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119-120 - Centro Studi Cinematografici
Settembre-Dicembre 2012 119-120 di Kim Ki-duk OLTRE LE COLLINE di Cristian Mungiu Anno X III ( nuova ser e) - Poste Ita ane S. .A.S ed z one n Abbonamento osta e 7 - DCB - Roma PIETÀ DETACHMENT - IL DISTACCO di Tony Kaye LA BICICLETTA VERDE di Haifaa Al Mansour CESARE DEVE MORIRE di Paolo e Vittorio Taviani " " "!" "!! SOMMARIO n. 119-120 Anno XVIII (nuova serie) n. 119-120 settembre-dicembre 2012 Bimestrale di cultura cinematografica Edito dal Centro Studi Cinematografici 00165 ROMA - Via Gregorio VII, 6 tel. (06) 63.82.605 Sito Internet: www.cscinema.org E-mail: [email protected] Aut. Tribunale di Roma n. 271/93 Abbonamento annuale: euro 26,00 (estero $50) Versamenti sul c.c.p. n. 26862003 intestato a Centro Studi Cinematografici Spedizione in abb. post. (comma 20, lettera C, Legge 23 dicembre 96, N. 662 Filiale di Roma) Si collabora solo dietro invito della redazione Direttore Responsabile: Flavio Vergerio Direttore Editoriale: Baldo Vallero Segreteria: Cesare Frioni Redazione: Alessandro Paesano Carlo Tagliabue Giancarlo Zappoli Hanno collaborato a questo numero: Giulia Angelucci Veronica Barteri Elena Bartoni Marianna Dell’Aquila Cristina Giovannini Diego Mondella Fabrizio Moresco Francesca Piano Valerio Sammarco Tiziana Vox Stampa: Tipostampa s.r.l. Via dei Tipografi, n. 6 Sangiustino (PG) Nella seguente filmografia vengono considerati tutti i film usciti a Roma e Milano, ad eccezione delle riedizioni. Le date tra parentesi si riferiscono alle “prime” nelle città considerate. Alì ha gli occhi azzuri ............................................................................ Amore dura tre anni (L’) ........................................................................ Appartamento ad Atene ........................................................................ Bambini di Cold Rock (I) ....................................................................... Belve (Le) .............................................................................................. Biancaneve e il cacciatore .................................................................... Bicicletta verde (La) .............................................................................. Bourne Legacy (The) ............................................................................ Castello nel cielo (Il) .............................................................................. Cavaliere oscuro (Il) – Il ritorno ............................................................. Cavalli ................................................................................................... Cena tra amici ....................................................................................... Cesare deve morire .............................................................................. Chef ...................................................................................................... Cosa aspettarsi quando si aspetta ........................................................ Cosimo e Nicole .................................................................................... Cuore grande delle ragazze (Il) ............................................................. Detachment – Il distacco ....................................................................... Elles ...................................................................................................... Era glaciale 4 (L’) ................................................................................... Estate di Giacomo (L’) ........................................................................... Freerunner – corri uomo corri ............................................................... Giorno speciale (Un) ............................................................................. Grandi Speranze ................................................................................... Hotel Transylvania ................................................................................. Industriale (L’) ........................................................................................ Intervallo (L’) .......................................................................................... Knockout – Resa dei conti .................................................................... Kryptonite nella borsa (La) .................................................................... Lo Hobbit ............................................................................................... Margin Call ............................................................................................ Monsieur Lazhar ................................................................................... Oltre le colline ....................................................................................... On the Road ......................................................................................... ParaNorman ......................................................................................... Prometheus ........................................................................................... Ralph spaccatutto ................................................................................. Reality ................................................................................................... Rum Diary (The) – Cronache di una passione ..................................... Pietà ...................................................................................................... Sapore di ruggine e ossa (Un) .............................................................. Scomparsa di Patò (La) ........................................................................ Sposa promessa (La) ............................................................................ Taken 2 – La vendetta ........................................................................... Ted ........................................................................................................ Travolti dalla cicogna ............................................................................. 21 Jump Street ...................................................................................... Viaggio in Paradiso ............................................................................... Viva l’Italia ............................................................................................. Workers – Pronti a tutto ........................................................................ Tutto Festival – Pesaro Film Festival 2012 ....................................... Tutto Festival – Venezia Film Festival 2012 ...................................... 11 37 44 46 9 7 36 13 4 10 6 22 15 25 17 53 49 34 33 40 35 18 48 55 45 51 50 3 31 53 41 43 8 19 42 32 56 47 39 2 27 4 54 20 14 30 26 21 24 29 58 60 Film Tutti i film della stagione PIETÀ (Pietà) Corea del Sud 2012 Regia: Kim Ki-duk Produzione: Kim Ki-duk Film Production Distribuzione:Good Films Prima: (Roma 14-9-2012; Milano 14-9-2012) V.M.: 14 Soggetto e Sceneggiatura: Kim Ki-duk Direttore della fotografia: Jo Yeong-jik Montaggio: Kim Ki-duk Musiche: Park Yeong-jik Scenografia: Lee Hyun-joo Costumi: Ji Ji-yeon Effetti: Lim Jung-hoon, Digital Studio 21 Interpreti: Lee Jung-jin (Lee Kang-do), Jo Min-soo (Mi-sun), obborghi di Seul, oggi. Kang-do fa il lavoro peggiore per uno strozzino che ha in mano la vita di tutti gli artigiani del posto, tutti in debito con lui: nel senso che va in giro a riscuotere gli enormi interessi sui prestiti accordati e, nel caso non venga pagato, mozza le mani degli insolventi, spezza loro le gambe, li prende a frustate o li getta da un terrapieno. Senza uccidere, naturalmente, perchè dalle storpiature che il giovane procura, il malcapitato insolvente può ottenere un idennizzo assicurativo e quindi fare fronte alla restituzione del debito. Solo uno dei malcapitati, lo si vede nella prima scena del film, trova la forza e il coraggio di uccidersi prima di affrontare Kang-do. A questo poi, tra una “missione” e l’altra capita una cosa stranissima: una donna, mai vista né conosciuta, Min-sun, entra nella sua vita affermando di essere sua S Gang Eun-jin (Myeong-ja, madre di Hun-cheol), Jo Jae-ryong (Tae-seung), Lee Myeong-ja (vecchia donna), Heo Jun-seok (Gang-cheol), Gwon Se-in (chitarrista), Song Mun-su (uomo caduto), Kim Beom-jun (uomo di Myeongdong), Son Jonghak (boss), Jin Yong-ok (uomo sulla sedia a rotelle), Kim Seo-hyeon (vecchia donna), Yu Ha-bok (uomo del container), Seo Jae-gyeong (bambino), Kim Jae-rok (monaco), Lee Won-jang (Sang-gu), Kim Sun-mo (vicino di Jongdo), Gang Seung-hyeon (negoziante dei dintorni), Hwang Sunhui (vecchia donna) Durata: 104’ Metri:2850 madre, di averlo abbandonato da piccolo e di volere ora occuparsi di lui per placare il senso di colpa e il vuoto dei lunghi anni trascorsi. Kang-do inizialmente non si fida e poi finisce per crederle dopo averla sottoposta a sevizie e orrori di ogni genere che lo convincono della verità. A tal punto si convince che la sua vita cambia davvero; la sua arida anaffettività ha di colpo bisogno di questa donna venuta dal nulla e a cui morbosamente si attacca. Al culmine però del forte legame instauratosi tra i due (che non esclude nemmeno il sesso), lei ha un comportamento poco chiaro, a cominciare da un certo maglione lavorato a maglia e non destinato a Kang-do, per proseguire con continue sparizioni che esasperano il giovane usuraio. La verità viene presto a galla: la donna non solo è la madre di Kang-do ma an- 2 che dello sfortunato suicida visto all’inizio, il cui cadavere, a cui è destinato il famoso maglione, è da lei seppellito vicino al fiume. Lo scopo di Min-sun era quello infatti di fare capire a Kang-do il significato e la forza di appartenere a una famiglia e poi di distruggerla per fare provare al giovane la stessa sofferenza da lui inflitta a tante famiglie del quartiere. Il destino non ha pietà per nessuno: lei si uccide gettandosi dallo stesso stabile da cui Kang-do buttava giù i suoi perseguitati ed è da lui seppellita vicino al figlio suicida. È lo stesso Kang-do a trovare come morire: si incatena sotto il camioncino di uno dei suoi debitori e si fa trascinare per tutto il lungo percorso che lui compie al mattino. on il Leone D’oro di Venezia 2012 la giuria ha voluto premiare il regista Kim Ki-duk che da sempre cerca di lottare e farsi strada in un Paese come la Corea del Sud dove l’unica cosa che conta è il denaro, il progresso tecnologico dell’oggettistica computerizzata e delle automobili per fare ancora denaro. E lo fa con i mezzi di un cineasta (cineasta di quel mondo), cioè con la costruzione di immagini: forti, furiose, spietate, disperate, tendenti all’assoluto. Intanto l’ambientazione che fa del sobborgo di Seul un vero protagonista: un quartiere povero, ultimo esempio e retaggio di quell’artigianato che ha dato la spinta all’esplosione commerciale asiatica, circondato e sempre più divorato dai grattacieli che gli stanno intorno minacciosi e incombenti, come astronavi aliene pronte a fare piazza pulita. La povertà del quartiere insiste e trova linfa in un affastellamento territoriale di baracche, casupole, C Film cunicoli, antri, cantine e gallerie immerse per lo più nell’oscurità e sguazzanti nella sporcizia alimentata da interiora di animali vari e da un’uguale varietà di deiezioni e multiformi spazzature. In questo alveo di degrado e di abiezione può nascere e svilupparsi qualcosa che non sia rabbia, violenza e sopraffazione? È logico quindi (nell’ottica dell’autore coreano) che il comportamento crudele del giovane usuraio sia così brutale e senza esitazioni da tendere davvero verso l’assoluto; così la sua anaffettività che gli permette di condurre compostamente le sue azioni; ugualmente l’amore materno va oltre l’indicibile nella capacità della donna di subire violenze di ogni genere per poi con tranquillità preparare la colazione. Così Tutti i film della stagione la vendetta da lei stessa predisposta e meticolosamente realizzata ha dell’indicibile nella sua efferatezza. Tutto però è accettabile nell’ottica di un autore che, nel riconoscere la disumanità di un sistema di vita, non può fare altro che disumanamente rappresentarlo e, nello stesso tempo, altrettanto disumanamente confidare di modificarlo, sradicarlo, abbatterlo. Noi, a questo punto, potremmo anche fermarci perchè non siamo andati a studiare un violento pamphlet rivoluzionario ma a vedere un film e, pur riconoscendone la nobilità d’intenti, dobbiamo considerare le immagini e quello che ci danno (senza voler usare la parola altisonante di “significato”): queste, nel volerci raccontare espressionisticamente come il potere del denaro non lasci scampo e possa solo tradursi in violenza, dolore e mancanza d’amore si affastellano fredde e meccaniche, sgradevoli, ripetitive nella loro peculiare spietatezza e non lasciano liberare quel sentimento e quella pietà su cui tutto dovrebbe essere basato, non solo il titolo. Probabilmente la strada verso la pietà e il bisogno d’amore è diversamente espresso da un autore asiatico (e già Kim Ki-duk ci aveva ampiamente dimostrato nei suoi lavori precedenti come l’opzione violenza sgradevole costituisse il selciato per lastricare il sentiero verso la verità) e non può seguire lo stesso percorso tracciato per una sensibilità occidentale. Fabrizio Moresco KNOCKOUT – RESA DEI CONTI (Haywire) Stati Uniti 2011 Regia: Steven Soderbergh Produzione: Relativity Media Distribuzione:Moviemax Prima: (Roma24-2-2012; Milano 24-2-2012) Soggetto e Sceneggiatura:Lem Dobbs Direttore della fotografia: Steven Soderbergh Montaggio: Steven Soderbergh Musiche: David Holmes Scenografia: Howard Cummings Costumi: Shoshana Rubin Effetti: Lola Visual Effects, Team FX Ltd. enneth ha una società di “pronto intervento” che si occupa di operazioni al di fuori del consentito; fornisce a chi lo paga meglio intere squadre di agenti particolarmente addestrati e in grado di usare qualsiasi tipo di arma e di strategia finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo che può essere la preparazione di un attentato, un’azione terroristica etc. La stella dell’organizzazione è Mallory Kane, ragazza espertissima e praticamente infallibile. Proprio per questo Coblenz, rappresentante dei servizi segreti americani, nell’appaltare una missione a Kenneth, pretende la presenza proprio di Mallory, a garanzia del buon fine dell’operazione. Si tratta di liberare da un gruppo terrorista che lo ha rapito il cinese Jiang a cui sono interessati sia l’agente inglese Paul, sia la spia irlandese Studer. L’operazione sembrerebbe all’inizio andare a buon fine ma qualcosa si inceppa nei rapporti tra i committenti, i simpatizzanti, gli esecutori e le spie: il cinese è presto trovato cadavere e tra Barcellona, Dublino e il Canadà si cambia caccia e preda: l’obiettivo da eli- K Interpreti: Gina Carano (Mallory Kane), Michael Douglas (Coblenz), Channing Tatum (Aaron), Ewan McGregor (Kenneth), Michael Fassbender (Paul), Antonio Banderas (Rodrigo), Michael Angarano (Scott), Bill Paxton (John Kane), Mathieu Kassovitz (Studer), Anthony Wong (Jiang), Eddie J. Fernandez (Barroso), Tim Connolly (Jason), Maximino Arciniega (Gomez), David Aaron Cohen (Jamie), Julian Alcaraz (Terrence), Natascha Berg (Liliana) Durata: 93’ Metri:2550 minare ora è proprio Mallory, testimone scomoda di un’operazione nata in un modo e finita in un altro e che si dimostra, a questo punto, scomoda per tutti. Inutilmente Coblenz tenta di attrarre Mallory nell’ufficialità dei servizi americani per fornirle copertura: la ragazza avrà pace solo quando si sarà liberata di quelli che la vogliono morta, a cominciare proprio da Kenneth per finire a Rodrigo. La sua vendetta è infatti esemplare e spietata per tutti. teven Soderbergh ha voluto mettere mano all’action-thriller puro secondo la sua ottica personale, dopo essersi cimentato nei territori più vari, dai tre Ocean’s a Intrigo a Berlino a Erin Brockovich, tanto per accennare alla diversità dei suoi interessi di cineasta. Qui Soderberg ha mostrato subito di avere assimilato la lezione dei grandi maestri del passato come Hawks e Hitchcock fino alle moderne invenzioni delle varie Mission Impossible per codificare le linee portanti del suo lavoro: la storia è un pretesto e non è determinante come conseguenza logica; poco S 3 importa, addirittura, se risulta incomprensibile in più punti; purchè però sia forte e ben tenuto il telaio narrativo, privo di sbavature; uno spolverio di star che sappiano essere al punto giusto in modo giusto; la presenza dirompente di una novità, qui rappresentata dalla bella Gina Carano che spara e tira pugni meglio di un marine. Le inquadrature, le riprese sono perfette, a cominciare dal lungo inseguimento a Dublino, sui tetti e per strada, così i duelli in armi e a mani nude, curati e verosimili come non è sempre facile vedere sullo schermo. Il tutto, e qui ritroviamo Soderberg, sviato e confuso in un’atmosfera che sbiadisce i confini morali e sfrangia le fisionomie dei personaggi: non si sa se e quando l’amico possa trasformarsi in nemico, né se un’azione cominciata in un modo possa proseguire lungo la via tracciata o cambi inaspettatamente morfologia perché gli esseri umani sono contemporaneamente fautori e vittime di un destino mutevole e inafferrabile. Fabrizio Moresco Film Tutti i film della stagione LA SCOMPARSA DI PATÒ Italia, 2010 Interpreti: Nino Frassica (Paolo Giummaro, Maresciallo dei Reali Carabinieri), Neri Marcorè (Antonio Patò), Maurizio Casagrande (Ernesto Bellavia), Alessandra Mortelliti (Signora Patò), Flavio Bucci (Arturo Bosisio), Roberto Herlitzka (Don Carmelo, becchino), Simona Marchini (Principessa Imelda Sanjust), Alessia Cardella (Rachele Infantino), Manlio Dovì (Calogero Pirrello), Franco Costanzo ( Ragioniere Cardillo), Pippo Crapanzano (Artidoro Pecoraro), Gilberto Idonea (Liborio Bonafede), Danilo Formaggia (Marchese Cantante), Guia Jelo (Prostituta), Giacinto Ferro (Prefetto Tirirò), Giovanni Calcagno (Ciarramiddaro), Alessandro Scaretti (Giovanni Abbate), Francesco Capizzi (Mastrodascia Vapano), Alessandro Idonea (Miccichè) Durata: 98’ Metri: 2700 Regia: Rocco Mortelliti Produzione: 13 Dicembre in associazione con S.TI.C. Cinematografica, Emme Cinematografica in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione:Emme Cinematografica Prima: (Roma24-2-2012; Milano 24-2-2012) Soggetto: dal romanzo omonino di Andrea Camilleri Sceneggiatura:Rocco Mortelliti, Maurizio Nichetti, Andrea Camilleri Direttore della fotografia: Tommaso Borgstrom Montaggio: Marzia Mete Musiche: Paola Ghico Scenografia: Biagio Fersini Costumi: Paola Marchesin il 21 marzo del 1890. A Vigata, come da tradizione, viene messo in scena il Mortorio tratto dalla Passione di Cristo del Cavalier D’Orioles. Nel ruolo di Giuda c’è il signor Antonio Patò, un bravo uomo e semplice impiegato di banca, che però sparisce misteriosamente mentre inscena l’impiccagione del traditore. Egli infatti cade nella botola e da allora non se ne saprà più nulla. La moglie di Patò, Mangiafico Elisabetta in Patò, si rivolge immediatamente al delegato della Pubblica Sicurezza Ernesto Bellavia che incomincia le sue indagini ostacolato dal maresciallo dei Carabinieri Paolo Giummaro. In realtà, piano piano, le ostilità e le rivalità tra i due investigatori incominciano a trasformarsi in collaborazione. Presto Bellavia e Giummaro incominciano a scoprire delle scomode verità che molti vorrebbero nascondere. Sono tanti i dubbi da fugare. Dopo due giorni dalla scomparsa, esattamente il 23 marzo, sui muri di Vigata compare un volantino che porta scritto “Murì Patò o s’ammucciò (si nascose)”. Si tratta di un chiaro segnale del fatto che tutti sanno che Patò è scomparso, ma bisogna capire il parché. Patò è scomparso a causa di beghe e irregolarità con la banca per cui lavorava? Oppure si tratta di un complotto mafioso? Patò ha perso la memoria a causa della caduta nella botola? Intanto gareggiano anche i due giornali principali della zona: il giornale governativo L’Araldo di Montelusa e quello dell’opposizione Gazzetta dell’Isola, entrambi impegnati più che nella ricerca della verità, in una continua e reciproca accusa di voler nascondere la verità sulla scomparsa dell’impiegato di banca per fini politici. Ad aggiungere altra confusione alle già intricate indagini, anche due sudditi di Sua Maestà Britannica: l’ astronomo di corte Alistair ‘O Rodd sicuro che Patò sia vittima di una frattura nella dimensione spa- È zio-temporale e l’archeologo di Corte Michael Christopher Enscher che attribuisce il fatto alla Scala di Penrose. opo le numerose avventure del commissario Montalbano in entrambe le versioni, quella da adulto e quella da ragazzo, trasmesse dalla televisione, l’opera di Andrea Camilleri arriva anche al cinema con l’omonima pellicola, La scomparsa di Patò, firmata da Rocco Mortelliti. Non nuovo a questo tipo di adattamento (già nel 1999 aveva lavorato su La strategia della maschera sempre di Camilleri), il regista si avvale del supporto alla sceneggiatura di Maurizio Nichetti, di cui emerge il contributo soprattutto nella messa in atto di alcuni particolari e originali accenti sui personaggi minori. Tutto l’impianto filmico è costruito attraverso il susseguirsi delle indagini, degli interrogatori e di alcuni flashback da cui si innalza l’intera struttura narrativa. È da questa che prendono corpo infatti, in successione uno alla volta, tutti i personaggi principali e secondari, ognuno a contribuire allo D svolgersi della vicenda, con la propria presenza, anche se piccola. Vigata è un paese inventato, così come i suoi personaggi e i fatti che ne animano l’esistenza, eppure Mortelliti, esattamente come la penna di Camilleri, riesce a dare un quadro preciso e dettagliato della Sicilia al tempo poco dopo successivo alla proclamazione dell’Unità d’Italia e lo fa soprattutto attraverso la precisa ricostruzione linguistica e comportamentale del popolo. Impossibile non pensare alla televisione quando si assiste allo scorrere del film, soprattutto nel tentativo di “nazionalizzare” e attualizzare la storia attraverso un utilizzo più morbido del dialetto e della caratterizzazione dei personaggi. Il film sicuramente fa ridere e sorridere in molti momenti, ma spesso il riso risulta con un gusto un po’ amaro perché ci fa capire che quello per cui si sta ridendo, anche se collocato a più di un secolo fa e un una terra “distaccata” dal resto del Paese, in fondo è quello che accade ancora oggi. Marianna Dell’Aquila IL CASTELLO NEL CIELO (Tenkû no shiro Rapyuta) Giappone 1986 Regia: Hayao Miyazaki Produzione: Studio Ghibli, Tokuma Shoten Distribuzione: Lucky Red Prima: (Roma 25-4-2012; Milano 25-4-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Direttore della fotografia: Hirokata Takahashi Montaggio: Takeshi Seyama, Yoshihiro Kasahara, Hayao Miyazaki Musiche: Joe Hisaishi Scenografia: Toshio Nozaki, Nizou Yamamoto Effetti: Gou Abe Durata: 124’ Metri: 3400 4 Film a giovane Sheeta è tenuta prigioniera dal colonnello Muska a bordo di un’aeronave. Durante il volo la nave viene attaccata da una banda di pirati guidati da Dola, una donna energica che tiene sotto il suo pugno di ferro i suoi tre figli e l’intera ciurma. Dola vuole impossessarsi del ciondolo che la bambina porta al collo e che ha un valore inestimabile: permette di vincere la forza di gravità e localizzare la leggendaria isola fluttuante di Laputa dove si narra che siano nascosti grandi tesori e un potere inimmaginabile. Sheeta riesce a fuggire e, fluttuando nel cielo, precipita tra le braccia del giovane minatore Pazu che decide di proteggerla e di aiutarla nella ricerca dell’isola. Il ragazzo ricorda di aver sentito parlare dell’isola di Laputa dal padre ormai defunto che, durante un volo esplorativo, riuscì a scattare una foto dell’isola ma, nonostante la prova, nessuno aveva creduto ai suoi racconti facendolo passare per millantatore. Ma Sheeta è in pericolo: sia l’esercito sia i pirati sono sulle sue tracce. I due ragazzi riescono miracolosamente a scappare e in loro cresce la consapevolezza di dover cercare la misteriosa Laputa lassù tra le nuvole. In quella pietra che la ragazzina porta al collo è racchiuso un grande potere: essa può rendere felici ma può anche portare disgrazie. La pietra protegge dal male solo il suo proprietario. Sheeta ricorda le parole per invocarne il potere: dopo averle pronunciate, l’amuleto emana una luce sacrale e la strada per Laputa viene illuminata attraverso una linea nel cielo. Intanto il colonnello Muska assume il comando di una squadra incaricata di riprendere Sheeta. La ragazzina, colpita, perde il suo amuleto e viene catturata. Dola con la sua nave pirata si lancia all’inseguimento, Pazu salva Sheeta. I due ragazzini salgono sulla nave comandata da Dola che mette Sheeta a occuparsi della cucina. I figli di Dola subiscono il fascino della fanciulla e si fanno in quattro per aiutarla. Sheeta confessa a Pazu di conoscere diversi incantesimi e di aver paura di uno in particolare. L’astronave Goliath è sulle loro tracce e di notte Pazu la vede proprio sotto di loro. Dola manda Sheeta e Pazu in orbita su una capsula-aquilone ma arriva una burrasca. Ma Laputa è lì vicino. Sheeta e Pazu finalmente trovano il castello fluttuante di Laputa. Qualcosa di meraviglioso si dipana davanti ai loro occhi: un mondo popolato da creature fantastiche. Ma il commando dell’esercito cattura la nave dei pirati. Sheeta è fermamente convinta di dover recuperare l’aeropietra ma il colonnello Muska e i suoi uomini la fanno prigioniera. Nel frattem- Tutti i film della stagione L po Pazu riesce a liberare Dola e i suoi figli. Muska conduce Sheeta al centro del pianeta di Laputa, dove è localizzato il cuore della scienza: solo un membro appartenente alla stirpe reale può accedervi. Sul posto campeggia una gigantesca pietra fonte di potere per Laputa che per 700 anni ha atteso il ritorno del re. Muska pensa di essere il re, poi mostra alla ragazzina la folgore di Laputa, necessaria a far avere il potere assoluto al pianeta. Sheeta riesce a prendere la pietra e a scappare, poi consegna l’amuleto a Pazu, ma Muska cattura di nuovo la ragazzina. Sheeta gli dice che loro due moriranno lì: vivere distaccati dal suolo non è possibile. Muska la minaccia. Sopraggiunge Pazu che dichiara di aver gettato via la pietra. Il ragazzino si apparta con Sheeta e confessa di avere lui la pietra, vuole che la fanciulla le dica la parola per attivarla. I due ragazzi pronunciano insieme la parola e Laputa inizia a distruggersi, ma Pazu e Sheeta si salvano perché restano aggrappati a delle enormi radici. Ripreso il loro aquilone, volano via e raggiungono la nave dei pirati. Ora Sheeta e Pazu sono davvero liberi. na fantasticheria animata più per adulti che per bambini. Un sogno pieno di ideali: ecologismo, antimilitarismo, avversione per la brama di potere dell’uomo, fiducia nel valore assoluto dell’amicizia e dell’amore. Il castello nel cielo appare come la quintessenza del credo dell’artista nipponico Hayao Miyazaki: la natura umana marcia e malata di avidità è irrimediabilmente corrotta. La follia e il delirio di onnipotenza del cattivo colonnello Muska è l’immagine di un mondo che sfrutta le meraviglie della natura e le competenze scientifiche raggiunte da U 5 una civiltà superiore (quella di Laputa) per arrivare al male assoluto, accecato da una incontrollabile sete di potere. Un continente perduto, come la mitica Atlantide, ma fluttuante nel cielo, è il luogo perfetto per rappresentare questa parabola della superbia del genere umano. Laputa è infatti qualcosa di eccezionale, insieme Eden in apparenza irraggiungibile ma anche soglia dell’inferno, con una doppia natura in cui convivono bene e male, vita e morte, meraviglia e terrore. Il film risale al 1986, prima opera realizzata dal neonato Studio Ghibli fondato da Miyazaki insieme al collega Isao Takahata che divenne un vero punto di riferimento per la cultura dei cartoni animati nipponici e uno dei più importanti centri creativi del mondo. Il castello nel cielo è un film che vale la pena di recuperare per il suo grande valore poetico unito a importanti e urgenti temi d’attualità come il rispetto per la natura contro l’opera di distruzione che gli uomini compiono del loro ambiente, tema ricorrente fin dai tempi dei primi lavori di Miyazaki come il film televisivo Conan il ragazzo del futuro del 1978. Il film celebra il matrimonio perfetto tra la tecnologia e la fantasia più sfrenata. Un sogno di libertà e di immaginazione che percorre le strade più ardite e diventa sullo schermo un trionfo di stupefacenti scene d’azione: corse a perdifiato, inseguimenti sulla terra e, soprattutto, in cielo. Con evidenti richiami a Jonathan Swift (“I Viaggi di Gulliver” in cui Laputa era una città del cielo dove approda Gulliver) e a Robert Louis Stevenson (“L’Isola del tesoro”), il film di Miyazaki compie il miracolo, tra terra e cielo letteralmente. Come in suoi film precedenti a questo, Nausicaä della valle del vento (1984), e come ancora di più con successivi capolavori come La cit- Film tà incantata (2003, premio Oscar), Il castello errante di Howl (2004) Ponyo sulla scogliera (2008), Il castello nel cielo è pura magia. L’invenzione dell’isola fluttuante di Laputa è un vero colpo di genio. Il suo essere ricettacolo di potere che nelle mani sbagliate può diventare distruttivo e dove sono racchiusi inestimabili tesori, è l’ingrediente fondamentale che fa della pellicola un piccolo gioiello. I personaggi protagonisti della straordinaria avventura sono ideati con grande cura per le sfumature caratteriali: Sheeta la piccola protagonista (che ha evidenti richiami con Lana della serie Tv Conan – Il ragazzo del futuro, vero cult del regista nipponico) ha origini e poteri straordinari, fragile in apparenza ma forte e combattiva, Pazu, giovane orfano che lavora in miniera coraggioso e generoso (erede di Conan per intraprendenza e testardaggine), Muska, il colonnello erede di altri villain dell’universo miyazakiano. Ma la palma della migliore invenzione va a Dola, intrepida vedova corpulenta e con due treccione rosse che guida (e con quale Tutti i film della stagione piglio!) la ciurma di pirati del cielo (tre dei quali sono suoi figli “bamboccioni”) ossessionata dai tesori di Laputa e dal magico ciondolo della piccola Sheeta. E che dire poi di quei robot giardinieri dell’isola fluttuante? Il volo è il vero tema chiave del film. Appassionato di velivoli fin da bambino Miyazaki ha costellato le sue opere della sua passione e disegnato lui stesso modellini di macchine volanti. Per raggiungere Laputa, ovvio, bisogna volare e il regista usa i più fantasmagorici mezzi: navi, navicelle, dirigibili (come quello usato dai pirati e dalla loro “mammina”), piccoli velivoli a due posti che sbattono le ali come insetti (usati dai pirati nelle scene d’azione) e infine vere corazzate volanti (come quella usata dalle forze governative capitanate da Muska). Cielo, ma anche tanta terra. A cominciare dalla città di minatori dove “plana” dolcemente la fanciulla protagonista a inizio film. Ed ecco treni a scartamento ridotto utilizzati dai minatori, maestose linee ferroviarie sospese, le terraced houses che ospitavano le comunità di minatori. Un mondo immaginario e sospeso tra il XIX e il XX secolo ma ispirato a un vero villaggio del Galles. Il giovane minatore Pazu è figlio di questo mondo “terreno”, anzi sotterraneo, pronto a spiccare il volo dopo l’incontro con una fanciulla magicamente “piovuta” dal cielo. Una duplice spinta, centrifuga e centripeta, dove realtà e fantasia, terra e cielo, spiritualità e tecnologia si inseguono in una favola dove l’immaginazione creativa del regista fa da pendant alle abilità tecniche dello Studio Ghibli. Illuminante una dichiarazione contenuta nelle note di regia di Miyazaki “Il castello nel cielo sarà un’opera utopica e si annoderà alle origini stesse del cinema di animazione, che tutto è tranne un divertimento minore. Sostanzialmente perché i grandi film per bambini piacciono a tutti”. Un’opera intensa e poetica che solo il miglior cinema d’animazione “adulto” può regalare. E senza il bisogno di ricorrere all’abusata tecnologia fabbrica-soldi del 3D. Elena Bartoni CAVALLI Italia, 2011 Regia: Michele Rho Produzione: Prodotto da Gianluca Arcopinto, Marco Ledda, Emanuele Nespeca per Settembrini Film in collaborazione con Rai Cinema Prima: (Roma 21-10-2011; Milano 21-10-2011) Soggetto: Dal racconto di Pietro Grossi Sceneggiatura: Francesco Ghiaccio, Michele Rho Direttore della fotografia: Andrea Locatelli Montaggio: Luca Benedetti Musiche: Nicola Tescari talia. Fine Ottocento. Alessandro e Pietro sono due fratelli che vivono in campagna sugli Appennini. Nonostante le diversità caratteriali, i due ragazzi condividono un forte affetto e la passione per giochi spericolati. Alla morte della madre, il padre, distrutto dal dolore, affida ai figli due cavalli da domare, Sauro e Baio, quindi li abbandona a loro stessi. A prendersi cura dei due ragazzi, sarà il vicino, Pancia, maniscalco che li tratta come figli e insegna loro a trattare i cavalli. Con il passare del tempo, emerge sempre più chiaramente l’attitudine ribelle e impulsiva del maggiore (Alessandro), quella invece più mite e razionale del minore (Pietro). I Scenografia: Paki Meduri Costumi: Francesca Tessari, Susanna Mastroianni Interpreti: Vinicio Marchioni (Alessandro), Michele Alhaique (Pietro), Giulia Michelini (Veronica), Duccio Camerini (Pancia), Luigi Fedele (Alessandro bambino), Francesco Fedele (Pietro bambino), Cesare Apolito (Padre), Fausto Maria Sciarappa (Farmacista), Marco Iermanò (Antonio), Pippo Delbono (Dario), Andrea Occhipinti (Inglese), Antonella Attili (Amanda), Asia Argento (Madre) Durata: 93’ Metri: 2560 Ormai adulti, Alessandro e Pietro seguono ciascuno la propria indole, prendendo strade diverse: il primo attratto irrinunciabilmente dalla vita in città e dalla voglia di nuovo e modernità, il secondo convinto di voler restare dove è cresciuto, mettere radici e formare una famiglia sposando l’amata Veronica, figlia del farmacista del paese. Prima di poter realizzare i loro desideri, però, i due incontreranno prepotenza, violenza e dolore, fino a una resa dei conti finale che l’affetto reciproco consentirà loro di superare. l superamento della frontiera, la voglia di andare altrove, di modernità a tutti i costi, da un lato, e dall’altro l’attaccamento alla terra e ai luoghi in cui I 6 si è cresciuti, l’aspirazione alla solidità di una vita tranquilla. Ecco le contrapposizioni fondamentali tra cui si muove Cavalli di Michele Rho, al suo esordio con un film ambizioso, collocato in una splendida cornice ambientale, la campagna tra Gran Sasso e Toscana, che la regia sa promuovere a coprotagonista della storia. Con elementi tipici del western, dalla wilderness che avvince Alessandro al duello conclusivo, Cavalli racconta la storia semplice di due fratelli, nati e cresciuti nello stesso luogo e con le stesse difficoltà, ma che scelgono percorsi esistenziali diversi per le differenze di carattere. Eppure, la matrice comune, la pragmaticità della vita sperimentata insieme fin da piccoli, si rivelerà per entrambi decisiva. Film Il ricorso agli animali, nello specifico ai “cavalli” del titolo, è un po’ semplicistico ma in definitiva funzionale a rendere simbolicamente sullo schermo la distanza fra i due fratelli nel rapporto di ciascuno con le proprie radici (l’uno fa di tutto per salvare il proprio cavallo, l’altro ne determinerà l’uccisione). Tutti i film della stagione Pregio della pellicola sono senz’altro la cura della fotografia e delle inquadrature, a costruire una cornice forte, il contesto credibile in cui la storia si snoda. Viceversa, non del tutto impeccabili i dialoghi, che finiscono con il togliere intensità a un racconto altrimenti capace di procedere per immagini nette e caratteri definiti (come nei migliori western, appunto). Ottimi gli interpreti, da Michele Alhaique (capace di rendere accattivante un personaggio da copione un po’ piatto) a Duccio Camerini (nel ruolo del rude Pancia), a Pippo Delbono (a dare corpo al “cattivo”). Tiziana Vox BIANCANEVE E IL CACCIATORE (Snow White and the Huntsman) Stati Uniti, 2012 Regia: Rupert Sanders Produzione: Roth Film, Universal Pictures Distribuzione: Universal Pictures International Italy Prima: (Roma 11-7-2012; Milano 11-7-2012) Soggetto: Evan Daugherty Sceneggiatura: Evan Daugherty, John Lee Hancock, Hossein Amini Direttore della fotografia: Greig Fraser Montaggio: Conrad Buff, Neil Smith Musiche: James Newton Howard Scenografia: Dominic Watkins Costumi: Colleen Atwood Effetti: Cedric Nicolas-Troyan, Philip Brennan, Neil Corbould, Michael Dawson, Pixomondo, Mark Roberts Motion Control, Double Negative, Rhythm & Hues, BlueBolt, Baseblack Interpreti: Kristen Stewart (Biancaneve), Chris Hemsworth e Magnus, vedovo con una figlia di nome Biancaneve, durante una battaglia si innamora di una bella prigioniera, Ravenna e, in breve tempo, la sposa. Durante la prima notte di nozze, però, la donna lo uccide e dopo aver rinchiuso Biancaneve in una torre, prende il comando del regno. Ravenna, in realtà, è un’esperta di arti oscure e, grazie ad un potente incantesimo con cui ruba la vitalità alle fanciulle, riesce a rimanere giovane e invulnerabile per sempre. Passano gli anni e la Regina interrogando il suo specchio magico scopre che la figliastra la supererà in bellezza e sarà in grado di distruggerla a meno che non venga repentinamente uccisa. Ravenna non ci pensa due volte e ordina al fratello Finn di portarle la ragazza. Biancaneve, sfruttando una distrazione dell’uomo, riesce a scappare arrivando nella foresta Oscura. La Regina, consapevole di non avere potere in quel luogo, promette a Eric, un cacciatore vedovo, di riportare in vita sua moglie in cambio di Biancaneve. L’uomo, in breve tempo, trova la ragazza, ma scopre di esser stato ingannato da Ravenna, incapace di riportare in vita i R (Cacciatore), Charlize Theron (Ravenna), Sam Claflin (Principe William), Sam Spruell (Finn), Ian McShane (Beith), Bob Hoskins (Muir), Ray Winstone (Gort), Nick Frost (Nion), Eddie Marsan (Duir), Toby Jones (Coll), Johnny Harris (Quert), Brian Gleeson (Gus),Vincent Regan (Duca Hammond), Noah Huntley (Re Magnus), Liberty Ross (Regina Eleanor), Christopher Obi (Specchio), Lily Cole (Greta), Rachael Stirling (Anna), Hattie Gotobed (Lily), Raffey Cassidy (Biancaneve bambina), Xavier Atkins (William bambino), Izzy Meikle-Small (Ravenna ragazza), Anastasia Hille (Madre di Ravenna), Elliot Reeve (Finn bambino), Dave Legeno (Broch), Mark Wingett (Thomas), Matt Berry (Percy), Jamie Blackley (Iain), Joey Ansah (Aldan) Durata: 127’ Metri: 3500 morti; per questo decide di accompagnare la giovane principessa nel castello di Duke Hammond dove può ottenere protezione. Durante il tragitto, un gruppo di nani si unisce a loro, ma le guardie della Regina non demordono e sferrano un attacco brutale. Fra loro c’è anche William, figlio di Hammond, che riconosciuta la principessa, passa dalla sua parte. Durante la battaglia Eric uccide Finn scatenando le ire di Ravenna che decide di prendere in mano la situazione. La perfida regina, grazie ad un incantesimo, si trasforma in William e con l’inganno fa mangiare a Biancaneve una mela avvelenata che la uccide. Il vero William in lacrime prova a darle un bacio per spezzare l’incantesimo, ma non succede nulla; quindi, insieme ai compagni di viaggio, porta il corpo della ragazza nel castello di Hammond. Qui Eric, lontano dagli occhi di tutti, porge il suo ultimo saluto alla principessa con un bacio e va via. Biancaneve in pochi secondi si sveglia e più combattiva che mai corre nel salone dove sono riuniti i suoi amici e propone di formare un esercito per attaccare il regno di Ravenna. Tutti rispondono all’appello e velocemente si dirigono verso il castello della regina. La battaglia ha inizio. Ravenna e il suo 7 esercito incantato sembrano avere la meglio, ma proprio quando la donna sta per sferrare l’attacco finale viene pugnalata al cuore da Biancaneve e muore lentamente. La principessa sale al trono e riporta il suo regno all’antico splendore. a nuova moda di Hollywood? Darsi battaglia a colpi di mele avvelenate. A poche settimane dall’uscita di Biancaneve di Tarsem Singh, infatti, ecco comparire nelle sale una nuova versione della celebre fiaba tedesca, Biancaneve e il Cacciatore, firmata Rupert Sanders. Nonostante l’infelice tempismo, le due pellicole hanno ben poco in comune: ironica a colorata la prima e decisamente più cupa e introspettiva la seconda. Sanders per raccontare la sua storia sceglie il fantasy, genere ormai ampiamente sdoganato da Peter Jackson, e un approccio psicoanalitico ai personaggi che permette di andare oltre un’estetica codificata. Meraviglioso il ritratto di Ravenna, la regina dal corpo di Charlize Theron, una donna ferita che trasforma il dolore in rabbia, un’ anima votata alla vendetta che si esprime nelle forme più estreme di catti- L Film veria. In lei non c’è invidia, ma un macabro senso di conservazione. Biancaneve, interpretata da Kristen Stewart deve morire, non a causa della sua bellezza, ma perché costituisce una minaccia per la vita stessa della regina. Sanders, dunque, elimina completamente il “gioco femminile” fra le due protagoniste trasferendo la lotta su un piano istintuale, quasi ferino. Biancaneve dopo essersi risvegliata dal sonno mortale o, volendo svelare la metafora, dopo aver compiuto il passaggio nell’età adulta cambia il suo approccio con l’altro, diventa una guerriera pronta ad affondare la lama e disposta a soffocare, Tutti i film della stagione per un bene superiore, ogni romanticismo adolescenziale. A differenza del racconto originale la figura del principe è completamente marginale e poco influente ai fini narrativi. È il cacciatore, burbero e problematico, il vero protagonista maschile a cui, però, non viene concesso il finale tanto agognato. Biancaneve, infatti, sceglie di sedere sola sul trono, appropriandosi di una identità faticosamente ricercata per tutta la pellicola. Una scelta che di primo acchito potrebbe risultare originale, ma che in definitiva si iscrive perfettamente nella nuova tendenza hollywoodiana di concedere “spes- sore” alle eroine classiche della fiaba. In definitiva Sanders, pur con qualche trovata apprezzabile, non si discosta molto dalle mode del momento cercando di compiacere un pubblico ghiotto di fantasy. La conferma è l’aver dato a Kristen Stewart, meglio conosciuta come Bella di Twilight, il ruolo di protagonista nonostante le sue dubbie abilità attoriali. In questi casi si è soliti ammorbidire la critica enfatizzando le doti estetiche dell’attrice, ma in un film con Charlize Theron come co-protagonista, è difficile anche solo pensarlo. Francesca Piano OLTRE LE COLLINE (Dupa dealuri) Romania, Francia, Belgio 2012 Regia: Cristian Mungiu Produzione: Cristian Mungiu, Pascal Caucheteux, Gregoire Sorlat, Vincent Maraval, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Bobby Paunescu, Jean Labadie per Mobra Films in coproduzione con Why Not Productions, Les Films du Fleuve, France 3 Cinéma, Mandragora Movies Distribuzione: Bim Prima: (Roma 31-10-2012; Milano 31-10-2012) Soggetto: dal romanzo omonimo di Tatiana Niculescu Bran Sceneggiatura: Cristian Mungiu Direttore della fotografia: Oleg Mutu Montaggio: Mircea Olteanu Scenografia: Calin Papura, Mihaela Poenaru Costumi: Dana Paparuz Interpreti: Cosmina Stratan (Voichita), Cristina Flutur (Alina), Valeriu Andriuta (Prete), Dana Tapalaga (Madre superiora), Catalina Harabagiu (Suor Antonia), Gina Tandura (Suor Iustina),Vica Agache (Suor Elisabeta), Nora Covali (Suor Paho- iamo nella Romania del dopo Ceausescu, in una città non meglio identificata e in un monastero al confine con le colline moldave. Alina e Voichita, due grandi amiche provenienti entrambi dall’orfanotrofio locale sono unite da un legame che in passato è stato sicuramente molto di più e che non è sbagliato chiamare amore. Alina ha voluto però tentare la carta dell’emigrazione per uscire da tanta miseria e così è andata a lavorare per un periodo in Germania; ora è tornata con le idee più chiare, pensa a un futuro più solido insieme alla sua amica e con un progetto di lavoro per loro due su una nave che partirà di lì a pochi giorni da un porto tedesco. Voichita però è cambiata: il centro del suo cuore è stato preso dalla vita in un monastero ortodosso dove si è trasferita nella dedizione alla preghiera e a una quotidia- S mia), Dionisie Vitcu (Sig. Valerica), Ionut Ghinea (Ionut), Liliana Mocanu (Madre Elena), Doru Ana (Padre Nusu), Costache Babii (Dottor Solovastru), Luminita Gheorghiu (Insegnante), Alina Berzunteanu (Dott.ssa Radu), Teodor Corban (Ispettore di Polizia), Calin Chirila (Poliziotto), Cristina Cristian (Camelia),Tania Popa (Parrocchiana), Petronela Grigorescu (Dott.ssa Neagu), Liana Petrescu (Suor Arcadia), Alexandra Agavriloaiei (Suor Eudoxia), Alexandra Apetrei (Suor Tatiana), Noemi Gunea (Suor Lavrentia), Katia Pascariu (Suor Sevastiana), Mara Carutasu (Suor Aanastasia), Cerasela Iosifescu (Dott. D.L.), Ada Barleanu (Infermiera Gina), Mariana Liurca (Infermera Sandra), Marian Adochitei (Gabi), Andreea Bosneag (Georgiana), Ecaterina Tugulea (Capoinfermiera), Mircea Florin Jr. (Portiere), Gheorghe Ifrim (Assistente ambulanza), Diana Chirila Ignat (Segretaria), Ion Sapdaru (Capitano), Radu Zetu (Tenente), Nicoleta Lefter (Paziente), Adrian Ancuta (Uomo in auto) Durata: 155’ Metri: 4240 nità fatta di lavori di campagna e meditazione. Il monastero è condotto con mano “amorevole” e fermissima da un prete che tutte le suore chiamano Padre e da una madre superiora. Tutto sembra filare liscio tra le celle, la grande cucina, la chiesa, dove viene a messa anche la gente del posto e il panorama agreste spesso ricoperto di neve. In realtà l’ambiente è chiuso, ipocritamente solido mentre il Padre si è completamente impadronito della coscienza delle suore, inibendone il personale arbitrio, in un ossessivo riferirsi continuamente a Dio e alle esigenze della preghiera. In tale soffocante atmosfera Alina intuisce con dolore che il legame di una volta con Voichita è finito per sempre ma non si arrende pur vedendo quanto la sua amica sia succube dei voleri del prete al pari delle altre compagne obbligate, forse, per- 8 chè il tema è solo ipotizzato, anche alla sottomissione sessuale. La prima reazione di Alina di fronte a tutto questo è una crisi isterica per cui è ricoverata nell’ospedale vicino che ben poco può fare se non dimetterla dopo qualche giorno con pastiglie e raccomandazioni. Il ritorno in convento è per Alina l’inizio della fine: i suoi comportamenti sprezzanti e insultanti nei confronti del Padre e delle suore diventano sempre più violenti da sfociare sempre più spesso in rissa e convincono la comunità che lei sia pervasa dall’azione del diavolo e che necessiti di un esorcismo. Al culmine di una delle sue crisi, Alina è legata a una trave e poi incatenata per poter permettere al Padre di pronunciare le formule che possano liberarla dalla supposta presenza di forze demoniache. Film Tutti i film della stagione La violenza della ragazza è però incontenibile, le pratiche religiose non producono alcun risultato; dopo qualche giorno lei è portata in ospedale dove giunge come un povero cadavere martoriato. La polizia prontamente avvertita dell’accaduto si rende conto al monastero di quali orrende sevizie Alina abbia subito e porta in prigione il Padre e le suore, ipotizzando per loro delle lunghe pene detentive mentre tutti sono ancora incapaci di capire quanto la loro opera religiosa sia stata determinante nel provocare la morte di una ragazza che desiderava solo essere libera. ’impatto emozionale è molto forte con la visione di questo film, pur non incentrandosi in una storia dell’horror conventuale come lo abbiamo visto raccontato in maniera facile e superficiale in tante occasioni sullo schermo. Anzi, proprio per questo l’impatto non è visivo ma subliminale e quindi più doloroso e amaro di fronte all’ennesima prova di forza del potere su chi è più debole. Nell’ambiente monastico sembra che non accada nulla di particolare, tutti sono convenuti di spontanea volontà e trovano in questi luoghi la comunanza, l’assistenza e il sostentamento che altrove non troverebbero. A che prezzo? Al prezzo del totale annullamento della consapevolezza dei propri desideri, delle proprie esigenze come individuo e, naturalmente, di qualsiasi forma d’amore. Ci si rende conto solo a spettacolo avanzato di quanto il film abbia trasmesso fino a quel momento in maniera lenta e insinuante cosicchè le affannose, sovraccariche scene finali formano davvero un’ansia insopprimibile, cupa, profonda, densa come una nebbia da cui ci si libera a fatica. La centralità della storia è data dal conflitto fondamentale intorno a cui si costruisce la personalità e la cognizione della libertà di ogni singolo essere umano: il conflitto tra individuo e società, la sopraffazione delle pulsioni individuali soffocate dal super-io societario, l’incapacità di affermazione di se stessi, la delega del superamento delle proprie inidoneità a un sistema esterno come lo Stato, una comunità, un partito, il monastero che si sostituisce all’individuo incanalandone i desideri secondo una visione più generale e oppressiva. È l’eterna lotta contro il potere, qui il potere religioso con il suo fanatismo e le sue intolleranze che interessa il regista rumeno Cristian Mungiu dopo il suo Quattro mesi, tre settimane, due giorni, del 2007 in cui ci aveva dato il ritratto mostruoso di un altro potere, quello politico, che si era L sgretolato sotto il peso della sua stessa immoralità. La storia è resa sullo schermo con un bellissimo stile affascinante e rigoroso nell’utilizzo del colore come una autentica nervatura di scene, personaggi e stati d’animo fino a diventare, grazie alla direzione fotografica di Oleg Mutu, collaboratore primario del regista, colonna portante della narrazione: il nero predomina all’interno della comunità conventuale, nelle vesti, negli arredi, nei paramenti mentre è bianco il trucco dei volti in un’apparente spersonalizzazione dalla forza emotiva struggente e piena di calore (Voichita abbandona la veste nera e mette un maglione bianco quando capisce l’orrore che sta accadendo sotto i suoi occhi); così nere sono le colline moldave spesso nominate e inquadrate come se al di là delle stesse fossero pronti dei Tartari liberatori e bianco è il paesaggio innevato su cui le figure nere macchiano la loro personale sofferenza. Premiato a Cannes 2012 per la sceneggiatura e per l’interpretazione delle due bravissime protagoniste, il film, oltre a segnare un altro passo “pesante” nella filmografia di Cristian Mungiu, già vincitore a Cannes 2007 con l’altro suo bel film citato prima, contribuisce a posizionare la cinematografia rumena in uno spazio sempre più interessante nel panorama internazionale. Fabrizio Moresco LE BELVE (Savages) Stati Uniti 2012 Regia: Oliver Stone Produzione: Ixtlan/Onda Distribuzione: Universal International Pictures Italy Prima: (Roma25-10-2012; Milano 25-10-2012) V.M.: 14 Soggetto: dal romanzo omonimo di Don Winslow Sceneggiatura: Shane Salerno, Don Winslow, Oliver Stone Direttore della fotografia: Daniel Mindel Montaggio: Joe Hutshing, Stuart Levy, Alex Marquez Musiche: Adam Peters Scenografia: Tomas Voth Costumi: Cindy Evans Interpreti: Blake Lively (Ophelia), Taylor Kitsch (Chon), Aaron Johnson (Ben), Uma Thurman (Paqu), Trevor Donovan (Matt), John Travolta (Dennis), Salma Hayek (Elena), Emile Hirsch (Spin), Benicio Del Toro (Lado), Joel David Moore (Craig), Demián Bichir (Alex), Elena Varela (Maria), Sandra Echeverría (Magda), Leonard Roberts (Hayes), Alexander Wraith (Solomon), Gonzalo Menendez (Hernando), Jake McLaughlin (Doc), Jessica Lee (Li), Antonio Jaramillo (Jaime), Ami Haruna (Annie), Lucinda Serrano (Myrna), Anthony Cutolo (Billy), Amber Dixon (Sofia), Diego Cataño (Esteban), Kaj Mollenhauer (Sarah), Leana Chavez (Gloria), Joaquín Cosio (El Azul), Ralph Echemendia (Paul) Durata: 131’ Metri: 3600 9 Film n triangolo amoroso. Un bello dannato, Chon, e un bello impegnato socialmente, Ben, sono soci in narco-affari e condividono la stessa donna, Ophelia, detta O. Distributori di droga indipendenti vengono intercettati dai narcotrafficanti del cartello della Baja e in particolare, dalla Reina (Helena), loro capo. Questi due amici producono la miglior marijuana del mondo in Afghanistan, dove Chon ha fatto servizio come marine. In realtà loro vivono a Laguna Beach e questa attività li fa vivere serenamente. Conducono una bella vita fino a quando grazie a un video scoprono di essere minacciati dal pericoloso cartello messicano. Inizialmente i due giovani produttori non intendono scendere a patti con questo pericoloso circuito. Tutto cambia quando Lado, lo scagnozzo della Reina, viene incaricato di rapire Ophelia. I due ragazzi per vendetta rapiscono la figlia di Helena. (“Se vuoi controllare qualcuno prendigli quello che ama”). Nel desertico rush finale si scopre che Lado è in realtà la talpa che scambiava informazioni con l’agente della DEA( Drug enforcement administration) Dennis. Lado riesce a scappare mentre la Madrina viene incarcerata. Alla fine i tre riescono a riacquistare la propria serenità. Ma questo è un altro finale. U Tutti i film della stagione uggestivo il panorama sud-californiano in cui è ambientata la nostra storia, suggestivo l’uso della voce narrante di Ophelia che ci presenta questa storia e il suo nome di rimembranza shakespeariana. Ma, a parte le fantastiche inquadrature, non rimane nulla di questa storia. Il senso profondo che si vuole comunicare sulla malvagità dell’animo umano è appena accennato e mostra un tentativo fallito di mettere insieme violenza, azione, sesso e poesia. Le fattezze della Reina non possono non portare la mente di ogni cinefilo che si rispetti a Mia in Pulp Fiction. Poco incisivo il ruolo di John Travolta nei panni di un agente DEA (agente federale antidroga). Trovo che la colonna sonora sia piuttosto adatta, mentre il ritmo è decisamente lento e poco incalzante, per essere un vero film sparatutto. Un film troppo poco filosofico per gli intellettuali. Un gioco di ambiguità ( i personaggi di Lado , del poliziotto Dennis come anche il rapporto tra la Reina e Ophelia e di Ben e Chon) secondo diversi critici per un film che non ha una propria identità. Il nuovo lavoro action di Oliver Stone risulta poco incisivo. Troppa bella vita per essere dei veri selvaggi. Con tanto di videogiochi, Ophelia,come se fosse immersa in un grande videogame dice: “Quando si inizia non si torna indietro”. Ma si tratta della vita vera. Parlano del cartello della Baja come di trafficanti fondamentalisti, ma, al posto dei S soliti cappucci, i trafficanti- sequestratori indossano delle maschere con i teschi. Una trama sfilacciata tra sparatorie ed esplosioni di macchine. Banalizzazione del genere femminile in un film di stampo fortemente maschilista e machista. Basti pensare al rapporto tra la Madrina e sua figlia soprattutto nelle scene finali, il dialogo tra la Reina e Ophelia ( a proposito del ciclo mestruale o delle ridicole richieste sul cibo) o anche a tutte le scene di violenza contro le donne. Un film in cui la tecnologia ha un ruolo importante (e anche inquietante) tra telecamere, webcam, registrazioni e videogiochi. Come chiedere al nostro pubblico se sia più selvaggio uno spacciatore senza alcuna remora morale, o un poliziotto che si lascia corrompere da chiunque abbastanza facilmente. Compare un messaggio insistente sull’inciviltà dei messicani ; le diverse scene di tortura ne sono un esempio. Si legge poi una sottile vena polemica anche contro la politica americana. Se ancora non fosse stata sufficiente tutta la crudeltà di questi personaggi, basti pensare alla frase di Chon “ In fondo sei morto già quando eri nato” . In confronto a questo tutto il resto è relativo ... Per riecheggiare Tarantino “ Un film più fiction che pulp”in cui Il lieto fine è targato “ Per adesso viviamo come selvaggi, bellissimi selvaggi”. Giulia Angelucci IL CAVALIERE OSCURO – IL RITORNO (The Dark Knight Rises) Stati Uniti, 2012 Regia: Christopher Nolan Produzione: Emma Thomas, Christopher Nolan, Charles Roven per Syncopy, Legendary Pictures, Warner Bros. Pictures Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia Prima: (Roma 29-8-2012; Milano 29-8-2012) Soggetto: Bob Kane (dai suoi personaggi), Christopher Nolan, David S. Goyer Sceneggiatura: Jonathan Nolan, Christopher Nolan Direttore della fotografia: Wally Pfister Montaggio: Lee Smith Musiche: Hans Zimmer Scenografia: Nathan Crowley, Kevin Kavanaugh Costumi: Lindy Hemming Effetti: Chris Corbould, Paul Franklin, Double Negative Interpreti: Christian Bale (Bruce Wayne/Batman), Gary Old- otham City sembra essere pacificata o almeno ferma, lugubremente ferma e priva di attività dopo l’applicazione della legge anticrimine voluta dal Procuratore Harvey Dent; inoltre Batman è scomparso da tempo nell’oscurità, dopo essersi addossato l’accusa terribile di averlo ucciso consacrando G man (Jim Gordon), Tom Hardy (Bane), Joseph Gordon-Levitt (John Blake), Anne Hathaway (Selina Kyle/Catwoman), Marion Cotillard (Miranda Tate), Morgan Freeman (Lucius Fox), Michael Caine (Alfred), Matthew Modine (Foley), Alon Aboutboul (Dott. Pavel), Ben Mendelsohn (Daggett), Burn Gorman (Stryver), Daniel Sunjata (Capitano Jones), Nestor Carbonell (Sindaco), Brett Cullen (Deputato), Reggie Lee (Ross), Chris Ellis (Padre Reilly), Tyler Dean Flores (Mark), Juno Temple (Jen), Gonzalo Menendez (Poliziotto Manhole), Rob Brown (Allen), Will Estes (Agente Simon Jansen), John Nolan (Fredericks), Josh Stewart (Barsad), Liam Neeson (Ra’s Al Gul), Cillian Murphy (Dott. Jonathan Crane/Spaventapasseri), Josh Pence (Ra’s Al Ghul giovane) Durata: 164’ Metri: 4500 così il proprio silenzio e il proprio sacrificio al mantenimento della pace cittadina. Questa menzogna nasconde invece ben altra realtà e ben più terribile: il Male sta per fare ritorno a Gotham City, rappresentato da Bane, un feroce e spietato criminale dal volto seminascosto da una maschera che ne sostiene il respiro e ne distorce 10 la voce rendendo indecifrabili e imprevedibili progetti e azioni. Solo Selina Kyle (Catwoman) riesce a capire subito la violenza che sta per abbattersi sulla città, che non è capace di scuotersi dalla stasi di corruzione e incomunicabilità in cui sembra soffocare. Lo stesso Batman è introvabile, men- Film tre il miliardario Bruce Wayne che tanto ricco ormai non è più è un personaggio pallido e claudicante per le conseguenze dei passati duelli e non è in grado di agire, quasi imbolsito in una decadente misantropia senza illusioni. A tal punto appare calcificata la rassegnazione di Bruce che anche Alfred, il fido maggiordomo, lo abbandona non potendo sopportare oltre la sua inanità. Bane invece è pronto e forgiato nell’acciaio dopo tante privazioni e durissime iniziazioni avvenute nel cono di roccia della prigione in cui fu rinchiuso a lungo da bambino; forte poi di un fantomatico progetto politico misto di anarchia, uguaglianza nichilista, sopraffazione e terrore ha radunato una moltitudine di criminali che scatena su Gotham, apparsa subito senza possibilità di salvezza. Mentre il vecchio capo della polizia Jim Gordon tenta di fare del suo meglio utilizzando tutti i poliziotti a disposizione, Bruce decide finalmente di fare entrare in azione il suo Batman, non prima che l’eroe abbia sostenuto nel maledetto cono di roccia le stesse prove di Bane, che può così essere sopraffatto al culmine di una spaventosa battaglia. Anche Batman deve però soccombere, cosicchè Alfred non può fare altro che portare un fiore su di una lastra di marmo, al momento definitiva. er il terzo (e conclusivo, così sembra) atto della sua trilogia, la coppia Nolan/Bale ha avuto sicuramente davanti un bel rompicapo nel connotare quest’ultima avventura di elementi, aspetti e dettagli che potessero fornire all’opera un significato originale e indipendente, che non si confondesse con le altre due storie che l’avevano preceduta. Il risultato è composito, fatto di luci e ombre che si accavallano nel pretendere per l’una o l’altra parte del film quella grandezza sontuosa che manifestamente gli autori hanno rincorso con dedizione assoluta, concentrazione artistica profonda e uno sfoggio sapiente degli ultimi traguardi dell’evoluzione tecnologica. Non dobbiamo quindi fermarci ai primi elementi che potrebbero spaventare: durata del film 164 minuti; Batman appare dopo 40 minuti; l’avversario di Batman non è più un personaggio costruito sulla linea dei Joker (il punto più alto Heath Ledger nel secondo episodio), ma un uomo in carne e ossa (Tom Hardy) corredato da un respiratore molto vicino alla mordacchia di contenzione del vecchio Hannibal Lecter che, in questo caso, indossato per tutto il film, ne impedisce completamente ogni forma P Tutti i film della stagione espressiva. La voce che ne fuoriesce, deformata e spezzettata come attraverso un telefono guasto risulta monocorde e impossibilitata a colorare di sgomento e di orrore tutti i propositi minacciosi enumerati e raccontati con dovizia di particolari. A supportare questa fragilità d’impatto del personaggio che sicuramente gli autori devono avere colto, gli si è voluto costruire un back-ground corposo cioè tutta una storia di lui bambino che in una prigione di pietre e ossessioni viene temprato come una macchina da guerra attraverso una serie di privazioni, dolori, introspezioni oniriche e misteri, per colmare l’evidente debolezza del “cattivo” al tempo presente. Per unire passato e presente e per fare in modo che lo spettatore capisca qualcosa il cattivo parla, parla in continuazione, spiega, racconta, descrive, indica, minaccia, ordina, impone. Dopo tanta attesa, appare il suo interlocutore primario, Batman appunto, un eroe in disarmo, diafano e zoppicante, stanco, apatico e spettrale, incurante di una città corrotta che non lo vuole più e quindi privo di speranza alcuna per un futuro più giusto e degno di essere vissuto. Non può, di colpo, Batman porre fine ai dialoghi e cominciare a menare le mani perchè i primi tentativi effettuati quando finalmente si convince a indossare il suo costume d’ordinanza appeso al chiodo sono devastanti e ne prende di santa ragione da quella macchina per uccidere che è Bane, che può così scatenare le sue orde di assassini sulla città. Qui il film ha la svolta determinante che, contemporaneamente, ne fornisce la con- notazione originale e primaria. Batman, per potere affrontare il nuovo nemico con fiducia e sicurezza nei propri mezzi deve calarsi nel cono di pietra, teatro della crescita generazionale di Bane, quell’abisso di sofferenza e dolore da cui potrà risorgere ancora come Cavaliere Oscuro. È l’oscurità che partorisce ancora oscurità, è il dolore che partorisce il dolore, è la dannazione che si rinnova ancora in una dannazione successiva. Non è più l’eroe puro che esplode dal pozzo dell’orrore, ma un eroe che è andato al fondo di se stesso e ne è affiorato carico di tenebra e oscurità perchè tale è l’esistenza e nello stesso modo deve essere affrontato il Male, con una cognizione in più: quella cioè che rende il Cavaliere Oscuro consapevole che tutta la grandezza delle sue azioni è dietro le sue spalle e che il suo percorso ha iniziato ormai una fase crepuscolare di abbandono e di desiderio per una umanità perduta da cui non si potrà più tornare indietro. L’ambizione degli autori ha effettivamente toccato il suo acme o, quantomeno, i risultati voluti: azione e grandezza, sogno e aspirazione filosofica e poi lavoro, lavoro e ancora lavoro: Cristopher Nolan ha una conoscenza enciclopedica del cinema e di come realizzarlo, Christian Bale è un servitore perfetto dell’immagine e delle sue profondità, delle luci e delle ombre che raccontano la scena scovandone le sue verità più nascoste. Davvero sarà difficile che a breve un altro film possa stare alla pari con una realizzazione così straordinaria. Fabrizio Moresco ALÌ HA GLI OCCHI AZZURI Italia 2012 Regia: Claudio Giovannesi Produzione: Fabrizio Mosca per Acaba Produzioni con Rai Cinema Distribuzione: Bim Prima: (Roma 15-11-2012; Milano 15-11-2012) Soggettoe Sceneggiatura: Claudio Giovannesi, Filippo Gravino Direttore della fotografia: Daniele Ciprì Montaggio: Giuseppe Trepiccione Musiche: Claudio Giovannesi, Andrea Moscianese Scenografia: Daniele Frabetti Costumi: Medile Siaulytyte Interpreti: Nader Sarhan (Nader), Stefano Rabatti (Stefano), Brigitte Apruzzesi (Brigitte), Marian Valenti Adrian (Zoran), Cesare Hosny Sarhan (Padre di Nader), Fatima Mouhaseb (Madre di Nader),Yamina Kacemi (Laura), Salah Ramadan (Mahmoud), Marco Conidi (Padre di Brigitte), Alessandra Roca (Madre di Brigitte), Elisa Geroni (Eleonora), Roberto D’Avenia (Ruggero), Totò Onnis (Vigile), Alfonso Prudente (Vigile), Adrian Carana (Petre) Durata: 94’ Metri: 2600 11 Film ato a Roma e cresciuto a Ostia, Nader è un ragazzo di sedici anni, figlio di immigrati egiziani. Il padre lavora come benzinaio e la sorella frequenta le scuole superiori come lui. Si sente italiano, parla italiano quasi sempre, se non quando deve comunicare con i genitori. Il suo migliore amico è Stefano, italiano, una testa calda che sembra avere molto meno equilibrio di lui. Nader rifiuta di fumare cannabis, non prende pasticche in discoteca, non riesce a compiere furti, ma intende vivere da italiano la sua vita, rispettando molto alla larga i comandi della propria religione. Per nascondere la sua origine arriva persino a mettere le lenti a contatto azzurre. Si frequenta da un mese con Brigitte, una coetanea italiana, con cui sembra fare sul serio, a causa della quale iniziano le prime discussioni in casa. Le regole dei musulmani sono differenti: la madre pretende che Nader cresca e maturi per poi trovarsi una ragazza egiziana. Rincasato ancora una volta dopo la mezzanotte, Nader viene lasciato fuori e invitato dalla madre a riflettere sulla sua condotta. E proprio in questi giorni che il ragazzo si mette nei guai: durante un pomeriggio in discoteca, l’amico Stefano, a causa della ex fidanzata, scatena una rissa nella quale Nader interviene, accoltellando gravemente un altro ragazzo. I due amici fuggono, ma lasciano dietro diversi indizi: così che i parenti del ragazzo finito in ospedale, rumeni, si mettono sulle tracce dei due giovani, con intenzioni non certo amichevoli. Casa e scuola diventano luoghi impraticabili e non più sicuri e Nader e Stefano devono dormire dove capita, fuggendo continuamente. Non vanno più a scuola e vivono di espedienti. Finché non decidono di affrontare la situazione e difendersi rimediando una pistola acquistata illegalmente. Nader progressivamente si isola in una situazione sempre più N Tutti i film della stagione difficile. Infatti non sa più dove rifugiarsi, è costretto a dormire per strada, scoprendo anche l’omosessualità del cugino che gli offre ospitalità. Stufo di scappare, si arma di coraggio e di fronte al padre di Stefano ammette la propria responsabilità e decide di andare a chiedere scusa. Il padre del rumeno ferito non sembra concedere il perdono a Nader e il ragazzo si salva grazie all’intervento di altri connazionali. Intanto Stefano ha messo gli occhi su Laura, sorella più piccola di Nader. Ora in lui scatta qualcosa; arriva persino a minacciare il suo amico con la pistola, rimettendo di nuovo tutto in discussione. A casa lo attende sempre una tavola apparecchiata, mentre ormai è costretto a vedere Brigitte solo dalla finestra. ullo sfondo della bella e fredda fotografia di Daniele Ciprì, Claudio Giovannesi, regista, cosceneggiatore e coautore delle musiche, al secondo lungometraggio dopo La casa sulle nuvole, riprende in mano la lezione pasoliniana, già dal titolo tratto da Profezia di Pier Paolo. “Dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri, usciranno da sotto la terra per uccidere, usciranno dal fondo del mare per aggredire, scenderanno dall’alto del cielo per derubare”, Giovannesi aggiorna gli accattoni e i ragazzi di vita ai tempi dell’integrazione multiculturale. La macchina da presa pedina i suoi personaggi reali, nel degrado di una periferia violenta e rassegnata con uno stile semidocumentaristico, girato con camera a mano in presa diretta, caratterizzato da un ritmo lento e un’illuminazione molto naturale. Portato in Concorso al Festival Internazionale del film di Roma 2012, Alì ha gli occhi azzurri racconta l’adolescenza nella società multiculturale italiana di oggi: la complessità e la delicatezza di questo periodo, la turbolen- S 12 ta ricerca di un’individualità, che l’origine non italiana del protagonista rende ancor più difficile. Nader, egiziano nato a Roma, diventa l’emblema della seconda generazione: l’identità nel suo farsi, in bilico tra l’eredità della religione e della legge del padre e i costumi occidentali del presente italiano. Le ragioni che prevalgono nella sua battaglia quotidiana sono quelle tipiche della sua età, con i suoi valori morali assoluti: l’amore vissuto senza confini e l’amicizia che è fratellanza. È un adolescente innamorato, capace di vivere intensamente e difendere il suo sentimento, che vuole vivere la sua sessualità come i coetanei italiani, ma non riesce a concepire che la stessa libertà possa essere concessa a sua sorella. È orgoglioso della sua religione, ma si mette lenti a contatto azzurre per assomigliare a chi ha sangue europeo. Nader rappresenta il tentativo inconsapevole di conoscere se stesso, attraverso un racconto di formazione epico e quotidiano che dura sette giorni. Il ragazzo dovrà sopportare il freddo, la solitudine, la strada, la fame e la paura, la fuga dai nemici e la perdita dell’amicizia, per tentare di conoscere la propria identità. Dopo averlo scelto nel terzo episodio di Fratelli d’Italia, documentario sull’adolescenza, Giovannesi mette in scena di nuovo Nader Sarhan, trasformandolo ora in un personaggio e cercando una risoluzione al conflitto tra la cultura islamica e quella occidentale. La macchina da presa diventa ora uno strumento con cui indagare; si ha la consapevolezza di trovarsi di fronte a degli attori di strada chiamati a mettere in scena le proprie vite. Questo aumenta il valore e la profondità stessa del racconto. Si scoprono modi di dire, abbigliamento e abitudini, capaci di definire il territorio e i suoi abitanti più di qualunque immagine. Il regista dedica a tutti i personaggi minori del film uno spazio per raccontarli che incide in profondità: dai ritratti del padre e della madre di Nader e della loro sofferenza nel vedere il figlio ribellarsi alle loro regole antiche, al cugino più grande che rivela ad un certo punto la sua solitudine e la sua omosessualità, al compagno di classe romeno, schiacciato tra la solidarietà verso i suoi amici di scuola e quella verso i suoi connazionali in cerca di vendetta. Ad armonizzare il tutto poi è l’uso di una fotografia neorealista quasi invisibile, capace di sfruttare la drammatica trascuratezza dei luoghi. Ostia fa da nostalgica cornice, con le sue spiagge deserte, il vento che colpisce i volti, il miraggio della grande Roma a pochi chilometri di distanza. L’autore conclude il film, coerentemente al realismo con cui ha raccontato la storia, senza far intra- Film vedere il futuro di Nader, ma sottolineando nel finale, in maniera incisiva ed amara, la separazione fra due culture che addirittura convivono nella stessa famiglia. Il film non dà infatti una risposta ideologica a questo interrogativo, ma ha il merito di Tutti i film della stagione metterlo in campo e di sottolinearlo attraverso una storia raccontata dal punto di vista degli adolescenti e del loro mondo. È questo il caso in cui la scelta giusta non esiste. La malinconica scena conclusiva non offre soluzioni, né spiegazioni: nel bene e nel male, le sfide che la nostra società deve affrontare sono quanto mai complesse, articolate e, sicuramente, non indolori. Veronica Barteri THE BOURNE LEGACY (The Bourne Lagacy) Stati Uniti, 2012 Regia: Tony Gilroy Produzione: Bourne Film Productions, Bourne Four Productions, Captivate Entertainment, Universal Pictures Distribuzione: Universal Pictures International Italy Prima: (Roma 7-9-2012; Milano 7-9-2012) Soggetto: dal romanzo “L’eredità di Bourne” di Robert Ludlum e Eric Van Lustbader Sceneggiatura: Dan Gilroy, Tony Gilroy Direttore della fotografia: Robert Elswit Montaggio: John Gilroy Musiche: James Newton Howard Scenografia: Kevin Thompson Costumi: Shay Cunliffe Yukon, in Alaska, in un paesaggio immerso nella neve, un uomo esce dalle gelide acque di un fiume. Nonostante tutto è vivo e riesce a mettersi in salvo riscaldandosi vicino a un fuoco. L’uomo è Aaron Cross, un agente altamente selezionato che lavora per “Outcome”, un programma segreto creato dall’Organizzazione National Research Assay Group, il cui direttore è il colonnello Ric Byer. L’agenzia segreta della CIA ha ideato anche un altro progetto, “Treadstone”; a esso collegato e basato sul potenziamento di agenti segreti e la loro trasformazione in macchine da guerra; il tutto con metodi illegali chirurgici, immunologici e virologici. Il risultato è la creazione di super uomini spersonalizzati, attraverso lavaggi del cervello, da poter infiltrare come spie nelle zone più calde e la cui sopravvivenza è legata all’assunzione di pillole colorate. Una volta raggiunta la meta prevista, una baracca in mezzo ai monti innevati, Cross scopre che vi è accampato un altro agente. Contemporaneamente, dall’altra parte del mondo, un uomo che conosciamo come Jason Bourne, è coinvolto in una lotta armata in cui perde la vita un reporter inglese a Waterloo Station, a Londra. Bourne è riuscito a scappare dal sistema e a evadere dal programma. Il colonnello Byer deve agire tempestivamente affinché l’agente con la sua fuga, le sue azioni e dichiarazioni non porti alla luce il sistema. Così ordina che ogni singolo agente sul campo A Effetti: Double Negative Interpreti: Jeremy Renner (Aaron Cross), Edward Norton (Byer), Rachel Weisz (Marta), Albert Finney (Dott. Albert Hirsch), Joan Allen (Pam Landy), Oscar Isaac (N. 3), Donna Murphy (Dita), Scott Glenn (Ezra Kramer), David Strathairn (Noah Vosen), Stacy Keach (Turso), Michael Chernus (Dott. Arthur Ingram), Corey Stoll (Vendel), Elizabeth Marvel (Dott.ssa Connie Dowd), Michael Papajohn (Larry Hooper), Corey Johnson (Wills), Rachel Black (Ten. Col. Stoddard), Michael Berresse (Leonard), Page Leong (Sig.ra Yun), Tony Guida (Dott. Benezra) Durata: 135’ Metri: 3700 debba essere eliminato. Non solo, ma per non lasciare traccia si devono eliminare anche gli scienziati che hanno partecipato alla creazione degli agenti. Aaron Cross non tarda a capire cosa sta succedendo e cerca di far perdere le proprie tracce. Anche lui è costretto ad assumere una serie di medicinali che ne migliorano le prestazioni fisiche e ne indirizzano le scelte, dai quali deve disintossicarsi per non dipendere dal governo. L’unica a poterlo aiutare è una delle dottoresse incaricate di tenere d’occhio gli agenti, Marta Shearing, anch’essa a sua insaputa a rischio “chiusura” e dunque condannata a morte. I due si trovano insieme a essere inseguiti dagli uomini di Byer. Riescono a prendere un aereo per Manila, dove si trovano i componenti del virus base in grado di annullare gli effetti delle pillole. Tra inseguimenti all’ultimo respiro e scontri corpo a corpo, braccati fino alla fine da killer spietati, riescono a fuggire. Mentre la stampa viene informata, Aaron e Marta si imbarcano grazie a un pescatore filippino su un peschereccio, avviandosi finalmente verso la libertà. a produzione del film è stata alquanto travagliata: dopo la dichiarazione di Paul Greengrass di non voler dirigere un ulteriore capitolo della saga di Jason Bourne, c’è stato l’abbandono del protagonista Matt Damon. Dopo The Bourne Ultimatum – Il ritorno dello L 13 sciacallo, il film che chiudeva la trilogia dell’agente nato dai libri di Rober t Ludlum e interpretato da Matt Damon, la direzione è stata affidata a Tony Gilroy, già sceneggiatore degli episodi precedenti e quindi profondo conoscitore delle ambientazioni del film, mentre il ruolo principale è stato offerto a Jeremy Renner, che interpreta tuttavia un personaggio diverso da quello di Jason Bourne. Il regista ha accettato la sfida di continuare a raccontare il mondo di un personaggio che, nell’ultimo decennio, ha incarnato più di tutti il genere della spy story. Ma, con The Bourne Legacy non siamo di fronte a un sequel, ma ad una espansione del mondo dell’agente Bourne, con un protagonista tutto nuovo: Aaron Cross. Per il resto tutto è da scoprire: ci viene introdotto un altro personaggio nuovo, ovvero il capo della mega organizzazione che vende programmi alla CIA e al governo Americano, il Colonnello Ric Byer, ovvero Edward Norton, e la scienziata Marta Shering interpretata da Rachel Weisz. Le redini e l’eredità del passato vengono tenute saldamente e il discorso che il regista porta avanti funziona, dando vita a un personaggio che non riesce a trovare la propria identità e gira per il mondo cercandola, senza però identificarsi in nessuno. Ecco allora inevitabile il confronto col collega Bourne. I due camminano su strade parallele che, almeno per il momento, non si incontrano né fisicamente né ideologicamente. Si aggiunge al cast Film un Edward Norton che finalmente dona la possibilità al pubblico di identificare il nemico, il governo, in un’unica persona. Poi c’è Rachel Weisz che rappresenta il personaggio classico della donna che affianca il protagonista che, per fortuna, non funge qui solo da spalla, ma ha una funzione ben precisa e anche lei ha un’identità tutta da riconsiderare. Un buon quarto capitolo che, come dice il titolo stesso (“legacy” in inglese sta per eredità o testamento) non tratta specificatamente del personaggio di Jason Bourne, ma di tutti gli altri personaggi che gli ruotano intorno e delle situazioni che la sua defezione, raccontata nei precedenti tre film, ha causato. Bourne Legacy non è ipercinetico e adrenalinico come i precedenti; molte sequenze sono girate con la cinepresa ben stabile su un cavalletto. Tuttavia il film regge, e non solo per la buona sceneggiatura. Il primo tempo ricalca i film spionistici classici, con i loro ritmi e le lente inquadrature, atte anche ad introdurre situazio- Tutti i film della stagione ni e personaggi. Nel secondo tempo, una volta chiarito che questo film è pur sempre della “serie Bourne”, la pellicola si fa molto più movimentata, con sequenze all’ultimo respiro, combattimenti corpo a corpo e inseguimenti forsennati contro il tempo, girati invece con la camera a spalla, per rendere più movimentate e dinamiche le azioni. Memorabile è la sequenza che vede l’attore faccia a faccia con un branco di lupi assetati di sangue, un combattimento feroce tra le nevi della foresta; così come l’inseguimento in moto per le strade di Manila e la sparatoria nel laboratorio, scena di grande impatto emotivo. Fare paragoni tra i precedenti capitoli non è semplice, ma a conti fatti, The Bourne Legacy riesce a non sfigurare davanti ai suoi tre rivali. Con oltre due ore di spy-story, la pellicola del regista statunitense riesce a tenere alta l’attenzione dello spettatore, giocando sapientemente tra corse spericolate e lunghi dialoghi, che spiegano senza fraintendimenti i macchinosi giochi di potere che hanno dominato l’esistenza di Bourne e continuano a dominare le sorti di Cross. Non vengono dunque deluse le aspettative di chi ha atteso con ansia quest’ultimo approfondimento su una delle saghe cinematografiche più apprezzate degli ultimi anni. C’è addirittura la porta socchiusa nel finale per dare la possibilità forse di un ulteriore seguito. Ma quello a cui bisogna dar merito è un attore come Jeremy Renner, di grande bravura e professionalità, che ben incarna il ruolo di protagonista assegnatogli e che è un degno successore dello storico agente del primo film. Renner infatti non fa rimpiangere le gesta di Matt Damon, grazie soprattutto alla capacità di destreggiarsi tra le scene d’azione più movimentate. Chissà se in futuro riusciremo a vedere Aaron Cross e Jason Bourne combattere fianco a fianco. Veronica Barteri TED (Ted) Stati Uniti, 2012 Regia: Seth MacFarlane Produzione: Scott Stuber, Seth MacFarlane, John Jacobs per Fuzzy Door Production, Bluegrass Films Production, Smart Entertainment Production Distribuzione: Universal Pictures International Italy Prima: (Roma 4-10-2012; Milano 4-10-2012) V.M.: 14 Soggetto: Seth MacFarlane Sceneggiatura: Seth MacFarlane, Alec Sulkin, Wellesley Wild Direttore della fotografia: Michael Barrett Montaggio: Jeff Freeman Musiche: Walter Murphy Scenografia: Stephen J. Lineweaver Costumi: Debra McGuire er il Natale del 1985 il piccolo John Bennett, un bambino piuttosto solitario, riceve in regalo dai genitori un orsetto di peluche, Ted. Quella notte il piccolo esprime il desiderio di vedere prendere vita il suo nuovo amico. E il mattino dopo il sogno si avvera. Mai miracolo fu più fonte di guai! Passati ventisette anni, l’orsacchiotto è ancora il migliore amico di John. I due condividono un appartamento, trascorrono il tempo libero tra alcool e fumo e Flash Gordon è ancora il loro idolo assoluto. Nonostante tutto, John ha un lavoro presso un autonoleggio e una fidanzata, la bella Lori, che però è stanca di quel fidanzato-bambino. Esausta dall’incapacità di John di prendersi le responsa- P Effetti: Jenny Fulle, Blair Clark, Creative-Cartel, Tippett Studio, Creature Effects Iloura Interpreti: Mark Wahlberg (John Bennett), Mila Kunis (Lori Collins), Joel McHale (Rex), Giovanni Ribisi (Donny), Patrick Warburton (Guy), Matt Walsh (Thomas), Jessica Barth (Tami-Lynn), Aedin Mincks (Robert), Bill Smitrovich (Frank), Norah Jones (Se stessa), Sam J. Jones (Se stesso), Brett Manley (John a 8 anni), John Viener (Alix), Laura Vandervoort (Tanya), Tom Skerritt (Capo di John), Ginger Gonzaga (Gina), Jessica Stroup (Tracy), Melissa Ordway (Michelle), Ralph Garman (Padre di John), Colton Shires (John adolescente), Alex Borstein (Madre di John) Durata: 106’ Metri: 2900 bilità di un adulto, la ragazza finisce per metterlo di fronte a un ultimatum: abbandonare il suo orsetto e decidere di crescere o rinunciare a lei. Quando Lori gli chiede di mandare via Ted di casa, John capisce che è davvero arrivato il momento di separarsi dal suo amico. Ma, con un tipo come Ted, la cosa è davvero difficile. John aiuta l’orsacchiotto a trovare un piccolo appartamento e un lavoro di cassiere in un supermercato. L’orsetto si fa subito conoscere per quello che è, si rivolge in modo sboccato a clienti e colleghi e, colpito dalle grazie della collega Tami-Lynn, improvvisa un inequivocabile ballo dell’”orsetto porcello” in piedi sul rullo della cassa. Ma per John, che continua a vedere il suo amico orsacchiot14 to di nascosto da Lori, i problemi con la fidanzata non sono finiti. A complicare le cose ci si mette Rex, ricco e libidinoso capo di Lori, che non smette di corteggiare la ragazza con insistenza. Inoltre Donny, un uomo con evidenti problemi dovuti a un’infanzia irrisolta, perseguita John perché ossessionato dal desiderio di avere un orsacchiotto vivente come Ted tutto per sé e per il suo problematico figlio obeso. Una sera, mentre John si trova con Lori a un party nella bellissima casa di Rex, riceve una telefonata da Ted che lo invita a casa sua dove è in pieno svolgimento un festino con un mucchio di belle ragazze e dove l’ospite d’onore è nientemeno che l’attore Sam Jones cioè Flash Gordon. Con una scusa, John Film lascia la festa, mentre Rex approfitta del fatto che Lori sia rimasta sola. Il festino a casa di Ted è un vero sballo: John e il suo orsetto sono ubriachi e strafatti. Ma sul più bello irrompe Lori. Stufa dell’ennesima prova del comportamento infantile del suo fidanzato, la ragazza rompe con John e accetta di uscire con Rex che la invita al concerto della cantante Norah Jones. Rimasto solo, John se la prende con Ted, responsabile di averlo trascinato in un mare di guai. I due si danno botte da orbi. Quella stessa sera, John si precipita con Ted al concerto di Norah Jones. Grazie all’amicizia dell’orsetto con la cantante, John ha il permesso di salire sul palco a cantare una canzone dedicata alla fidanzata rimediando una figuraccia. Il giorno dopo Ted va da Lori e la prega di dare una chance a John che la ama tantissimo, in cambio l’orsetto promette di sparire. Subito dopo, Ted sparisce davvero perché viene rapito da Donny che lo sequestra legandolo nella cameretta del figlio contento di avere finalmente l’orsacchiotto per esaudire i suoi repressi desideri. Approfittando di un momento di distrazione, Ted riesce a raggiungere il telefono e a chiamare John. Ma il ragazzo che si trova insieme a Lori non fa in tempo a rispondere. Poco dopo, realizza ciò che accaduto e si precipita alla ricerca dell’orsetto. Dopo un lungo inseguimento che finisce in uno stadio, Ted scappa dalle grinfie di Donny arrampicandosi su un traliccio, ma l’uomo lo raggiunge e lo tira verso di sé facendo si che l’orsacchiotto si rompa in due tronconi. Cadendo giù, Ted perde parte dell’imbottitura e precipita sul prato del campo in fin di vita. L’orsacchiotto muore tra le braccia di John. Una volta a casa, Lori cerca di ricucire la ferita di Ted che però, non dà segni di vita. Solo grazie al desiderio espresso quella notte da Lori, consapevole che per John è impossibile staccarsi dal suo lato infantile, il mattino dopo Ted torna in vita. Tutti i film della stagione John chiede a Lori di sposarlo: le nozze non potevano che essere celebrate da Flash Gordon! vete mai visto un orsacchiotto così? Sboccato, dedito a alcool, fumo, droghe leggere e pensieri sporchi, dalla mattina ... alla notte. Ebbene, ci voleva quel talento irriverente di Seth MacFarlane, una celebrità negli States (investito del ruolo di presentatore della notte degli Oscar 2013), creatore di serie cult come I Griffin, American Dad, The Cleveland Show per portare al cinema un simile “vulcano” in fiamme. La storiella è in apparenza la classica favola che prende le mosse da un desiderio infantile. Il film è tutto su di lui, quell’orsacchiotto davvero unico attorno al quale sono confezionate una serie di gag irresistibili. Nulla si salva: il sesso, lo sport, le droghe, gli ebrei, l’11settembre, un fuoco di battute a suon di turpiloquio, doppi sensi (ma anche non doppi), politically scorrect. Intorno ai due protagonisti, una schiera di personaggi minori riuscitissimi: dallo sboccato padrone del supermercato dove l’orsetto trova lavoro, alla vistosa collega che diviene la girlfriend umana di Ted, fino a un adulto represso con figliolo disturbato che da sempre sogna di avere un “Ted” tutto suo. Come glassa sulla torta, due camei di lusso: la cantante Norah Jones e il mitico Sam Jones-Flash Gordon. Il film provoca risate, tante e di tutti i tipi. Le battute sono per tutti i gusti: volgari, talvolta un po’ scontate, spesso esilaranti. Il modello della classica storiella dell’amico immaginario di tutti i bambini, qui diventa la storia di un amico reale (per quanto possa essere reale un eroe in “peluche e ossa”) e di quanto possa essere dannoso portarselo dietro una volta adulti. E così il tema della difficoltà di diventare A grandi viene mostrato in una luce senza dubbio nuova. Il fuoco di fila delle battute e delle situazioni divertenti offre il suo meglio nella prima parte mentre nella seconda il registasceneggiatore si lascia andare verso un finale un po’ scontato da favola buonista. Ma i meriti di MacFarlane restano, soprattutto per aver ideato una figura così fuori dagli schemi resa perfettamente sullo schermo grazie a un pregevole lavoro fatto sugli effetti speciali con un misto di live-action (con il regista inguainato in una speciale tuta motion-capture) e animazione in Computer Graphic. L’orsetto Ted parla, mangia, ride, balla, fa perfino a botte, interagendo con i colleghi attori in carne e ossa alla perfezione! Quanto agli attori, una menzione particolare va a Mark Wahlberg sorprendentemente bravo e credibile in un ruolo leggero per lui inconsueto (se pensiamo ai suoi lavori più famosi), accanto a lui la bella Mila Kunis, che è praticamente cresciuta con MacFarlane doppiando la Meg de I Griffin per quasi tredici anni. Solo un dubbio resta, chi vi scrive ha visto il film nella versione originale letteralmente dominata dall’irresistibile doppiaggio di Seth MacFarlane (che qui non si risparmia vestendo il quadruplo ruolo di sceneggiatore, regista, produttore e, appunto, doppiatore), ma non siamo del tutto certi che nella versione italiana il fiume in piena di comicità irriverente lasci ugualmente il segno. Doppiaggio o meno, una cosa è certa: il micidiale orsetto di peluche rischia di diventare uno degli eroi della stagione cinematografica (già spopolano su di lui blog e account su twitter). Oltretutto si parla già di (immancabile) sequel. Un prodotto commercialmente “perfetto” sotto tutti gli aspetti, non c’è che dire. Elena Bartoni CESARE DEVE MORIRE Italia 2012 Regia: Paolo e Emilio Taviani Produzione: Grazia Volpi per Kaos Cinematografica, in associazione con Stemal Entertainment, Le Talee, Assocciazione Culturale La Ribalta, in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: Sacher Distribuzione Prima: (Roma 2-3-2012; Milano 2-3-2012) Soggetto: liberamente ispirato al “Giulio Cesare” di William Shakespeare Sceneggiatura: Paolo Taviani, Vittorio Taviani, Fabio Cavalli (collaborazione) Direttore della fotografia: Simone Zampagni Montaggio: Roberto Perpignani Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia Interpreti: Cosimo Rega (Cassio), Salvatore Striano (Bruto), Giovanni Arcuri (Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio), Juan Dario Bonetti (Decio), Vittorio Parrella (Casca), Rosario Majorana (Metello), Vincenzo Gallo (Lucio), Francesco De Masi (II) (Trebonio), Gennaro Solito (Cinna), Francesco Carusone (Indovino), Fabio Rizzuto (Stratone), Maurilio Giaffreda (Ottavio), Pasquale Crapetti (Legionario), Fabio Cavalli (Regista teatrale) Durata: 76’ Metri: 2100 15 Film ezione di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia a Roma. Il regista Fabio Cavalli inaugura il laboratorio teatrale con l’obiettivo di portare in scena il Giulio Cesare di William Shakespeare. I detenuti, che devono scontare condanne che vanno dai quindici mesi a “fine pena mai”, per criminalità organizzata, traffico di stupefacenti, omicidio e reati vari, sono chiamati a sostenere dei provini per aggiudicarsi i ruoli principali. Viene chiesto loro di esporre le proprie generalità, prima piangendo e poi con tono arrabbiato. Iniziano le prove e ciascuno recita nel suo dialetto d’origine, che sia romanesco o napoletano. I detenuti Striano e Rega si esercitano nei rispettivi ruoli, Bruto e Cassio, in cella o in alcuni spazi del carcere, dal momento che il teatro è ancora in fase di allestimento. L’attore scelto per interpretare Bruto non fa che provare in continuazione la sua parte, da solo in cella, oppure durante i lavori quotidiani. Sembra che ce l’abbia dentro quel personaggio, tanto da arrivare quasi ad immedesimarsi con esso. Il progetto finisce per appassionare un po’ tutti, dal regista agli attori (a distanza di anni dalle prime letture liceali, colui che impersona Cesare rivaluta il “suo” personaggio), passando addirittura per gli agenti di sorveglianza. Durante i sei mesi di lavorazione, le battute scritte da Shakespeare risvegliano nei detenuti vecchi ricordi e sopiti rancori. Finalmente è giunta l’ora della rappresentazione. Va in scena la battaglia decisiva sulla piana di Filippi, dove si aggira l’anima di Cesare che “grida vendetta”. Nell’ultima scena, Bruto chiede S Tutti i film della stagione disperatamente ai compagni di aiutarlo a morire. Alla fine è un tripudio di applausi in sala. Ma, terminato lo spettacolo, ognuno abbandona il suo personaggio e ritorna alla triste realtà della propria cella. a quando ho conosciuto l’arte sta’ cella è diventata una prigione» - dice l’eccellente capocomico Cosimo Rega/Cassio dopo la fine della recita. Una sofferta e intima “confessione” regalata al pubblico guardando direttamente dentro la macchina da presa, prima di preparare il rituale caffè e di iniziare l’ennesima giornata dietro le sbarre. Quando hanno ricevuto meritatamente l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2012 (il primo di una lunga serie di premi che li ha portati fino alla candidatura italiana all’Oscar), i fratelli Paolo e Vittorio Taviani hanno ricordato che questo film nasce da un dolore, grande, profondo. Quello di tanti detenuti che si sono macchiati di gravi colpe nella loro vita e che ora sono costretti a vivere in solitudine. Il cui unico orizzonte è il soffitto delle proprie celle, o un poster che raffigura il mare, davanti al quale si perde lo sguardo ipnotizzato del ragazzo che interpreta Lucio (poetico nel suo rapporto con l’inseparabile armonica). Condannati che, nonostante tutto, rimangono però degli uomini. Con una loro anima, una loro dignità. Uomini che probabilmente solo il potere salvifico dell’Arte, in questo caso del teatro, può aiutare a riscattarsi, a specchiarsi nella loro consapevolezza. Dalla sala piena e con il pubblico in piedi ad applaudire entusiasta, al «D 16 vuoto silenzioso di quello stesso luogo, il passo è breve. Cesare deve morire inizia e si conclude con l’atto finale dell’opera shakesperiana, come a sancire la circolarità di un racconto dove la vita rincorre continuamente la finzione scenica e viceversa. Fino ad arrivare al punto in cui i due piani si fondono e si confondono. E, a volte, in questo microcosmo in bianco e nero, senza tempo (siamo in un carcere di massima sicurezza ma potrebbe anche essere l’antica Roma) risulta perfino difficile distinguere dove finisce la tragedia e dove comincia invece la realtà. Nel testo teatrale si parla di onore, di vendetta, di tradimento, di giustizia («La giustizia non è uno scannatoio - dice Bruto - davanti alla proposta di far fare la stessa fine di Cesare ad Antonio. E noi siamo esecutori di giustizia, non macellai. Questo non è un assassinio, è un sacrificio). Tutte cose che i reclusi hanno conosciuto sulla loro pelle e che, per alcuni, grondano ancora sangue. Durante un dialogo tra Cesare e Decio, l’attore che veste i panni del protagonista esce per un attimo dalla parte per dire all’altro quello che pensa veramente di lui; improvvisamente interrompono le prove e si chiariscono fuori, mentre anche gli altri attori escono in fretta dalla stanza. È un momento di tensione autentica, quasi irreale, sottolineato dalle intense musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia. Come lo è quello successivo alla morte del “tiranno”, prima accerchiato e poi pugnalato (la cui solennità rivive grazie al fisico imponente di Giovanni Arcuri), in cui la grande agitazione che si alza tra il popolo romano ha il sapore di un’evasione di massa. Se la messa in scena è volutamente povera, essenziale, a tratti metafisica (gli ambienti sono quelli reali di Rebibbia), è perché risuonino più forte le parole. Come sentenze scolpite nella pietra. È perché siano i volti a parlare, grazie a dei primi piani densi di emozione e significato, in cui spicca soprattutto la figura di SalvatoreSasà Striano, un formidabile Bruto, oggi attore di teatro e di cinema dopo aver scontato la sua pena. Cesare deve morire è un film che ha veramente qualcosa di magico, un fascino immortale come la celebre opera che contiene al suo interno. Una strana creatura nell’asfittico panorama del cinema nostrano, un progetto “sperimentale” che, per il fatto di essere stato ideato e realizzato da due arzilli ottantenni (a fine carriera?), acquista ancor di più valore. Un valore altamente sociale, perché Film senza fini didascalici o di propaganda, riesce a raccontare la desolante realtà penitenziaria italiana (sempre meno al centro del dibattito politico) meglio di tanti docu- Tutti i film della stagione mentari e reportage televisivi. I Taviani ci consegnano insomma una lezione di civiltà, asciutta e universale, che premia l’impegno, il coraggio e la passione per la ve- rità. Una verità talmente forte da varcare anche le barriere di un carcere. Diego Mondella CHE COSA ASPETTARSI QUANDO SI ASPETTA (What to Expect When You’re Expecting) Stati Uniti, 2012 Regia: Kirk Jones Produzione: Alcon Entertainment, Lionsgate, Phoenix Pictures, What to Expect Productions Distribuzione: Universal Pictures International Italy Prima: (Roma 14-9-2012; Milano 14-9-2012) Soggetto: dal libro omonimo di Heidi Murkoff Sceneggiatura: Heather Hach, Shauna Cross Direttore della fotografia: Xavier Pérez Grobet Montaggio: Michael Berenbaum Musiche: Mark Mothersbaugh Scenografia: Andrew Laws Costumi: Karen Patch inque donne diverse si trovano a dover affrontare la gravidanza. Wendy, titolare di una boutique per neonati, è assolutamente decisa a credere nel miracolo della gravidanza perfetta, ma quando i sogni di radiosità si scontrano con le più realistiche nausee mattutine, tutti i suoi entusiasmi iniziali svaniscono di fronte ai chili in eccesso e a un mal di schiena deciso a non abbandonarla. Il marito Gary è in competizione da sempre con suo padre Ramsey, che da sempre sfoggia ricchezza, successo e belle donne. Anche lui è in attesa di un figlio dalla giovane compagna Skyler, che si prepara a diventare madre di due gemelle, senza scalfire minimamente una linea perfetta. Anzi, la sua condizione di top model sembra averla destinata a una maternità priva d’inconvenienti da sfoggiare con non chalance su dodici centimetri di tacco. Sorte simile è toccata anche a Jules, maniaca della forma fisica e del fitness che, dopo aver ballato con il ballerino professionista Evan sul palco di “Celebrity Dance Floor”, si trova a dover fare i conti con una gravidanza inaspettata e un rapporto di coppia tutto da costruire. Costretta a lasciare i suoi allenamenti e il famoso programma televisivo di dimagrimento, Jules si trova alle prese con una maternità sconosciuta e l’esigenza di portare avanti una carriera da star. La fotografa Holly e suo marito Alex, non potendo avere bambini, da tempo hanno presentato le pratiche per adottarne uno. Quando arriva la buona notizia i due coniugi vengono avvisati che il C Effetti: Hydraulx Interpreti: Cameron Diaz (Jules), Jennifer Lopez (Holly), Elizabeth Banks (Wendy), Chace Crawford (Marco), Brooklyn Decker (Skyler), Ben Falcone (Gary), Anna Kendrick (Rosie), Matthew Morrison (Evan), Dennis Quaid (Ramsey), Chris Rock (Vic), Rodrigo Santoro (Alex), Joe Manganiello (Davis), Rob Huebel (Gabe), Thomas Lennon (Craig), Amir Talai (Patel), Rebel Wilson (Janice), Wendi McLendon-Covey (Kara),Taylor Kowalski (JJ), Mimi Gianopulos (Molly), Jesse Burch (Hutch Davidson), Genesis Rodriguez (Courtney) Durata: 110’ Metri: 2960 loro bimbo li aspetta in Etiopia. Ma Alex non sembra convinto in pieno della decisione e per questo frequenta un gruppo di supporto per neo-papà dove viene istruito su ciò che lo aspetta. Muniti di passeggino e marsupio, ridotti a fare da baby sitter ai piccini al parco, frustrati e rosi da feroce invidia nei confronti di chi non si è ancora ridotto in schiavitù, il gruppetto dei padri cammina insieme e cerca di svelare allo scettico e impreparato Alex i segreti per sopravvivere all’arrivo di un figlio. Niente in confronto ai problemi della giovanissima Rosi, alle prese con un bambino in arrivo ancor prima del suo primo appuntamento con il rivale in commercio Marco. Dopo una sola notte passata insieme, la ragazza, chef del food trucks rivale di Marco, infatti rimane incinta. Nonostante il senso di inadeguatezza e la novità della situazione i due giovani decidono di portare avanti la gravidanza. Peccato che il loro entusiasmo sia smorzato sul nascere. Dopo i primi mesi infatti Rosi ha un aborto spontaneo. Il fragile rapporto tra i due si interrompe bruscamente. Jules accetta il fatto di mettere da parte la carriera e inaspettatamente si trova Evan al suo fianco. Holly e Alex partono per l’Etiopia carichi di paure e insicurezze. Gli ultimi giorni sono difficili per tutte le future mamme. Wendy, invitata in una trasmissione televisiva per sponsorizzare il suo negozio, invece che parlare della radiosità della sua maternità, in modo molto diretto e spontaneo fa un elenco di tutte le ripercussioni fisiche e psicologiche. Ma il grande mo- 17 mento è arrivato. Ognuna porta a termine con più o meno facilità la propria gravidanza. La nuova paternità fa riavvicinare Ramsey a suo figlio. Evan e Jules decidono di sposarsi, Holly e Alex emozionatissimi abbracciano il loro bambino etiope, Wendy trova finalmente la sua radiosità e Rosi si riavvicina a Marco e aprono un food trucks insieme. irk Jones, già regista di Svegliati Ned e Tata Matilda, nonché del remake americano di Stanno tutti bene con Robert De Niro, si ispira stavolta a un singolare best-seller: una guida per futuri genitori scritta da Heidi Murkoff e Sharon Mazel Che cosa aspettarsi quando si aspetta, da cui il film prende il titolo. Il film rientra nel genere commedia corale, con tutti i personaggi legati da un filo sottile e ha una struttura divisa in tre atti, che corrispondono ai tre trimestri di gravidanza vissuti da cinque coppie molto diverse. L’attenzione è rivolta soprattutto ai mutamenti emotivi che la dolce attesa porta nel soggetto femminile e alle conseguenze che questi hanno sulla relazione a due. Che la “dolce attesa” non sia esattamente ciò che ci hanno spesso e volentieri fatto credere e cioè uno stato di grazia che rappresenta il momento più esaltante nella vita di una donna con benefici effetti su visi radiosi ed estasiati, lo sapevamo già. Secondo alcune ricerche scientifiche i nove mesi di gravidanza dovrebbero essere il momento più esaltante nella vita di una donna. A parte il pre- K Film vedibile entusiasmo per un figlio in arrivo, il corpo si carica di nuova energia e la mente e la psiche di sensazioni positive. Ma siamo proprio sicuri che questa visione idilliaca rappresenti una verità assoluta? Tra nausee, gambe gonfie, stanchezza, ansia e sbalzi umorali sono solo alcuni dei piccoli “inconvenienti” che affliggono le donne incinte e la commedia tenta di usare meno filtri a favore di un maggiore realismo. C’è lo stato interessante che coglie di sorpresa un’impreparata celebrità televisiva legata al mondo del fitness; c’è il desiderio di maternità frustrato di una sposa sterile con il sogno dell’adozione; c’è la coppia di teenager che ha un rapporto occasionale finito in gravidanza indesiderata; ci sono i coniugi che si sentono continuamente inadeguati al confronto con parenti anche loro futuri genitori. Il ri- Tutti i film della stagione sultato è però una pellicola corale che non esce dalla banalità del già visto; una miscela che non riesce a essere esplosiva per via dei personaggi un po’ caricaturali, continuamente in preda a isterismi e inadeguatezze varie. Le vicende, pur avendo sviluppi diversi, hanno in comune le gioie e i dolori dettati da una gravidanza, le difficoltà di prepararsi a un evento che cambia inevitabilmente la vita, gli scontri tra idee contrastanti e soprattutto il miracolo di concepire e mettere al mondo una nuova vita. Nonostante vengano toccati temi delicati e importanti, come quello dell’adozione e dell’aborto, il film però non riesce a uscire da un buonismo e da una retorica piuttosto noiosi. La sceneggiatura non ha il sapore di una vera commedia, le battute comiche sono ridotte al minimo e quelle davvero divertenti sono poche. La più riu- scita è senza dubbio quell’adunata di papà esperti che si aggira per Central Park, guidando passeggini pieni di bebè urlanti. Il film basa dunque la sua forza in particolare su un cast di attori di sicuro richiamo, tuttavia non tutte le star convocate per l’occasione riescono a sollevare la commedia. E così la bella Cameron Diaz non convince appieno, appesantita da una vistosa protesi, e neanche la fascinosa Jennifer Lopez alle prese con il problema dell’adozione brilla per intensità, per non parlare della più alterata di tutte, una Elizabeth Banks, nevrotica e in preda all’isterismo. Non sono da meglio gli uomini che le affiancano, da un godereccio e sciupafemmine Dennis Quaid a un dubbioso futuro papà Rodrigo Santoro. Veronica Barteri FREERUNNER – CORRI O MUORI (Freerunner) Stati Uniti, 2011 Regia: Lawrence Silverstein Produzione: Warren Ostergard, Lawrence Silverstein, Jeremy Sklar per Vitamin A Films, Strategic Film Partners Distribuzione: Eagle Pictures Prima: (Roma13-7-2012; Milano 13-7-2012) Soggetto: Raimund Huber, Jeremy Sklar Sceneggiatura: Raimund Huber, Jeremy Sklar, Matthew Chadwick Direttore della fotografia: Claudio Chea Montaggio: Marc Jakubowicz Musiche: Jerry Deaton, Peter DiStefano yan Carter è un giovane che fa le pulizie nell’ospedale dove è ricoverato il nonno. Di sera si dedica alla sua vera passione, partecipando a gare di freerunning, corsa su strada, premiate con piccole somme in denaro. Si tratta di corse molto adrenaliniche, che accanto alla potenza atletica richiedono una prontezza di riflessi e una estrema spericolatezza. Ma il sogno del ragazzo, noto nel campo come il “demone della velocità”, è vincere abbastanza soldi per portare la sua bella fidanzata Chelsea e suo nonno fuori dalle baraccopoli di Metro City per andare a vivere lungo la costa. Dunque quando il boss mafioso locale Frank Reese organizza la finale di Freerun, promettendo un premio molto ghiotto, Ryan non può perdersi un’occasione del genere. Durante la competizione, però il ragazzo e i suoi compagni vengono chiu- R Scenografia: Jeremy Woolsey Costumi: Carla Shivener Interpreti: Sean Faris (Ryan), Danny Dyer (Mr. Frank), Tamer Hassan (Reese), Amanda Fuller (Dalores), Seymour Cassel (Nonno), Rebecca Da Costa (Chelsea), Mariah Bonner (Deedee), Casey Durkin (Stacey), Erica Stikeleather (Penny/Goth Chick), Phillip DeVona (Wall Street), Ryan Doyle (Finch), Joe Williams (II) (Turk), Warren Ostergard (Morris) Durata: 88’ Metri: 2420 si in uno scantinato e costretti a indossare collari esplosivi. Hanno sessanta minuti per finire la gara, una corsa a circuito chiuso attraverso la città in cui solo il vincitore continuerà a vivere. Chi uscirà dal percorso della “zona verde” o arriverà ultimo ai check point, fissato dalla parte opposta della città, sarà eliminato. L’eliminazione avverrà tramite un congegno esplosivo a orologeria collegato ai collari dei partecipanti che li farà esplodere in aria, anche qualora si tirassero indietro o decidessero di chiedere aiuto alla polizia. Una corsa all’ultima esplosione con in palio la vita e un milione di dollari, ma solo per il vincitore. Il tutto è stato organizzato da Mr. Frank, incallito giocatore d’azzardo, che non ha alcun rispetto per la vita umana, per il divertimento del suo sadico Club di miliardari, che scommette enormi cifre su l’uno o l’altro corridore. Ryan e i suoi amici, pur 18 abituati a prendersi grossi rischi e a spingere oltre ogni limite le loro capacità fisiche, si trovano ora improvvisamente a competere uno contro l’altro per sopravvivere. Mentre iniziano a morire i primi concorrenti, Ryan riesce a disattivare il congegno esplosivo del collare e a diffondere in rete un messaggio per denunciare Mr. Frank. Il malavitoso decide allora di rapire la sua ragazza per usarla come ostaggio, ma non sa che Ryan è disposto a tutto per salvarla. I miliardari del club vistisi smascherati decidono di ritirarsi dalle scommesse, minacciando vendetta contro l’organizzatore del gioco. Mr. Frank, braccato, fugge insieme a Chelsea, ma viene intercettato da Ryan che, posizionatogli al collo il collare, lo fa saltare in aria. Con i soldi presi al boss Ryan realizza il suo desiderio, compra una barca e vela e si imbarca con il nonno e la ragazza. Film L ungometraggio d’esordio di Lawrence Silverstein, Freerunner, corri o muori è un ritmato action concentrato sulla spettacolarità dell’arte metropolitana nata in Francia del “parkour”, formula già sperimentata con discreto successo in film del genere di produzione francese. La pellicola da un lato sembra recuperare i collari esplosivi anti-fuga di Sotto massima sorveglianza di Lewis Teague, dall’altro non può fare a meno che ricordare, nella variante sportiva, la sanguinolenta serie Hostel, incentrata su perversi ricchi impegnati a comprare poveri sventurati da torturare. La differenza è che questa volta abbiamo ricchi scommettitori che, anziché acquistare vittime da torturare, puntano su colui che sarà il vincitore, nonché l’unico personaggio a rimanere in vita. Il risultato, però, è l’ennesima critica su celluloide alle imposizioni dettate dal potere dei miliardi, su cui si innestano i tipici meccanismi da reality. Con- Tutti i film della stagione sueta caccia all’uomo, con i compagni eliminati uno ad uno, per il sollazzo dei soliti miliardari annoiati e spietati, col prode protagonista che da preda diventa predatore. I partecipanti hanno i minuti contati per giungere alla meta, solo uno potrà vincere, avendo salva vita e quindi è permessa e incentivata ogni cosa. Ma è tutto talmente veloce e frenetico da non lasciare neppure il tempo di essere coinvolti. Del resto, non è assente neppure una spruzzata di splatter all’interno di un tipo di immagine, che, già dai primi minuti di visione, a causa di una camera in continuo movimento, fa venire il mal di testa. L’impressione è quella di essere all’interno di un lungo videoclip o elaborato videogioco in cui le inquadrature sfilano veloci e la musica assordante sostituisce i dialoghi. Allo spettatore, allora, non rimane altro da fare che assistere alle diverse imprese acrobatiche. In pratica, la trama è quasi assente, i dialoghi scontati, lo sviluppo è prevedibile, con atmosfere poco approfondite e una caratterizzazione dei personaggi minimale, in quanto viene concesso maggior spazio ai continui balzi, salti mortali, fughe e scontri corpo a corpo dei personaggi. La camera a mano riprende, agitata da un movimento continuo, mentre il montaggio risulta talmente veloce da travolgere lo spettatore senza permettergli di recepire nella giusta maniera le emozioni trasmesse da quanto raccontato. In tutto questo poco originale sviluppo, i personaggi hanno la dimensione di figurine prive di cervello, che servono unicamente al passaggio al livello successivo. E neanche la prestanza e agilità fisica di Sean Faris riesce a incoraggiare la visione e renderla appetibile. Per fortuna che prima o poi arriva il game over. Veronica Barteri ON THE ROAD (On the Road) Francia, Brasile 2012 Regia: Walter Salles Produzione: Nathanaël Karmitz, Charles Gillibert, Rebecca Yeldham, Roman Coppola per MK2, Videofilmes, Jerry Leider Company in associazione con Vanguard Films, Film 4, in coproduzione con France 2Cinéma, con la partecipazione di France Télevisions, Canal+, Ciné+ Distribuzione: Medusa Prima: (Roma 11-10-2012; Milano 11-10-2012) Soggetto: dal romanzo omonimo di Jack Kerouac Sceneggiatura: Jose Rivera Direttore della fotografia: Éric Gautier Montaggio: François Gédigier Musiche: Gustavo Santaolalla Scenografia: Carlos Conti Costumi: Danny Glicker Interpreti: Garrett Hedlund (Dean Moriarty/Neal Cassady), Sam on l’arrivo di Dean Moriarty ebbe inizio quella parte della mia vita che si potrebbe chiamare la mia vita lungo la strada”: questa una delle prime frasi del libro di Kerouac e dello stesso film tratto dal libro. Abbiamo davvero a che fare con una storia lungo la strada che coinvolge i due protagonisti Sal Paradise (lo stesso scrittore) e il suo amico Neal Cassady, qui indicato, appunto, come Dean Moriarty. Intorno una serie di bohemiennes di San Francisco e del Greenwich Willage di New York, ragazzi agitati e malinconici, avidi di affetto e in piena ricerca di una ragione d’essere da rinvenire attraverso il sesso, il bere, la marijuana. Tutti pervasi da un moto per- “C Riley (Sal Paradise/Jack Kerouac), Kristen Stewart (Marylou/ LuAnne Henderson), Amy Adams (Jane/Joan Vollmer),Tom Sturridge (Carlo Marx/Allen Ginsberg), Danny Morgan (II) (Ed Dunkle/Al Hinkle), Alice Braga (Terry/Bea Franco), Marie-Ginette Guay (Ma Paradise), Elisabeth Moss (Galatea Dunkle/Helen Hinkle), Kirsten Dunst (Camille/Carolyn Cassady), Viggo Mortensen (Old Bull Lee/William S. Burroughs), Terrence Howard (Walter), Kaniehtiio Horn (Rita Bettancourt), Joey Klein (Tom Saybrook), Sarah Allen (Vicki), Kim Bubbs (Laura), Giovanna Zacarías (Puta Loca Roja), Rocky Marquette (Alfred), Coati Mundi (Slim Gaillard), Sona Tatoyan (Maggie), Madison Wolfe (Dodie), Patrick Costello (Chad King), LaFonda Baker (Dorothy Banks), Jacob Ortiz (Johnny), Murphy Moberly (Ray), Matthew Deano (Ray), Steve Buscemi (vendidore alto e magro) Durata: 137’ Metri: 3760 petuo (siamo tra il 1947 e il ’57) che li tenesse lontano dalla generazione dei vecchi e che potesse trovare una forma completa di espressione: per alcuni sarà la letteratura o la poesia, qui, per il personaggio di Dean Moriarty la distruzione completa del proprio essere. A Sal e Dean si aggiunge Marylou (“una graziosa biondina con una infinità di ricci come un mare di chiome dorate”), l’alter ego femminile di Dean a cui sarà sempre legata nella cosa considerata da lui unica e sacrosanta nella vita, cioè il sesso; con Marylou è lo stesso Sal a finire a letto, spinto proprio da Dean in una cementazione euforica della loro amicizia a tre. Al gruppo si accosta in periodi saltua19 ri, secondo gli intermezzi dei propri tour sessuali il poeta e amico amatissimo Carlo Marx, nella realtà Allen Ginsberg. Così, da New York a San Francisco e ancora a New York insieme e da soli, sempre uniti e pronti a lasciarsi per seguire improvvisi obiettivi personali (Sal raccoglie cotone negli sterminati latifondi del profondo sud e scarica sacchi di farina negli immensi granai dell’ovest), i due amici le provano proprio tutte: Dean sposa Camilla con cui ha due figlie ma continua a stare con Marylou, mentre corrono come pazzi per gli States in un turbine di esaltazione e tormento fisico e morale, avidi di vita e di avventure. Il tempo però è spietato: Sal riesce a Film utilizzare e convogliare le sue esperienze nel giornalismo e nei libri che diventeranno famosi mentre Dean non è in grado di abbandonare il proprio personaggio che lacero e alla deriva saluta Sal in giacca e cravatta che monta in macchina per andare a un concerto con un gruppo di amici. ragazzi della Beat Generation di Kerouac e i giovani arrabbiati inglesi, gli Angry Young Men hanno costituito le leve portanti di una spallata generazionale contro le vecchie strutture del costume e della società che, nonostante due guerre mondiali, praticamente resistevano fin dai primi anni del ‘900. La ragione d’essere di questa classe di giovani stava nel considerare la società in cui erano nati e si trovavano senza scelta a vivere, come il fulcro di un caos morale, intellettuale, culturale e sociale con cui non volevano avere nulla a che fare. Era una completa e assoluta spinta passionale che portava gli americani di Kerouac a dialogare così: “Dobbiamo andare avanti e non fermarci finchè non siamo arrivati”. “Dove andiamo?” “Non lo so ma dobbiamo andare”. E gli inglesi di Osborne (“Ricorda con rabbia”, 1956) “Perchè non vogliamo litigare? È l’unica cosa che so fare bene”. Già una grande differenza è rappresentata dalla due frasi: per i primi c’è stata la possibilità di esprimere la loro inquietudine passando da un’automobile all’altra (con alcol e droga come combustibile) attraverso i grandi territori a disposizione negli States; i secondi invece, alle prese con i piccoli spazi della vecchia Inghilterra, hanno potuto dibattersi e litigare negli ambienti ristretti di una casa. Mentre però i giovani inglesi hanno visto riportate innumerevoli volte sul palcoscenico e sullo schermo le I Tutti i film della stagione loro rabbie e le loro ansie, il libro di Kerouac è stato sempre un monolite senza riscontri, inspiegabile e dimenticato nel tempo. Lo stesso scrittore avrebbe voluto portarlo sullo schermo per farne una bandiera generazionale (con chissà quanti proseliti cinematografici), riservandosi la regia e la parte di Sal e offrendo quella di Dean a Marlon Brando, l’icona “selvaggia” di quei tempi. Non se ne fece però nulla come non andò in porto l’interesse di Ford Coppola che pure aveva rilevato i diritti negli anni ’70, troppo coinvolto allora, e per così lungo periodo, nella sua Apocalisse vietnamita. Ci sarà una ragione per tutto questo. Ricordiamo la vecchia definizione del cinema: “Una storia, una faccia”. Probabilmente qui le facce ci sono, quelle dei due protagonisti maschili (ma anche i volti degli altri sono preziosi) che ci regalano la loro forte intensità apparentemente senza ragione e quindi ancora più violenta e affascinante e la difesa spasmodica della loro libertà, soprattutto interiore. La storia però non c’è, il libro di Kerouac è intraducibile sullo schermo perchè lascia solo a chi legge la possibilità di trovare nella parola scritta l’esaltazione immaginifica delle proprie ansie giovanili, quelle voglie, quei turbamenti libertari che hanno coinvolto o anche solo lambito chi era giovane allora. Resta quindi una serie continua di scene slegate fini a se stesse, di ubriacature, grandi fumate d’erba, grandi botte di sesso: una ripetitività (137 minuti) che rende lo svolgersi degli eventi un perfido ma anche antipatico e noioso gioco dell’oca, dove i personaggi, pur correndo per gli States come forsennati, si ritrovano sempre al punto di partenza con le proprie aspirazioni, con la vita, con se stessi. E poi forse la cosa non funziona perchè tutti, autori e spettatori hanno la consapevolezza che il tempo è passato e che il tema del film rappresenti una specie di reportage, il documentario di un argomento datato, oggi ininfluente a paragone dei grandi problemi che devastano la società occidentale contemporanea. Nell’ultima scena, è lo stesso regista a riconoscerlo e dircelo: di fronte a un Sal Paradise che si è gettato dietro le spalle il periodo maledetto, pur conservandolo dentro di sé in maniera struggente, Dean Moriarty è rimasto uguale, inaffidabile, con le sue ubriacature e le sue instabilità, all’ultimo stadio di una discesa all’inferno che non rappresenta più alcuna metafora ma solo una definitiva, tristissima vecchiaia. Fabrizio Moresco TAKEN 2 – LA VENDETTA (Taken 2) Francia 2012 Regia: Olivier Megaton Produzione: Luc Besson per Europa Corp. Distribuzione: 20th Century Fox Italia Prima: (Roma 11-10-2012; Milano 11-10-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Luc Besson, Robert Mark Kamen Direttore della fotografia: Romain Lacourbas Montaggio: Vincent Tabaillon, Camille Delamarre Musiche: Nathaniel Méchaly Scenografia: Sébastien Inizan Costumi: Pamela Lee Incardona Effetti: Philippe Hubin Interpreti: Liam Neeson (Bryan Mills), Maggie Grace (Kim), Famke Janssen (Lenore), Rade Serbedzija (Murad), Leland Orser (Sam), Luenell Campbell (Bertha), Kevork Malikyan (Durmaz) Luke Grimes (Jamie), Alain Figlarz (Suko) Durata: 91’ Metri: 2500 20 Film ryan Mills, ex agente della CIA, è ormai separato da sua moglie Lenore che vive con la figlia Kim e il suo compagno Stuart. A Tropoia un gruppo di albanesi tra cui Murad vogliono vendetta per i figli che hanno perso. I figli erano gli stessi responsabili del rapimento della figlia di Brian narrato nell’episodio precedente e uccisi dall’agente Mill. Questi lo cercano per potersi vendicare; il loro desiderio è che Mills patisca quello che hanno subito i loro cari. In seguito a problemi con il nuovo marito, Lenore decide di andare a trovare Bryan su suo invito insieme alla figlia Kim a Istanbul. Durante un’uscita di coppia con la moglie (mentre la figlia rimane in hotel), Bryan si rende conto di essere inseguito dagli uomini di Murad. Cerca di salvare la moglie ma alla fine vengono entrambi catturati e imprigionati. La moglie viene sottoposta a torture ma grazie all’aiuto della figlia Kim guidata dal padre via telefono, i due vengono liberati e dopo diversi impedimenti riescono a salvarsi, a far fuori Murad il capo degli albanesi e a tornare in America sani e salvi. B Tutti i film della stagione I l regista Olivier Megaton cura molto la fotografia in questo film. Tropoia in Albania è lo stesso setting che si trova nel primo film, in più in Taken 2 le inquadrature della città di Istanbul sono molto suggestive, gli inseguimenti molto coinvolgenti, anche se per chi non ama il genere possono apparire un po’ troppo lunghi. Troppo banale il finale che si conclude come ogni famiglia ideale che si rispetti. Viene presentato il protagonista secondo i canoni americani di bravo padre di famiglia e ottimo difensore della patria. Una soluzione semplicistica al terrorismo e alla mafia . Può essere considerato un ottimo film da dvd , ben girato nel suo genere. Anche qui come nel prequel ci sono diversi inseguimenti in macchina ed esplosioni. Per capire cosa aspetta lo spettatore in questa nuova avventura targata Olivier Megaton basta cambiare setting e la persona rapita ( nel primo la figlia nel secondo la moglie) e il gioco è fatto. Come in altri film d’azione, alcune trovate sono piuttosto bizzarre e a dir poco ridicole come tutti i combattimenti a mani nude, quasi a sfidare le follie alla Tom Cruise nei vari Mission Impossible e il modo di farsi giustizia è piuttosto individualistico. Come nel primo film lo scopo del protagonista è salvare i propri cari a qualunque costo. Esponente del giustizionalismo “fai da te” chi non ha visto il primo film può pensare a Bryan Mills (alias Liam Neeson) come ad un agente in pensione; in realtà si tratta di un personaggio che vuole farsi giustizia da solo o come dice la moglie Lennie nel primo episodio “come di uno che ha sempre infranto le regole”. A questo è unita la figura di un padre ideale piuttosto premuroso che farebbe di tutto per la propria famiglia. Troppa violenza gratuita (in dosi minori rispetto a Taken) che non aggiunge niente all’intreccio narrativo. In Taken 2 anche questa dimensione che un po’ viene persa. Aggiungerei poi che i titoli dei due film sono piuttosto banali. Più realistico il primo film che affronta il tema del divorzio, i sequestri di persona e lo sfruttamento della prostituzione. Stavolta ci dovremo accontentare solo di “un frullato alla fragola” . Giulia Angelucci VIAGGIO IN PARADISO (How I Spent My Summer Vacation) Stati Uniti 2012 Regia: Adrian Grunberg Produzione: Bruce Davey, Mel Gibson, Stacy Perskie per Airborne Productions, Icon Productions Distribuzione: Eagle Pictures Prima: (Roma1-6-2012; Milano 1-6-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Adrian Grunberg, Stacy Perskie, Mel Gibson Direttore della fotografia: Benoît Debie Montaggio: Steven Rosenblum Musiche: Antonio Pinto Scenografia: Bernardo Trujillo Costumi: Anna Terrazas Effetti: Furious FX utto ha inizio con la vertiginosa fuga di un rapinatore a bordo di un’auto: sul sedile posteriore il corpo sanguinante del suo complice, che sputa sangue, che durante la corsa muore per emorragia interna e borse piene di milioni di dollari. La voce narrante, quella di Driver, racconta quello che sta accadendo: ha appena fatto un colpo da milioni di dollari che gli avrebbero permesso di fare una bella vacanza estiva. Una buona idea che lo porta in direzione sud. Mentre la polizia di frontiera lo sta inseguendo a tutta velocità, l’uomo capovolge la sua auto T Interpreti: Mel Gibson (Driver), Daniel Giménez Cacho (Javi), Jesús Ochoa (Caracas), Roberto Sosa (Carnal), Dolores Heredia (Madre del bambino), Kevin Hernandez (Bambino), Fernando Becerril (Direttore del Penitenziario), Jose Montini (Dottore di El Pueblito), Peter Gerety (Signore dell’Ambasciata), Patrick Bauchau (Chirurgo), Mayra Sérbulo (Infermiera), Gerardo Taracena (Romero), Mario Zaragoza (Vazquez),Tenoch Huerta (Carlos), Peter Stormare (Frank), Scott Cohen (Avvocato di Frank), Bob Gunton (Thomas Kaufmann), Dean Norris (Bill), Gustavo Sánchez Parra (Size 11), Boris Milaszenko (Gringo), Tom Schanley (Gregor) Durata: 95’ Metri: 2605 varcando il muro di confine, precipita violentemente e atterra in Messico. Fermato dalla polizia messicana, viene portato nella prigione di “El Pueblito”. Il penitenziario è una vera e propria città, anzi, una vera baraccopoli dove dominano solo violenza e corruzione. All’interno c’è di tutto: case fatiscenti, negozi che vendono qualsiasi tipo di merce, ristoranti e stand che vendono cibo di ogni genere, barbieri, un ufficio cambio, squadre sportive formate da detenuti, laboratori che producono ogni tipo di droga. In questo “inferno del crimine”, Driver cerca di sopravvivere strin21 gendo amicizia con un ragazzino di dieci anni accanito fumatore. È proprio il giovane a spiegargli che il vero “signore” di El Pueblito è Javi, un ricco trafficante malato di cirrosi che sta cercando il donatore di un fegato nuovo all’interno della prigione. Javi tiene sotto scacco gran parte dei detenuti e anche la madre del bambino che lavora per lui nel night della prigione intrattenendo i clienti. Parlando con la donna, Driver viene a sapere che Javi aveva ucciso il padre del bambino per avere il suo fegato e ora vuole l’organo del ragazzino perché in pos- Film sesso dello stesso suo raro fenotipo Bombay. Driver decide di aiutare il bambino e sua madre e uccide il cugino di Javi. Ora l’uomo è nel mirino del boss e di suo fratello. Ma gli eventi precipitano quando Driver denuncia Vasquez e Romero, i due poliziotti che lo hanno catturato e rinchiuso a El Pueblito, colpevoli di essersi impossessati dei suoi soldi. Le cose si complicano perché Frank, il boss cui sono stati rubati i soldi, è alle costole di Driver e Javi. Ma Driver promette a Javi di uccidere Frank in cambio del suo aiuto per evadere. L’uomo esce dal carcere sotto l’identità di Reginaldo Gomes, mentre Javi pensa di ucciderlo subito dopo che ha eliminato Frank. Driver si mette in contatto con l’avvocato di Frank. Dopo aver organizzato una trappola nell’ufficio del signor Kaufman, Driver riesce a eliminare Frank. Nel frattempo Javi e i suoi affrettano i tempi del trapianto e prendono il bambino. Javi vuole fare subito l’intervento; nella stessa notte però la polizia irrompe con la forza a “El Pueblito” per chiudere il penitenziario. Javi e i suoi medici compiacenti preparano l’operazione, ma, sul più bello, irrompe Driver che riesce a fermare tutto grazie anche al coraggio di una giovane infermiera. Driver scappa con il bambino e sua madre. Ora può davvero godersi il resto dell’estate su una spiaggia assolata. l vecchio Mel Gibson ‘action hero’ a tutto tondo è tornato. Smessi i panni del regista dalle velleità epiche e dal forte odore di sangue, il discusso divo torna a citare se stesso e la sua icona in una nuova commedia d’azione e chiama l’esordiente Adrian Grunberg (già suo assistente alla regia per Apocalypto) a dirigerlo (lasciando, si fa per dire, per sé i ruoli di co- I Tutti i film della stagione sceneggiatore, produttore e interprete principale). Incollatevi alla poltrona e ne vedrete, come al solito, delle belle. La cosa che colpisce di più di questo Viaggio in paradiso è che si tratta di un vero viaggio all’inferno: destinazione “El Pueblito”, un posto davvero unico. Un microcosmo terrificante, un mondo che sembra inventato ma che è davvero esistito e conosciuto come “la universidad del crimen”, un incubo di violenza, corruzione, sovraffollamento tipico di molte prigioni messicane. Ufficialmente chiamato El Centro de Readaptacion Social de la Mesa, “El Pueblito” fu costruito nel 1956 a Tijuana per ospitare 2.000 prigionieri nel quadro di un nuovo esperimento correttivo. Permettendo ai carcerati di rimanere vicino ai loro cari in prigione, avrebbe dovuto facilitare il loro reinserimento nel mondo esterno. E così intere famiglie vivevano dentro le mura della prigione mentre altre andavano e venivano. El Pueblito, letteralmente “Piccola Città” era una vera baraccopoli. C’era di tutto: ristoranti, stand e negozi di tutti i tipi, persino un barbiere, un parrucchiere e una “casa de cambio”. C’erano laboratori che producevano metanfetamine perché, naturalmente, qualsiasi tipo di droga era venduta apertamente. Il traffico era gestito da organizzazioni criminali i cui leader vivevano in una situazione privilegiata. Solo prigionieri con disponibilità di denaro godevano di una vita dignitosa mentre altri vivevano nella miseria e nella paura. Nell’agosto 2002, poche ore frenetiche di assedio degli agenti dell’esercito messicano misero fine a “El Pueblito” e alla strana società che viveva sotto scacco dei Maizerones, la potente cupola criminale che controllava di fatto la prigione. L’incubo del nostro prigioniero yankee comincia proprio quando entra in collisione con i “maiali che mangiano mais” (il significato di Maizerones) e sono guai. Forte è la sensazione che questo nuovo eroe di Gibson riassuma in sé le caratteristiche di alcuni celebri personaggi cui l’attore ha dato corpo e volto: dal folle poliziotto Martin Riggs della serie di Arma letale al ‘cattivo maestro’ di L’uomo senza volto (film con cui debuttò nella regia). Action movie dalle pennellate ‘dark’ e ‘pulp’, il film paga il debito a un certo cinema di Tarantino e del ‘mariachi’ Robert Rodriguez, soprattutto nella fase finale. Epica violenta e furente che sa tanto di operazione di rilancio di una star in fase discendente, complici impopolari eccessi di razzismo e violenza. Con un viso reso ancora più ruvido dal passare degli anni, Gibson indossa ancora un volta la maschera che gli è più congeniale (e non a caso la sequenza d’apertura lo ritrae con un travestimento da clown, indossato per l’ultima rapina) e carica di furore cieco la parabola del suo detenuto ‘gringo’. Eroe granitico, ancora una volta invincibile arma letale dai lampi di lucida follia, indole dal cuore impavido ma anche dalla sensibilità fuori dall’ordinario. Ecco di nuovo Mel Gibson (che arriva anche a imitare l’inimitabile vecchio Clint Eastwood in un crescendo di vendetta e furia cieca), aggiornato alla realtà di una prigione-bidonville messicana che sembra un girone infernale. Gli amanti del “gibson-centrismo” apprezzeranno e non mancheranno di gustarsi il loro eroe muoversi al ralenti in sequenze in pieno stile “duello al sole”. Elena Bartoni CENA TRA AMICI (Le prénom) Francia, Belgio 2012 Regia: Alexandre de la Patellière, Matthieu Delaporte Produzione: Dimitri Rassam, Jerôme Seydoux, Alexandre de la Patellière, Matthieu Delaporte, Serge de Poucques, Florian Genetet-Morel, Romain Le Grand, Adrian Politowski, Gilles Waterkeyn per Chaspter 2, Pathé, Tf1Film Production, M6 Films, Fargo Films, Nexus Factory, Ufilm Distribuzione: Eagle Pictures Prima: (Roma 6-7-2012; Milano 6-7-2012) Soggetto: dall’opera teatrale “Le prénom” di Alexandre de la Patellière e Matthieu Delaporte Sceneggiatura: Alexandre de la Patellière, Mathieu Delaporte Direttore della fotografia: David Ungaro Montaggio: Célia Lafitedupont Musiche: Jérôme Rebotier Scenografia: Marie Cheminal Costumi: Anne Schotte Interpreti: Patrick Bruel (Vincent), Valérie Benguigui (Élisabeth), Charles Berling (Pierre), Guillaume de Tonquedec (Claude), Judith El Zein (Anna), Françoise Fabian (Françoise), Yaniss Lespert (Porta pizze), Miren Pradier (Infermiera), Alexis Leprise (Apollin), Juliette Levant (Myrtille), Bernard Murat (Ostetrica) Durata: 109’ Metri: 3000 22 Film na cena tra amici in un appartamento borghese di Parigi come tanti in apparenza ma... con tanto sale in più. Il pretesto della cena è presto detto. Vincent, agente immobiliare di successo sulla quarantina, sta per diventare padre per la prima volta. Viene invitato a cena dalla sorella Elisabeth, detta Babou e da suo marito Pierre, entrambi docenti. Alla serata è invitato anche Claude, amico d’infanzia e musicista. Mentre aspettano l’arrivo di Anna, la moglie di Vincent perennemente in ritardo, Vincent viene incalzato da tante domande sulla sua futura paternità. Ma, quando gli viene chiesto se ha già scelto il nome del bambino, la sua risposta accende una miccia in tutta la compagnia. Sulle prime restio a rivelare il nome scelto per il nascituro, messo alle strette dalle domande incalzanti dei commensali, Vincent finisce per rivelare che il nome scelto è ... Adolphe. La risposta gela tutti e scatena subito dopo un diluvio di critiche. Il più avvelenato di tutti è il sinistrorso Pierre che parla di incoscienza e provocazione e di un atto fascista, accusando Vincent di aver fatto una vera e propria professione di fede. Per tutta risposta Vincent, giocando d’astuzia, risponde che suo figlio farà cambiare al mondo la fama di quel nome. Ma non passano molti minuti che Claude capisce che Vincent ha provocatoriamente mentito. Ottenuta a quattr’occhi la confessione che il nome realmente scelto è Henri, Claude è costretto a promettere di non svelare per ora il gioco. Nel bel mezzo della serata sopraggiunge Anna, che non smentisce la sua fama di ritardataria. Durante la cena, i commensali aggrediscono anche la madre del nascituro per la scelta infelice del nome. Ignara dell’equivoco, Anna risponde per le rime a Pierre e Babou dicendo di non accettare lezioni suoi nomi da due persone che hanno chiamato i loro figli Apollin e Myrtille. Vincent rincara la dose accusando Pierre di essere solo uno snob. Il professore a sua volta accusa Vincent di essere la quintessenza dell’egoismo. Di contro, Vincent accusa Pierre di essere un taccagno. Infine, viene chiamato in causa anche il mite Claude, accusato di essere gay. Dopo essere stato bersaglio silenzioso e remissivo dell’ironia di Vincent e Pierre, Claude finisce per confessare di avere una relazione con Françoise, la madre di Vincent e Babou. Non finisce qui, perché viene fuori che Anna era a conoscenza della cosa perché li aveva visti insieme. Su tutte le furie, Vincent finisce per aggredire fisicamente Claude scaraventandolo a terra: l’uomo si fa male sbattendo i denti su un tavolino. Anna litiga con il marito accusandolo di com- U Tutti i film della stagione portamento violento. Ma la notizia shock di quella relazione non va giù a Vincent, anche perché tra Claude e Françoise ci sono ventisei anni di differenza. Proprio nel mezzo della discussione, telefona Françoise, Babou finge indifferenza con la madre poi le passa Claude che risponde imbarazzato. Non passano molti minuti che anche la mite e paziente Babou scoppia in uno sfogo in cui tira fuori tutte le sue frustrazioni di moglie, madre e figlia repressa. Dopo che Babou è andata a dormire, Anna va via con Claude offrendosi di accompagnarlo a casa. Rimasti soli, Vincent e Pierre sfogano le loro insoddisfazioni coniugali. Prima di andare a letto, Pierre invita Vincent a rimanere a dormire lì sul divano. Quattro mesi e mezzo dopo, a sorpresa, Anna partorisce una femminuccia, la discussione sul nome si riapre. utto in una stanza, o quasi. Ma il ritmo certo non manca in questa Cena tra... (i puntini di sospensione sono d’obbligo) amici. In apertura bisogna fare una critica per la scelta del titolo italiano, questa volta davvero influente. Se è ormai abitudine consolidata banalizzare in lingua italiana un titolo originale, questa volta la “libera traduzione” è davvero penalizzante. Se non addirittura fuorviante. Se da un lato è vero che si tratta di una “cena tra amici”, è altrettanto vero che lasciare il titolo originale Le prénom avrebbe senza dubbio valorizzato l’ottima pellicola. Oltretutto di “cene tra amici” (con o senza cretino) e di “inviti a cena” (con o senza delitto) ne abbiamo visti a decine sul grande schermo, forse troppe. T 23 Qui, più che cenare, si discute (almeno nella parte iniziale) sulla scelta di un nome, scintilla (“granata stordente” come l’hanno definita i due registi) che porta a una lite familiare dalle impensabili conseguenze. Un gioco di intelligenti rimandi ruota sul tema del nome per tutto il film. A partire dai titoli di testa, dove dai nomi del cast sono rigorosamente esclusi i cognomi. Originale poi l’incipit, unico esterno del film, che segue il percorso di un ragazzo che consegna le pizze a domicilio, mentre si raccontano le tristi biografie dei personaggi a cui sono intitolate le strade percorse dallo scooter. Tratto da una pièce teatrale di Matthieu Delaporte e Alexandre de la Patellière (che ha registrato incassi record in tutti i teatri dove è stato rappresentato) e diretta per il grande schermo dagli stessi autori, Cena tra amici conferma lo stesso cast nel passaggio dal teatro al cinema. Con l’unica eccezione di Charles Berling, new entry nel film nel ruolo dell’intellettuale della gauche francese nonché padrone di casa Pierre. Divertente fuoco incrociato di battute, vera “giostra” verbale, scoppiettante girotondo di equivoci e incomprensioni, efficace quanto impietoso ritratto della media borghesia francese (ma non solo). I bersagli degli autori colpiscono forte, da una parte e dall’altra: da un lato l’élite di sinistra radical-chic e intellettuale che si crogiola nei suoi saldi principi e nel suo background culturale di cui è perfetto rappresentante il colto professore Pierre e dall’altro una certa destra, ricca, egocentrica, esibizionista, talvolta un po’ ignorante e arrogante perfettamente incarnata da Vincent (ruolo che sembra cucito addos- Film so al poliedrico artista francese Patrick Bruel). Ma tutti e cinque i personaggi sono delle “maschere” che si indossano nella vita quotidiana, ognuno interprete della propria caricatura, personaggi incastrati alla perfezione, tra leader e dominati, almeno fino all’esplosione del “non detto”. Molto democraticamente, nel corso del film ognuno dei personaggi è, con perfetta scelta di tempo, sua volta carnefice e vittima. Cena tra amici è un altro esempio di sapiente e dosato mix di leggerezza e intelligenza ‘made in France’ dopo i felici esiti Tutti i film della stagione di pellicole come Quasi amici (che ha demolito molti record di incassi) e Piccole bugie tra amici, interessante “grande freddo” d’Oltralpe. Un consiglio agli spettatori, non pensate a Carnage, perché, al di là del gruppo di borghesi intenti a discutere in un salotto e destinati a sollevare impietosamente il velo su tante ipocrisie, di similitudini ce ne sono davvero poche. A cominciare dal fatto che nel film di Polanski le due coppie che si incontrano sono composte da quattro sconosciuti mentre qui il quintetto è le- gato da parentele e amicizie di vecchia data (ma ci si conosce poi davvero così bene?). In questa Cena tra amici si compie davvero un piccolo miracolo di sceneggiatura, riscritta e riadattata magistralmente dai due autori per il grande schermo, che trabocca di risate, boutade efficacissime, colpi di scena, ritmo. Finale scoppiettante (in tutti i sensi) con sorpresa (e ghigno), fuori dal salotto. Da non perdere. Elena Bartoni VIVA L’ITALIA Italia, 2012 Regia: Massimiliano Bruno Produzione: Fulvio e Federica Lucisano per Italian International Film in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Prima: (Roma25-10-2012; Milano 25-10-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Massimiliano Bruno, Edoardo Falcone Direttore della fotografia: Alessandro Pesci Montaggio: Patrizio Marone Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia Scenografia: Sonia Peng Costumi: Alberto Moretti ichele Spagnolo è un uomo politico che ha fatto una brillante carriera nel partito e negli incarichi di governo senza farsi scrupolo di niente e di nessuno, corrompendo e facendosi corrompere quando occorreva per raggiungere un obiettivo utile per sé o per la sua famiglia. In questo modo, ha potuto aiutare i suoi tre figli che senza di lui ben poco avrebbero combinato: Susanna, attrice di soap opera e di programmi televisivi di infimo livello continua a lavorare nonostante la terribile pronuncia che necessiterebbe dell’intervento di un logopedista più che di un insegnante di recitazione; Valerio è un dirigente di un’impresa che gestisce mense aziendali e potrebbe adirittura ambire, pur senza capire nulla di bilanci e di economia aziendale alla nomina di amministratore delegato; Riccardo, pur essendo un ottimo medico ospedaliero non sarebbe stato assunto senza la telefonata di papà. Succede però che Michele, in seguito a un malore accadutogli durante l’incontro con un’escort, sia colpito da una strana sindrome che gli fa perdere i freni inibitori e lo lascia libero di dire tutto quello che gli passa per la testa con tutte le M Interpreti: Raoul Bova (Riccardo Spagnolo), Alessandro Gassman (Valerio Spagnolo), Michele Placido (Michele Spagnolo), Ambra Angiolini (Susanna Spagnolo), Edoardo Leo (Marco), Maurizio Mattioli (Antonio), Rocco Papaleo (Tony), Rolando Ravello (Giansanti), Sarah Felberbaum (Valentina), Imma Piro (Giovanna), Camilla Filippi (Elena), Barbara Folchitto (Anna), Nicola Pistoia (Roberto D’Onofrio), Valerio Aprea (Il regista), Ninni Bruschetta (Se stesso), Stefano Fresi (Santini), Remo Remotti (Annibale), Isa Barzizza (Marisa), Sergio Fiorentini (Cesare), Lucia Ocone, Sergio Zecca, Edoardo Falcone, Maurizio Lops, Urbano Lione. Durata: 111’ Metri: 2780 immaginabili conseguenze. Così i tre figli che si sono sempre detestati e visti poco si trovano costretti a turno a fare la guardia al padre perchè non ne combini qualcuna di troppo e a sfruttare, quasi inconsapevolmente, questa loro obbligata frequentazione per darsi da fare, ora che il potere del padre si è completamente sgonfiato e diventare persone che più responsabilmente si facciano strada con le proprie forze. Susanna, sotto la spinta del suo bodyguard innamorato di lei risolve i suoi problemi ortofonici con una logopedista divenendo un’interprete più che capace; Valerio si rompe la testa sui bilanci, grazie all’aiuto di un collega bravissimo ma privo di appoggi carrieristici e ottiene la nomina ad amministratore delegato (anche se risultano determinanti alcuni documenti forniti dal padre capaci di ricattare i colleghi del consiglio di amministrazione); Riccardo riesce a salvare dalla chiusura il suo reparto ospedaliero e a scoprire il doloso comportamento del suo primario. Lo stesso Michele si presenta in conferenza stampa per ammettere il cattivo comportamento di una vita e mettersi a disposizione della magistratura. 24 assimiliano Bruno fa da “entertainer” agli episodi del suo film leggendo semplicemente alcuni articoli fondamentali della nostra carta costituzionale per illustrare ciò che è sotto i suoi occhi e quelli di tutti: la corruzione dei politici, l’immoralità dell’ingresso nel mondo del lavoro solo con le raccomandazioni, gli scandali sessuali, la sanità da terzo mondo difesa da pochi, eroici paladini, insomma una serie di esempi del vasto campionario di aberrazione che ha connotato questo nostro disgraziato Paese. Naturalmente Bruno tiene la barra fissa sulla commedia e quindi l’orrore è virato in grottesco e l’amarezza porta alla risata che difficilmente assume però un carattere liberatorio quanto piuttosto la sottolineatura della verità da cui chi ride non può prescindere e quindi ride amaro, sbigottito e indifeso dal racconto di tanto fango. A realizzare la chiave interpretativa di base cioè la Costituzione come “capolavoro di fantasia e umorismo” se rapportata con quanto realizzato sotto la sua presunta guida, c’è uno stuolo di attori consumati e di alto livello professionale che ci accompagnano come tanti Virgilio in mez- M Film zo a una classe dirigente che ha messo in ginocchio il Paese. È una valanga di situazioni che Placido, Gassman, Bova, Papaleo, la Angelini e tutti gli altri padroneggiano con grande senso dell’humour e una precisa capacità di rispondere a temi e a ritmi da Commedia dell’Arte così spinti al- Tutti i film della stagione l’eccesso da farci dimenticare amaramente in più di un’occasione che si tratta di una sequenza terribile di terribili verità. Il monologo finale di Placido è un grande pezzo di bravura, la summa delle capacità di un nostro attore che dobbiamo continuare a tenerci ben stretto e a lungo, il violento pamphlet su quanto è stato il recente passato per tutti noi e la base di quello che può essere costruito per il futuro. Basterà? Fabrizio Moresco CHEF (Comme un chef) Francia 2012 Regia: Daniel Cohen Produzione: Gaumont, Tf1 Films Production, A Contracorriente Films, Ufilm, Ina Associazione con Backup Films Distribuzione: Videa - Cde Prima: (Roma 22-6-2012; Milano 22-6-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Daniel Cohen Direttore della fotografia: Robert Fraisse Montaggio: Géraldine Rétif Musiche: Nicola Piovani Scenografia: Hugues Tissandier Costumi: Emmanuelle Youchnowski Effetti: Guy Monbillard, Nicolas Borens arigi. Jacky Bonnot è un trentenne amante della buona cucina e dotato di talento che sogna di diventare un cuoco di successo e gestire un grande ristorante. La sua situazione finanziaria precaria (per di più ha una compagna incinta), lo costringe ad accettare piccoli lavori che non riesce mai a tenersi. Spesso lavora per bistrot dove i clienti vogliono mangiare solo cibi “mordi e fuggi” e dove la sua creatività non viene capita. Licenziato dall’ennesimo ristorante, è costretto ad accettare un lavoro da imbianchino in una casa di riposo per sostenere le spese di un ménage familiare che sta per allargarsi. Mentre è al lavoro, incontra per caso Alexandre Lagarde chef pluristellato la cui fama è minacciata dal gruppo finanziario proprietario del suo ristorante, il Cargo Lagarde. Alexandre non corrisponde più all’immagine del gruppo perché costa troppo e rischia di essere licenziato, soprattutto se, in occasione della presentazione del nuovo menu di primavera di fronte a un gruppo di severi critici gastronomici, perderà una stella nella valutazione. Colpito dalla fantasia creativa di Jacky che, nonostante il lavoro da imbianchino non perde occasione di entrare nelle cucine dell’ospizio per suggerire originali ricette, Alexandre lo assume per uno stage sperando che lo aiuti a mantenere alta la fama del suo ristorante. Jacky, entusiasta, accetta anche se lo stage è gratuito ed è quindi costretto a tenerlo nascosto alla P Interpreti: Jean Reno (Alexandre Lagarde), Michaël Youn (Jacky Bonnot), Raphaëlle Agogué (Béatrice), Julien Boisselier (Stanislas Matter), Salomé Stévenin (Amandine), Serge Larivière (Titi), Issa Doumbia (Moussa), Mean Bun-hay (Chang), Pierre Vernier (Paul Matter), Santiago Segura (Juan), Geneviève Casile (Madre di Béatrice), André Penvern (Padre di Béatrice), Rebecca Miquel (Carole), James Gerard (Cyril Boss), Henri Payet (Thibault), Kentaro (Akio Takenaka), Alban Aumard (Serge Paillard), Ginnie Watson (Marion), Pierre Aussedat (Gérard de Luz) Durata: 84’ Metri: 2300 compagna Beatrice. Jacky mette la sua fantasia per modificare le ricette di Lagarde che non vede di buon occhio quei cambiamenti. Il famoso chef va su tutte le furie quando Jacky “cita” una sua vecchia ricetta. Lagarde licenzia il giovane aiutante, ma subito dopo si pente e lo riassume. Intanto la posizione di Alexandre è sempre più in bilico: tra breve nel suo ristorante verranno dei critici amanti della nuova cucina molecolare per giudicare il suo menu. Le cose si complicano anche per Jacky: le sue bugie vengono scoperte dalla moglie che scappa fuori Parigi. Lagarde accompagna il giovane cuoco a Nevers a recuperare Beatrice che si trova coi genitori a cena nel ristorante di proprietà di Carole, una donna affascinante che colpisce Alexandre. Grazie all’intervento di Lagarde, Jacky fa la pace con Beatrice. I due chef tornano a Parigi e Jacky convoca un cuoco spagnolo celebre per le sue creazioni di cucina molecolare. Dopo un’ardita dimostrazione culinaria, Lagarde confessa di essere esausto di quella nuova cucina “magica” tanto di moda. Ma il tempo stringe e Alexandre ha solo due giorni per inventare un nuovo menu. In compagnia di Jacky, lo chef si reca in perlustrazione nel ristorante più “in”specializzato in cucina molecolare. Travestiti come una coppia di coniugi giapponesi, i due assaggiano specialità come champagne all’azoto, vino senza alcool e uva e strani dessert dai colori sgargianti. Dopo aver rubato dei 25 “campioni” di cibo, i due chef se la danno a gambe. Il giorno dopo è attesa la visita dei critici gastronomici al Cargo e contemporaneamente la discussione della tesi di laurea della figlia di Alexandre. Come se non bastasse, Beatrice ha le doglie. Il mattino dopo, Alexandre manda Jacky a occuparsi del ristorante decidendo per una volta di dedicarsi a sua figlia, dopo una vita da padre assente. Dopo aver preparato un’abbondante colazione per la ragazza, Lagarde la segue all’università. Intanto al ristorante è emergenza: i frigoriferi sono vuoti e Jacky è disperato. Al telefono dall’ospedale Beatrice lo incoraggia ad andare fino in fondo mentre gli annuncia la nascita della figlia. Il giovane chef fa la spesa in un piccolo negozio di alimentari riuscendo a tempo di record a preparare un nuovo menu. I critici sono senza parole, il nuovo menu di primavera del Cargo Lagarde è eccezionale perché capace di coniugare alla perfezione tradizione e innovazione. In sala tutti richiedono la presenza di Lagarde per complimentarsi, ma lo chef, giunto in extremis, raccoglie gli applausi confessando che il menu è opera del giovane Jacky Bonnot presentandolo come il nuovo chef del Cargo e annunciando il suo ritiro. Per riconquistare Beatrice, Jacky chiede subito un contratto di lavoro. Poi, ottenuta in prestito la Maserati del suo datore di lavoro, si reca da sua moglie. Grazie al suo nuovo chef, il Cargo Lagarde ha mantenuto la sua terza stella. Film Alexandre ha lasciato Parigi e ora lavora a Nevers nel piccolo ristorante della bella Carole. hef, una parola (per meglio dire, un mestiere) di gran moda. Dopo l’ultima “trovata” in fatto di cucina, con i più grandi cuochi di Francia intenti a uscire dai loro ristoranti-santuari e a “scendere in strada” per servire le loro raffinate creazioni a bordo di un bus che il prossimo settembre farà tappa nei luoghi più suggestivi di Parigi, anche il cinema d’Oltralpe entra prepotentemente in cucina. Non che non fosse già successo più volte in passato, di “commedie gastronomiche” se ne sono viste già parecchie sul grande schermo, talvolta anche molto “gustose”. Ma ormai la cucina è proprio una mania dilagante e, dopo innumerevoli programmi televisivi che insegnano a cucinare praticamente a tutti i livelli, libri bestseller pieni di ricette di qualsiasi tipo, talent-show a colpi di mattarelli e sac-à-poche, ecco la chef-mania sbarcare sul gran- C Tutti i film della stagione de schermo. Un piatto light cucinato con mano delicata dal regista Daniel Cohen, vero divertissement culinario, Chef mescola gli ingredienti leggeri della commedia gastronomica con poco pepe e molto zucchero. Tipica grazia d’Oltralpe, niente di più. Ma sufficiente a sollevare lo spirito. La commedia percorre il facile binario dei contrasti: tradizione contro modernità, cucina francese tradizionale contro la nuova “cucina molecolare”, un giovane cuoco alle prime armi contro un maturo e navigato chef in crisi d’ispirazione. Dicotomie, dualismi. E ancora, metropoli contro cittadina, grandi ristoranti con stucchi alle pareti e piccoli ristoranti di provincia. E poi, manager che devono far quadrare i conti, programmi televisivi dai grandi ascolti a base di ricette, fidanzate in dolce attesa, figlie laureande trascurate da padri assenti. Sullo sfondo, sorniona, la Parigi della Torre Eiffel e del Trocadero. Come salsa di accompagnamento, il tocco “made in Italy” delle musiche spensierate di Nicola Piovani. Certo, tutto è più o meno scontato e fin dai primi minuti si intuisce dove le vite dei due cuochi andranno a parare. Ma i due interpreti sono davvero indovinati e capaci di dosare al meglio le loro qualità istrioniche, Jean Reno è perfetto nel ruolo di uno chef pluripremiato e Michaël Youn è capace di usare la sua inconfondibile mimica facciale e metterla al servizio di un personaggio un po’ folle ma anche tenero, un simpatico bugiardo, un genio incompreso dei fornelli (“mi chiamano il Mozart del piano... di cucina, ovviamente!” dice di sé). Il richiamo a L’ala o la coscia (1976), riuscita commedia culinaria con un grande Louis de Funès, è evidente, anche se a Chef manca quella dose di graffio sociale del film di Claude Zidi. Insomma, se quello che state cercando è un piatto delicato, scacciapensieri e sentimentale, ecco il film che fa per voi. Ma se cercate qualcosa di più “deciso” evitate commediole come questa. Elena Bartoni 21 JUMP STREET (21 Jump Street) Stati Uniti, 2012 Regia: Phil Lord, Chris Miller Produzione: Stephen J. Cannell, Neal H. Moritz per Original Film, Cannell Studios, in associazione con Relativity Media Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia Prima: (Roma 15-6-2012; Milano 15-6-2012) Soggetto: Stephen J. Cannell (dalla serie Tv), Patrick Hasburgh (dalla serie Tv), Michael Bacall, Jonah Hill Sceneggiatura: Michael Bacall Direttore della fotografia: Barry Peterson Montaggio: Joel Negron Musiche: Mark Mothersbaugh Scenografia: Peter Wenham Costumi: Leah Katznelson a serie televisiva “di culto” degli anni Ottanta “21 Jump Street” diventa film. Il celebre indirizzo del titolo si riferisce al liceo dove nel 2005 due giovani poliziotti, Schmidt e Jenko, sono stati nemici. In seguito, iscrittisi entrambi all’Accademia di Polizia, sono diventati amici. Ora, sette anni dopo, anche se non sono certo i migliori poliziotti del mondo (anzi, a dire il vero, sono davvero dei pasticcioni), ai due viene offerta la possibilità di cambiare la situazione quando entrano a far parte dell’unità segreta delle forze di polizia Jump Street, diretta dal Capitano Dickson. Così i due re- L Effetti: DuMonde Vfx, Pixel Magic Interpreti: Jonah Hill (Schmidt), Channing Tatum (Jenko), Brie Larson (Molly Tracey), Dave Franco (Eric Molson), Rob Riggle (Sig. Walters), Ice Cube (Capitano Dickson), DeRay Davis (Domingo), Dax Flame (Zack), Chris Parnell (Sig. Gordon), Ellie Kemper (Griggs), Jake M. Johnson (Preside Dadier), Nick Offerman (Vice capo Hardy), Holly Robinson Peete (Agente Judy Hoffs), Johnny Pemberton (Delroy), Stanley Wong (Roman), Justin Hires (Juario), Brett Lapeyrouse (Amir), Lindsey Broad (Lisa), Caroline Aaron (Annie Schmidt), Joe Chrest (David Schmidt),Geraldine Singer (Phyllis), Dakota Johnson (Fugazy), Rye Rye (Jr. Jr.) Durata: 109’ Metri: 3000 stituiscono distintivo e pistole e, armati di uno zainetto, devono sfruttare il loro aspetto giovanile per lavorare sotto copertura nel liceo di Jump Street. Nella scuola gira un nuovo tipo di droga sintetica. La missione è scoprire chi la spaccia e chi è il fornitore. Il problema è che gli adolescenti di oggi non hanno nulla a che vedere con quelli di qualche anno fa, come erano loro. I due agenti scoprono, così, che quello che pensavano degli adolescenti è tutto sbagliato ma soprattutto si accorgono che entrambi non hanno risolto i loro problemi e devono confrontarsi con le paure e con l’ansia di essere nuovamente adole26 scenti. Nascosti sotto due nuove identità, Brad e Doug, i due non conoscono il nuovo mondo giovanile e ne combinano una dietro l’altra. Oltretutto si scambiano per errore i compiti e così l’impacciato e grassoccio Schmidt assume l’identità di Doug trovandosi a contatto con i tipi più “giusti” della scuola capitanati dal fascinoso leader Eric, mentre il fusto Jenko con il nome di Brad deve vedersela con una classe di chimica piena di secchioni. Entrati in contatto con un piccolo spacciatore, i due sperimentano la nuova droga passando attraverso diverse fasi: dal vomito all’euforia, dall’eccesso di falsa sicurezza Film alla sonnolenza. Usciti dall’effetto della sostanza, non hanno ancora trovato la pista da seguire per capire chi sia il vero spacciatore. Doug-Schmidt entra sempre di più nel giro di Eric e si invaghisce della bella Molly distraendosi dal suo compito, mentre Brad-Jenko fa colpo sulla professoressa della classe di chimica. Il Capitano Dickson ammonisce i due agenti e li riporta ai loro doveri: la droga si sta espandendo in tutta la scuola e devono trovare assolutamente lo spacciatore. Dopo una serie di pedinamenti e dopo aver percorso una serie di false piste, i due riescono a risalire al vero fornitore: si tratta dell’insegnante di educazione fisica Walters. Una serie di vorticosi inseguimenti li portano a una resa dei conti con un gruppo di motociclisti. Finalmente i due agenti riescono a catturare Walters. Come ciliegina sulla torta, Schmidt a sorpresa conquista il cuore di Molly. I due giovani sbirri rientrano al loro distretto festeggiati come veri eroi. Ma devono ancora vedersela col loro capo che ha in serbo per loro una nuova missione. i nuovo una coppia comica, di nuovo due tipi che più diversi non si può, di nuovo due poliziotti. Ma questa volta si tratta di due giovanissimi sbirri, ancora molto imbranati con pistole, manette e inseguimenti. Ennesima rivisitazione del gioco degli opposti, da un lato un bullo belloccio e D Tutti i film della stagione ignorante come una capra, dall’altro il classico secchione grassoccio e imbranato. Infiltrati speciali in un liceo (grazie alla loro giovane età possono ancora farsi passare per studenti) ne combinano, neanche a dirlo, di tutti i colori. Il film è la rivisitazione parodistica della celebre serie televisiva 21 Jump Street che, andata in onda per cinque stagioni (dal 1987 al 1991), lanciò il giovane Johnny Depp facendolo diventare un idolo delle ragazzine. E proprio il divo maturo fa la sua comparsa a sorpresa (non accreditata) in una movimentata scena finale. Una ciliegina su una torta piuttosto tradizionale, una classica teen comedy che vira in direzione action nel finale. A onor del vero va sottolineato che la squadra di lavoro è di tutto rispetto, almeno sulla carta,: lo sceneggiatore Michael Bacall è lo stesso che ha scritto la commedia Project X – Una festa che spacca, la coppia di registi (Phil Lord e Christopher Miller) è la stessa del successo d’animazione Piovono polpette, i produttori sono nomi di grande esperienza come Neal H. Moritz (tra i suoi assi nella manica la serie di The Fast and the Furious) e Stephen J. Cannell (uno degli ideatori e co-sceneggiatori della serie televisiva cui il film è ispirato). Certamente indovinata la coppia dei protagonisti: il talentuoso emergente “faccione” di Jonah Hill (che ha sorpreso accanto a Brad Pitt in L’arte di vincere) e il belloccio Channing Tatum (che ha mostrato i suoi potenti bicipiti sotto la corazza dell’antico romano nell’epico The Eagle); giusti tipi per dar vita alla coppia protagonista di sbirri in erba. Il bello è proprio nell’inaspettata inversione di ruoli una volta tornati tra i banchi: e così il “figo” si trova ad avvicinarsi agli “sfigati” occhialuti della classe di chimica e l’ex studente “nerd” si trova gomito a gomito con i tipi più “cool” della scuola. Al di là della storia che ruota attorno al mix droga-alcool-musica, ovvero le passioni degli adolescenti di ieri come di quelli di oggi, rispetto ai tanti esempi di film tratti da serie televisive “di culto” (da Charlie’s Angels a Starsky & Hutch), questo 21 Jump Street regala un pizzico di pepe in più semplicemente perché si distacca parecchio dalla sua fonte d’ispirazione, di cui resta poco più che un omaggio. Le trovate divertenti non mancano: dai diversi gradi di sballo conseguenti all’assunzione della nuova micidiale droga sintetica, fino al vorticoso inseguimento finale con fulminei cambi di auto in corsa sulla tangenziale all’ora di punta. Parafrasando il grande successo d’animazione del duo di registi, si può affermare che questa volta, dalle parti del civico 21 di Jump Street, piovono... risate! Ma attenzione, solo e soltanto quelle. Elena Bartoni UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA (De rouille et d’os) Francia, Belgio 2012 Regia: Jacques Audiard Produzione: Jacques Audiard, Martine Cassinelli, Pascal Caucheteux, Antonin Dedet e Alix Raynaud per Why Not Productions, Page 114, France 2 Cinéma, Les Films du Fleuve, Rtbf, Lumière, Lunanime Distribuzione: Bim Prima: (Roma 4-10-2012; Milano 4-10-2012) Soggetto: dalla raccolta di racconti “Ruggine e Ossa” di Craig Davidson Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain Direttore della fotografia: Stéphane Fontaine lì vive nel nord della Francia, solo e precario. Improvvisamente nella sua vita entra Sam, il figlio di cinque anni che conosce appena. Senza un tetto né un soldo neanche per mangiare, i due trovano accoglienza a sud, ad Antibes, in casa della sorella di Alì. Dopo un breve periodo di assesta- A Montaggio: Juliette Welfling Musiche: Alexandre Desplant Scenografia: Michel Barthélémy Costumi: Virginie Montel Interpreti: Marion Cotillard (Stephanie), Matthias Schoenaerts (Ali), Armand Verdure (Sam), Céline Sallette (Louise), Corinne Masiero (Anna), Bouli Lanners (Martial), Jean-Michel Correia (Richard), Mourad Frarema (Foued) Durata: 120’ Metri: 3300 mento, tutto sembra essersi sistemato. Il giovane padre, con un passato da pugile, trova lavoro come buttafuori in una discoteca e il piccolo Sam riprende ad andare a scuola. Tuttavia Alì non ha l’indole del genitore, è violento e poco paziente e spesso si dimentica del figlio per coltivare i suoi interessi, la boxe e le 27 donne. Una sera, nel locale in cui lavora conosce Stéphanie, una bella ragazza che viene malmenata durante una rissa. La accompagna a casa scoprendo che è un’addestratrice di orche e le lascia il numero di telefono in caso di necessità. Le loro vicende sembrano separarsi definitivamente, ma in seguito ad un dram- Film matico incidente, le loro strade si rincontrano. Infatti Stéphanie durante un’esibizione a causa di un’orca perde l’uso delle gambe che le vengono amputate. La donna distrutta psicologicamente chiama Alì: tra i due si instaura un rapporto di crescente intimità, non privo però di tensioni e incomprensioni. Grazie ad Alì, Stéphanie ritrova la voglia di vivere, di uscire, andare al mare e stare tra la gente senza doversi trovare in imbarazzo per la sua situazione. Si fa anche costruire su misura delle protesi di acciaio per poter camminare di nuovo. Iniziano ad avere rapporti sessuali, ma mentre Alì li vive solamente come uno sfogo fisico, Stéphanie dà a quei momenti e alle sensazioni vissute un significato molto diverso. Intanto Alì si lascia invischiare in un giro di affari illeciti, instaurando telecamere all’interno di uffici e negozi per sorvegliare i dipendenti. Nel tempo libero viene trascinato a incontri clandestini di lotta, entrando così nel losco giro delle scommesse. Trascina con lui anche la ragazza che assiste curiosa e impaurita agli incontri. Presto, per colpa delle telecamere montate da Alì la sorella (che portava a casa prodotti scaduti) perde il posto al supermercato in cui lavorava. In altre aziende vengono trovate le telecamere e Alì è costretto a dimettersi dal lavoro. Cacciato anche dalla sorella, l’uomo abbandona il figlio e la donna senza dare più notizie e scappa a Bruxelles dove inizia ad allenarsi per i campionati di boxe. Dopo qualche tempo, il cognato gli porta il figlio per trascorrere una giornata insieme. Padre e figlio sembrano essersi ri- Tutti i film della stagione trovati, giocano a scivolare su un lago ghiacciato, quando in un attimo di distrazione Sam cade nell’acqua. Alì disperato, a mani nude, comincia a rompere lo strato di ghiaccio, finché non lo tira fuori. Il bambino dopo un coma di qualche ora si risveglia. Alì in un momento così drammatico sente il bisogno di avere Stéphanie al suo fianco e le rivela il suo amore. Dopo un periodo di convalescenza per le fratture alle mani, Alì ritorna sul podio a vincere i più importanti titoli. Questa volta però al suo fianco ci sono suo figlio e la sua donna. resentato all’ultimo Festival di Cannes Un sapore di ruggine e ossa è l’ultima pellicola di Jacques Audiard. Il regista francese scrive la sceneggiatura con Thomas Bidegain (già cosceneggiatore di Un prophète), partendo da alcuni racconti del canadese Craig Davidson, ricombinando però il materiale di partenza con il sentimento amoroso come elemento coesivo. La trama e la regia sono estremamente coerenti nel seguire uno stesso rischiosissimo movimento, che spinge il film verso un melodramma brutale e lirico. Una storia d’amore quella raccontata, dove due anime così diverse l’una dall’altra si incontrano nel momento dello schianto e si salvano a vicenda. Ci sono alcune ferite che non si possono rimarginare completamente, come spiega la voce off nella sequenza finale del film. Tuttavia si può tornare ad affrontare la vita con passione ed entusiasmo, con il sorriso di chi ha ritrovato la speranza. Viene descritto un universo dove i corpi sembrano voler P lottare per procurarsi un loro spazio e tentare di stravolgere il destino che gli è riservato. E nel film corpo e spirito fanno tutt’uno, si premono e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole. La comunicazione, specie quella femminile, infatti passa spesso attraverso un linguaggio muto, ma intimamente comprensivo. Stéphanie “parla” con l’orca marina anche dopo la mutilazione e anche il “dialogo” sessuale con Alì si approfondisce senza l’uso di parole. Dunque una forma cinematografica all’insegna dell’espressionismo, dei silenzi, dei primi piani e degli sguardi in cui la forza dell’immagine si presta al servizio dell’attore e del melodramma stesso. Si evidenziano i contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, anima e carne. Due persone si ricostruiscono gradualmente pezzo per pezzo. Il personaggio di Alì è ruvido, ma capace di una delicatezza reale. Come le bestie va diritto ai bisogni primari: cibo, sesso e un tetto; quando si trova a dover fare i conti con la civiltà e le responsabilità non riesce a stare al passo. Tuttavia conosce il senso della libertà, il potere salvifico della natura e della bellezza. Stéphanie è una donna carnale e passionale, che vive d’istinto e di sensazioni. Una volta che riesce a sentire sue di nuovo le proprie ossa e la propria carne (simbolico è il fatto che si faccia tatuare sulle gambe “destra” e “sinistra”) è in grado di rimuovere la ruggine che paralizza l’emotività dell’uomo, facendogli ritrovare quella parte di umanità sommersa, che assomiglia vagamente all’amore. La prestanza animalesca di Alì sopperisce all’handicap e alla solitudine di Stephanie. Quello che c’è in mezzo, dal sesso consumato in maniera brutale, ai combattimenti clandestini dell’uomo, ai bagni sulle luminose spiagge della Costa Azzurra, alle fughe notturne, costituisce lo spazio in cui si applica questa fusione, appunto, di ruggine e ossa. Molto studiate le musiche e l’uso dei colori e della fotografia. Ma Audiard si rivela un vero maestro soprattutto nella direzione degli attori, con la scelta di due interpreti molto diversi: il bello e aitante attore belga Matthias Schoenaerts e la splendida Marion Cotillard, capaci di ricreare un’alchimia perfetta nella costruzione di un pathos ossessivo. In un’operazione di impressionante mutilazione, la Cotillard, lontana da interpretazioni da icona e da star, conquista con un talento naturale e una recitazione davvero notevole. Veronica Barteri 28 Film Tutti i film della stagione WORKERS – PRONTI A TUTTO Italia 2012 Regia: Lorenzo Vignolo Produzione: Gianluca Curti, Galliano Juso per Margherita Film e Minerva Film in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: Istituto Luce - Cinecittà Prima: (Roma11-5-2012; Milano 11-5-2012) Soggetto: Stefano Sardo, Galliano Juso Sceneggiatura: Stefano Sardo Direttore della fotografia: Paolo Bellan Montaggio: Ian Degrassi Musiche: Mambassa Scenografia: Monica Sgambellone orkers” è il nome di un’agenzia di lavoro “interinale” con sede a Torino: “Sandro & Sandro” (solo perché suona meglio). In realtà i due si chiamano Sandro e Filippo e se ne vedono passare davanti agli occhi di tutti i colori. Persone di ogni tipo a caccia di un impiego. I due si imbattono talvolta in storie eclatanti che è impossibile non raccontare. I due soci inizieranno i loro racconti in ufficio e li finiranno a cena con due belle ragazze. Seguiamo così tre storie di lavori che nessuno vorrebbe fare ma che qualcuno “pronto a tutto” si presta a svolgere. La prima storia è Badante e vede protagonista Giacomo, un giovane adulto mai cresciuto che vive alla giornata, finché il padrone di casa non lo minaccia di sfratto. Sua madre e la sua ragazza gli negano l’aiuto e, a quel punto, è costretto ad accettare un lavoro che mai nella vita avrebbe pensato di fare: il badante. Ma il peggio deve ancora venire perché deve occuparsi di Mario Spada, un invalido arrogante, volgare, strafottente, vizioso, attaccabrighe, amante della vodka e degli eccessi. Per Giacomo sarà una delle prove più difficili della sua vita. Sulle prime disperato per gli atteggiamenti volutamente provocatori di Spada, Giacomo riesce gradualmente a entrare in confidenza con l’uomo che finisce per confessargli le circostanze tragiche che lo hanno ridotto su quella sedia a rotelle. La seconda storia, Cuore toro, segue le disavventure di Italo, innamorato non corrisposto di Tania, una commessa di un negozio di abbigliamento. Un giorno, per miracolo, la ragazza, cede al corteggiamento insistente del suo ammiratore e accetta un invito a pranzo. Ma, a tavola, Tania si annoia, Italo si dimostra molto imbranato e la conversazione langue, alme- “W Costumi: Fiorenza Cipollone Interpreti: Michelangelo Pulci (Sandro, agente interinale), Alessandro Bianchi (Filippo, agente interinale), Alessandro Tiberi (Giacomo “Badante”), Francesco Pannofino (Mario Spada “Badante”), Dario Bandiera (Italo “Cuore Toro”), Daniela Virgilio (Tania “Cuore Toro”), Andrea Bruschi (Omar “Cuore Toro”), Pietro Casella (Giovanni “Cuore Toro”), Nicole Grimaudo (Alice “Il trucco”), Paolo Briguglia (Saro Tartanna “Il trucco”), Nino Frassica (Don Ciccio Tartanna “Il trucco”), Luis Molteni (Leopoldo Miletto “Il trucco”) Durata: 105’ Metri: 2870 no fino a quando la ragazza, per un equivoco, non crede che il giovane sia un chirurgo. Improvvisamente Tania si mostra interessata e coinvolta, ma c’è un problema: Italo non è un dottore, sebbene abbia un camice e un cercapersone. In realtà l’uomo lavora in un allevamento di tori come prelevatore di campioni genetici di esemplari da riproduzione. Ora, complici le attenzioni di Tania, Italo deve nascondere il suo vero lavoro. Ma le bugie si sa, hanno le gambe corte. Quando la storia tra i due sembra procedere a gonfie vele, Tania scopre la verità. Sulle prime sconvolta, allontana il ragazzo. Ma Italo non deve vedersela solo con la ragazza di cui è innamorato, ma anche con la gelosia del migliore dei tori dell’allevamento, Ramon, che sembra essersi invaghito proprio del suo prelevatore di campioni genetici. Sarà proprio il fascino che Italo ha nei confronti dell’animale che farà ricredere anche la bella Tania. La terza storia, la più incredibile, è Il trucco. Sandro e Filippo la raccontano a Eva e Eleonora, due splendide ragazze che accettano il loro invito a cena. La protagonista è Alice, giovane truccatrice precaria in difficoltà. L’unico impiego che l’agenzia “Workers” riesce a trovarle è come truccatrice di cadaveri in un’agenzia di pompe funebri. Proprio nel nuovo posto di lavoro, Alice s’imbatte nel giovane siciliano Saro Tartanna, figlio del superlatitante Don Ciccio, che si presenta all’agenzia per piangere la moglie defunta Samantha. Ma, per uno scherzo del destino, Alice è la sosia perfetta di Samantha. Per la ragazza si apre così una nuova opportunità di lavoro: impersonare una defunta. Infatti la ragazza cede alle preghiere di Saro accettando di fingere di essere la moglie Samantha al cospetto di suo padre, il famigerato boss mafioso Don Cic29 cio Tartanna. La giovane piace così tanto al suocero che Saro propone ad Alice di impersonare sua moglie per tutte le riunioni familiari future. Ed ecco che la giovane truccatrice da disoccupata si ritrova ad avere addirittura un remunerativo doppio lavoro da “attrice”! l sottotitolo è chiaro Pronti a tutto ... pur di lavorare naturalmente. Disoccupati o precari, oggi bisogna essere per forza così. Non più lavoratori, meglio Workers, come l’agenzia di lavoro interinale che fa da fil rouge ai tre episodi del film. Un’amara constatazione è d’obbligo: la presenza di precari e disoccupati nel cinema italiano continua esponenzialmente ad aumentare riflettendo, ahimè, il cambiamento nel mercato del lavoro “reale”. Il lavoro raccontato ancora una volta “in sua assenza”, ridendoci su, se possibile. E proprio questi sono gli ingredienti scelti per Workers – Pronti a tutto: una buona dose di ironia, la giusta quantità di leggerezza, un pizzico di sfumature grottesche, et voilà, il dramma della disoccupazione in tempi di crisi è servito in salsa di commedia. Dietro il progetto c’è Lorenzo Vignolo che, partendo da un’idea del soggettista Galliano Juso e con l’aiuto dello sceneggiatore Stefano Sardo, fa diventare film tre buffe e anche un po’ grottesche storie di disoccupati. L’italica “arte di arrangiarsi” è declinata in tutte le sue forme, ma, dietro una situazione sempre più disperata per giovani e meno giovani, uomini e donne, laureati e non, si allunga davvero un’ombra nera. Il primo articolo della Costituzione italiana recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La domanda immediata che sorge oggi è “Quale?”. Quale lavoro, quale futuro (anzi quale presente), quale dignità? La I Film risposta ce l’abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Il film di Vignolo racconta questa realtà restituendoci un ritratto divertente, ma allo stesso tempo impietoso di tanti giovani che devono rimboccarsi le maniche rinunciando ai propri sogni. Certo, sdrammatizzare fa sempre bene e gli attori chiamati a farlo sono tutti bravi: a cominciare da un Francesco Pan- Tutti i film della stagione nofino dai lampi mefistofelici, a un Dario Bandiera “raccoglitore di sperma di tori”, per finire con una Nicole Grimaudo truccatrice che diviene attrice in un episodio dai lontani echi pirandelliani. Il ritmo è agile e l’ambientazione a Torino, città perfetta per un film legato al mondo del lavoro, è azzeccata: i sorrisi dunque non mancano insieme a un pizzico di cinismo nella scena finale. Il presente è duro, il futuro è un grosso buco nero e forse conviene davvero sdrammatizzare. Ma basterà riderci su? Elena Bartoni TRAVOLTI DALLA CICOGNA (Un heureux événement) Francia, Belgio 2011 Regia: Rémi Bezançon Produzione: Mandarin Cinéma, Gaumont, France 2 Cinéma, Scope Pictures, Radio Télévision Belge, Francophone (Rtbf) Distribuzione: Videa-Cde Prima: (Roma27-7-2012; Milano 27-7-2012) Soggetto: dal romanzo “Lieto evento” di Eliette Abecassis Sceneggiatura: Vanessa Portal, Rémi Bezançon Direttore della fotografia: Antoine Monod Montaggio: Sophie Reine Musiche: Boban Apostolov Scenografia: Maamar Ech Cheikh Costumi: Christian Schnezier arbara e Nicolas si conoscono in una videoteca. In breve tempo fra loro nasce una forte passione e il desiderio di avere un bambino. La bella notizia non si fa attendere, Barbara rimane subito incinta e si appresta a vivere i nove mesi più belli della sua vita. Le numerose aspettative sulla gestazione, però, vengono travolte dalla cruda realtà fatta di nausee, sbalzi ormonali e un corpo in continuo mutamento. Dopo il parto la situazione non migliora. Le notti insonni, le continue richieste d’attenzione della bimba portano la coppia a una crisi molto profonda. Barbara esausta lascia Nicolas per qualche giorno rifugiandosi dalla madre. Qui, lontana da tutto, riflette sulla sua storia e sul significato di essere madre scoprendo, inoltre, di essere nuovamente incinta. Qualche giorno dopo, più serena, ritorna dal compagno e gli annuncia l’arrivo di un nuovo bambino. B uando in Francia uscì il libro di Eliette Abècassis Lieto Evento, un racconto sui cambiamenti fisici e psicologici durante e dopo la gravidanza, fu un piccolo scandalo. La maternità, da sempre osannata come il periodo più alto nella vita di una donna, in poche righe veniva privata di quell’aurea di benessere totalizzante per trasformarsi in un Q Effetti: Mac Guff Ligne Interpreti: Louise Bourgoin (Barbara Dray), Pio Marmaï (Nicolas Malle), Josiane Balasko (Claire, madre di Barbara), Thierry Frémont (Tony),Gabrielle Lazure (Édith, la madre di Nicolas), Firmine Richard (Ostetrica), Anaïs Croze (Daphné), Daphné Bürki (Katia), Lannick Gautry (Dott. Camille Rose), Gérard Lubin (Dott. Jonathan Malle), Nicole Valberg (Ginecologa), Louis-Do de Lencquesaing (Jean-François Truffard), Patrick Spadrille (Daniel), Dominique Baeyens (Sig.ra Tordjmann), Michel Nabokoff (Sig. Tordjman) Durata: 90’ Metri: 2480 incubo, in un segreto lacerante difficile da confessare anche nel più intimo dei ginecei. Da queste premesse è felice intuire la natura degli attacchi alla scrittrice e non si può che ammirare il coraggio del regista Remi Bezançon nel curare la trasposizione cinematografica del romanzo. La pellicola, ribattezzata da noi Travolti dalla cigogna, si presenta nel trailer e nel marketing pubblicitario come una commedia frizzante fra pappe, pannolini e notti insonni. Non è proprio così; anzi utilizzare questa veste è un po’ sminuire tutto lavoro del regista e del cast. Travolti dalla cicogna, infatti, è un film dove è il dramma a imperare, un dramma sottile che si coglie nei silenzi, un crescendo di emozioni che culmina con il rifiuto della creatura appena nata. I due protagonisti pur desiderando ardentemente un figlio si ritrovano impreparati alla sua venuta. Gli equilibri di coppia cedono il passo alla frustrazione, al risentimento e, non per ultimo, allo scambio di colpe. I codici comunicativi cambiano, così come il corpo e i desideri in un progressivo allontanamento che trasforma due amanti in due estranei. Bezançon coglie perfettamente ogni momento di questa evoluzione, lasciando che sia Barbara, la voce femminile, a raccontarci gli eventi. È proprio la donna, infatti, la “particella impazzita” incapace di 30 conciliare la sua individualità con l’essere madre e allo stesso tempo compagna. Ogni personaggio che gravita attorno a lei, il professore, la madre e ovviamente il fidanzato e la figlia, rivendica un ruolo esclusivo nella sua vita, incapace di comprendere l’universo corrotto dietro uno sguardo assente. Ed è proprio l’egoismo subito che porta Barbara a lasciare tutto e tutti in un contrappasso estremo che, nel finale, si rivelerà l’unica soluzione possibile per sconfiggere un disagio, solo in apparenza, insormontabile. A differenza del libro la versione cinematografica concede al pubblico una conclusione che, seppur non esplicita, guarda con ottimismo al futuro, lasciando intendere che certe dinamiche, anche dolorose, fanno parte del processo di accettazione della genitorialità. Bezançon, inoltre, ha un merito che gli va riconosciuto: sceglie una forma narrativa particolare che allontana la vicenda da una qualsiasi forma di universalità. Non sale in cattedra per annunciare la verità, ma sussurra una delle tante “verità” possibili nell’universo umano. E lo fa con la giusta dose di leggerezza che non va mai a intaccare la profondità dei sentimenti espressi dai protagonisti, in una pellicola dove il dolce e l’amaro si rincorrono in quello che resta sempre e comunque “un lieto evento”. Francesca Piano Film Tutti i film della stagione LA KRYPTONITE NELLA BORSA Italia 2011 Regia: Ivan Cotroneo Produzione: Nicola Giuliano e Francesca Cima per Indigo Film in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: Lucky Red Prima: (Roma 4-11-2011; Milano 4-11-2011) Soggetto e Sceneggiatura: Ivan Cotroneo, Monica Rametta, Ludovica Rampoldi Direttore della fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Giogiò Franchini, Donatella Ruggiero (collaborazione) Musiche: Pasquale Catalano Scenografia: Lino Fiorito apoli, 1973. Giuseppe Sansone, detto Peppino, è un bambino di nove anni molto curioso della vita. Ha lunghi capelli neri con tanto di boccoli, grandi occhi verdi e porta gli occhiali. Vive in una famiglia numerosa piuttosto curiosa e popolata di personaggi eccentrici. Come suo cugino Gennaro, che è convinto di essere il supereroe Superman ed è ossessionato dal minerale kryptonite. Il ragazzo muore investito da un autobus e, da quel giorno, appare solamente come visione nell’immaginazione di Peppino. Suo padre, che gestisce a Portici un negozio della Singer di macchine da cucire, tradisce la moglie con Valeria, la figlia della tabaccaia. Sua madre, Rosaria, fa invece la dattilografa. È una donna insoddisfatta e infelice. E quando si accorge del tradimento del marito, entra in depressione e decide di chiudersi in casa in assoluto silenzio. Non si occupa più neppure del figlio. Il bambino, poco considerato anche dai suoi amichetti di scuola, resta spesso da solo. Viene allora seguito e “iniziato” alla vita dai suoi due giovani zii Salvatore e Titina, due tipi alternativi che vestono alla moda e frequentano discoteche e locali trasgressivi dove gira droga a volontà (la ragazza rimarrà incinta del claudicante Elio, chiamato “o’ zoppo”). Oppure si ritrova a passare del tempo anche con Assunta, una zitella amica della madre, che vive nelle case popolari e sogna un giorno di incontrare l’anima gemella. Mentre il padre tronca la relazione con l’amante cercando di riconquistare la moglie, quest’ultima finisce per innamorarsi del suo analista. Intanto Peppino, per sfuggire ai problemi della sua famiglia, preferisce continuare a viaggiare con la sua fantasia: aggrappato al collo del suo fedele N Costumi: Rossano Marchi Interpreti: Valeria Golino (Rosaria), Cristiana Capotondi (Titina), Luca Zingaretti (Antonio), Libero De Rienzo (Salvatore), Luigi Catani (Peppino), Vincenzo Nemolato (Gennaro), Monica Nappo (Assunta), Massimiliano Gallo (Arturo), Lucia Ragni (Carmela), Gennaro Cuomo (Federico), Sergio Solli (Vincenzo), Antonia Truppo (Valeria), Rosaria De Cicco (Maestra Lina), Carmine Borrino (Elio), Nunzia Schiano (Zia Spagnola), Fabrizio Gifuni (Matarrese) Durata: 98’ Metri: 2700 amico immaginario “Superman-Gennaro”, vola felice e spensierato sui tetti di una suggestiva Napoli notturna illuminata solo dalla luna e dalle stelle. olorato, vivace e molto musicale. Insomma, come è nelle corde abituali di Ivan Cotroneo (ideato re della spumeggiante serie televisiva Tutti pazzi per amore) che, al suo esordio dietro la macchina da presa, regala al pubblico una moderna fiaba napoletana e un’originale lezione sulla diversità. O meglio, sul diritto alla non-omologazione. Anche quando si è continuamente oggetto di scherno e di sopraffazione. Attraverso gli occhioni innocenti di un ragazzino bruttarello e miope, ma assai intelligente per la sua età (il debuttante e promettente Luigi Catani), lo sceneggiatore ci catapulta in un’epoca di grandi illu- C 31 sioni, sogni a occhi aperti e desideri di trasgressione. Con una colonna sonora densa di suggestioni e di magia, che alterna Mina e Dalidà a David Bowie, Peppino di Capri ai Planet Funk. Il simpatico cugino Gennaro, un Superman in versione partenopea, racchiude in se tutta la voglia di evasione degli Anni Settanta, la gioia di vivere e di spaziare con il cuore e con la mente verso luoghi lontani e speciali (come la Swinging London in cui vorrebbero scappare i due zii di Peppino, troppo all’avanguardia per rimanere in quella soffocante realtà). Siamo in piena rivoluzione sessuale e le donne, consapevoli e disinibite, rivendicano la propria identità: completamente nude, si baciano davanti ad un incredulo Peppino... È la stagione in cui fermentano le comunità hippie, che affermano la loro ansia di libertà grazie al linguaggio del Film corpo (l’episodio della danza di Zorba è uno degli intermezzi musicali più frizzanti). Gli anni in cui impazza la disco music e, tra uno spinello e l’altro, si insinua anche il veleno della LSD (perfino il piccolo protagonista ne diventa involontario “consumatore”). La kryptonite nella borsa, tratto dall’omonimo romanzo del 2007 dello scrittore-regista, vuole essere un appassionato omaggio alla nostalgia di quel particolare periodo della nostra storia: «Mi parevano giorni così come tanti – dice Rosaria al figlio, rievocando davanti al mare i tempi in cui andava a ballare –, non pensavo a niente. Forse era quella la felicità...» (assomiglia tanto ad una frase pro- Tutti i film della stagione nunciata da una delle protagoniste femminili del libro Le ore di Michael Cunningham, di cui, guarda caso, Cotroneo è il traduttore italiano per Bompiani). Ma questa opera prima costituisce anche una stravagante fotografia sulla famiglia italiana e sulle sue disfunzioni. Non ci troviamo di fronte alla tradizionale famiglia napoletana, ma a una strana “tribù allargata” di sognatori e battitori liberi, ognuno dei quali vive in un mondo a parte, quasi da fumetto o da cartoon. Dallo zio studente che passa tutto il giorno sullo stesso libro e impiega ben cinque anni per preparare il primo esame all’università, alla signorina sfigata Assunta (la bravissima Monica Nappo) che si mette in costume da bagno sugli scogli nella vana speranza di fare colpo sugli uomini! Il film, che mostra una coralità di anime sole e malinconiche in cerca di riscatto, oltre a puntare sulla performance del baby-prodigio protagonista, si affida alle interpretazioni degli ottimi Nicola Zingaretti e Valeria Golino (rispettivamente, padre e madre del bambino). A completare il bizzarro quadretto di famiglia ci pensano poi Libero de Rienzo e Cristiana Capotondi, decisamente a loro agio nel ruolo atipico di zii “moderni”. Diego Mondella PROMETHEUS (Prometheus) Stati Uniti, 2012 Regia: Ridley Scott Produzione: Ridley Scott, Tony Scott, Walter Hill, David Giler per Scott Free Productions, Brandywine, 20th Century Fox FilmCorporation Distribuzione: 20th Century Fox Italia Prima: (Roma 14-9-2012; Milano 14-9-2012) V.M.: 14 Soggetto: dai personaggi di Dan O’Bannon e Ronald Shusett Sceneggiatura: Jon Spaihts, Damon Lindelof Direttore della fotografia: Dariusz Wolski Montaggio: Pietro Scalia Musiche: Marc Streitenfeld, Harry Gregson-Williams (musiche addizionali) Scenografia: Arthur Max Costumi: Janty Yates cozia, 2089. Elizabeth Shaw e Charlie Holloway, coppia di geologi, scoprono sulla parete di una grotta una mappa stellare dipinta, simile a quella già rinvenuta in passato per molte altre culture antiche non collegate tra loro. È un invito dai precursori dell’umanità, i cosiddetti “ingegneri”, pensano i due geologi. Che quattro anni dopo, nel 2093, fanno parte dell’equipaggio di Prometheus, nave scientifica creata per raggiungere il luogo nell’universo in cui la disposizione dei pianeti è identica a quella della mappa ritrovata. La spedizione è finanziata dall’anziano Peter Weyland, presidente della Weyland Corporation: raggiunta la luna LV223, l’equipaggio viene svegliato dall’ibernazione dall’androide David. La squadra è sotto il severo comando di Meredith Vickers, che ordina di non prendere contatto con nessun alieno qualora dovesse essere trovato durante l’esplorazione di un’enorme struttura sul pianeta. Struttura all’interno della quale l’aria torna a essere respirabi- S Effetti: Richard Stammers, Trevor Wood, Charley Henley, , MPC, Weta Digital Ltd., Fuel VFX, Rising Sun Pictures, Hammerhead Productions, Invisible Effects, Prologue Films, Lola Visual Effects, Luma Pictures, Pixel Pirates Interpreti: Noomi Rapace (Elizabeth Shaw), Michael Fassbender (David), Guy Pearce (Peter Weyland), Idris Elba (Capitano Janek), Logan Marshall-Green (Charlie Holloway), Charlize Theron (Meredith Vickers), Sean Harris (Fifield), Rafe Spall (Milburn), Kate Dickie (Imora), Emun Elliott (Chance), Benedict Wong (Ravel), Kate Dickie (Ford), Patrick Wilson (Padre di Shaw), Giannina Facio (Madre di Shaw), Lucy Hutchinson (Shaw bambina) Durata: 124’ Metri: 3400 le: prima il cadavere di una creatura aliena, poi alcuni ologrammi degli “ingegneri” in fuga da qualcosa, che appaiono dopo che David digita alcune strane sequenze in un’iscrizione nella parete, finalmente si apre una porta che conduce il gruppo in una stanza piena di cilindri di pietra, con un’enorme monolite a forma di testa umana sullo sfondo. David prende un cilindro per portarlo sulla nave, dagli altri intanto inizia a fuoriuscire un liquido scuro e viscoso. Un’improvvisa tempesta di sabbia li costringe a rientrare sulla nave, ma due componenti del gruppo, Millburn e Fifield, distaccati dagli altri, rimangono a vagare nella struttura. Saranno attaccati poco dopo, il primo da una specie di serpente alieno, che lo ucciderà, il secondo dall’acido che la stessa creatura gli spruzza sul casco, corrodendolo fino al volto. Sulla nave, intanto, Shaw comprende che il DNA degli ingegneri coincide con quello degli umani, mentre David estrae un campione del liquido nero dal cilindro, che farà ingerire con l’ingan32 no a Holloway. Poco dopo, Holloway e Shaw avranno un rapporto sessuale. L’indomani la squadra di ricognizione torna nella struttura, in cerca di altre risposte e, soprattutto, di Milburn e Fifield: ancora una volta all’insaputa del gruppo, David scopre in una sala di controllo un ologramma di una mappa stellare che evidenzia la Terra e gli “ingegneri” che la selezionano come destinazione. In più, in una capsula simile a quelle per le ibernazioni, trova anche un ingegnere ancora vivo, in stasi. Holloway inizia invece a sentirsi male, infettato dal liquido ingerito la notte prima: Vickers si rifiuta di farlo tornare a bordo e lo uccide con un lanciafiamme per evitare il contagio con il resto dell’equipaggio. Contro ogni previsione, poi, Shaw – convinta di essere sterile – scopre di essere rimasta incinta: quella che porta in grembo però è una creatura non umana. Fuggirà dal controllo di David e si sottoporrà a un taglio cesareo sul tavolo chi- Film rurgico automatizzato della nave, dove riuscirà anche ad “imprigionare” il feto abortito, molto simile ad un calamaro. Vagando su Prometheus, Shaw scopre poi che Weyland – oltre ad essere padre di Vickers - non è morto ma ha viaggiato con loro, deciso a incontrare gli “ingegneri” sperando nella vita eterna. L’uomo prende così parte all’ultima spedizione nella struttura – che il capitano della nave, Janek, ha scoperto essere in realtà un’astronave a sua volta e che, in realtà, quel luogo è una sorta di base per esperimenti sulle armi batteriologiche – atta a risvegliare la creatura dormiente nella capsula per il sospirato incontro: David tenta di comunicare con lui, ma l’ingegnere lo decapita e uccide il resto del gruppo, Weyland compreso. Shaw riesce a fuggire e comunica a Janek che l’alieno ha riattivato l’astronave per il decollo, con il proposito di raggiungere la Terra e distruggerla. Per evitarlo, Janek e altri due membri si immolano scagliando il Prometheus contro la nave dell’ingegnere. Vickers riesce ad eiettarsi prima dell’impatto, ma viene successivamente schiacciata dall’astronave danneggiata. Shaw riesce a raggiungere a sua volta la suite di Vickers per recuperare ossigeno e, poco dopo, la testa di David le comunica che l’ingegnere è ancora vivo e la sta raggiungendo per ucciderla. A fer- Tutti i film della stagione marlo ci penserà il feto alieno, ora gigante: Shaw raggiunge la testa e il corpo di David e, insieme a lui, riesce a decollare con un’altra astronave aliena. Il nuovo obiettivo è quello di raggiungere il vero pianeta degli ingegneri e capire perché, dopo averla creata, hanno deciso di annientare l’umanità. Su Prometheus, nel frattempo, dal petto dell’ingegnere prende vita una spaventosa creatura aliena... he cos’è Prometheus? Meglio: che cosa voleva essere nelle intenzioni di Ridley Scott? Ce lo siamo chiesti in molti, dall’annuncio della lavorazione del film: ce lo chiediamo ancora oggi, dopo averlo visto. Sì, perché fatto salvo il riuscito ritorno alle atmosfere di Alien, “arricchite” da un 3D che nulla aggiunge alla intermittente spettacolarità del film, il nuovo lavoro del regista di Blade Runner e Il gladiatore sembra continuamente in cerca di una propria identità: prequel? Sequel?, Reboot? Prometheus è tutto e il contrario di tutto, “torna” al capolavoro del ’79 ma ne dimentica la portata, pone domande sull’inizio del tutto e fornisce risposte poco soddisfacenti (ammesso il genere umano sia stato “creato” da questi “ingegneri”, perché ora lo vogliono eliminare?), risposte che un inequivocabile finale rimanda a un altro futuro, succes- C sivo al 2093, di certo più vicino al 2122, anno in cui il tenente Ripley (Sigourney Weaver) affrontò per la prima volta le mostruose creature. E allora il senso più ampio dell’operazione sembra trovare una certa collocazione, pur rimanendo il film zoppo sotto molti punti di vista: credibile nella prima parte, dal preambolo alla prima missione esplorativa, finisce poi per sgretolarsi di fronte a un cambio di rotta che prevede più “azione” e poca suggestione. Abbastanza prevedibile nei colpi a “sorpresa”, obiettivamente “stanco” nella riproposizione di alcuni (auto)omaggi nemmeno troppo celati – il cesareo che ricorda il sogno di Ripley con la creatura che fuoriesce dal ventre – e la sempre più crescente sensazione della perdita costante di un centro intorno cui far ruotare l’intera struttura, Prometheus fa anche molto poco per approfondire alcuni personaggi chiave del racconto, come l’algida e sin troppo severa Vickers (d’accordo, il padre le ha preferito un androide: tutto qui?), in un gioco di “resistenza” che, come ampiamente previsto, fa della sempre più sopravvalutata Noomi Rapace l’highlander di baracca e burattini. Con l’androide Fassbender al seguito, ovviamente da rimontare durante il tragitto. Che porterà a Prometheus 2. Valerio Sammarco ELLES (Elles) Francia, Polonia, Germania 2011 Regia: Malgorzata Szumowska Produzione: Slot Machine in coproduzione con Zentropa International Poland, Zentropa International Köl, Canal+ Poland, Zdf Shot Szumowski, Liberator Productions Distribuzione: 20th Century Fox Italia Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012) V.M.: 14 Soggetto e Sceneggiatura: Tine Byrckel, Malgorzata Szumowska Direttore della fotografia: Michal Englert Montaggio: Pietro Scalia Musiche: Pawel Mykietyn Scenografia: Pauline Bourdon Costumi: Katarzyna Lewinska Interpreti: Juliette Binoche (Anne), Anaïs Demoustier (Char- nne è una donna borghese, giornalista del magazine “Elles” e con il marito, ben posizionato con un lavoro di livello e con due figli, uno piccolo e l’altro adolescente in fase di ribellione e spinelli, costituisce una classica famiglia del ceto medio alto, piena di impe- A lotte), Joanna Kulig (Alicja), Louis-Do de Lencquesaing (Patrick), Krystyna Janda (Madre di Alicja), Andrzej Chyra (Cliente Sadico), Ali Marhyar (Saïd), Jean-Marie Binoche (Padre di Anne), François Civil (Florent), Pablo Beugnet (Stéphane), Valérie Dréville (Madre di Charlotte), Jean-Louis Coulloc’h (Padre di Charlotte), Arthur Moncia (Thomas), Scali Delpeyrat (Charles), Laurence Ragon (Colette), Alain Libolt (Marito di Colette), José Fumanal (Cliente), Laurent Jumeaucourt (Cliente), Nicolas Layani (Cliente con la chitarra), Swann Arlaud (Cliente Giovane), Martine Vandeville (Segretaria Università), Jenny Bellay (Vicina),Tom Henin (Amico di Florent) Durata: 96’ Metri: 2630 gni, contatti che contano, cene con amici, qualche malumore, qualche interrogativo e, naturalmente, infelicità. Anne riceve l’incarico di dedicare un articolo inchiesta al fenomeno della prostituzione tra le studentesse di Parigi. Conosce così la francese Charlotte e la po- 33 lacca Alicja le cui prime rivelazioni spiegano alla giornalista un’esperienza comune molto semplice: arrivate a Parigi per iscriversi all’università, sono state sommerse entrambe dalla varietà di problemi e di costi (appartamenti, tasse, libri, vitto, telefonini etc) per lo più insostenibili, pur Film con l’aiuto di una base familiare che si rivela presto insufficiente. La soluzione è presto trovata: ufficializzare tramite internet la propria disponibilità per prestazioni sessuali a pagamento: le risposte subissano il sito delle ragazze pochi minuti dopo la loro apertura; è un fiume di messaggi che richiedono alle studentesse appuntamenti, prestazioni e fantasie erotiche. Ad Anne le due ragazze fanno i loro racconti con grande naturalezza presentando un mondo molto comune di cui sono protagonisti uomini che hanno per lo più l’età dei loro padri e che hanno soprattutto bisogno di essere ascoltati, coccolati, capiti (spesso parlano della moglie e dei figli o suonano la chitarra) e in cui l’atto sessuale non rappresenta la parte primaria. La giornalista resta annichilita da questo fiume di situazioni per lei impensabili e ne risulta turbata, presa, scossa, sconvolta. Soprattutto mette a confronto i racconti di sesso, la disponibilità, il piacere che gli uomini traggono dagli incontri con le due ragazze con la povertà dei sensi che caratterizza il suo nucleo familiare, così perfetto e così vuoto, i mille impegni e adempimenti a cui lei deve far fronte che la distraggono e la distolgono da una vicinanza fisica con il marito indifferente e disinteressato. Al culmine di una cena in casa, dove, come in una visione, crede di vedere seduti a tavola gli uomini incontrati da Char- Tutti i film della stagione lotte e Alicja, Anne esce a fare un giro all’aria aperta per pensare a come dare una svolta alla sua vita: torna e si offre al marito per un incontro di sesso, lui rifiuta, meravigliato e seccato per questa iniziativa noiosa e imprevista. La mattina dopo tutto è tranquillo: la famiglia è a tavola per la colazione nella banale ripetizione dei gesti consueti in cui tutti riconoscono con sgomento la propria solitudine. a vita è questa qui, forse c’è ancora qualcuno che non se n’è accorto? O meglio, è quella che l’essere umano impazzito ha pensato di costruirsi affidando al denaro e a una spietata competizione senza freni il significato centrale dell’esistenza: è ovvio che in questo modo a disposizione di tutti resti un terreno arido dove non si può impiantare alcunché, ma solo altre piattaforme, altri trampolini adatti a proiettarsi verso traguardi sempre più lontani, sempre più insteriliti. È inutile che Anne si accorga finalmente di quale forza repressiva sia composto il quadro esistenziale in cui prima si dibatte e poi cerca di liberarsi senza riuscirci. È inutile per la buona borghese/giornalista/moglie/ madre/cuoca/intrattenitrice urlare alla notte quel bisogno improvviso di sensi da calmare dopo essere stata stuzzicata e incendiata dai racconti delle due studentesse. Ormai è tardi e la strada che Anne si è la- L sciata dietro le spalle è troppo lunga: ridicoli, goffi e da tempo accantonati e dimenticati risultano per un compagno infastidito (che molto probabilmente frequenta anche lui studentesse) i suoi ultimi slanci, somiglianti più ai richiami di un naufrago che a un gesto di sensuale coinvolgimento. Di tutto questo parla il film che mette subito in chiaro il disinteresse per un’indagine sociologica che non gli appartiene (preferendo l’inquadratura patinata di nudi e d’incontri alternati agli studi di colori e sfumature), anche se l’argomento esiste, decine di migliaia sono le studentesse francesi che si prostituiscono per vivere nel confort quando frequentano l’università e altri film lo hanno già trattato. È un film dedicato al percorso che la protagonista compie sgretolando le proprie certezze e facendo affiorare smarrimenti e pulsioni di cui prende atto, anche se tardivamente come detto, con coraggio e determinazione. A tutto ciò Juliette Binoche presta il suo bel volto come un pianoforte di colori per dipingervi sopra la confusione, i turbamenti, il desiderio, la forza dei sensi, la dolcezza e tanti, tanti; perché spesso spinosi che la oscurano e la segnano con una spietatezza che solo la padronanza di una grande attrice è in grado di gestire, offrendo nei primi piani se stessa come un grande dono di sofferenza, d’arte e d’amore. Fabrizio Moresco DETACHMENT – IL DISTACCO (Detachment) Stati Uniti, 2011 Regia: Tony Kaye Produzione: Greg Shapiro, Austin Stark, Benji Kohn, Chris Papavasiliou, Bingo Gubelmann, Carl Lund per Paper Street Films, Kingsgate Films, in associazione con Appian Way Distribuzione: Officine Obu Prima: (Roma22-6-2012; Milano 22-6-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Carl Lund Direttore della fotografia: Tony Kaye Montaggio: Barry Alexander Brown Musiche: The Newton Brothers enry Barthes, supplente di letteratura, è un uomo solitario che tiene tutti a distanza. Entra ed esce dalla vita degli studenti cercando di lasciare qualche insegnamento come meglio può. Henry si porta dietro un carico di dolore e di sofferenza irrisolti; una madre suicida quando lui era ancora bambino, vittima forse di un’oscura vicenda di incesto. I fantasmi del passato, i ricordi dei giorni felici, la scoperta del corpo esanime del- H Scenografia: Jade Healy Costumi: Wendy Partridge Interpreti: Adrien Brody (Henry Barthes), Sami Gayle (Erica), Christina Hendricks (Sarah Madison), James Caan (Charles Seaboldt), Lucy Liu (Dott.ssa Doris Parker), Tim Blake Nelson (Sig. Wiatt), Blythe Danner (Sig.ra Perkins), Marcia Gay Harden (Preside Carol Dearden), Betty Kaye (Meredith), William Petersen (Sarge Kepler) Durata: 100’ Metri: 2750 la madre sono sempre lì a tormentare le sue notti e i suoi momenti di vuoto e solitudine in cui si chiede quale sia il senso della vita. Henry è solo al mondo fatta eccezione per l’unico legame familiare che ha con il nonno, ricoverato in una clinica, che lui assiste amorevolmente ogni volta che può. Quando un nuovo incarico lo porta in una degradata scuola pubblica di periferia, il mondo di Henry subisce una forte scossa attraverso gli incontri con studen34 ti privi di speranze per il futuro e con colleghi insegnanti disillusi e demoralizzati. La sua vita viene, in particolare, sconvolta dall’incontro con Erica una prostituta adolescente in fuga dalla famiglia; Henry le dà riparo in casa sua, respinge le avances della ragazzina abituata a vendersi con chiunque e piano piano cerca di affrancarla dalla sua squallida realtà. Erica si insinua nella vita di Henry che per lei rappresenta un’ancora di salvezza, Film va spesso a tenere compagnia al nonno di lui ed è sempre lei ad avvisare Henry quando il vecchio è prossimo alla fine. Nel contempo Henry instaura un rapporto di profonda sintonia con Meredith un’alunna particolarmente dotata ma oggetto di derisione e disprezzo, sia in casa che a scuola, per il suo aspetto fisico. Schiacciata dal conflitto con il padre, la ragazza non regge più e arriva all’atto estremo suicidandosi durante una festa scolastica. Per Henry è un colpo; in fondo la sensibilità e il disagio di Meredith sono lo specchio in cui lui vede riflesso il suo stesso male di vivere. Per questo alla fine decide, forse per la prima volta nella sua vita, a non farsi sopraffare dagli eventi e allerta i servizi sociali perché si prendano cura di Erica. La giovane inizialmente si ribella e si dispera, ma è solo affrancandosi da una esistenza disperata che si possono creare i presupposti per un legame più duraturo, sereno e consapevole con l’uomo che le ha salvato la vita. n uomo solo con un’antica ferita, un dolore irrisolto, un buco nero dell’anima e un distacco da tutto quanto vive e palpita. E poi una scuola ormai votata al fallimento della sua missione primaria, docenti demotivati e impotenti, genitori assenti e deleganti, giovani senza ambizioni, violenti e aridi. L’eclettico artista britannico Tony Kaye, cantante, compositore e pittore, già regista di American History X con Detachment ci porta a esplorare questo mondo di sofferenze personali e lo contestualizza in un ritratto non convenzionale delle falle del sistema di istruzione americano. Certamente la tematica dell’educazione scolastica è abbastanza ricorrente nel cinema e la memoria corre subito a L’attimo fuggente di Peter Weir; anche lì c’era un professore in grado di cogliere l’essenza dei suoi alunni, il passato difficile, un suicidio. Ma, fatte le doverose e necessarie differenze, l’elemento che accomuna le due pellicole sono i giovani con le loro perenni inquietudini, alla ricerca di uno scopo di vita per cui lottare. Detachment è un film ostico, duro che scava nei malesseri delle anime e arriva diretto allo stomaco come un gancio ben assestato; tuttavia interessante e girato con uno stile particolare a metà strada tra il documentario e il dramma. Kaye, infatti, adotta la tecnica del Mockumentary inserendo nella trama spezzoni di interviste che servono a farci capire ciò che il protagonista realmente pensa ma non dice apertamente, quasi ad U Tutti i film della stagione entrare e uscire dalla sua mente e che rendono veritiero tutto il racconto. Gli occhi di Henry Barthes, superbamente interpretato dal premio Oscar (Il pianista) Adrien Brody, sono vuoti e spenti come possono esserlo quelli di un bambino che assiste impotente a una tragedia familiare che ne segna il suo destino di dolore. “Falliamo – esclama durante una delle sue solitarie elucubrazioni – perché deludiamo tutti compresi noi stessi”. Fare il supplente, non a caso, gli consente di evitare l’eccessivo coinvolgimento con gli altri, come gli alunni difficili di quartieri degradati. Tuttavia come docente è in grado di instillare in loro una visione più ampia e, paradossalmente, più ottimistica del futuro. Così se da un lato la sintonia che si instaura tra Henry e Meredith (Betty Kaye, figlia del regista) poco a poco crea delle frat- ture nel muro che Henry ha eretto tra lui e il mondo, dall’altro assume valore catartico l’incontro con Erica (la quindicenne Sami Gayle), la ragazzina che si prostituisce e che Henry cerca di affrancare dalla sua squallida realtà per recuperarla alla vita. Ad affiancare Brody un nutrito cast di attori tra cui Marcia Gay Harden (Mystic River, Oscar come non protagonista per Pollock) il veterano James Caan e Lucy Liu (Charlie’s Angels, Kill Bill). La pellicola ha raccolto diversi apprezzamenti sia dalla critica che dal pubblico in diverse manifestazioni quali: il TriBeCa Film Festival, il Festival del cinema americano di Deauville, il Tokyo International Film Festival, il Festival di San Paolo, il Woodstock Film Festival. Cristina Giovannini L’ESTATE DI GIACOMO Italia, Belgio, Francia 2011 Regia: Alessandro Comodin Produzione: Paolo Benzi, Alessandro Comosin, Marie Géhin, Réjane Michel, Valérianne Boué, Stéphane Lehembre, Yov Moor, Thomas Bertacche e Sabrina Baracetti per Faber Film, Les Films Nus, Les Films D’Ici, Tucker Film in coproduzione con Wallpaper Productions, Cba Distribuzione: Tucker Film Prima: (Roma20-7-2012; Milano 20-7-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Alessandro Comodin Direttore della fotografia: Tristan Bordmann, Alessandro Comodin, Jan-Jacques Quinet Montaggio: João Nicolau Interpreti: Giacomo Zulian (Giacomo), Stefania Comodin (Stefania), Barbara Colombo (Barbara) Durata: 78’ Metri: 2150 35 Film iamo in estate nella campagna friulana vicina alle rive del Tagliamento. Giacomo, diciottenne rimasto sordo da piccolo e Stefania sua amica d’infanzia sedicenne, percorrono un sentiero stretto tra rovi e pantani fangosi. Come in una favola, si perdono nel bosco e, dopo un lungo cammino, si ritrovano in un luogo paradisiaco sulle rive del fiume. E lì avviene una vera esperienza dei sensi: fanno il bagno, scherzano, si sfiorano, si provocano, fanno un picnic. Di sera vanno a una festa popolare, salgono su una giostra e girano fino a stordirsi, ballano. Sono vicini, molto vicini. Come lo sono di nuovo al fiume mentre giocano a tirarsi il fango e ancora su una bicicletta che percorre i grandi spazi aperti al tramonto. Nella scena successiva Giacomo è sulle rive del fiume, ma con una compagna diversa: questa volta accanto a lui c’è Barbara una giovane sordomuta come lui. La ragazza affida alle sue parole il ricordo delle grandi emozioni vissute insieme a Giacomo con cui ha fatto l’amore per la prima volta. Nel racconto di Barbara c’è però forte il timore che Giacomo non capisca quanto lei lo ama, ma soprattutto la paura che tutto finisca lasciandola sola con la sua sofferenza. S n soffio o poco più, un piccolo “racconto d’estate”, una fiaba moderna girata con stile minima lista, L’estate di Giacomo è il primo lungometraggio del friulano Alessandro Comodin, classe 1982. A metà strada tra documentario e film di finzione, L’estate di Giacomo ha il pregio dell’originalità, collocandosi in un territorio finora mai occupato dal cinema italiano. Il debito a un certo cinema francese influenzato dalla nouvelle vague è chiaro U Tutti i film della stagione (in particolare, ma solo a tratti, l’influsso dei racconti delle ‘quattro stagioni’ di Rohmer), ma non solo, forse ciò che salta di più agli occhi è la lezione dei documentaristi teorici di quel “cinema-verità” alla maniera di Jean Rouch in cui si penetra nell’intimità della vita quotidiana e in cui la macchina da presa fissa la tempesta di percezioni vissuta dal protagonista. Natura e sentimenti si fondono in un percorso che trova la sua ragione di fondo in luoghi, rumori, suoni, luci, colori. Un film di atmosfere che mette in scena l’educazione affettiva di un adolescente sordo, un ragazzo diviso fra l’amica che lo accompagna per quasi tutto il film, Stefania, e Barbara, non udente come lui e destinata a condividere con Giacomo un’esperienza profonda in una scena finale rivelatrice della paura come conseguenza inevitabile dell’abbandono amoroso. L’estate di Giacomo è immerso per quasi tutta la sua durata in un’atmosfera simile a quella dei sogni, come un invito a immergersi di nuovo nel ricordo della nostra adolescenza con tutto il suo bagaglio di emozioni. Un “docu-sogno”, lontano dal presente e immerso nella memoria di un passato dolce. Le lunghe inquadrature iniziali con cui il regista segue, quasi pedina, i personaggi di spalle, rendono sulle prime il racconto un po’estenuante. Il ritmo cadenzato prosegue nella lunga scena sulle rive del fiume in cui i due ragazzi si provocano come in una lotta danzata nelle acque del fiume. Giacomo biascica parole poco comprensibili, mentre Stefania parla pochissimo. Nelle scene seguenti la macchina da presa continua a pedinare i due ragazzi, mentre solo nel finale entra in scena Barbara, l’altra figura femminile del film. Una serie di lunghi piani-sequenza fis- sano per immagini le azioni dei ragazzi che si muovono spontanei. La scena d’apertura è simbolica e di forte impatto: Giacomo, ripreso di spalle con un evidente apparecchio acustico nelle orecchie, suona la batteria, il suo battere forte sui piatti restituisce il suo mondo, quasi la sua anima che, al contrario, è prigioniera del silenzio. Un contrasto semplice ma forte che percorre come una corrente sotterranea tutto il film come la dicotomia tra la natura idilliaca e lo sconquasso emotivo vissuto dal giovane protagonista. Il film ha una marcata origine autobiografica: il regista ha trascorso la sua infanzia sulle rive del Tagliamento e ha conosciuto davvero Giacomo, il fratellino minore di un amico, quando era un bambino sordo. Dieci anni dopo lo ha ritrovato in procinto di operarsi per sentire per la prima volta e ha deciso poi di farne una fiaba moderna con l’intento di rendere, parole sue, “la realtà il più astratta possibile così da rarefarla e farla diventare una sensazione, un sentimento”. Un percorso esemplare quello di Comodin, diplomatosi in regia presso l’Institut National Supérieur des Arts du Spectacle di Bruxelles e che ha trovato il suo primo importante riconoscimento con il Pardo d’oro – Cineasti del Presente nel 2011 al Festival di Locarno per questo film, una coraggiosa co-produzione italo-franco-belga. Un’opera riservata agli spettatori amanti di un cinema di atmosfere che cercano la delicatezza di un tocco, di un respiro, di un momento fuggevole. Il dolceamaro ricordo di un’ultima estate della giovinezza che ha il pregio di tenersi alla larga da tanti insopportabili toni falsamente paternalistici legati al tema della disabilità. Elena Bartoni LA BICICLETTA VERDE (Wadjda) Arabia Saudita, Germania 2012 Regia: Haifaa Al Mansour Produzione: Razor Film in coproduzione con High Look Group e Rotana Studios in cooperazione con Norddeutscher Rundfunk e Bayerischer Rundfunk Distribuzione: Academy 2 Prima: (Roma6-12-2012; Milano 6-12-2012) Soggettoe Sceneggiatura: Haifaa Al Mansour Direttore della fotografia: Lutz Reitemeier Montaggio: Andreas Wodraschke R yadh, Arabia Saudita. Wadjda, ragazzina di dieci anni, amata da una bellissima mamma Musiche: Max Richter Scenografia: Thomas Molt Costumi: Peter Pohl Interpreti: Waad Mohammed (Wadjda), Reem Abdullah (Madre), Abdullrahman Al Gohani (Abdullah), Ahd Kamel (Hussa), Sultan Al Assaf (Padre) Durata: 97’ Metri: 2660 che desidera aiutarla in tutti i modi a diventare una donna moderna di un’auspicabile moderna nazione araba e da un papà 36 che ama entrambi, ma che è spinto da altre opportunità a prendere una seconda moglie, ha un grande desiderio, possedere una bi- Film cicletta. Per questo Wadjda cerca di raggranellare tutti i soldi che può, anche vendendo a scuola braccialetti che fa in casa, per comprare la bellissima bicicletta verde in mostra presso il negozio vicino. Il desiderio della bicicletta, con cui potrebbe gareggiare con il suo amichetto Abdullah, rappresenta il culmine di un comportamento che spesso diventa trasgressione, che la madre cerca soprattutto di comprendere e che l’occhiuta direttrice della scuola cerca di smorzare e reprimere. Comunque l’unica strada percorribile per poter mettere insieme gli ottocento ryals necessari all’acquisto è una gara coranica, il cui primo premio rappresenta proprio il gruzzolo necessario. Wadjda si impegna molto nello studio e vince la gara coranica: al momento però in cui esprime il desiderio di comprare l’oggetto tanto agognato, la direttrice severamente impone che i soldi siano devoluti alla causa palestinese. Le lacrime della bambina hanno però breve durata: al ritorno a casa trova la bicicletta verde comprata dalla mamma. un gruppo di scolare un po’ rumorose la direttrice ricorda alcuni capisaldi della legge coranica: “La voce della donna deve arrivare fino alla soglia di casa, non oltre, è la sua nudità; è meglio anche che la donna sola in casa eviti di cantare ad alta voce perchè non sa chi possa ascoltare dall’altra parte del muro, non il marito ma un altro uomo che potrebbe infiammarsi di desiderio...” Ecco, dobbiamo partire da qui per capire la forza di questo film di Haifaa Al Mansour, la prima ragista saudita che abbia potuto girare nel suo Paese (dove non esistono sale cinematografiche) e, per di più, addirittura nella capitale; davvero una trasgressione nella trasgressione. È una ribellione che prende corpo in tutto il film, sostenuto, è da sottolineare, da Amnesty International, gran successo nella sezione Orizzonti di Venezia 2012, senza mai giudicare, né cadere nella facile retorica di stigmatizzare usi e costumi ancora seppelliti in un’oscurità tribale, lontana nello spazio e nel tempo. La regista si limita a mostrare e lascia che gli altri giudichino, raccontando le cose in maniera molto semplice, mettendo in risalto i rapporti tra la ragazzina, un’intensa, concentrata, bellissima promessa del nuovo impegno culturale del mediooriente e la madre, un’affascinante attrice professionista della televisione araba; ne segue le giornate, il loro legame espresso in tanti particolari, la loro complicità nel trovare tra le strette maglie del reclusorio maschilista uno strappo, un pertugio che possa permet- A Tutti i film della stagione tere loro di esprimersi come madre, moglie, figlia, come donne. Tutto scorre con precisione e naturalezza in questa schermaglia continua tra il forte telaio del regime che tutto guarda, indica, regola e bacchetta e il continuo logorio della donna che, fortunatamente, non si arrende mai e ha le sue vittorie toccate dall’ironia e da uno sguardo più ampiamente umano verso ogni debolezza, cosicchè anche il malfidato e vigile controllo della guardinga direttri- ce può, talvolta, zoppicare. Si racconta che il padre di lei abbia messo in fuga un uomo entrato di sorpresa nella loro casa, chi dice trattarsi sicuramente di un ladro, chi sommessamente avanza la possibilità (concreta) di un amante di lei, ipotesi non smentita ufficialmente dall’offesa direttrice.... Una risata, prima o poi, dovrà seppellire tutta la repressione di questo mondo. Fabrizio Moresco L’AMORE DURA TRE ANNI (L’amour dure trois ans) Francia 2011 Regia: Frédéric Beigbeder Produzione: The Film, Akn Productions, Europacord, France 2Cinema, Scope Pictures, con la partecipazione di Canal+ e Cine+ Distribuzione: Moviemax Prima: (Roma27-6-2012; Milano 27-6-2012) Soggetto: dal romanzo omonimo di Frédéric Beigbeder Sceneggiatura: Frédéric Beigbeder, Christophe Turpin, Giles Verdiani Direttore della fotografia: Yves Cape Montaggio: Stan Collet Musiche: Martin Rappeneau Scenografia: Christian Marti Costumi: Marie-Laure Lasson Interpreti: Louise Bourgoin (Alice), Gaspard Proust (Marc Marronnier), Joey Starr (Jean-Georges), Jonathan Lambert (Pierre),Valérie Lemercier (Francesca Vernesi, editrice), Frédérique Bel (Kathy), Elisa Sednaoui (Anne), Nicolas Bedos (Antoine), Bernard Menez (Padre di Marc), Anny Duperey (Madre di Marc),Thomas Jouannet (Insegnante di surf), Christophe Bourseiller (Parroco), Pom Klementieff (Fidanzata del padre),Camille Verschuere (Flore), Chloé Beigbeder (Bambino), Victoria Olloqui (Inès), Alain Buron (Giudice), Alain Kruger (Dottore), Frédéric Beigbeder (Soldato russo) Durata: 98’ Metri: 2700 37 Film ll’inizio del film lo scrittore Charles Bukowski definisce l’amore come una nebbiolina che ai primi bagliori della realtà svanisce. Ha poi inizio il racconto in prima persona dello scrittore Marc Marronnier e della sua storia d’amore con Anne. Dopo tre anni esatti, il suo matrimonio è finito. Marc e Anne divorziano perché lei gli preferisce uno scrittore di successo. Di nuovo single, Marc, critico letterario e cronista mondano che esce molto la sera per lavoro, cerca conforto dalle sue pene d’amore nella sua passione per il cantante Michel Legrand e inizia a scrivere un libro dal titolo “L’amore dura tre anni”, un cinico pamphlet che si basa sulla teoria che l’amore ha una data di scadenza precisa, tre anni appunto. Al funerale della nonna, Marc è folgorato da Alice, moglie di suo cugino Antoine. I giorni seguenti i due iniziano a frequentarsi. Il primo vero incontro d’amore con Alice avviene al bar dell’hotel “Amour”. La ragazza confessa che trova la coincidenza originale. Marc si confida con gli amici Jean-Georges e Pierre. Poco dopo, riceve una chiamata da Alice: i due si incontrano e si baciano per la prima volta. Poi fanno l’amore ma la ragazza ha paura che quando sarà davvero disponibile a lui non interesserà più. Intanto Marc viene chiamato da una casa editrice, dove l’editor Francesca Vernesi gli dice di voler pubblicare il suo libro e gli chiede il suo nome d’arte. Marc confessa agli amici che userà uno pseudonimo per pubblicare il suo romanzo perché Alice non lo deve sapere nulla. Dopo un romantico weekend nei Paesi Baschi, Marc chiede alla ragazza di lasciare il marito. Poco tempo dopo, esce il libro di Marc firmato con uno pseudonimo. Dopo averlo letto, Alice dice che si tratta di un autore scadente che confonde il desiderio con l’amore, parla di logorrea di un poveraccio immaturo. Tornata a casa, Alice trova un mazzo di fiori regalo del marito per i loro tre anni di matrimonio ma la ragazza, puntualmente con la teoria del libro, lo lascia e torna da Marc. Intanto il libro ha successo, ma Marc continua a non volersi mostrare in pubblico, rinunciando anche ai 300.000 euro di diritti d’autore. Il libro vince un premio letterario. Durante la premiazione, l’editrice legge un messaggio dell’autore ma poi, a sorpresa, lo presenta rivelandone l’identi- A Tutti i film della stagione tà. Alice vede la notizia in TV. La ragazza fa la valigia e discute con Marc rinfacciandogli la sua falsità: anche il titolo del suo libro è falso perché l’amore dura meno di tre anni e, oltretutto, spesso, come nel loro caso, non è neanche amore. Alice lo lascia. Distrutto, Marc si sfoga prima col padre, un uomo che si gode la vita, e poi con la madre scrittrice che lo accusa di essere un debosciato. Ora che è uno scrittore famoso, Marc ha successo con le donne ma è inconsolabile. Si reca sotto casa di Alice urlandole la sua disperazione al citofono; poi le scrive una lettera d’amore. Lui la aspetta tutte le sere nella piazza del loro primo bacio sempre alla stessa ora. Ospite in un programma televisivo, Marc si rivolge ad Alice in diretta e recita versi d’amore. Intanto l’editrice si complimenta con lui per il successo del libro e gli consiglia di andare in Australia a scrivere in un rifugio per scrittori. Poco tempo dopo, Jean-Georges confessa a Marc il suo colpo di fulmine per un surfista. 72 ore dopo, Marc si trova su una spiaggia a parlare con i due compagni omosessuali. Alice riceve la partecipazione alle nozze di Jean-Georges con un biglietto che la informa che sarà presente Marc in procinto di partire per l’Australia dove rimarrà due anni. Durante il matrimonio gay, viene presentata la sorpresa della giornata: Michel Legrand al piano. Subito dopo, arriva Alice. Finalmente Marc e Alice si baciano appassionatamente in riva al mare mentre un’enorme onda sta per travolgerli. ell’amore ... e non solo. Ancora una grande incognita, forse. Almeno stando alla teoria su cui ruota il romanzo “L’amore dura tre anni” di Frédéric Beigbeder da cui il film è tratto. Prendendo le mosse (e si parte decisamente “alto”, forse troppo) dall’assunto di Charles Bukowski secondo cui “l’amore è una nebbiolina che scompare all’apparire della realtà”, L’amore dura tre anni è una rielaborazione in chiave di sophisticated comedy del tema dell’amore a scadenza. La matrice letteraria del film è più che evidente, l’opera è costruita attorno alle parole, materia che il regista-scrittore ovviamente padroneggia alla perfezione. Critico letterario, scrittore, editore, Beigbeder abita e manipola le parole costruendo una sceneggiatura che sembra una D 38 tela intessuta alla perfezione tra rimandi letterari (da Shakespeare in giù), citazioni cinematografiche, riferimenti musicali. Il film racconta la costruzione di un romanzo, la sua genesi, i suoi esiti e poi quelle stesse parole diventano immagini e il libro si fa film. Sicuramente l’universo di Beigbeder è ricco, sfaccettato, pieno di riferimenti colti (e meno colti) ma forse un po’ troppo autoreferenziale quando diventa film. E la sensazione che si tratti solo di cinico e furbo romanticismo aggiornato al terzo millennio con uno sguardo indietro a illustri ma irraggiungibili “genitori” del passato si fa sempre più forte con il procedere del film. Truffaut fa capolino, ma solo con le dovute cautele si può rintracciare nelle pene d’amore del nostro Marc un lontano ricordo delle vicende sentimentali del fu Antoine Doinel raccontate dal maestro francese nelle celebri pellicole del ciclo omonimo. Quanti agli interpreti, alla luminosa presenza della fascinosa Louise Bourgoin (vista di recente anche nella commedia sulla “dolce attesa” Travolti dalla cicogna), non fa da pendant un Gaspard Proust che, incarnando una sorta di alter-ego vagamente autobiografico del regista, cerca di fare il verso al DoinelLéaud, ma ne è davvero lontano anni luce, prigioniero di un personaggio di illuso-disilluso troppo preso dalla sua gamma ristretta di espressioni tra lo stralunato e l’ammiccante. Sconfessare la teoria del titolo e del romanzo è, complice un incontro fatale, la missione della storia, raccontata dai fiumi di parole del film condensate in una moltitudine di riflessioni tra il serio e il faceto (e in una serie di frasi a effetto) ma che alla fine si rivelano un giochino intriso di ironia che gira intorno a sé stesso senza dire in fondo nulla di nuovo nonostante qualche divertente invenzione visiva. Alla fine dei conti, la vicenda di Marc e Alice sembra proprio dimostrare che, no, l’amore non ha (come uno yogurt) una data di scadenza esatta, no davvero. E allora? Allora forse la verità è molto più banale di tante teorie e di tanti filmetti pseudoraffinati ma non privi di una consistente dose di retorica e di aforismi banali come questo. L’amore è eterno... finché dura, sentenziava Carlo Verdone qualche anno fa nel titolo di un suo film, e forse è semplicemente davvero così. Elena Bartoni Film Tutti i film della stagione THE RUM DIARY – CRONACHE DI UNA PASSIONE (The Rum Diary) Stati Uniti 2011 Regia: Bruce Robinson Produzione: Graham King, Tim Headington, Johnny Depp, Robert Kravis, Anthony Rhulen, Christi Dembrowski per Filmengine, Dark & Stormy Entertainment, Gk Films, Infinitum Nihil Production Distribuzione: 01 Distribution Prima: (Roma 24-4-2012; Milano 24-4-2012) Soggetto: dal romanzo autobiografico di Hunter S. Thompson Sceneggiatura: Bruce Robinson Direttore della fotografia: Dariusz Wolski Montaggio: Carol Littleton Musiche: Christopher Young Scenografia: Chris Seagers an Juan, Porto Rico, 1960. Paul Kemp, giornalista free-lance e accanito bevitore si trasferisce sull’isola per scrivere sul “The San Juan Star” quotidiano locale sull’orlo del fallimento diretto dallo stanco Mr. Lotterman. Nella redazione del giornale Kemp fa la conoscenza di Sala, un fotografo di talento ma rovinato da una vita di eccessi. I due condividono un appartamento e diventano compagni di bevute. Lotterman dà l’incarico a Paul di andare in aeroporto per intervistare il sindaco di Miami al suo arrivo nell’isola. All’aeroporto il cronista si imbatte in Sanderson, un ricco uomo d’affari corrotto, che lo informa che il sindaco non arriverà a causa di un volo cancellato. Sanderson invita Paul a pranzo nella sua lussuosissima villa sul mare. Lì il giornalista rimane folgorato da Chenault, bellissima fidanzata dell’uomo d’affari. Quella sera Paul viene invitato a una festa nella villa di Sanderson e lì sotto le stelle, nel mare antistante la villa, vede apparirgli come una visione Chenault. Paul è fin da subito molto attratto dalla ragazza. Sanderson intuisce che Kemp potrebbe essergli utile e lo invita a un incontro con i suoi soci in affari il giorno dopo. Durante la riunione viene fuori che Sanderson sta progettando la costruzione di una serie di alberghi e condomini di lusso su un’isola incontaminata. Sanderson chiede a Kemp di scrivere articoli che sostengano i suoi progetti. Dopo una notte sfrenata di bevute con Sala e una lite con la polizia locale, Kemp viene arrestato. Poco dopo, viene salvato da Sanderson che usa i suoi soldi e la sua influenza per farlo rilasciare. Ora Paul è in debito con l’uomo d’affari e non può far altro che accettare la sua proposta. Sanderson lo invoglia ancora di più S Costumi: Colleen Atwood Effetti: Furious Fx, Kevin Harris, Hirota Paint Industries Interpreti: Johnny Depp (Paul Kemp), Aaron Eckhart (Sanderson), Michael Rispoli (Bob Sala), Amber Heard (Chenault), Richard Jenkins (Lotterman), Giovanni Ribisi (Moberg), Bill Smitrovich (Zimburger), Amaury Nolasco (Segurra), Marshall Bell (Donavon), Julian Holloway (Wolsey), Bruno Irizarry (Lazar), Enzo Cilenti (Digby), Aaron Lustig (Monk), Tisuby González (Rosy), Karen Austin (Signora Zimburger), Andy Umberger (Signor Green), Karimah Westbrook (Papa Nebo) Durata: 120’ Metri: 3300 prestandogli la sua magnifica auto, una Corvette rossa e chiedendogli di portare con sé Chenault. I due percorrono a forte velocità le strade dell’isola e Kemp è sempre più attratto dalla ragazza. L’atteggiamento ambiguo di Paul nei confronti di Sanderson è ancora più evidente quando l’affarista organizza una visita nei luoghi dove progetta di costruire resort e hotel. La bellezza dei luoghi colpisce Kemp ma dentro di sé cresce l’ira sentendo i discorsi dei soci di Sanderson su come liberarsi degli abitanti e trasformare l’isola incontaminata in un paradiso per turisti. Per farlo distrarre, Sala invita Paul al carnevale sull’isola dove incontrano Sanderson e Chenault già ubriaca. Sanderson è seccato che Paul abbia portato con sé Sala. La festa continua in un night dove il comportamento provocante di Chenault nei confronti di un ragazzo sulla pista da ballo fa si che scoppi una rissa. Sanderson, Paul e Sala vengono cacciati fuori dal locale. All’alba Chenault è sparita. Kemp torna con Sala a San Juan dove incontrano Moberg, un giornalista del “San Juan Star”, un uomo sopra le righe i cui interessi sono la droga e l’alcool. Moberg fa provare ai due un potente allucinogeno che si prende attraverso gli occhi. Dopo una notte di visioni, il mattino dopo Paul apre la porta del suo appartamento e si trova davanti Chenault. Paul va da Lotterman e gli dice che ha una storia per lui che riguarda Sanderson ma il direttore lo rimprovera di essere tutto ciò che non va in un giornalista. Paul va da Sanderson che, seccato, gli lancia gli abiti di Chenault dicendogli di godersela. Kemp torna a casa e si mette a scrivere un articolo in cui denuncia corruzione e avidità. Nel frattempo Sanderson ritira la cauzione: ora Paul e Sala rischia- 39 no di tornare in prigione. Il “San Juan Star” rischia di chiudere, ma Paul vuole pubblicare alcuni materiali contro Lotterman chiedendo l’appoggio dei colleghi. Il gruppo di giornalisti entra di forza nella redazione. Nel frattempo, Chenault parte per New York lasciando cento dollari a Paul che vuole stampare il giornale per sputtanare Lotterman e poi lasciare l’isola. Dopo aver vinto una grossa somma scommettendo sui combattimenti clandestini dei galli, Kemp e Sala vanno in redazione ma trovano Moberg che li informa che i curatori fallimentari hanno portato via tutti i macchinari. Con circa 6.000 dollari in tasca Paul prende la barca di Sanderson e lascia l’isola da solo riflettendo sul valore della verità, vera arma in mano al mestiere di cronista. essun attore meglio di Johnny Depp poteva vestire i panni dell’alter ego dello scrittore “di culto” Hunter S. Thompson inventore del “gonzo journalism” e protagonista di queste “cronache del rum”. Dopo Paura e delirio a Las Vegas del 1998, ecco di nuovo Depp vicino-vicino a Thompson. E questa volta si tratta, per ammissione dello stesso divo, di vero e proprio omaggio. Lo scrittore arrivò nel 1960 a Puerto Rico dove collaborò per un periodo come cronista per la rivista di sport “El Sportivo” che chiuse presto le pubblicazioni. Cercò quindi, senza successo, di farsi assumere al “The San Juan Star”. Le esperienze di quel periodo spinsero lo scrittore a scrivere “The Rum Diary”, un libro che non venne pubblicato almeno fino agli anni ’90, quando Depp, legatissimo a Thompson, scoprì casualmente il manoscritto durante una visita fatta allo scrittore nella sua casa di Woody N Film Creek. In una notte, i due decisero di pubblicare il romanzo e farne un film. Il regista scelto per scrivere la sceneggiatura e dirigere la pellicola fu Bruce Robinson. Thompson è morto nel 2005, ma Depp si è detto fermamente convinto che il suo amico avrebbe apprezzato molto questo film. Se da una parte merito indubbio va all’attore americano per aver scoperto il manoscritto scritto nel 1959 e abbandonato dall’inventore del “gonzo journalism” in un seminterrato della sua casa nella cosiddetta “stanza di guerra” piena di scatoloni, dall’altro il film tratto da queste Cronache del Rum ha tutto il sapore di un’operazione poco riuscita. Anche se la molla è stata forte. È noto come Depp abbia da sempre ammirato l’onestà di Thompson, la sua inconfondibile abilità nel mescolare cronaca, invenzione, commento spudorato e disarmante. Questo romanzo è la storia delle origini di Thompson: “È prima che Hunter diven- Tutti i film della stagione tasse Hunter o piuttosto, prima che Hunter Thompson diventasse il Dr. Hunter S. Thompson” ha sottolineato Depp. Quel giovane giornalista dedito al rum contiene “in nuce” quegli elementi che lo hanno portato a essere il maturo Raoul Duke di Paura e delirio a Las Vegas. Ma Robinson non è Terry Gilliam e forse è questa la ragione del fatto che lo spirito di Hunter S. Thompson, a dispetto dei fiumi di rum e di qualche trip allucinogeno compiuto nel film, alla fine latiti davvero. Insomma, più di un decennio prima del viaggio delirante a Las Vegas del dottor Duke in compagnia del suo avvocato samoano Dottor Gonzo, Raoul Duke da giovane, nei panni di Paul Kemp, era un giornalista-scrittore alla ricerca di tante risposte ma anche ancora, forse, del vero sé. E così guardando la coppia Kemp-Sala (un fotografo che diviene amico e complice di bevute e indagini giornalistiche) non si può non pensare a Duke-Gonzo da giovani. Peccato che alla mano dell’inglese Robinson (che pur aveva colpito per l’interessante opera prima Shakespeare a colazione nel 1987) manchi quel necessario tocco di follia che, unita a una cospicua dose di visionarietà, fece capire che Terry Gilliam fosse il geniaccio irriverente più adatto a trasportare sul grande schermo l’inconfondibile stile narrativo di Hunter Thompson. E il film, pur sorretto dalla buona prova interpretativa di Depp, ben coadiuvato da Aaron Eckhart, Michael Rispoli e Giovanni Ribisi (mentre la presenza di Amber Heard si limita a folgorare sul piano della bellezza), procede per due ore piene (decisamente troppe) seguendo il percorso di un racconto classicheggiante (condito da una fotografia fin troppo brillante e patinata), franando rovinosamente sulla più trita convenzionalità. E cioè niente di più lontano da Hunter Thompson e dal suo sogno americano infranto. Elena Bartoni L’ERA GLACIALE 4 – CONTINENTI ALLA DERIVA (Ice Age: Continental Drift) Stati Uniti, 2012 Regia: Steve Martino, Mike Thurmeier Produzione: Lori Forte, John C. Donkin per Blue Sky Studios Distribuzione: 20th Century Fox Italia Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012) Soggetto: Michael Berg, Lori Forte a forsennata caccia all’inafferrabile ghianda da parte di Scrat, iniziata nella notte dei tempi, ha delle conseguenze sconvolgenti per il mondo intero. Ossessionato dalla sua ghianda, l’animaletto sfortunato provoca un disastro di dimensioni epocali: la frattura della Pangea e la deriva dei continenti. Intanto il mammut Manny e la moglie Ellie sono alle prese con l’adolescenza della figlia Pesca, attratta da amicizie superficiali se non pericolose. Infatti si è presa la prima cotta per il giovane Ethan, un mammut carismatico, ma di poca sostanza. Per fortuna ha un grande amico, una simpatica talpa di nome Louis, che la protegge e non l’abbandona mai. Il bradipo Sid riceve la visita della sua numerosa famigliola, finalizzata esclusivamente a scaricare una nonnina un po’ “ingombrante”. All’improvviso gli animali si trovano a dover affrontare il cataclisma messo in moto da Scrat e il ghiaccio sotto le zampe comin- L Sceneggiatura: Michael Berg, Jason Fuchs Direttore della fotografia: Renato Falcão Montaggio: James M. Palumbo, David Ian Salter Musiche: John Powell Durata: 94’ Metri: 2600 cia a tremare fino a rompersi. Manny, Diego e Sid, con la compagnia della nonna si ritrovano alla deriva su un iceberg. La famiglia è costretta così a dividersi e mentre Ellie con la figlia Pesca e Louis si mettono in marcia per salvarsi, i tre amici iniziano a viaggiare sul loro iceberg, utilizzato come nave, alla ricerca della terra ferma. Dopo aver resistito eroicamente al richiamo incantatore di terribili mostri marini, il loro viaggio viene interrotto da una ciurma di pericolosi pirati, capitanata dall’odioso Capitan Sbudella, famoso predatore di tutti i mari. Tra i membri della sgangherata combriccola dei pirati, c’è Shira, una bella tigre dai denti a sciabola, che subito instaura un rapporto di rivalità con Diego. Ostinati a non farli tornare a casa per renderli membri dell’equipaggio, Capitan Sbudella e i suoi scagnozzi catturano Manny e gli altri. Tuttavia grazie all’intervento di una balena, amica della nonna, Manny e gli altri riescono a salvarsi e ad af40 fondare la nave di Sbudella. Ora però il pirata ha un motivo in più per vendicarsi. Shira viene catturata da Diego e si ritrova suo malgrado a continuare il viaggio con loro. Intanto Ellie e la figlia proseguono la loro marcia e la piccola mammut ha modo di sperimentare la superficialità dell’amato Ethan. La guerra poi si sposta sulla terra ferma. Shira torna con i pirati, ma ormai è stata surclassata da altri membri dell’equipaggio. Finalmente Manny riesce a ritrovare la sua Ellie, ma c’è ancora in agguato Sbudella. Di nuovo si trovano faccia a faccia con il terribile pirata. Pesca viene presa in ostaggio e grazie al coraggio del piccolo Louis e a Shira che questa volta si mette dalla loro parte, riescono ad avere la meglio. Sbudella invece finisce sbranato dai mostri marini che lo ammaliano con allettanti visioni. Scrat tra i titoli di coda raggiunge l’“Atlantide delle ghiande”, un vero paradiso dove dalle fontane sgorgano ghiande. Ma la sua golosi- Film Tutti i film della stagione tà e avidità non hanno limiti e toglie la ghianda-tappo che non deve essere toccata. Così viene tutto risucchiato. l tanto atteso quarto capitolo di L’era glaciale, ancora una volta distribuito dalla Fox, realizzato anche in 3D, non delude affatto le aspettative. Diventato un franchising dalla forza trascinante, L’era glaciale 4 - Continenti alla Deriva riporta in sala la famiglia più strampalata, allargata e meno “tradizionale” della storia del cinema. Se il cartone aveva sbancato i box office nel 2009 con il capitolo tre, riuscito nell’impresa a incassare ben trenta milioni di euro solo in Italia, Steve Martino e Michael Thurmeier questa volta non hanno fatto altro che aggiornare l’infinita avventura di Sid, Diego, Manny e Scrat, incrociando il mondo dell’Era Glaciale con i Pirati dei Caraibi. Il risultato è un ibrido animato in grado di soddisfare piccoli e adulti. La sicurezza è che i personaggi sono quelli già talmente conosciuti e amati che mai potrebbero stancare. Ora però si aggiorna la saga, ampliando la famiglia tradizionale dei primi tre capitoli, grazie a parenti naturali e acquisiti. Perché non servono per forza matrimoni e figli per considerarsi una “famiglia”, ma molto più semplicemente affetto, amore e amicizia. Legami affettivi che abbattono sesso e differenze di razza, da sempre al centro della trama. Dunque non solo quella “naturale”, composta dai mammut (naturale si fa per dire, non bisogna dimenticare gli opossum), ma anche quella disomogenea composta da esseri viventi quanto più diversi tra loro, che tuttavia si proteggono a vicenda, pur non avendo lo I stesso sangue. I nuovi personaggi sono tutti ben delineati e spudoratamente esilaranti. Parliamo di Pesca, figlia adolescente di Manny alla disperata ricerca di una maggiore libertà, della magnifica nonna di Sid, fonte inesauribile di guai e autentico vulcano di battute, di Shira, “femme fatale”, tigrata, coraggiosa e intraprendente che farà battere il cuore al grintoso Diego, ma soprattutto di lui, Capitan Sbudella, pirata rude e malvagio e incontrastato re dei mari. In questa odissea che è il viaggio di Manny verso il ricongiungimento familiare, non mancano riferimenti ai classici come al mito delle sirene e del vaso di Pandora, né accenni ai romanzi per ragazzi come Moby Dick e Pinocchio. Ma ciò che più si fa apprezzare in questo Continenti alla deriva è la quantità di battute riuscite e di gag originali e spassose. Fra le sequenze narrative, poi, s’inseriscono come di consueto le “invasioni barbariche” di Scrat, mini cortometraggi, sempre più curati e fantasiosi, che hanno per protagonista l’infelice animale all’inseguimento cronico della ghianda che rotola, scivola e s’inabissa fuori del pianeta. Novità anche nel campo del doppiaggio. Nella versione italiana Claudio Bisio e Pino Insegno, ormai veterani nel settore, tornano a prestare la voce a Sid e Diego, rispettivamente il bradipo e la tigre. Tra le new entry, il mammut Manny, doppiato stavolta da Filippo Timi, che sostituisce Leo Gullotta. Sebbene la tecnica tridimensionale sia spesso abusata nella produzione recente, stavolta i realizzatori hanno non solo indovinato l’occasione, ma anche la modalità d’uso, rendendo la visione fruibile anche ai più piccoli. Ma anche da adulti si esce dalla sala pienamente appagati e con il sorriso sulle labbra. Veronica Barteri MARGIN CALL (Margin Call) Stati Uniti 2011 Regia: J.C. Chandor Produzione: Michael Benaroya, Neal Dodson, Zachary Quinto, Robert Odgen Barnum, Corey Moosa, Joe Jenckes, per Benaroya Pictures, Before the Door Pictures in associazione con Washington Square Films, Sakonnet Capital, Partners, Untitled Entertainment Distribuzione: 01 Distributionc Prima: (Roma 18-5-2012; Milano 18-5-2012) Soggetto e sceneggiatura: J.C. Chandor Direttore della fotografia: Frank G. DeMarco Montaggio: Pete Beaudreau Musiche: Nathan Larson L e ventiquattr’ore che precedono la crisi finanziaria del 2008 in una grande banca di investimen- Scenografia: John Paino Costumi: Caroline Duncan Interpreti: Kevin Spacey (Sam Rogers), Paul Bettany (Will Emerson), Jeremy Irons (John Tuld), Zachary Quinto (Peter Sullivan), Penn Badgley (Seth Bregman), Simon Baker (Jared Cohen), Mary McDonnell (Mary Rogers), Demi Moore (Sarah Robertson), Stanley Tucci (Eric Dale), Aasif Mandvi (Ramesh Shah), Ashley Williams (Heather Burke), Susan Blackwell (Lauren Bratberg), Al Sapienza (Louis Carmelo), Peter Y. Kim (Timothy Singh), Grace Gummer (Lucy), Maria Dizzia (Assistente) Durata: 106’ Metri: 2900 ti. Eric Dale, uno dei capi-settore che gestisce l’ufficio gestione rischi di una banca di credito finanziario, viene licenziato in tron- 41 co. Ha pochissimo tempo per raccogliere i suoi effetti personali e lasciare gli uffici. Prima di andarsene, riesce però a consegnare Film una chiavetta di computer a un giovane analista, Peter Sullivan, raccomandandogli solo di fare attenzione. Peter analizza le informazioni contenute nel dispositivo e scopre che i dati che emergono dai file del collega evidenziano che la banca, appoggiandosi su azioni virtuali, ha le ore contate. Sullivan, che ha mostrato i dati al suo giovane collega Seth Bregman, mette in allarme Will Emerson, il suo referente, che subito informa della cosa Sam Roger, il loro capo. Dopo aver visionato i calcoli di Sullivan che ha ampliato il lavoro di Dale, Sam a sua volta informa il suo superiore, Jared Cohen. È necessario ritracciare Dale che, però, risulta irraggiungibile. La situazione è di grande rischio, i titoli dell’istituto hanno superato i limiti di volatilità già da circa sei giorni. Viene informata Sarah Robertson, responsabile del settore rischi, alla quale mostrano i risultati dei calcoli fatti prima da Dale e poi da Peter. Sono le due di notte ormai e il clima negli uffici è sempre più teso. Will Emerson ha paura che la gente smetta di comprare ciò che loro vendono e teme grosse perdite per il loro istituto. Tutto il gruppo di lavoro si reca a una riunione con John Tuld, il potente amministratore delegato della banca. Tuld si fa spiegare minuziosamente la situazione. La macchina su cui si sono arricchiti si è fermata, ma Tuld è convinto che debbano continuare a vendere le loro azioni anche se non hanno più valore. Devono assumere un comportamento rischioso se vogliono provare a sopravvivere. In un confronto privato con Tuld, Sam lo mette in guardia sul fatto che stanno mandando consapevolmente in rovina delle persone. Ma Tuld è irremovibile, quella è l’unica va d’uscita per salvarsi. Sam avverte tutti che si sta per compiere un vero bagno di sangue, si ricorderanno a lungo del giorno che sta per iniziare. Tuld dà un assegno a Sam e gli chiede di essere con lui. Sam ha delle riserve ma finisce per accettare. Nel frattempo, dopo essere andato a parlare con Eric Dale, Will dice al giovane Seth che sarà licenziato. Di prima mattina, si dà inizio all’operazione: Sam parla agli operatori del suo settore e spiega quello che dovranno fare. Si tratterà di vendere a prezzo di costo dei pacchetti azionari. Poco dopo, in un faccia a faccia con Tuld, Sam confessa di sentirsi in colpa per aver mandato sul lastrico molte persone. Tuld risponde cinicamente ricordando le crisi del 1929, 1974, 1987, 1992, 1997 e del 2000, è sempre la stessa storia che si ripete e il processo non si può né firmare, né rallentare, perché c’è sempre stata la stessa percentuale di fortunati e di sfortunati a questo mondo. Sconsolato perché costretto ad Tutti i film della stagione accettare di essere parte di un ingranaggio di cui non approva l’operato, Sam va via da solo, torna nel giardino davanti casa sua e piange la morte del suo amato cane. l tragico tramonto di un’era. Ventiquattr’ore fatali, in cui dall’alto di un grattacielo di Wall Street un pugno di uomini osserva la notte che lascia il posto all’alba di un nuovo giorno in cui, alla riapertura delle contrattazioni, il mondo sarà destinato a piombare nel gorgo di una crisi finanziaria epocale. Quella crisi che quegli uomini stanno contribuendo a creare. Nonostante l’andamento cadenzato e a tratti farraginoso, Margin Call ha dalla sua una forte tensione drammatica che tiene per tutta la sua durata grazie a un gruppo di attori in stato di grazia. Reso merito alla grande prova di un Kevin Spacey sempre all’altezza di ogni ruolo che interpreta, ai convincenti Paul Bettany e Zachary Quinto e a una ritrovata Demi Moore, va detto che su tutti svetta la classe innegabile di un perfetto Jeremy Irons: la sua interpretazione di uno squalo dell’alta finanza, vero ‘deus ex machina’ di un’operazione sconsiderata, è da applauso. Il pregio maggiore dell’opera è proprio nella sua apparente freddezza, il film non giudica, non emette sentenze, ma illustra i fatti con stile pacato e rigoroso. Quello messo su da J.C. Chandor è cinema di denuncia perfettamente congegnato, ottimamente recitato e ben diretto (stupefacente la sicurezza della mano di un regista esordiente). Il difetto maggiore però, si potrebbe dire, sta nel manico, perché il pericolo noia è dietro l’angolo, rischio che crediamo calcolato nel momento in cui si è scelto di trattare un tema così ostico per lo spettatore medio. E il tentativo di cercare di spiegare con parole semplici alcune cose come se ci si trovasse davanti a “un bambino o a un golden retriver” resta una promessa I mantenuta a metà. Davanti a certi discorsi sui “livelli di volatilità” di alcuni investimenti, di “test sugli andamenti storici”, ci si perde un po’ e si rimane perplessi se proprio non si è ferrati in materia di finanza. Cinematograficamente però l’operazione rimane valida. Un film capace di rappresentare il nodo di una crisi divenuta ben presto mondiale, il suo nucleo nevralgico, può essere considerato davvero il primo esempio di “cinema della recessione”. A questo proposito, appare perfetta la scelta del titolo, l’espressione “margin call” indica infatti la richiesta a un cliente, da parte dell’intermediario, di un deposito di copertura a garanzia di un fondo titoli (a fronte di una maggiore esposizione). Ma in parole povere, qui si tratta di avidità, solo di quella. In breve la banca d’affari, sull’orlo del baratro, ordina di vendere, vendere tutto al miglior prezzo fin dalle prime luci dell’alba, tanto all’ora di pranzo non varrà più niente. La banca si salverà ma ne usciranno a pezzi i risparmi, i risparmiatori ma anche l’intero sistema economico. Ed è bagno di sangue, perpetrato con freddezza e calcolo da uomini in giacca e cravatta e in uffici di prestigio. Tecnicismi finanziari a parte (che in fondo non è richiesto di comprendere appieno), il film mette di dito nella piaga di una cruciale quanto disarmante verità: la sorte economica di miliardi di persone è nelle mani di pochi potentissimi uomini. Detto in “soldoni”, un’ulteriore conferma del fatto che i risparmi della gente sono in balia di meccanismi spietati (nel caso specifico una banca che specula sul credito) che possono ridurli in cenere. Anche in una sola notte. La notte più lunga, più cupa, più nera, la notte che ha portato al collasso di un mondo: osservarla da dentro quelle mura dove tutto ebbe inizio al buio di una sala fa una certa impressione. PARANORMAN (ParaNorman) Sati Uniti 2012 Regia: Sam Fell, Chris Butler (II) Produzione: Laika Entertainment Distribuzione: Universal Pictures International Italy Prima: (Roma 11-10-2012; Milano 11-10-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Chris Butler (II) Direttore della fotografia: Tristan Oliver Montaggio: Christopher Murrie Musiche: Jon Brion Scenografia: Nelson Lowry Costumi: Deborah Cook Durata: 93’ Metri: 2550 42 Elena Bartoni Film orman è un bambino introverso e appassionato di horror che fatica a fare amicizie. Frequenta le scuole elementari, ma è emarginato dai compagni. Il suo problema infatti è che vede le persone morte. Tutti i trapassati che hanno ancora questioni irrisolte sulla terra gli appaiono e gli parlano, costantemente, nonna inclusa. Così Norman trascorre i pomeriggi guardando film horror alla tv in compagnia della dolce nonnina, rimastagli accanto per vegliare su di lui. A scuola è preso di mira dal bulletto di turno, Alvin, mentre a casa soffre l’incomprensione di un padre un po’ prevenuto, di una madre troppo affettuosa e di una sorella maggiore, Courtney, terribilmente superficiale. I familiari credono che quelle strane visioni di Norman siano solo un modo per mettersi al centro dell’attenzione. La madre, invece, pensa sia un passaggio che fa parte dell’elaborazione del lutto e lo difende con dolcezza. In più, da qualche tempo è preda di allucinazioni che sembrano catapultarlo nel passato. Per questo motivo gli altri lo credono un “diverso”, nonostante il piccolo paese in cui vive secoli prima sia stato teatro di diversi roghi di streghe e ancora se ne vanti come fosse un’attrazione turistica. L’unico ragazzino che si avvicina a Norman è un altro “freak” come lui, Neil, il ragazzo cicciottello della scuola, che condivide l’isolamento e le prepotenze del protagonista. I due riescono a giocare insieme e a capirsi e Neil è l’unico che trova straordinaria la capacità di Norman di vedere la gente morta. Tutto cambia però quando uno zio di Norman, ritenuto matto e barbone, comunica poco prima di morire che ora tocca a lui tenere lontani, ogni anno, i morti viventi e la maledizione di una delle streghe bruciate secoli prima. Secondo la leggenda, infatti, una strega perseguita gli abitanti del luogo che secoli prima l’avevano ingiu- N Tutti i film della stagione stamente condannata al rogo. Il fantasma dello zio spiega a Norman come poter fermare la strega e spezzare l’incantesimo, ma, pur avendo seguito le raccomandazioni, il bambino non sembra riuscire nell’intento. Anzi, dal cimitero risorgono tutti gli zombi, invadendo la città. Per bizzarre circostanze si ritrovano insieme Norman, la sorella civettuola, il bulletto della scuola, Neil e il fratello palestrato. Dopo varie discussioni mettono insieme il loro coraggio e decidono di affrontare i fantasmi, mettendosi contro tutto il paese. Dopo essersi riconciliato con gli zombie degli antichi inquisitori, Norman affronta la strega con coraggio e scopre la sua storia. In realtà si trattava di una bambina di nome Agata, accusata secoli prima, per paura e ignoranza, di stregoneria. Norman le parla e la riconduce nel luogo dove era stata bruciata per farla tornare in pace nel regno dei morti, dove l’aspettava anche la mamma. L’incantesimo finalmente è sciolto, tutto ritorna alla normalità, ma meglio di prima. Ora Norman è stimato e rispettato da tutti e la sua famiglia convive felicemente anche con la nonna fantasma. I n anticipo rispetto ad Halloween arriva sul grande schermo ParaNorman una grande produzione in stop motion d’animazione, firmata da Sam Fell e Chris Butler. La pellicola non fa mistero di trarre ispirazione dai grandi classici dell’horror per come vengono descritte atmosfere dark e personaggi (gli zombie su tutti, già presentati nel prologo attraverso un irresistibile film splatter di serie b in televisione). Sebbene in scala ridotta e per spettatori più piccoli, ParaNorman fa quello che è il lavoro dell’horror: indagare le fobie del suo pubblico per sovvertire il buonismo che solitamente regna nel cinema o nelle storie edificanti. Butler infatti riesce nell’impresa di tradurre per l’immaginario di un bambino e rendere coerente in una commedia animata, alcuni dei più grandi momenti del genere, senza tuttavia cadere nella banalità o nelle parodie forzate. Il timore dei fantasmi e delle visioni, le apparizioni nei bagni della scuola, la visita nella casa piena di scheletri e il confronto con lo spirito sono tutte sequenze di un film capace di deridere tutto e tutti per mostrare che un altro mondo è possibile. Nel film si porta avanti un discorso sulla diversità e sull’integrazione da non sottovalutare, L’eroe è infatti un outsider, un “freak” come viene chiamato nel film, che scopre come l’origine della paura di tutti quanti sia in realtà un’altra “diversa” proprio come lui. A essere davvero “strano”, invece, è il mondo degli adulti, che siano genitori poco comprensivi, cheerleader superficiali o muscolosi senza cervello, che si dimostrano incapaci di prendere le giuste decisioni, perché proprio in preda alla paura che non li fa ragionare. Si dedica molta attenzione ai bambini, che vengono trattati come veri adulti, facendoli ridere delle assurdità del mondo che li circonda ed entusiasmare con le immagini più spaventose. Un protagonista come Norman scatena subito l’empatia dello spettatore, perché timido, imbranato, insicuro, eppure onesto e generoso, perché riesce a riportare sulla retta via anche gli adulti. I dialoghi ci riportano nel vissuto di tutti i giorni e nel linguaggio tipico dei ragazzi. Un horror comico in cui si ride moltissimo e ogni sorriso svela una contraddizione, mette in ridicolo una figura di potere o aiuta a sovvertire l’ordine naturale delle cose. Non solo dunque pupazzetti in stop motion fotografati e animati in maniera impeccabile, con una cura incredibile per i dettagli e le espressioni, ma un lungometraggio inaspettato e dal ritmo incalzante, che riesce a coinvolgere in maniera trasversale diverse generazioni. Veronica Barteri MONSIEUR LAZHAR (Monsieur Lazhar) Canada 2011 Regia: Philippe Falardeau Produzione: Micro_Scope Distribuzione: Officine Ubu Prima: (Roma31-8-2012; Milano 31-8-2012) Soggetto: dal testo teatrale di Évelyne de la Chenelière Sceneggiatura: Philippe Falardeau, Évelyne de la Chenelière Direttore della fotografia: Ronald Plante Montaggio: Stéphane Lafleur Musiche: Martin Léon Scenografia: Emmanuel Fréchette Costumi: Francesca Chamberland Interpreti: Mohamed Fellag (Bachir Lazhar), Sophie Nélisse, Émilien Néron, Brigitte Poupart, Danielle Proulx ,Francine Ruel, Louis Champagne Durata: 94’ Metri: 2600 43 Film achir Lazhar è un algerino di cinquant’anni residente a Montreal che, saputo che in una scuola media è venuta a mancare un’insegnante, si presenta per prendere il posto di supplente. Il fatto è che l’insegnate titolare, Martine, si è impiccata proprio nell’aula dove Lazhar comincerà a insegnare a una classe di alunni profondamente scossi e sgomenti di fronte al primo evento doloroso della loro vita. L’insegnamento di Lazhar inizia subito in maniera non molto ortodossa (un dettato tratto da una pagina di Balzac) e così è facile ipotizzare che l’algerino nasconda qualcosa: egli è infatti fuggito dal suo Paese in seguito agli eccidi dei movimenti estremisti islamici che hanno trucidato tutta la sua famiglia e lo hanno reso un esule. Non solo, Bachir non ha mai fatto l’insegnante ad Algeri, come lui stesso confessa alla Preside verso la fine della storia, ma il gestore di un ristorante! Nonostante questo il rapporto che l’algerino instaura con i suoi allievi, al di là di una metodologia non particolarmente corretta, guadagna ogni giorno terreno e consenso: lui riesce a dare loro quella convinzione e quella forza capace di elaborare il suicidio della loro insegnante e li aiuta nella formazione di una personalità che apparterrà loro da adulti; i ragazzi invece, facendolo accostare a un mondo di esigenze, desideri, sogni e incapacità a lui sconosciute, riescono a fargli metabolizzare l’episodio sanguinoso che ha travolto la sua famiglia e permetterne così l’inserimento nella nuova società civile. Alcuni dei genitori dei ragazzi però, messi in attenzione per gli insegnamenti B Tutti i film della stagione un po’ sui generis che avvengono in classe fanno delle ricerche approfondite presso l’amministrazione cittadina e scoprono che lo stato civile di esule non permette a Bachir di insegnare nelle scuole. È tempo per lui di lasciare la sua classe. Il distacco è struggente per tutti ma enorme è il dono che tutti scambievolmente si sono fatti. i può essere dei pessimi insegnanti pur sapendo insegnare e degli ottimi insegnanti pur non sapendo insegnare per nulla. Ed è un ottimo insegnante il Lazhar protagonista di questo film perchè oltre stimolare la prontezza e la curiosità intellettuale dei suoi ragazzi, avvalendosi di una cultura che travalica i paletti dei programmi ministeriali, S fa loro intravedere le mille sfaccettature in cui può presentarsi la vita e come questa possa mutevolmente realizzarsi nei modi più impensati e dolorosi. Sono le stesse cose che Lazhar impara dagli allievi mentre le insegna perchè anche lui ha bisogno di colmare quel vuoto terribile dietro le spalle e per cui talvolta si ferma, si blocca attonito, lo sguardo nel vuoto come se in quel momento gli sfiorasse l’idea che non ci sia nulla che possa insegnare o imparare, sufficiente e capace di colmare quel vuoto. Una cosa fondamentale però la imparano tutti, insegnante e allievi: anche se la vita va avanti e intorno non restano che vuoti, bene; altrettanto frequentemente e misteriosamente si costituiscono dei “pieni” in un travaso continuo e circolare di intelligenza, rispetto, tolleranza, amicizia, amore. Siamo felici che in questo momento ci sia quest’altro film sulla scuola (varie sono le pellicole già uscite e in corso di edizione), un settore che più di altri appare nel nostro Paese offeso e degradato a causa di una prolungata, opaca, miope e criminale gestione della cosa pubblica. Talvolta il cinema è capace di scatti in avanti, frutto di esigenze insopprimibili e di sguardi anticipatori; confidiamo che questo film pieno di significati allegorici e di tocchi poetici privi di patetismi e banalità possa costituire un tassello importante di una strada tutta da percorrere, alla pari del racconto che chiude il film, che narra della crisalide che dopo sforzi, privazioni e sostegni da chi le è vicino, sarà in grado, da sola, di volare. Fabrizio Moresco APPARTAMENTO AD ATENE Italia 2011 Regia: Ruggero Dipaola Produzione: L’occhio e la Luna, Pandora Filmproduktion Distribuzione: Eye Moon Pictures Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012) Soggetto: dal romanzo omonimo di Glenway Wescott Sceneggiatura: Heidrun Schleef, Ruggero Dipaola, Luca De Benedittis Direttore della fotografia: Vladan Radovic Montaggio: Roberto Missiroli Musiche: Enzo Pietropaoli Scenografia: Luca Servino Costumi: Alessandra Lai Interpreti: Laura Morante (Zoe), Gerasimos Skiadaressis (Nikolas), Richard Sammel (Capitano Kalter), Vincenzo Crea (Alex), Alba de Torrebruna (Leda) Durata: 95’ Metri: 2600 44 Film tene, 1943, l’appartamento abitato dalla famiglia Helianos viene requisito per ospitare un ufficiale tedesco, il Capitano Kalter. L’ex editore di libri scolastici Nikolas Helianos e sua moglie Zoe hanno due figli, la mite Leda di tredici anni e il ribelle Alex di dodici. Il nuovo ospite si installa nell’appartamento occupando tutti gli spazi della famiglia: si sistema nella camera da letto dei padroni di casa, riserva il bagno a suo uso esclusivo, si siede da solo in salone facendosi servire i pasti, regola gli orari della famiglia, sistema i suoi libri e i suoi sigari nello studio. Gli Helianos si sottomettono, remissivi, alle rigide regole imposte da Kalter. Ma mentre la piccola Leda sembra subire un fascino simile a un’infatuazione per il Capitano, l’irrequieto Alex cova risentimento rifiutandosi di piegarsi agli ordini imposti dall’ufficiale nazista. Incaricato di portare gli avanzi della cena al Maggiore Von Roesch che ha un cane adorato, Alex, affamato, mangia il cibo per strada e non esegue l’ordine. Venuto a conoscenza dell’accaduto, Kalter punisce il ragazzo accusandolo di essere uno spocchioso e un ladro e di averlo messo in cattiva luce con un suo superiore. Poi il Capitano costringe Nikolas a picchiare il figlio sotto i suoi occhi. Improvvisamente però accade l’inaspettato. Richiamato in patria, il Capitano si assenta per due settimane alla fine delle quali rientra completamente trasformato. È stato promosso Maggiore ma è mite, depresso, non ha appetito, assume un atteggiamento più gentile e non prova più piacere nell’esercizio del suo potere: sembra addirittura trovare confidenza e dialogo con Nikolas. I due si trattengono in chiacchiere dopo cena nello studio e Kalter mostra interesse all’attività di editore di libri che Helianos aveva prima della guerra. I due parlano di letteratura, filosofia e musica. L’ufficiale sta facendo testamento e sta lasciando tutto a una scuola di musica di Lipsia. Una sera, Kalter confessa di aver perduto sua moglie e i suoi due figli, l’ultimo dei quali in guerra: l’amaro sfogo lo porta a crollare e ad ammettere di essere stanco della guerra. Nikolas replica dicendo ciò che pensa su tutto il male portato dal grande potere di Hitler e Mussolini. Proprio questa battuta, manda su tutte le furie il Maggiore che scatena la sua ira sul povero Nikolas. Kalter fa arrestare l’uomo e poi comunica alla moglie che è necessaria un’indagine su suo marito. Zoe reagisce con fermezza e apparente freddezza. Poco dopo l’ufficiale si chiude nella sua stanza e si spara. Zoe cerca di mantenere la cal- A Tutti i film della stagione ma. Sopraggiunge il Maggiore Von Roesch che trova una lettera di Nikolas sullo zerbino di casa Helianos e la consegna a Zoe. La donna offre del cibo per il cane dell’ufficiale, poi confessa al piccolo Alex di essere sicura che Van Roesch aiuterà Nikolas a uscire di prigione. Poco dopo però, a casa dell’ufficiale, scopre che Kalter quella mattina, prima di uccidersi aveva dato un ultimo ordine a Von Roesch. Nella compostezza del suo dolore, Zoe legge l’ultima lettera scrittale dal marito dalla prigione. nche se incentrato su un momento storico troppe volte portato al cinema, seppur visto da un’angolazione inedita, il film di Ruggero Dipaola è un’opera prima sobria e delicata, al tempo stesso carica di dolore e rabbia. Per questo motivo Appartamento ad Atene è un film apprezzabile, proprio perché riesce nella ricerca di un difficile equilibrio di toni e registri. Una “piccola” storia di un’invasione privata che rispecchia la “grande” storia dell’oppressione nazista. Un’invasione fisica di spazi intimi, familiari, personali, ma anche un’invasione dell’anima. L’inflessibile capitano tedesco sembra davvero desideroso di succhiare l’anima dei suoi ospitanti attraverso l’esercizio di un potere assoluto che toglie ai dominati anche le più elementari libertà. Le diverse reazioni dei componenti della famiglia all’ospite sgradito disegnano un nitido, quadro di equilibrio tra le parti. Come ha sottolineato il regista, il film non parla solo di nazismo ma ruota attorno alle relazioni che si sviluppano tra le persone e all’ambiguità dei rapporti umani, spesso fonte di logiche imprevedibili e spietate. Alla sottomissione servile del padre e alla fascinazione che diviene quasi “innamoramento” della piccola Leda, fa da pendant la reazione di opposizione dura del figlio minore Alex (che porta il A nome dell’indomito e fiero condottiero macedone) che culla fantasie di vendetta e della madre Zoe, che si piega solo in apparenza riuscendo a tenere una rigida distanza da un carnefice di cui non si fida neanche dopo l’apparente cambiamento. E l’ombra dell’immane tragedia della follia della Guerra (il maiuscolo è d’obbligo) si allunga oscura verso un drammatico finale. L’esordiente Dipaola prende il romanzo di Glenway Wescott “Appartamento ad Atene” e lo traduce sul grande schermo con sensibilità e coraggio, firmando un film convincente che regala momenti intensi pur nella sua struttura chiusa: un kammerspiel raffinato con pochissimi esterni che riesce a mantenere sempre alta la tensione emotiva anche grazie a un ottimo cast. Accanto ai validi protagonisti maschili, Gerasimos Skiadaresis (Il mandolino del capitano Corelli di John Madden e Il passo sospeso della cicogna di Theo Angelopoulos) e Richard Sammel (Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino), il valore aggiunto al femminile è rappresentato da Laura Morante (attrice fortemente voluta da Dipaola) sul cui volto intenso di moglie e madre, accompagnato dalla voce del marito che legge la sua commossa lettera-testamento, si chiude il film. Una nota felice infine: il film vanta un piccolo record, essendo stato presentato in 51 Festival in giro per il mondo e ricevendo ben 27 premi. Tra questi il Premio come Miglior Film nella sezione Vetrina dei Giovani Cineasti Italiani al Festival Internazionale del Film di Roma 2011 e lo stesso riconoscimento al Los Angeles Greek Film Festival. Un motivo per sorridere e ben sperare per Ruggero Dipaola e la sua storia “particolare” e allo stesso tempo “universale”. HOTEL TRANSYLVANIA (Hotel Transylvania) Stati Uniti 2012 Regia: Genndy Tartakovsky Produzione: Sony Pictures Animation Distribuzione: Warner Bros. Picture Italia Prima: (Roma 8-11-2012; Milano 8-11-2012) Soggetto: Todd Durham, Dan Hageman, Kevin Hageman Sceneggiatura: Peter Baynham, Robert Smigel Montaggio: Catherine Apple Musiche: Mark Mothersbaugh Scenografia: Marcello Vignali Effetti: Sony Pictures Imageworks Inc. Durata: 91’ Metri: 2500 45 Elena Bartoni Film racula, dopo la morte prematura della moglie, cresce amorevolmente la sua unica figlia, Mavis. Come ogni buon padre, quando arriva il suo centodiciottesimo compleanno le prepara una magnifica festa e invita tutto il mondo dei mostri per brindare insieme. Fra gli invitati, però, compare anche Jonathan, un ragazzo umano capitato lì per caso. Dracula è inorridito all’idea che i suoi ospiti possano scoprire l’intruso e, sotto minaccia, lo convince a travestirsi da mostro. Jonathan tutt’altro che spaventato sta al gioco diventando il beniamino della festa. Anche Mavis non può che notare lo strano ragazzo e, in poche ore, se ne innamora. Il padre preoccupato prende in disparte Jonathan e lo obbliga a rifiutare le attenzioni di sua figlia perché sua moglie è stata uccisa da degli umani come lui. Il ragazzo mantiene la promessa; quando Mavis lo bacia infatti, oltre a rivelarle la sua natura, la copre di insulti e scappa via. Dracula è convinto di aver agito bene, ma sua figlia è distrutta. Con l’aiuto di altri mostri, allora, corre in paese alla ricerca del ragazzo. Qui scopre che gli umani non sono così cattivi come ricordava e che, anzi, sono disposti a dargli una mano. In breve tempo riesce a raggiungere Jonathan, salito in lacrime su un aereo, e gli propone di tornare con lui da sua figlia. Il D Tutti i film della stagione giovane accetta e inizia una nuova vita insieme a Mavis e ai suoi amici mostri. a vita, a volte, è semplicemente una questione di punti di vista. Basta essere al di là della barricata per etichettare tutto ciò che è estraneo come mostruoso. Eppure c’è qualcosa che accomuna tutti gli esseri viventi (o pseudo tali): l’amore per i propri figli. In questi casi, non c’è differenza che tenga; umani, mostri, ibridi seguono tutti le stesse regole, così come i loro pargoli in perenne ricerca di una identità che quasi sempre si trasforma in una sana ribellione. Anche a 118 anni, come accade a Mavis, la figlia del temutissimo conte Dracula nella nuova pellicola di Tartakovsky Hotel Transylvania. In questo film, già campione d’incassi al botteghino, le caratteristiche che hanno dominato il cinema per oltre cento anni si invertono: sono gli umani il pericolo, i cattivi, mentre i mostri detengono lo scettro del bene. I problemi nascono quando una vampira, Mavis appunto, si innamora di un ragazzo “normale” costringendo tutto il nutrito gruppo di strane creature a rivedere le sue posizioni e, soprattutto, i suoi pregiudizi. Tartakosky, noto al pubblico televisivo per essere il padre del genietto Dexter, mette in scena un lungometraggio animato efficace, divertente e, per alcuni aspetti, anche educativo. L Partendo da una trama piuttosto semplice, riesce a costruire un racconto dal ritmo serrato, incalzante che non si perde mai dietro alle numerose gag e riesce perfettamente a conciliare il divertimento con l’intento pedagogico, senza annoiare o risultare banale. È facile, infatti, quando si parla di rispetto dell’altro scivolare su ovvietà o su concetti istituzionalizzati, specialmente quando ci si rivolge a un pubblico molto giovane; ecco Tartakosky evita tutto questo usando una formula “rockeggiante “e veloce che permette di digerire il messaggio risultando anche originale. A completare la riuscita messa in scena anche l’insospettabile bravura dei doppiatori, Cladio Bisio e Cristiana Capotondi, abili nel dare colore alle voci di Dracula e Mavis. Certo dovrebbe essere una dote naturale per gli attori e non dovrebbe neanche esser menzionata, ma visti alcuni recenti doppiaggi per l’animazione è quasi doveroso riconoscere un buon lavoro quando viene fatto. In conclusione, Hotel Transylvania è una pellicola che centra l’obbiettivo, intrattiene i più piccoli senza far sbadigliare troppo i più attempati accompagnatori, e non è da poco. Se poi poi nel giudizio si aggiunge il perfetto tempo comico con la battuta su Twilight, l’applauso è quasi d’obbligo. Francesca Piano I BAMBINI DI COLD ROCK (The Tall Man) Canada, Francia, Sati Uniti 2012 Regia: Pascal Laugier Produzione: Radar Films, Minds Eye Entertainment, Forecast Pictures, in associazione con Snd, Highwire Pictures e Iron Ocean Filmsm, con la partecipazione di M6, Canal+ Distribuzione: Moviemax Prima: (Roma 21-9-2012; Milano 21-9-2012) V.M.: 14 Soggetto e Sceneggiatura: Pascal Laugier Direttore della fotografia: Kamal Derkaoui Montaggio: Sébastien Prangère Musiche: Todd Bryanton, Christopher Young (temi aggiunti) Scenografia: Jean-André Carrière ella cittadina di Cold Rock si susseguono numerosi rapimenti di bambini che gettano la popolazione nello sconforto. Fra la gente si fa strada la convinzione che l’artefice di tutto sia un mostro che abita nel bosco chiamato “l’uomo alto”. Julia, la giovane infermiera del paese N Costumi: Angus Strathie Interpreti: Jessica Biel (Julia Denning), Stephen McHattie (Tenente Dodd), William B. Davis (Sceriffo Chestnut), Jakob Davies (David), Jodelle Ferland (Jenny), Samantha Ferris (Tracy), Katherine Ramdeen (Carol), Colleen Wheeler (Sig.ra Johnson), Teach Grant (Steven), Eve Harlow (Christine), Janet Wright (Trish), John Mann (Douglas), Garwin Sanford (Robert), Ferne Downey (Lady/Sig.ra Parker Leigh), Lucas Myers (Vicesceriffo Campbell), Georgia Swedish (Sig.ra Ashcroft), Prya Lily Campbell (Tiffany) Durata: 98’ Metri: 2700 vedova con un bimbo piccolo, David, non crede a queste superstizioni fino a quando una sera non assiste al rapimento del figlio. Disperata rincorre la figura scura, ma, nonostante una lotta furibonda, riesce a farsela scappare. Aiutata da un poliziotto, si dirige nel bar del paese per avere le prime cure, ma 46 qui scopre una strana alleanza fra la proprietaria e i gli avventori del locale. Spaventata scappa via alla ricerca del figlio. Lo trova in un casolare, ma il bambino sembra spaventato da lei. Viene colpita brutalmente da una donna che si presenta come la vera madre del bambino e che con la tortura le fa confessare di essere lei in Film realtà il mostro che rapisce i bambini. La polizia sta arrivando, ma Julia, con l’aiuto di Jenny, una ragazzina con problemi corsa a darle una mano, riesce a scappare e portare con sé David. Arrivata a casa, avverte Christine, la babysitter dell’accaduto e promette a Jenny che “l’uomo alto” verrà anche per lei. La casa è circondata. Tutto il paese ormai sa chi si cela dietro i rapimenti e urla vendetta. La polizia a fatica riesce a far uscire Julia da casa, mentre Christine per la disperazione si impicca, ma David sembra sparito nel nulla. In carcere Julia confessa di aver rapito i bambini del paese perché vivevano in situazioni poco adatte a loro e di averli uccisi perché non riusciva a mantenerli tutti. Gli inquirenti a più riprese le chiedono in luogo dove sono sepolti i corpi, ma la donna si rifiuta di rispondere a questa domanda attendendo fra le lacrime la terribile sentenza. Nel frattempo, Jenny mentre assiste all’ennesimo litigio fra la madre e il compagno della sorella viene rapita da un uomo, il marito di Julia creduto morto, che la porta in una nuova città, le fa cambiare nome e la fa adottare da una famiglia amorevole. Qui scopre che anche gli altri bambini scomparsi, incluso David, sono stati adottati e vivono una vita felice grazie a Julia e a suo marito. Tutti i film della stagione ià al suo esordio con Saint Ange il cineasta francese Pascal Laugier aveva dimostrato, seppur con qualche incertezza, di volersi ritagliare un ruolo importante nel mondo dell’horror psicoanalitico. Dopo anni di studio e qualche altra esperienza, con la sua ultima fatica ha centrato in pieno l’obiettivo confermandosi come uno dei giovani registi europei di genere capaci di competere a livello internazionale. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze. I bambini di Cold Rock, infatti, si presenta al pubblico in incognito con una veste logora e una trama che di originale ha ben poco. Neanche l’ambientazione, l’ormai inflazionata provincia americana, è di quelle più accattivanti. Ma, dopo una partenza faticosa, il film prende vita travolgendo lo spettatore in un ritmo serrato. Niente è come sembra e quando si ha l’illusione di aver compreso il mistero ecco il colpo di scena che rimescola i tasselli riportando l’indagine su altre direzioni per arrivare a un epilogo sofferto e decisamente spiazzante. Non ai fini narrativi, ma per il risvolto morale che lo accompagna: è giusto rapire un bambino disagiato, privarlo dell’affetto dei genitori, per offrirgli un futuro migliore? La risposta potrebbe essere ovvia, ma Laugier attraverso una sofisticata tecnica registica porta lo spet- G tatore a vacillare, a sospettare che determinate dinamiche non siano tanto scontate come si vuole credere. E imprime questo suo pensiero con un “forse”, un interrogativo tagliente che accompagna i titoli di coda. Ovviamente ogni persona è libera di crearsi un’opinione a riguardo e, poiché la questione estremamente delicata, esula da ogni competenza cinematografica è giusto non confondere il lettore con considerazioni di natura prettamente personale. In realtà, questo spingere chi guarda a porsi delle domande potrebbe considerarsi il valore aggiunto della pellicola che altrimenti si ridurrebbe ad un semplice thriller sulla figura archetipica dell’uomo nero, decisamente poco allettante. Sul fronte delle interpretazioni è doveroso spezzare una lancia in favore di Jessica Biel, la protagonista, inopinatamente massacrata da critica e pubblico. La sua recitazione non fa certo gridare all’Oscar, ma sicuramente rende onore a un personaggio complesso che, come in Saint Ange, nasconde, dietro un atteggiamento materno portato agli eccessi, una fragilità emotiva inquietante. Un ritratto femminile che diventa quasi la “firma” di Laugier, un’ossessione su cui varrebbe la pena di indagare. Francesca Piano REALITY Italia, Francia 2012 Regia: Matteo Garrone Produzione: Domenico Procacci e Matteo Garrone per Archimede Film, Fandango, Le Pacte-Garance Capital, in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012) Soggetto: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Massimo Garrone, Massimo Gaudioso Direttore della fotografia: Marco Onorato Montaggio: Marco Spoletini Musiche: Alexandre Desplat Scenografia: Paolo Bonfini apoli, oggi. Luciano, sposato, tre figli, è un pescivendolo che per integrare i suoi scarsi guadagni si arrangia facendo piccole truffe insieme alla moglie Maria. Attore di natura, non perde occasione per esibirsi durante sfarzosi matrimoni o di fronte ai clienti N Costumi: Maurizio Millenotti Effetti: Leonardo Cruciano Interpreti: Aniello Arena (Luciano), Loredana Simioli (Maria), Nando Paone (Michele), Graziella Marina (Mamma di Luciano), Nello Iorio (Massimone), Nunzia Schiano (Zia Nunzia), Rosaria D’Urso (Zia Rosaria),Giuseppina Cervizzi (Giusy), Claudia Gerini (Presentatrice GF), Raffaele Ferrante (Enzo), Paola Minaccioni (Cliente romana), Ciro Petrone (Barista), Salvatore Misticone (Calzolaio), Vincenzo Riccio (Vincenzo), Martina Graziuso (Martina), Alessandra Scognamillo (Alessandra) Durata: 115’ Metri: 3180 della pescheria. Finché un giorno, per scherzo, più per accontentare le pressanti richieste dei figli e dei parenti, partecipa a un pre-provino del Grande Fratello organizzato all’interno di un centro commerciale. Passano i giorni, Luciano quasi se ne dimentica, poi arriva la telefona47 ta: la produzione del programma lo vuole rivedere per un vero provino, stavolta a Roma. Luciano arriva nella capitale con moglie e figli, entra a Cinecittà, sostiene il provino. E quando esce da lì la sua vita non sarà più la stessa: “Ho fatto un figurone Marì!”, dice alla moglie. La convin- Film zione di averli “scioccati” cede giorno dopo giorno il posto a un’altra certezza: l’uomo è sicurissimo di essere stato scelto per la nuova edizione del programma. Ora, ogni sua azione, ogni singolo momento della sua vita, è scandito da una paranoia sempre più autodistruttiva, maniacale: la produzione lo osserva, pensa Luciano, segue ogni singolo momento della sua giornata, lo sta “testando” definitivamente per verificare se, durante il provino, l’uomo ha raccontato di sé il vero o spudorate menzogne. È un loop senza fine, un distacco dalla realtà che porterà Luciano a compiere azioni scellerate, tra le quali vendere la pescheria e donare ai poveri ogni cosa, mobili e vestiti, solamente perché convinto che un senzatetto che gli ha chiesto l’elemosina sia in realtà un altro attore della messinscena che lui stesso si è costruito. Ma il Grande Fratello inizia, e lui non viene più richiamato. Tornerà lo stesso a Roma, in occasione della via Crucis, insieme all’amico Michele: ma Cinecittà è lì, a due passi e Luciano non potrà non raggiungere quella che ormai considera la sua “casa”. Si in- Tutti i film della stagione troduce, di nascosto, e osserva i partecipanti al reality, quelli “veri”, per poi stendersi su un lettino del giardino e osservare le stelle. A pertura: dolly aereo, poi zoom su una carrozza diretta a uno sfarzoso matrimonio. Chiusura: zoom out ascensionale sul protagonista disteso e ridente nel giardino della casa del GF. In mezzo, il racconto di un sogno che conduce alla follia. Matteo Garrone, dopo Gomorra, voleva realizzare un film “piccolo”, che lo “aiutasse a superare l’ansia da prestazione dopo l’enorme successo ottenuto con il film precedente”. Reality però, per fortuna, sarà “piccolo” nelle premesse, ma è un altro grandissimo spaccato, disarmante specchio di un paese alla deriva: Luciano (interpretato magistralmente dall’ergastolano Aniello Arena) diventa protagonista di un reality che invece non è mai iniziato, ma che la sua testa non vuole più abbandonare. Garrone dirige una favola moderna, con le musiche di Desplat che ne amplificano la direzione fiabesca, da una prospettiva insieme felliniana e debitrice dello sguardo dei vari Germi o Risi, De Sica o Eduardo, per seguire poi la discesa agli inferi di un uomo la cui ossessione finisce inevitabilmente per distorcere il senso delle cose, della vita, del reale. E lo fa, ancora una volta, attraverso filtri ed espedienti, tecnici e narrativi, che non distorcono ma che nemmeno soffocano la verve insieme surreale e drammatica dell’intera vicenda: sì, perché forse in apparenza Reality è un film meno tragico di Gomorra, ma non si può dire non sia altrettanto agghiacciante. Caldo nei colori e nelle luci del compianto Marco Onorato, glaciale nel ritratto di un microcosmo abitato nuovamente da attori semisconosciuti (Claudia Gerini ha una sola posa, come conduttrice del programma tv), il film prende le mosse da un fatto di cronaca realmente accaduto e costringe lo sguardo a specchiarsi su una superficie di volta in volta più riflettente, trasformando la farsa in orrore. Vincitore del Grand Prix al 65° Festival di Cannes, stesso riconoscimento ottenuto nel 2008 con Gomorra. Valerio Sammarco UN GIORNO SPECIALE Italia, 2012 Regia: Francesca Comencini Produzione: Carlo Degli Esposti per Palomar Distribuzione: Lucky Red Prima: (Roma 4-10-2012; Milano 4-10-2012) Soggetto: dal romanzo “Il cielo con un dito” di Claudio Bigagli Sceneggiatura: Giulia Calenda, Francesca Comencini, Davide Lantieri (collaborazione) Direttore della fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Massimo Fiocchi, Chara Vullo ina si alza presto e viene preparata, truccata e vestita dalla madre per essere al meglio in occasione di un appuntamento importante che, sempre la madre, è riuscita a procurarle con il consueto giro parentale; Gina vuole fare l’attrice e da tempo studia per questo fine, naturalmente ha bisogno della spinta necessaria per entrare dalla porta giusta. L’appuntamento è con l’On. Balestra, particolarmente vicino al mondo della televisione, quindi l’uomo giusto per aprire la porta giusta. Naturalmente madre e figlia sanno che qualcosa in cambio l’onorevole vorrà, ma un G Musiche: Ratchev & Carratello Scenografia: Paola Comencini Costumi: Ursula Patzak Interpreti: Filippo Scicchitano (Marco), Giulia Valentini (Gina), Roberto Infascelli (Autista deposito), Antonio Giancarlo Zavatteri (Onorevole Balestra), Daniela Del Priore (Marta), Rocco Miglionico (Rocco) Durata: 90’ Metri: 2470 “piccolo” sacrificio può essere sopportato se in grado di condurre a un brillante futuro. A prendere Gina con un classico macchinone scuro d’ordinanza si presenta Marco, anche lui giovanissimo, addirittura al suo primo giorno di lavoro come autista presso la società di noleggio di auto di rappresentanza. Marco è entusiasta e grato per la sua nuova vita lavorativa che, grazie alla madre, è riuscito ad avere e si mostra disponibile, positivo e gentile nei confronti di Giulia che inizialmente sta molto “sulle sue” e risponde con una certa supponenza ai 48 tentativi di conversazione del giovane come volesse far sentire la differenza tra il lavoro ordinario di lui e il luminoso futuro che sembrerebbe le sia stato assegnato. I continui rinvii dell’appuntamento (l’onorevole ha una giornata molto impegnata) che giungono a Marco tramite cellulare offrono ai due giovani la possibilità di passare molte ore insieme: da una passeggiata in campagna a un giro in un centro commerciale e al bowling, da un percorso ai Fori Romani a una colazione spropositamente cara sul conto dell’onorevole fino a un maldestro ten- Film tativo, più che altro una sbruffonata, di furto di un vestito in una preziosa boutique del centro che rischia di mandare a monte la giornata. Marco e Gina hanno così la possibilità di comunicare e capirsi, di confidarsi pezzi della propria vita, le proprie paure, speranze e difficoltà e lasciano anche che sorga tra di loro qualcosa di serio (soprattutto da parte di Marco), anche se non compiutamente espresso. La giornata volge al termine, finalmente arriva il via libera dall’onorevole il cui studio è raggiunto dai due giovani con il magone nel cuore: Marco è prontamente allontanato, Gina si presta arrendevole a “pagare” il prezzo della sua entratura negli ambienti televisivi. In un mutismo di piombo Marco riaccompagna Gina a casa che racconta alla madre che tutto è andato come doveva andare, cioè bene; Marco scarica la sua rabbia e la sua impotenza in una lite furibonda con i colleghi dell’agenzia di noleggio (restituisce il bel macchinone con una brutta strisciata) e trasforma il suo primo giorno di lavoro nell’ultimo; corre poi da Gina in moto e la chiama da sotto le finestre ma la ragazza è assorta e inebetita per come ha dato il via alla sua nuova esistenza. cena dopo scena sembra proprio che Francesca Comencini non riesca a fermare la sua sofferenza e la sua rabbia nel presentarci questa storia di vita ordinaria che ogni giorno si consuma sotto i nostri occhi impotenti e complici e che ha al suo centro come un’intera generazione di giovani sia stata svilita, mercificata, privata dei suoi valori fondamentali da madri ignobili e da adulti corrotti; in una parola, sia stata spazzata via. È un discorso che la Comencini tiene sempre molto alto, senza abbassare mai la guardia, dando vita a un’ambientazione resa come un ulteriore personaggio, splendidamente fotografata da Luca Bigazzi in stato di grazia: i quartieri degradati da cui provengono Gina e Marco e gli abitanti loro coetanei presentati in sequenza in una colorazione arida, da terzo mondo; i palazzi opulenti del potere, gli atri, i cortili, i vestiboli e le stanze tenuti sotto una cromatura spessa che trasuda denaro e un potere arroccato, torvo, insolente, impunito e spregiudicato; le scene tra i due protagonisti, private invece di ogni forzatura coloristica per mettere in risalto l’illusorietà e l’involontaria inconsistenza delle speranze che saranno presto demolite dallo scontro frontale con la società di oggi. La scena finale con Gina devastata e incapa- S Tutti i film della stagione ce di qualsiasi azione e Marco, passato di colpo dalla leggerezza al dramma che incessantemente la chiama senza che lei senta o possa o voglia sentire dà i brividi: è l’attestazione di un disastro che la regista sottoscrive, per i due personaggi, per chiunque sia attento a quello che accade, per lo spettatore meno giovane in sala che si domanda in quale momento dei decenni trascorsi la sua generazione si sia distratta, colpevolmente distratta e abbia ceduto, colpevolmente ceduto per poter permettere tutto questo. Assecondano la Comencini in maniera docilmente perfetta, seguendone non solo l’impianto principale ma anche le tante annotazioni, i dettagli, i suggerimenti che in maniera evidente la regista ha dato, i due giovani interpreti: Giulia Valentini, padrona molto di più di un’esordiente qual è di inquadrature che la rendono bellissima e seducente e di altre in cui mostra dubbi, difficoltà incertezze, smargiassate e una sconfinata, struggente tristezza. Filippo Scicchitano conferma dopo Scialla una presenza scenica intensa, qui accresciuta da spontanee ingenuità che lo fanno ancora più giovane di quanto effettivamente lui è. Entrambi questi due ragazzi hanno seguito e fatto loro la forte impostazione registica con intelligenza e sensibilità, rendendo l’acerbità di alcuni momenti basi preziose e non deficitarie su cui costruire un futuro di professionisti adulti, consolidati, ricchi di un mestiere che non abbia rinunciato alla freschezza e alla fragilità del recitare. Fabrizio Moresco IL CUORE GRANDE DELLE RAGAZZE Italia 2011 Regia: Pupi Avati Produzione: Antonio Avati per Duea Film, in collaborazione con Medusa Film e Sky Cinema Distribuzione: Medusa Prima: (Roma 11-11-2011; Milano 11-11-2011) Soggetto e Sceneggiatura: Pupi Avati Direttore della fotografia: Pasquale Rachini Montaggio: Amedeo Salfa Musiche: Lucio Dalla Scenografia: Giuliano Pannuti Costumi: Catia Dottori Effetti: Justeleven Interpreti: Cesare Cremonini (Carlino Viggetti), Micaela Ramazzotti (Francesca Osti), Gianni Cavina (Sisto Osti), Andrea Roncato (Adolfo Vigetti), Erika Blanc (Eugenia Vigetti), Manuela Morabito (Rosalia Osti), Gisella Sofio (Olimpia Osti), Marcello Caroli (Edo Vigetti), Sara Pastore (Sultana Vigetti), Massimo Bonetti (Umberto Vigetti), Sydne Rome (Enrichetta), Rita Carlini (Maria Osti), Stefania Scarpa (Amabile Osti) Durata: 85’ Metri: 2330 49 Film rima metà degli anni ‘30, in un paese dell’Italia centrale. La famiglia contadina dei Vigetti ha tre figli: il piccolo Edo, Sultana e Carlino, giovanotto molto ambito dalle ragazze, ma quasi analfabeta. Sisto Osti e la seconda moglie Rosalia, una ruspante donna che viene dall’agro pontino, sono invece i proprietari terrieri che vivono in una casa padronale con le loro due figlie un po’ attempate, entrambe da maritare: Maria e Amabile. Facendo buon viso a cattivo gioco, gli Osti accettano che Carlino Vigetti corteggi le due sorelle con l’intento di sistemarne almeno una. In cambio delle nozze, la famiglia del giovane avrà il rinnovo del contratto immobiliare per altri dieci anni. Inizia un periodo di incontri con le due donne (ogni giorno per un’ora nel salotto di casa Osti), turbato però un giorno dall’arrivo improvviso di Francesca. La ragazza era stata mandata a studiare a Roma in un collegio di suore. Tra i due è colpo di fulmine. A questo punto, Carlino non vuole più corteggiare le due sorelle bruttine e Francesca non vuole sposare altri che lo spiantato contadino. Dopo l’iniziale contrarietà, gli Osti devono cedere: Francesca forza loro la mano con tutti i mezzi, non ultimo un tentativo di suicidio. Si prepara il matrimonio ma, nella concitazione, ci si dimentica di avvisare il prete: sposi ed invitati si ritrovano davanti alla porta della chiesa chiusa. La cerimonia salta, ma si festeggia comunque con il banchetto. Subito dopo il signor Vigetti, non potendo sopportare il dolore e la vergogna provocatigli dal figlio per aver scelto la donna sbagliata, si ammala e muore. Finalmente i due ragazzi si sposano. Ma, proprio durante il viaggio di nozze, mentre la moglie si sta preparando per la prima notte, Carlino la tradisce con una cameriera dell’albergo, una sua vecchia fiamma. P Tutti i film della stagione Francesca, disperata, scappa in Puglia da una zia. Qui, nonostante le lettere del marito pentito, non vuole più saperne. Fino a quando un telegramma la informa della morte di Carlino. Lei si precipita al paese ma, una volta arrivata, si accorge che il marito è vivo e che si trattava soltanto di un pretesto per farla ritornare da lui. upi Avati torna a far commuovere sorridendo come non gli riusciva da tanto tempo. La sua ultima “fatica”, di nuovo fedele a quella poetica della provincia italiana dei buoni sentimenti che forse non tradirà mai, ricorda per leggerezza e genuinità di ispirazione pellicole di successo come Il cuore altrove e La seconda notte di nozze. Questa piccola storia agreste narrata ai tempi della terza elementare dal piccolo Edo Vigetti (che ha la voce di Alessandro Haber) ha ritmo e dimostra una certa finezza di scrittura. Ma, sopratutto, presenta un’irresistibile galleria di personaggi che sembrano usciti da uno dei film-sogno di Fellini. Pensiamo, ad esempio, all’ignorante e grezza Rosalia, nuova donna di casa Osti dal forte accento romanesco (interpretata da una Manuela Morabito al limite della caricatura), allo zio reduce di guerra rincoglionito che ha sposato un’ex puttana a cui manca un occhio! Oppure alla ragazzotta simile a Gradisca, dal nome già bizzarro, Sultana, dalle lunghe trecce rosse, che aspetta di avere il ciclo mestruale da ben nove anni! O ancora alla banda di ciechi chiamata a suonare come orchestra per il matrimonio dei due sposini. Anche il protagonista Carlino, a suo modo, è una figura curiosa ed eccentrica: ha la particolarità di avere un alito che profuma di biancospino, “arma” di cui si serve per conquistare tutte le femmine del paese. Alla sua prima prova di attore, il simpa- P tico cantautore bolognese Cesare Cremonini non “stona”, anzi è perfettamente in sintonia col suo personaggio. Un giovane quasi sospeso nelle nuvole in un mondo tutto suo e in un ruolo che invece non gli appartiene: come dire - un “analfabeta di cinema”. Una scelta voluta e ben congegnata dal regista, che ha dato il risultato sperato. Avati, con il suo solito tocco elegante e dolce-amaro, racconta tutti i rituali, da vera e propria farsa, che animano la (mai consumata) cerimonia delle nozze. Dai tre spari del padre della sposa nel tragitto verso la chiesa al movimentato banchetto, passando per l’improvvisa sparizione del prete. E poi mostra l’anima più popolare e verace del sapere contadino, con le sue tradizioni (il corredo ricamato della sposa), le sue credenze (la verginità prima del matrimonio), e i suoi riti “scaramantici” (il padre di Carlino, ormai sul letto di morte, tocca il pube di una donna del paese nel tentativo di rianimarsi!). Il cuore grande delle ragazze, girato nelle campagne delle Marche, tra Mogliano e Porto San Giorgio, è impreziosito dalle musiche dell’”invidiato” amico di conservatorio Lucio Dalla. Il film alla fine riesce a incantare soprattutto per il felice assortimento del cast. Gianni Cavina e Andrea Roncato non sono soltanto i capifamiglia ma si rivelano oltretutto essere autentici “capocomici”, tale è la bravura e la naturalezza con cui si muovono in scena. Infine, anche l’idea di Micaela Ramazzotti come fidanzata disposta a tutto pur di difendere il proprio amore e la propria antica concezione di amore (perfino a gettarsi dalla finestra!) ci sembra indovinata, perché dona un senso di freschezza e brio a tutto il racconto. Il vero ingrediente vincente di questa novella “bucolica”. Diego Mondella L’INTERVALLO Italia, Svizzera, Germania 2012 Regia: Leonardo Di Costanzo Produzione: Tempesta e Amka Films Productions in collaborazione con Rai Cinema, in coproduzione con Rsi Radiotelevisione Svizzera Srg Ssr, Zdf/Das Kleine Fernsehspiel, in collaborazione con Arte Distribuzione: Istituto Luce - Cinecittà Prima: (Roma 5-9-2012; Milano 5-9-2012) Soggetto: Maurizio Braucci, Leonardo Di Costanzo Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Mariangela Barbanente, Leonardo Di Costanzo Direttore della fotografia: Luca Bigazzi Montaggio: Carlotta Cristiani Musiche: Marco Cappelli Scenografia: Luca Servino Costumi: Kay Devanthey Interpreti: Francesca Riso (Veronica), (Salvatore), Carmine Paternoster (Bernardino), Salvatore Ruocco (Mimmo), Antonio Buíl (Padre di Salvatore), Jean-Yves Morard (Slavo) Durata: 90’ Metri: 2480 50 Film apoli, oggi, uno dei suoi quartieri degradati. Veronica (15 anni) ha commesso uno sgarro: si è incapricciata di un ragazzo di un altro territorio, avversario del gruppo camorrista guidato da Bernardino che spadroneggia nella zona dove Veronica vive. Per punizione, per fare capire alla ragazza come devono andare le cose, Bernardino la “condanna” a un giorno di reclusione in un palazzo abbandonato, custodita da Salvatore (pressappoco della stessa età), venditore ambulante di granite insieme al padre e, naturalmente, a disposizione dei camorristi per servizi piccoli e grandi. I due ragazzi così vivono insieme una giornata da reclusi in un palazzo fatiscente e pericolante che sembrerebbe essere stato un tempo un collegio (chi dice un manicomio), nelle cui stanze una ragazza, di cui c’è ancora una foto attaccata al muro, si è impiccata. Veronica morde il freno, è inquieta, vorrebbe fare mille cose, bere, mangiare, correre, fuggire. Salvatore è più pacato, intelligente e sensibile sotto la sua compostezza; nonostante la sua giovane età sa benissimo con chi hanno a che fare: è gente che non scherza e non perdona, è meglio restare tranquilli e aspettare la sera. L’unica cosa che i due ragazzi possono fare per ammazzare il tempo è girare in lungo e in largo per il palazzo, percorrere gli sconfinati corridoi, le stanze, le gallerie annerite dal tempo, le cantine allagate, i giardini desolati e poi scambiarsi qualche brandello delle proprie vite, scampoli di pensieri, desideri e aspirazioni appena accennate, so- N Tutti i film della stagione gni di ragazzini perchè tali, in fin dei conti sono. A sera, arriva Bernardino con i suoi guardaspalle per un lungo colloquio con Veronica; lei inizialmente pare manifestare la stessa ribellione della mattina poi, in seguito ai discorsi di lui fermi, forti, non violenti ma decisamente intimidatori e, nello stesso tempo, serenamente convinti di un potere che non si può mettere in discussione, la ragazza sente sgretolare le proprie convinzioni, si adatta alla situazione e se ne va in moto con il suo ex carceriere. Anche Salvatore può riprendere la propria vita: gli viene restituito il carrettino con le granite e dato qualche euro per coprire il “disturbo” della giornata. ttimo il primo film “vero” del documentarista ischitano Leonardo Di Costanzo che si è immerso completamente in una dimensione che sente sua, sulla propria pelle, fatta di dialoghi ed espressioni di una napoletanità dalle forti radici, antica, oscura, violenta, quella dei “lazzari”. In questo fiume sempre più gonfio troviamo di tutto: la spiritualità dell’antico e la presenza assidua e abituale dei morti con tutte le loro credenze e leggende; il rapporto tra i personaggi che, volendo o non volendo è densamente sensuale; la complicità tra due esseri che riconoscono il loro status di vasi di coccio in mezzo a terribili vasi di ferro ma inconsciamente pretendono una lama di luce anche per loro o, quantomeno, rispetto se non considerazione. Vengono in mente le tinte neorealiste di Rossellini e, naturalmente, la Ortese di “Il Mare non bagna Napoli”: una discesa O all’inferno commossa e angosciata scritta sessant’anni fa’; bene, gli inferi sono ancora lì, nulla è cambiato, la violenza è attecchita ancora di più e i morti vagano insieme ai vivi senza che si possano distinguere gli uni dagli altri. Poi questa stupenda riflessione tragica su un pezzo della nostra gente e del nostro Paese che potrebbe essere bellissimo e invece è dannato e condannato diventa un pezzo di cinema puro d’alta scuola a tal punto che parrebbe sfuggito di mano al suo autore ma che invece conferma la molteplicità delle soluzioni spettacolari in suo possesso: stiamo parlando dell’entrata in scena del capoclan Bernardino che alla fine della storia deve mettere definitivamente le cose in ordine. La scena è condotta da Di Costanzo con un bellissimo dosaggio di ombre e luci e di movimenti di macchina che alternano sinuosità circolari alla Kubrick con fermi repentini, primi piani implacabili: al centro i due giovani, Veronica, dolce farfalla senza armi tra le chele di un ragno e poi lui, la rivelazione Carmine Paternoster. Non sappiamo quasi nulla di quest’ottimo attore, l’abbiamo visto in Gomorra, ora qui con Di Costanzo, non ne conosciamo l’origine professionale, ma sappiamo riconoscere la sua padronanza scenica e quell’uso di gestualità e sguardi senza compiacimenti né sbavature che trasforma un uomo in un attore, rendendolo tutt’uno con quello che ha in testa il suo regista: una vera “occupazione” dello schermo per la quale raramente lo spettatore in sala ha un impatto così forte e immediato. Fabrizio Moresco L’INDUSTRIALE Italia 2011 Regia: Giuliano Montaldo Produzione: Angelo Barbagallo per Bibi Film in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: 01 Distribution Prima: (Roma 13-1-2012; Milano 13-1-2012) Soggetto: Vera Pescarolo Montaldo, Giuliano Montaldo Sceneggiatura: Andrea Purgatori, Giuliano Montaldo Direttore della fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Consuelo Catucci Musiche: Andrea Morricone Scenografia: Francesco Frigeri Costumi: Elisabetta Montaldo Interpreti: Pierfrancesco Favino (Nicola), Carolina Crescentini (Laura), Eduard Gabia (Gabriel), Elena Di Cioccio (Marcella), Elisabetta Piccolomini (Beatrice), Andrea Tidona (Barbera), Mauro Pirovano (Olivieri), Gianni Bissaca (Saverio), Roberto Alpi (Banchiere), Francesco Scianna (Ferrero) Durata: 94’ Metri: 2600 51 Film orino. L’ingegnere Nicola Ranieri è il proprietario di un’azienda di prodotti meccanici ecologici sull’orlo del fallimento. Il direttore di una banca gli nega il ri-finanziamento, perché da 3 anni non produce profitti e non ha fiducia nella sua nuova sperimentazione di moduli fotovoltaici. L’unica speranza di risollevare le sorti dell’industria fondata dal padre è rappresentata da una società tedesca intenzionata a rilevare alcune quote di mercato. Il compito viene affidato all’amico avvocato Ferrero, che si reca in Germania per la trattativa. I dipendenti, ansiosi di conoscere il loro destino, chiedono un chiarimento a Ranieri, il quale si impegna a battersi per salvare l’azienda, a patto però che gli operai sostengano il suo sforzo. Nicola attraversa un momento difficile anche nella vita privata. Il suo matrimonio sta andando a pezzi: lui e sua moglie Laura non riescono più a comunicare e vivono come separati in casa. La donna è combattuta: vorrebbe aiutare il marito (che vuole andare avanti da solo) ma, allo stesso tempo, rifiuta la proposta della madre che si offre di garantire per il genero. Sentendosi abbandonata da Nicola, Laura stringe un’amicizia con Gabriel, un garagista romeno innamorato di lei. I due iniziano a frequentarsi di nascosto. Presto però il marito li scopre e, da quel momento, decide di seguire gli spostamenti della donna. Offre quindi del denaro al ragazzo per togliersi di mezzo. Nel frattempo, si inventa una soluzione “stravagante” per convincere i tedeschi T Tutti i film della stagione a rilevare il pacchetto di minoranza dell’azienda: una fantomatica società concorrente dietro cui si celano in realtà i proprietari di un ristorante giapponese. Il ricevimento organizzato per festeggiare l’accordo sembra l’occasione giusta per Ranieri per ritrovare la serenità anche in famiglia. E, invece, entrambe i coniugi scoprono due tristi verità. Nicola viene a sapere che è stata la moglie ad acquistare le azioni, mentre Laura rimane scioccata quando legge che Gabriel è morto e il responsabile è il marito: quest’ultimo, a seguito di un incidente (il giovane cadendo ha battuto fatalmente la testa su un masso), lo ha gettato nel fiume. n una Torino invasa dagli scioperi di operai e studenti, notturna e gelida come la fotografia seppiata e virante al bianco e nero di Arnaldo Catinari, va in atto il calvario del moderno imprenditore globale. Schiacciato dal senso di colpa familiare, e soffocato dal bieco cinismo degli istituti bancari (i cui imperturbabili direttori non amano scommettere sul futuro se non ci sono garanzie sufficienti) e dall’«usura legalizzata» delle finanziarie. Queste, almeno sulla carta, le intenzioni di Montaldo e dello sceneggiatore Purgatori. Ma rappresentare la difficile e stratificata realtà della crisi economica non è un’impresa semplice, neppure per un veterano del nostro cinema “impegnato”. Il copione rischia continuamente di essere didascalico, quasi da fiction televisiva. Così come i dialoghi, che non brillano per originalità. A volte, si ha la sensazione che la tra- I gedia sociale dell’ing. Ranieri e del precario capitale umano alle sue dipendenze conti di meno delle sue fisime di gelosia per la moglie insoddisfatta (una splendida Carolina Crescentini). Invece di occuparsi dell’azienda, che gli si sta sbriciolando in mano proprio come la vecchia insegna di famiglia, preferisce spiare la donna nei suoi incontri clandestini, ma innocenti, col garagista romeno (che si diverte a lavare le macchine al ritmo di musica classica!). Mentre, quarant’anni dopo il capolavoro di Elio Petri, la “classe operaia va all’inferno”, ed è consapevole questa volta di finirci per davvero («Non è colpa tua. È il mondo che ci sta crollando addosso» dice un vecchio manovale al principale), il protagonista, interpretato da un Favino meno convincente del solito, “sveste” i panni dell’industriale per trasformarsi in improbabile detective. Il pedinamento, però, non soltanto si rivela un buco nell’acqua (la moglie non consuma alcun tipo di tradimento) ma, alla lunga, risulta essere piuttosto tedioso per la ripetitività dei suoi movimenti. Il colpo di scena finale, con il più debole (il romeno) che paga per l’arroganza del più ricco (e in realtà più fragile), ricorda i melodrammi americani anni ‘50, con l’effetto di sembrare perfino stucchevole per il suo voler rincorrere a tutti i costi il “politicamente corretto”. Dietro la pretesa di raccontare l’Italia di oggi (compito che il cinema non riesce purtroppo più ad assolvere se non a colpi di “commedie seriali”), si scorge un’onesta storia di sentimenti, sofferti e contrastanti. Ma allora è proprio vero che non ci può essere solidità di affetti senza stabilità economica. L’equazione è obbligata. Del resto, ce lo ricorda anche l’ultimo bellissimo lavoro di Cèdric Kahn: Une vie meilleure (anch’esso presentato al Festival di Roma del 2011 e in attesa di avere una distribuzione italiana). Qui il dramma intimo di una giovane famiglia disgregata dai debiti e in lotta per la sopravvivenza, almeno nell’ultima parte, pare prendere il sopravvento. Ma non è mai disgiunto da quello più ampio che scorre ogni giorno sotto i nostri occhi, al contrario di quanto avviene in L’industriale. Insomma, se il film francese ha il potere di condensare in sé tutte le contraddizioni del sistema globale e le devastanti conseguenze che esse hanno sulla quotidianità, quello di Montaldo si perde invece per strada, gettando al vento una straordinaria occasione: raccontare il nostro Paese, senza retorica e schemi televisivi. Diego Mondella 52 Film Tutti i film della stagione LO HOBBIT – UN VIAGGIO INASPETTATO (The Hobbit: An Unexpected Journey) Stati Uniti, Nuova Zelanda 2012 Regia: Peter Jackson Produzione: Carolynne Cunningham, Zane Weiner, Fran Walsh, Peter Jackson, Philippa Boyens, Eileen Moran per Wingnut Films, New Line Cinema, Metro Goldwyn Mayer, 3Foot7 Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia Prima: (Roma 13-12-2012; Milano 13-12-2012) Soggetto: dal romanzo di J.R.R. Tolkien Sceneggiatura: Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson, Giullermo del Toro Direttore della fotografia: Andrew Lesnie Montaggio: Jabez Oissen Musiche: Howard Shore Scenografia: Dan Hennah Costumi: Ann Maskrey, Richard Taylor, Bob Buck Effetti: Richard Taylor, Joe Letteri, Eric Saindon, David Clayton, R. Christopher White, Weta Digital Ltd., Weta Workshop Ltd. Interpreti: Ian McKellen (Gandalf), Martin Freeman (Bilbo Baggins), Richard Armitage (Thorin Scudodiquercia), James Nes- iamo nella Terra di Mezzo e la storia inizia sessant’anni prima che Frodo inizi la sua avventura verso Gran Burron. Bilbo Baggins conduce una vita tranquilla fino a quando non riceve la visita di Gandalf, il quale chiede il suo aiuto per una missione il cui scopo è liberare il proprio regno da un potere ormai volto solo all’arricchimento e all’accumulo del denaro e la cui vitalità è stata persa da tempo. Il tranquillo hobbit non vuole invischiarsi in questa eroica proposta fino a che grazie a un segno lasciato da Gandalf sulla porta della sua abitazione viene rintracciato dalla sua squadra. 12 nani e il loro capo Thorin Scudodiquercia “costringono” Bilbo a essere loro alleato. Così parte “ il viaggio inaspettato “ di Bilbo alla riconquista di Elbor, il regno dei nani sotto le grinfie del drago Smaug assetato di monete d’oro. Da lì, una serie di scontri con orchi, troll, fino all’incontro con Gollum e alla lotta contro gli alberi. S er tutti gli appassionati della trilogia uno spunto interessante per scoprire qual è il passato di Bilbo Baggins. A mio parere l’impressione che se ne ha è di assistere a scene e spezzoni già visti nella trilogia e adattati a una nuova storia, ovvero quella dell’hobbit, zio di Frodo. Una trama molto più fiabesca di quella della trilogia, in cui, comunque, rimangono costanti il valore e l’alta suggestività delle musiche e degli scenari mozzafiato. Il regista Peter Jackson realizza un prequel più soft i cui ritmi sono un po’ rallentati (soprattutto nella prima parte) ma le battaglie come nella trilogia non mancano. Per tutti i fan di Gigi Proietti il dop- P bitt (Bofur), Ken Stott (Lord Balin), Cate Blanchett (Galadriel), Ian Holm (Bilbo Anziano), Christopher Lee (Saruman), Hugo Weaving (Elrond), Elijah Wood (Frodo), Andy Serkis (Gollum), Orlando Bloom (Legolas), Graham McTavish (Dwalin),William Kircher (Bifur), Stephen Hunter (Bombur), Dean O’Gorman (Fili), Aidan Turner (Kili), John Callen (Oin), Peter Hambleton (Gloin), Jed Brophy (Nori), Mark Hadlow (Dori), Adam Brown (Ori),Sylvester McCoy (Radagast il Bruno), Barry Humphries (Goblin), Jeffrey Thomas (Re Thror), Michael Mizrahi (Re Thrain), Lee Pace (Re Thranduil), Manu Bennett (Azog),Conan Stevens (Bolg), John Rawls (Yazneg),Stephen Ure (Fimbul/ Grinnah),Timothy Bartlett (Master Worrywort),William Kircher (Tom Troll), Mark Hadlow (Bert Troll), Peter Hambleton (William Troll), Bret McKenzie (Lindir), Kiran Shah (Goblin Scribe), Benedict Cumberbatch (Negromante),Glenn Boswell (Nano minatore), Thomas Robins (Giovane Thrain) Durata: 173’ Metri: 4011 piaggio di Gandalf è molto spassoso. Lo ammetto non sono una appassionata del genere, ma credo che la scena più bella sia quella con Gollum e lo scambio di indovinelli che riesce sempre ad attirare la simpatia di tanti. Possiamo dire che si tratta di un’opera che esiste solo in funzione della saga. Un film che non ha senso vedere se non si conosce la trilogia. Non funziona in maniera autonoma e la visione in 3D non aggiungerebbe niente al film. I ruoli e gli attori molto azzeccati mentre i costi di produzione del film sono stati come sempre ingenti e accanto a questo forte è l’appello degli ecologisti che portano avanti la loro battaglia e denuncia contro il danneggiamento dei set naturalistici del film (sempre in Nuova Zelanda). Inizialmente Guillermo Del Toro che doveva dirigere Lo Hobbit ha solo collaborato per quel che riguarda la sceneggiatura. Jackson ha voluto cambiare, raddoppiando i fotogrammi: da 24 a 48. Non bastano questi espedienti tecnici a salvare un film lanciato con grandi aspettative da parte della produzione e grande desiderio del pubblico. Ingaggiare qualcuno per una missione eroica ricorda tanti altri film del genere fantasy. In particolare mi ha fatto rievocare il recente Biancaneve e il cacciatore per ambientazione e atmosfera dark gotica. A dirla tutta, ribalterei quello che si dice un successo inaspettato.. si tratta piuttosto inaspettatamente di un successo! Giulia Angelucci COSIMO E NICOLE Italia 2012 Regia: Francesco Amato Produzione: Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz per Cattleya e Fastfilm in collaborazione con Rai Cinema Distribuzione: Bolero Film Prima: (Roma 29-11-2012; Milano 29-11-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Giuliano Miniati, Daniela Gambaro, Francesco Amato Direttore della fotografia: Federico Annichiarico Montaggio: Luigi Mearelli Musiche: Francesco Cerasi Scenografia: Emita Frigato Costumi: Medile Siaulytyte Interpreti: Riccardo Scamarcio (Cosimo), Clara Ponsot (Nicole), Paolo Sassanelli (Paolo), Souleymane Sow (Alioune), Giorgia Salari (Nadia), Andrea Bruschi (Commissario), Jo Prestia (Jean), Thierno Thiam (Thierno), Angela Baraldi (Patty) Durata: 101’ Metri: 2780 53 Film osimo è un giovane italiano, Nicole una ragazza francese. Si conoscono a Genova nel 2001 durante gli scontri del G8 e si innamorano a prima vista. Da subito nasce una passione incontrollata. I due sono pieni di vita, vagabondi e un po’ incoscienti, la musica è la loro grande passione. Dopo tanto girovagare e un periodo trascorso in Francia presso il padre della ragazza, Cosimo e Nicole decidono di tornare a Genova, dove iniziano a lavorare presso il loro amico Paolo, organizzatore di concerti, che li aveva aiutati mentre scappavano dagli scontri del G8. Cosimo impara un mestiere diventando uno dei collaboratori più validi di Paolo e tutto sembra andare per il meglio. I due ragazzi trovano anche il loro nido d’amore in una palafitta in riva al mare. Ma, un giorno, Alioune, un operaio africano immigrato clandestino, precipita da un’impalcatura mentre sta montando un palco. Il giovane sembra morto. Scosso dall’incidente e temendo grossi guai con la giustizia dal momento che dava lavoro in nero a un clandestino, Paolo si fa aiutare da Cosimo a sbarazzarsi del corpo del ragazzo, dopo aver fatto sparire i suoi documenti e i suoi effetti personali. Ma i giorni successivi Nicole, scossa da quel fatto, non si dà pace. Frugando nello zaino di Alioune, la ragazza trova una lettera che l’uomo aveva scritto alla moglie e, piena di sensi di colpa, vorrebbe mettersi in contatto con lei. La ragazza scrive una lettera alla donna e litiga con Cosimo, intenzionato a lasciar passare sotto silenzio quel drammatico incidente. Ma il destino ci mette lo zampino perché casualmente, in un ospedale, Nicole vede Aliuone che è sopravvissuto e giace in un letto privo di conoscenza. Nicole lo va a trovare con regolarità, finché un’infermiera le dice che vuole comunicare le sue visite alla polizia. Un giorno il giovane si sveglia. Saputo che Alioune è ancora vivo, Paolo lo affronta minacciando di farlo fuori. Cosimo e Nicole aiutano Alioune a fuggire attraverso la Francia e poi in Belgio dove il ragazzo vuole raggiungere il fratello. Ma, subito dopo aver varcato il confine belga, i tre vengono sorpresi da alcuni poliziotti in un bar. Cosimo e Nicole vengono arrestati e condannati a due anni di reclusione. Trascorso il periodo di detenzione, i due giovani si incontrano di nuovo e si ritrovano diversi e maturati. I due vengono invitati a pranzo da Thierno, fratello di Alioune. Durante il pranzo, in cui si festeggia la festa del montone, Cosimo e Nicole si ritrovano vicini e si lasciano andare alla musica in una danza liberatoria. C Tutti i film della stagione resentato alla settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, Cosimo e Nicole è il film vincitore della sezione “Prospettive Italia”. Al suo secondo lungometraggio dopo Ma che ci faccio qui? del 2006, il trentaquattrenne Francesco Amato ha confessato di aver pensato il film partendo dal desiderio di raccontare una generazione a cui in parte sente di appartenere. Al centro della storia, un amore “folle”, assoluto, passionale, che trova il suo apice nella scelta di una vita nomade, libera da regole o legami. Una coppia precaria “per scelta” (in tempi di tante precarietà “forzate”) che si ama spudoratamente. Il loro slancio vitale si manifesta in quella che il regista ha definito “complicità fisica, tattile”. L’intento di fare un film non “sulla” coppia ma “dentro” la coppia, cercando disegnare un “perimetro intimo” dentro al quale potessero entrare solo Cosimo e Nicole riesce però solo fino a un certo punto. Proprio nel momento in cui i due mettono radici (e Cosimo sembra addirittura trovare un lavoro fisso), la loro storia viene drammaticamente a contatto con la vita vera. E si perde qualcosa, a livello emozionale e di tenuta drammatica. Le diverse reazioni dei due protagonisti a una (quasi) morte bianca fanno perdere coesione alla coppia ma anche al film. Uno dei meriti maggiori dell’opera, è, comunque, da rintracciarsi nel particolare sguardo sugli avvenimenti del G8 di Genova del 2001 (che qui è solo il motore della miccia che si accende fra i due protagonisti) riletto con occhi nuovi. Come ha sottolineato Riccardo Scamarcio, mettendo al centro due esseri umani e non una teoria P sociale, quegli eventi di drammatica attualità sono visti con taglio “antropologico” più che “sociologico”. Più che il G8 però, che è solo uno spunto di partenza, il vero tema sociale che entra prepotentemente nella storia d’amore è il dramma delle morti bianche (gli sceneggiatori hanno ammesso di aver pensato questo film prima degli episodi balzati agli onori delle cronache delle morti sui palchi di concerti famosi come Jovanotti e la Pausini). E il fatto di aver mostrato un tema di tale scottante attualità in una pellicola che mette al centro una storia d’amore è cosa non da poco. Ma è proprio il finale la parte più debole del film: quella fuga da ‘road movie’ che diviene un percorso di espiazione dei sensi di colpa non è esente dal rischio banalità. E l’ultima scena, con i due protagonisti, più maturi e consapevoli, che si lasciano andare alla musica e al suo potere trascinante non convince in pieno. Un applauso, comunque, alle prove recitative di un intenso Riccardo Scamarcio, di una conturbante e bellissima Clara Ponsot e di un bravissimo Paolo Sassanelli. La sua caratterizzazione, tra paura e rabbia, di un organizzatore di concerti, un uomo all’apparenza progressista e ‘easy’ ma capace di mostrare anche un aspetto ‘oscuro’, cinico e prevaricatore che non esita a violare la legalità, è una delle note più felici del film. Una nota finale di apprezzamento va alle musiche di gruppi rock come Afterhours, Verdena e Marlene Kuntz, registrate ‘live’ in veri concerti organizzati apposta per le riprese. Elena Bartoni LA SPOSA PROMESSA – FILL THE VOID (Lemale et ha’chalal) Israele 2012 Regia: Rama Burshtein Produzione: Norma Productions Distribuzione: Lucky Red Prima: (Roma 15-11-2012; Milano 15-11-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Rama Burshtein Direttore della fotografia: Asaf Sudry Montaggio: Sharon Elovic Musiche: Yitzhak Azulay Scenografia: Ori Aminov Costumi: Chani Gurewitz Interpreti: Hadas Yaron (Shira Mendelman),Yiftach Klein (Yochay Mendelman), Irit Sheleg (Rivka Mendelman),Chayim Sharir (Aharon), Razia Israeli (Zia Hanna), Hila Feldman (Frieda), Renana Raz (Esther Mendelman),Yael Tal (Shifi), Michael David Weigl (Shtreicher), Ido Samuel (Yossi Mendelman), Neta Moran (Bilha), Melech Thal (Rabbino) Durata: 90’ Metri: 2480 54 Film hira ed Esther sono sorelle e parte di una famiglia di un rabbino di una comunità ebrea ortodossa (in particolare della corrente chassidica) di Tel Aviv. Shira sogna il matrimonio con Miller, ma la realtà che dovrà affrontare sarà ben più dura. Sua sorella Esther sposata con Yochai muore nel dare alla luce suo figlio. Così la madre, che vorrebbe avere accanto a sé il genero ed il nipotino Mordacai, decide di proporre Shira appena diciottenne come moglie di Yochai. Nonostante il permesso concesso dal rabbino, il ragazzo crede che sia meglio sposare un’altra donna e trasferirsi definitivamente in Belgio. Grazie alle pressioni della suocera che lo reputa un bravo ragazzo, Yochai decide a dichiararsi a Shira dicendola che è bella e che crede che non ci sia miglior madre per suo figlio. La ragazza in tutta sincerità afferma di aver saputo precedentemente da sua sorella Esther che avrebbe voluto in caso di una sua scomparsa la cugina nubile Frieda come moglie di Yochai. Offeso da questa affermazione, Yochai decide di riprendere in mano la sua intenzione iniziale e anche Sheila dice di avere delle perplessità sulla loro unione, sia per quel che riguarda la sua età sia perché avrebbe il diritto di scelta in prime nozze. Dopo diversi ripensamenti, Shira decide di sposare Yochai: sarà la scelta giusta? S Tutti i film della stagione o spettatore si sentirà catapultato in questa realtà a lui estranea, che viene affrontata con molto tatto ed eleganza, nonostante i riti e le leggi che vigono nella comunità ebraica ortodossa. La storia mette quindi di fronte a una realtà difficile da comprendere: prima di essere un film che vede una giovane ragazza quasi costretta ( anche se non ufficialmente) a sposare il marito di sua sorella , l’opera della Burshtein vede, prima di tutto, un essere umano che si trova a non essere padrone delle sue scelte. Una scelta che la vede davvero stritolata dal suo destino, un destino forzato e dettato dagli egoismi della sua famiglia d’appartenenza. La zia disabile è l’unica voce fuori dal coro che vorrebbe per lei come per sua figlia Frieda un marito veramente desiderato. Paradossalmente parlando, ci si trova di fronte a un film delicato e duro allo stesso tempo. Qualcuno lo ha definito claustrofobico e non ci sono parole più adatte per descrivere un finale davvero glaciale. Si dipinge, quindi una società ermetica in cui le comunicazioni sono piuttosto formali e in cui la formalità e le apparenze contano davvero tanto. Un campo chiuso e una realtà limitata in cui forme rituali come quelle rivolte alla nubile Frieda, o come anche quelle usate in segno di lutto per la morte di Esther sono come delle raffiche di mitra. La colonna sono- L ra e la fotografia veramente sofisticate e toccanti. Ottimi gli attori soprattutto la protagonista Hadas Yaron (Coppa Volpi a Venezia 2012). Un film per un pubblico dal palato fine e che aldilà di tutte le convenzioni parla di sentimento e di umanità ed è accompagnato dal sottofondo melanconico di una fisarmonica. Così, il pianto in occasione delle nozze, che sembra di gioia, che si tramuta in dolore poco dopo. Un film il cui titola funziona di più in lingua originale: Fill the void ovvero “Riempi il vuoto”. Il passaggio molto labile tra dovere e amore , interessante l’aspetto della redistribuzione del reddito e del dipendere da ogni tipo di scelta ,dalla civile al materiale, del rabbino. Il percorso di Shira è travagliato e sofferto; l’immagine suggestiva dall’alto sdraiata e implorante Dio lo testimonia. Vi sono molti aspetti culturali da conoscere come, ad esempio, la divisione tra poteri evidenti delle figure maschili e quelli reali, più influenti e psicologicamente efficaci delle donne. Interessante è anche la figura della protagonista che volge dall’essere ribelle all’accettare la volontà materna facendola sua, solo però a un livello superficiale, come quel velo bianco che le sfiora il volto senza mai completamente avvolgerla. Giulia Angelucci GRANDI SPERANZE (Great Expectations) Gran Bretagna, Stati Uniti 2012 Regia: Mike Newell Produzione: BBC Film, Lipsync Productions, Number 9 Films, Unisos Films, in associazione con Ideal Parteners Film Fund Distribuzione: Videa-Cde Prima: (Roma 6-12-2012; Milano 6-12-2012) Soggetto: dal romanzo omonimo di Charles Dickens Sceneggiatura: David Nicholls Direttore della fotografia: John Mathieson Montaggio: Tariq Anwar Musiche: Richard Hartley Scenografia: Jim Clay ’orfano Pip vive nelle campagne londinesi insieme alla sorella e al marito Joe, fabbro del paese. Un giorno il ragazzo si imbatte in un malintenzionato Magwitch che gli chiede qualcosa da bere e da mangiare. Il ragazzo esaudisce questa richiesta a costo di essere aspramente punito dalla sorella mag- L Costumi: Beatrix Aruna Pasztor Interpreti: Jeremy Irvine (Pip), Olly Alexander (Herbert Pocket), Ralph Fiennes (Magwitch), Jason Flemyng (Joe Gargery), Robbie Coltrane (Jaggers), Helena Bonham Carter (Miss Havisham), Holly Grainger (Estella), David Walliams (Mr. Pumblechook), Tamzin Outhwaite (Molly), Sally Hawkins (Mrs. Joe), Ewen Bremner (Wemmick), Jessie Cave (Biddy), Ben Lloyd-Hughes (Bentley Drummle), Ralph Ineson (Sergente) Durata: 128’ Metri: 3550 giore. Un giorno Pip viene chiamato a tenere compagnia a Miss Havisham, una eccentrica nobildonna abbandonata il giorno delle sue nozze, che vive in una vecchia tenuta in cui il tempo sembra essersi fermato quel giorno. È proprio in questo polveroso e buio castello che incontra l’amore della sua vita , Estella, educata da Miss 55 Havisham come strumento di vendetta personale per sedurre e abbandonare gli uomini che trova sul suo cammino. Grazie poi alla somma ingente di un ignoto benefattore, Pip va a vivere a Londra per diventare un vero gentiluomo. Va a convivere con Herbert Pockett e comincia a frequentare il circolo dei Fringuelli, popola- Film to da giovani ricchi e sfrontati. Così torna a far visita a Miss Havisham dove ritrova il suo antico amore e si dichiara. Nel frattempo muore la sorella e l’affezionatissimo zio Joe lo va a trovare a Londra. Una notte Pip trova nella sua casa Magwitch che gli svela di essere il suo benefattore. Si scopre inoltre che Magwitch e Molly, la governante del circolo dei Fringuelli, sono i genitori di Estella. Magwitch continua a essere ricercato per l’omicidio della moglie di Compison, quello che sarebbe stato il marito di Miss Havisham e viene condannato, ma muore prima di essere giustiziato. Miss Havisham muore per un incidente nella sua casa e Estella sposa Dummond, il più vile e meschino del circolo dei Fringuelli. Così Pip perde tutti i suoi beni e torna dallo zio Joe, ormai risposato. Come nel libro, finale aperto per la storia d’amore tra Estella ( che nel frattempo è diventata vedova) e Pip... . hiunque abbia letto il romanzo di Dickens scritto tra il 1860 e il 1861 rimarrà colpito dalla fedel tà dell’opera di Mike Newell. Alcuni passaggi che rimangono stampati nella memoria del lettore non vengono riportati nel film (come ad esempio l’incendio della villa di Miss Havisham, la mancanza del personaggio Orlick). Per il resto si C Tutti i film della stagione può parlare davvero di un ottimo film a cominciare dal cast. Helena Carter Boler e Ralph Fiennes sono magistrali nei loro ruoli ( anche se leggendo il romanzo si immagina la sig.na Havisham un po’ più agée),entrambi vincitori dell’ Academy Award Nominee. Molto bella la ricostruzione storica dalle ambientazioni ai costumi d’epoca. La regia e la fotografia molto accurate e delicate. L’impressione di chi ha letto il romanzo è di vedere esattamente i frutti della propria immaginazione. Giusta la scelta anche dei protagonisti. Dopo Quattro matrimoni e un funerale e Harry Potter e il calice di fuoco, Newell decide di incentrare il film sul risvolto sentimentale della storia. Secondo le parole del regista era esattamente suo intento puntare su questo aspetto e distinguersi rispetto agli altri adattamenti precedenti. “Ci sono molte versioni cinematografiche di questa storia (tra cui quella celebre del 1946 diretta da David Lean, ndr), io le ho viste tutte, ma non posso dire che siano proprio sexy. Qui invece, nella nostra pellicola, ci viene data l’opportunità di chiederci: cosa prova un ragazzo nei confronti di una ragazza per la quale sente non solo un folle amore, ma una fortissima attrazione? Questo lato della storia è stato raramente raccontato, prima d’ora”. Il tema più forte del libro è la denuncia del classismo della società inglese, con tutti i pregiudizi e le ingiustizie che comporta. L’intreccio scritto da Dickens aiuta la riuscita del film in cui a farla da padrone sono sicuramente i personaggi e i paesaggi (soprattutto quelli campestri e rurali davvero fantastici). Anche l’attore Robbie Coltrane è perfetto nel ruolo di Jaggers . Bellissimi i due interpreti principali Jeremy Irvine e Holliday Granger. Sicuramente una scelta del regista quella di non approfondire tutti gli aspetti anche storici e sociali presenti nel romanzo. Forse il film diviso in due episodi sarebbe stato più completo, ma sicuramente non così efficace dal punto di vista psicologico ed emotivo. Alcuni considerano il film poco originale per le poche scelte di estro e di autonomia della regia, ma, come sappiamo, nel momento in cui si intende portare sullo schermo un adattamento, specie se di un grande romanzo come quello di Dickens, le cose diventano difficili. O forse no. Proprio per la brillantezza di base della sceneggiatura, si poteva rischiare di più su altri fronti. Avremo da rifletterne su, vista la programmazione di adattamenti letterari prevista per il 2013. Giulia Angelucci RALPH SPACCATUTTO (Wreck-it Ralph) Stati Uniti, 2012 Regia: Rich Moore Produzione: Walt Disney Animation Studios Distribuzione: Walt Disney Company Italia Prima: (Roma 20-12-2012; Milano 20-12-2012) Soggetto e Sceneggiatura: Phil Johnston, Jennifer Lee alph spaccatutto è il cattivo del videogioco Felix in cui Felix Aggiustatutto è l’eroe. Ralph si stanca del suo ruolo e per una volta vorrebbe essere anche lui amato, ricevere una medaglia ma soprattutto essere invitato al 30 anniversario del suo videogioco. Il fatto di non essere benvoluto dagli altri personaggi del suo videogioco spinge il gigante a fuggire da Felix e andare in un altro, quello di Hero’s Duty, un videogioco da duri il cui scopo è lottare contro gli scafoidi, degli scarafaggi giganti. Una volta arrivato in cima alla torre riesce a ottenere la medaglia che però va a finire R Montaggio: William J.Caparella Musiche: Henry Jackman Effetti: Walt Disney Animation Studios Durata: 101’ Metri: 2780 in Sugar Rush e in particolare nelle mani di una dispettosa bambina. Nel frattempo il suo gioco d’origine non funziona più a causa della sua assenza e viene messo temporaneamente fuori servizio. La medaglia rubata dalla bambina Vanellope serve per partecipare ad una gara di corsa, a cui il re Candito non la vuole far partecipare perché è un glitch, ovvero un errore di programmazione. La bambina e Ralph diventano amici e stringono un patto: lui riavrà la sua medaglia se in cambio farà avere una nuova cart a Vanellope. Il gigante aiuta la bambina a imparare a correre in pista fino a quando il re 56 Candito lo corrompe: gli consegna la medaglia che gli era stata, sottratta, ma in cambio chiede al gigante di convincere la bambina a non gareggiare;essendo un glitch nel caso in cui vincesse porterebbe il gioco alla sua rovina. Così Ralph distrugge tutti i sogni di Vanellope come il loro legame e torna nel suo gioco. Felix ormai è desolato . I suoi avatar sono tutti fuggiti da quando se ne è andato Felix che lo era andato a cercare insieme all’eroina del gioco Hero’s Duty. Così Ralph si accorge che il gioco di Vanellope, posizionato nella sala giochi di fronte al suo, mostra sul suo box la sua Film immagine e da lì capisce che in realtà la bimba non è un glitch e c’è qualcosa che non va. Torna quindi a Sugar Rush e scopre che Vanellope era la più brava pilota in gara e il re Candito per invidia aveva manomesso delle impostazioni del gioco, cancellando la memoria degli avatar del gioco e spacciando la bambina per un glitch l’aveva emarginata. Felix viene imprigionato ma poi viene salvato da Ralph che gli ripara la macchina di Vanellope che può così gareggiare e vincere finalmente la corsa. Solo con la sua vittoria, il gioco si riavvia. Vanellope salva lui dopo aver combattuto lo scontro finale con il vero cattivo, il re Candito. Ognuno torna nel proprio videogioco e Ralph torna al suo ruolo di spaccatutto riuscendo nel suo intento: quello di essere amato dagli altri avatar del suo gioco. alph spaccatutto prima di essere considerato un cartone è, prima di tutto, un film sul cambiamento, sulla integrazione e sulla diversità. In una realtà in cui se non esiste il cattivo non esiste neanche il buono e in cui ognuno è importante e da valorizzare per le proprie peculiarità e ricchezze. Un rapporto quasi simbiotico tra Ralph e Vanellope, un forte legame in cui l’uno non sa- R Tutti i film della stagione rebbe salvo senza l’altro come nel finale. Carina la bidimensionalità dei videogiochi più antiquati e alcune trovate che ricalcano la nostra realtà, o sono espedienti cinematografici spesso usati (penso ad es. al barista con cui si confida Ralph oppure alla trovata geniale della dogana tra un videogioco ed un altro). Un film che sottolinea la differenza tra fare il cattivo e sentirsi il cattivo (molto carino il circolo dei cattivi anonimi), scoprendo che alla fine anche nei cattivi c’è un fondo di bontà. Molti sono i personaggi che appartengono ai vecchi videogiochi. Contenti e allo stesso tempo nostalgici, saranno quelli della generazione degli anni 80/90. Trovate davvero geniali sono quelle del vulcano fatto da Coca Cola e dalle Mentos, le sabbie mobili fatte dal Nesquik, i biscotti Oreo che fanno da guardia al castello del re Candito, i pop corn che saltellano come fans che si agitano sugli spalti, etc.. Un prodotto efficace sia dal punto di vista tecnico che della sceneggiatura. L’idea ricorda un po’ quella di Toy story e Monsters & Co. Un film ricco, dagli svariati spunti, sui buoni sentimenti in cui è importante che ognuno accetti i propri limiti e che capisca quale sia il suo ruolo. Ad esempio, la bambina che non vuole essere principessa ma presidente di una de- mocrazia costituzionale, Ralph che non vuole essere cattivo. Un film che insegna davvero la bellezza della diversità come testimonia l’unione della eroina di Hero’s duty e di Felix. Come nei videogiochi, così nella società. Riflessioni molto profonde sul sentimento dell’invidia come col personaggio di Turbo. Dovute differenziazioni da fare tra la volontà di cambiamento di Ralph che vuole diventare buono col solo desiderio di essere accettato e quella di Turbo che varca anche lui clandestinamente i confini dei videogiochi ma solo spinto dall’invidia e dalla voglia di primeggiare. Un confronto tra videogiochi di diverse ere, il cui scopo è quello di non finire out of order. Commovente la solidarietà che nasce in Ralph che vede la bambina emarginata dalle altre pilote in gara. Un personaggio definito spacca tutto ma che grazie alla sua bontà di cuore riesce a “sistemare” l’armonia dell’intera sala giochi. Riesce a essere amato dal pubblico. Il finale veramente a sorpresa in cui tutto finisce per il verso giusto e in fondo dove si scopre che se qualcuno ti vuole bene in fondo tanto cattivo non può essere. Un film imperdibile, difficile non definirlo un capolavoro dell’era moderna. Giulia Angelucci VALUTAZIONI PASTORALI Alì ha gli occhi azzuri – consigliabile-problematico / dibattiti Amore dura tre anni (L’) – futile / volgare Appartamento ad Atene – n.c. Bambini di Cold Rock (I) – consigliabile / velleitario Belve (Le) – complesso / violento Biancaneve e il cacciatore – consigliabile / semplice Bicicletta verde (La) – consigliabile-problematico / dibattiti Bourne Legacy (The) – consigliabile / problematico Castello nel cielo (Il) – consigliabile / poetico Cavaliere oscuro (Il) – Il ritorno – complesso / violenze Cavalli – consigliabile / semplice Cena tra amici – consigliabile / brillante Cesare deve morire – consigliabile-problematico / dibattiti Chef – consigliabile / brillante Cosa aspettarsi quando si aspetta – consigliabile / brillante Cosimo e Nicole: complesso-problematico / dibattiti Cuore grande delle ragazze (Il) – consigliabile / poetico Detachment – Il distacco – consigliabileproblematico / dibattiti Elles – sconsigliato-non utilizzabile / negativo Era glaciale 4 (L’) – Continenti alla deriva – consigliabile / semplice Estate di Giacomo (L’) – consigliabileproblematico / dibattiti Freerunner – corri uomo corri – n.c. Giorno speciale (Un) – futile / superficialità Grandi Speranze: consigliabile / problematico Hotel Transylvania – consigliabile / brillante Industriale (L’) – consigliabile-problematico / dibattiti Intervallo (L’) – consigliabile-problematico / dibattiti Knockout – Resa dei conti – consigliabile / semplice Kryptonite nella borsa (La) – consigliabile / brillante Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato: raccomandabile / poetico Margin Call – consigliabile-problematico / dibattiti Monsieur Lazhar – consigliabile-problematico / dibattiti 57 Oltre le colline – complesso-problematico / dibattiti On the Road – complesso / scabrosità ParaNorman – complesso / problematico Prometheus – complesso / velleitario Ralph spaccatutto: consigliabile / brillante Reality – consigliabile-problematico / dibattiti Rum Diary (The) – Cronache di una passione – futile / velleitario Pietà – discutibile / problematico Sapore di ruggine e ossa (Un) – complesso-problematico / dibattiti Scomparsa di Patò (La) – consigliabileproblematico / dibattiti Sposa promessa (La): consigliabile-problematico / dibattiti Taken 2 – La vendetta – consigliabile / semplice Ted – futile / volgarità Travolti dalla cicogna – n.c. 21 Jump Street – n.c. Viaggio in Paradiso – futile / violent Viva l’Italia – consigliabile / brillante Workers – Pronti a tutto – consigliabile / grossolanità Film Tutti i film della stagione Mostra Internazionale del Nuovo Cinema 48 - Pesaro, giugno 2012 LA SCOMMESSA CONTINUA A cura di Flavio Vergerio La “Mostra” di Pesaro (non “festival” perché da sempre è meritoriamente la rassegna meno mondana del panorama italiano) sta avvicinandosi, ahimé come il tempo passa!, al mezzo secolo di vita, ma i tagli dei finanziamenti pubblici quest’anno si sono fatti sentire pesantemente. Passato ad altra funzione il glorioso Astra, sede di tante retrospettive dedicate ai cineasti italiani, Il programma si è svolto in una sola sala, lo Sperimentale, oltre che all’aperto nella malatestiana Piazza del Popolo, quindi forzatamente ridotto (è venuta meno la sezione più curiosa e sperimentale della rassegna, Bande à part). Malgrado ciò Giovanni Spagnoletti e i suoi collaboratori sono riusciti a mettere in piedi un bel programma “alternativo” , proponendo al pubblico serale alcuni film della retrospettiva dedicata a Nanni Moretti insieme a un gruppo di film del “concorso” rigorosi e di forte testimonianza sociale (come è nelle corde della Mostra). IL CONCORSO Il film premiato, Dejca (tit. it. Buon anno Sarajevo) della bosniaca Aida Begiæ, mette in scena la dolorosa lotta quotidiana per la sopravvivenza di due fratelli orfani di guerra. La sorella maggiore protegge il fratello adolescente vittima di soprusi di una società che fatica a superare il ricordo della guerra, vittima ancora di politicanti e burocrati corrotti, e cerca nell’adesione (più simbolica che reale) alla religiosità islamica una nuova dimensione identitaria e le ragioni del proprio riscatto. Inconsueto atto di denuncia dell’arretratezza sociale e del maschilismo nella provincia cilena è apparso La Jubilada (t.l. La pensionata) di Jairo Boisier Olave, drammatico ritratto di una donna che ritorna al suo villaggio natale dopo aver abbandonato la sua precaria attività di attrice di film pornografici. Il suo reinserimento sociale si scontrerà contro i pregiudizi della popolazione rurale e provocherà un sanguinoso conflitto fra il padrone di una piccola società di riciclo dei metalli e il figlio adolescente di questi. Il film è caratterizzato da un linguaggio filmico scabro e da una messa in scena volutamente povera e scostante. Volto all’essenzialità e alla ripetitività alienante delle situazioni descritte è apparso Sharqiya (Stazione centrale) dell’israeliano Ami Livne, racconto allucinato della condizione di vita di un giovane beduino cui viene distrutto dalle forze di polizia la sua povera baracca in un accampamento nel deserto. Dopo aver inutilmente messo in scena un’azione dimostrativa alla stazione, l’uomo ricostruirà la sua tenda insieme con un gruppo di altri beduini. Un piccolo film, se si vuole, ma capace di denunciare con forza l’ottusità dello stato israeliano nel rapporto con le minoranze arabe. Uno sguardo allucinato è quello con cui Sandro Dionisio che in Consiglio a Dio descrive il lavoro notturno di un “recuperatore di cadaveri” che raccoglie per un misero compenso su un litorale del Sud i poveri resti di immigrati annegati. Tratto da un monologo teatrale, il film denuncia la progressiva caduta agli inferi di strati di società sempre più diffusi e degradati. Doverosa anteprima è apparso infine Barbara del tedesco Christian Petzold, sofferto ritratto di una pediatra che nella Germania dell’Est del 1980 vive una condizione di sdoppiamento morale ed esistenziale. Da una parte la giovane donna vorrebbe raggiungere il fidanzato fuggito all’Ovest, dall’altra si fa coinvolgere nella cura di una giovane malata (forse conosciuta in prigione) e dal nuovo amore per un collega. Barbara reinterpreta gli stereotipi del cinema di frontiera, in cui agisce la dialettica solidificata fra prigione e libertà, repressione e democrazia, povertà e benessere. Problematica e sofferta appare la scelta di Barbara per il suo lavoro all’Est e il suo nuovo amore, piuttosto che la libertà all’Ovest (malgrado le sirene edonistiche) contro la dittatura. MORETTI, È FINITO IL TEMPO DELL’IRONIA? Oltre che alla retrospettiva completa di tutti i suoi film e alla pubblicazione di un corposo volume di saggi e di schede curato da Vito Zagarrio, l’omaggio a Moretti ha permesso di rivisitare la vera anima “morale” di un regista a lungo considerato dai tempi di Ecce bombo e di Io sono un autarchico solo un 58 intelligente “provocatore”, venato di umori dissacranti e malinconie post-sessantottine. Non c’era bisogno di Habemus Papam per capire che Nanni Moretti è profondamente e amaramente addolorato per la decadenza etica (ed estetica) degli italiani e delle istituzioni che li governano in preda ai falsi valori del consumismo e del liberismo selvaggio. La maturazione di una poetica e di un linguaggio sempre più essenziale e organico alla materia trattata si può fa notare sin dai tempi di Bianca (1984) stimolato a dire dello stesso regista dalla visione de La femme d’â côté di Truffaut. Se nei primi super-8 era percepibile una certa cinefilia di ispirazione nuvelvaghista, progressivamente la sua cifra stilistica si fa più essenziale e rigorosa. Macchina fissa, inquadrature ben costruite, attenzione ai dialoghi e alla sceneggiatura sono le caratteristche che si impongono e che segnalano in Moretti una sempre maggiore attenzione ai drammi esistenziali dei suoi personaggi, siano essi un Papa che rifiuta la nomina ritenendosi inadegiuato all’immane compito di riformare la Chiesa, oppure uno psichiatra che scopre la propria anima dolente dopo la morte del figlio. IL DOCUMENTARIO ITALIANO Il documentario italiano è solo apparentemente un fenomeno produttivo secondario nel nostro complesso panorama mass-mediatico. Le ragioni di una esplosione produttiva sono molteplici, quali la ramificazione inarrestabile del web, la proliferazione di canali tematici che superano la logica univoca della televisione generalista, la duttilità e la fruibilità dei nuovi strumenti di registrazione digitale, la diffusione capillare di nuove scuola di cinema, l’attrazione dei bassi costi e la convinzione (non sempre ben fondata) nei giovani aspiranti registi che il documentario sia la strada più funzionale per arrivare al “grande” cinema di finzione, oltre alla ricerca di nuove strada per esprimersi e rinnovare le stanche convenzioni del cinema commerciale. Ma ci sono ragioni estetiche e sociali che stimolano la produzione documentaristica. Se per quanto riguarda i “contenuti” sociali Film si nota anche nella selezione pesarese la prevalenza di opere di documentazione e di denuncia su argomenti occultati dal sistema dei mass-media, quali l’immigrazione, la negazione dei diritti civili e la povertà dilagante, più complesso sarebbe indagare le ragioni estetiche di queste opere, che spesso si esprimono con una forte autorialità. Afferma significativamente Marco Bertozzi: “È un tema che mi appassiona: che il documentario italiano, nonostante la sua endemica debolezza e la scarsa capacità nel comunicare le proprie storie, sia stato il condensatore estetico e il principale artefice di un nuovo realismo”. Nella variegata selezione di 21 opere proposta da Giovanni Spagnoletti non sono state poche quelle capaci di sviluppare questa idea di “nuovo realismo”. Opere cioè che non si limitano a cercare una giustificazione e un “riparo” dietro l’evidenza del “contenuto”, ma sperimentano le forme di rappresentazione che mettano in luce gli aspetti oscuri e occultati (o simbolici, o le relazioni nascoste) della realtà. Straordinario, ad esempio, per rigore formale Il passaggio della linea (2007) di Pietro Marcello. Vi si mostra una infinita e dolorosa traiettoria di treni espressi (in parte oggi soppressi) che traghettano esistenze desolate fra Nord e Sud, alla ricerca (o forse no) di un luogo ove vivere. Esistenze destinate a perdersi nel buio della notte e di un peregrinare che dal sociale si trasforma in dimensione metafisica. Da segnalare anche l’efficace metodo di indagine sull’uomo di Stefano Savona in Palazzo delle aquile (2011, ma girato in anni precedenti), assurto a sua volta alla fama internazionale con Tahrir Liberation Square (2011). Nel rappresentare un mese di occupazione della sede del Municipio di Palermo da parte di 18 famiglie sfrattate, le manipolazioni e l’affarismo dei politici, Savona raccoglie con accanimento e acutezza dello sguardo i microcomportamenti degli uni e degli altri per fare emergere la problematicità di una situazione in divenire, senza didascalismi o false speranze. LA “NOUVELLE VAGUE” TEDESCA Nel 1958 sulla rivista “Arts” François Truffaut diede giustificazioni teoriche e produttive al nascente movimento dei giovani cineasti francesi che si opponevano al “cinéma de papa” con il celebre saggio Une certaine tendance du cinéma français, in cui in particolare si accusavano i cineasti della precedente generazione di aver tradito la storia evitando di affrontare i temi del collaborazionismo e del movimento di liberazione. Quattro anni dopo, nel 1962, 26 giovani filmaker di Monaco riunitisi durante il Festival del Cortometraggio di Oberhausen, firmavano un documento collettivo in cui si decretava “la morte del cinema convenzio- Tutti i film della stagione nale tedesco” e l’affermarsi di una generazione di giovani cineasti che parlava “un nuovo linguaggio cinematografico”. Si auspicava “nuove libertà” che affrancassero i cineasti “dalle convenzioni abituali dell’industria cinematografica, da qualunque tentativo di commercializzazione, da ogni tutela finanziaria”. Tra i firmatari si notano i nomi di cineasti destinati ad affermarsi a livello internazionale quali Alexander Kluge, Edgar Reitz, Haro Senft, Peter Schamoni. Mancano le firme del francese Jean-Marie Straub, ma allora esule in Germania, e di Werner Herzog, comunque vicini allo spirito del movimento e presenti nel programma presentato a Pesaro. Negli anni successivi faranno parte del gruppo Wim Wenders e Rainer W.Fassbinder. Come si ha avuto conferma dai film visti a Pesaro, in effetti il movimento di Oberhausen non aveva un’estetica unitaria, anche se era comune l’interesse per la sperimentazione, l’apertura al reale, il recupero della storia. Se alcuni film si occupavano di fornire una sofferta testimonianza sul terribile periodo nazista e sul pericolo di una sua ricostituzione, l’interesse per la politica si manifestava anche contro altre ideologie antidemocratiche. Straordinario a questo proposito il film di Peter Schamoni Moskau ruft (Viaggio a Mosca, 1957) girato di nascosto fra le masse ignare partecipanti al Festival Mondiale della Gioventù. Nel filmare i riti della grande manifestazione il regista evidenzia le tecniche di manipolazione delle coscienze e l’occultamento della miserrima realtà sociale in cui versava l’URSS nel dopoguerra. Quanto ai film che cercavano di elaborare il lutto del passato nazista appare ancora oggi di grande rigore formale Brutalität in stein (Brutalità nella pietra, 1961) di Alexander Kluge, che mette in relazione la magniloquente architettura hitleriana con l’orrore della repressione anti-popolare e anti-ebraica. I pericoli dei rigurgiti nostalgici nazisti sono il tema affrontato con implacabile e fredda ironia da Walter Krüttner in Es muss ein stuck von Hitler sein (1963), reportage sul turismo nostalgico sulle montagne del Salisburghese e al “nido d’aquila”, il mitico rifugio del dittatore, ora ridotto in rovina. Segnalo infine due film in qualche modo assimilabili al neorealismo italiano. Grossmarkthalle (1958) di Ferdinand Khittl: dietro l’apparente descrizione naturalistica della frenetica attività di un mercato generale di frutta e verdura illustra i meccanismi capitalistici del commercio e dell’industria conserviera. Notabene Mezzogiorno (1962) di Hans Rolf Strobel e Heinrich Tichawsky descrive in modo scabro e rigoroso il fallimento della Riforma Agraria nel Metaponto, addebitando alla antiche sudditanze culturali la permanente arretratezza dei contadini del nostro Sud. 59 SIMONE MASSI, LA POESIA DELL’ANIMAZIONE Uno dei momenti più felici della Mostra di Pesaro è stata la retrospettiva del cinema d’animazione di Simone Massi, una artista singolare, più conosciuto all’estero che non da noi, ove la struttura produttiva “culturale” è particolarmente difficile, se non ottusa. Retrospettiva rapida perché i corti di Massi durano da un minimo di un minuto a un massimo di otto, ma destinati a restare impressi nella nostra memoria per la loro folgorante qualità estetica e narrativa. Massi rompe ogni barriera codificata di tempo e di spazio, facendo apparire inattesi e problematici rapporti di forme sviluppando i dettagli del disegno essenziale di un corpo umano o animale, di un paesaggio, di uno strumento di lavoro agricolo. Il racconto si sviluppa nella continuità, in un unico piano sequenza che rappresenta una intrigante ricostruzione onirica della realtà, fra incubo, desiderio, sogno, rivisitazione poetica di un mondo contadino sottratto al peso del tempo e della ripetizione. Massi fa scaturire la forza del simbolico dall’accostamento apparentemente libero e casuale, non didascalico, di materiali espressivi diversi (le forme umane si sperdono nel paesaggio delle dolci colline marchigiane ed esse a loro volta producono l’umano). Il meccanismo produttivo si può forse ricondurre a due maestri del surrealismo, Kafka e Magritte, citati del resto come icone in alcuni suoi film. La poesia di Massi sta forse in questo rapporto fra costrizione e libertà, desiderio di rielaborare esteticamente i misteri di una condizione umana coercitiva. Non è casuale che Massi provenga da una famiglia contadina dell’entroterra marchigiano e, dopo aver frequentato la scuola d’Arte d’Urbino, abbia fatto anche l’operaio. La sua vocazione artigianale e orgogliosamente solitaria si manifesta nel suo metodo di lavoro: egli disegna a mano, senza l’ausilio del computer, le migliaia di immagini necessarie per comporre le sue brevi narrazioni. In una bellissima intervista di Fabrizio Tassi, Massi spiega così le proprie origini ancestrali ed artistiche: “Sono nato a Pergola (…), un paese che per motivi storici e geografici è rimasto isolato per secoli; e per secoli gesti e pensieri delle persone sono stati gli stessi. Mi dico che un luogo chiuso custodisce e protegge , dall’altro diffida e produce acqua stagna. E se le strade sono malagevoli e sconsigliano il viaggio, in compenso c’è un sottosuolo che è un intrico di gallerie scavate dagli uomini per sfuggire gli assedi. Chi cresce in questo tipo di paese finisce inevitabilmente per somigliargli. Io non sono riuscito a staccarmi da Pergola: ho scelto e sono stato spinto dalle circostanze a rimanere, a custodire e proteggere, a diffidare e produrre acqua stagna, e anche a lasciarmi una via di fuga”. Film Tutti i film della stagione VENEZIA 2012: NUOVI PERCORSI NARRATIVI? A cura di Flavio Vergerio con il contributo di Marzia Gandolfi, Silvio Grasselli, Luisa Ceretto Il ritorno di Alberto Barbera alla direzione della Mostra del Cinema veneziana, con un nuovo gruppo di selezionatori, ha portato alcuni cambiamenti nell’impostazione del programma e nelle scelte estetiche. Innanzitutto un numero inferiore di opere in Concorso (19 contro la trentina dell’ultimo anno della gestione Müller), sparite le cineserie (l’Oriente era presente solo, ahimé, con l’inaffondabile Kitano e, per fortuna, con il coreano Kim Ki-duk), ridotto anche il programma-monstre Orizzonti, luogo dedicato alla sperimentazione, ora normalizzato verso una narratività più riconoscibile e lineare, un Fuori Concorso con alcune notevoli anteprime (Bonitzer, Demme, De Oliveira, Redford) e soprattutto un paio d’opere atipiche che avrebbero meritato il concorso maggiore: Anton’s Rights Here della russa Lyubov Arkus (il ritratto doloroso di grande intensità di un giovane autistico) e Era meglio domani della tunisina Hinde Boujemaa (esempio efficace di cinema “diretto” a seguire i vani tentativi di trovare un tetto di una donna allo sbando con il figlio handicappato, all’indomani della ambigua “rivoluzione” tunisina). Lodevole, dopo i discutibili recuperi del cinema italiano di “culto” nazional-popolare, il ritorno ai “classici” in occasione di restauri o nuove uscite in DVD (Hawks, Welles, Wilder, Rossellini, Pasolini...): studiare la storia del cinema vuol dire anche rivedere e ripensare le opere maggiori. Apprezzabile anche il recupero di dieci film rari passati in lontane edizioni della Mostra e riemersi delle opere dell’archivio ASAC della Biennale. Di grande interesse nella direzione di una loro revisione critica L’ultima notte di Julij Jakovlevi Rajzman (URSS, 1936), opera molto più problematica e complessa di quanto ci facesse pensare la fama di regista di regime di Rajzman, e soprattutto Il brigante di Renato Castellani (1961), storia profetica di una rivoluzione contadina mancata (un oscuro episodio di oc- cupazione delle terre in Sicilia), esempio di quello che avrebbe potuto essere un neorealismo non inficiato da condizionamenti ideologici. CONCORSO Il numero ridotto di opere selezionate lasciava intendere un maggior rigore nella selezione stessa. Anche senza dar credito alle chiacchiere di corridoio, è purtroppo facile pensare che alcune opere (De Palma, Kitano, Francesca Comencini) siano state imposte da ragioni esterne al merito, tanto che non appare chiara una linea estetica sottesa alle scelte. Diciamo allora che sia pure nei limiti stretti in cui operava il gruppo selezionatore si sono viste alcune opere notevoli, diverse fra loro, necessarie, ma non fondamentali. Pieta di Kim Ki-duk mi è apparso straordinario nel suo tentativo di sondare l’ambiguità, il non detto, l’anima oscura di un piccolo carnefice e vittima della macchina atroce dell’usura. La prima parte del film sembra voler percorrere gli scenari macabri dell’horror, con il giovane solitario, privo di relazioni umane, che si accanisce nell’ infliggere terribili mutilazioni ai corpi di piccoli artigiani e commercianti che non riescono a pagare i loro debiti all’organizzazione mafiosa per cui lavora. Poco alla volta ci rendiamo conto che gli apparenti stereotipi di genere sono funzionali a creare un’atmosfera opprimente in cui l’uomo e le sue vittime sono pedine di una struttura totalizzante. Nella seconda parte del film, quando appare una donna che si dice sua madre (ma forse è in effetti la vedova di una sua vittima), si sviluppa il vero tema del film, il reciproco bisogno d’amore fra esseri umani, apparentemente parestetizzati nei sentimenti e incapaci di relazioni. L’uomo raggiunge la propria liberazione solo con la morte, procuratagli dalla madre tanto desiderata. Dice il sulfureo regista coreano: “Il denaro mette inevitabilmente alla prova chi 60 vive in una società capitalistica dove tutti sono convinti che esso possa risolvere ogni cosa (…) In questo film, due persone che provocano e subiscono dolore per via del denaro e che molto difficilmente si sarebbero potuti incontrare, si conoscono e diventano una famiglia. Grazie a questa famiglia, ci accorgiamo che siamo complici di tutto quello che accade. Il denaro farà domande tristi fino a quando tutti quelli che vivono in questa epoca moriranno. Finiremo per diventare denaro agli occhi degli altri, schiacciati sull’asfalto. Piango ancora rivolto al cielo con scarsa fede. Dio, abbi pietà di noi”. Ingiustamente dimenticato nel palmarés l’opera di Marco Bellocchio Bella addormentata, scontava forse il “difetto” della rinuncia a qualsiasi compiacimento ideologico o sentimental-emotivo. Si tratta di una delle opere più rigorose e complesse di un vero artista-intellettuale che rivisita in modo aperto e problematico il tema del libero arbitrio nell’accettazione della morte, senza cadere nelle trappole pro-contro della vicenda ancora irrisolta della liceità della rinuncia alle cure di fine vita di Eluana Englaro. Mentre sullo sfondo si manifesta l’indecente spettacolo mass-mediatico di politici e integralisti, Bellocchio mette in scena quattro storie che hanno in comune l’apertura al dolore, al dubbio, alla sofferenza. Paradossale e straziante l’episodio del medico che con la sua sola presenza umana salva e fa risorgere alla vita una giovane tossicodipendente volta al suicidio. Paradossalmente il film, accusato ingiustamente di propaganda all’eutanasia, non celebra il diritto a morire ma è un invito alla vita e al cambiamento di sé. Bella addormentata contiene poi la battuta più incisiva di tutto il festival. Dice lo psichiatra impersonato da Roberto Herlitzka al senatore friulano in crisi di coscienza (Toni Servillo) fra i fumi di un bagno turco: “La vita è una condanna a morte e bisogna sbrigarsi”. Il vero significato dal film è forse il conflitto fra la violenza dei media e la verità della vita. Film L’altro film italiano È stato il figlio di Daniele Ciprì, pur apprezzabile nella sua capacità di descrivere senza reticenze il terribile sfascio morale in cui anche i ceti popolari sono caduti dietro l’illusione di facili arricchimenti, sconta a mio avviso un certo compiacimento voyeuristico che riduce a stereotipo e macchiettismo una realtà umana molto più complessa e dolente. Il new-yorchese Amin Bahrani con At Any Price rinnova e attualizza la grande tradizione del cinema delle saghe famigliari americane (da La valle dell’Eden a Il petroliere), in cui si assiste al conflitto fra padre e figlio nella gestione dell’impresa. Qui si tratta di grandi produttori di cereali del Midwest, messi in crisi dalla concorrenza globale, divenuti anche produttori di semi geneticamente modificati (che manipolano spesso in modo illegale). Vittime e interpreti della filosofia dell’”espanditi o muori”, questi agricoltorimanager, vivono una tensione continua che mette in crisi la propria integrità morale, i rapporti umani e gli equilibri familiari. I tentativi di crearsi un esistenza diversa da parte dei figli sono destinati a “rientrare nell’ ordine”. Notevole conferma della genialità narrativa di Paul Thomas Anderson con The Master che, dopo il canonico Il petroliere, torna ad analizzare l’anima profonda dell’America illustrando i rapporti psicanalitici fra potere, danaro, profetismo e la legge del Padre. Il film diventa una acuta riflessione sulla manipolazione delle coscienze da parte di falsi leader carismatici, un tempo operanti in sette religiose, oggi predicatori mediatici. Interessante per la sua capacità di rendere misteriosi e problematici tempi e spazi del racconto Izema (Betrayal) del russo Kirill Serebrennikov. Il film descrive l’attrazione verso il vuoto, la coazione a ripetere e la morte di un uomo e una donna che scoprono di essere traditi dai rispettivi coniugi, morti in modo imprevedibile, e che vivono a loro volta una tragica storia d’amore passionale. La storia vira progressivamente dalla dimensione psicanalitica a quella di un inestricabile thriller metafisico. Sorprendente e inatteso Fill the Void (Colmare il vuoto) dell’esordiente new-yorchese Rama Burshtein, di origine ebraica. Il film getta uno sguardo inedito sulla comunità ultra-ortodossa chassidica, molto importante negli orientamenti politici di Israele, ma priva di rapporti sociali e culturali con il mondo esterno. La Burshtein descrive, senza accenti critici e con profonda partecipazione le tradizioni patriarcali e i rapporti umani determinati da un fortissimo rispetto della tradizione, controllata da un rabbino depositario della Legge. Shira, una ragazza di Tel Aviv, è felice promessa sposa di un giovane della sue stessa età e cultura. Ma il matri- Tutti i film della stagione monio viene annullato quando la sorella di Shira muore di parto. La ragazza finirà per sposare il cognato, anche per evitare che questi si allontani dalla famiglia sposando una vedova belga. Il film più che denunciare la chiusura culturale della comunità, studia con grande sottigliezza l’evoluzione dei sentimenti della protagonista che riesce a trasformare in atto d’amore il sacrificio impostole dalla famiglia. Altro film che avrebbe meritato qualche riconoscimento ci è apparso Sinapupunam (Thy Womb, ovvero Il tuo ventre) del sorprendente e sempre innovativo Brillante Mendoza. Il grande regista filippino abbandona gli angosciosi paesaggi urbani di Kinatay per esplorare in chiave etnografica la splendida natura ancora intatta dell’arcipelago a sud del suo Paese. In un villaggio costruito sulle palafitte vive una pacifica comunità musulmana di pescatori d’alghe, in buoni rapporti con i cristiani, spesso però messa in pericolo da incursioni di pirati o da opposte fazioni militari. Una matura levatrice non riesce a dare un figlio al marito e, pur di renderlo felice, cerca di comune accordo una più giovane donna fertile. Dopo il matrimonio la nuova moglie rivela però tutto il egoismo e cerca di emarginare la prima moglie, scatenando un profonda gelosia nella levatrice, che tuttavia sovrintende alla nascita del bimbo tanto desiderato. Il film si sviluppa a tratti come un commovente documentario etnografico su una società ancora integra, in perfetto equilibrio fra natura, tradizioni e religiosità. Ma l’apparente bellezza pacificata delle immagini è rotta dalle improvvise incursioni della violenza esterna, portata da pirati e militari, sintomo di un malessere economico e morale che ha ormai raggiunto anche questo angolo sperduto di paradiso, e dalla difficoltà umana a realizzare l’utopia della poligamia e della paternità condivisa dalle due donne. Flavio Vergerio ORIZZONTI La sezione è stata “depurata” di quegli aspetti “sperimentali” che l’avevano resa l’occasione più curiosa e sorprendente degli ultimi anni della gestione Müller, alla ricerca di forme di narrazione più “classiche” e fruibili da un pubblico più vasto. La “normalizzazione” é apparsa non ancora chiara nei suoi obiettivi linguistici ed estetici accogliendo opere (per fortuna) molto diverse fra loro e qualche toppata (la flebile commediola Gli equilibristi di Ivano De Matteo), che l’ha fatta apparire un sorta di “Informativa” in cui accogliere alcune opere interessanti, ma forse giudicate non sufficientemente compiute e degne del Concorso maggiore. Dei 18 film presentati segnalo solo le maggiori riuscite 61 Tre sorelle, opera fluviale (2h30’) del grande documentarista cinese Wang Bing, vincitore della sezione, descrive con grande empatia la miserrima esistenza di una famiglia contadina nelle montagne dello Yunnan. Abbandonate a se stesse in un sordido tugurio, tre ragazzine governano una mandria di maiali, vagano nella campagna, percorrono senza meta le strade fangose del villaggio. Quando la zia cui sono affidate smette di nutrirle, il padre (la madre non appare mai) viene a prenderle per portarle in città, ma lascia la più grandicella alle cure del nonno. Wang non organizza le riprese, ma si limita a riprendere apparentemente senza un piano prestabilito segmenti di tempo e di spazio, facendo proprio lo scorrere di un’esistenza inane e precaria. L’osservatore, al tempo stesso presente e assente, diventa una presenza umana misteriosa e capace di intrattenere un rapporto solidale con la dolente umanità che filma. La denuncia sociale del regista è volta a rivelare le terribili condizioni di vita dei contadini in una Cina che ha privilegiato la crescita di un capitalismo selvaggio, senza curarsi degli squilibri creati fra città e campagna. Il suo film parla del rapporto fra le bambine, “di come sono state capaci di adattarsi alla miseria per sopravvivere, di come i bambini crescano anche con nulla, di come le cose più insignificanti possano diventare ostacoli insuperabili per loro”. Probabilmente L’intervallo di Leonardo Di Costanzo meritava una maggiore attenzione e promozione. Si tratta di un’opera di grande intensità drammaturgica, capace di creare una dimensione spazio-temporale compatta e stimolante attorno alle figure di due ragazzi segregati in un edificio spettrale dalla camorra. Lei é una giovane prostituta che tenta di ribellarsi ai suoi sfruttatori, lui un venditore ambulante messo a sorvegliarla, che scoprono momenti di libertà e di verità nel breve “intervallo” di rapporto umano che viene loro concesso. Difficile da classificare il provocatorio Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, sospeso fra la descrizione surreale del degrado di un quartiere popolare, le piccole avventure errabonde di due ragazze in fuga verso il mare e una dimensione favolistica con un intervento salvifico di una fata che evita l’esecuzione punitiva ai danni di un amico. Mereu conferma il suo talento nell’indagare la dimensione del fantastico in storie apparentemente quotidiane. Sorprendente esordio nel lungometraggio della saudita Haifaa Al Mansour con Wadjda, storia gentile, ma di grande forza nella denuncia dello stato di sottomissione della donna nel suo Paese. La protagonista é una ragazzina libera e intraprendente che si ribella alle regole incomprensibili degli adulti. Wa- Film djda vorrebbe scorazzare in bicicletta con un amichetto, ma il contatto del soprassella con la sella é proibito alle donne... Arriverà a iscriversi a una gara di recita del Corano per vincere un premio con cui acquistare una bici. Il film comunica con leggerezza (e forza) l’idea che la strada della liberazione delle donne nei paesi arabi sarà lunga, faticosa, ma inarrestabile. Più pessimista il melodramma La casa del padre dell’iraniano Kianoosh Ayyari, terribile epopea di una famiglia patriarcale che nasconde per diverse generazioni il segreto dell’omicidio di una donna uccisa per mal inteso senso dell’onore. La turca Yesim Ustaoglu, nel trattare a sua volta lo stesso tema vagamente “femminista”, racconta in termini naturalistici (e a tratti brutali) nel suo Araf -Somewhere in Between la dolorosa “educazione alla vita” di due ragazzi addetti a una stazione di servizio ipnotizzati dai programmi televisivi. La protagonista viene violentata da un ambiguo camionista, rimane incinta, il compagno la vendica e finisce in prigione dove i due si sposeranno dopo un brutale aborto solitario. Il film, pur manifestando notevole forza narrativa appare troppo programmatico nel denunciare il vuoto di vita sospese in una terra di mezzo (Araf) alla ricerca di una nuova difficile identità. Su un versante opposto, dedito alla poetica del tempo vuoto e dell’inanità, memore della grande lezione di Antonioni, è apparso Low Tide (Bassa marea) del marchigiano - emigrato in America - Roberto Minervini, descrizione “a bassa definizione” del difficile rapporto fra un dodicenne abbandonato a se stesso e una madre dedita a fuggevoli avventure amorose e alla bottiglia. Ambientato in un Texas inedito, popolato di diseredati alloggiati in camper precari, il film si impone per la qualità del linguaggio filmico, fatto di attese e di sospensione di senso, fluire immoto del tempo, interrotto solo dalla riconciliazione finale fra madre e figlio. Altro bel risultato stilistico The Cutoff Man (L’uomo che taglia) dell’esordiente israeliano Idan Hubel, fondato sulla forma narrativa della ripetitività e della perdita progressiva del rapporto fra l’azione e il suo significato. Il protagonista è un uomo che ha perso il lavoro ed è costretto a fare un lavoro ingrato: interrompere l’erogazione dell’acqua ai morosi. Egli diventa poco alla volta strumento, vittima e carnefice, di un sistema economico che impoverisce sempre più la popolazione, mettendo a nudo la crisi del ceto medio. L’uomo vedrà messi in crisi anche i propri sogni di riscatto e benessere quando sarà costretto a tagliare l’acqua a un allenatore di calcio che potrebbe fare la fortuna del figlio. Di impianto invece simbolico Me Too del talentuoso russo Alexej Balabanov, road mo- Tutti i film della stagione vie fra Mosca e una lontana landa desolata colpita da radiazioni nucleari, alla ricerca del “Campanile della felicità”, capace di trasformare in nuvole colorate uomini alla ricerca della pace interiore. Ma non tutti vi sono accolti... Il percorso in macchina di quattro personaggi emblematici (il Padre, il Bandito, l’Amante...) attraverso il freddo, la solitudine e la miseria di un Paese sempre più ripiegato su stesso, volge in tutta evidenza alla ricerca di risposte religiose alla crisi dell’uomo. Le nuvole di vapore colorate che si levano dal campanile ricordano quelle della straordinaria installazione di Anish Kapoor che salivano nell’estate 2011 dall’altare della Chiesa di San Giorgio a Venezia verso la cupola e il cielo. Flavio Vergerio FUORI CONCORSO Dopo il congedo di Marco Müller è stata la volta (ma non la prima) di Alberto Barbera, che ha diminuito la quantità delle opere presenti alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica con la speranza di migliorarne la qualità e di colmare il vuoto distributivo italiano. Le migliori scoperte delle edizioni precedenti sono, di fatto, rimaste invisibili nel nostro Paese nonostante i premi e il plauso meritati. Sezione magmatica e non competitiva, il Fuori Concorso ha guadagnato quest’anno i documentari della sezione Orizzonti e presentato una selezione ‘instabile’ dove non sono mancate le (piacevoli) sorprese. Più dei medici di Mazzacurati (Medici con l’Africa) e degli immigrati di Vicari (La nave dolce), da segnalare nella compagine italiana è senza dubbio il bel documentario di Daniele Incalcaterra e Fausta Quattrini, El Impenetrable, storia di un’eredità paterna di cui liberarsi per diventare a propria volta padre. Viaggio personale e politico nelle terre inespugnabili del Paraguay di un regista deciso a riconsegnare la terra ai nativi, confrontandosi con l’arroganza dei latifondisti e le leggi economiche di profitto. Italiano è pure il documentario di Liliana Cavani in conversazione con le Clarisse del Monastero di Santa Chiara. Appassionata da sempre del movimento francescano e al suo ideale di libertà, la regista torna nei luoghi di Francesco per avvicinare il mistero della vocazione e interrogare le sorelle sul valore della preghiera. Solennità liturgica e suoni laici mescola anche Enzo Avitabile Music Life di Johnathan Demme, che muovendo dalla poetica musicale dell’artista napoletano traduce in immagini il suo desiderio in musica di salvare il mondo. Un mondo che può essere difficile per una bambina di tre anni a cui le Brigate Rosse hanno assassinato il padre nella provincia veneta degli anni Settanta. Silvia Giralucci, giornalista padovana, si mette letteralmente in campo dominando un oggetto 62 critico come gli anni di piombo dal punto di vista personale, collettivo e storico. Sfiorando il muro della Giralucci prova allora a fare chiarezza sugli anni del nostro scontento, partendo da un intervento di Toni Negri tenuto in occasione del trentesimo anniversario del “7 aprile 1979”, quando un’operazione di polizia cambiò la storia del Paese e mise in manette i teorici della guerriglia di Autonomia Operaia. Di fondamentalismi che accecano e abbattano i diritti umani racconta anche il film di apertura della sessantanovesima edizione veneziana, The Reluctant Fundamentalist, confessione di un pakistano cresciuto negli States, destinato a una brillante carriera all’interno del mondo finanziario e poi entrato in crisi col dramma dell’undici settembre. Al valore del dollaro e della produttività, il protagonista di Mira Nair, preferirà i valori della propria cultura, provando a costruire un sogno pakistano. Di sogno americano deviato parla invece il gangster movie di Ariel Vromen, ispirato alla biografia di Richard Leonard Kuklinski, killer su commissione nell’America degli anni sessanta e Settanta, e a quella letteraria di Anthony Bruno (“The Iceman: The True Story of a Cold-Blooded Killer”). The Iceman sfuma però il comportamento patologico del protagonista, imboccando l’agiografia sommaria e sprecando il potenziale biografico di Kuklinski, un sicario che a dispetto dell’efferata professione e dell’ingorgo psichico riusciva a esprimere e a veicolare emozioni dentro lo spazio domestico. Bad guy fuori concorso insieme all’ ‘uomo di ghiaccio’ di Michael Shannon è il Michael Jackson di Spike Lee, che batte il tempo in un’esecuzione perfetta e dentro un documentario pop intorno alla gestazione di Bad, l’album più celebre dell’artista americano. Ugualmente ‘musicale’ con nutrite concessioni alla commedia è Love is all you need di Susanne Bier, che dentro la cornice della fiaba hollywoodiana e di un romanticismo facile favoleggia l’amore di una coppia matura interpretata dalla danese Trine Dyrholm e dallo statuario e irresistibile Pierce Brosnan. Meno azzurro ma più intenso di Brosnan è il ‘principe’ di Jean-Pierre Bacri, protagonista della commedia romantica di Pascal Bonitzer, che avvicina la materia sociale con una grazia senza pari e fa di Cherchez Hortense una delle perle della sezione. Pregio e onere da spartire con Penance di Kiyoshi Kurosawa che incarna l’orrore nelle ‘cose sociali’ e dentro una serie televisiva in cinque puntate. Le sue inquietudini abitano questa volta il mondo scolastico e quello familiare, consumando infanticidi, matrimoni, feticismi, relazioni e figli illegittimi, rivelando un Giappone alienato in cui si muovono le esistenze fragili del suo cinema. Chiude la rassegna il dramma classico e democratico di Robert Redford, di nuovo alla ricerca della verità e della purezza ancestrale degli Stati Uniti da insegui- Film re con le armi dell’indagine, del giornalismo, dello smascheramento. Regista e interprete di The Company you keep, Redford sembra dirci ancora una volta che il cinema americano, quello di ieri e quello di oggi, è sempre frutto di un dietro le quinte, di una menzogna, di un intrigo nazionale. Marzia Gandolfi 23 SETTIMANA INTERNAZIONALE DELLA CRITICA La ventisettesima edizione della Settimana Internazionale della Critica si ritrova inserita in un’edizione della Mostra del Cinema di Venezia che segna una rottura e un passaggio. Più che l’allontanamento di Marco Müller dalla direzione del festival o il successivo incarico ad Alberto Barbera, quel che sembra aver direttamente inciso sulla selezione e sull’assortimento dei titoli della SIC è da una parte il declassamento – per ora solo parziale – del festival sullo scacchiere internazionale, dall’altra il taglio e la riorganizzazione complessiva delle sue sezioni. L’esordio alla regia di Luigi Lo Cascio, per esempio, fino all’anno scorso avrebbe avuto con tutta probabilità l’invito a far da fiore all’occhiello nella selezione di Controcampo Italiano. La città ideale invece si è ritrovato scelto, senza averne i titoli minimi necessari, per partecipare al concorso della Settimana. Scritto in modo schizofrenico, disorganico, approssimativo, il film passa arbitrariamente dai colori della commedia a quelli del noir, attraversando senza gusto né estro i toni del grottesco, del dramma letterario, fino a ricongiungersi alla farsa paradossale. Quasi in un pallido rovesciamento di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Lo Cascio accumula temi alla rinfusa tentando goffamente un discorso moraleggiante e vagamente politico sulla irresponsabilità nell’Italia di oggi. Altro esordio blasonato deludente, quello della figlia d’arte Xan Cassavetes, scelta con il suo Kiss of the Damned per chiudere, Evento Speciale Fuori Concorso, il programma della Settimana. La non più giovane esordiente scrive e dirige un fumettone a tinte fosche che mescola vampiri, sangue e sesso con un indecente quanto involontario gusto per il kitsch: lo stile tenta di ricostruire la parvenza di un gotico postmoderno, ma una certa tracotante inesperienza spinge Cassavetes a goffi accumuli di effettacci (flou, immagini sottoesposte, uso incontinente di macchina a mano) che invece di infondere forza al racconto lo fanno impietosamente assomigliare alla parodia di una soap opera horror. E non si tratta solo di alcune eccezioni negative: l’edizione 2012 della SIC è stata segnata da una trasversale mediocrità. Eppure alcuni degli esordi meno appariscenti hanno giustificato qualche interesse. A cominciare Tutti i film della stagione dal film vincitore del Concorso, il turco Küf di Ali Aydin. Con ascesi stilistica e parsimonia narrativa si racconta la storia di un padre disperato che resiste alla morte, un umile guardiano della ferrovia che da anni aspetta gli sia concesso di conoscere il destino del figlio, scomparso in circostanze misteriose nella lontana Istanbul. Aydin, pur dimostrando l’inesperienza del principiante nel montaggio delle scene e nella modulazione del ritmo del racconto, riesce a evitare il facile rischio della retorica e dell’esplicitezza estrema, facendo trasudare dalle azioni e dai gesti – prima e oltre che dalle parole – i pezzi coerenti di un discorso. Quasi secondo una consuetudine in via di consolidamento, dalla Turchia – sempre più compressa tra lo spasimo europeista e la contrazione tradizionalista - viene l’ennesimo film apertamente seppure discretamente politico diretto da un regista giovane e promettente. Meno discusso, ma altrettanto interessante, il messicano No quiero dormir sola di Natalia Beristain. Il diario minimo della relazione tra una giovane donna – bloccata sulla soglia della maturità – e sua nonna, ex femme fatale, ridotta dalla vecchiaia e dalla solitudine a una disperazione affogata nell’alcol. Fondandosi sulla ricostruzione d’atmosfere e sulla sapiente registrazione di dettagli minuti – il tono di una frase, il movimento di una carezza o l’inatteso incresparsi d’un sorriso – la Beristain mostra l’imprevedibile agitarsi di due identità che entrano in collisione l’una con l’altra, penetrandosi; i suoi palpiti appena percepibili, le parabole vertiginose e impreviste delle emozioni, della vita. Un piccolo film fatto di piccole cose che sa costruirsi come esplorazione acuta della relazione tra due donne. Ultima menzione per il film che più esplicitamente sembra occuparsi del presente socioeconomico della parte di mondo in cui viviamo. Si tratta di Eat, Sleep, Die esordio quasi autobiografico di Gabriela Pichler, prevedibile destinatario del Premio del Pubblico. La giovane regista è figlia di genitori bosniaci e austriaci emigrati in Svezia: condizione assai simile a quella vissuta dalla protagonista del suo film, poco più che adolescente, figlia d’immigrati slavi musulmani stabilitisi nella provincia svedese, costretta di punto in bianco alla frustrante vita della disoccupata. Come previsto dalle regole non scritte del cinema scandinavo contemporaneo, la narrazione è asciutta, organizzata sul procedere di un logico allineamento di fatti. Lo stile è essenziale, crudo, mimetico di molte delle forme più tipiche di certo cinema documentario d’osservazione. Il tono gelido ben si adatta al ritratto di una provincia depressa e deprimente, periferia umana ed economica di una nazione che sembra fondare la solidità della sua norma sulla legittimazione del denaro e del lavoro. Un quadro apparentemente dispe63 rato che non vuol parlare solo ai connazionali, e che forse per questo, all’analisi della cupa, violenta disumanizzazione imposta ai cittadini dell’Europa di oggi, aggiunge il ritratto – politico – della forza vitale della dignità degli uomini e delle donne di buona volontà. Silvio Grasselli GIORNATE DEGLI AUTORI Promosse dalle associazioni dei registi e degli autori cinematografici italiani Anac e 100 Autori, le “Giornate degli Autori”, giunte alla nona edizione, quest’anno hanno moltiplicato la loro programmazione, confermandosi ancora una volta un osservatorio interessante. In particolare la manifestazione è stata caratterizzata da tre momenti distintivi: il progetto Women’s Tales, lo sguardo femminile della creatività, l’irruzione del Cinema Corsaro, un programma autogestito da un collettivo di cineasti, la riflessione sul Cinema degli anni Zero. Oltre a tutto questo, l’interessante selezione Ufficiale, insieme alle Venice Nights nell’arena a cielo aperto della Casa degli Autori, hanno contribuito ad arricchire ulteriormente la proposta culturale. Se l’eterogeneità tematica delle opere rende difficoltoso il rintracciarne un fil rouge, tuttavia il tratto che accomuna ogni opera presentata, che si tratti di un documentario, o di un lungometraggio, o ancora di un corto, è l’attenzione alla ricerca linguistica, a un cinema autoriale e indipendente; nell’impossibilità di potersi soffermare su ogni singolo film, possiamo tuttavia segnalare alcuni titoli che ci sono parsi particolarmente significativi. Intensa la presenza italiana: tre titoli esemplificativi di un cinema che fa i conti con la realtà del proprio Paese. Acciaio diretto da Stefano Mordini, attinge alle pagine dell’omonimo romanzo di Silvia Avallone per raccontare le difficoltà della fase adolescenziale, la storia dell’amicizia di due quattordicenni; a far da sfondo, una Piombino scandita dai ritmi lavorativi degli operai delle Acciaierie Lucchini. Diretto da Vincenzo Marra, Il gemello offre uno sguardo inedito sulla vita in carcere e più precisamente a Secondigliano dove segue, in una sorta di pedinamento zavattiniano, il proprio protagonista, Raffaele, un giovane rinchiuso che deve scontare dodici anni di pena per aver rapinato una banca. Uno sguardo singolare, un docu-fiction che conferma il talento del regista. Terramatta – Il Novecento italiano di Vincenzo Rabito analfabeta è stato un caso editoriale per Einaudi nel 2007 ora è divenuto un film, diretto da Costanza Quatriglio. La storia è quella di un bracciante semi-analfabeta che ha scritto per sette anni, dal 1968 al 1975, Film un diario destinato a rimanere nel cassetto del suo autore, Vincenzo Rabito, scomparso nel 1981. Il film racconta la vita di quest’uomo, scritta in una lingua tutta sua: il racconto, in prima persona, è accompagnato da immagini di repertorio, belle ed efficaci, che vanno dagli inizi dal 900, alla prima guerra mondiale, quindi alla seconda, fino agli anni sessanta. Alle immagini di repertorio si sovrappongono pagine del diario e ancora quelle di una Sicilia odierna dove sono ripresi i figli del protagonista. Perfetta la voce narrante di Roberto Nobile. Provengono dalla Francia, due tra le pellicole più interessanti. Crawl diretta da Hervé Lasgouttes è l’opera prima vincitrice del Label Europa Cinemas. Il film ha per sfondo la Bretagna, dove si incrociano i destini di Martin, un giovane che vive di lavori precari e piccoli furti e Gwen, una nuotatrice che si allena tutti i giorni in alto mare. Facendo propria la lezione dei fratelli Dardenne, in particolare per quello sguardo empaticamente vicino ai personaggi, il regista di Crawl ne segue le traiettorie, il loro trovarsi e perdersi e ancora ritrovarsi. Un film sulla responsabilità, sulla presa di coscienza del peso delle proprie azioni, sulla difficoltà di vivere oggigiorno, che offre tuttavia una via di fuga. Diretto da Solveig Anspach, Queen of Mon- Tutti i film della stagione treuil racconta di Agatha, una regista appena tornata in Francia che deve elaborare la morte prematura del marito. L’arrivo inatteso di una donna e del figlio islandesi, insieme ad un leone marino le daranno la forza di reagire e tornare a vivere. Anspach rivela un talento non comune nel tratteggiare le stravaganze di personaggi insoliti, che sfuggono i cliché e firma una commedia sullo spaesamento, un’acuta e insolita riflessione sulla solitudine e sulla capacità di farvi fronte, affidandosi ad una scrittura che raggiunge momenti di rara poesia. È georgiana l’opera prima della regista Rusudan Chkonia, Keep smiling, che vede dieci madri di famiglia alle prese con un concorso televisivo di bellezza. La vincitrice riceverà in regalo un’ingente somma di denaro, oltre a un appartamento. Il film svela alcuni dei meccanismi del mondo del piccolo schermo, mettendo alla prova le proprie protagoniste per vedere fin dove ognuna di loro riesce a spingersi. Una tragicommedia, che alterna toni lievi alla gravità di certe situazioni dove alcuni valori come il rispetto di sé, la dignità, un senso etico sono messi a dura prova. Hayuta Ve Berl – Epilogue per la regia di Amir Manor, racconta la vicenda di una coppia di anziani e del loro rifiuto ad adattarsi all’Israele contemporanea, dove solidarietà e responsabilità collettiva sembrano essere stati spazzati via da un bieco consumismo. Un inedito e duro ritratto della società odierna dalla valenza universale, che può rimandare, per la scelta dei personaggi ritratti, pur con i dovuti distinguo, alla determinazione del desichiano Umberto D. Diretto da Marc-Henri Wajnberg, Kinshasa Kids nasce dai resonconti dei bambini di strada congolesi, costretti ad allontanarsi dai propri genitori perché accusati di stregoneria e a sopravvivere in contesti precari e difficili; in particolare la mdp segue José e i suoi amici, un gruppo di ragazzi senza tetto, decisi a formare una band musicale per tenere alla larga la sfortuna, con l’aiuto di un impresario coraggioso. Rispetto alla scelta linguistica, come dichiara il regista: ”Ho scelto di scrivere questo film come una fiction, usando il linguaggio e lo stile documentario per catturare lo spirito di Kinshasa: l’umorismo, il pathos, l’intraprendenza e la disonestà. Sembrava che il modo migliore per sviluppare questo film fosse seguire diverse trame e guardarle unirsi come le tessere di un puzzle. Tuttavia sarebbe stato impossibile fare incontrare i personaggi senza con ciò determinarne il destino. Per questo, abbiamo deciso di trasformare il progetto iniziale in un racconto di finzione, pur mantenendo uno stile documentario”. Luisa Ceretto IL RAGAZZO SELVAGGIO è l’unica rivista in Italia che si occupa di educazione all’immagine e agli strumenti audiovisivi nella scuola. Il suo spazio d’intervento copre ogni esperienza e ogni realtà che va dalla scuola materna alla scuola media superiore. È un sussidio validissimo per insegnanti e alunni interessati all’uso pedagogico degli strumenti della comunicazione di massa: cinema, fotografia, televisione, computer. In ogni numero saggi, esperienze didattiche, schede analitiche dei film particolarmente significativi per i diversi gradi di istruzione, recensioni librarie e corrispondenze dell’estero. Il costo dell’abbonamento annuale è di euro 30,00 - periodicità bimestrale. SCRI VERE di Cinema direttore Carlo Tagliabue SCRIVERE DI CINEMA Ogni anno nel nostro paese escono più libri riguardanti il cinema che film. È un dato curioso che rivela l’esistenza di un mercato potenziale di lettori particolarmente interessati alla cultura cinematografica. ScriverediCinema, rivista trimestrale di informazione sull’editoria cinematografica, offre la possibilità di essere informati e aggiornati in questo importante settore, segnalando in maniera esaustiva tutti i libri di argomento cinematografico che escono nel corso dell’anno. La rivista viene inviata gratuitamente a chiunque ne faccia richiesta al Centro Studi Cinematografici, Via Gregorio VII, 6 - 00165 Roma Telefono e Fax: 06.6382605. e-mail: [email protected] 64 "" " """"!""! "!"!!" Euro z ss