.» Bourne girò la faccia coperta di sangue verso il colonnello. «Non è un uomo. E un prodotto della Treadstone, come me. Alex Conklin ha addestrato Arkadin a diventare la macchina assassina per eccellenza, in grado di compiere operazioni impossibili per chiunque altro.» «E dov'è questo prodotto terrificante, adesso?» chiese Boris. Bourne si asciugò il viso con la carta igienica, che si fece rossastra. «Tracy me l'ha detto poco prima di morire. Evsen le ha riferito che si trova nel NagornoKarabakh, in Azerbaigian.» «Una zona montuosa, la conosco bene» commentò Boris. «Era una delle fermate principali dei voli della Air Afrika che trasportavano armi illegali. Ci sono moltissime tribù indigene, tutti fanatici islamici.» «Ora è chiaro.» Bourne guardò il suo viso riflesso nello specchio, stimando le ferite. Di chi era quel volto che lo guardava? Tracy si sarebbe immedesimata in quella domanda, e di sicuro se l'era posta spesso anche lei. «Ivan mi ha detto che Arkadin ha assunto il controllo della Fratellanza Orientale, il che significa che è anche a capo dei terroristi della Legione Nera. Forse sta cercando di allontanarsi dal giro d'affari di Evsen.» Poi Bourne vide il Goya che Karpov aveva appoggiato al muro. «Conosci un uomo di nome Noah Petersen, o Perlis?» «No, perché?» «E uno degli agenti più influenti della Black River.» «La società americana che si occupa di gestione del rischio, conosciuta anche come esercito privato al servizio del tuo governo. O meglio ancora l'esercito di mercenari.» «Ci hai preso su tutti i punti.» Bourne si diresse di nuovo verso il corridoio che odorava di morte. «Tracy stava portando il Goya a Perlis, ma credo fosse in realtà un pagamento a Evsen per i servizi resi. E l'unica spiegazione logica che giustifichi la presenza di Noah.» «E così Evsen, la Black River e Arkadin sono tutti coinvolti in un'unica cosa.» Bourne annuì. «Avete visto un americano, nell'edificio, durante il raid?» Karpov estrasse un piccolo walkie-talkie dalla tasca del suo giubbotto. Si udì il suono gracchiante di alcune parole. Il russo scosse la testa. «No, tu sei l'unico qui, Jason. Ma c'è un tipo abbastanza losco che afferma di essere stato interrogato da un americano prima che iniziasse il raid.» Perlis doveva essersene andato, ma dove? Jason sentiva che si stava avvicinando sempre più al centro della ragnatela, dove un ragno velenoso lo aspettava paziente. «E dato che la NSA è il principale cliente della Black River, c'è una buona probabilità che tutto questo abbia qualcosa a che fare con le recenti tensioni in Iran.» «Credi che Evsen stesse armando un gruppo d'assalto della Black River per invadere l'Iran?» «E improbabile» rispose Bourne. «La NSA può fornire armi di gran lunga superiori a quelle di Evsen. E poi perché avrebbero bisogno di Arkadin? No, gli americani hanno identificato il missile che ha abbattuto l'aereo: è un Kowsar 3 iraniano.» «Ora comincia a quadrare tutto. Il Goya è il pagamento per Evsen, che ha fornito il missile.» In quel momento Karpov vide uno dei suoi uomini correre verso di lui. Fissò Bourne, poi passò al suo comandante un pezzo di carta termica uscito da una stampante portatile. «Chiama Lirov» ordinò Karpov, analizzando il documento. «Digli di portare il kit completo. Voglio che visiti quest'uomo dalla testa ai piedi.» Il soldato annuì senza dire una parola, e se ne andò. «Ti avevo detto che non serviva...» Karpov alzò una mano. «Fermati un attimo. Sono sicuro che vorrai sentire questa: il mio genio dell'informatica è riuscito a recuperare qualcosa dai server di Evsen.» Passò il pezzo di carta a Bourne. «Sono le sue ultime tre transazioni.» Bourne diede un rapido sguardo al documento. «Il Kowsar 3.» «Proprio come sospettavamo. Evsen ha acquistato il Kowsar 3 e l'ha venduto alla Black River.» «Dove vai?» chiese Humphry Bamber, girandosi sulla sedia. «E perché hai una pistola in mano?» «Qualcuno sa che sei qui.» «Dio mio...» gemette Bamber provando ad alzarsi. «Stai fermo lì.» Moira lo tenne giù con la mano. Riusciva a sentire il tremito che lo attraversava. «Sta arrivando qualcuno, e sappiamo bene cosa vuole.» «Sì, vedermi morto. Non ti aspetterai che me ne stia qui buono buono?» «Mi aspetto che tu faccia quello che hai fatto finora: aiutarmi.» Moira guardò in basso verso il suo volto tirato. «Posso contare su di te?» Bamber deglutì, poi le fece un cenno d'assenso. «Okay, adesso mostrami dov'è il bagno.» Dondie Parker amava il suo lavoro. Gli altri, compreso il suo capo, Noah Perlis, apprezzavano il fervore quasi religioso con cui portava a termine gli incarichi. E a Parker piaceva Perlis. Gli sembrava che occupassero lo stesso spazio grigio ai margini della società, un posto in cui entrambi potevano far succedere qualsiasi cosa. Uno con i suoi ordini, l'altro con le mani e le armi. Parker entrò dalla porta sul retro pensando appunto al suo lavoro. Lo appassionava così tanto che teneva una scatola di legno piena dei sigari aromatizzati più cari che c'erano sul mercato. I punti salienti di ogni incarico - la morte di ogni singolo obiettivo - erano contenuti in quella scatola. Poteva rivisitarli ogni volta che voleva, poteva tirarli fuori a uno a uno, annusarli, girarli tra le dita e assaporarne il ricordo. Erano le medaglie al valore, come gli ripeteva sempre Noah, che premiavano le sue gesta, necessarie alla sicurezza della patria. Parker amava la parola «patria». Era molto più potente, più evocativa, più virile di «nazione». Si tolse le scarpe, legò i lacci e se le mise su una spalla, poi salì le scale. Quando raggiunse il secondo piano, percorse tutto il corridoio fino ad arrivare a una finestra che dava sulla scala antincendio. La aprì e si arrampicò fuori, salendo di piano in piano come una mosca sul muro. Noah Perlis aveva trovato Dondie Parker in una delle palestre malfamate della zona. Faceva pugilato. Era il favorito nella divisione regionale dei pesi medi. Era un atleta eccezionale: imparava subito, aveva una resistenza infinita, e aveva trovato il modo di canalizzare la sua aggressività omicida. Non era un fanatico delle commozioni cerebrali e delle costole rotte, per cui quando Noah gli si presentò davanti ed espresse l'interesse che aveva nei suoi confronti, Parker fu più che felice di ascoltare la sua proposta. Dondie Parker non dimenticava mai che doveva tutto a Noah, tanto più quando svolgeva un incarico che gli veniva affidato da lui. Perlis rispondeva soltanto a una persona, Oliver Liss, così in alto nella catena alimentare della Black River da sembrare su un altro universo. Parker era bravo, tanto che a volte Liss lo contattava per offrirgli una missione speciale che Dondie portava a termine in maniera rapida senza farne parola con nessuno, nemmeno con Noah. Non si sa se Perlis sapesse o meno di questi «incarichi straordinari». Lui non ne fece mai cenno, e Parker non aveva alcuna intenzione di svegliare il can che dorme. Raggiunse il piano dell'ufficio di Bamber. Dopo aver ricontrollato la pianta dell'edificio che gli aveva fornito Noah, si mosse verso la parte finale della scala antincendio e sbirciò dentro una finestra. Vide ogni sorta di materiale elettronico, quasi tutto in funzione, e intuì che Humphry si trovava all'interno. Sciolse i lacci e si infilò in fretta le scarpe. Prese il piede di porco e forzò la finestra con il minimo sforzo. Tirò fuori la SIG Sauer personalizzata e si intrufolò all'interno dell'edificio. Si voltò al rumore di qualcuno che urinava. Sogghignò e si avvicinò. Era persino più bello, poter crivellare Bamber in quella posizione. La porta era socchiusa. Riusciva a vedere uno spiraglio di luce e Bamber con le gambe divaricate di fronte al water. Scorgeva anche un piccolo angoletto del lavandino, la vasca da bagno e la tenda con dei pesciolini allegri e danzanti, roba da vomitare. Sbirciò nello spazio tra la porta e lo stipite. Non c'era nessuno, nascosto là dietro, così entrò con la SIG all'altezza della testa di Bamber. «Ehi, amico» lo apostrofò Parker soffocando il riso in gola. «Noah ti manda i suoi saluti.» Humphry sussultò proprio come Dondie si aspettava, ma invece di girare il viso verso di lui si accasciò a terra tramortito. Mentre Parker strabuzzava gli occhi a quella vista, i pesci allegri e danzanti si richiusero come una fisarmonica. Poi lanciò uno sguardo fulmineo alla donna che lo stava fissando. Ebbe a malapena il tempo di pensare: E questa chi cazzo è? Noah non mi ha detto..., che dalla bocca della Lady Hawk uscì una fiammata. Si avvitò su se stesso in una piroetta sgraziata. Il proiettile lo prese di striscio su una tempia. Urlò, non per il dolore, ma per la rabbia. Scaricò la pistola sparando una raffica di colpi, ma aveva gli occhi coperti dal sangue. Non sentiva niente, l'esplosione di adrenalina ed endorfìna lo avevano reso immune al dolore. Ignorò Bamber, rannicchiato in posizione fetale sotto il water, e si lanciò sulla donna - una donna, perdio! - abbattendole il calcio della SIG contro il mento. Moira indietreggiò, ma andò a sbattere contro il muro piastrellato e scivolò finendo a terra. Parker ripartì all'attacco. Moira schivò il colpo della SIG, ma il mirino riuscì comunque a ferirle il naso, e Parker credette di averla in pugno. Stava per darle un calcio nel plesso solare quando dalla bocca della Lady Hawk uscì un'altra fiammata. Non sentì niente. Il proiettile gli esplose nell'occhio destro, staccandogli una parte di testa. *** Capitolo 30 «Ti rendi conto» disse Bourne, scendendo le scale con il foglio di carta termica in mano, «che qualcuno potrebbe aver lasciato quest'informazione proprio per fartela trovare?» «Certo. Potrebbe essere stato Evsen» rispose Karpov. «Io stavo pensando ad Arkadin.» «Ma la Black River è un suo alleato.» «Anche Evsen.» Il medico era riuscito a disinfettare il viso di Bourne prima che lui lo allontanasse. Aveva fermato il sangue e pulito la ferita per evitare ogni possibile infezione. «Di Arkadin bisogna ricordare una cosa soltanto: è coerente» sottolineò Bourne. «Prepara le sue operazioni assicurandosi di avere un paravento dietro cui nascondersi, persone a cui far dare la caccia al posto suo.» «L'altra possibilità» suggerì Boris, «è che stia facendo fuori i suoi alleati a uno a uno.» Avevano ormai oltrepassato l'ingresso ed erano usciti sotto il sole rovente del pomeriggio. Il traffico era bloccato e i passanti si radunavano a fissare increduli quegli uomini armati fino ai denti. «Ma c'è un'altra domanda a cui rispondere» ragionò Karpov mentre salivano sul minibus. «Cosa c'entra Arkadin? Perché la Black River dovrebbe aver bisogno di lui?» «Un'idea ce l'ho: Arkadin si trova nel Nagorno-Karabakh, un'area remota dell'Azerbaigian dominata da capi-tribù islamici. Proprio come i terroristi della Legione Nera» suggerì Bourne. «E come sarebbero coinvolti?» «Questo dovremmo chiederlo ad Arkadin» ribatté Bourne. «E per farlo andremo in Azerbaigian.» Karpov ordinò al suo tecnico informatico di trovare delle foto satellitari in tempo reale, così da capire quale fosse il modo migliore per arrivare laggiù. L'informatico ingrandì un'immagine. «Aspettate un attimo» gridò. Le sue dita correvano sulla tastiera. «Che c'è?» chiese Karpov impaziente. «Un aereo è appena decollato dalla zona che avete richiesto.» Il tecnico passò a un altro portatile e digitò un sito diverso. «E un jet della Air Afrika, colonnello.» «Arkadin!» esclamò Bourne. «Dov'è diretto?» «Un secondo.» L'informatico si spostò su un terzo computer. «Possiamo scoprirlo dalla rotta che segue.» Le sue dita ripresero a correre sulla tastiera. Poi tornò al primo computer dove apparve l'immagine di una distesa di terra. Lo zoom si fece meno dettagliato e il tecnico indicò una zona nel quadrante in basso a destra. «Qui» disse. «Shahrake Nasiri-Astara, vicino al Mar Caspio, nel nord dell'Iran.» «Cristo santo, ma che diavolo c'è, in quel posto sperduto?» Il tecnico passò al secondo computer e scorse i risultati della ricerca appena inserita. Erano pochi, ma in uno di loro c'era la risposta che cercavano. L'uomo alzò lo sguardo e fissò il viso del comandante. «Tre enormi pozzi di petrolio e l'inizio di un oleodotto internazionale.» «Devi andartene.» Gli occhi di Amun Chalthoum brillavano nella penombra dell'antico forte. «Adesso.» Soraya rimase sorpresa. Passò un minuto prima che rispondesse. «Amun, credo tu mi stia confondendo con qualcun altro.» Amun la prese per un gomito. «Non sto scherzando. Vattene. E subito!» Soraya si liberò dalla presa. «Non sono mica tua figlia! Non vado proprio da nessuna parte.» «Non metterò a rischio la vita della donna che amo» le confessò. «Non in una situazione come questa.» «Non so se sentirmi offesa o lusingata. Forse tutt'e due le cose.» Scosse la testa. «Comunque, siamo venuti qui per me, te ne sei dimenticato?» «Io non dimentico niente.» Chalthoum stava per continuare, quando Yusef si intromise. «Pensavo aveste pianificato di farvi raggiungere qui.» «E infatti è così, ma non avevamo preso in considerazione l'idea di rimanere intrappolati.» «E troppo tardi per i rimpianti» sussurrò Yusef. «Il nemico è entrato nel forte.» Chalthoum sollevò quattro dita per far sapere a Yusef quanti erano. Soraya strappò un pezzo della camicia di uno dei due uomini e raccolse un po' di calce viva in quel sacchetto improvvisato. Raggiunsero l'entrata. «Dovremmo restare qui» propose Soraya. I due uomini si voltarono e Amun la guardò come se fosse impazzita. «Finiremo in trappola!» «Siamo già in trappola» disse lei. Fece dondolare il sacchetto avanti e indietro. «Almeno qui abbiamo una posizione di vantaggio.» Poi fece un gesto con il mento. «Si sono già divisi. Ci prenderanno prima ancora che riusciamo ad arrivare a uno solo di loro.» «La direttrice ha ragione» osservò Yusef. Chalthoum . lo guardò infuriato. Avrebbe voluto spaccargli la faccia. «Amun, rassegnati. E così e basta» gli disse infine Soraya. Tre dei quattro uomini si erano nascosti nell'ombra e aspettavano, all'erta. Il quarto, il battitore, si muoveva con attenzione da una stanza all'altra, attraverso spazi abbandonati ricavati nella sabbia. Il vento fischiava costante nelle sue orecchie e la sabbia del deserto gli riempiva naso e gola. I granelli trasportati dal vento si insinuavano nei tessuti e si appiccicavano alla pelle sudata. Il suo compito era quello di trovare gli obiettivi e portarli nel punto in cui le linee di fuoco dei suoi compagni si intersecavano. Era prudente, ma non aveva paura. Lo aveva già fatto molte volte, in passato, e lo avrebbe fatto molte altre ancora prima di essere messo fuori gioco dalla vecchiaia. Per allora, sarebbe stato così ricco da far star bene non solo la sua famiglia, ma anche la famiglia dei suoi figli. Gli americani pagavano bene. Sembrava che i soldi non gli mancassero, e quei pazzi non cercavano mai di tirare giù il prezzo. I russi, invece, conoscevano bene l'arte del contrattare. Era uscito stremato da molte negoziazioni con loro. Si lamentavano sempre di non avere denaro o di non averne abbastanza per dargli il compenso che richiedeva. Ogni volta bisognava stabilire un prezzo che mettesse tutti d'accordo prima di iniziare a lavorare sull'obiettivo di turno. Era quello che gli riusciva meglio. Era anche l'unica cosa per cui era stato preparato, dopotutto. Aveva controllato più di un quarto del forte, sorpreso di non avere ancora individuato le sue vittime. Uno di loro era egiziano, almeno così gli era stato riferito. Gli egiziani non gli piacevano. Ti incantano con le loro parole smielate che trasudano soltanto menzogne. Sono sciacalli in grado di strapparti la carne sorridendoti. Svoltò in un corridoio non molto lungo. Giunto a metà, sentì il ronzio delle mosche e capì che qualcuno di recente doveva essere morto a pochi passi da lui. Stringendo la presa sul fucile, proseguì appiattendosi contro la parete. Socchiuse gli occhi per riuscire a distinguere qualcosa in quel buio. Nei punti in cui il soffitto o i muri erano crollati, il sole irrompeva violento. Le mosche erano più vicine. Si fermò tendendo l'orecchio e iniziò a contarne il numero. Qualsiasi cosa fosse morta là dentro, doveva essere molto grossa. Forse non era nemmeno una soltanto. Un uomo? Premette il grilletto. La breve fiammata illuminò l'aria. Era come un animale che marca il territorio. Se gli obiettivi si trovavano in quella stanza erano in trappola. La conosceva bene, così come tutte le altre. C'era solo una porta ed era a cinque passi da lui. Poi, all'improvviso, comparve una figura umana, e lui sparò quattro colpi in rapida successione. Soraya seguì il cadavere di uno degli americani che Amun aveva scagliato fuori dalla porta. Schivando la pioggia di proiettili, buttò la calce viva in faccia all'uomo. Nell'attimo in cui l'ossido di calcio entrò in contatto con i liquidi del corpo, si scatenò una reazione così violenta da procurargli un caldo infernale. Urlò, gettò a terra la pistola: si sentiva la pelle del viso in fiamme. Cercò di rimuovere quella sostanza, ma peggiorò soltanto la situazione. Soraya raccolse la pistola e gli sparò alla testa, mettendo fine alle sue sofferenze. Richiamò sottovoce Chalthoum e Yusef, che uscirono dalla camera mortuaria. «E uno è andato» disse. «Ne restano tre.» «Stai bene?» Moira uscì dalla vasca e aiutò Humphry Bamber ad alzarsi. «Dovrei chiederlo io a te» replicò inorridito. Poi si voltò per vomitare nel water. Moira fece scorrere l'acqua fredda nel lavandino, vi immerse un asciugamano e glielo sistemò dietro il collo. Bamber lo prese e se lo mise sul naso. «Dài, torniamo in un posto più sicuro» propose Moira. Bamber annuì come un bimbo smarrito e i due s'incamminarono verso l'uscita. Quando furono sulla porta, lei si girò a osservare la parete di computer. «Cos'hai trovato poi? Che cosa c'è nella versione di Bardem che ha Noah?» Bamber corse verso il portatile e lo staccò. Lo chiuse e se lo mise sottobraccio. «Per crederci, devi vederlo coi tuoi occhi» le rispose, uscendo di corsa dall'ufficio. «Non mi interessano né la Treadstone, né qualsiasi altra cosa riguardi Alex Conklin!» esclamò Peter Marks. Willard non sembrava turbato. «Immagino, però, che ti interessi salvare la CIA da certi figli di puttana» disse, anticipando la risposta di Peter. «Certo.» Marks porse il bicchiere vuoto a Willard che lo riempì con il whisky rimasto nella bottiglia. «Hai qualcosa in mente... qualcosa che ha a che fare con la complicità della Black River con gli omicidi interni e soprattutto con la morte della direttrice della CIA?» «Errol Danziger è il direttore della CIA.» «Non me lo ricordare» sottolineò Marks con disprezzo. «Devo farlo, invece. Lui è un gorilla da quattrocento chili nella piccola casetta della CIA, e credimi quando ti dico che ridurrà tutti voi giovani gentlemen in poltiglia se non si fa niente per fermarlo.» «E tu?» «Io sono la Treadstone.» Marks lo guardò desolato. Forse era il whisky che aveva bevuto, o forse la realtà che aveva davanti agli occhi, fatto sta che si sentiva lo stomaco sottosopra. «Va' avanti.» «No» disse Willard con enfasi. «O sei dentro o sei fuori, Peter. E prima di rispondere sappi che non c'è possibilità di ritorno. Niente ripensamenti. Una volta che sei dentro ci rimani, costi quel che costi.» Marks scosse la testa. «Ho un'altra scelta?» «Si può sempre scegliere.» Willard si versò quel che rimaneva del whisky e ne mandò giù una bella sorsata. «Quello che non si può fare, e questo vale sia per me sia per te, è guardarsi indietro. Da questo momento in poi il passato non esiste. Ci muoveremo solo in avanti, nel buio.» «Gesù.» Marks sentì un brivido corrergli lungo la schiena. «Sembra un patto con il diavolo.» «Molto divertente.» Willard sorrise. Con un tempismo perfetto tirò fuori un documento di tre pagine che porse al giovane. «Che diavolo è?» «Divertente anche questa.» Willard mise una penna sul tavolo. «E un contratto con la Treadstone. Non è negoziabile e, come puoi leggere alla clausola tredici, non è revocabile.» Marks diede un'occhiata ai fogli. «E come potrai farlo valere? Minaccerai di prenderti la mia anima?» Scoppiò in una risata isterica. «Santo cielo!» Guardò prima la penna, poi Willard. «Dimmi che hai un piano per sbarazzarti di Errol Danziger Del Cazzo o mi tiro fuori.» «Tagliare la testa dell'idra è inutile, ne crescerebbe subito un'altra.» Willard prese in mano la penna e la porse a Marks. «Mi sbarazzerò dell'idra stessa: il segretario alla Difesa Ervin Reynolds Halliday.» «Ci hanno già provato in tanti, anche la povera Veronica Hart.» «Sì, ma pensavano tutti di avere le prove che operasse al di fuori della legge, zona che Halliday conosce molto meglio di loro. Io ho intenzione di prendere una nuova strada.» Marks fissò gli occhi di Willard cercando di capire se parlava sul serio. Alla fine prese in mano la penna e disse: «Non mi importa quale strada prendiamo, purché Halliday finisca spiaccicato sull'asfalto». «Domani mattina» gli sorrise Willard, «questo sentimento deve essere altrettanto vivo dentro di te.» «E odore di zolfo, quello che sento?» Marks tentò di ridere. La sua risata, però, era irrequieta. «Lo conosco.» Yusef tolse con lo stivale la calce viva dal volto dell'uomo. «Si chiama Ahmed, è un killer mercenario che di solito lavora per gli americani o per i russi» grugnì. «Ogni tanto anche per tutti e due insieme.» Chalthoum corrugò la fronte. «Ha lavorato per gli egiziani in passato?» Yusef scosse la testa. «Non che io sappia.» «Non mi dice niente.» Soraya continuò a esaminare quel che rimaneva della faccia di quell'uomo. «Non mi ricordo di aver letto il suo nome in nessuno dei tuoi rapporti.» «Non mi fiderei di questo sacco di merda neanche per farmi portare un pezzo di pane» rispose, arricciando il labbro superiore. «Oltre a essere un assassino di professione, è un ladro e un bugiardo. E sempre stato così fin da piccolo.» «Ricordatevi» disse Chalthoum guardando Soraya di traverso, «che ne voglio almeno uno vivo.» «Una cosa alla volta» lo tranquillizzò lei. «Pensiamo prima a uscirne vivi noi.» Amun stava ancora cercando di togliersi l'odore di calce da dosso, così Soraya si ritrovò in testa al gruppo e, di nuovo, la cosa lo infastidì. Da quando erano arrivati a Khartoum il senso di protezione che provava nei confronti di lei era aumentato a dismisura, e lei però ne sembrava imbarazzata. Forse era per il fatto di trovarsi lontano dall'Egitto. Dopotutto erano in un territorio sconosciuto. Soraya si sentì chiamare sottovoce, ma riuscì a resistere all'istinto di voltarsi. Andò avanti decisa, chinandosi per non farsi vedere, e arrivò fino al primo cortile. Sia sul muro di destra sia su quello di sinistra c'erano dei punti ottimi per i cecchini. Sparò un colpo in direzione di ciascuno di essi, ma nessuno rispose al fuoco. La calibro .45 che aveva preso all'uomo era ormai scarica, così tirò fuori la Glock che gli aveva dato Yusef. Attraversò quella distesa dall'aspetto sinistro, mantenendosi nelle zone d'ombra prodotte dalle alte mura. Non si guardò alle spalle nemmeno una volta, certa che Amun e Yusef non fossero molto lontani, pronti a coprirla in caso di bisogno. Alcuni secondi dopo si trovò di fronte a un altro cortile, più grande del primo e persino più inquietante. Sparò verso i punti strategici, ancora senza risultato. «Ce n'è un altro soltanto» la informò Yusef. «E più piccolo, ma dato che si trova nella parte frontale si può difendere da più parti.» Soraya si rese conto che non ce l'avrebbero mai fatta a raggiungere vivi nessuno dei parapetti. «E adesso?» chiese ad Amun. Yusef non gli lasciò il tempo di pensare. «Ho un'idea. Conosco Ahmed da quando sono nato, credo di riuscire a imitare la sua voce.» Guardò prima Chalthoum e poi Soraya. «Posso provarci?» «Non vedo che male possa fare» disse Chalthoum, ma Yusef rimase immobile ad aspettare il consenso di Soraya. Si accovacciò nella zona in cui il corridoio sfociava nel cortile coperto dall'ombra, e alzò la voce. «Sono Ahmed... per favore, sono ferito!» Rispose soltanto la suo eco. Si voltò verso Soraya. «Svelta» le sussurrò, «dammi la camicetta!» «Prendi la mia» intervenne Chalthoum guardandolo in cagnesco. «E meglio la sua. Vedranno che è quella di una donna.» Soraya si sbottonò la camicetta a maniche corte e la passò a Yusef. «Li ho uccisi!» gridò Yusef con la voce di Ahmed. «Guardate qua! » La camicetta si posò sui ciottoli del cortile come un uccello che si sistema nel nido. «Se li hai uccisi» si levò una voce dalla loro sinistra, «vieni fuori!» «Non posso» rispose Yusef, «ho una gamba rotta. Mi sono trascinato fin qui, ma sono caduto e non riesco a fare un passo di più! Per favore, ragazzi, venitemi a prendere prima che muoia dissanguato!» Per un po' non successe niente. Yusef stava per gridare di nuovo, ma Chalthoum lo avvertì di restare in silenzio. «Non esagerare» gli sussurrò. «Sii paziente.» Passò dell'altro tempo, difficile stabilire quanto. Nella situazione in cui si trovavano il tempo sembrava fondersi come plastica. Alla fine, notarono un movimento sulla destra. Si intravidero due uomini scendere fino al livello del cortile. Procedevano circospetti, mantenendo il fianco rivolto verso l'entrata dell'atrio. Del terzo uomo, quello che aveva parlato con Yusef, non c'era traccia. Di sicuro li stava coprendo dalla sinistra. Chalthoum fece un cenno a Yusef, che si distese a terra in modo che i due potessero vedere una gamba sollevata sopra l'altra. Soraya e Chalthoum fecero qualche passo indietro verso la zona buia. «Eccolo!» gridò uno dei due uomini a quello che li copriva. «Riesco a vedere Ahmed! E caduto, come ci ha detto!» «Non ci sono altri movimenti» arrivò la voce del capo dal parapetto. «Andate a prenderlo, ma fate presto!» I due si chinarono e si misero a correre per raggiungere Yusef. «Fermi!» urlò il loro capo. I due obbedirono e si sedettero sulle cosce con i fucili pronti e gli occhi avidi fissi sul compagno caduto. Ci fu un movimento sulla sinistra. Il terzo uomo aveva abbandonato il nido. I suoi passi risuonarono pesanti sopra i ciottoli. «Ahmed» sussurrò uno dei due uomini, «stai bene?» «No» rispose Ahmed. «Il dolore alla gamba è insopportabile, è...» Aveva già detto troppo, però, e a distanza ravvicinata l'inganno non poteva reggere. L'altro uomo fece un passo indietro. «Che succede?» chiese il compagno, puntando il fucile verso l'entrata dell'atrio. «Non è Ahmed.» In quel momento Chalthoum e Soraya uscirono allo scoperto, sparando. I due accovacciati vennero colpiti all'istante, e Chalthoum allontanò le armi finite a terra. Il loro capo esplose un colpo nel tentativo estremo di cercare un riparo, e Amun finì a terra. Soraya, correndo, mirò al capo, ma fu Yusef a colpirlo al petto. L'uomo ruotò su se stesso e cadde in una pozza di sangue. Soraya lo raggiunse. «Controlla Amun!» gridò a Yusef, fermandosi a raccogliere il fucile dell'uomo. Respirava ancora, anche se a fatica. I polmoni si erano salvati. Soraya si accovacciò vicino a lui. «Chi ti manda?» Il capo del gruppo alzò lo sguardo e le sputò in faccia. In un attimo fu raggiunta dagli altri due. Amun si era beccato un proiettile nella coscia, ma era passato da parte a parte e la ferita sembrava pulita. Legò ben stretta la zona sopra il foro utilizzando un pezzo della camicia di Soraya. «Stai bene?» gli chiese lei. Amun annuì nel suo solito modo severo. «Gli ho domandato chi è che lo manda» disse Soraya, «ma non parla.» «Va' con Yusef a controllare gli altri due.» Chalthoum fissò l'uomo caduto. Soraya conosceva bene quello sguardo determinato. «Amun...» «Dammi solo cinque minuti.» Avevano bisogno di quell'informazione, su questo non c'era da discutere. Soraya annuì malvolentieri e con Yusef si incamminò verso i due uomini. Non c'era molto da controllare. Entrambi erano stati colpiti da più di un proiettile al petto e all'addome. Nessuno dei due era sopravvissuto. Raccogliendo i fucili, sentirono un pianto smorzato che li fece rabbrividire. Yusef si voltò verso Soraya. «Quel tuo amico egiziano... ci si può fidare?» Soraya fece cenno di sì, disgustata da quello che Amun stava facendo con il suo consenso. Calò il silenzio, rotto soltanto dalla voce disperata del vento che ululava in quelle stanze abbandonate. Poco dopo Chalthoum tornò verso di loro. Zoppicava, e Yusef gli passò un fucile su cui appoggiarsi. «I miei nemici non c'entrano niente» riferì. «Questi uomini sono stati mandati dagli americani, da uno con un nome ridicolo, Triton. Ti dice niente?» Soraya scosse la testa. «Questi invece potrebbero dirti qualcosa.» Vide quattro piccoli oggetti metallici di forma rettangolare appesi a un cordoncino. «Li ho trovati al collo del capo.» Soraya li esaminò. «Sembrano medagliette per cani.» «Mi ha detto che appartenevano ai quattro americani giustiziati qui. Sono stati questi bastardi a ucciderli.» Soraya non ne aveva mai visti di simili. Invece di avere nome, grado e matricola, riportavano incisi al laser quelli che sembravano... «Sono criptati!» gridò Soraya con il cuore che le martellava in petto. «Potrebbero essere le chiavi per scoprire chi ha lanciato il Kowsar 3 e per quale motivo.» Capitolo 31 Leonid Danilovic Arkadin faceva avanti e indietro nell'area passeggeri dell'aereo della Air Afrika che era stato mandato nel Nagorno-Karabakh per prendere lui e i suoi uomini. Sapeva quale sarebbe stata la destinazione: Iran. Noah Perlis era certo che lui non conoscesse il luogo preciso, ma si sbagliava. Come molti statunitensi nella sua posizione, si credeva più scaltro di tutti, e capace di manipolare chiunque non fosse americano. Da dove gli venisse questa convinzione rimaneva un mistero ma, avendo passato molto tempo a Washington, Arkadin si era fatto qualche idea. La sensazione d'isolamento tutta americana era stata scossa parecchio dagli eventi del 2001, ma non quella di essere privilegiati e di avere più diritti degli altri. Aveva passato molto tempo nei ristoranti degli Stati Uniti origliando le conversazioni che vi si tenevano. Faceva parte dell'addestramento della Treadstone. Allo stesso tempo, però, ascoltava i neoconservatori, uomini di potere, ricchi e influenti, convinti di possedere la chiave per comprendere il funzionamento del mondo. Per loro era tutto semplice, come se nella vita ci fossero soltanto due variabili: l'azione e la reazione, che loro non soltanto erano in grado di capire, ma persino di prevedere. E se le reazioni non corrispondevano a quello che avevano previsto, le squadre di esperti, quando i loro piani andavano in fumo, invece di ammettere gli errori commessi raddoppiavano gli sforzi, come travolti da un'ondata di amnesia. Secondo lui era la pazzia, a renderli sordi e ciechi davanti agli eventi. Forse, pensava, controllando e ricontrollando che i suoi uomini e le loro attrezzature fossero pronti, Noah era l'ultimo di quegli uomini, un dinosauro inconsapevole che la sua èra volgeva al termine, che i ghiacciai che si erano formati all'orizzonte erano pronti a sommergerlo. Proprio come Dimitrij Ilinovic Maslov. «Quella donna deve tornare indietro» disse Dimitrij Ilinovic Maslov, «lei e le sue tre figlie. Altrimenti non ci potrà essere tregua con Lev Antonin.» «Da quando tu, il capo della Kazanskaja, prendi ordini da un pezzo di merda come Lev Antonin?» replicò Arkadin. Arkadin ebbe la sensazione che Tarkanian, in piedi da una parte, fosse indietreggiato di un passo. In quel posto la musica era altissima. Nella Pasha Room del Propaganda, un elitnyj club di Mosca, c'erano soltanto altri due uomini, entrambi scagnozzi di Maslov. Tutti gli altri avventori, più di una decina, erano giovani donne bionde, dalle gambe molto lunghe e il seno prorompente, belle e desiderabili. Il genere di ragazza che definivano tyolka. Erano vestite, o meglio, semivestite, con abiti provocanti: minigonne, bikini, top trasparenti, abiti con scollature vertiginose o con la schiena scoperta. Anche le ragazze in costume da bagno indossavano tacchi altissimi ed erano molto truccate. Qualcuna tornava controvoglia a scuola ogni mattina. Maslov guardò Arkadin con un'espressione dura, pensando di poterlo intimidire semplicemente con lo sguardo, come succedeva con chiunque altro. Stavolta, però, Maslov si sbagliava, e non gli piaceva avere torto. Mai. Fece un passo verso Arkadin, un passo molto aggressivo se non minaccioso, e arricciò il naso. «Che cos'è quest'odore di legna bruciata? Fai per caso anche il boscaiolo?» Arkadin aveva portato Joskar nella fitta pineta che si trovava a otto chilometri dalla cattedrale ortodossa. La donna teneva in braccio Jasa, mentre lui portava l'ascia che aveva preso dal bagagliaio della macchina. Le tre bambine procedevano in fila indiana, piangendo e singhiozzando. Mentre il gruppetto si allontanava dalla macchina Tarkanian aveva gridato: «Mezz'ora, poi me ne vado!». «Lo farebbe davvero?» gli aveva chiesto la donna. «Ti importa?» «No, se tu sei con me.» O almeno è quello che Arkadin credette di sentire. Aveva parlato talmente piano che il vento si era portato via le sue parole non appena le aveva pronunciate. Sotto il primo strato congelato, la neve era morbida come panna. Sopra di loro, il cielo sembrava soffice come il cappotto di Jasa. Quando arrivarono a una piccola radura, la donna posizionò il bambino su un letto di aghi di pino innevati. «La foresta gli è sempre piaciuta» disse. «Mi chiedeva sempre di portarlo a giocare sulle montagne.» Mentre raccoglieva dei rami secchi e li spezzava, Arkadin ripensò ai suoi rari viaggi sulle montagne di Niznij Tagil, l'unico posto in cui potesse respirare a pieni polmoni senza che il peso oppressivo dei suoi genitori e della sua città gli rovinassero lo spirito e gli inaridissero il cuore. Nel giro di venti minuti Arkadin aveva preparato un falò. Le bambine avevano smesso di piangere, le lacrime si erano congelate in piccoli cristalli sulle loro guance rubiconde. Mentre guardavano affascinate le fiamme levarsi al cielo, le lacrime si sciolsero per il calore. Joskar consegnò Jasa nelle mani di Arkadin, recitando intanto preghiere nella sua lingua nativa. Teneva le figlie vicine mentre intonava le parole che a mano a mano si trasformarono in una canzone, e la sua voce salì attraverso i rami dei pini, fino a riecheggiare nelle nuvole che incombevano su di loro. Arkadin si chiese se le fate, gli elfi, gli dèi e i semidèi delle storie di Joskar fossero in qualche modo vicini e stessero assistendo a quella cerimonia con la tristezza negli occhi. Alla fine, Joskar riferì ad Arkadin le parole che avrebbe dovuto ripetere mentre posizionava Jasa sulla pira funebre. Le bambine iniziarono di nuovo a piangere vedendo il corpo del loro fratellino consumato dalle fiamme. E infine Joskar recitò l'ultima preghiera. Arkadin non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma quando uscirono dalla foresta di pini e tornarono nella civiltà, Tarkanian e la macchina erano ancora al loro posto ad aspettarli. «Io le ho fatto una promessa» disse Arkadin. «A chi? A quella fabbrica di mocciosi?» lo derise Maslov. «Sei più stupido di quanto sembri.» «Sei stato tu a rischiare la vita di due dei tuoi uomini, di cui uno, tra l'altro, incompetente, per riportarmi qua.» «Esatto, stronzo, non per riportare te e quattro civili che appartengono a qualcun altro.» «Parli come se fossero delle bestie.» «Vaffanculo! Lev Antonin li rivuole a casa e noi glieli manderemo.» «Sono responsabile della morte del figlio.» «Sei stato tu a uccidere quel piccolo bastardo?» Maslov ormai stava quasi urlando. La guardia del corpo si avvicinò, ma nessuna tyolka si azzardava a gettare sguardi languidi in quella direzione. «No.» «E allora non sei responsabile della morte di nessuno. Fine della storia!» «Le ho promesso che non sarebbe mai più tornata da suo marito. Ne è terrorizzata. La ucciderà di botte.» «Ma che cazzo me ne frega?» Gli occhi di Maslov sembravano sputare scintille. «Ho la mia attività da portare avanti, io.» «Capo, forse dovresti...» tentò di intervenire Tarkanian. «Che cosa? Anche tu ti metti a dire cosa dovrei fare? Vaffanculo! Ti avevo chiesto una cosa soltanto, facile facile: andarmi a prendere questo moccioso a Niznij Tagil. E cosa succede? Il moccioso picchia a sangue Oserov e tu ti ripresenti carico come un mulo, con un sacco di problemi di cui non ho proprio bisogno.» Dopo aver zittito Tarkanian, Maslov tornò a occuparsi di Arkadin. «E tu faresti meglio a mettere la testa a posto o ti rispedisco in quel cesso da cui sei venuto fuori.» «Sono responsabile per tutte e quattro» insistette Arkadin con calma. «E mi prenderò cura di loro.» «Ma sentitelo!» sbraitò Maslov con la faccia paonazza. «E per caso morto qualcuno lasciandoti in eredità il ruolo di capo? Chi ti ha detto che hai diritto di parola su quello che succede qui? Misca, toglimi questo figlio di puttana da sotto gli occhi, altrimenti lo faccio a pezzi con le mie stesse mani!» Tarkanian trascinò Arkadin fuori dalla Pasha Room e lo condusse al bancone della sala principale. Un palco si illuminò come fosse Capodanno, pieno di ragazze sèminude che allargavano le gambe chilometriche a ritmo di musica. «Beviamo qualcosa» disse Tarkanian con forzata allegria. «Non ho voglia di bere.» «Offro io.» Tarkanian guardò il barista. «Dài, amico mio, una bella sbronza è proprio quello di cui hai bisogno.» «E non venirmi a dire quello di cui ho bisogno!» alzò improvvisamente la voce Arkadin. Quella discussione ridicola andò avanti un bel po', raggiungendo livelli che attirarono l'attenzione di un buttafuori. «Qual è il problema?» Avrebbe potuto chiederlo a tutti e due, ma dato che conosceva Tarkanian di vista i suoi occhi si fissarono su Arkadin, il quale gli riservò uno sguardo velenoso, poi reagì. Lo afferrò e gli sbatté la fronte sul bordo del bancone. I bicchieri tremarono e alcuni caddero a terra. Continuò finché Tarkanian non riuscì a tirarlo via. «Io non ho nessun problema» disse Arkadin al buttafuori stordito e insanguinato. «Ma non si può dire lo stesso di te.» Tarkanian lo spinse fuori dal locale per evitare che combinasse altri danni. «Se pensi che mi metterò a lavorare per quella montagna di merda» disse Arkadin, «ti sbagli di grosso.» Tarkanian alzò le mani. «Va bene, va bene. Non lavorerai per lui.» Lo guidò verso l'uscita e lo portò in strada, lontano dal locale. «Anche se, a essere sincero, non so come potrai guadagnarti da vivere. Mosca è diversa...» «Non resterò a Mosca» disse Arkadin; mentre parlava il fiato gli si condensava in nuvolette di vapore. «E porterò con me anche Joskar e le bambine, e...» «E cosa? Dove andrete? Non hai soldi, non hai prospettive, niente di niente. Senza pensare poi alle bambine, cosa mangeranno?» Tarkanian scosse la testa. «Segui il mio consiglio, dimenticati di loro. Appartengono al tuo passato, a un'altra vita. Ormai ti sei lasciato Niznij Tagil alle spalle.» Fissò Arkadin negli occhi. «E quello che sognavi da una vita, no?» «Non permetterò che gli uomini di Maslov le riportino indietro. Tu non sai com'è fatto Lev Antonin.» «A Maslov non importa niente.» «Che Maslov vada affanculo!» «Ma davvero non capisci? Mosca appartiene a Dimitrij Maslov e alla gente come lui. Hanno le mani in pasta dappertutto: sulla città, sulla Borsa e sulla vodka. Questo significa che anche Joskar e le bambine appartengono a lui.» «Joskar e le bambine non fanno parte di questo mondo.» «Sì, invece» replicò Tarkanian, «dal momento in cui le hai portate qui.» «Non sapevo quello che facevo.» «Be', questo è chiaro. Ma devi affrontare la realtà: quel che è fatto è fatto.» «Ma ci deve pur essere una via d'uscita.» «Anche se tu avessi dei soldi, o meglio, anche se io fossi così stupido da darteli, cosa risolveresti? Maslov sguinzaglierebbe i suoi scagnozzi. Anzi, considerando il modo in cui l'hai provocato potrebbe venire a cercarti di persona. Non credo sia quello che desideri per quelle ragazze.» «Ma non capisci? Io non voglio che tornino da quel figlio di puttana.» «Hai mai pensato che potrebbe essere la soluzione migliore?» «Ma sei impazzito?» «Tu stesso hai detto cheJoskar ti ha raccontato che Lev Antonin ha promesso di proteggere lei e i suoi figli. Lo sai che non è russa, e le bambine hanno il suo stesso sangue. Se questo segreto salta fuori, quella donna non potrà più condurre un'esistenza normale tra i russi. Guarda in faccia la realtà: non puoi proteggerla da Maslov. A Niznij Tagil saranno al sicuro. Nessuno si azzarderà a offenderla, perché temono suo marito. E poi, ascolta, è abbastanza sveglia da raccontare al marito che lei e le bambine sono state rapite in modo da consentirti di uscire senza problemi dalla città. E probabile che non alzerà un dito su di lei.» «Certo, fino a quando non sarà ubriaco, o depresso, o semplicemente di cattivo umore.» «E la sua vita, non la tua. Leonid Danilovic, ti sto parlando da amico. Questa è l'unica soluzione. Sei riuscito a scappare da Niznij Tagil... Non tutti hanno questa fortuna.» Il fatto che Tarkanian stesse dicendo la verità fece infuriare Arkadin ancora di più. Il problema era che non sapeva cosa farsene di quella rabbia, così iniziò a interiorizzarla. Voleva sopra ogni cosa vedere Joskar, voleva di nuovo tenere in braccio la più piccola delle sue tre figlie, sentirne il calore e il battito del cuoricino. Ma sapeva che era impossibile. Se l'avesse vista di nuovo non sarebbe mai stato in grado di lasciarla partire. Gli uomini di Maslov l'avrebbero di certo ucciso, eJoskar sarebbe stata rispedita da Lev Antonin. Si sentiva in trappola, un gatto che si morde la coda. Era colpa di Dimitrij Maslov. In quel preciso istante Arkadin si ripromise che gliel'avrebbe fatta pagare a tutti i costi. Avesse dovuto aspettare tutta la vita, la morte di quell'assassino sarebbe giunta soltanto dopo che fosse stato privato di tutto ciò che aveva di più caro. Due giorni dopo si nascose nelle ombre accanto alla strada per guardare Joskar e le tre bambine che salivano su una grande Zil nera. Tarkanian era al suo fianco, sia per confortarlo sia per proteggerlo da eventuali follie dell'ultimo minuto. Oltre all'autista, c'erano anche due scagnozzi di Maslov. Le bambine, spaventate, si lasciarono caricare sulla macchina docili come agnellini al macello. Joskar si fermò, mise le mani sopra il tettuccio, un piede già nella vettura, e si guardò intorno. Arkadin non vide lo sguardo disperato che si aspettava, ma un'espressione di infinita tristezza che gli bruciò la pelle, così come le fiamme avevano fatto con quella di Jasa. L'aveva ingannata, non aveva mantenuto la sua promessa. Nella sua mente risuonarono le parole della donna come se gli stesse parlando in quel momento: «Non farmi tornare da lui». Lei gli aveva dato tutta la sua fiducia, e ora non aveva più niente. La donna si piegò, e Arkadin non la vide più. Lo sportello si chiuse sbattendo, l'autista mise in moto e la Zil partì, e così anche lui non aveva più niente. Quei pensieri gli tornarono in mente in modo ancora più crudele quando sei settimane dopo Tarkanian lo informò che Joskar aveva sparato al marito, poi aveva rivolto la pistola verso le tre figlie e infine si era suicidata. *** Capitolo 32 Shahrake Nasiri-Astara, finalmente! Noah Perlis era stato in parecchi posti esotici, ma mai in quest'area nordoccidentale dell'Iran. In effetti, a parte le torri imponenti dei pozzi di petrolio e le polveri sospese che ne derivavano, aveva un aspetto così ordinario che lo si sarebbe potuto scambiare per l'Arkansas. Comunque Noah non aveva tempo per annoiarsi. Solo un'ora prima aveva ricevuto una chiamata dalla Black River che lo informava che Dondie Parker, l'uomo che aveva mandato a uccidere Humphry Bamber, non era rientrato dopo la missione, come invece avrebbe dovuto fare. Questo significava due cose: Bamber era ancora vivo e aveva mentito sul fatto che era riuscito a liberarsi di Moira, perché quel buono a nulla non sarebbe mai stato in grado di sbarazzarsi di Dondie Parker da solo. Quindi, cosa ancora più importante, era possibile che la nuova versione di Bamber fosse stata contaminata in un modo che non sarebbe mai riuscito a scoprire. Per fortuna la sua innata paranoia che lo costringeva a fare una copia di qualsiasi cosa lo aveva indotto a farne una anche del suo computer. Per il momento non era necessario far sapere ai suoi nemici che li aveva beccati con le mani nel sacco. Spense il computer su cui Bamber aveva caricato il programma contaminato e accese il secondo portatile su cui era installata la versione precedente di Bardem. Si sedette su una sedia da campo dentro una tenda. Pensò che anche Giulio Cesare doveva essersi seduto a quel modo, secoli prima, per pianificare le sue vittoriose campagne militari. Al posto della mappa della Gallia disegnata a mano da cartografi greci, Noah aveva un software, progettato appositamente per lui, che analizzava quella parte di pianeta ricca di petrolio. Cesare, uno dei più brillanti generali della storia, avrebbe capito subito cosa stava facendo. Questo era fuor di dubbio. Bardem stava esaminando in contemporanea tre scenari diversi in alcuni piccoli ma fondamentali dettagli. Molto dipendeva da come avrebbe reagito all'incursione il governo iraniano, sempre che fosse riuscito ad accorgersene in tempo. Quello era il vero problema: il tempismo. Un conto era essere sul territorio iraniano, e un altro era intraprendere una campagna militare. Il punto di forza di Pinprick era che non lasciava grandi tracce, da lì il nome: Pinprick, «puntura di spillo». Come fa un elefante a sentire una puntura di spillo? Di certo non se ne sarebbe accorto. Tuttavia Noah non poteva essere altrettanto sicuro che il governo iraniano non avrebbe sentito la piccola puntura finché non fossero arrivati Arkadin e i suoi venti uomini per iniziare a deviare l'oleodotto. L'obiettivo finale di Pinprick era sempre stato il petrolio iraniano che si trovava sotto quei campi a Shahrake Nasiri-Astara. Non c'era nient'altro che valesse qualcosa, in quella zona. In questo stava la genialità del piano di Danziger: confiscare quei campi di petrolio camuffando l'azione con una più vasta incursione da parte degli Stati Uniti e delle nazioni civilizzate alleate in risposta all'attacco iraniano. Se gli iraniani erano riusciti ad abbattere un velivolo americano nello spazio aereo dell'Egitto, avrebbero potuto benissimo attaccare aerei di altre nazioni che si opponevano al suo programma nucleare. Su questo si era incentrato il discorso del presidente alle Nazioni Unite. Si era dimostrato così convincente da neutralizzare i pacifisti incalliti e le stronzate che dicono i nullafacenti di tutto il mondo. Attraverso quella macchinazione avevano dimostrato a tutto il pianeta che l'Iran era uno Stato canaglia. Era la cosa migliore per tutti. Il regime di quel paese era una minaccia. Se il resto del mondo aveva bisogno di uno stimolo per alzare il culo dalla poltrona e prendere le redini in mano... be', loro gliel'avevano offerto. La particolarità della Black River, quella che la distingueva da tutte le altre aziende di gestione del rischio, era che riusciva ad alterare i fatti per creare una realtà che si adattava alle richieste dei clienti. Bud Halliday aveva dato proprio questo incarico alla Black River, e la NSA stava pagando una fortuna, soldi presi da fondi fiduciari occulti che non potevano in nessun modo far emergere il nome del segretario alla Difesa o di qualunque altro membro della NSA. E per quanto riguardava le tracce, cartacee o meno, nei documenti risultava che il cliente della Black River era la Good Sheperd Holding, una società per azioni con sede nell'isola di Islay, nelle Ebridi Interne. Se qualcuno voleva prendersi la briga di andare a controllare, aveva un ufficio con tre stanze in un edificio in pietra pieno di spifferi, dove tre uomini e una donna redigevano e gestivano polizze di assicurazione per le distillerie dislocate nelle varie isole. Anche il gruppo indigeno e i rapporti con la Black River che Halliday aveva tanto decantato al presidente facevano parte di Pinprick. In altre parole, erano usciti dalla fervida immaginazione di Danziger, che sosteneva che la creazione di un gruppo indigeno fosse di vitale importanza sia per indirizzare il presidente sulla via della guerra, sia per ottenere fondi illimitati dalla Black River, in modo da riuscire a coprire le ingenti somme da versare agli alleati: Evsen, Maslov e Arkadin, tutti e tre pagati dalla Good Sheperd. Uno degli uomini di Perlis entrò nella tenda per comunicargli che l'aereo su cui viaggiava Arkadin sarebbe atterrato nel giro di quindici minuti. Non era contento di essersi dovuto rivolgere a Maslov, non solo perché non si fidava di lui, ma anche perché lo irritava il fatto che per fare affari con Evsen era dovuto ricorrere a Maslov. Cosa ancora peggiore, Maslov si era portato dentro Leonid Arkadin, che Perlis non aveva mai incontrato, ma di cui conosceva il curriculum vitae impressionante e spaventoso. Impressionante perché non aveva mai fallito una missione; spaventoso perché era imprevedibile, proprio come Jason Bourne. Entrambi si erano dimostrati inaffidabili, nessuno dei due aveva rispettato alla lettera gli ordini che gli erano stati dati. Erano entrambi maestri dell'improvvisazione, e se questo fattore era determinante nei loro successi, era anche un incubo per chiunque aveva a che fare con loro. Pensare ai russi gli riportò alla mente il raid nel quartier generale di Nikolaj Evsen, a Khartoum. Non era rimasto per vedere chi l'aveva organizzato o cosa sarebbe successo. Se n'era andato di corsa all'aeroporto, dove lo aspettava un mezzo leggero della Black River. Quando aveva cercato di contattare Oliver Liss, si ritrovò a parlare con Dick Braun. Anche Braun faceva parte del triumvirato che aveva dato vita alla Black River, ma Perlis non aveva mai dovuto rispondere a lui prima di allora. Braun era contrariato, ma aveva già saputo che il raid era stato perpetrato da un gruppo di uomini della FSB-2 che avevano seguito i movimenti di Evsen per oltre due anni. Noah aveva saputo anche che Evsen era rimasto ucciso, ma quella notizia inaspettata rappresentava un sollievo. Per lui, la morte del trafficante d'armi significava avere un alleato in meno, e quindi un potenziale problema di sicurezza in meno da dover risolvere. Non riuscì né a capire, né a contenere l'ira funesta di Braun nei confronti di Maslov. Secondo Noah, il capo della grupperovka era soltanto l'ennesimo delinquente russo affamato di soldi. Prima o poi si sarebbe occupato anche di lui, ma non condivise questo pensiero con il suo capo perché un commento del genere avrebbe soltanto peggiorato la situazione. Nessuno dei due però conosceva l'identità dell'americano che si era infiltrato nell'edificio della Air Afrika poco prima del raid della FSB-2. Ormai era troppo tardi per curarsi di quell'uomo o di quello che cercava nel quartier generale di Evsen. Sfortunatamente per Noah, Braun era bene informato, e prima che riuscisse a domandargli dove si trovasse Liss gli chiese di aggiornarlo sulla situazione di Humphry Bamber. Noah rispose che Bardem era più sicuro del solito. «Significa che è stato fatto fuori?» fece Braun, andando dritto al sodo. «Sì» mentì Noah, non volendo entrare in quella questione così delicata a un passo dalla fase finale di Pinprick. Terminò la conversazione prima ancora che Braun potesse fargli altre domande. D'un tratto provò una strana preoccupazione per l'assenza di Oliver Liss, ma aveva problemi più importanti a cui pensare, cioè Bamber. Analizzando di nuovo i tre scenari ottenne una percentuale di successo del 98, del 97, e del 99 per cento. La principale incursione militare, come ben sapeva, si sarebbe svolta su due fronti: sul confine con l'Iraq e su quello con l'Afghanistan. Uno era a sud, l'altro a est. I tre scenari erano essenzialmente uguali, ma si differenziavano per due dettagli cruciali: il tempo che Noah e i suoi uomini avrebbero avuto per assicurarsi i campi di petrolio e deviare l'oleodotto prima che i militari iraniani intuissero ciò che stava succedendo, e le condizioni in cui sarebbero stati quei militari nel momento in cui avrebbero scoperto che gli americani erano entrati in possesso dei pozzi di petrolio. A quel punto, Halliday avrebbe già reindirizzato le forze americane che dovevano incontrarsi con il gruppo indigeno per offrire il loro supporto e assicurarsi quell'area. Nella tenda entrò un'altra persona. Intuendo un aggiornamento sul volo di Arkadin, Noah alzò lo sguardo e fece un passo avanti, convinto che si trattasse di Moira. Il cuore gli martellò in petto e l'adrenalina iniziò a correre per tutto il suo corpo, ma poi si rese conto che era Fiona, un altro membro della sua squadra d'élite che lo aveva accompagnato in quel viaggio. Fiona, una ragazza dai capelli rossi, con i tratti gentili e una pelle di porcellana ricoperta di lentiggini, non aveva niente in comune con Moira, eppure Noah aveva visto proprio lei entrare nella tenda. Perché ce l'aveva ancora in mente? Per molti anni aveva creduto di non poter provare niente, a parte il dolore fisico. Non aveva provato niente quando erano morti i suoi genitori, né quando il suo migliore amico del college era stato ucciso da un pirata della strada. Si rivide in piedi sotto il sole mentre la bara veniva inghiottita dalla terra. Tutti piangevano tranne lui, forse perché era troppo impegnato a fissare il seno prosperoso della sua compagna di classe Marika DeSoto, chiedendosi perché mai si sentisse in quel modo. Era sicuro che ci fosse qualcosa che non andava dentro di lui, qualche elemento mancante o un collegamento fondamentale con il mondo esterno che gli permetteva di farsi scorrere tutto addosso come le immagini bidimensionali di uno schermo. E poi Moira, che lo aveva inspiegabilmente infettato come un virus. Perché gli importava quello che faceva, o il modo in cui l'aveva trattata quando era stato il suo capo? Liss lo aveva messo in guardia da Moira, o meglio, da un'eventuale relazione con lei, che aveva definito «malsana». «Licenziala e scopatela» gli aveva detto in un insolito stile comico, «oppure dimenticatela. In ogni caso toglitela dalla testa prima che sia troppo tardi. Ti è già successo una volta, e i risultati sono stati disastrosi.» Era già troppo tardi, ecco qual era il problema. Moira era ancorata a una parte dentro Noah che nemmeno lui riusciva a raggiungere. Era l'unica persona che nella sua percezione sembrasse tridimensionale, che sembrasse vivere e respirare davvero. La voleva disperatamente accanto a sé, anche se non aveva idea di ciò che avrebbe fatto. Ogni volta che se la trovava di fronte si sentiva come un bambino, perché la sua rabbia gelida e feroce nascondeva la paura e l'insicurezza. Forse qualcuno avrebbe potuto pensare che desiderasse l'amore di Moira, ma non essendo in grado di amare nemmeno se stesso non aveva un'idea chiara di cosa fosse l'amore, di come ci si sentisse a essere innamorati. Ma in cuor suo sapeva perché bramava questo sentimento. In realtà non amava Moira. Semplicemente lei gli ricordava un'altra persona, che era vissuta e poi morta gettando un'ombra sulla sua anima come se fosse un demone... o un angelo, chissà. Persino in quel momento sentiva di non poter pronunciare il suo nome, e neppure pensarlo, senza provare... che cosa? Paura, rabbia, confusione? Forse tutte e tre le cose. Era stata lei a infettarlo, e non Moira. Verità difficile da accettare: la sua rabbia nei confronti di Moira, che manifestava sotto forma di desiderio di vendetta, era in realtà rivolta contro se stesso. Si era convinto di aver sepolto il ricordo di Holly per sempre, ma il tradimento di Moira aveva rotto il ricettacolo in cui custodiva la sua memoria. Toccò con trepidazione l'anello che portava al dito indice come se fosse incandescente. Voleva farlo sparire, credere di non averlo mai visto o di non aver mai scoperto la sua esistenza. Eppure ormai erano anni che non se lo sfilava. Era come se Holly e l'anello fossero stranamente fusi insieme, come se, sfidando le leggi della fisica e della biologia, la sua essenza fosse rimasta in quel cerchietto d'oro. Lo guardò. Una cosa tanto piccola gli aveva inflitto una sconfitta così schiacciante. Si sentiva in uno stato febbrile, ora, come se il virus stesse avanzando verso uno stadio terminale. Fissò la schermata di Bamber con uno sguardo vacuo. «Ricordati solo queste parole, amico» gli aveva detto Liss, «molto spesso sono proprio le donne la causa della rovina degli uomini». Stava andando tutto in frantumi? Non era rimasto altro che smarrimento al mondo? Spostò il computer da una parte, si alzò e uscì dalla tenda nell'ambiente a lui estraneo dell'Iran. La ragnatela architettonica formata dagli impianti petroliferi circondava quella zona come le mura di una prigione. Il suono delle pompe riempiva l'aria oleosa con il mormorio soffuso e costante di animali meccanici che vagavano in cerca di prede attorno alle loro gabbie. Lo stridore e il suono metallico degli autocarri antiquati che cambiavano le marce rovinate riempivano il pomeriggio, in cui l'odore del greggio era una presenza costante. E poi, tutti quei rumori vennero sovrastati dalle urla dei reattori dell'aereo della Air Afrika che apparve nel cielo fosco e chiazzato come un tubo d'argento. Arkadin e i suoi uomini stavano ormai per atterrare. Presto, l'aria sarebbe stata carica dei rumori del fuoco tracciante, delle esplosioni e delle granate. Era ora di mettersi al lavoro. «E uno scherzo vero?» disse Peter Marks rivolto a Willard, dopo che furono entrati in un ristorante messicano e aver visto l'uomo seduto da solo sulla panchina sul retro. A parte quell'uomo, Marks e Willard erano gli unici clienti. L'ambiente odorava di popcorn e birra. «Io non faccio scherzi» rispose Willard. «E un peccato, soprattutto in questo momento.» «Non chiedermi di fare di meglio» ribatté aspro Willard, «perché non ci riesco.» Erano in una parte della Virginia che Marks non conosceva. Non aveva idea che i ristoranti messicani servissero anche la colazione. Willard gli fece cenno di seguirlo sul retro. L'uomo sulla panchina indossava un vestito blu scuro fatto su misura, una camicia celeste e una cravatta blu navy a pois bianchi. Sul risvolto sinistro aveva una spilla con la riproduzione della bandiera americana. Beveva qualcosa con un rametto verde che fuoriusciva dal bicchiere. Un whisky alla menta, avrebbe detto Marks, se non fossero state le sette e mezza del mattino. Nonostante la pressione di Willard, Marks era titubante. «Quell'uomo è il nemico, è l'anticristo in persona per la comunità dell'intelligence. La sua società si prende gioco della legge, fa tutto quello che noi non possiamo fare e viene pure strapagata per questo. Mentre noi lavoriamo come schiavi nel ventre della bestia pieno di merda, lui se ne va in giro bello bello a bordo dei Gulfstream VI.» Scosse la testa, scettico. «Davvero, Freddy, non credo di poter fare una cosa del genere.» «"Non mi importa quale strada prendiamo, purché Halliday finisca spiaccicato sull'asfalto..." non hai forse detto così?» Willard sorrise con aria di vittoria. «Vuoi vincere questa guerra o preferisci vedere il sogno del Grande Vecchio nel cestino dei rifiuti della NSA?» Il suo sorriso si fece incoraggiante. «Dopo aver servito tutto questo tempo in quello che tu chiami il ventre della bestia pieno di merda, forse è ora che tu risalga all'aria aperta. Andiamo. La prima impressione è violenta, poi ci si abitua.» «Me lo prometti, papi?» Willard sghignazzò. «Bravo, questo è lo spirito giusto.» Prese Marks sottobraccio e lo guidò sul pavimento di linoleum. Mentre si avvicinavano alla panchina, l'uomo solitario sembrava studiarli. Con i capelli scuri e ondulati, la fronte ampia e i tratti virili, lo si poteva scambiare per una star del cinema. Veniva subito in mente Robert Forster, ma assomigliava anche a qualcun altro, Marks ne era sicuro. «Buongiorno signori. Prego, sedetevi.» Oliver Liss non aveva solo l'aspetto della star hollywoodiana, ma, anche la voce. Era profonda e ricca, usciva dalla gola con una potenza controllata. «Mi sono preso la libertà di ordinare qualcosa da bere.» Alzò il bicchiere alto e ghiacciato, mentre altri due venivano serviti davanti a Marks e a Willard. «E tè freddo con cannella e noce moscata.» Ne bevve un sorso, invitando gli altri a fare lo stesso. «Si dice che la noce moscata sia psichedelica, se assunta ad alte dosi.» Il suo sorriso riuscì a trasmettere l'idea che avesse già sperimentato quella teoria con successo. A dire il vero ogni cosa di Oliver Liss trasudava successo. Altrimenti lui e i suoi due soci non sarebbero mai riusciti a creare la Black River, grazie ai fondi fiduciari e a tanta fortuna. Mentre Marks sorseggiava il suo tè, sentì di avere un covo di vipere nello stomaco. In cuor suo malediva Willard per non averlo preparato a quell'incontro. Cercò di ricordare qualunque cosa avesse letto o sentito su Oliver Liss, ma si stupì di quante poche informazioni avesse. Per prima cosa, quell'uomo si teneva bene alla larga dai riflettori, il volto pubblico della Black River era infatti uno dei suoi soci, Kerry Mangold. Inoltre, si sapeva proprio poco sul suo conto. Una volta aveva inserito il suo nome su Google ed era apparsa una biografia stringatissima. Orfano, era stato dato in affidamento a diverse famiglie di Chicago fino all'età di diciotto anni, quando ottenne il primo lavoro a tempo pieno con un imprenditore edile. Quell'imprenditore doveva avere sia i contatti sia il potere, perché in men che non si dica Liss si ritrovò a lavorare nella campagna elettorale del senatore per il quale l'imprenditore edile aveva costruito una casa di oltre seicento metri quadrati a Highland Park. Quando l'uomo vinse le elezioni si portò Liss con sé a Washington, e il resto, come si suol dire, è storia. Liss non era sposato e non aveva parenti, almeno non che si sapesse. Viveva, insomma, protetto da una cortina di piombo che nemmeno Internet riusciva a penetrare. Marks cercò di non fare smorfie, mentre si sforzava di bere il tè. Amava il caffè e odiava qualsiasi tipo di tè, soprattutto quelli mascherati da qualcos'altro. Quello che aveva in mano sapeva di acqua putrida. Qualcun altro avrebbe detto: «Com'è, ti piace?», anche solo per rompere il ghiaccio, ma sembrava che a Liss non interessasse né rompere il ghiaccio né qualsiasi altro tipo di convenevole. Al contrario fissò gli occhi, azzurri come la sua cravatta, su Marks. «Willard mi ha raccontato cose molto positive sul tuo conto. Sono tutte vere?» «Willard non mente» rispose Marks. Quella risposta fece apparire l'ombra di un sorriso sul volto di Liss. Continuò a sorseggiare il suo tè senza mai distogliere lo sguardo. Non aveva mai battuto ciglio, un punto di forza sconcertante per uno nella sua posizione. Poi arrivò qualcosa da mangiare. A quanto pareva non si era solo preso la libertà di ordinare da bere, ma anche la colazione: tortillas appena imburrate e uova strapazzate con pepe e cipolle, immerse in una salsa al peperoncino che incenerì le labbra di Marks. Dopo il primo morso alquanto incauto, ingoiò il boccone, poi si buttò sulle tortillas e la panna acida. L'acqua avrebbe soltanto fatto propagare l'incendio fino all'intestino. Mosso a compassione, Liss aspettò fino a che gli occhi di Marks non smisero di lacrimare. Poi gli disse, come se non ci fosse stata alcuna interruzione nella chiacchierata: «Hai ragione sul conto del nostro Willard. Non mente ai suoi amici. A tutti gli altri, però, le sue bugie sembrano l'essenza della verità». Se Willard rimase lusingato da quella conversazione o meno, non lo diede a vedere. Anzi, si limitò a mangiare la sua colazione in maniera lenta e metodica, con un'espressione da sfinge stampata sul viso. «Comunque, se non ti disturba» continuò Liss, «mi piacerebbe che mi raccontassi qualcosa sul tuo conto.» «Vuoi il mio curriculum vitae?» Liss mostrò i denti per un attimo. «Dimmi qualcosa di te che non so già.» Era chiaro che intendeva qualcosa di personale, qualcosa di significativo. In quel preciso istante Marks realizzò che Willard era stato in trattativa con Oliver Liss già prima di quella mattina, forse anche per diverso tempo. «È già in piedi» gli aveva detto Willard, riferendosi alla Treadstone. Si sentì di nuovo preso alla sprovvista dal quarterback della sua stessa squadra, e non era una bella sensazione, soprattutto in un momento delicato come quello. Si arrese. Combattere non sarebbe servito a nulla, ormai era in ballo e doveva ballare. Quello era lo show di Willard, in ogni caso, lui si era solo accodato. «Più o meno una settimana prima del mio primo anniversario di matrimonio ho conosciuto una persona, una ballerina di danza classica, pensate un po'! Era molto giovane, non aveva ancora compiuto ventidue anni: ben dodici anni più giovane di me. Ci siamo visti una volta alla settimana per circa un anno e mezzo, poi all'improvviso finì così come era iniziata. La sua compagnia andò in tournée a Mosca, Praga e Varsavia, ma il vero motivo non fu quello.» Liss si appoggiò allo schienale, tirò fuori una sigaretta e la accese, noncurante del divieto. Che gli importa?, pensò Marks in modo acido. La legge è lui. «E qual è stato il vero motivo?» chiese Liss con un tono di voce stranamente basso. «A dire la verità, non lo so.» Marks giocò con il cibo sul piatto. «E stata una cosa strana. Un giorno c'era, e il giorno dopo non c'era più.» Liss buttò fuori una nuvola di fumo. «Immagino che sei divorziato, adesso.» «No. Ma ho la sensazione che lo sapessi già.» «Perché tu e tua moglie non vi siete lasciati?» Era una cosa che le informazioni di Liss non potevano rivelargli. Marks alzò le spalle. «Non ho mai smesso di amarla.» «E così ti ha perdonato.» «Non l'ha mai scoperto» disse Marks. Gli occhi di Liss brillarono come zaffiri. «Non gliel'hai detto.» «No.» «Non hai mai sentito il bisogno di confessarle quello che avevi fatto?» Si fermò un attimo, pensoso. «Molti uomini avrebbero parlato.» «Ma non c'era niente da dirle» rispose Marks. «Mi è successo qualcosa, è stato come prendere l'influenza. E dopo un po' se ne è andata da sola.» «Come se non fosse mai successo niente.» Marks annuì. «Più o meno.» Liss spense la sigaretta, si voltò verso Willard e lo fissò per un po'. «Bene. Avrai il tuo finanziamento.» Poi si alzò e uscì dal ristorante senza aggiungere altro. «Ma certo, i pozzi di petrolio, che stupida!» Moira si colpì la fronte con il palmo della mano. «Dio mio, ma perché non ci ho pensato prima, è così ovvio!» «Sembra ovvio, adesso che sai tutto» le disse Humphry Bamber. Erano nella cucina di Christian Lamontierre, e mangiavano panini integrali con formaggio Havarti e roast-beef, preparati da Bamber con quello che aveva trovato nel frigo ben fornito, annaffiati con Badoit, un'acqua minerale francese. Il computer di Bamber era sul tavolo di fronte a loro e la schermata di Bardem stava analizzando tutti gli scenari inseriti da Noah nel programma. «Ho pensato la stessa cosa quando ho letto Il grande mistero di Bow di Israel Zangwill.» Bamber mandò giù un boccone. «E il primo enigma della camera chiusa. Anche Erodoto nel Quinto secolo avanti Cristo aveva già accarezzato l'idea. Ma è stato Zangwill a introdurre il concetto di pista falsa, che divenne poi la pietra di paragone per tutti i cosiddetti delitti impossibili che vennero dopo.» «E Pinprick è la classica pista falsa.» Moira studiò gli scenari con interesse e paura crescenti. «Senza Bardem, però, nessuno sarebbe stato in grado di capire che il vero motivo dell'attacco all'Iran era la confisca dei suoi pozzi di petrolio.» Indicò lo schermo. «Quest'area, Shahrake Nasiri-Astara, l'obiettivo finale di Noah... ho letto alcuni rapporti dell'intelligence che ne parlavano. Almeno un terzo del petrolio iraniano viene da lì.» Indicò di nuovo il monitor. «Lo vedi quanto è piccola? Questo la rende sia vulnerabile all'attacco di un contingente ristretto, sia difendibile da un contingente altrettanto ristretto. E perfetta per Noah.» Scosse la testa. «Santo cielo, è un piano brillante... orribile, demente, persino inimmaginabile, ma di sicuro brillante.» Bamber andò a prendere un'altra bottiglia di Badoit dal frigo. «Io sono ancora confuso.» «Non sono sicura ancora di tutti i dettagli, ma è chiaro che la Black River ha stretto un patto col diavolo. Qualcuno all'interno del governo ha fatto pressioni perché il paese reagisse al programma nucleare iraniano che minaccia di destabilizzare tutto il Medio Oriente. Noi e il nostro trasparentissimo governo abbiamo toccato i tasti giusti nei canali diplomatici per costringere l'Iran a fermare e smantellare i reattori nucleari. L'Iran per tutta risposta ci ha schernito, senza pensarci su troppo. Quindi noi e i nostri alleati abbiamo provato l'embargo economico, che ha fatto soltanto sbellicare dalle risate gli iraniani, perché siamo noi ad avere bisogno del loro petrolio, e non siamo di certo gli unici. Cosa ancora peggiore, hanno sempre l'asso nella manica: la minaccia della chiusura dello stretto di Hormuz, che significherebbe sigillare i rubinetti di petrolio di tutte le nazioni appartenenti all'OPEC.» Moira si alzò e mise il piatto nel lavandino, poi ritornò al tavolo. «Qualcuno, qui a Washington, deve aver deciso che la strada della pazienza non portava da nessuna parte.» Bamber corrugò la fronte. «E...?» «E ha deciso di passare al gioco duro. Hanno utilizzato l'abbattimento del nostro aereo come pretesto per dichiarare guerra all'Iran, mettendo in piedi una missione collaterale.» «Pinprick.» «Esatto. Bardem ci sta dicendo che durante il caos dell'invasione un gruppo ristretto di uomini della Black River prenderà possesso dei pozzi petroliferi di Shahrake Nasiri-Astara, garantendoci un controllo di gran lunga maggiore sul nostro destino economico. Il tutto godendo del pieno consenso del governo. Avendo il petrolio iraniano non dovremo più prostrarci davanti ai sauditi, agli iraniani, ai venezuelani o a qualsiasi altra nazione dell'OPEC. Per quanto riguarda il petrolio, l'America sarà autosufficiente.» «Ma la confisca di pozzi petroliferi non è illegale?» «Figurati! Per ora è solo un dettaglio secondario.» «Bene, e tu cos'hai intenzione di fare?» Era una domanda da un milione di dollari. In un altro momento, in un altro posto, avrebbe chiamato Ronnie Hart, ma Ronnie era morta. Noah, perché era quasi sicura che si trattasse di Noah, si era preso cura di lei. Le mancava Ronnie, adesso più che mai, ma la ragione egoistica che stava alla base di quelle emozioni le fece provare vergogna, così cacciò quei pensieri per non doverli affrontare di nuovo. Fu a quel punto che le venne in mente Soraya Moore. L'aveva conosciuta tramite Bourne e le era piaciuta. Il fatto che avesse avuto una relazione con lui in passato non le importava. Non era una ragazza gelosa. Ma come fare per mettersi in contatto con lei? Prese il telefono e contattò il quartier generale della CIA. «La direttrice» le risposero, «è all'estero.» Quando disse all'agente che le aveva risposto che la sua chiamata era molto importante, quello le chiese di aspettare. Poco più di sessanta secondi dopo era già tornato al telefono. «Mi lasci un numero sul quale la direttrice Moore può raggiungerla» le disse. Moira glielo dettò e poi chiuse la comunicazione, convinta che la sua richiesta si sarebbe persa tra i cumuli di e-mail che inondavano la casella di posta elettronica di Soraya. Per cui rimase davvero sorpresa quando dieci minuti dopo il suo telefono squillò e sullo schermo comparve un numero internazionale. Si portò il cellulare all'orecchio. «Pronto?» «Moira? Sono Soraya Moore. Dove sei? Sei in pericolo?» Moira si mise a ridere, sollevata nel sentire la voce dell'altra donna. «Sono a Washington, e sì, sono stata in pericolo, ma ora va tutto bene. Ascolta, ho molte notizie per te.» In maniera rapida e metodica le raccontò tutto quello che sapeva sull'omicidio di Jay Weston e di quello, ormai ne era certa, di Steve Stevenson, oltre ai dettagli sulla morte di Veronica Hart. «Si riconduce tutto al programma commissionato da Noah.» Le descrisse le funzioni di Bardem, come aveva fatto a procurarsene una copia, e ciò che il software aveva rivelato sui piani della Black River, e cioè confiscare i pozzi di petrolio iraniani. «Quello che non riesco a capire è come hanno fatto a ordire un piano così complesso dopo l'attacco terroristico al nostro aereo poco lontano dal Cairo» proseguì Moira. «Non è stato un attacco» disse Soraya. «Sono a Khartoum in questo momento.» Aggiornò quindi Moira su quello che aveva scoperto sul missile iraniano Kowsar 3 e il gruppo formato da quattro americani che l'aveva fatto arrivare in Egitto attraverso il Sudan. «Vedi? E un piano molto più complicato, che non riguarda soltanto la Black River e alcuni membri del governo. Persino Noah non sarebbe riuscito ad arrivare a Nikolaj Evsen senza l'aiuto dei russi.» Adesso a Moira era chiaro perché nessuno si preoccupasse del fatto che la confisca di pozzi petroliferi fosse illegale. Se anche i russi erano coinvolti in Pinprick, sarebbero riusciti a convogliare l'opinione pubblica mondiale nella giusta direzione. «Moira» le disse Soraya, «abbiamo trovato i cadaveri dei quattro uomini che stavamo cercando, poco fuori Khartoum. Un colpo alla testa. Ha tutta l'aria di un'esecuzione: i loro corpi sono stati ricoperti con la calce viva. Però siamo riusciti a recuperare qualcosa. Sembrano delle medagliette per cani, ma le scritte che ci sono sopra sono criptate.» Moira sentì il cuore impazzito martellarle nel petto. «Credo che siano le targhette che la Black River dà al personale che manda sul campo.» «E quindi possiamo provare che sono stati gli uomini della Black River a lanciare quel missile. Possiamo ancora fermare questa guerra!» «Dovrei vederle, per essere sicura al cento per cento» disse Moira. «Te le spedisco subito. Il mio amico qua mi dice che può accelerare la spedizione in modo da fartele avere già domani.» «Perfetto. Posso farle analizzare nel giro di poche ore. Devo solo essere certa che verranno recapitate nelle mani giuste.» «Quindi bisogna lasciare fuori la CIA» la avvertì Soraya. «C'è un nuovo direttore, Errol Danziger. Si è già insediato, anche se la sua nomina non è ancora stata annunciata ufficialmente. È un uomo del segretario Halliday.» Riprese fiato. «Ascolta, hai bisogno di protezione? Posso mandarti uno dei miei agenti ovunque ti trovi in questo momento nel giro di venti minuti.» «Grazie davvero, ma per come si sono messe le cose, meno gente sa dove mi trovo e meglio è.» «Capito.» Ci fu un'altra pausa, più lunga. «Ho pensato molto ajason, ultimamente.» «Anch'io.» Moira era felice perché Bourne era fuori da tutto quel disastro. Aveva bisogno di tempo per guarire, nel fisico come nella mente. Essere a un soffio dalla morte non è qualcosa che si cura con qualche settimana di riposo. «Ci sono molte cose di lui da ricordare.» Soraya pensò che avrebbe chiamato Jason per metterlo al corrente di tutto non appena avesse terminato quella telefonata. «Già, io e te siamo nella stessa situazione, in fondo.» «Non ti dimenticare di lui, Moira» concluse Soraya, interrompendo la comunicazione. *** Capitolo 33 Arkadin scese dall'aereo della Air Afrika, nonostante Noah Perlis fosse nei paraggi. Si mostrò in tutta la sua cordialità quando, con i suoi venti uomini al seguito, incontrò l'agente della Black River. Intanto, cercava di ignorare con tutte le sue forze le similitudini tra quella parte dell'Iran e Niznij Tagil, con la sua puzza di zolfo, l'aria piena di polveri sottili, l'anello dei pozzi di petrolio molto simile a quello formato dalle torri di guardia delle carceri di massima sicurezza che circondavano la sua città natale. Gli altri uomini del contingente di Arkadin erano rimasti sull'aereo e tenevano sotto controllo il pilota e il copilota per accertarsi che non avvertissero nessuno del carico più numeroso del previsto. Al segnale prestabilito sarebbero scesi dalla pancia dell'aereo, così come i guerrieri greci erano riusciti a introdursi nelle mura di Troia all'interno del cavallo di legno. «Finalmente ci incontriamo, Leonid Danilovic, che piacere» disse Perlis in un russo accettabile stringendo la mano di Arkadin. «La tua reputazione ti precede.» Arkadin fece un sorriso e disse: «Credo sia giusto che tu sappia che Jason Bourne è qui...». «Che cosa?» Perlis si sentì come se il mondo gli stesse crollando addosso. «Cos'hai detto?» «... o se ancora non è qui, arriverà presto.» Arkadin mantenne il sorriso sul volto continuando a stringere la mano di Noah. «E stato Bourne a infiltrarsi nell'edificio della Air Afrika a Khartoum. So che ti stavi ancora chiedendo chi potesse essere stato.» Noah tentò di indovinare che cos'avesse in mente Arkadin. «Bourne è morto.» «No» lo contraddisse Arkadin stringendo ancora più forte la mano intrappolata di Perlis. «Avrei dovuto aspettarmelo. Sono stato io a sparargli a Bali. E anch'io pensavo che fosse morto, ma lui è come me, un uomo dalle nove vite.» «Anche se fosse vero, come fai a sapere che Bourne era a Khartoum, e per giunta all'interno dell'edificio della Air Afrika?» «E mio interesse sapere queste cose, Perlis» ribatté l'altro, scoppiando a ridere. «La modestia non è il mio forte, eh? No, in realtà ho incanalato Bourne su una strada appositamente progettata per condurlo a Khartoum, al quartier generale della Air Afrika, da - e questa è la parte più importante - Nikolaj Evsen.» «Ma Evsen è il fulcro del nostro piano, perché mai avresti fatto una cosa tanto idiota, che...» «Volevo che Bourne uccidesse Evsen. Ed è proprio quello che ha fatto.» Il sorriso di Arkadin si allargò. Quest'arrogante di un americano starebbe meglio con una faccia trasfigurata dal sangue, pensò. «Ho tutti i file del computer di Evsen, tutti i suoi contatti, i clienti e i fornitori. Non che fosse un circolo di persone molto ampio, come puoi ben immaginare, ma sono già stati tutti informati della morte di Evsen e sanno che da questo momento in poi dovranno trattare con me.» «Tu... tu prenderai il posto di Evsen?» Nonostante quello che aveva appena sentito, Perlis non potè fare a meno di farsi una grossa risata davanti al volto crudele di Arkadin. «Hai delle belle manie di grandezza, amico mio. Sei soltanto un ignorante, uno stupido delinquente russo che chissà perché ha avuto fortuna, tutto qua. Ma in questo genere di affari la fortuna serve a poco, è ora che entrino in scena i veri professionisti.» Arkadin represse l'istinto di ridurlo in poltiglia. Avrebbe rimandato a più tardi. Adesso aveva bisogno di un pubblico a cui mostrare ciò che stava per fare. Stringendo ancora la mano di Perlis, prese il cellulare e inviò un messaggio di tre lettere. Un secondo dopo la pancia dell'aereo sembrò squartarsi per fare uscire gli altri ottanta uomini dell'esercito privato di Arkadin. «Che significa?» chiese Perlis, guardando i suoi uomini che venivano disarmati, gettati a terra, legati e imbavagliati. «Non prenderò soltanto il posto di Evsen, signor Perlis, ma anche questi pozzi di petrolio. Quello che è tuo, adesso appartiene a me.» L'Havoc Mi-28, l'elicottero russo da combattimento con a bordo Bourne e il colonnello Karpov, due dei suoi uomini, insieme ad altri due dell'equipaggio, nonché una dotazione completa di armi, si inclinò in virata sopra i pozzi petroliferi di Shahrake Nasiri-Astara, e immediatamente tutti videro i due velivoli: quello della Air Afrika che il tecnico informatico di Karpov aveva tracciato fin lì, e un Sikorsky S-70 Black Hawk nero metallizzato ma senza alcun marchio: la Black River. «Secondo i miei informatori a Mosca, le forze della NATO non sono ancora entrate in territorio iraniano» lo informò Karpov. «Forse abbiamo ancora tempo per evitare la catastrofe.» «Conoscendo Noah, sono sicuro che avrà già pronti diversi piani di emergenza.» Bourne guardò in basso verso il terreno che cambiava d'aspetto, ripensando a tutto quello che gli aveva detto Soraya. Ormai aveva tutti i pezzi del puzzle, tranne uno: il tornaconto di Arkadin. Doveva esserci, Bourne ne era convinto, così com'era convinto di tutti i componenti di quella ragnatela così delicata. E laggiù c'era il ragno, si disse, mentre l'Havoc si abbassava a tutta velocità passando sopra le sagome di Arkadin e di Perlis. Mentre Karpov dava al pilota gli ordini per l'atterraggio, Bourne sentì il dolore lancinante della ferita al petto ritornare come un nemico pronto a dargli la caccia. Lo ignorò, concentrandosi sulla scena che gli si parava davanti. Cinque uomini e una donna erano distesi e legati con i volti rivolti a terra. Contò un centinaio di uomini armati fino ai denti che indossavano un'uniforme mimetica non americana. «Che diavolo sta succedendo laggiù?» domandò Boris guardando fuori dal finestrino. «C'è quel figlio di puttana di Arkadin.» Karpov strinse i pugni. «Come vorrei stritolargli le palle, e giuro su Dio che lo farò.» L'Havoc era finito sotto un fuoco di armi leggere e il pilota stava compiendo una serie di manovre evasive, i due motori turboshaft TV3-117VMA sibilavano in risposta ai suoi comandi. Né Bourne né Karpov erano particolarmente preoccupati dal fuoco nemico, l'elicottero era dotato di una cabina blindata in grado di resistere all'impatto di proiettili 7.62mm e 12.7mm, nonché a schegge di granate di 20 mm. «Sei pronto?» chiese Karpov a Bourne. «Sembri pronto a tutto, proprio come ogni americano dovrebbe essere.» E si mise a ridere. Uno degli uomini lanciò un allarme. Tutti guardarono nel punto che indicava e videro un uomo inserire un Redeye nel lanciamissili, e un suo compatriota che, mirando all'elicottero, premeva il grilletto. Nell'istante in cui Arkadin vide il missile nel lanciamissili, sganciò un pugno sulla mandibola a Perlis e, lasciandogli finalmente la mano mentre cadeva a terra, corse verso l'uomo che stava per mirare all'Havoc. Gli gridò di fermarsi, ma invano, perché il rumore dei rotori dell'elicottero era troppo forte. Sapeva bene quello che era successo. I suoi uomini avevano visto l'Havoc da combattimento russo e stavano reagendo d'istinto contro un nemico. Il Redeye vibrò nell'aria ed esplose contro il serbatoio del carburante dell'elicottero, distruggendone una conduttura. L'Havoc oscillava avanti e indietro, come un insetto che ha perso il senso dell'orientamento, e poi accadde quello che Arkadin temeva di più: due missili militari anticarro uscirono dal ventre del velivolo ferito e schizzarono verso terra. Le due detonazioni si portarono via tre quarti del contingente di Arkadin. Bourne si aggrappò alla paratia e sentì l'esplosione di dolore al petto irradiarsi fino alle braccia. Per un momento temette che il trauma della ferita gli stesse provocando un infarto. Poi si riprese e si concentrò per controllare il dolore e con una mano intanto allontanò Karpov dalla cabina dell'Havoc. L'ambiente interno cominciò a saturarsi di fumo, impedendogli quasi di respirare, ma era difficile stabilire se fosse a causa dei danni subiti dall'elicottero oppure dei crateri sottostanti provocati dai missili che avevano lanciato. «Porta questa trappola a terra, adesso!» ordinò Karpov cercando di sovrastare il rumore dei motori. Il pilota, che stava lottando con i comandi dal momento dell'esplosione, annuì e iniziò una discesa verticale. Nell'attimo in cui toccarono terra con una scossa vigorosa, Karpov spalancò lo sportello e saltò giù. Bourne lo seguì con una smorfia di dolore. Il respiro gli bruciava la gola. Si misero a correre, abbassati per non farsi vedere, contro il vento prodotto dalle pale dell'elicottero, fino a che non furono fuori dalla circonferenza dei rotori. La scena era infernale. Era in atto una guerra. Finché si trovavano in aria sentivano il sibilo dei missili, soprattutto in risposta al primo colpo, ma lì, a terra, potevano vedere soltanto devastazione. Enormi cumuli di terra nera fumanti erano ricoperti di corpi, anzi di loro pezzi. Sembrava che una creatura malata avesse voluto migliorare la razza umana iniziando dal suo smantellamento. La puzza di carne arrostita si mischiava all'odore di escrementi e polvere da sparo. Per Bourne era come se la scena da incubo raffigurata nel quadro di Goya avesse preso vita. Quando si viene circondati da così tanta morte e così tanti orrori la mente interpreta il tutto come qualcosa di surreale per non impazzire. I due individuarono Arkadin nello stesso istante e si scagliarono contro di lui. Il dolore al petto di Bourne, però, cresceva sempre di più. Se poco prima sembrava avere la forma di una pallina da flipper, adesso pareva più grande del pugno di una mano che gli serrava il cuore. Mentre cadeva sulle ginocchia, Bourne vide Karpov svanire in una nuvola di fumo nero e oleoso. Non riusciva a individuare Arkadin, ma i pochi uomini rimasti stavano combattendo corpo a corpo contro le guardie iraniane in ogni centimetro di terra che non si era ancora trasformato in un abisso infernale. Per quanto riguardava gli uomini della Black River, pareva che nessuno fosse sopravvissuto. Qualcuno era stato ucciso dai missili, qualcun altro era stato giustiziato dagli uomini di Arkadin. Bourne si costrinse ad alzarsi in piedi, barcollò accanto ai corpi circondato da un fumo denso che si alzava fino al cielo. Quello che vide dall'altra parte non era incoraggiante. Boris era a terra sul pendio di uno dei crateri, una gamba era incastrata sotto l'altra in un'angolatura innaturale. Bourne potè scorgere le ossa bianche. In piedi vicino a lui c'era Leonid Danilovic Arkadin. In mano aveva una SIG Sauer calibro .38. «Pensavi di potermi fregare, colonnello, ma è da troppo tempo che aspetto questo momento.» La voce di Arkadin sovrastava le urla e il rumore dei colpi sparati a raffica. «E ora è arrivato.» Si girò di colpo e guardò Jason. Sul suo volto comparve un sorriso, poi scaricò tre colpi nel petto di Bourne. *** Capitolo 34 Bourne venne sbalzato indietro dalla forza dei proiettili e fu invaso da un dolore bruciante. Doveva aver perso conoscenza per qualche secondo, perché la prima cosa che vide fu Arkadin che si era arrampicato sul margine del cratere e guardava in basso verso di lui con una strana espressione, che doveva essere pietà, o anche rammarico. «Infine eccoci qua» disse, incamminandosi verso Bourne. «Karpov non andrà da nessuna parte, gli uomini di Noah sono tutti morti, se non già sepolti. E così siamo solo io e te, il primo e l'ultimo prodotto della Treadstone. Ma anche tu stai per morire.» Si accovacciò sul bordo del cratere. «Sei complice della morte di Devra e finalmente te l'ho fatta pagare, ma c'è qualcosa che voglio sapere prima che tu muoia. Quanti altri prodotti sono usciti dalla Treadstone? Dieci? Venti? Di più?» Bourne riuscì a malapena a parlare, si sentiva paralizzato. Il giubbotto che gli aveva dato Boris era ricoperto di sangue. «Non lo so» mormorò. Respirare era diventato difficile, il dolore era incredibile. Adesso che si trovava al centro della ragnatela, adesso che aveva trovato il ragno astuto che aveva tessuto lì i suoi fili intricati, si sentiva impotente. «Ah, non lo sai.» Arkadin piegò la testa da una parte, prendendosi gioco di lui. «Be', ecco quello che so io. A differenza di te, non mi importa condividere le mie informazioni. Tu pensi che sia stato io a ingaggiare il Torturatore, ma niente può essere più lontano dalla verità. Perchè dovrei affidarmi a qualcuno per ucciderti, quando ho un desiderio smodato di farlo con le mie mani? Non ha senso, no? Ma c'è una cosa che ha molto più senso: è stato Willard a mandare il Torturatore. Sì, hai capito bene, l'uomo che ti ha rimesso in sesto a Bali dopo che, non si sa come, sei sopravvissuto al mio proiettile al cuore. Ma come diavolo hai fatto? Non importa, tanto tra poco sarai morto.» Colpi d'arma da fuoco, probabilmente di mortai, sparati dagli iraniani fischiarono in cielo, detonando in due punti diversi a non più di cento metri di distanza. Arkadin rimase immobile, non batté ciglio. Aspettò soltanto di udire le urla che sarebbero seguite. «Dov'ero rimasto? Ah sì, Willard. C'è un'altra notizia: Willard sapeva che ero vivo e che ero stato io a premere il grilletto a Bali. Come faceva a saperlo? Ha seguito le modalità della Treadstone: ha interrogato il suo sicario e poi mi ha chiamato dal cellulare di quell'uomo. Che figlio di puttana, eh?» Poco lontano si accesero i motori di un velivolo. I rotori del Black Hawk iniziarono a ruotare. Bourne capì che Noah se n'era andato. «Immagino che ti starai chiedendo perché non te l'abbia detto. Ti voleva mettere alla prova, proprio come voleva mettere alla prova me. Voleva vedere quanto tempo ci mettevi a scoprire che c'ero io dietro tutto, perché già sapeva quanto tempo mi era servito per trovare informazioni sul tuo conto.» Arkadin si sedette sui talloni. «Intelligente lo stronzetto, eh? «Adesso che ci siamo conosciuti un po' meglio è già ora di salutarci. Non posso spendere più di tanto tempo con il mio doppio prima di sentirmi lo stomaco sottosopra.» Si alzò in piedi. «Ti farei strisciare, ma immagino che nelle tue condizioni non ce la faresti.» In quel momento Bourne si alzò in piedi come se ritornasse dal regno degli inferi, e si avventò contro Arkadin, il quale, colto di sorpresa, alzò la SIG e sparò. Ancora una volta Bourne cadde a terra, ma si rialzò. «Cristo!» imprecò Arkadin. Era esterrefatto. «Ma che cosa sei?» Bourne lo raggiunse e afferrò la pistola. In quel preciso istante partì un colpo che ferì Arkadin di striscio. Il sangue iniziò a sgorgare dalla spalla. Urlò, prese a pugni Bourne, poi premette tre volte il grilletto in direzione di Boris Karpov, che, nonostante la gamba rotta, si era arrampicato fino al bordo del cratere, ma la SIG sparò a vuoto: il caricatore era vuoto. Il Black Hawk decollò e girando su se stesso scaricò una cascata di colpi di mitraglia sugli uomini rimasti del gruppo di Arkadin. Che stessero combattendo contro le guardie iraniane non faceva differenza: erano tutti nel mirino. Arkadin buttò a terra la SIG ormai inutile, poi corse verso i pochi uomini che gli erano rimasti. Bourne fece tre passi dietro di lui e cadde su un ginocchio. Sentiva che il cuore gli stava per scoppiare. Malgrado il giubbotto in kevlar che Karpov aveva voluto che indossasse sotto la giacca, l'impatto dei quattro colpi che Arkadin gli aveva sparato aveva riaperto la ferita che aveva al petto. Il Black Hawk fece un altro giro su se stesso per colpire altri uomini, ma Arkadin caricò il lanciamissili a spalla. Bourne sapeva che era essenziale per Arkadin difendere gli ultimi membri del suo contingente: senza di loro, non avrebbe potuto fare niente. Non sarebbe mai riuscito a proteggere i pozzi petroliferi da solo. L'unica speranza che aveva era abbattere il Black Hawk. Con una forza di volontà sovrumana, Jason si alzò e si avvicinò a grandi passi a un mucchio di cadaveri. Raccolse un AK-47, mirò ad Arkadin e sparò. Il caricatore era vuoto. Bourne gettò via il fucile e afferrò una Luger dalla fondina di uno dei soldati, controllò che fosse carica e corse verso Arkadin, che si era fermato a gambe divaricate, il lanciamissili sulla spalla. Il rumore dei colpi di mitraglia riempì l'aria, mentre Bourne correndo premeva il grilletto della Luger puntata verso Arkadin, che si trovò costretto a sparare il missile di corsa. Forse il lanciamissili era danneggiato, o forse lo era il missile, fatto sta che mancò l'elicottero. Senza rallentare il passo, Arkadin gettò via il lanciamissili e, quasi nello stesso movimento, raccolse un fucile mitragliatore dalla mano di un soldato. Sparò all'americano e continuò a sparare fino a svuotare il caricatore, poi Jason si alzò di nuovo e si rimise a correre, malgrado non riuscisse quasi a respirare. Sparò, senza fermarsi, ma Arkadin si era ormai dileguato in una nuvola densa di fumo nero. Sopra le loro teste, l'elicottero della Black River si allontanava verso i pozzi di petrolio. Bourne non riusciva a vedere nessun sopravvissuto della Black River e quasi tutti gli uomini di Arkadin giacevano a terra in mezzo al fumo, Bourne ci entrò dentro, ma i suoi occhi presero a lacrimare. Il respiro era come intrappolato in gola, i polmoni erano sempre più affaticati. In quella nuvola nera percepì un movimento, si abbassò, ma troppo tardi. Arkadin lo colpì con le mani unite sulle spalle, facendolo girare su se stesso. Arkadin gli rifilò un pugno su un lato della testa, continuando a confonderlo. Jason cadde a terra sentendo che il petto e la testa stavano per esplodere, ma quando Arkadin si buttò sulla Luger di Bourne lo colpì a sua volta con la canna aprendogli una lunga ferita sulla guancia. Arkadin barcollò all'indietro nella cappa di fumo e Bourne sparò gli ultimi tre colpi rimasti nella Luger. Si precipitò nel fumo per cercare il suo nemico. Uscì dalla nuvola nera e si girò in tutte le direzioni, ma Arkadin era scomparso. D'un tratto si ritrovò in ginocchio sfiancato dal dolore al petto, che si era esteso dappertutto. Nella sua mente vide il fuoco che ardeva nel suo corpo e che minacciava di consumarlo, e pensò a quello che gli aveva detto Tracy, mentre moriva tra le sue braccia: «E nell'ora più buia che i nostri segreti ci divorano vivi». Al centro di quelle fiamme comparve un volto fatto di fuoco. Era il volto di Shiva, il dio della distruzione e della resurrezione. Era Shiva che lo aveva fatto rialzare? Non l'avrebbe mai saputo, ma un attimo prima era sull'orlo del collasso, quello dopo si reggeva malfermo sulle gambe. Fu in quell'istante che vide Boris, disteso sul bordo del cratere con la testa ricoperta di sangue. Bourne, ignorando il dolore, infilò le mani sotto le braccia di Karpov, cercando di tirarlo su. Mentre i proiettili traccianti sfioravano le loro teste, fece forza sulle gambe e issò l'amico sulle spalle. Strinse i denti e s'incamminò verso l'elicottero russo, passando accanto ai cadaveri, ai corpi in fin di vita, e alle ceneri di quelli che una volta erano stati esseri umani. Diverse volte si ritrovò costretto a fermarsi per la pioggia di proiettili o per le fitte che gli bloccavano il cuore come una morsa che gli mozzava il respiro. Una volta cadde su un ginocchio, e la mano incenerita di un soldato - impossibile capire di quale fazione fosse - afferrò un lembo dei suoi vestiti. Bourne tentò di liberarsene, ma le dita sembravano incollate. Ebbe la sensazione che le facce intorno si fossero voltate verso di lui, urlando l'agonia silenziosa degli spasmi della morte. Si assomigliavano tutti, erano tutte vittime di una violenza che alla fine si rivelava sempre insensata. La loro fedeltà era resa irrilevante dal caos, dal sangue, e dal fuoco, che non cancellava solo la loro umanità, ma anche le loro credenze politiche o religiose, o forse erano stati guidati soltanto dal denaro. Erano un tutt'uno sotto un cielo deprimente, pieno delle ceneri dei loro compatrioti e dei loro nemici. Alla fine Bourne riuscì a liberarsi della presa del soldato, si alzò vacillando, e riprese il suo cammino agonizzante nel paesaggio inaridito. Non si vedeva niente a causa del fumo oleoso. Come in un sogno, l'elicottero russo sembrava svanire e comparire di nuovo, essere a un passo e poi a centinaia di metri di distanza. Correva, si fermava, si appoggiava alle ginocchia, ansimava, si sentiva come Sisifo costretto a far rotolare il masso su per la collina senza scorgerne mai la cima. Il suo obiettivo sembrava lontano chilometri, e così avanzava lento, un passo dietro l'altro, inciampando e camminando a grandi falcate sotto il peso del suo fardello, zigzagando nella zona di morte di quella piccola ma ugualmente devastante guerra. Alla fine, con i polmoni in fiamme e gli occhi lacrimanti, vide gli uomini di Boris uscire dal rifugio dell'elicottero pervenirgli incontro. Presero il loro comandante e Bourne cadde a terra, in ginocchio. Due soldati russi lo aiutarono ad alzarsi e gli offrirono dell'acqua. Ma li aspettava qualcosa di peggio. Il gruppo di Boris era stato costretto ad abbandonare l'Havoc reso inutilizzabile dal colpo inferto dal missile. Bourne si guardò intorno per riprendere fiato, poi diresse gli uomini verso il jet della Air Afrika nascosto a meno di trecento metri da lì. Non videro nessuno intorno all'aereo, né nel corridoio. Lo sportello era aperto, e scoprirono subito perché: i membri dell'equipaggio erano stati legati e imbavagliati, probabilmente da Arkadin e i suoi uomini. Bourne diede l'ordine di liberarli. Distesero il colonnello lungo il corridoio e il medico gli fu subito sopra per iniziare gli accertamenti. Dopo cinque minuti pieni di ansia, in cui fece prove e test su Karpov, alzò lo sguardo verso Bourne e gli uomini raccolti intorno. «La gamba è rotta, ma non ci sono altri problemi» sentenziò. «Per quanto riguarda la ferita... be', poteva andare peggio. Il proiettile gli ha sfiorato la testa, ma le ossa del cranio non si sono fratturate. E questa è la buona notizia.» Le sue mani continuarono a tastare il corpo del colonnello russo. «Quella cattiva è che ha una commozione cerebrale piuttosto grave. La pressione nel cervello sta aumentando. Devo praticare un piccolo foro per allentarla.» Indicò un punto sulla tempia destra di Boris. «Proprio qui.» Guardò Bourne più da vicino e fece schioccare la lingua. «Poi l'unica altra cosa che posso fare è eseguire un triage. Dobbiamo portarlo all'ospedale il più in fretta possibile.» Bourne andò nella cabina e diede ordine al pilota e al copilota di ritornare a Khartoum. I due iniziarono subito la check-list pre-volo e i motori si accesero. «Allacciati la cintura» disse il medico a Bourne appena ritornò sul corridoio. «Ti visito non appena le condizioni del colonnello Karpov si saranno stabilizzate.» Bourne non era nelle condizioni di potersi opporre. Collassò sul sedile, si tolse la giacca e i sacchetti di sangue suino bucati dai proiettili di Arkadin. Recitò una preghiera silenziosa allo spirito del maialino che aveva dato la vita per salvare la sua, e non potè fare a meno di rivedere gli occhi della scultura di legno nella piscina di Bali. Si tolse il giubbotto antiproiettile e si allacciò la cintura di sicurezza senza mai distogliere lo sguardo dal corpo di Karpov disteso a terra. Era pallido come un cadavere, c'era sangue tutto intorno a lui, e per la prima volta, almeno secondo la memoria capricciosa di Bourne, sembrava davvero vulnerabile. Si chiese se anche lui avesse fatto la stessa impressione a Moira quando gli avevano sparato a Tenganan. Quando iniziarono a muoversi, sentì il bisogno di chiamare Soraya sul satellitare e raccontarle quello che era appena successo. «Mi rivolgerò al generale LeBowe che dirige le forze alleate e gli dirò di ritirarsi» disse Soraya. «E un brav'uomo, mi ascolterà. Soprattutto quando gli riferirò che domattina avrò le prove che dimostreranno che non sono stati gli iraniani, bensì gli uomini della Black River a lanciare il Kowsar 3.» «Mi sa che saranno in molti al governo a beccarsi le uova marce in faccia» ribatté Bourne con aria stanca. «Con quello che abbiamo in mano, spero che qualcuno si becchi molto più che un semplice uovo. Non sarà la prima volta, e ti garantisco che non sarà nemmeno l'ultima.» Bourne sentì il rumore di tre grandi esplosioni. Guardò fuori dai finestrini di plexiglas e vide il regalo d'addio di Noah: il Black Hawk aveva lanciato dei missili su ciascun pozzo. Erano tutti in fiamme. Di sicuro era il suo modo per assicurarsi che, se fosse sopravvissuto, Arkadin non ci avrebbe messo le mani sopra. «Jason, mi hai detto che il colonnello Karpov si rimetterà presto, ma tu stai bene?» Bourne era ormai in volo a bordo del jet della Air Afrika e non sapeva cosa rispondere. Quante volte bisogna morire, pensò, prima di imparare a vivere? Quando Moira aprì il pacco che le aveva fatto recapitare Soraya e tirò fuori le medagliette in titanio, sapeva di avere in mano l'ultima prova concreta per incastrare Noah. Le targhette erano della Black River, infatti. Una volta decodificati, ottenne i nomi e i numeri di serie dei quattro agenti, poi prese le medagliette e il portatile di Humphry Bamber con la schermata di Bardem ancora aperta e li portò all'unica persona di cui sapeva di potersi fidare: Frederick Willard. Willard accolse le prove con una discreta dose di esultanza e una strana calma che gli fece dedurre che sapesse già qualcosa. Come previsto, Willard presentò le prove contro la Black River a diverse fonti per assicurarsi che non andassero perdute o distrutte. Soraya e Amun Chalthoum tornarono al Cairo. Malgrado gli uomini di Soraya avessero raccolto prove fondamentali per svelare l'identità dei nemici di Chalthoum, per loro due quello non era un bel momento. Soraya sapeva che Amun, sentendosi a suo agio soltanto nella sua patria, non avrebbe mai lasciato l'Egitto. Inoltre, aveva ancora da combattere delle battaglie lì. Sapeva anche che non avrebbe mai lasciato l'America per vivere con lui. «Che faremo, Amun?» gli chiese. «Non lo so, azizti. Ti amo come non ho mai amato nessuno in vita mia. Il pensiero di perderti è insopportabile.» Amun le prese la mano. «Vieni a vivere qui, con me. Ci sposeremo e avremo dei bambini e li cresceremo insieme.» Soraya rise e scosse la testa. «Lo sai che non sarei felice qui.» «Ma pensa a quanto saranno belli i nostri bambini, aziztil » «Quanto sei stupido!» Lo baciò sulle labbra. Voleva dargli un bacio in amicizia, ma si trasformò in qualcos'altro, qualcosa di più profondo, di estatico, che durò un tempo lunghissimo. Quando alla fine si separarono, lei disse: «Ho un'idea. Ci incontreremo una volta all'anno per una settimana, ogni volta in un posto diverso, o dove preferisci tu». Amun la fissò a lungo. «Azizti, non c'è più niente, per noi, vero?» «Non basta questo? Deve bastarci, non lo capisci?» «Capisco tutto molto bene.» Sospirò e la strinse forte. «Ce lo faremo bastare.» Tre giorni dopo, lo scandalo della Black River si impose su Internet e sulla stampa internazionale con la forza di un uragano, facendo passare in secondo piano persino la notizia dello smantellamento delle forze alleate sui confini iraniani, già analizzata nei minimi dettagli dai giornalisti televisivi. «Ci siamo» disse Peter Marks a Willard. «Sia la Black River sia il segretario Halliday stanno affondando.» Lo sguardo imperscrutabile di Willard lo sorprese non poco. «Spero tu non sia smanioso di tirarti indietro, principino.» Quell'osservazione criptica divenne più chiara qualche ora dopo, quando il segretario alla Difesa Bud Halliday tenne una conferenza stampa in cui condannava il ruolo della Black River in quello che lui definiva «uno stupefacente abuso di potere che va ben oltre i parametri della missione affidata alla società che presto verrà smantellata. Ho parlato di persona con il procuratore generale che mi ha confermato che ci sono accuse sia penali sia civili a carico di membri della Black River, compresi i direttori. Voglio che sia ben chiaro che gli uomini della NSA si sono affidati alla Black River in buona fede sulla base delle assicurazioni fornite dalla società riguardo a incontri e accordi avuti con i leader di un gruppo filoccidentale interno all'Iran. Ho fornito tutti i documenti in mio possesso riguardanti date, orari, nomi dei leader e argomenti discussi al procuratore generale in quanto prove contro la Black River. Voglio rassicurare i cittadini americani che nessuno della NSA è mai venuto a conoscenza di questa macchinazione, opera della Black River. Verrà istituito un comitato di esperti per investigare sull'intera faccenda. La garanzia che vi offro qui oggi è che i responsabili di un complotto di tale portata verranno puniti nella maniera più severa prevista dalla legge». Com'è facile immaginare, non emerse alcun legame tra la NSA, per non parlare del segretario Halliday, e la Black River, al di là di quelli già dichiarati pubblicamente. Con grande meraviglia di Marks, i direttori accusati furono soltanto Kerry Mangold e Dick Braun. Non ci fu alcuna menzione di Oliver Liss, il terzo membro del triumvirato. Quando Marks chiese a Willard come mai, ricevette il solito sguardo imperscrutabile, che lo fece optare per una ricerca su Google; lesse un trafiletto uscito sul «Washington Post» diverse settimane prima. Stando a quanto riportato, Oliver Liss aveva rassegnato le dimissioni senza preavviso e per «motivi personali». Per quanto cercò, Marks non riuscì a trovare da nessuna parte quali potessero essere quei motivi personali. Quando lo domandò a Willard, quest'ultimo gli rispose, sorridendo a denti stretti, che non ce n'erano. «Spero tu sia pronto per metterti al lavoro» gli disse, «perché la Treadstone è tornata.» *** Capitolo 35 Era una bellissima giornata di maggio a Bali, quando Suparwita arrivò al tempio sacro di Pura Lempuyang. Il cielo era limpido, mentre saliva le scale custodite dai dragoni passando attraverso l'arco scolpito nella pietra per raggiungere il secondo tempio che svettava sul fianco della montagna. Il monte Agung, chiaro, pulito, libero dalle nuvole, e azzurro come lo stretto di Lombok, si ergeva in tutto il suo splendore. Poi, quando si voltò verso alcuni penitenti in ginocchio, scorse un'ombra camminare sulla pietra e riconobbe Noah Perlis. «Non sembri sorpreso.» Perlis indossava il sarong balinese e una maglietta. «Perché dovrei esserlo?» rispose Suparwita. «Sapevo che saresti tornato.» «Non sapevo dove altro andare. Negli Stati Uniti sono ricercato. Sono un fuggitivo, ormai. E quello che volevi, no?» «Volevo che diventassi un emarginato» replicò Suparwita. «Non è proprio la stessa cosa.» Perlis fece una risata di scherno. «Credi di potermi punire?» «Non ho bisogno di punirti.» «Avrei dovuto ucciderti quando ne ho avuto l'occasione, anni fa.» Suparwita lo guardò con i suoi grandi occhi brillanti. «Non ti è bastato uccidere Holly?» Perlis sembrò sbigottito. «Non hai prove.» «Non mi servono quelle che tu chiami prove. Io so cosa è successo.» Perlis fece un passo verso di lui. «E cioè?» «Hai seguito Holly Marie Moreau dall'Europa fino a qui. Non posso sapere quello che facevi con lei laggiù.» «Perché no?» Il ghigno non abbandonava il viso di Perlis. «Dici di sapere tutto.» «Perché hai seguito Holly fin qui, Perlis?» Noah si strinse nelle spalle come a voler dire che non gli importava più niente. «Era entrata in possesso di un oggetto che mi apparteneva.» «E come è successo?» «L'ha rubato, perdio! Tornai qui a riprendermelo. Avevo tutto il diritto...» «Di ucciderla?» «Stavo per dire che avevo tutto il diritto di riprendermi quello che mi aveva sottratto. La sua morte è stata un incidente.» «L'hai uccisa senza motivo» ribatté Suparwita. «Mi sono ripreso quello che era mio. Ho ottenuto ciò che volevo.» «Ma a che ti è servito? Le hai estorto il suo segreto?» Perlis rimase in silenzio. Se avesse saputo piangere l'avrebbe fatto. «Ecco perché sei tornato» disse Suparwita, «non solo a Bali, ma nel punto esatto in cui hai ucciso Holly.» Perlis sentì un fremito di rabbia. «Oltre a essere un guaritore, o qualunque altra cosa dici di essere, sei anche un poliziotto?» Suparwita accennò un sorriso che non offriva alcun appiglio a Perlis. «Credo che sia giusto precisare che quello che Holly ti ha rubato tu l'avevi rubato a tua volta.» Perlis sbiancò. «Ma come fai... come fai a saperlo?» sussurrò. «Me l'ha detto Holly. Come avrei fatto, altrimenti?» «Holly non lo sapeva, lo sapevo solo io.» Agitò la testa con aria sprezzante. «Comunque, non sono venuto qui per subire un interrogatorio.» «Adesso lo sai perché sei venuto?» Gli occhi di Suparwita ardevano quasi quanto il sole. «No.» «E invece lo sai.» Suparwita alzò un braccio, indicando la mole del grande monte Agung che si innalzava sotto l'arco di pietra. Perlis si voltò a guardare, parandosi gli occhi per il bagliore. Quando si rigirò Suparwita era sparito. La gente era ancora al suo posto raccolta in preghiera, il sacerdote era assorto in qualcosa che solo Dio sapeva, e l'uomo che gli stava vicino contava i suoi soldi con una lentezza ipnotica, quasi seguendo un ritmo tutto suo. Poi Perlis, come se non dipendesse dalla sua volontà, si ritrovò a camminare verso il monte Agung, il portale di pietra e la parte superiore delle scale, dove, anni prima, Holly Marie Moreau era stata uccisa. Perlis si svegliò soffocando un grido di protesta. Sudava, nonostante l'aria condizionata nella stanza. Si era ritrovato in posizione seduta dopo il sogno che riguardava Suparwita e Pura Lempuyang. Sentì il dolore martellante al cuore che accompagnava sempre i momenti che seguivano quei sogni. Per un attimo non riuscì a capire dove si trovasse. Non aveva fatto altro che correre, da quando aveva ordinato di incendiare i pozzi di petrolio iraniani. Qualcosa era andato storto, ma cosa? Si era posto quella domanda così dolorosa mille volte, e alla fine aveva trovato una sola risposta: Bardem non aveva previsto una fine del genere, perché non aveva inserito due variabili praticamente identiche ma non incluse nei milioni di parametri con cui era stato programmato: Bourne e Arkadin. Nel mondo della finanza, la comparsa di un evento che nessuno ha considerato e che è in grado di modificare lo stato dei fatti viene chiamata Cigno Nero. Nel mondo ermetico e misterioso dei programmatori, una circostanza esterna ai parametri in grado di far fallire il programma si chiama Shiva, il dio indù della distruzione. Noah non riusciva mai a capire se fosse sveglio o se stesse ancora dormendo, quando faceva quel sogno. Niente gli sembrava più reale, né il cibo che mangiava, né i posti in cui si trovava, né quel poco di sonno leggero a cui riusciva ad abbandonarsi. Il giorno prima era arrivato a Bali e per la prima volta da quando il Black Hawk era decollato dalle rovine di Pinprick qualcosa dentro di lui era cambiato. Per lui la Black River rappresentava la sua famiglia e i suoi amici. Non era in grado di vedere nient'altro che i suoi parametri. Ora, senza quel lavoro aveva cessato di esistere. Ma no, era ancora peggio, perché, pensandoci bene, per tutto il tempo in cui aveva lavorato per la Black River si era costretto a smettere di esistere. Si era buttato in tutti i ruoli che doveva recitare, uno dopo l'altro, perché lo portavano sempre più lontano da se stesso, una persona odiosa, inutile e dannosa. Era il vero Noah, il bimbo fragile e che non aveva più sentito di essere sin dall'infanzia, quello che si era innamorato di Moira. Entrare a far parte della Black River era stato come indossare un'armatura, una protezione contro quello sciame di sentimenti che si nascondevano dentro di lui e che lo facevano sentire uno smidollato. Ora che non aveva più la Black River, quell'armatura gli era stata strappata via, e quell'essere roseo e piagnucolante era rimasto esposto alla vita senza protezione. Era come se fosse stato premuto un interruttore in grado di invertire il flusso di corrente da positivo a negativo, e tutta l'energia che prima entrava dentro di lui adesso se ne usciva e volava via lontano. Scese dal letto e si avvicinò alla finestra. Ma cos'aveva di tanto speciale, quel posto? Era stato in molte isole paradisiache nella sua vita, posti sparsi in tutto il mondo come brillantini a forma di diamante. Ma Bali sembrava presentarsi davanti ai suoi occhi con una presenza eterna. Era un uomo che non credeva nello spirito. Era sempre stato un tipo pragmatico, fin da bambino. Aveva trascorso praticamente tutta la sua vita da solo, senza famiglia e senza amici. Una situazione che gli andava a pennello, perché parenti e amici hanno la strana abitudine di tradirti senza che nemmeno te ne accorgi. In passato aveva scoperto che se non provava niente, non poteva sentirsi ferito. Eppure era stato ferito, e non solo da Moira. Si fece una doccia e si vestì, poi si buttò nel clima caldo-umido dell'isola. Il cielo era sereno, proprio come nel sogno. In lontananza riusciva a vedere il monte Agung, un luogo di eterno mistero per lui, perché aveva l'impressione che in quella montagna si nascondesse qualcosa di se stesso che non voleva conoscere. Qualunque cosa fosse lo attirava e lo respingeva con la stessa identica forza. Cercò di ritrovare il controllo, di scacciare le emozioni, ma non ne fu capace. Avevano liberato i cavalli e senza il rigore ferreo della Black River, senza la sua armatura, non c'era verso di farli rientrare nelle stalle. Guardò in basso verso le mani, che presero a tremare. Cosa mi sta succedendo?, pensò. Ma sapeva che quella non era la domanda giusta da farsi. La domanda giusta era quella che Suparwita gli aveva fatto nel sogno: «Perché sei venuto?». Secondo quello che aveva letto sull'argomento, le persone che si sognano rappresentano aspetti di se stessi. Se le cose stavano così, era stato lui stesso a porsi la domanda. Perché era tornato a Bali? Quando se n'era andato dopo la morte di Holly Marie Moreau era certo che non ci avrebbe più rimesso piede. E invece eccolo lì. Moira l'aveva ferito, era vero, ma quello che aveva provato con Holly era un dolore inimmaginabile. Mangiò qualcosa senza sentirne il sapore, e quando raggiunse la sua destinazione non si ricordava già più che cosa avesse mangiato. Il suo stomaco non era né pieno né vuoto. Come il resto del suo corpo, gli sembrava che avesse cessato di esistere. Holly Marie Moreau era sepolta in un piccolo sema, un cimitero a sudovest del villaggio in cui era cresciuta. Al giorno d'oggi i balinesi per lo più cremano i morti, ma alcuni, come quelli di Tenganan, che non sono indù, non rispettano questa usanza. I balinesi credono che la zona occidentale che dà verso il mare sia la direzione del mondo dei morti, per questo i sema vengono costruiti lì. I balinesi hanno paura dei cimiteri perché credono che le anime dei defunti non cremati vaghino di notte quando gli spiriti maligni guidati da Rudra, il dio della morte, li aiutano a uscire dalle loro tombe. Di conseguenza quei posti erano sempre deserti. Non si vedevano neanche gli uccelli. Nel sema Noah cercò la tomba di Holly Marie Moreau e la trovò ai piedi di un grande albero che faceva una bella ombra. Rimase in piedi a fissare per un tempo infinito la lapide di marmo su cui erano incisi il nome e la data di nascita e di morte. Sotto c'era un'altra parola: amata. Noah sentì una pulsione inesorabile verso quella tomba, la stessa che sentiva per il monte Agung. Camminò con passo lento e prudente, come dettato dal ritmo dei battiti del cuore. All'improvviso si fermò. Aveva visto un'ombra più scura di quelle degli alberi. Era solo un'illusione, forse? Pensò agli dèi e ai demoni che abitavano i sema e ridacchiò dentro di sé. Poi vide di nuovo quell'ombra, stavolta in maniera più distinta. Non riuscì a distinguere il volto, ma scorse la lunga chioma di una donna o di una ragazza. Un'anima, si disse continuando a prendersi in giro. Era ormai vicino alla tomba di Holly, ci stava praticamente sopra, e si guardò intorno, abbastanza preoccupato da tirare fuori la pistola, mentre si chiedeva se il sema fosse davvero così deserto come sembrava. Alla fine si decise, superò la tomba e si incamminò tra gli alberi, seguendo la direzione dell'ombra dalle forme femminili. Giunse su un terrapieno, dove indugiò un attimo, indeciso su quale direzione prendere perché la vista era ostruita dalla foresta. Poi, con la coda dell'occhio, percepì un guizzo e girò la testa. Magari era solo un uccello. Ma tendendo l'orecchio si accorse che non si sentivano cinguettìi. Riprese il cammino, seguendo la direzione che aveva preso l'ombra, muovendosi a passi sicuri lungo un burrone costeggiato da grandi alberi. Alzò la testa e vide di nuovo i capelli della ragazza. La chiamò, anche se era assurdo. «Holly!» Holly era morta, certo. Lo sapeva meglio di chiunque altro. Ma quella era Bali, e tutto era possibile. Iniziò a correrle dietro, con le gambe e il cuore che martellavano. Corse tra due alberi, e poi qualcosa lo colpì dietro la testa. Cadde in avanti nell'oscurità. «Chi la conosceva meglio» disse una voce nella sua testa, «tu o io?» Perlis aprì gli occhi, in preda a un dolore tremendo, e vide Jason Bourne. «Tu! Come facevi a sapere che sarei venuto qui?» Bourne sorrise. «E la tua ultima fermata, Noah, la tua corsa finisce qui.» Perlis si guardò intorno. «Quella ragazza... ho visto una ragazza.» «Holly Marie Moreau.» Perlis vide la propria pistola a terra e cercò di raggiungerla. Bourne gli diede un calcio talmente violento che il suono delle costole che si incrinavano riecheggiò tra i rami degli alberi. Perlis gemette di dolore. «Dimmi di Holly.» Noah guardò in alto verso Bourne. Non riusciva a impedire alla sua faccia di contrarsi in smorfie di dolore, ma almeno trattenne le lacrime. Poi un pensiero lo raggiunse. «Non te la ricordi, vero?» disse, cercando di ridere. Bourne si inginocchiò vicino a lui. «Quello che non ricordo, me lo racconterai tu.» «Fottiti!» Noah Perlis pianse, quando Bourne gli premette con violenza i pollici contro gli occhi. «Ora guarda!» gli ordinò. Perlis batté le palpebre e scorse l'ombra della ragazza che scendeva da un albero. «Guardala!» urlò Bourne. «Guarda come l'hai ridotta.» «Holly?» Perlis non riusciva a crederci. Attraverso gli occhi velati riuscì a vedere una figura sinuosa, era Holly. «Non è Holly.» Ma chi altro poteva essere? Il cuore gli batté all'impazzata. «Cos'è successo?» lo incalzò Bourne. «Dimmi di te e Holly.» «L'ho incontrata che vagava intorno a Venezia. Si era persa, ma non in senso geografico.» Perlis ascoltò la sua voce debole e rarefatta, come se venisse da un cellulare con poco segnale. Cosa stava facendo? L'interruttore era stato premuto, l'energia volava fuori di lui, proprio come le parole che si era tenuto dentro per anni. «Le ho chiesto se voleva fare un po' di soldi facili, e lei mi rispose: "Perché no?". Non aveva idea delle conseguenze, ma sembrava non le interessasse. Era annoiata, aveva bisogno di qualcosa di nuovo, di diverso. Voleva tornare a sentire il sangue scorrerle dentro.» «E così mi stai dicendo che gli hai dato soltanto quello che voleva?» «Esatto! Quello che davo a tutti.» «Hai dato a Veronica Hart quello che voleva?» «Faceva parte della Black River, apparteneva a me.» «Come fosse una bestia.» Perlis girò la testa dall'altra parte. Fissava l'ombra della ragazza che era in piedi e lo guardava come se volesse giudicare la sua vita. Perché gli importava?, si chiese. Non c'era niente di cui si doveva vergognare. Eppure, non riusciva a distogliere lo sguardo, non poteva liberarsi dell'idea che quella ragazza fosse Holly Marie Moreau e conoscesse tutti i segreti che lui custodiva nel suo cuore. «Come Holly.» «Che cosa?» «Anche Holly apparteneva a te?» «Ha preso i miei soldi.» «Per cosa l'hai pagata?» «Avevo bisogno di avvicinarmi a una persona, e sapevo che non ce l'avrei mai fatta da solo.» «Un uomo» indovinò Bourne. «Un ragazzo.» Perlis annuì. Ora che aveva imboccato quella strada, sentiva il bisogno di proseguire. «Jaime Herrera.» «Aspetta un momento. Il figlio di Don Fernando Herrera?» «L'ho mandata a Londra. Non lavorava ancora nell'azienda di famiglia. Lui frequentava un locale. Il gioco d'azzardo era un vizio che non riusciva proprio a togliersi. Sembrava più grande di quello che era in realtà, e credevano tutti alla sua carta d'identità falsa.» Perlis fece una pausa per riprendere fiato. Mosse leggermente il braccio sinistro sotto il corpo, per cercare di alleviare la sofferenza. «Era una cosa strana. Holly sembrava così innocente, ma in realtà era bravissima. Nel giro di una settimana lei e Jaime stavano insieme, dopo dieci giorni si era trasferita da lui.» «E poi?» Perlis faceva sempre più fatica a respirare. Continuò a fissare non Bourne, ma l'ombra della ragazza, come se fosse l'unica rimasta al mondo. «E reale?» «Dipende da ciò che intendi per reale» rispose Bourne. «Va' avanti. Cosa aveva Jaime Herrera che volevi che Holly rubasse?» Perlis non rispose, ma Bourne lo vide picchiare il pugno destro contro il terreno. «Cosa mi stai nascondendo, Noah?» La mano sinistra di Perlis, che fino a quel momento era stata sotto il suo corpo, venne fuori all'improvviso. La lama a serramanico trapassò i vestiti di Bourne andando a conficcarsi nella carne del fianco. Perlis iniziò a muovere il coltello cercando di farsi strada tra muscoli, tendini e ossa verso un organo vitale. Jason lo colpì con una violenza inaudita alla testa, ma lui spinse la lama ancora più in profondità, con una forza sovrumana. Bourne prese la testa di Noah tra le mani e gli ruppe il collo con un movimento secco e potente. In un attimo le forze gli vennero meno e gli occhi si fecero vacui. Aveva un po' di schiuma agli angoli della bocca, dovuta sia allo sforzo eccessivo, sia alla pazzia che aveva iniziato a infettarlo verso la fine dei suoi giorni. Ansimando, Bourne lasciò andare la testa e si tolse la lama dal fianco. Sanguinava, ma non era grave. Afferrò la mano destra di Perlis dalla polvere. Aprì le dita chiuse a pugno. Pensava che tenesse qualcosa nel palmo della mano, magari quello che Noah aveva ripreso a Holly, ma non c'era niente. Attorno al dito indice, quello che aveva cercato di nascondere più degli altri, c'era un anello. Era impossibile da togliere, così Bourne usò il coltello a serramanico e gli tagliò il dito. Si ritrovò in mano tra le luci dei riflessi di smeraldo e di zaffiro, una fascetta in oro, uguale a milioni di altre fedi nuziali. Poteva essere quella la ragione per cui Noah aveva ucciso Holly? Perché? Cosa poteva valere la vita di una ragazza? Se lo rigirò in mano più e più volte, facendolo rotolare sulle dita. Alla fine vide la scritta incisa all'interno. Correva per tutta la circonferenza. All'inizio pensò che fosse cirillico, poi un'antica lingua sumera, morta e dimenticata da tutti tranne che dai pochi specialisti, ma alla fine capì di non conoscere quei caratteri. Quindi doveva trattarsi di un codice. Tenendo l'anello sollevato in alto, Bourne si accorse dell'ombra che si stava avvicinando. La ragazza si fermò a pochi passi da lui e vide il terrore nei suoi occhi, così si alzò con una smorfia di dolore e si incamminò verso di lei. «Sei stata molto coraggiosa, Kasih» disse alla ragazza balinese che lo aveva aiutato a ritrovare il bossolo del proiettile che lo aveva colpito a Tenganan. «Ti esce molto sangue.» Gli premette una manciata di erbe aromatiche appena raccolte contro il fianco sanguinante. Bourne le prese la mano e si incamminarono insieme verso casa della ragazza, in cima alla risaia terrazzata non molto distante da Tenganan. Con la mano libera teneva le erbe sulla ferita fresca e riusciva a sentire il sangue che si coagulava e il dolore che si attenuava. «Non c'è niente da aver paura» la rassicurò. «Non ho paura, quando ci sei tu.» Kasih si guardò indietro per un'ultima volta. «Il demone è morto?» chiese. «Sì» rispose Bourne, «il demone è morto.» «E non tornerà?» «No, Kasih, non tornerà.» La ragazza sorrise contenta. Bourne sapeva di aver mentito. FINE Finito di stampare nel mese di settembre 2010 presso Grafica Veneta S.P.A.-Via Malcanton, 2-Trebaseleghe (PD) Printed in Italy