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119-120 - Centro Studi Cinematografici
Settembre-Dicembre 2012
119-120
di Kim Ki-duk
OLTRE LE COLLINE
di Cristian Mungiu
Anno X III ( nuova ser e) - Poste Ita
ane S. .A.S ed z one
n Abbonamento
osta e 7
- DCB - Roma
PIETÀ
DETACHMENT - IL DISTACCO
di Tony Kaye
LA BICICLETTA
VERDE
di Haifaa Al Mansour
CESARE DEVE MORIRE
di Paolo e Vittorio Taviani
" " "!"
"!!
SOMMARIO
n. 119-120
Anno XVIII (nuova serie)
n. 119-120 settembre-dicembre 2012
Bimestrale di cultura cinematografica
Edito
dal Centro Studi Cinematografici
00165 ROMA - Via Gregorio VII, 6
tel. (06) 63.82.605
Sito Internet: www.cscinema.org
E-mail: [email protected]
Aut. Tribunale di Roma n. 271/93
Abbonamento annuale:
euro 26,00 (estero $50)
Versamenti sul c.c.p. n. 26862003
intestato a Centro Studi Cinematografici
Spedizione in abb. post.
(comma 20, lettera C,
Legge 23 dicembre 96, N. 662
Filiale di Roma)
Si collabora solo dietro
invito della redazione
Direttore Responsabile: Flavio Vergerio
Direttore Editoriale: Baldo Vallero
Segreteria: Cesare Frioni
Redazione:
Alessandro Paesano
Carlo Tagliabue
Giancarlo Zappoli
Hanno collaborato a questo numero:
Giulia Angelucci
Veronica Barteri
Elena Bartoni
Marianna Dell’Aquila
Cristina Giovannini
Diego Mondella
Fabrizio Moresco
Francesca Piano
Valerio Sammarco
Tiziana Vox
Stampa: Tipostampa s.r.l.
Via dei Tipografi, n. 6
Sangiustino (PG)
Nella seguente filmografia vengono
considerati tutti i film usciti a Roma e
Milano, ad eccezione delle riedizioni.
Le date tra parentesi si riferiscono alle
“prime” nelle città considerate.
Alì ha gli occhi azzuri ............................................................................
Amore dura tre anni (L’) ........................................................................
Appartamento ad Atene ........................................................................
Bambini di Cold Rock (I) .......................................................................
Belve (Le) ..............................................................................................
Biancaneve e il cacciatore ....................................................................
Bicicletta verde (La) ..............................................................................
Bourne Legacy (The) ............................................................................
Castello nel cielo (Il) ..............................................................................
Cavaliere oscuro (Il) – Il ritorno .............................................................
Cavalli ...................................................................................................
Cena tra amici .......................................................................................
Cesare deve morire ..............................................................................
Chef ......................................................................................................
Cosa aspettarsi quando si aspetta ........................................................
Cosimo e Nicole ....................................................................................
Cuore grande delle ragazze (Il) .............................................................
Detachment – Il distacco .......................................................................
Elles ......................................................................................................
Era glaciale 4 (L’) ...................................................................................
Estate di Giacomo (L’) ...........................................................................
Freerunner – corri uomo corri ...............................................................
Giorno speciale (Un) .............................................................................
Grandi Speranze ...................................................................................
Hotel Transylvania .................................................................................
Industriale (L’) ........................................................................................
Intervallo (L’) ..........................................................................................
Knockout – Resa dei conti ....................................................................
Kryptonite nella borsa (La) ....................................................................
Lo Hobbit ...............................................................................................
Margin Call ............................................................................................
Monsieur Lazhar ...................................................................................
Oltre le colline .......................................................................................
On the Road .........................................................................................
ParaNorman .........................................................................................
Prometheus ...........................................................................................
Ralph spaccatutto .................................................................................
Reality ...................................................................................................
Rum Diary (The) – Cronache di una passione .....................................
Pietà ......................................................................................................
Sapore di ruggine e ossa (Un) ..............................................................
Scomparsa di Patò (La) ........................................................................
Sposa promessa (La) ............................................................................
Taken 2 – La vendetta ...........................................................................
Ted ........................................................................................................
Travolti dalla cicogna .............................................................................
21 Jump Street ......................................................................................
Viaggio in Paradiso ...............................................................................
Viva l’Italia .............................................................................................
Workers – Pronti a tutto ........................................................................
Tutto Festival – Pesaro Film Festival 2012 .......................................
Tutto Festival – Venezia Film Festival 2012 ......................................
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Film
Tutti i film della stagione
PIETÀ
(Pietà)
Corea del Sud 2012
Regia: Kim Ki-duk
Produzione: Kim Ki-duk Film Production
Distribuzione:Good Films
Prima: (Roma 14-9-2012; Milano 14-9-2012) V.M.: 14
Soggetto e Sceneggiatura: Kim Ki-duk
Direttore della fotografia: Jo Yeong-jik
Montaggio: Kim Ki-duk
Musiche: Park Yeong-jik
Scenografia: Lee Hyun-joo
Costumi: Ji Ji-yeon
Effetti: Lim Jung-hoon, Digital Studio 21
Interpreti: Lee Jung-jin (Lee Kang-do), Jo Min-soo (Mi-sun),
obborghi di Seul, oggi.
Kang-do fa il lavoro peggiore per
uno strozzino che ha in mano la
vita di tutti gli artigiani del posto, tutti in
debito con lui: nel senso che va in giro a
riscuotere gli enormi interessi sui prestiti
accordati e, nel caso non venga pagato,
mozza le mani degli insolventi, spezza loro
le gambe, li prende a frustate o li getta da
un terrapieno. Senza uccidere, naturalmente, perchè dalle storpiature che il giovane
procura, il malcapitato insolvente può ottenere un idennizzo assicurativo e quindi
fare fronte alla restituzione del debito. Solo
uno dei malcapitati, lo si vede nella prima
scena del film, trova la forza e il coraggio
di uccidersi prima di affrontare Kang-do.
A questo poi, tra una “missione” e l’altra
capita una cosa stranissima: una donna,
mai vista né conosciuta, Min-sun, entra
nella sua vita affermando di essere sua
S
Gang Eun-jin (Myeong-ja, madre di Hun-cheol), Jo Jae-ryong
(Tae-seung), Lee Myeong-ja (vecchia donna), Heo Jun-seok
(Gang-cheol), Gwon Se-in (chitarrista), Song Mun-su (uomo
caduto), Kim Beom-jun (uomo di Myeongdong), Son Jonghak (boss), Jin Yong-ok (uomo sulla sedia a rotelle), Kim
Seo-hyeon (vecchia donna), Yu Ha-bok (uomo del
container), Seo Jae-gyeong (bambino), Kim Jae-rok (monaco), Lee Won-jang (Sang-gu), Kim Sun-mo (vicino di Jongdo), Gang Seung-hyeon (negoziante dei dintorni), Hwang Sunhui (vecchia donna)
Durata: 104’
Metri:2850
madre, di averlo abbandonato da piccolo
e di volere ora occuparsi di lui per placare
il senso di colpa e il vuoto dei lunghi anni
trascorsi.
Kang-do inizialmente non si fida e poi
finisce per crederle dopo averla sottoposta a sevizie e orrori di ogni genere che lo
convincono della verità. A tal punto si convince che la sua vita cambia davvero; la
sua arida anaffettività ha di colpo bisogno
di questa donna venuta dal nulla e a cui
morbosamente si attacca. Al culmine però
del forte legame instauratosi tra i due (che
non esclude nemmeno il sesso), lei ha un
comportamento poco chiaro, a cominciare da un certo maglione lavorato a maglia
e non destinato a Kang-do, per proseguire
con continue sparizioni che esasperano il
giovane usuraio.
La verità viene presto a galla: la donna non solo è la madre di Kang-do ma an-
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che dello sfortunato suicida visto all’inizio, il cui cadavere, a cui è destinato il famoso maglione, è da lei seppellito vicino
al fiume. Lo scopo di Min-sun era quello
infatti di fare capire a Kang-do il significato e la forza di appartenere a una famiglia e poi di distruggerla per fare provare
al giovane la stessa sofferenza da lui inflitta a tante famiglie del quartiere.
Il destino non ha pietà per nessuno: lei
si uccide gettandosi dallo stesso stabile da
cui Kang-do buttava giù i suoi perseguitati ed è da lui seppellita vicino al figlio suicida.
È lo stesso Kang-do a trovare come
morire: si incatena sotto il camioncino di
uno dei suoi debitori e si fa trascinare per
tutto il lungo percorso che lui compie al
mattino.
on il Leone D’oro di Venezia 2012
la giuria ha voluto premiare il regista Kim Ki-duk che da sempre
cerca di lottare e farsi strada in un Paese
come la Corea del Sud dove l’unica cosa
che conta è il denaro, il progresso tecnologico dell’oggettistica computerizzata e
delle automobili per fare ancora denaro. E
lo fa con i mezzi di un cineasta (cineasta
di quel mondo), cioè con la costruzione di
immagini: forti, furiose, spietate, disperate, tendenti all’assoluto.
Intanto l’ambientazione che fa del sobborgo di Seul un vero protagonista: un
quartiere povero, ultimo esempio e retaggio di quell’artigianato che ha dato la spinta
all’esplosione commerciale asiatica, circondato e sempre più divorato dai grattacieli che gli stanno intorno minacciosi e
incombenti, come astronavi aliene pronte
a fare piazza pulita. La povertà del quartiere insiste e trova linfa in un affastellamento territoriale di baracche, casupole,
C
Film
cunicoli, antri, cantine e gallerie immerse
per lo più nell’oscurità e sguazzanti nella
sporcizia alimentata da interiora di animali vari e da un’uguale varietà di deiezioni e
multiformi spazzature.
In questo alveo di degrado e di abiezione può nascere e svilupparsi qualcosa
che non sia rabbia, violenza e sopraffazione? È logico quindi (nell’ottica dell’autore
coreano) che il comportamento crudele del
giovane usuraio sia così brutale e senza
esitazioni da tendere davvero verso l’assoluto; così la sua anaffettività che gli permette di condurre compostamente le sue
azioni; ugualmente l’amore materno va
oltre l’indicibile nella capacità della donna
di subire violenze di ogni genere per poi
con tranquillità preparare la colazione. Così
Tutti i film della stagione
la vendetta da lei stessa predisposta e
meticolosamente realizzata ha dell’indicibile nella sua efferatezza. Tutto però è accettabile nell’ottica di un autore che, nel
riconoscere la disumanità di un sistema di
vita, non può fare altro che disumanamente
rappresentarlo e, nello stesso tempo, altrettanto disumanamente confidare di modificarlo, sradicarlo, abbatterlo.
Noi, a questo punto, potremmo anche
fermarci perchè non siamo andati a studiare un violento pamphlet rivoluzionario
ma a vedere un film e, pur riconoscendone la nobilità d’intenti, dobbiamo considerare le immagini e quello che ci danno (senza voler usare la parola altisonante di “significato”): queste, nel volerci raccontare
espressionisticamente come il potere del
denaro non lasci scampo e possa solo tradursi in violenza, dolore e mancanza
d’amore si affastellano fredde e meccaniche, sgradevoli, ripetitive nella loro peculiare spietatezza e non lasciano liberare
quel sentimento e quella pietà su cui tutto
dovrebbe essere basato, non solo il titolo.
Probabilmente la strada verso la pietà
e il bisogno d’amore è diversamente
espresso da un autore asiatico (e già Kim
Ki-duk ci aveva ampiamente dimostrato nei
suoi lavori precedenti come l’opzione violenza sgradevole costituisse il selciato per
lastricare il sentiero verso la verità) e non
può seguire lo stesso percorso tracciato
per una sensibilità occidentale.
Fabrizio Moresco
KNOCKOUT – RESA DEI CONTI
(Haywire)
Stati Uniti 2011
Regia: Steven Soderbergh
Produzione: Relativity Media
Distribuzione:Moviemax
Prima: (Roma24-2-2012; Milano 24-2-2012)
Soggetto e Sceneggiatura:Lem Dobbs
Direttore della fotografia: Steven Soderbergh
Montaggio: Steven Soderbergh
Musiche: David Holmes
Scenografia: Howard Cummings
Costumi: Shoshana Rubin
Effetti: Lola Visual Effects, Team FX Ltd.
enneth ha una società di “pronto
intervento” che si occupa di operazioni al di fuori del consentito;
fornisce a chi lo paga meglio intere squadre
di agenti particolarmente addestrati e in grado di usare qualsiasi tipo di arma e di strategia finalizzata al raggiungimento dell’obiettivo che può essere la preparazione di un attentato, un’azione terroristica etc. La stella
dell’organizzazione è Mallory Kane, ragazza espertissima e praticamente infallibile.
Proprio per questo Coblenz, rappresentante dei servizi segreti americani, nell’appaltare una missione a Kenneth, pretende la presenza proprio di Mallory, a
garanzia del buon fine dell’operazione. Si
tratta di liberare da un gruppo terrorista
che lo ha rapito il cinese Jiang a cui sono
interessati sia l’agente inglese Paul, sia la
spia irlandese Studer. L’operazione sembrerebbe all’inizio andare a buon fine ma
qualcosa si inceppa nei rapporti tra i committenti, i simpatizzanti, gli esecutori e le
spie: il cinese è presto trovato cadavere e
tra Barcellona, Dublino e il Canadà si
cambia caccia e preda: l’obiettivo da eli-
K
Interpreti: Gina Carano (Mallory Kane), Michael Douglas (Coblenz), Channing Tatum (Aaron), Ewan McGregor (Kenneth),
Michael Fassbender (Paul), Antonio Banderas (Rodrigo), Michael Angarano (Scott), Bill Paxton (John Kane), Mathieu
Kassovitz (Studer), Anthony Wong (Jiang), Eddie J. Fernandez (Barroso), Tim Connolly (Jason), Maximino Arciniega
(Gomez), David Aaron Cohen (Jamie), Julian Alcaraz (Terrence), Natascha Berg (Liliana)
Durata: 93’
Metri:2550
minare ora è proprio Mallory, testimone
scomoda di un’operazione nata in un modo
e finita in un altro e che si dimostra, a questo punto, scomoda per tutti.
Inutilmente Coblenz tenta di attrarre
Mallory nell’ufficialità dei servizi americani
per fornirle copertura: la ragazza avrà pace
solo quando si sarà liberata di quelli che la
vogliono morta, a cominciare proprio da
Kenneth per finire a Rodrigo. La sua vendetta è infatti esemplare e spietata per tutti.
teven Soderbergh ha voluto mettere mano all’action-thriller puro
secondo la sua ottica personale,
dopo essersi cimentato nei territori più vari,
dai tre Ocean’s a Intrigo a Berlino a Erin
Brockovich, tanto per accennare alla diversità dei suoi interessi di cineasta. Qui Soderberg ha mostrato subito di avere assimilato la lezione dei grandi maestri del passato come Hawks e Hitchcock fino alle moderne invenzioni delle varie Mission Impossible per codificare le linee portanti del suo
lavoro: la storia è un pretesto e non è determinante come conseguenza logica; poco
S
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importa, addirittura, se risulta incomprensibile in più punti; purchè però sia forte e
ben tenuto il telaio narrativo, privo di sbavature; uno spolverio di star che sappiano
essere al punto giusto in modo giusto; la
presenza dirompente di una novità, qui rappresentata dalla bella Gina Carano che spara e tira pugni meglio di un marine.
Le inquadrature, le riprese sono perfette, a cominciare dal lungo inseguimento a Dublino, sui tetti e per strada, così i
duelli in armi e a mani nude, curati e verosimili come non è sempre facile vedere
sullo schermo. Il tutto, e qui ritroviamo Soderberg, sviato e confuso in un’atmosfera
che sbiadisce i confini morali e sfrangia le
fisionomie dei personaggi: non si sa se e
quando l’amico possa trasformarsi in nemico, né se un’azione cominciata in un
modo possa proseguire lungo la via tracciata o cambi inaspettatamente morfologia perché gli esseri umani sono contemporaneamente fautori e vittime di un destino mutevole e inafferrabile.
Fabrizio Moresco
Film
Tutti i film della stagione
LA SCOMPARSA DI PATÒ
Italia, 2010
Interpreti: Nino Frassica (Paolo Giummaro, Maresciallo dei Reali
Carabinieri), Neri Marcorè (Antonio Patò), Maurizio Casagrande (Ernesto Bellavia), Alessandra Mortelliti (Signora Patò), Flavio Bucci (Arturo Bosisio), Roberto Herlitzka (Don Carmelo,
becchino), Simona Marchini (Principessa Imelda Sanjust), Alessia Cardella (Rachele Infantino), Manlio Dovì (Calogero Pirrello), Franco Costanzo ( Ragioniere Cardillo), Pippo Crapanzano
(Artidoro Pecoraro), Gilberto Idonea (Liborio Bonafede), Danilo Formaggia (Marchese Cantante), Guia Jelo (Prostituta), Giacinto Ferro (Prefetto Tirirò), Giovanni Calcagno (Ciarramiddaro), Alessandro Scaretti (Giovanni Abbate), Francesco Capizzi
(Mastrodascia Vapano), Alessandro Idonea (Miccichè)
Durata: 98’
Metri: 2700
Regia: Rocco Mortelliti
Produzione: 13 Dicembre in associazione con S.TI.C. Cinematografica, Emme Cinematografica in collaborazione con Rai
Cinema
Distribuzione:Emme Cinematografica
Prima: (Roma24-2-2012; Milano 24-2-2012)
Soggetto: dal romanzo omonino di Andrea Camilleri
Sceneggiatura:Rocco Mortelliti, Maurizio Nichetti, Andrea
Camilleri
Direttore della fotografia: Tommaso Borgstrom
Montaggio: Marzia Mete
Musiche: Paola Ghico
Scenografia: Biagio Fersini
Costumi: Paola Marchesin
il 21 marzo del 1890. A Vigata,
come da tradizione, viene messo
in scena il Mortorio tratto dalla
Passione di Cristo del Cavalier D’Orioles.
Nel ruolo di Giuda c’è il signor Antonio Patò,
un bravo uomo e semplice impiegato di banca, che però sparisce misteriosamente mentre inscena l’impiccagione del traditore. Egli
infatti cade nella botola e da allora non se
ne saprà più nulla. La moglie di Patò, Mangiafico Elisabetta in Patò, si rivolge immediatamente al delegato della Pubblica Sicurezza Ernesto Bellavia che incomincia le sue
indagini ostacolato dal maresciallo dei Carabinieri Paolo Giummaro. In realtà, piano
piano, le ostilità e le rivalità tra i due investigatori incominciano a trasformarsi in collaborazione. Presto Bellavia e Giummaro incominciano a scoprire delle scomode verità
che molti vorrebbero nascondere. Sono tanti
i dubbi da fugare. Dopo due giorni dalla
scomparsa, esattamente il 23 marzo, sui muri
di Vigata compare un volantino che porta
scritto “Murì Patò o s’ammucciò (si nascose)”. Si tratta di un chiaro segnale del fatto
che tutti sanno che Patò è scomparso, ma
bisogna capire il parché. Patò è scomparso
a causa di beghe e irregolarità con la banca
per cui lavorava? Oppure si tratta di un complotto mafioso? Patò ha perso la memoria a
causa della caduta nella botola? Intanto gareggiano anche i due giornali principali della zona: il giornale governativo L’Araldo di
Montelusa e quello dell’opposizione Gazzetta
dell’Isola, entrambi impegnati più che nella
ricerca della verità, in una continua e reciproca accusa di voler nascondere la verità
sulla scomparsa dell’impiegato di banca per
fini politici. Ad aggiungere altra confusione
alle già intricate indagini, anche due sudditi
di Sua Maestà Britannica: l’ astronomo di
corte Alistair ‘O Rodd sicuro che Patò sia
vittima di una frattura nella dimensione spa-
È
zio-temporale e l’archeologo di Corte Michael Christopher Enscher che attribuisce il
fatto alla Scala di Penrose.
opo le numerose avventure del
commissario Montalbano in entrambe le versioni, quella da adulto e quella da ragazzo, trasmesse dalla televisione, l’opera di Andrea Camilleri arriva anche al cinema con l’omonima pellicola, La
scomparsa di Patò, firmata da Rocco Mortelliti. Non nuovo a questo tipo di adattamento
(già nel 1999 aveva lavorato su La strategia
della maschera sempre di Camilleri), il regista si avvale del supporto alla sceneggiatura di Maurizio Nichetti, di cui emerge il contributo soprattutto nella messa in atto di alcuni particolari e originali accenti sui personaggi minori. Tutto l’impianto filmico è costruito attraverso il susseguirsi delle indagini,
degli interrogatori e di alcuni flashback da
cui si innalza l’intera struttura narrativa. È da
questa che prendono corpo infatti, in successione uno alla volta, tutti i personaggi principali e secondari, ognuno a contribuire allo
D
svolgersi della vicenda, con la propria presenza, anche se piccola. Vigata è un paese
inventato, così come i suoi personaggi e i
fatti che ne animano l’esistenza, eppure Mortelliti, esattamente come la penna di Camilleri, riesce a dare un quadro preciso e dettagliato della Sicilia al tempo poco dopo successivo alla proclamazione dell’Unità d’Italia e lo fa soprattutto attraverso la precisa
ricostruzione linguistica e comportamentale
del popolo. Impossibile non pensare alla televisione quando si assiste allo scorrere del
film, soprattutto nel tentativo di “nazionalizzare” e attualizzare la storia attraverso un
utilizzo più morbido del dialetto e della caratterizzazione dei personaggi. Il film sicuramente fa ridere e sorridere in molti momenti, ma spesso il riso risulta con un gusto un
po’ amaro perché ci fa capire che quello per
cui si sta ridendo, anche se collocato a più
di un secolo fa e un una terra “distaccata”
dal resto del Paese, in fondo è quello che
accade ancora oggi.
Marianna Dell’Aquila
IL CASTELLO NEL CIELO
(Tenkû no shiro Rapyuta)
Giappone 1986
Regia: Hayao Miyazaki
Produzione: Studio Ghibli, Tokuma Shoten
Distribuzione: Lucky Red
Prima: (Roma 25-4-2012; Milano 25-4-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Direttore della fotografia: Hirokata Takahashi
Montaggio: Takeshi Seyama, Yoshihiro Kasahara, Hayao Miyazaki
Musiche: Joe Hisaishi
Scenografia: Toshio Nozaki, Nizou Yamamoto
Effetti: Gou Abe
Durata: 124’
Metri: 3400
4
Film
a giovane Sheeta è tenuta prigioniera dal colonnello Muska a
bordo di un’aeronave. Durante il
volo la nave viene attaccata da una banda
di pirati guidati da Dola, una donna energica che tiene sotto il suo pugno di ferro i
suoi tre figli e l’intera ciurma. Dola vuole
impossessarsi del ciondolo che la bambina porta al collo e che ha un valore inestimabile: permette di vincere la forza di gravità e localizzare la leggendaria isola fluttuante di Laputa dove si narra che siano
nascosti grandi tesori e un potere inimmaginabile. Sheeta riesce a fuggire e, fluttuando nel cielo, precipita tra le braccia del
giovane minatore Pazu che decide di proteggerla e di aiutarla nella ricerca dell’isola. Il ragazzo ricorda di aver sentito parlare dell’isola di Laputa dal padre ormai
defunto che, durante un volo esplorativo,
riuscì a scattare una foto dell’isola ma,
nonostante la prova, nessuno aveva creduto ai suoi racconti facendolo passare per
millantatore. Ma Sheeta è in pericolo: sia
l’esercito sia i pirati sono sulle sue tracce.
I due ragazzi riescono miracolosamente a
scappare e in loro cresce la consapevolezza di dover cercare la misteriosa Laputa
lassù tra le nuvole. In quella pietra che la
ragazzina porta al collo è racchiuso un
grande potere: essa può rendere felici ma
può anche portare disgrazie. La pietra protegge dal male solo il suo proprietario.
Sheeta ricorda le parole per invocarne il
potere: dopo averle pronunciate, l’amuleto emana una luce sacrale e la strada per
Laputa viene illuminata attraverso una linea nel cielo. Intanto il colonnello Muska
assume il comando di una squadra incaricata di riprendere Sheeta. La ragazzina,
colpita, perde il suo amuleto e viene catturata. Dola con la sua nave pirata si lancia
all’inseguimento, Pazu salva Sheeta. I due
ragazzini salgono sulla nave comandata da
Dola che mette Sheeta a occuparsi della
cucina. I figli di Dola subiscono il fascino
della fanciulla e si fanno in quattro per aiutarla. Sheeta confessa a Pazu di conoscere diversi incantesimi e di aver paura di
uno in particolare. L’astronave Goliath è
sulle loro tracce e di notte Pazu la vede
proprio sotto di loro. Dola manda Sheeta
e Pazu in orbita su una capsula-aquilone
ma arriva una burrasca. Ma Laputa è lì
vicino. Sheeta e Pazu finalmente trovano
il castello fluttuante di Laputa. Qualcosa
di meraviglioso si dipana davanti ai loro
occhi: un mondo popolato da creature fantastiche. Ma il commando dell’esercito
cattura la nave dei pirati. Sheeta è fermamente convinta di dover recuperare l’aeropietra ma il colonnello Muska e i suoi
uomini la fanno prigioniera. Nel frattem-
Tutti i film della stagione
L
po Pazu riesce a liberare Dola e i suoi figli. Muska conduce Sheeta al centro del
pianeta di Laputa, dove è localizzato il
cuore della scienza: solo un membro appartenente alla stirpe reale può accedervi.
Sul posto campeggia una gigantesca pietra fonte di potere per Laputa che per 700
anni ha atteso il ritorno del re. Muska pensa di essere il re, poi mostra alla ragazzina la folgore di Laputa, necessaria a far
avere il potere assoluto al pianeta. Sheeta
riesce a prendere la pietra e a scappare,
poi consegna l’amuleto a Pazu, ma Muska
cattura di nuovo la ragazzina. Sheeta gli
dice che loro due moriranno lì: vivere distaccati dal suolo non è possibile. Muska
la minaccia. Sopraggiunge Pazu che dichiara di aver gettato via la pietra. Il ragazzino si apparta con Sheeta e confessa
di avere lui la pietra, vuole che la fanciulla le dica la parola per attivarla. I due ragazzi pronunciano insieme la parola e Laputa inizia a distruggersi, ma Pazu e Sheeta si salvano perché restano aggrappati
a delle enormi radici. Ripreso il loro aquilone, volano via e raggiungono la nave dei
pirati. Ora Sheeta e Pazu sono davvero liberi.
na fantasticheria animata più per
adulti che per bambini. Un sogno
pieno di ideali: ecologismo, antimilitarismo, avversione per la brama di
potere dell’uomo, fiducia nel valore assoluto dell’amicizia e dell’amore. Il castello
nel cielo appare come la quintessenza del
credo dell’artista nipponico Hayao Miyazaki: la natura umana marcia e malata di
avidità è irrimediabilmente corrotta. La follia e il delirio di onnipotenza del cattivo
colonnello Muska è l’immagine di un mondo che sfrutta le meraviglie della natura e
le competenze scientifiche raggiunte da
U
5
una civiltà superiore (quella di Laputa) per
arrivare al male assoluto, accecato da una
incontrollabile sete di potere.
Un continente perduto, come la mitica
Atlantide, ma fluttuante nel cielo, è il luogo
perfetto per rappresentare questa parabola
della superbia del genere umano. Laputa
è infatti qualcosa di eccezionale, insieme
Eden in apparenza irraggiungibile ma anche soglia dell’inferno, con una doppia
natura in cui convivono bene e male, vita
e morte, meraviglia e terrore.
Il film risale al 1986, prima opera realizzata dal neonato Studio Ghibli fondato
da Miyazaki insieme al collega Isao
Takahata che divenne un vero punto di riferimento per la cultura dei cartoni animati
nipponici e uno dei più importanti centri
creativi del mondo. Il castello nel cielo è
un film che vale la pena di recuperare per
il suo grande valore poetico unito a importanti e urgenti temi d’attualità come il rispetto per la natura contro l’opera di distruzione che gli uomini compiono del loro
ambiente, tema ricorrente fin dai tempi dei
primi lavori di Miyazaki come il film televisivo Conan il ragazzo del futuro del 1978.
Il film celebra il matrimonio perfetto tra la
tecnologia e la fantasia più sfrenata. Un
sogno di libertà e di immaginazione che
percorre le strade più ardite e diventa sullo schermo un trionfo di stupefacenti scene d’azione: corse a perdifiato, inseguimenti sulla terra e, soprattutto, in cielo.
Con evidenti richiami a Jonathan Swift
(“I Viaggi di Gulliver” in cui Laputa era una
città del cielo dove approda Gulliver) e a
Robert Louis Stevenson (“L’Isola del tesoro”), il film di Miyazaki compie il miracolo,
tra terra e cielo letteralmente. Come in suoi
film precedenti a questo, Nausicaä della
valle del vento (1984), e come ancora di
più con successivi capolavori come La cit-
Film
tà incantata (2003, premio Oscar), Il castello errante di Howl (2004) Ponyo sulla
scogliera (2008), Il castello nel cielo è pura
magia. L’invenzione dell’isola fluttuante di
Laputa è un vero colpo di genio. Il suo essere ricettacolo di potere che nelle mani
sbagliate può diventare distruttivo e dove
sono racchiusi inestimabili tesori, è l’ingrediente fondamentale che fa della pellicola
un piccolo gioiello.
I personaggi protagonisti della straordinaria avventura sono ideati con grande
cura per le sfumature caratteriali: Sheeta
la piccola protagonista (che ha evidenti
richiami con Lana della serie Tv Conan –
Il ragazzo del futuro, vero cult del regista
nipponico) ha origini e poteri straordinari, fragile in apparenza ma forte e combattiva, Pazu, giovane orfano che lavora
in miniera coraggioso e generoso (erede
di Conan per intraprendenza e testardaggine), Muska, il colonnello erede di altri
villain dell’universo miyazakiano. Ma la
palma della migliore invenzione va a Dola,
intrepida vedova corpulenta e con due
treccione rosse che guida (e con quale
Tutti i film della stagione
piglio!) la ciurma di pirati del cielo (tre dei
quali sono suoi figli “bamboccioni”) ossessionata dai tesori di Laputa e dal magico
ciondolo della piccola Sheeta. E che dire
poi di quei robot giardinieri dell’isola fluttuante?
Il volo è il vero tema chiave del film.
Appassionato di velivoli fin da bambino
Miyazaki ha costellato le sue opere della
sua passione e disegnato lui stesso modellini di macchine volanti. Per raggiungere Laputa, ovvio, bisogna volare e il regista usa i più fantasmagorici mezzi: navi,
navicelle, dirigibili (come quello usato dai
pirati e dalla loro “mammina”), piccoli velivoli a due posti che sbattono le ali come
insetti (usati dai pirati nelle scene d’azione) e infine vere corazzate volanti (come
quella usata dalle forze governative capitanate da Muska). Cielo, ma anche tanta
terra. A cominciare dalla città di minatori
dove “plana” dolcemente la fanciulla protagonista a inizio film. Ed ecco treni a scartamento ridotto utilizzati dai minatori, maestose linee ferroviarie sospese, le terraced houses che ospitavano le comunità di
minatori. Un mondo immaginario e sospeso tra il XIX e il XX secolo ma ispirato a un
vero villaggio del Galles. Il giovane minatore Pazu è figlio di questo mondo “terreno”, anzi sotterraneo, pronto a spiccare il
volo dopo l’incontro con una fanciulla magicamente “piovuta” dal cielo.
Una duplice spinta, centrifuga e centripeta, dove realtà e fantasia, terra e cielo, spiritualità e tecnologia si inseguono in
una favola dove l’immaginazione creativa
del regista fa da pendant alle abilità tecniche dello Studio Ghibli. Illuminante una
dichiarazione contenuta nelle note di regia di Miyazaki “Il castello nel cielo sarà
un’opera utopica e si annoderà alle origini
stesse del cinema di animazione, che tutto è tranne un divertimento minore. Sostanzialmente perché i grandi film per bambini
piacciono a tutti”. Un’opera intensa e poetica che solo il miglior cinema d’animazione “adulto” può regalare. E senza il bisogno di ricorrere all’abusata tecnologia fabbrica-soldi del 3D.
Elena Bartoni
CAVALLI
Italia, 2011
Regia: Michele Rho
Produzione: Prodotto da Gianluca Arcopinto, Marco Ledda,
Emanuele Nespeca per Settembrini Film in collaborazione con
Rai Cinema
Prima: (Roma 21-10-2011; Milano 21-10-2011)
Soggetto: Dal racconto di Pietro Grossi
Sceneggiatura: Francesco Ghiaccio, Michele Rho
Direttore della fotografia: Andrea Locatelli
Montaggio: Luca Benedetti
Musiche: Nicola Tescari
talia. Fine Ottocento. Alessandro
e Pietro sono due fratelli che vivono in campagna sugli Appennini. Nonostante le diversità caratteriali, i
due ragazzi condividono un forte affetto e
la passione per giochi spericolati. Alla
morte della madre, il padre, distrutto dal
dolore, affida ai figli due cavalli da domare, Sauro e Baio, quindi li abbandona a
loro stessi.
A prendersi cura dei due ragazzi, sarà il
vicino, Pancia, maniscalco che li tratta come
figli e insegna loro a trattare i cavalli.
Con il passare del tempo, emerge sempre più chiaramente l’attitudine ribelle e
impulsiva del maggiore (Alessandro), quella invece più mite e razionale del minore
(Pietro).
I
Scenografia: Paki Meduri
Costumi: Francesca Tessari, Susanna Mastroianni
Interpreti: Vinicio Marchioni (Alessandro), Michele Alhaique (Pietro), Giulia Michelini (Veronica), Duccio Camerini (Pancia), Luigi
Fedele (Alessandro bambino), Francesco Fedele (Pietro bambino),
Cesare Apolito (Padre), Fausto Maria Sciarappa (Farmacista), Marco Iermanò (Antonio), Pippo Delbono (Dario), Andrea Occhipinti
(Inglese), Antonella Attili (Amanda), Asia Argento (Madre)
Durata: 93’
Metri: 2560
Ormai adulti, Alessandro e Pietro seguono ciascuno la propria indole, prendendo
strade diverse: il primo attratto irrinunciabilmente dalla vita in città e dalla voglia di
nuovo e modernità, il secondo convinto di
voler restare dove è cresciuto, mettere radici
e formare una famiglia sposando l’amata
Veronica, figlia del farmacista del paese.
Prima di poter realizzare i loro desideri, però, i due incontreranno prepotenza, violenza e dolore, fino a una resa dei
conti finale che l’affetto reciproco consentirà loro di superare.
l superamento della frontiera, la voglia di andare altrove, di modernità
a tutti i costi, da un lato, e dall’altro
l’attaccamento alla terra e ai luoghi in cui
I
6
si è cresciuti, l’aspirazione alla solidità di
una vita tranquilla. Ecco le contrapposizioni
fondamentali tra cui si muove Cavalli di Michele Rho, al suo esordio con un film ambizioso, collocato in una splendida cornice ambientale, la campagna tra Gran Sasso e Toscana, che la regia sa promuovere
a coprotagonista della storia.
Con elementi tipici del western, dalla
wilderness che avvince Alessandro al duello conclusivo, Cavalli racconta la storia
semplice di due fratelli, nati e cresciuti nello
stesso luogo e con le stesse difficoltà, ma
che scelgono percorsi esistenziali diversi
per le differenze di carattere. Eppure, la
matrice comune, la pragmaticità della vita
sperimentata insieme fin da piccoli, si rivelerà per entrambi decisiva.
Film
Il ricorso agli animali, nello specifico ai
“cavalli” del titolo, è un po’ semplicistico ma
in definitiva funzionale a rendere simbolicamente sullo schermo la distanza fra i due
fratelli nel rapporto di ciascuno con le proprie radici (l’uno fa di tutto per salvare il
proprio cavallo, l’altro ne determinerà l’uccisione).
Tutti i film della stagione
Pregio della pellicola sono senz’altro
la cura della fotografia e delle inquadrature, a costruire una cornice forte, il contesto credibile in cui la storia si snoda. Viceversa, non del tutto impeccabili i dialoghi,
che finiscono con il togliere intensità a un
racconto altrimenti capace di procedere
per immagini nette e caratteri definiti (come
nei migliori western, appunto). Ottimi gli
interpreti, da Michele Alhaique (capace di
rendere accattivante un personaggio da
copione un po’ piatto) a Duccio Camerini
(nel ruolo del rude Pancia), a Pippo Delbono (a dare corpo al “cattivo”).
Tiziana Vox
BIANCANEVE E IL CACCIATORE
(Snow White and the Huntsman)
Stati Uniti, 2012
Regia: Rupert Sanders
Produzione: Roth Film, Universal Pictures
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Prima: (Roma 11-7-2012; Milano 11-7-2012)
Soggetto: Evan Daugherty
Sceneggiatura: Evan Daugherty, John Lee Hancock, Hossein
Amini
Direttore della fotografia: Greig Fraser
Montaggio: Conrad Buff, Neil Smith
Musiche: James Newton Howard
Scenografia: Dominic Watkins
Costumi: Colleen Atwood
Effetti: Cedric Nicolas-Troyan, Philip Brennan, Neil Corbould,
Michael Dawson, Pixomondo, Mark Roberts Motion Control,
Double Negative, Rhythm & Hues, BlueBolt, Baseblack
Interpreti: Kristen Stewart (Biancaneve), Chris Hemsworth
e Magnus, vedovo con una figlia
di nome Biancaneve, durante una
battaglia si innamora di una bella prigioniera, Ravenna e, in breve tempo,
la sposa. Durante la prima notte di nozze,
però, la donna lo uccide e dopo aver rinchiuso Biancaneve in una torre, prende il
comando del regno.
Ravenna, in realtà, è un’esperta di arti
oscure e, grazie ad un potente incantesimo con cui ruba la vitalità alle fanciulle,
riesce a rimanere giovane e invulnerabile
per sempre.
Passano gli anni e la Regina interrogando il suo specchio magico scopre che
la figliastra la supererà in bellezza e sarà
in grado di distruggerla a meno che non
venga repentinamente uccisa.
Ravenna non ci pensa due volte e ordina al fratello Finn di portarle la ragazza.
Biancaneve, sfruttando una distrazione
dell’uomo, riesce a scappare arrivando
nella foresta Oscura. La Regina, consapevole di non avere potere in quel luogo, promette a Eric, un cacciatore vedovo, di riportare in vita sua moglie in cambio di
Biancaneve.
L’uomo, in breve tempo, trova la ragazza, ma scopre di esser stato ingannato
da Ravenna, incapace di riportare in vita i
R
(Cacciatore), Charlize Theron (Ravenna), Sam Claflin (Principe William), Sam Spruell (Finn), Ian McShane (Beith), Bob
Hoskins (Muir), Ray Winstone (Gort), Nick Frost (Nion), Eddie
Marsan (Duir), Toby Jones (Coll), Johnny Harris (Quert), Brian
Gleeson (Gus),Vincent Regan (Duca Hammond), Noah Huntley (Re Magnus), Liberty Ross (Regina Eleanor), Christopher
Obi (Specchio), Lily Cole (Greta), Rachael Stirling (Anna),
Hattie Gotobed (Lily), Raffey Cassidy (Biancaneve bambina),
Xavier Atkins (William bambino), Izzy Meikle-Small (Ravenna
ragazza), Anastasia Hille (Madre di Ravenna), Elliot Reeve
(Finn bambino), Dave Legeno (Broch), Mark Wingett (Thomas), Matt Berry (Percy), Jamie Blackley (Iain), Joey Ansah
(Aldan)
Durata: 127’
Metri: 3500
morti; per questo decide di accompagnare
la giovane principessa nel castello di Duke
Hammond dove può ottenere protezione.
Durante il tragitto, un gruppo di nani
si unisce a loro, ma le guardie della Regina non demordono e sferrano un attacco
brutale. Fra loro c’è anche William, figlio
di Hammond, che riconosciuta la principessa, passa dalla sua parte. Durante la
battaglia Eric uccide Finn scatenando le
ire di Ravenna che decide di prendere in
mano la situazione.
La perfida regina, grazie ad un incantesimo, si trasforma in William e con l’inganno fa mangiare a Biancaneve una mela
avvelenata che la uccide. Il vero William
in lacrime prova a darle un bacio per spezzare l’incantesimo, ma non succede nulla;
quindi, insieme ai compagni di viaggio,
porta il corpo della ragazza nel castello di
Hammond. Qui Eric, lontano dagli occhi
di tutti, porge il suo ultimo saluto alla principessa con un bacio e va via. Biancaneve
in pochi secondi si sveglia e più combattiva che mai corre nel salone dove sono riuniti i suoi amici e propone di formare un
esercito per attaccare il regno di Ravenna.
Tutti rispondono all’appello e velocemente si dirigono verso il castello della regina. La battaglia ha inizio. Ravenna e il suo
7
esercito incantato sembrano avere la meglio, ma proprio quando la donna sta per
sferrare l’attacco finale viene pugnalata al
cuore da Biancaneve e muore lentamente.
La principessa sale al trono e riporta
il suo regno all’antico splendore.
a nuova moda di Hollywood?
Darsi battaglia a colpi di mele avvelenate. A poche settimane dall’uscita di Biancaneve di Tarsem Singh,
infatti, ecco comparire nelle sale una nuova versione della celebre fiaba tedesca,
Biancaneve e il Cacciatore, firmata Rupert
Sanders.
Nonostante l’infelice tempismo, le due
pellicole hanno ben poco in comune: ironica a colorata la prima e decisamente più
cupa e introspettiva la seconda.
Sanders per raccontare la sua storia
sceglie il fantasy, genere ormai ampiamente sdoganato da Peter Jackson, e un approccio psicoanalitico ai personaggi che
permette di andare oltre un’estetica codificata.
Meraviglioso il ritratto di Ravenna, la
regina dal corpo di Charlize Theron, una
donna ferita che trasforma il dolore in rabbia, un’ anima votata alla vendetta che si
esprime nelle forme più estreme di catti-
L
Film
veria. In lei non c’è invidia, ma un macabro senso di conservazione. Biancaneve,
interpretata da Kristen Stewart deve morire, non a causa della sua bellezza, ma
perché costituisce una minaccia per la vita
stessa della regina. Sanders, dunque, elimina completamente il “gioco femminile”
fra le due protagoniste trasferendo la lotta
su un piano istintuale, quasi ferino.
Biancaneve dopo essersi risvegliata
dal sonno mortale o, volendo svelare la
metafora, dopo aver compiuto il passaggio nell’età adulta cambia il suo approccio
con l’altro, diventa una guerriera pronta ad
affondare la lama e disposta a soffocare,
Tutti i film della stagione
per un bene superiore, ogni romanticismo
adolescenziale.
A differenza del racconto originale la
figura del principe è completamente marginale e poco influente ai fini narrativi. È il
cacciatore, burbero e problematico, il vero
protagonista maschile a cui, però, non viene concesso il finale tanto agognato. Biancaneve, infatti, sceglie di sedere sola sul
trono, appropriandosi di una identità faticosamente ricercata per tutta la pellicola.
Una scelta che di primo acchito potrebbe risultare originale, ma che in definitiva
si iscrive perfettamente nella nuova tendenza hollywoodiana di concedere “spes-
sore” alle eroine classiche della fiaba. In
definitiva Sanders, pur con qualche trovata apprezzabile, non si discosta molto dalle mode del momento cercando di compiacere un pubblico ghiotto di fantasy. La
conferma è l’aver dato a Kristen Stewart,
meglio conosciuta come Bella di Twilight,
il ruolo di protagonista nonostante le sue
dubbie abilità attoriali. In questi casi si è
soliti ammorbidire la critica enfatizzando
le doti estetiche dell’attrice, ma in un film
con Charlize Theron come co-protagonista, è difficile anche solo pensarlo.
Francesca Piano
OLTRE LE COLLINE
(Dupa dealuri)
Romania, Francia, Belgio 2012
Regia: Cristian Mungiu
Produzione: Cristian Mungiu, Pascal Caucheteux, Gregoire
Sorlat, Vincent Maraval, Jean-Pierre e Luc Dardenne, Bobby
Paunescu, Jean Labadie per Mobra Films in coproduzione
con Why Not Productions, Les Films du Fleuve, France 3 Cinéma, Mandragora Movies
Distribuzione: Bim
Prima: (Roma 31-10-2012; Milano 31-10-2012)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Tatiana Niculescu Bran
Sceneggiatura: Cristian Mungiu
Direttore della fotografia: Oleg Mutu
Montaggio: Mircea Olteanu
Scenografia: Calin Papura, Mihaela Poenaru
Costumi: Dana Paparuz
Interpreti: Cosmina Stratan (Voichita), Cristina Flutur (Alina),
Valeriu Andriuta (Prete), Dana Tapalaga (Madre superiora),
Catalina Harabagiu (Suor Antonia), Gina Tandura (Suor
Iustina),Vica Agache (Suor Elisabeta), Nora Covali (Suor Paho-
iamo nella Romania del dopo Ceausescu, in una città non meglio
identificata e in un monastero al
confine con le colline moldave.
Alina e Voichita, due grandi amiche
provenienti entrambi dall’orfanotrofio locale sono unite da un legame che in passato è stato sicuramente molto di più e che
non è sbagliato chiamare amore.
Alina ha voluto però tentare la carta
dell’emigrazione per uscire da tanta miseria e così è andata a lavorare per un periodo in Germania; ora è tornata con le idee
più chiare, pensa a un futuro più solido insieme alla sua amica e con un progetto di
lavoro per loro due su una nave che partirà di lì a pochi giorni da un porto tedesco.
Voichita però è cambiata: il centro del suo
cuore è stato preso dalla vita in un monastero ortodosso dove si è trasferita nella
dedizione alla preghiera e a una quotidia-
S
mia), Dionisie Vitcu (Sig. Valerica), Ionut Ghinea (Ionut), Liliana
Mocanu (Madre Elena), Doru Ana (Padre Nusu), Costache Babii
(Dottor Solovastru), Luminita Gheorghiu (Insegnante), Alina
Berzunteanu (Dott.ssa Radu), Teodor Corban (Ispettore di Polizia), Calin Chirila (Poliziotto), Cristina Cristian (Camelia),Tania
Popa (Parrocchiana), Petronela Grigorescu (Dott.ssa Neagu),
Liana Petrescu (Suor Arcadia), Alexandra Agavriloaiei (Suor
Eudoxia), Alexandra Apetrei (Suor Tatiana), Noemi Gunea (Suor
Lavrentia), Katia Pascariu (Suor Sevastiana), Mara Carutasu
(Suor Aanastasia), Cerasela Iosifescu (Dott. D.L.), Ada Barleanu (Infermiera Gina), Mariana Liurca (Infermera Sandra), Marian Adochitei (Gabi), Andreea Bosneag (Georgiana), Ecaterina Tugulea (Capoinfermiera), Mircea Florin Jr. (Portiere), Gheorghe Ifrim (Assistente ambulanza), Diana Chirila Ignat (Segretaria), Ion Sapdaru (Capitano), Radu Zetu (Tenente), Nicoleta Lefter (Paziente), Adrian Ancuta (Uomo in auto)
Durata: 155’
Metri: 4240
nità fatta di lavori di campagna e meditazione.
Il monastero è condotto con mano
“amorevole” e fermissima da un prete che
tutte le suore chiamano Padre e da una
madre superiora. Tutto sembra filare liscio
tra le celle, la grande cucina, la chiesa,
dove viene a messa anche la gente del posto e il panorama agreste spesso ricoperto
di neve. In realtà l’ambiente è chiuso, ipocritamente solido mentre il Padre si è completamente impadronito della coscienza
delle suore, inibendone il personale arbitrio, in un ossessivo riferirsi continuamente
a Dio e alle esigenze della preghiera.
In tale soffocante atmosfera Alina intuisce con dolore che il legame di una volta con Voichita è finito per sempre ma non
si arrende pur vedendo quanto la sua amica sia succube dei voleri del prete al pari
delle altre compagne obbligate, forse, per-
8
chè il tema è solo ipotizzato, anche alla
sottomissione sessuale.
La prima reazione di Alina di fronte a
tutto questo è una crisi isterica per cui è
ricoverata nell’ospedale vicino che ben
poco può fare se non dimetterla dopo
qualche giorno con pastiglie e raccomandazioni.
Il ritorno in convento è per Alina l’inizio della fine: i suoi comportamenti sprezzanti e insultanti nei confronti del Padre e
delle suore diventano sempre più violenti
da sfociare sempre più spesso in rissa e
convincono la comunità che lei sia pervasa dall’azione del diavolo e che necessiti
di un esorcismo. Al culmine di una delle
sue crisi, Alina è legata a una trave e poi
incatenata per poter permettere al Padre
di pronunciare le formule che possano liberarla dalla supposta presenza di forze
demoniache.
Film
Tutti i film della stagione
La violenza della ragazza è però incontenibile, le pratiche religiose non producono alcun risultato; dopo qualche giorno
lei è portata in ospedale dove giunge come
un povero cadavere martoriato.
La polizia prontamente avvertita dell’accaduto si rende conto al monastero di
quali orrende sevizie Alina abbia subito e
porta in prigione il Padre e le suore, ipotizzando per loro delle lunghe pene detentive mentre tutti sono ancora incapaci di
capire quanto la loro opera religiosa sia
stata determinante nel provocare la morte
di una ragazza che desiderava solo essere
libera.
’impatto emozionale è molto forte con la visione di questo film,
pur non incentrandosi in una storia dell’horror conventuale come lo abbiamo visto raccontato in maniera facile e
superficiale in tante occasioni sullo schermo. Anzi, proprio per questo l’impatto non
è visivo ma subliminale e quindi più doloroso e amaro di fronte all’ennesima prova
di forza del potere su chi è più debole.
Nell’ambiente monastico sembra che
non accada nulla di particolare, tutti sono
convenuti di spontanea volontà e trovano
in questi luoghi la comunanza, l’assistenza e il sostentamento che altrove non troverebbero. A che prezzo? Al prezzo del
totale annullamento della consapevolezza
dei propri desideri, delle proprie esigenze
come individuo e, naturalmente, di qualsiasi forma d’amore. Ci si rende conto solo
a spettacolo avanzato di quanto il film abbia trasmesso fino a quel momento in
maniera lenta e insinuante cosicchè le affannose, sovraccariche scene finali formano davvero un’ansia insopprimibile, cupa,
profonda, densa come una nebbia da cui
ci si libera a fatica.
La centralità della storia è data dal conflitto fondamentale intorno a cui si costruisce la personalità e la cognizione della libertà di ogni singolo essere umano: il conflitto tra individuo e società, la sopraffazione delle pulsioni individuali soffocate dal
super-io societario, l’incapacità di affermazione di se stessi, la delega del superamento delle proprie inidoneità a un sistema
esterno come lo Stato, una comunità, un
partito, il monastero che si sostituisce all’individuo incanalandone i desideri secondo una visione più generale e oppressiva.
È l’eterna lotta contro il potere, qui il
potere religioso con il suo fanatismo e le
sue intolleranze che interessa il regista
rumeno Cristian Mungiu dopo il suo Quattro mesi, tre settimane, due giorni, del 2007
in cui ci aveva dato il ritratto mostruoso di
un altro potere, quello politico, che si era
L
sgretolato sotto il peso della sua stessa
immoralità.
La storia è resa sullo schermo con un
bellissimo stile affascinante e rigoroso nell’utilizzo del colore come una autentica
nervatura di scene, personaggi e stati
d’animo fino a diventare, grazie alla direzione fotografica di Oleg Mutu, collaboratore primario del regista, colonna portante della narrazione: il nero predomina all’interno della comunità conventuale, nelle vesti, negli arredi, nei paramenti mentre
è bianco il trucco dei volti in un’apparente
spersonalizzazione dalla forza emotiva
struggente e piena di calore (Voichita abbandona la veste nera e mette un maglione bianco quando capisce l’orrore che sta
accadendo sotto i suoi occhi); così nere
sono le colline moldave spesso nominate
e inquadrate come se al di là delle stesse
fossero pronti dei Tartari liberatori e bianco è il paesaggio innevato su cui le figure
nere macchiano la loro personale sofferenza.
Premiato a Cannes 2012 per la sceneggiatura e per l’interpretazione delle due
bravissime protagoniste, il film, oltre a segnare un altro passo “pesante” nella filmografia di Cristian Mungiu, già vincitore a
Cannes 2007 con l’altro suo bel film citato
prima, contribuisce a posizionare la cinematografia rumena in uno spazio sempre
più interessante nel panorama internazionale.
Fabrizio Moresco
LE BELVE
(Savages)
Stati Uniti 2012
Regia: Oliver Stone
Produzione: Ixtlan/Onda
Distribuzione: Universal International Pictures Italy
Prima: (Roma25-10-2012; Milano 25-10-2012) V.M.: 14
Soggetto: dal romanzo omonimo di Don Winslow
Sceneggiatura: Shane Salerno, Don Winslow, Oliver Stone
Direttore della fotografia: Daniel Mindel
Montaggio: Joe Hutshing, Stuart Levy, Alex Marquez
Musiche: Adam Peters
Scenografia: Tomas Voth
Costumi: Cindy Evans
Interpreti: Blake Lively (Ophelia), Taylor Kitsch (Chon), Aaron Johnson (Ben), Uma Thurman (Paqu), Trevor Donovan (Matt), John Travolta (Dennis), Salma Hayek (Elena), Emile
Hirsch (Spin), Benicio Del Toro (Lado), Joel David Moore (Craig), Demián Bichir (Alex),
Elena Varela (Maria), Sandra Echeverría (Magda), Leonard Roberts (Hayes), Alexander Wraith (Solomon), Gonzalo Menendez (Hernando), Jake McLaughlin (Doc), Jessica Lee (Li), Antonio Jaramillo (Jaime), Ami Haruna (Annie), Lucinda Serrano (Myrna),
Anthony Cutolo (Billy), Amber Dixon (Sofia), Diego Cataño (Esteban), Kaj Mollenhauer
(Sarah), Leana Chavez (Gloria), Joaquín Cosio (El Azul), Ralph Echemendia (Paul)
Durata: 131’
Metri: 3600
9
Film
n triangolo amoroso. Un bello
dannato, Chon, e un bello impegnato socialmente, Ben, sono soci
in narco-affari e condividono la stessa
donna, Ophelia, detta O. Distributori di
droga indipendenti vengono intercettati
dai narcotrafficanti del cartello della Baja
e in particolare, dalla Reina (Helena),
loro capo. Questi due amici producono la
miglior marijuana del mondo in Afghanistan, dove Chon ha fatto servizio come
marine. In realtà loro vivono a Laguna
Beach e questa attività li fa vivere serenamente. Conducono una bella vita fino
a quando grazie a un video scoprono di
essere minacciati dal pericoloso cartello
messicano. Inizialmente i due giovani produttori non intendono scendere a patti con
questo pericoloso circuito. Tutto cambia
quando Lado, lo scagnozzo della Reina,
viene incaricato di rapire Ophelia. I due
ragazzi per vendetta rapiscono la figlia
di Helena. (“Se vuoi controllare qualcuno prendigli quello che ama”). Nel desertico rush finale si scopre che Lado è in
realtà la talpa che scambiava informazioni con l’agente della DEA( Drug enforcement administration) Dennis. Lado riesce
a scappare mentre la Madrina viene incarcerata. Alla fine i tre riescono a riacquistare la propria serenità. Ma questo è
un altro finale.
U
Tutti i film della stagione
uggestivo il panorama sud-californiano in cui è ambientata la
nostra storia, suggestivo l’uso
della voce narrante di Ophelia che ci presenta questa storia e il suo nome di rimembranza shakespeariana. Ma, a parte le fantastiche inquadrature, non rimane nulla di questa
storia. Il senso profondo che si vuole comunicare sulla malvagità dell’animo umano è appena accennato e mostra un tentativo fallito
di mettere insieme violenza, azione, sesso e
poesia. Le fattezze della Reina non possono
non portare la mente di ogni cinefilo che si
rispetti a Mia in Pulp Fiction. Poco incisivo il
ruolo di John Travolta nei panni di un agente
DEA (agente federale antidroga). Trovo che
la colonna sonora sia piuttosto adatta, mentre il ritmo è decisamente lento e poco incalzante, per essere un vero film sparatutto. Un
film troppo poco filosofico per gli intellettuali.
Un gioco di ambiguità ( i personaggi di Lado
, del poliziotto Dennis come anche il rapporto
tra la Reina e Ophelia e di Ben e Chon) secondo diversi critici per un film che non ha
una propria identità. Il nuovo lavoro action di
Oliver Stone risulta poco incisivo. Troppa bella vita per essere dei veri selvaggi. Con tanto
di videogiochi, Ophelia,come se fosse immersa in un grande videogame dice: “Quando si
inizia non si torna indietro”. Ma si tratta della
vita vera. Parlano del cartello della Baja come
di trafficanti fondamentalisti, ma, al posto dei
S
soliti cappucci, i trafficanti- sequestratori indossano delle maschere con i teschi. Una trama sfilacciata tra sparatorie ed esplosioni di
macchine. Banalizzazione del genere femminile in un film di stampo fortemente maschilista e machista. Basti pensare al rapporto tra
la Madrina e sua figlia soprattutto nelle scene
finali, il dialogo tra la Reina e Ophelia ( a proposito del ciclo mestruale o delle ridicole richieste sul cibo) o anche a tutte le scene di
violenza contro le donne. Un film in cui la tecnologia ha un ruolo importante (e anche inquietante) tra telecamere, webcam, registrazioni e videogiochi. Come chiedere al nostro
pubblico se sia più selvaggio uno spacciatore senza alcuna remora morale, o un poliziotto che si lascia corrompere da chiunque abbastanza facilmente. Compare un messaggio insistente sull’inciviltà dei messicani ; le
diverse scene di tortura ne sono un esempio.
Si legge poi una sottile vena polemica anche
contro la politica americana. Se ancora non
fosse stata sufficiente tutta la crudeltà di questi personaggi, basti pensare alla frase di
Chon “ In fondo sei morto già quando eri nato”
. In confronto a questo tutto il resto è relativo
... Per riecheggiare Tarantino “ Un film più fiction che pulp”in cui Il lieto fine è targato “ Per
adesso viviamo come selvaggi, bellissimi selvaggi”.
Giulia Angelucci
IL CAVALIERE OSCURO – IL RITORNO
(The Dark Knight Rises)
Stati Uniti, 2012
Regia: Christopher Nolan
Produzione: Emma Thomas, Christopher Nolan, Charles Roven per Syncopy, Legendary Pictures, Warner Bros. Pictures
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
Prima: (Roma 29-8-2012; Milano 29-8-2012)
Soggetto: Bob Kane (dai suoi personaggi), Christopher Nolan,
David S. Goyer
Sceneggiatura: Jonathan Nolan, Christopher Nolan
Direttore della fotografia: Wally Pfister
Montaggio: Lee Smith
Musiche: Hans Zimmer
Scenografia: Nathan Crowley, Kevin Kavanaugh
Costumi: Lindy Hemming
Effetti: Chris Corbould, Paul Franklin, Double Negative
Interpreti: Christian Bale (Bruce Wayne/Batman), Gary Old-
otham City sembra essere pacificata o almeno ferma, lugubremente ferma e priva di attività
dopo l’applicazione della legge anticrimine voluta dal Procuratore Harvey Dent;
inoltre Batman è scomparso da tempo nell’oscurità, dopo essersi addossato l’accusa terribile di averlo ucciso consacrando
G
man (Jim Gordon), Tom Hardy (Bane), Joseph Gordon-Levitt
(John Blake), Anne Hathaway (Selina Kyle/Catwoman), Marion Cotillard (Miranda Tate), Morgan Freeman (Lucius Fox),
Michael Caine (Alfred), Matthew Modine (Foley), Alon Aboutboul (Dott. Pavel), Ben Mendelsohn (Daggett), Burn Gorman
(Stryver), Daniel Sunjata (Capitano Jones), Nestor Carbonell
(Sindaco), Brett Cullen (Deputato), Reggie Lee (Ross), Chris
Ellis (Padre Reilly), Tyler Dean Flores (Mark), Juno Temple
(Jen), Gonzalo Menendez (Poliziotto Manhole), Rob Brown
(Allen), Will Estes (Agente Simon Jansen), John Nolan (Fredericks), Josh Stewart (Barsad), Liam Neeson (Ra’s Al Gul),
Cillian Murphy (Dott. Jonathan Crane/Spaventapasseri), Josh
Pence (Ra’s Al Ghul giovane)
Durata: 164’
Metri: 4500
così il proprio silenzio e il proprio sacrificio al mantenimento della pace cittadina.
Questa menzogna nasconde invece ben
altra realtà e ben più terribile: il Male sta
per fare ritorno a Gotham City, rappresentato da Bane, un feroce e spietato criminale dal volto seminascosto da una maschera che ne sostiene il respiro e ne distorce
10
la voce rendendo indecifrabili e imprevedibili progetti e azioni. Solo Selina Kyle
(Catwoman) riesce a capire subito la violenza che sta per abbattersi sulla città, che
non è capace di scuotersi dalla stasi di corruzione e incomunicabilità in cui sembra
soffocare.
Lo stesso Batman è introvabile, men-
Film
tre il miliardario Bruce Wayne che tanto
ricco ormai non è più è un personaggio
pallido e claudicante per le conseguenze
dei passati duelli e non è in grado di agire,
quasi imbolsito in una decadente misantropia senza illusioni. A tal punto appare
calcificata la rassegnazione di Bruce che
anche Alfred, il fido maggiordomo, lo abbandona non potendo sopportare oltre la
sua inanità.
Bane invece è pronto e forgiato nell’acciaio dopo tante privazioni e durissime iniziazioni avvenute nel cono di roccia della
prigione in cui fu rinchiuso a lungo da
bambino; forte poi di un fantomatico progetto politico misto di anarchia, uguaglianza nichilista, sopraffazione e terrore ha radunato una moltitudine di criminali che
scatena su Gotham, apparsa subito senza
possibilità di salvezza.
Mentre il vecchio capo della polizia Jim
Gordon tenta di fare del suo meglio utilizzando tutti i poliziotti a disposizione, Bruce decide finalmente di fare entrare in azione il suo Batman, non prima che l’eroe
abbia sostenuto nel maledetto cono di roccia le stesse prove di Bane, che può così
essere sopraffatto al culmine di una spaventosa battaglia.
Anche Batman deve però soccombere,
cosicchè Alfred non può fare altro che portare un fiore su di una lastra di marmo, al
momento definitiva.
er il terzo (e conclusivo, così sembra) atto della sua trilogia, la coppia Nolan/Bale ha avuto sicuramente davanti un bel rompicapo nel connotare quest’ultima avventura di elementi,
aspetti e dettagli che potessero fornire all’opera un significato originale e indipendente, che non si confondesse con le altre
due storie che l’avevano preceduta.
Il risultato è composito, fatto di luci e
ombre che si accavallano nel pretendere
per l’una o l’altra parte del film quella grandezza sontuosa che manifestamente gli
autori hanno rincorso con dedizione assoluta, concentrazione artistica profonda
e uno sfoggio sapiente degli ultimi traguardi dell’evoluzione tecnologica.
Non dobbiamo quindi fermarci ai primi
elementi che potrebbero spaventare: durata del film 164 minuti; Batman appare dopo
40 minuti; l’avversario di Batman non è più
un personaggio costruito sulla linea dei Joker (il punto più alto Heath Ledger nel secondo episodio), ma un uomo in carne e
ossa (Tom Hardy) corredato da un respiratore molto vicino alla mordacchia di contenzione del vecchio Hannibal Lecter che,
in questo caso, indossato per tutto il film,
ne impedisce completamente ogni forma
P
Tutti i film della stagione
espressiva. La voce che ne fuoriesce, deformata e spezzettata come attraverso un
telefono guasto risulta monocorde e impossibilitata a colorare di sgomento e di orrore
tutti i propositi minacciosi enumerati e raccontati con dovizia di particolari.
A supportare questa fragilità d’impatto
del personaggio che sicuramente gli autori
devono avere colto, gli si è voluto costruire
un back-ground corposo cioè tutta una storia di lui bambino che in una prigione di pietre e ossessioni viene temprato come una
macchina da guerra attraverso una serie di
privazioni, dolori, introspezioni oniriche e
misteri, per colmare l’evidente debolezza
del “cattivo” al tempo presente.
Per unire passato e presente e per fare
in modo che lo spettatore capisca qualcosa il cattivo parla, parla in continuazione,
spiega, racconta, descrive, indica, minaccia, ordina, impone.
Dopo tanta attesa, appare il suo interlocutore primario, Batman appunto, un
eroe in disarmo, diafano e zoppicante,
stanco, apatico e spettrale, incurante di una
città corrotta che non lo vuole più e quindi
privo di speranza alcuna per un futuro più
giusto e degno di essere vissuto.
Non può, di colpo, Batman porre fine
ai dialoghi e cominciare a menare le mani
perchè i primi tentativi effettuati quando finalmente si convince a indossare il suo
costume d’ordinanza appeso al chiodo
sono devastanti e ne prende di santa ragione da quella macchina per uccidere che
è Bane, che può così scatenare le sue orde
di assassini sulla città.
Qui il film ha la svolta determinante che,
contemporaneamente, ne fornisce la con-
notazione originale e primaria. Batman, per
potere affrontare il nuovo nemico con fiducia e sicurezza nei propri mezzi deve calarsi nel cono di pietra, teatro della crescita
generazionale di Bane, quell’abisso di sofferenza e dolore da cui potrà risorgere ancora come Cavaliere Oscuro. È l’oscurità
che partorisce ancora oscurità, è il dolore
che partorisce il dolore, è la dannazione che
si rinnova ancora in una dannazione successiva. Non è più l’eroe puro che esplode
dal pozzo dell’orrore, ma un eroe che è
andato al fondo di se stesso e ne è affiorato carico di tenebra e oscurità perchè tale è
l’esistenza e nello stesso modo deve essere affrontato il Male, con una cognizione in
più: quella cioè che rende il Cavaliere Oscuro consapevole che tutta la grandezza delle sue azioni è dietro le sue spalle e che il
suo percorso ha iniziato ormai una fase crepuscolare di abbandono e di desiderio per
una umanità perduta da cui non si potrà più
tornare indietro.
L’ambizione degli autori ha effettivamente toccato il suo acme o, quantomeno, i risultati voluti: azione e grandezza,
sogno e aspirazione filosofica e poi lavoro, lavoro e ancora lavoro: Cristopher Nolan ha una conoscenza enciclopedica del
cinema e di come realizzarlo, Christian
Bale è un servitore perfetto dell’immagine
e delle sue profondità, delle luci e delle
ombre che raccontano la scena scovandone le sue verità più nascoste.
Davvero sarà difficile che a breve un
altro film possa stare alla pari con una realizzazione così straordinaria.
Fabrizio Moresco
ALÌ HA GLI OCCHI AZZURI
Italia 2012
Regia: Claudio Giovannesi
Produzione: Fabrizio Mosca per Acaba Produzioni con Rai Cinema
Distribuzione: Bim
Prima: (Roma 15-11-2012; Milano 15-11-2012)
Soggettoe Sceneggiatura: Claudio Giovannesi, Filippo Gravino
Direttore della fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Giuseppe Trepiccione
Musiche: Claudio Giovannesi, Andrea Moscianese
Scenografia: Daniele Frabetti
Costumi: Medile Siaulytyte
Interpreti: Nader Sarhan (Nader), Stefano Rabatti (Stefano), Brigitte Apruzzesi (Brigitte), Marian Valenti Adrian (Zoran), Cesare Hosny Sarhan (Padre di Nader), Fatima Mouhaseb (Madre di Nader),Yamina Kacemi (Laura), Salah Ramadan (Mahmoud), Marco Conidi (Padre di Brigitte), Alessandra Roca (Madre di Brigitte), Elisa
Geroni (Eleonora), Roberto D’Avenia (Ruggero), Totò Onnis (Vigile), Alfonso Prudente (Vigile), Adrian Carana (Petre)
Durata: 94’
Metri: 2600
11
Film
ato a Roma e cresciuto a Ostia,
Nader è un ragazzo di sedici anni,
figlio di immigrati egiziani. Il
padre lavora come benzinaio e la sorella
frequenta le scuole superiori come lui. Si
sente italiano, parla italiano quasi sempre,
se non quando deve comunicare con i genitori. Il suo migliore amico è Stefano, italiano, una testa calda che sembra avere molto
meno equilibrio di lui. Nader rifiuta di fumare cannabis, non prende pasticche in discoteca, non riesce a compiere furti, ma intende vivere da italiano la sua vita, rispettando molto alla larga i comandi della propria religione. Per nascondere la sua origine arriva persino a mettere le lenti a contatto azzurre. Si frequenta da un mese con
Brigitte, una coetanea italiana, con cui sembra fare sul serio, a causa della quale iniziano le prime discussioni in casa. Le regole
dei musulmani sono differenti: la madre pretende che Nader cresca e maturi per poi trovarsi una ragazza egiziana. Rincasato ancora una volta dopo la mezzanotte, Nader
viene lasciato fuori e invitato dalla madre a
riflettere sulla sua condotta. E proprio in
questi giorni che il ragazzo si mette nei guai:
durante un pomeriggio in discoteca, l’amico Stefano, a causa della ex fidanzata, scatena una rissa nella quale Nader interviene, accoltellando gravemente un altro ragazzo. I due amici fuggono, ma lasciano
dietro diversi indizi: così che i parenti del
ragazzo finito in ospedale, rumeni, si mettono sulle tracce dei due giovani, con intenzioni non certo amichevoli. Casa e scuola
diventano luoghi impraticabili e non più sicuri e Nader e Stefano devono dormire dove
capita, fuggendo continuamente. Non vanno più a scuola e vivono di espedienti. Finché non decidono di affrontare la situazione e difendersi rimediando una pistola acquistata illegalmente. Nader progressivamente si isola in una situazione sempre più
N
Tutti i film della stagione
difficile. Infatti non sa più dove rifugiarsi, è
costretto a dormire per strada, scoprendo
anche l’omosessualità del cugino che gli
offre ospitalità. Stufo di scappare, si arma
di coraggio e di fronte al padre di Stefano
ammette la propria responsabilità e decide
di andare a chiedere scusa. Il padre del rumeno ferito non sembra concedere il perdono a Nader e il ragazzo si salva grazie
all’intervento di altri connazionali. Intanto
Stefano ha messo gli occhi su Laura, sorella più piccola di Nader. Ora in lui scatta
qualcosa; arriva persino a minacciare il suo
amico con la pistola, rimettendo di nuovo
tutto in discussione. A casa lo attende sempre una tavola apparecchiata, mentre ormai è costretto a vedere Brigitte solo dalla
finestra.
ullo sfondo della bella e fredda
fotografia di Daniele Ciprì, Claudio Giovannesi, regista, cosceneggiatore e coautore delle musiche, al
secondo lungometraggio dopo La casa
sulle nuvole, riprende in mano la lezione
pasoliniana, già dal titolo tratto da Profezia di Pier Paolo. “Dietro ai loro Alì dagli
Occhi Azzurri, usciranno da sotto la terra
per uccidere, usciranno dal fondo del mare
per aggredire, scenderanno dall’alto del
cielo per derubare”, Giovannesi aggiorna
gli accattoni e i ragazzi di vita ai tempi dell’integrazione multiculturale. La macchina
da presa pedina i suoi personaggi reali,
nel degrado di una periferia violenta e rassegnata con uno stile semidocumentaristico, girato con camera a mano in presa
diretta, caratterizzato da un ritmo lento e
un’illuminazione molto naturale. Portato in
Concorso al Festival Internazionale del film
di Roma 2012, Alì ha gli occhi azzurri racconta l’adolescenza nella società multiculturale italiana di oggi: la complessità e la
delicatezza di questo periodo, la turbolen-
S
12
ta ricerca di un’individualità, che l’origine
non italiana del protagonista rende ancor
più difficile. Nader, egiziano nato a Roma,
diventa l’emblema della seconda generazione: l’identità nel suo farsi, in bilico tra
l’eredità della religione e della legge del
padre e i costumi occidentali del presente
italiano. Le ragioni che prevalgono nella
sua battaglia quotidiana sono quelle tipiche della sua età, con i suoi valori morali
assoluti: l’amore vissuto senza confini e
l’amicizia che è fratellanza. È un adolescente innamorato, capace di vivere intensamente e difendere il suo sentimento, che
vuole vivere la sua sessualità come i coetanei italiani, ma non riesce a concepire
che la stessa libertà possa essere concessa a sua sorella. È orgoglioso della sua
religione, ma si mette lenti a contatto azzurre per assomigliare a chi ha sangue
europeo. Nader rappresenta il tentativo inconsapevole di conoscere se stesso, attraverso un racconto di formazione epico
e quotidiano che dura sette giorni. Il ragazzo dovrà sopportare il freddo, la solitudine, la strada, la fame e la paura, la fuga
dai nemici e la perdita dell’amicizia, per
tentare di conoscere la propria identità.
Dopo averlo scelto nel terzo episodio
di Fratelli d’Italia, documentario sull’adolescenza, Giovannesi mette in scena di nuovo Nader Sarhan, trasformandolo ora in un
personaggio e cercando una risoluzione
al conflitto tra la cultura islamica e quella
occidentale. La macchina da presa diventa ora uno strumento con cui indagare; si
ha la consapevolezza di trovarsi di fronte
a degli attori di strada chiamati a mettere
in scena le proprie vite. Questo aumenta il
valore e la profondità stessa del racconto.
Si scoprono modi di dire, abbigliamento e
abitudini, capaci di definire il territorio e i
suoi abitanti più di qualunque immagine. Il
regista dedica a tutti i personaggi minori
del film uno spazio per raccontarli che incide in profondità: dai ritratti del padre e
della madre di Nader e della loro sofferenza nel vedere il figlio ribellarsi alle loro regole antiche, al cugino più grande che rivela ad un certo punto la sua solitudine e
la sua omosessualità, al compagno di classe romeno, schiacciato tra la solidarietà
verso i suoi amici di scuola e quella verso
i suoi connazionali in cerca di vendetta. Ad
armonizzare il tutto poi è l’uso di una fotografia neorealista quasi invisibile, capace
di sfruttare la drammatica trascuratezza dei
luoghi. Ostia fa da nostalgica cornice, con
le sue spiagge deserte, il vento che colpisce i volti, il miraggio della grande Roma a
pochi chilometri di distanza. L’autore conclude il film, coerentemente al realismo con
cui ha raccontato la storia, senza far intra-
Film
vedere il futuro di Nader, ma sottolineando nel finale, in maniera incisiva ed amara, la separazione fra due culture che addirittura convivono nella stessa famiglia. Il
film non dà infatti una risposta ideologica
a questo interrogativo, ma ha il merito di
Tutti i film della stagione
metterlo in campo e di sottolinearlo attraverso una storia raccontata dal punto di
vista degli adolescenti e del loro mondo. È
questo il caso in cui la scelta giusta non
esiste. La malinconica scena conclusiva
non offre soluzioni, né spiegazioni: nel
bene e nel male, le sfide che la nostra società deve affrontare sono quanto mai
complesse, articolate e, sicuramente, non
indolori.
Veronica Barteri
THE BOURNE LEGACY
(The Bourne Lagacy)
Stati Uniti, 2012
Regia: Tony Gilroy
Produzione: Bourne Film Productions, Bourne Four Productions, Captivate Entertainment, Universal Pictures
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Prima: (Roma 7-9-2012; Milano 7-9-2012)
Soggetto: dal romanzo “L’eredità di Bourne” di Robert Ludlum
e Eric Van Lustbader
Sceneggiatura: Dan Gilroy, Tony Gilroy
Direttore della fotografia: Robert Elswit
Montaggio: John Gilroy
Musiche: James Newton Howard
Scenografia: Kevin Thompson
Costumi: Shay Cunliffe
Yukon, in Alaska, in un paesaggio immerso nella neve, un uomo
esce dalle gelide acque di un fiume. Nonostante tutto è vivo e riesce a mettersi in salvo riscaldandosi vicino a un fuoco. L’uomo è Aaron Cross, un agente altamente selezionato che lavora per “Outcome”, un programma segreto creato dall’Organizzazione National Research Assay
Group, il cui direttore è il colonnello Ric
Byer. L’agenzia segreta della CIA ha ideato anche un altro progetto, “Treadstone”;
a esso collegato e basato sul potenziamento
di agenti segreti e la loro trasformazione
in macchine da guerra; il tutto con metodi
illegali chirurgici, immunologici e virologici. Il risultato è la creazione di super
uomini spersonalizzati, attraverso lavaggi del cervello, da poter infiltrare come spie
nelle zone più calde e la cui sopravvivenza
è legata all’assunzione di pillole colorate.
Una volta raggiunta la meta prevista, una
baracca in mezzo ai monti innevati, Cross
scopre che vi è accampato un altro agente.
Contemporaneamente, dall’altra parte del
mondo, un uomo che conosciamo come Jason Bourne, è coinvolto in una lotta armata in cui perde la vita un reporter inglese a
Waterloo Station, a Londra. Bourne è riuscito a scappare dal sistema e a evadere
dal programma. Il colonnello Byer deve
agire tempestivamente affinché l’agente
con la sua fuga, le sue azioni e dichiarazioni non porti alla luce il sistema. Così
ordina che ogni singolo agente sul campo
A
Effetti: Double Negative
Interpreti: Jeremy Renner (Aaron Cross), Edward Norton
(Byer), Rachel Weisz (Marta), Albert Finney (Dott. Albert Hirsch), Joan Allen (Pam Landy), Oscar Isaac (N. 3), Donna
Murphy (Dita), Scott Glenn (Ezra Kramer), David Strathairn
(Noah Vosen), Stacy Keach (Turso), Michael Chernus (Dott.
Arthur Ingram), Corey Stoll (Vendel), Elizabeth Marvel (Dott.ssa
Connie Dowd), Michael Papajohn (Larry Hooper), Corey Johnson (Wills), Rachel Black (Ten. Col. Stoddard), Michael Berresse (Leonard), Page Leong (Sig.ra Yun), Tony Guida (Dott.
Benezra)
Durata: 135’
Metri: 3700
debba essere eliminato. Non solo, ma per
non lasciare traccia si devono eliminare
anche gli scienziati che hanno partecipato
alla creazione degli agenti. Aaron Cross
non tarda a capire cosa sta succedendo e
cerca di far perdere le proprie tracce. Anche lui è costretto ad assumere una serie
di medicinali che ne migliorano le prestazioni fisiche e ne indirizzano le scelte, dai
quali deve disintossicarsi per non dipendere dal governo. L’unica a poterlo aiutare è una delle dottoresse incaricate di tenere d’occhio gli agenti, Marta Shearing,
anch’essa a sua insaputa a rischio “chiusura” e dunque condannata a morte. I due
si trovano insieme a essere inseguiti dagli
uomini di Byer. Riescono a prendere un aereo per Manila, dove si trovano i componenti del virus base in grado di annullare
gli effetti delle pillole. Tra inseguimenti all’ultimo respiro e scontri corpo a corpo,
braccati fino alla fine da killer spietati, riescono a fuggire. Mentre la stampa viene
informata, Aaron e Marta si imbarcano
grazie a un pescatore filippino su un peschereccio, avviandosi finalmente verso la
libertà.
a produzione del film è stata alquanto travagliata: dopo la dichiarazione di Paul Greengrass di
non voler dirigere un ulteriore capitolo della
saga di Jason Bourne, c’è stato l’abbandono del protagonista Matt Damon. Dopo
The Bourne Ultimatum – Il ritorno dello
L
13
sciacallo, il film che chiudeva la trilogia
dell’agente nato dai libri di Rober t
Ludlum e interpretato da Matt Damon, la
direzione è stata affidata a Tony Gilroy, già
sceneggiatore degli episodi precedenti e
quindi profondo conoscitore delle ambientazioni del film, mentre il ruolo principale è
stato offerto a Jeremy Renner, che interpreta tuttavia un personaggio diverso da
quello di Jason Bourne. Il regista ha accettato la sfida di continuare a raccontare
il mondo di un personaggio che, nell’ultimo decennio, ha incarnato più di tutti il
genere della spy story. Ma, con The Bourne Legacy non siamo di fronte a un sequel, ma ad una espansione del mondo
dell’agente Bourne, con un protagonista
tutto nuovo: Aaron Cross. Per il resto tutto
è da scoprire: ci viene introdotto un altro
personaggio nuovo, ovvero il capo della
mega organizzazione che vende programmi alla CIA e al governo Americano, il Colonnello Ric Byer, ovvero Edward Norton,
e la scienziata Marta Shering interpretata
da Rachel Weisz. Le redini e l’eredità del
passato vengono tenute saldamente e il
discorso che il regista porta avanti funziona, dando vita a un personaggio che non
riesce a trovare la propria identità e gira
per il mondo cercandola, senza però identificarsi in nessuno. Ecco allora inevitabile
il confronto col collega Bourne. I due camminano su strade parallele che, almeno per
il momento, non si incontrano né fisicamente né ideologicamente. Si aggiunge al cast
Film
un Edward Norton che finalmente dona la
possibilità al pubblico di identificare il nemico, il governo, in un’unica persona. Poi
c’è Rachel Weisz che rappresenta il personaggio classico della donna che affianca il protagonista che, per fortuna, non funge qui solo da spalla, ma ha una funzione
ben precisa e anche lei ha un’identità tutta da riconsiderare. Un buon quarto capitolo che, come dice il titolo stesso (“legacy”
in inglese sta per eredità o testamento)
non tratta specificatamente del personaggio di Jason Bourne, ma di tutti gli altri
personaggi che gli ruotano intorno e delle situazioni che la sua defezione, raccontata nei precedenti tre film, ha causato.
Bourne Legacy non è ipercinetico e adrenalinico come i precedenti; molte sequenze sono girate con la cinepresa ben stabile su un cavalletto. Tuttavia il film regge, e non solo per la buona sceneggiatura. Il primo tempo ricalca i film spionistici
classici, con i loro ritmi e le lente inquadrature, atte anche ad introdurre situazio-
Tutti i film della stagione
ni e personaggi. Nel secondo tempo, una
volta chiarito che questo film è pur sempre della “serie Bourne”, la pellicola si fa
molto più movimentata, con sequenze all’ultimo respiro, combattimenti corpo a
corpo e inseguimenti forsennati contro il
tempo, girati invece con la camera a spalla, per rendere più movimentate e dinamiche le azioni. Memorabile è la sequenza che vede l’attore faccia a faccia con
un branco di lupi assetati di sangue, un
combattimento feroce tra le nevi della foresta; così come l’inseguimento in moto
per le strade di Manila e la sparatoria nel
laboratorio, scena di grande impatto emotivo. Fare paragoni tra i precedenti capitoli non è semplice, ma a conti fatti, The
Bourne Legacy riesce a non sfigurare
davanti ai suoi tre rivali. Con oltre due ore
di spy-story, la pellicola del regista statunitense riesce a tenere alta l’attenzione
dello spettatore, giocando sapientemente tra corse spericolate e lunghi dialoghi,
che spiegano senza fraintendimenti i
macchinosi giochi di potere che hanno
dominato l’esistenza di Bourne e continuano a dominare le sorti di Cross. Non
vengono dunque deluse le aspettative di
chi ha atteso con ansia quest’ultimo approfondimento su una delle saghe
cinematografiche più apprezzate degli
ultimi anni. C’è addirittura la porta socchiusa nel finale per dare la possibilità
forse di un ulteriore seguito. Ma quello a
cui bisogna dar merito è un attore
come Jeremy Renner, di grande bravura
e professionalità, che ben incarna il ruolo
di protagonista assegnatogli e che è un
degno successore dello storico agente del
primo film. Renner infatti non fa rimpiangere le gesta di Matt Damon, grazie soprattutto alla capacità di destreggiarsi tra
le scene d’azione più movimentate. Chissà se in futuro riusciremo a vedere Aaron
Cross e Jason Bourne combattere fianco
a fianco.
Veronica Barteri
TED
(Ted)
Stati Uniti, 2012
Regia: Seth MacFarlane
Produzione: Scott Stuber, Seth MacFarlane, John Jacobs per
Fuzzy Door Production, Bluegrass Films Production, Smart
Entertainment Production
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Prima: (Roma 4-10-2012; Milano 4-10-2012) V.M.: 14
Soggetto: Seth MacFarlane
Sceneggiatura: Seth MacFarlane, Alec Sulkin, Wellesley Wild
Direttore della fotografia: Michael Barrett
Montaggio: Jeff Freeman
Musiche: Walter Murphy
Scenografia: Stephen J. Lineweaver
Costumi: Debra McGuire
er il Natale del 1985 il piccolo
John Bennett, un bambino piuttosto solitario, riceve in regalo
dai genitori un orsetto di peluche, Ted. Quella notte il piccolo esprime il desiderio di
vedere prendere vita il suo nuovo amico. E
il mattino dopo il sogno si avvera. Mai miracolo fu più fonte di guai! Passati ventisette anni, l’orsacchiotto è ancora il migliore amico di John. I due condividono un appartamento, trascorrono il tempo libero tra
alcool e fumo e Flash Gordon è ancora il
loro idolo assoluto. Nonostante tutto, John
ha un lavoro presso un autonoleggio e una
fidanzata, la bella Lori, che però è stanca
di quel fidanzato-bambino. Esausta dall’incapacità di John di prendersi le responsa-
P
Effetti: Jenny Fulle, Blair Clark, Creative-Cartel, Tippett Studio, Creature Effects Iloura
Interpreti: Mark Wahlberg (John Bennett), Mila Kunis (Lori Collins), Joel McHale (Rex), Giovanni Ribisi (Donny), Patrick Warburton (Guy), Matt Walsh (Thomas), Jessica Barth (Tami-Lynn),
Aedin Mincks (Robert), Bill Smitrovich (Frank), Norah Jones
(Se stessa), Sam J. Jones (Se stesso), Brett Manley (John a 8
anni), John Viener (Alix), Laura Vandervoort (Tanya), Tom Skerritt
(Capo di John), Ginger Gonzaga (Gina), Jessica Stroup (Tracy),
Melissa Ordway (Michelle), Ralph Garman (Padre di John),
Colton Shires (John adolescente), Alex Borstein (Madre di John)
Durata: 106’
Metri: 2900
bilità di un adulto, la ragazza finisce per
metterlo di fronte a un ultimatum: abbandonare il suo orsetto e decidere di crescere
o rinunciare a lei. Quando Lori gli chiede
di mandare via Ted di casa, John capisce
che è davvero arrivato il momento di separarsi dal suo amico. Ma, con un tipo come
Ted, la cosa è davvero difficile. John aiuta
l’orsacchiotto a trovare un piccolo appartamento e un lavoro di cassiere in un supermercato. L’orsetto si fa subito conoscere per
quello che è, si rivolge in modo sboccato a
clienti e colleghi e, colpito dalle grazie della collega Tami-Lynn, improvvisa un inequivocabile ballo dell’”orsetto porcello” in
piedi sul rullo della cassa. Ma per John, che
continua a vedere il suo amico orsacchiot14
to di nascosto da Lori, i problemi con la
fidanzata non sono finiti. A complicare le
cose ci si mette Rex, ricco e libidinoso capo
di Lori, che non smette di corteggiare la ragazza con insistenza. Inoltre Donny, un
uomo con evidenti problemi dovuti a un’infanzia irrisolta, perseguita John perché ossessionato dal desiderio di avere un orsacchiotto vivente come Ted tutto per sé e per il
suo problematico figlio obeso. Una sera,
mentre John si trova con Lori a un party
nella bellissima casa di Rex, riceve una telefonata da Ted che lo invita a casa sua dove
è in pieno svolgimento un festino con un
mucchio di belle ragazze e dove l’ospite
d’onore è nientemeno che l’attore Sam Jones cioè Flash Gordon. Con una scusa, John
Film
lascia la festa, mentre Rex approfitta del
fatto che Lori sia rimasta sola. Il festino a
casa di Ted è un vero sballo: John e il suo
orsetto sono ubriachi e strafatti. Ma sul più
bello irrompe Lori. Stufa dell’ennesima prova del comportamento infantile del suo fidanzato, la ragazza rompe con John e accetta di uscire con Rex che la invita al concerto della cantante Norah Jones. Rimasto
solo, John se la prende con Ted, responsabile di averlo trascinato in un mare di guai.
I due si danno botte da orbi. Quella stessa
sera, John si precipita con Ted al concerto
di Norah Jones. Grazie all’amicizia dell’orsetto con la cantante, John ha il permesso
di salire sul palco a cantare una canzone
dedicata alla fidanzata rimediando una figuraccia. Il giorno dopo Ted va da Lori e la
prega di dare una chance a John che la ama
tantissimo, in cambio l’orsetto promette di
sparire. Subito dopo, Ted sparisce davvero
perché viene rapito da Donny che lo sequestra legandolo nella cameretta del figlio
contento di avere finalmente l’orsacchiotto
per esaudire i suoi repressi desideri. Approfittando di un momento di distrazione, Ted
riesce a raggiungere il telefono e a chiamare John. Ma il ragazzo che si trova insieme
a Lori non fa in tempo a rispondere. Poco
dopo, realizza ciò che accaduto e si precipita alla ricerca dell’orsetto. Dopo un lungo inseguimento che finisce in uno stadio,
Ted scappa dalle grinfie di Donny arrampicandosi su un traliccio, ma l’uomo lo raggiunge e lo tira verso di sé facendo si che
l’orsacchiotto si rompa in due tronconi.
Cadendo giù, Ted perde parte dell’imbottitura e precipita sul prato del campo in fin
di vita. L’orsacchiotto muore tra le braccia
di John. Una volta a casa, Lori cerca di ricucire la ferita di Ted che però, non dà segni di vita. Solo grazie al desiderio espresso quella notte da Lori, consapevole che per
John è impossibile staccarsi dal suo lato
infantile, il mattino dopo Ted torna in vita.
Tutti i film della stagione
John chiede a Lori di sposarlo: le nozze non
potevano che essere celebrate da Flash
Gordon!
vete mai visto un orsacchiotto
così? Sboccato, dedito a alcool,
fumo, droghe leggere e pensieri
sporchi, dalla mattina ... alla notte. Ebbene, ci voleva quel talento irriverente di Seth
MacFarlane, una celebrità negli States (investito del ruolo di presentatore della notte degli Oscar 2013), creatore di serie cult
come I Griffin, American Dad, The Cleveland Show per portare al cinema un simile
“vulcano” in fiamme.
La storiella è in apparenza la classica
favola che prende le mosse da un desiderio infantile.
Il film è tutto su di lui, quell’orsacchiotto davvero unico attorno al quale sono
confezionate una serie di gag irresistibili.
Nulla si salva: il sesso, lo sport, le droghe,
gli ebrei, l’11settembre, un fuoco di battute a suon di turpiloquio, doppi sensi (ma
anche non doppi), politically scorrect. Intorno ai due protagonisti, una schiera di
personaggi minori riuscitissimi: dallo sboccato padrone del supermercato dove l’orsetto trova lavoro, alla vistosa collega che
diviene la girlfriend umana di Ted, fino a
un adulto represso con figliolo disturbato
che da sempre sogna di avere un “Ted”
tutto suo. Come glassa sulla torta, due
camei di lusso: la cantante Norah Jones e
il mitico Sam Jones-Flash Gordon.
Il film provoca risate, tante e di tutti i
tipi. Le battute sono per tutti i gusti: volgari, talvolta un po’ scontate, spesso esilaranti. Il modello della classica storiella dell’amico immaginario di tutti i bambini, qui
diventa la storia di un amico reale (per
quanto possa essere reale un eroe in “peluche e ossa”) e di quanto possa essere
dannoso portarselo dietro una volta adulti. E così il tema della difficoltà di diventare
A
grandi viene mostrato in una luce senza
dubbio nuova.
Il fuoco di fila delle battute e delle situazioni divertenti offre il suo meglio nella prima parte mentre nella seconda il registasceneggiatore si lascia andare verso un finale un po’ scontato da favola buonista. Ma
i meriti di MacFarlane restano, soprattutto
per aver ideato una figura così fuori dagli
schemi resa perfettamente sullo schermo
grazie a un pregevole lavoro fatto sugli effetti speciali con un misto di live-action (con
il regista inguainato in una speciale tuta
motion-capture) e animazione in Computer Graphic. L’orsetto Ted parla, mangia,
ride, balla, fa perfino a botte, interagendo
con i colleghi attori in carne e ossa alla perfezione! Quanto agli attori, una menzione
particolare va a Mark Wahlberg sorprendentemente bravo e credibile in un ruolo
leggero per lui inconsueto (se pensiamo ai
suoi lavori più famosi), accanto a lui la bella
Mila Kunis, che è praticamente cresciuta
con MacFarlane doppiando la Meg de I
Griffin per quasi tredici anni.
Solo un dubbio resta, chi vi scrive ha
visto il film nella versione originale letteralmente dominata dall’irresistibile doppiaggio di Seth MacFarlane (che qui non
si risparmia vestendo il quadruplo ruolo di
sceneggiatore, regista, produttore e, appunto, doppiatore), ma non siamo del tutto certi che nella versione italiana il fiume
in piena di comicità irriverente lasci ugualmente il segno.
Doppiaggio o meno, una cosa è certa:
il micidiale orsetto di peluche rischia di diventare uno degli eroi della stagione cinematografica (già spopolano su di lui blog e
account su twitter). Oltretutto si parla già
di (immancabile) sequel.
Un prodotto commercialmente “perfetto” sotto tutti gli aspetti, non c’è che dire.
Elena Bartoni
CESARE DEVE MORIRE
Italia 2012
Regia: Paolo e Emilio Taviani
Produzione: Grazia Volpi per Kaos Cinematografica, in associazione con Stemal Entertainment, Le Talee, Assocciazione
Culturale La Ribalta, in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: Sacher Distribuzione
Prima: (Roma 2-3-2012; Milano 2-3-2012)
Soggetto: liberamente ispirato al “Giulio Cesare” di William
Shakespeare
Sceneggiatura: Paolo Taviani, Vittorio Taviani, Fabio Cavalli
(collaborazione)
Direttore della fotografia: Simone Zampagni
Montaggio: Roberto Perpignani
Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Interpreti: Cosimo Rega (Cassio), Salvatore Striano (Bruto),
Giovanni Arcuri (Cesare), Antonio Frasca (Marcantonio), Juan
Dario Bonetti (Decio), Vittorio Parrella (Casca), Rosario Majorana (Metello), Vincenzo Gallo (Lucio), Francesco De Masi (II)
(Trebonio), Gennaro Solito (Cinna), Francesco Carusone (Indovino), Fabio Rizzuto (Stratone), Maurilio Giaffreda (Ottavio),
Pasquale Crapetti (Legionario), Fabio Cavalli (Regista teatrale)
Durata: 76’
Metri: 2100
15
Film
ezione di Alta Sicurezza del carcere di Rebibbia a Roma. Il regista Fabio Cavalli inaugura il laboratorio teatrale con l’obiettivo di portare in scena il Giulio Cesare di William
Shakespeare. I detenuti, che devono scontare condanne che vanno dai quindici mesi
a “fine pena mai”, per criminalità organizzata, traffico di stupefacenti, omicidio
e reati vari, sono chiamati a sostenere dei
provini per aggiudicarsi i ruoli principali.
Viene chiesto loro di esporre le proprie
generalità, prima piangendo e poi con tono
arrabbiato.
Iniziano le prove e ciascuno recita nel
suo dialetto d’origine, che sia romanesco
o napoletano. I detenuti Striano e Rega si
esercitano nei rispettivi ruoli, Bruto e Cassio, in cella o in alcuni spazi del carcere,
dal momento che il teatro è ancora in fase
di allestimento. L’attore scelto per interpretare Bruto non fa che provare in continuazione la sua parte, da solo in cella,
oppure durante i lavori quotidiani. Sembra che ce l’abbia dentro quel personaggio, tanto da arrivare quasi ad immedesimarsi con esso.
Il progetto finisce per appassionare un
po’ tutti, dal regista agli attori (a distanza
di anni dalle prime letture liceali, colui che
impersona Cesare rivaluta il “suo” personaggio), passando addirittura per gli
agenti di sorveglianza. Durante i sei mesi
di lavorazione, le battute scritte da Shakespeare risvegliano nei detenuti vecchi ricordi e sopiti rancori.
Finalmente è giunta l’ora della rappresentazione. Va in scena la battaglia
decisiva sulla piana di Filippi, dove si
aggira l’anima di Cesare che “grida vendetta”. Nell’ultima scena, Bruto chiede
S
Tutti i film della stagione
disperatamente ai compagni di aiutarlo
a morire. Alla fine è un tripudio di applausi in sala. Ma, terminato lo spettacolo, ognuno abbandona il suo personaggio e ritorna alla triste realtà della propria cella.
a quando ho conosciuto l’arte sta’ cella è diventata una
prigione» - dice l’eccellente
capocomico Cosimo Rega/Cassio dopo
la fine della recita. Una sofferta e intima
“confessione” regalata al pubblico guardando direttamente dentro la macchina
da presa, prima di preparare il rituale caffè
e di iniziare l’ennesima giornata dietro le
sbarre.
Quando hanno ricevuto meritatamente l’Orso d’oro al Festival di Berlino 2012
(il primo di una lunga serie di premi che li
ha portati fino alla candidatura italiana all’Oscar), i fratelli Paolo e Vittorio Taviani
hanno ricordato che questo film nasce da
un dolore, grande, profondo. Quello di tanti detenuti che si sono macchiati di gravi
colpe nella loro vita e che ora sono costretti a vivere in solitudine. Il cui unico
orizzonte è il soffitto delle proprie celle, o
un poster che raffigura il mare, davanti al
quale si perde lo sguardo ipnotizzato del
ragazzo che interpreta Lucio (poetico nel
suo rapporto con l’inseparabile armonica).
Condannati che, nonostante tutto, rimangono però degli uomini. Con una loro
anima, una loro dignità. Uomini che probabilmente solo il potere salvifico dell’Arte, in questo caso del teatro, può aiutare a
riscattarsi, a specchiarsi nella loro consapevolezza. Dalla sala piena e con il pubblico in piedi ad applaudire entusiasta, al
«D
16
vuoto silenzioso di quello stesso luogo, il
passo è breve.
Cesare deve morire inizia e si conclude con l’atto finale dell’opera shakesperiana, come a sancire la circolarità di un
racconto dove la vita rincorre continuamente la finzione scenica e viceversa. Fino ad
arrivare al punto in cui i due piani si fondono e si confondono. E, a volte, in questo
microcosmo in bianco e nero, senza tempo (siamo in un carcere di massima sicurezza ma potrebbe anche essere l’antica
Roma) risulta perfino difficile distinguere
dove finisce la tragedia e dove comincia
invece la realtà.
Nel testo teatrale si parla di onore, di
vendetta, di tradimento, di giustizia («La
giustizia non è uno scannatoio - dice Bruto - davanti alla proposta di far fare la stessa fine di Cesare ad Antonio. E noi siamo
esecutori di giustizia, non macellai. Questo non è un assassinio, è un sacrificio).
Tutte cose che i reclusi hanno conosciuto
sulla loro pelle e che, per alcuni, grondano ancora sangue. Durante un dialogo tra
Cesare e Decio, l’attore che veste i panni
del protagonista esce per un attimo dalla
parte per dire all’altro quello che pensa
veramente di lui; improvvisamente interrompono le prove e si chiariscono fuori,
mentre anche gli altri attori escono in fretta dalla stanza.
È un momento di tensione autentica,
quasi irreale, sottolineato dalle intense
musiche di Giuliano Taviani e Carmelo Travia. Come lo è quello successivo alla morte del “tiranno”, prima accerchiato e poi
pugnalato (la cui solennità rivive grazie al
fisico imponente di Giovanni Arcuri), in cui
la grande agitazione che si alza tra il popolo romano ha il sapore di un’evasione di
massa.
Se la messa in scena è volutamente
povera, essenziale, a tratti metafisica (gli
ambienti sono quelli reali di Rebibbia), è
perché risuonino più forte le parole. Come
sentenze scolpite nella pietra. È perché
siano i volti a parlare, grazie a dei primi
piani densi di emozione e significato, in cui
spicca soprattutto la figura di SalvatoreSasà Striano, un formidabile Bruto, oggi
attore di teatro e di cinema dopo aver scontato la sua pena.
Cesare deve morire è un film che ha
veramente qualcosa di magico, un fascino
immortale come la celebre opera che contiene al suo interno. Una strana creatura
nell’asfittico panorama del cinema nostrano, un progetto “sperimentale” che, per il
fatto di essere stato ideato e realizzato da
due arzilli ottantenni (a fine carriera?), acquista ancor di più valore.
Un valore altamente sociale, perché
Film
senza fini didascalici o di propaganda, riesce a raccontare la desolante realtà penitenziaria italiana (sempre meno al centro
del dibattito politico) meglio di tanti docu-
Tutti i film della stagione
mentari e reportage televisivi. I Taviani ci
consegnano insomma una lezione di civiltà, asciutta e universale, che premia l’impegno, il coraggio e la passione per la ve-
rità. Una verità talmente forte da varcare
anche le barriere di un carcere.
Diego Mondella
CHE COSA ASPETTARSI QUANDO SI ASPETTA
(What to Expect When You’re Expecting)
Stati Uniti, 2012
Regia: Kirk Jones
Produzione: Alcon Entertainment, Lionsgate, Phoenix Pictures, What to Expect Productions
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Prima: (Roma 14-9-2012; Milano 14-9-2012)
Soggetto: dal libro omonimo di Heidi Murkoff
Sceneggiatura: Heather Hach, Shauna Cross
Direttore della fotografia: Xavier Pérez Grobet
Montaggio: Michael Berenbaum
Musiche: Mark Mothersbaugh
Scenografia: Andrew Laws
Costumi: Karen Patch
inque donne diverse si trovano a
dover affrontare la gravidanza.
Wendy, titolare di una boutique
per neonati, è assolutamente decisa a credere nel miracolo della gravidanza perfetta, ma quando i sogni di radiosità si scontrano con le più realistiche nausee mattutine, tutti i suoi entusiasmi iniziali svaniscono di fronte ai chili in eccesso e a un
mal di schiena deciso a non abbandonarla. Il marito Gary è in competizione da
sempre con suo padre Ramsey, che da sempre sfoggia ricchezza, successo e belle donne. Anche lui è in attesa di un figlio dalla
giovane compagna Skyler, che si prepara
a diventare madre di due gemelle, senza
scalfire minimamente una linea perfetta.
Anzi, la sua condizione di top model sembra averla destinata a una maternità priva d’inconvenienti da sfoggiare con non
chalance su dodici centimetri di tacco.
Sorte simile è toccata anche a Jules, maniaca della forma fisica e del fitness che,
dopo aver ballato con il ballerino professionista Evan sul palco di “Celebrity Dance Floor”, si trova a dover fare i conti con
una gravidanza inaspettata e un rapporto
di coppia tutto da costruire. Costretta a lasciare i suoi allenamenti e il famoso programma televisivo di dimagrimento, Jules
si trova alle prese con una maternità sconosciuta e l’esigenza di portare avanti una
carriera da star. La fotografa Holly e suo
marito Alex, non potendo avere bambini,
da tempo hanno presentato le pratiche per
adottarne uno. Quando arriva la buona notizia i due coniugi vengono avvisati che il
C
Effetti: Hydraulx
Interpreti: Cameron Diaz (Jules), Jennifer Lopez (Holly), Elizabeth Banks (Wendy), Chace Crawford (Marco), Brooklyn
Decker (Skyler), Ben Falcone (Gary), Anna Kendrick (Rosie),
Matthew Morrison (Evan), Dennis Quaid (Ramsey), Chris Rock
(Vic), Rodrigo Santoro (Alex), Joe Manganiello (Davis), Rob
Huebel (Gabe), Thomas Lennon (Craig), Amir Talai (Patel),
Rebel Wilson (Janice), Wendi McLendon-Covey (Kara),Taylor
Kowalski (JJ), Mimi Gianopulos (Molly), Jesse Burch (Hutch
Davidson), Genesis Rodriguez (Courtney)
Durata: 110’
Metri: 2960
loro bimbo li aspetta in Etiopia. Ma Alex
non sembra convinto in pieno della decisione e per questo frequenta un gruppo di
supporto per neo-papà dove viene istruito
su ciò che lo aspetta. Muniti di passeggino
e marsupio, ridotti a fare da baby sitter ai
piccini al parco, frustrati e rosi da feroce
invidia nei confronti di chi non si è ancora
ridotto in schiavitù, il gruppetto dei padri
cammina insieme e cerca di svelare allo
scettico e impreparato Alex i segreti per
sopravvivere all’arrivo di un figlio. Niente in confronto ai problemi della giovanissima Rosi, alle prese con un bambino in
arrivo ancor prima del suo primo appuntamento con il rivale in commercio Marco. Dopo una sola notte passata insieme,
la ragazza, chef del food trucks rivale di
Marco, infatti rimane incinta. Nonostante
il senso di inadeguatezza e la novità della
situazione i due giovani decidono di portare avanti la gravidanza. Peccato che il
loro entusiasmo sia smorzato sul nascere.
Dopo i primi mesi infatti Rosi ha un aborto spontaneo. Il fragile rapporto tra i due
si interrompe bruscamente. Jules accetta
il fatto di mettere da parte la carriera e
inaspettatamente si trova Evan al suo fianco. Holly e Alex partono per l’Etiopia carichi di paure e insicurezze. Gli ultimi giorni sono difficili per tutte le future mamme.
Wendy, invitata in una trasmissione televisiva per sponsorizzare il suo negozio, invece che parlare della radiosità della sua
maternità, in modo molto diretto e spontaneo fa un elenco di tutte le ripercussioni
fisiche e psicologiche. Ma il grande mo-
17
mento è arrivato. Ognuna porta a termine
con più o meno facilità la propria gravidanza. La nuova paternità fa riavvicinare
Ramsey a suo figlio. Evan e Jules decidono di sposarsi, Holly e Alex emozionatissimi abbracciano il loro bambino etiope,
Wendy trova finalmente la sua radiosità e
Rosi si riavvicina a Marco e aprono un food
trucks insieme.
irk Jones, già regista di Svegliati
Ned e Tata Matilda, nonché del
remake americano di Stanno tutti
bene con Robert De Niro, si ispira stavolta
a un singolare best-seller: una guida per
futuri genitori scritta da Heidi Murkoff e
Sharon Mazel Che cosa aspettarsi quando si aspetta, da cui il film prende il titolo.
Il film rientra nel genere commedia corale, con tutti i personaggi legati da un filo
sottile e ha una struttura divisa in tre atti,
che corrispondono ai tre trimestri di gravidanza vissuti da cinque coppie molto
diverse. L’attenzione è rivolta soprattutto
ai mutamenti emotivi che la dolce attesa
porta nel soggetto femminile e alle conseguenze che questi hanno sulla relazione a due. Che la “dolce attesa” non sia
esattamente ciò che ci hanno spesso e
volentieri fatto credere e cioè uno stato di
grazia che rappresenta il momento più
esaltante nella vita di una donna con benefici effetti su visi radiosi ed estasiati, lo
sapevamo già. Secondo alcune ricerche
scientifiche i nove mesi di gravidanza dovrebbero essere il momento più esaltante nella vita di una donna. A parte il pre-
K
Film
vedibile entusiasmo per un figlio in arrivo, il corpo si carica di nuova energia e la
mente e la psiche di sensazioni positive.
Ma siamo proprio sicuri che questa visione idilliaca rappresenti una verità assoluta? Tra nausee, gambe gonfie, stanchezza, ansia e sbalzi umorali sono solo alcuni dei piccoli “inconvenienti” che affliggono le donne incinte e la commedia tenta
di usare meno filtri a favore di un maggiore realismo. C’è lo stato interessante che
coglie di sorpresa un’impreparata celebrità televisiva legata al mondo del fitness;
c’è il desiderio di maternità frustrato di una
sposa sterile con il sogno dell’adozione;
c’è la coppia di teenager che ha un rapporto occasionale finito in gravidanza indesiderata; ci sono i coniugi che si sentono continuamente inadeguati al confronto
con parenti anche loro futuri genitori. Il ri-
Tutti i film della stagione
sultato è però una pellicola corale che non
esce dalla banalità del già visto; una miscela che non riesce a essere esplosiva
per via dei personaggi un po’ caricaturali,
continuamente in preda a isterismi e inadeguatezze varie. Le vicende, pur avendo
sviluppi diversi, hanno in comune le gioie
e i dolori dettati da una gravidanza, le difficoltà di prepararsi a un evento che cambia inevitabilmente la vita, gli scontri tra
idee contrastanti e soprattutto il miracolo
di concepire e mettere al mondo una nuova vita. Nonostante vengano toccati temi
delicati e importanti, come quello dell’adozione e dell’aborto, il film però non riesce
a uscire da un buonismo e da una retorica
piuttosto noiosi. La sceneggiatura non ha
il sapore di una vera commedia, le battute
comiche sono ridotte al minimo e quelle
davvero divertenti sono poche. La più riu-
scita è senza dubbio quell’adunata di papà
esperti che si aggira per Central Park, guidando passeggini pieni di bebè urlanti. Il
film basa dunque la sua forza in particolare su un cast di attori di sicuro richiamo,
tuttavia non tutte le star convocate per l’occasione riescono a sollevare la commedia.
E così la bella Cameron Diaz non convince appieno, appesantita da una vistosa
protesi, e neanche la fascinosa Jennifer
Lopez alle prese con il problema dell’adozione brilla per intensità, per non parlare
della più alterata di tutte, una Elizabeth
Banks, nevrotica e in preda all’isterismo.
Non sono da meglio gli uomini che le affiancano, da un godereccio e sciupafemmine Dennis Quaid a un dubbioso futuro
papà Rodrigo Santoro.
Veronica Barteri
FREERUNNER – CORRI O MUORI
(Freerunner)
Stati Uniti, 2011
Regia: Lawrence Silverstein
Produzione: Warren Ostergard, Lawrence Silverstein, Jeremy
Sklar per Vitamin A Films, Strategic Film Partners
Distribuzione: Eagle Pictures
Prima: (Roma13-7-2012; Milano 13-7-2012)
Soggetto: Raimund Huber, Jeremy Sklar
Sceneggiatura: Raimund Huber, Jeremy Sklar, Matthew Chadwick
Direttore della fotografia: Claudio Chea
Montaggio: Marc Jakubowicz
Musiche: Jerry Deaton, Peter DiStefano
yan Carter è un giovane che fa le
pulizie nell’ospedale dove è ricoverato il nonno. Di sera si dedica alla sua vera passione, partecipando
a gare di freerunning, corsa su strada,
premiate con piccole somme in denaro. Si
tratta di corse molto adrenaliniche, che
accanto alla potenza atletica richiedono
una prontezza di riflessi e una estrema
spericolatezza. Ma il sogno del ragazzo,
noto nel campo come il “demone della velocità”, è vincere abbastanza soldi per
portare la sua bella fidanzata Chelsea e
suo nonno fuori dalle baraccopoli di Metro City per andare a vivere lungo la costa.
Dunque quando il boss mafioso locale Frank Reese organizza la finale di Freerun, promettendo un premio molto ghiotto, Ryan non può perdersi un’occasione
del genere. Durante la competizione, però
il ragazzo e i suoi compagni vengono chiu-
R
Scenografia: Jeremy Woolsey
Costumi: Carla Shivener
Interpreti: Sean Faris (Ryan), Danny Dyer (Mr. Frank), Tamer Hassan (Reese), Amanda Fuller (Dalores), Seymour
Cassel (Nonno), Rebecca Da Costa (Chelsea), Mariah Bonner (Deedee), Casey Durkin (Stacey), Erica Stikeleather
(Penny/Goth Chick), Phillip DeVona (Wall Street), Ryan Doyle (Finch), Joe Williams (II) (Turk), Warren Ostergard (Morris)
Durata: 88’
Metri: 2420
si in uno scantinato e costretti a indossare collari esplosivi. Hanno sessanta minuti per finire la gara, una corsa a circuito chiuso attraverso la città in cui solo
il vincitore continuerà a vivere. Chi uscirà dal percorso della “zona verde” o arriverà ultimo ai check point, fissato dalla
parte opposta della città, sarà eliminato.
L’eliminazione avverrà tramite un congegno esplosivo a orologeria collegato ai
collari dei partecipanti che li farà esplodere in aria, anche qualora si tirassero
indietro o decidessero di chiedere aiuto
alla polizia. Una corsa all’ultima esplosione con in palio la vita e un milione di
dollari, ma solo per il vincitore. Il tutto è
stato organizzato da Mr. Frank, incallito
giocatore d’azzardo, che non ha alcun rispetto per la vita umana, per il divertimento del suo sadico Club di miliardari,
che scommette enormi cifre su l’uno o l’altro corridore. Ryan e i suoi amici, pur
18
abituati a prendersi grossi rischi e a spingere oltre ogni limite le loro capacità fisiche, si trovano ora improvvisamente a
competere uno contro l’altro per sopravvivere. Mentre iniziano a morire i primi
concorrenti, Ryan riesce a disattivare il
congegno esplosivo del collare e a diffondere in rete un messaggio per denunciare
Mr. Frank. Il malavitoso decide allora di
rapire la sua ragazza per usarla come
ostaggio, ma non sa che Ryan è disposto
a tutto per salvarla. I miliardari del club
vistisi smascherati decidono di ritirarsi
dalle scommesse, minacciando vendetta
contro l’organizzatore del gioco. Mr.
Frank, braccato, fugge insieme a Chelsea, ma viene intercettato da Ryan che,
posizionatogli al collo il collare, lo fa saltare in aria. Con i soldi presi al boss Ryan
realizza il suo desiderio, compra una barca e vela e si imbarca con il nonno e la
ragazza.
Film
L
ungometraggio d’esordio di
Lawrence Silverstein, Freerunner, corri o muori è un ritmato action concentrato sulla spettacolarità dell’arte metropolitana nata in Francia del “parkour”,
formula già sperimentata con discreto successo in film del genere di produzione francese. La pellicola da un lato sembra recuperare i collari esplosivi anti-fuga di Sotto massima sorveglianza di Lewis Teague, dall’altro non può fare a meno che ricordare, nella
variante sportiva, la sanguinolenta serie
Hostel, incentrata su perversi ricchi impegnati a comprare poveri sventurati da torturare. La differenza è che questa volta abbiamo ricchi scommettitori che, anziché acquistare vittime da torturare, puntano su colui
che sarà il vincitore, nonché l’unico personaggio a rimanere in vita. Il risultato, però, è
l’ennesima critica su celluloide alle imposizioni dettate dal potere dei miliardi, su cui si
innestano i tipici meccanismi da reality. Con-
Tutti i film della stagione
sueta caccia all’uomo, con i compagni eliminati uno ad uno, per il sollazzo dei soliti miliardari annoiati e spietati, col prode protagonista che da preda diventa predatore. I
partecipanti hanno i minuti contati per giungere alla meta, solo uno potrà vincere, avendo salva vita e quindi è permessa e incentivata ogni cosa. Ma è tutto talmente veloce e
frenetico da non lasciare neppure il tempo
di essere coinvolti.
Del resto, non è assente neppure una
spruzzata di splatter all’interno di un tipo
di immagine, che, già dai primi minuti di
visione, a causa di una camera in continuo movimento, fa venire il mal di testa.
L’impressione è quella di essere all’interno di un lungo videoclip o elaborato videogioco in cui le inquadrature sfilano veloci
e la musica assordante sostituisce i dialoghi. Allo spettatore, allora, non rimane altro da fare che assistere alle diverse imprese acrobatiche. In pratica, la trama è
quasi assente, i dialoghi scontati, lo sviluppo è prevedibile, con atmosfere poco
approfondite e una caratterizzazione dei
personaggi minimale, in quanto viene concesso maggior spazio ai continui balzi, salti
mortali, fughe e scontri corpo a corpo dei
personaggi. La camera a mano riprende,
agitata da un movimento continuo, mentre il montaggio risulta talmente veloce da
travolgere lo spettatore senza permettergli di recepire nella giusta maniera le emozioni trasmesse da quanto raccontato. In
tutto questo poco originale sviluppo, i personaggi hanno la dimensione di figurine
prive di cervello, che servono unicamente
al passaggio al livello successivo. E neanche la prestanza e agilità fisica di Sean
Faris riesce a incoraggiare la visione e renderla appetibile. Per fortuna che prima o
poi arriva il game over.
Veronica Barteri
ON THE ROAD
(On the Road)
Francia, Brasile 2012
Regia: Walter Salles
Produzione: Nathanaël Karmitz, Charles Gillibert, Rebecca
Yeldham, Roman Coppola per MK2, Videofilmes, Jerry Leider
Company in associazione con Vanguard Films, Film 4, in coproduzione con France 2Cinéma, con la partecipazione di France Télevisions, Canal+, Ciné+
Distribuzione: Medusa
Prima: (Roma 11-10-2012; Milano 11-10-2012)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Jack Kerouac
Sceneggiatura: Jose Rivera
Direttore della fotografia: Éric Gautier
Montaggio: François Gédigier
Musiche: Gustavo Santaolalla
Scenografia: Carlos Conti
Costumi: Danny Glicker
Interpreti: Garrett Hedlund (Dean Moriarty/Neal Cassady), Sam
on l’arrivo di Dean Moriarty
ebbe inizio quella parte della
mia vita che si potrebbe chiamare la mia vita lungo la strada”: questa
una delle prime frasi del libro di Kerouac
e dello stesso film tratto dal libro. Abbiamo davvero a che fare con una storia lungo la strada che coinvolge i due protagonisti Sal Paradise (lo stesso scrittore) e il
suo amico Neal Cassady, qui indicato, appunto, come Dean Moriarty. Intorno una
serie di bohemiennes di San Francisco e
del Greenwich Willage di New York, ragazzi agitati e malinconici, avidi di affetto
e in piena ricerca di una ragione d’essere
da rinvenire attraverso il sesso, il bere, la
marijuana. Tutti pervasi da un moto per-
“C
Riley (Sal Paradise/Jack Kerouac), Kristen Stewart (Marylou/
LuAnne Henderson), Amy Adams (Jane/Joan Vollmer),Tom Sturridge (Carlo Marx/Allen Ginsberg), Danny Morgan (II) (Ed Dunkle/Al Hinkle), Alice Braga (Terry/Bea Franco), Marie-Ginette Guay
(Ma Paradise), Elisabeth Moss (Galatea Dunkle/Helen Hinkle),
Kirsten Dunst (Camille/Carolyn Cassady), Viggo Mortensen (Old
Bull Lee/William S. Burroughs), Terrence Howard (Walter), Kaniehtiio Horn (Rita Bettancourt), Joey Klein (Tom Saybrook), Sarah
Allen (Vicki), Kim Bubbs (Laura), Giovanna Zacarías (Puta Loca
Roja), Rocky Marquette (Alfred), Coati Mundi (Slim Gaillard), Sona
Tatoyan (Maggie), Madison Wolfe (Dodie), Patrick Costello (Chad
King), LaFonda Baker (Dorothy Banks), Jacob Ortiz (Johnny),
Murphy Moberly (Ray), Matthew Deano (Ray), Steve Buscemi
(vendidore alto e magro)
Durata: 137’
Metri: 3760
petuo (siamo tra il 1947 e il ’57) che li tenesse lontano dalla generazione dei vecchi e che potesse trovare una forma completa di espressione: per alcuni sarà la letteratura o la poesia, qui, per il personaggio di Dean Moriarty la distruzione completa del proprio essere.
A Sal e Dean si aggiunge Marylou
(“una graziosa biondina con una infinità
di ricci come un mare di chiome dorate”),
l’alter ego femminile di Dean a cui sarà
sempre legata nella cosa considerata da
lui unica e sacrosanta nella vita, cioè il sesso; con Marylou è lo stesso Sal a finire a
letto, spinto proprio da Dean in una cementazione euforica della loro amicizia a
tre. Al gruppo si accosta in periodi saltua19
ri, secondo gli intermezzi dei propri tour
sessuali il poeta e amico amatissimo Carlo Marx, nella realtà Allen Ginsberg.
Così, da New York a San Francisco e
ancora a New York insieme e da soli, sempre uniti e pronti a lasciarsi per seguire
improvvisi obiettivi personali (Sal raccoglie cotone negli sterminati latifondi del
profondo sud e scarica sacchi di farina negli immensi granai dell’ovest), i due amici
le provano proprio tutte: Dean sposa Camilla con cui ha due figlie ma continua a
stare con Marylou, mentre corrono come
pazzi per gli States in un turbine di esaltazione e tormento fisico e morale, avidi di
vita e di avventure.
Il tempo però è spietato: Sal riesce a
Film
utilizzare e convogliare le sue esperienze
nel giornalismo e nei libri che diventeranno famosi mentre Dean non è in grado di
abbandonare il proprio personaggio che
lacero e alla deriva saluta Sal in giacca e
cravatta che monta in macchina per andare a un concerto con un gruppo di amici.
ragazzi della Beat Generation di Kerouac e i giovani arrabbiati inglesi,
gli Angry Young Men hanno costituito le leve portanti di una spallata generazionale contro le vecchie strutture del costume e della società che, nonostante due
guerre mondiali, praticamente resistevano
fin dai primi anni del ‘900. La ragione d’essere di questa classe di giovani stava nel
considerare la società in cui erano nati e
si trovavano senza scelta a vivere, come il
fulcro di un caos morale, intellettuale, culturale e sociale con cui non volevano avere nulla a che fare. Era una completa e assoluta spinta passionale che portava gli
americani di Kerouac a dialogare così:
“Dobbiamo andare avanti e non fermarci
finchè non siamo arrivati”. “Dove andiamo?” “Non lo so ma dobbiamo andare”. E
gli inglesi di Osborne (“Ricorda con rabbia”, 1956) “Perchè non vogliamo litigare?
È l’unica cosa che so fare bene”. Già una
grande differenza è rappresentata dalla
due frasi: per i primi c’è stata la possibilità
di esprimere la loro inquietudine passando da un’automobile all’altra (con alcol e
droga come combustibile) attraverso i
grandi territori a disposizione negli States;
i secondi invece, alle prese con i piccoli
spazi della vecchia Inghilterra, hanno potuto dibattersi e litigare negli ambienti ristretti di una casa. Mentre però i giovani
inglesi hanno visto riportate innumerevoli
volte sul palcoscenico e sullo schermo le
I
Tutti i film della stagione
loro rabbie e le loro ansie, il libro di Kerouac è stato sempre un monolite senza
riscontri, inspiegabile e dimenticato nel
tempo. Lo stesso scrittore avrebbe voluto
portarlo sullo schermo per farne una bandiera generazionale (con chissà quanti
proseliti cinematografici), riservandosi la
regia e la parte di Sal e offrendo quella di
Dean a Marlon Brando, l’icona “selvaggia”
di quei tempi. Non se ne fece però nulla
come non andò in porto l’interesse di Ford
Coppola che pure aveva rilevato i diritti
negli anni ’70, troppo coinvolto allora, e per
così lungo periodo, nella sua Apocalisse
vietnamita.
Ci sarà una ragione per tutto questo.
Ricordiamo la vecchia definizione del
cinema: “Una storia, una faccia”.
Probabilmente qui le facce ci sono,
quelle dei due protagonisti maschili (ma
anche i volti degli altri sono preziosi) che
ci regalano la loro forte intensità apparentemente senza ragione e quindi ancora più
violenta e affascinante e la difesa spasmodica della loro libertà, soprattutto interiore. La storia però non c’è, il libro di Kerouac è intraducibile sullo schermo perchè
lascia solo a chi legge la possibilità di trovare nella parola scritta l’esaltazione immaginifica delle proprie ansie giovanili,
quelle voglie, quei turbamenti libertari che
hanno coinvolto o anche solo lambito chi
era giovane allora. Resta quindi una serie
continua di scene slegate fini a se stesse,
di ubriacature, grandi fumate d’erba, grandi
botte di sesso: una ripetitività (137 minuti)
che rende lo svolgersi degli eventi un perfido ma anche antipatico e noioso gioco
dell’oca, dove i personaggi, pur correndo
per gli States come forsennati, si ritrovano
sempre al punto di partenza con le proprie aspirazioni, con la vita, con se stessi.
E poi forse la cosa non funziona perchè
tutti, autori e spettatori hanno la consapevolezza che il tempo è passato e che il tema
del film rappresenti una specie di reportage,
il documentario di un argomento datato, oggi
ininfluente a paragone dei grandi problemi
che devastano la società occidentale contemporanea. Nell’ultima scena, è lo stesso
regista a riconoscerlo e dircelo: di fronte a
un Sal Paradise che si è gettato dietro le
spalle il periodo maledetto, pur conservandolo dentro di sé in maniera struggente,
Dean Moriarty è rimasto uguale, inaffidabile, con le sue ubriacature e le sue instabilità,
all’ultimo stadio di una discesa all’inferno che
non rappresenta più alcuna metafora ma
solo una definitiva, tristissima vecchiaia.
Fabrizio Moresco
TAKEN 2 – LA VENDETTA
(Taken 2)
Francia 2012
Regia: Olivier Megaton
Produzione: Luc Besson per Europa Corp.
Distribuzione: 20th Century Fox Italia
Prima: (Roma 11-10-2012; Milano 11-10-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Luc Besson, Robert Mark Kamen
Direttore della fotografia: Romain Lacourbas
Montaggio: Vincent Tabaillon, Camille Delamarre
Musiche: Nathaniel Méchaly
Scenografia: Sébastien Inizan
Costumi: Pamela Lee Incardona
Effetti: Philippe Hubin
Interpreti: Liam Neeson (Bryan Mills), Maggie Grace (Kim), Famke Janssen (Lenore), Rade Serbedzija (Murad), Leland Orser (Sam), Luenell Campbell (Bertha), Kevork Malikyan (Durmaz) Luke Grimes (Jamie), Alain Figlarz (Suko)
Durata: 91’
Metri: 2500
20
Film
ryan Mills, ex agente della CIA,
è ormai separato da sua moglie
Lenore che vive con la figlia Kim
e il suo compagno Stuart.
A Tropoia un gruppo di albanesi tra
cui Murad vogliono vendetta per i figli che
hanno perso. I figli erano gli stessi responsabili del rapimento della figlia di Brian
narrato nell’episodio precedente e uccisi
dall’agente Mill. Questi lo cercano per potersi vendicare; il loro desiderio è che Mills
patisca quello che hanno subito i loro cari.
In seguito a problemi con il nuovo marito, Lenore decide di andare a trovare Bryan su suo invito insieme alla figlia Kim a
Istanbul. Durante un’uscita di coppia con
la moglie (mentre la figlia rimane in hotel), Bryan si rende conto di essere inseguito dagli uomini di Murad. Cerca di salvare la moglie ma alla fine vengono entrambi catturati e imprigionati.
La moglie viene sottoposta a torture
ma grazie all’aiuto della figlia Kim guidata dal padre via telefono, i due vengono liberati e dopo diversi impedimenti riescono a salvarsi, a far fuori Murad il capo
degli albanesi e a tornare in America sani
e salvi.
B
Tutti i film della stagione
I
l regista Olivier Megaton cura molto la fotografia in questo film. Tropoia in Albania è lo stesso setting
che si trova nel primo film, in più in Taken
2 le inquadrature della città di Istanbul sono
molto suggestive, gli inseguimenti molto
coinvolgenti, anche se per chi non ama il
genere possono apparire un po’ troppo
lunghi. Troppo banale il finale che si conclude come ogni famiglia ideale che si rispetti.
Viene presentato il protagonista secondo i canoni americani di bravo padre
di famiglia e ottimo difensore della patria.
Una soluzione semplicistica al terrorismo
e alla mafia . Può essere considerato un
ottimo film da dvd , ben girato nel suo
genere. Anche qui come nel prequel ci
sono diversi inseguimenti in macchina ed
esplosioni. Per capire cosa aspetta lo
spettatore in questa nuova avventura targata Olivier Megaton basta cambiare setting e la persona rapita ( nel primo la figlia nel secondo la moglie) e il gioco è
fatto. Come in altri film d’azione, alcune
trovate sono piuttosto bizzarre e a dir
poco ridicole come tutti i combattimenti a
mani nude, quasi a sfidare le follie alla
Tom Cruise nei vari Mission Impossible e
il modo di farsi giustizia è piuttosto individualistico. Come nel primo film lo scopo
del protagonista è salvare i propri cari a
qualunque costo. Esponente del giustizionalismo “fai da te” chi non ha visto il primo film può pensare a Bryan Mills (alias
Liam Neeson) come ad un agente in pensione; in realtà si tratta di un personaggio che vuole farsi giustizia da solo o
come dice la moglie Lennie nel primo
episodio “come di uno che ha sempre
infranto le regole”. A questo è unita la
figura di un padre ideale piuttosto premuroso che farebbe di tutto per la propria famiglia. Troppa violenza gratuita (in
dosi minori rispetto a Taken) che non aggiunge niente all’intreccio narrativo. In
Taken 2 anche questa dimensione che un
po’ viene persa. Aggiungerei poi che i titoli dei due film sono piuttosto banali. Più
realistico il primo film che affronta il tema
del divorzio, i sequestri di persona e lo
sfruttamento della prostituzione. Stavolta
ci dovremo accontentare solo di “un frullato alla fragola” .
Giulia Angelucci
VIAGGIO IN PARADISO
(How I Spent My Summer Vacation)
Stati Uniti 2012
Regia: Adrian Grunberg
Produzione: Bruce Davey, Mel Gibson, Stacy Perskie per Airborne Productions, Icon Productions
Distribuzione: Eagle Pictures
Prima: (Roma1-6-2012; Milano 1-6-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Adrian Grunberg, Stacy Perskie, Mel Gibson
Direttore della fotografia: Benoît Debie
Montaggio: Steven Rosenblum
Musiche: Antonio Pinto
Scenografia: Bernardo Trujillo
Costumi: Anna Terrazas
Effetti: Furious FX
utto ha inizio con la vertiginosa
fuga di un rapinatore a bordo di
un’auto: sul sedile posteriore il
corpo sanguinante del suo complice, che
sputa sangue, che durante la corsa muore
per emorragia interna e borse piene di
milioni di dollari. La voce narrante, quella di Driver, racconta quello che sta accadendo: ha appena fatto un colpo da milioni di dollari che gli avrebbero permesso di
fare una bella vacanza estiva. Una buona
idea che lo porta in direzione sud. Mentre
la polizia di frontiera lo sta inseguendo a
tutta velocità, l’uomo capovolge la sua auto
T
Interpreti: Mel Gibson (Driver), Daniel Giménez Cacho (Javi),
Jesús Ochoa (Caracas), Roberto Sosa (Carnal), Dolores Heredia (Madre del bambino), Kevin Hernandez (Bambino), Fernando Becerril (Direttore del Penitenziario), Jose Montini (Dottore di El Pueblito), Peter Gerety (Signore dell’Ambasciata),
Patrick Bauchau (Chirurgo), Mayra Sérbulo (Infermiera), Gerardo Taracena (Romero), Mario Zaragoza (Vazquez),Tenoch
Huerta (Carlos), Peter Stormare (Frank), Scott Cohen (Avvocato di Frank), Bob Gunton (Thomas Kaufmann), Dean Norris
(Bill), Gustavo Sánchez Parra (Size 11), Boris Milaszenko
(Gringo), Tom Schanley (Gregor)
Durata: 95’
Metri: 2605
varcando il muro di confine, precipita violentemente e atterra in Messico. Fermato
dalla polizia messicana, viene portato nella
prigione di “El Pueblito”. Il penitenziario
è una vera e propria città, anzi, una vera
baraccopoli dove dominano solo violenza
e corruzione. All’interno c’è di tutto: case
fatiscenti, negozi che vendono qualsiasi
tipo di merce, ristoranti e stand che vendono cibo di ogni genere, barbieri, un ufficio cambio, squadre sportive formate da
detenuti, laboratori che producono ogni
tipo di droga. In questo “inferno del crimine”, Driver cerca di sopravvivere strin21
gendo amicizia con un ragazzino di dieci
anni accanito fumatore. È proprio il giovane a spiegargli che il vero “signore” di
El Pueblito è Javi, un ricco trafficante
malato di cirrosi che sta cercando il donatore di un fegato nuovo all’interno della
prigione. Javi tiene sotto scacco gran parte dei detenuti e anche la madre del bambino che lavora per lui nel night della prigione intrattenendo i clienti.
Parlando con la donna, Driver viene a
sapere che Javi aveva ucciso il padre del
bambino per avere il suo fegato e ora vuole l’organo del ragazzino perché in pos-
Film
sesso dello stesso suo raro fenotipo Bombay. Driver decide di aiutare il bambino e
sua madre e uccide il cugino di Javi. Ora
l’uomo è nel mirino del boss e di suo fratello. Ma gli eventi precipitano quando Driver denuncia Vasquez e Romero, i due poliziotti che lo hanno catturato e rinchiuso
a El Pueblito, colpevoli di essersi impossessati dei suoi soldi. Le cose si complicano perché Frank, il boss cui sono stati rubati i soldi, è alle costole di Driver e Javi.
Ma Driver promette a Javi di uccidere
Frank in cambio del suo aiuto per evadere. L’uomo esce dal carcere sotto l’identità di Reginaldo Gomes, mentre Javi pensa
di ucciderlo subito dopo che ha eliminato
Frank. Driver si mette in contatto con l’avvocato di Frank. Dopo aver organizzato
una trappola nell’ufficio del signor Kaufman, Driver riesce a eliminare Frank. Nel
frattempo Javi e i suoi affrettano i tempi
del trapianto e prendono il bambino. Javi
vuole fare subito l’intervento; nella stessa
notte però la polizia irrompe con la forza
a “El Pueblito” per chiudere il penitenziario. Javi e i suoi medici compiacenti preparano l’operazione, ma, sul più bello, irrompe Driver che riesce a fermare tutto
grazie anche al coraggio di una giovane
infermiera. Driver scappa con il bambino
e sua madre. Ora può davvero godersi il
resto dell’estate su una spiaggia assolata.
l vecchio Mel Gibson ‘action hero’ a
tutto tondo è tornato. Smessi i panni
del regista dalle velleità epiche e dal
forte odore di sangue, il discusso divo torna a citare se stesso e la sua icona in una
nuova commedia d’azione e chiama l’esordiente Adrian Grunberg (già suo assistente alla regia per Apocalypto) a dirigerlo (lasciando, si fa per dire, per sé i ruoli di co-
I
Tutti i film della stagione
sceneggiatore, produttore e interprete principale). Incollatevi alla poltrona e ne vedrete, come al solito, delle belle.
La cosa che colpisce di più di questo
Viaggio in paradiso è che si tratta di un
vero viaggio all’inferno: destinazione “El
Pueblito”, un posto davvero unico. Un microcosmo terrificante, un mondo che sembra inventato ma che è davvero esistito e
conosciuto come “la universidad del crimen”, un incubo di violenza, corruzione,
sovraffollamento tipico di molte prigioni
messicane. Ufficialmente chiamato El
Centro de Readaptacion Social de la
Mesa, “El Pueblito” fu costruito nel 1956
a Tijuana per ospitare 2.000 prigionieri nel
quadro di un nuovo esperimento correttivo. Permettendo ai carcerati di rimanere
vicino ai loro cari in prigione, avrebbe
dovuto facilitare il loro reinserimento nel
mondo esterno. E così intere famiglie vivevano dentro le mura della prigione mentre altre andavano e venivano. El Pueblito, letteralmente “Piccola Città” era una
vera baraccopoli. C’era di tutto: ristoranti,
stand e negozi di tutti i tipi, persino un
barbiere, un parrucchiere e una “casa de
cambio”. C’erano laboratori che producevano metanfetamine perché, naturalmente, qualsiasi tipo di droga era venduta
apertamente. Il traffico era gestito da organizzazioni criminali i cui leader vivevano in una situazione privilegiata. Solo prigionieri con disponibilità di denaro godevano di una vita dignitosa mentre altri vivevano nella miseria e nella paura. Nell’agosto 2002, poche ore frenetiche di
assedio degli agenti dell’esercito messicano misero fine a “El Pueblito” e alla strana società che viveva sotto scacco dei
Maizerones, la potente cupola criminale
che controllava di fatto la prigione.
L’incubo del nostro prigioniero yankee
comincia proprio quando entra in collisione con i “maiali che mangiano mais” (il significato di Maizerones) e sono guai. Forte è la sensazione che questo nuovo eroe
di Gibson riassuma in sé le caratteristiche
di alcuni celebri personaggi cui l’attore ha
dato corpo e volto: dal folle poliziotto Martin Riggs della serie di Arma letale al ‘cattivo maestro’ di L’uomo senza volto (film
con cui debuttò nella regia).
Action movie dalle pennellate ‘dark’ e
‘pulp’, il film paga il debito a un certo cinema di Tarantino e del ‘mariachi’ Robert
Rodriguez, soprattutto nella fase finale.
Epica violenta e furente che sa tanto di
operazione di rilancio di una star in fase
discendente, complici impopolari eccessi
di razzismo e violenza. Con un viso reso
ancora più ruvido dal passare degli anni,
Gibson indossa ancora un volta la maschera che gli è più congeniale (e non a caso
la sequenza d’apertura lo ritrae con un travestimento da clown, indossato per l’ultima rapina) e carica di furore cieco la parabola del suo detenuto ‘gringo’. Eroe granitico, ancora una volta invincibile arma letale dai lampi di lucida follia, indole dal
cuore impavido ma anche dalla sensibilità
fuori dall’ordinario.
Ecco di nuovo Mel Gibson (che arriva
anche a imitare l’inimitabile vecchio Clint
Eastwood in un crescendo di vendetta e
furia cieca), aggiornato alla realtà di una
prigione-bidonville messicana che sembra
un girone infernale.
Gli amanti del “gibson-centrismo” apprezzeranno e non mancheranno di gustarsi il loro eroe muoversi al ralenti in sequenze in pieno stile “duello al sole”.
Elena Bartoni
CENA TRA AMICI
(Le prénom)
Francia, Belgio 2012
Regia: Alexandre de la Patellière, Matthieu Delaporte
Produzione: Dimitri Rassam, Jerôme Seydoux, Alexandre de
la Patellière, Matthieu Delaporte, Serge de Poucques, Florian
Genetet-Morel, Romain Le Grand, Adrian Politowski, Gilles
Waterkeyn per Chaspter 2, Pathé, Tf1Film Production, M6
Films, Fargo Films, Nexus Factory, Ufilm
Distribuzione: Eagle Pictures
Prima: (Roma 6-7-2012; Milano 6-7-2012)
Soggetto: dall’opera teatrale “Le prénom” di Alexandre de la
Patellière e Matthieu Delaporte
Sceneggiatura: Alexandre de la Patellière, Mathieu Delaporte
Direttore della fotografia: David Ungaro
Montaggio: Célia Lafitedupont
Musiche: Jérôme Rebotier
Scenografia: Marie Cheminal
Costumi: Anne Schotte
Interpreti: Patrick Bruel (Vincent), Valérie Benguigui (Élisabeth), Charles Berling (Pierre), Guillaume de Tonquedec (Claude), Judith El Zein (Anna), Françoise Fabian (Françoise), Yaniss
Lespert (Porta pizze), Miren Pradier (Infermiera), Alexis Leprise (Apollin), Juliette Levant (Myrtille), Bernard Murat (Ostetrica)
Durata: 109’
Metri: 3000
22
Film
na cena tra amici in un appartamento borghese di Parigi come
tanti in apparenza ma... con tanto sale in più. Il pretesto della cena è presto detto. Vincent, agente immobiliare di
successo sulla quarantina, sta per diventare padre per la prima volta. Viene invitato a cena dalla sorella Elisabeth, detta
Babou e da suo marito Pierre, entrambi
docenti. Alla serata è invitato anche Claude, amico d’infanzia e musicista. Mentre
aspettano l’arrivo di Anna, la moglie di
Vincent perennemente in ritardo, Vincent
viene incalzato da tante domande sulla sua
futura paternità. Ma, quando gli viene chiesto se ha già scelto il nome del bambino,
la sua risposta accende una miccia in tutta la compagnia. Sulle prime restio a rivelare il nome scelto per il nascituro, messo
alle strette dalle domande incalzanti dei
commensali, Vincent finisce per rivelare
che il nome scelto è ... Adolphe. La risposta gela tutti e scatena subito dopo un diluvio di critiche. Il più avvelenato di tutti è
il sinistrorso Pierre che parla di incoscienza e provocazione e di un atto fascista, accusando Vincent di aver fatto una vera e
propria professione di fede. Per tutta risposta Vincent, giocando d’astuzia, risponde che suo figlio farà cambiare al mondo
la fama di quel nome. Ma non passano molti minuti che Claude capisce che Vincent
ha provocatoriamente mentito. Ottenuta a
quattr’occhi la confessione che il nome realmente scelto è Henri, Claude è costretto
a promettere di non svelare per ora il gioco. Nel bel mezzo della serata sopraggiunge Anna, che non smentisce la sua fama di
ritardataria. Durante la cena, i commensali aggrediscono anche la madre del nascituro per la scelta infelice del nome. Ignara dell’equivoco, Anna risponde per le rime
a Pierre e Babou dicendo di non accettare
lezioni suoi nomi da due persone che hanno chiamato i loro figli Apollin e Myrtille.
Vincent rincara la dose accusando Pierre
di essere solo uno snob. Il professore a sua
volta accusa Vincent di essere la quintessenza dell’egoismo. Di contro, Vincent accusa Pierre di essere un taccagno. Infine,
viene chiamato in causa anche il mite Claude, accusato di essere gay. Dopo essere
stato bersaglio silenzioso e remissivo dell’ironia di Vincent e Pierre, Claude finisce
per confessare di avere una relazione con
Françoise, la madre di Vincent e Babou.
Non finisce qui, perché viene fuori che
Anna era a conoscenza della cosa perché
li aveva visti insieme. Su tutte le furie, Vincent finisce per aggredire fisicamente Claude scaraventandolo a terra: l’uomo si fa
male sbattendo i denti su un tavolino. Anna
litiga con il marito accusandolo di com-
U
Tutti i film della stagione
portamento violento. Ma la notizia shock
di quella relazione non va giù a Vincent,
anche perché tra Claude e Françoise ci
sono ventisei anni di differenza. Proprio
nel mezzo della discussione, telefona
Françoise, Babou finge indifferenza con la
madre poi le passa Claude che risponde
imbarazzato. Non passano molti minuti che
anche la mite e paziente Babou scoppia in
uno sfogo in cui tira fuori tutte le sue frustrazioni di moglie, madre e figlia repressa. Dopo che Babou è andata a dormire,
Anna va via con Claude offrendosi di accompagnarlo a casa. Rimasti soli, Vincent
e Pierre sfogano le loro insoddisfazioni
coniugali. Prima di andare a letto, Pierre
invita Vincent a rimanere a dormire lì sul
divano.
Quattro mesi e mezzo dopo, a sorpresa, Anna partorisce una femminuccia, la
discussione sul nome si riapre.
utto in una stanza, o quasi. Ma il
ritmo certo non manca in questa
Cena tra... (i puntini di sospensione sono d’obbligo) amici.
In apertura bisogna fare una critica per
la scelta del titolo italiano, questa volta
davvero influente. Se è ormai abitudine
consolidata banalizzare in lingua italiana
un titolo originale, questa volta la “libera
traduzione” è davvero penalizzante. Se non
addirittura fuorviante. Se da un lato è vero
che si tratta di una “cena tra amici”, è altrettanto vero che lasciare il titolo originale Le prénom avrebbe senza dubbio valorizzato l’ottima pellicola. Oltretutto di “cene
tra amici” (con o senza cretino) e di “inviti
a cena” (con o senza delitto) ne abbiamo
visti a decine sul grande schermo, forse
troppe.
T
23
Qui, più che cenare, si discute (almeno nella parte iniziale) sulla scelta di un
nome, scintilla (“granata stordente” come
l’hanno definita i due registi) che porta a
una lite familiare dalle impensabili conseguenze. Un gioco di intelligenti rimandi
ruota sul tema del nome per tutto il film. A
partire dai titoli di testa, dove dai nomi del
cast sono rigorosamente esclusi i cognomi. Originale poi l’incipit, unico esterno del
film, che segue il percorso di un ragazzo
che consegna le pizze a domicilio, mentre
si raccontano le tristi biografie dei personaggi a cui sono intitolate le strade percorse dallo scooter.
Tratto da una pièce teatrale di Matthieu Delaporte e Alexandre de la Patellière (che ha registrato incassi record in
tutti i teatri dove è stato rappresentato) e
diretta per il grande schermo dagli stessi
autori, Cena tra amici conferma lo stesso
cast nel passaggio dal teatro al cinema.
Con l’unica eccezione di Charles Berling,
new entry nel film nel ruolo dell’intellettuale della gauche francese nonché padrone di casa Pierre.
Divertente fuoco incrociato di battute,
vera “giostra” verbale, scoppiettante girotondo di equivoci e incomprensioni, efficace quanto impietoso ritratto della media
borghesia francese (ma non solo). I bersagli degli autori colpiscono forte, da una
parte e dall’altra: da un lato l’élite di sinistra radical-chic e intellettuale che si crogiola nei suoi saldi principi e nel suo background culturale di cui è perfetto rappresentante il colto professore Pierre e dall’altro una certa destra, ricca, egocentrica, esibizionista, talvolta un po’ ignorante
e arrogante perfettamente incarnata da
Vincent (ruolo che sembra cucito addos-
Film
so al poliedrico artista francese Patrick
Bruel). Ma tutti e cinque i personaggi sono
delle “maschere” che si indossano nella
vita quotidiana, ognuno interprete della
propria caricatura, personaggi incastrati
alla perfezione, tra leader e dominati, almeno fino all’esplosione del “non detto”.
Molto democraticamente, nel corso del film
ognuno dei personaggi è, con perfetta scelta di tempo, sua volta carnefice e vittima.
Cena tra amici è un altro esempio di
sapiente e dosato mix di leggerezza e intelligenza ‘made in France’ dopo i felici esiti
Tutti i film della stagione
di pellicole come Quasi amici (che ha demolito molti record di incassi) e Piccole
bugie tra amici, interessante “grande freddo” d’Oltralpe.
Un consiglio agli spettatori, non pensate a Carnage, perché, al di là del gruppo di borghesi intenti a discutere in un salotto e destinati a sollevare impietosamente
il velo su tante ipocrisie, di similitudini ce
ne sono davvero poche. A cominciare dal
fatto che nel film di Polanski le due coppie
che si incontrano sono composte da quattro sconosciuti mentre qui il quintetto è le-
gato da parentele e amicizie di vecchia
data (ma ci si conosce poi davvero così
bene?). In questa Cena tra amici si compie davvero un piccolo miracolo di sceneggiatura, riscritta e riadattata magistralmente dai due autori per il grande schermo,
che trabocca di risate, boutade efficacissime, colpi di scena, ritmo.
Finale scoppiettante (in tutti i sensi) con
sorpresa (e ghigno), fuori dal salotto. Da
non perdere.
Elena Bartoni
VIVA L’ITALIA
Italia, 2012
Regia: Massimiliano Bruno
Produzione: Fulvio e Federica Lucisano per Italian International Film in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Prima: (Roma25-10-2012; Milano 25-10-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Massimiliano Bruno, Edoardo
Falcone
Direttore della fotografia: Alessandro Pesci
Montaggio: Patrizio Marone
Musiche: Giuliano Taviani, Carmelo Travia
Scenografia: Sonia Peng
Costumi: Alberto Moretti
ichele Spagnolo è un uomo politico che ha fatto una brillante
carriera nel partito e negli incarichi di governo senza farsi scrupolo di
niente e di nessuno, corrompendo e facendosi corrompere quando occorreva per
raggiungere un obiettivo utile per sé o per
la sua famiglia. In questo modo, ha potuto
aiutare i suoi tre figli che senza di lui ben
poco avrebbero combinato: Susanna, attrice di soap opera e di programmi televisivi di infimo livello continua a lavorare
nonostante la terribile pronuncia che necessiterebbe dell’intervento di un logopedista più che di un insegnante di recitazione; Valerio è un dirigente di un’impresa
che gestisce mense aziendali e potrebbe
adirittura ambire, pur senza capire nulla
di bilanci e di economia aziendale alla nomina di amministratore delegato; Riccardo, pur essendo un ottimo medico ospedaliero non sarebbe stato assunto senza la
telefonata di papà.
Succede però che Michele, in seguito
a un malore accadutogli durante l’incontro con un’escort, sia colpito da una strana sindrome che gli fa perdere i freni inibitori e lo lascia libero di dire tutto quello che gli passa per la testa con tutte le
M
Interpreti: Raoul Bova (Riccardo Spagnolo), Alessandro Gassman
(Valerio Spagnolo), Michele Placido (Michele Spagnolo), Ambra
Angiolini (Susanna Spagnolo), Edoardo Leo (Marco), Maurizio
Mattioli (Antonio), Rocco Papaleo (Tony), Rolando Ravello (Giansanti), Sarah Felberbaum (Valentina), Imma Piro (Giovanna), Camilla Filippi (Elena), Barbara Folchitto (Anna), Nicola Pistoia (Roberto D’Onofrio), Valerio Aprea (Il regista), Ninni Bruschetta (Se
stesso), Stefano Fresi (Santini), Remo Remotti (Annibale), Isa
Barzizza (Marisa), Sergio Fiorentini (Cesare), Lucia Ocone, Sergio Zecca, Edoardo Falcone, Maurizio Lops, Urbano Lione.
Durata: 111’
Metri: 2780
immaginabili conseguenze. Così i tre figli che si sono sempre detestati e visti poco
si trovano costretti a turno a fare la guardia al padre perchè non ne combini qualcuna di troppo e a sfruttare, quasi inconsapevolmente, questa loro obbligata frequentazione per darsi da fare, ora che il
potere del padre si è completamente sgonfiato e diventare persone che più responsabilmente si facciano strada con le proprie forze.
Susanna, sotto la spinta del suo bodyguard innamorato di lei risolve i suoi problemi ortofonici con una logopedista divenendo un’interprete più che capace; Valerio si rompe la testa sui bilanci, grazie
all’aiuto di un collega bravissimo ma privo di appoggi carrieristici e ottiene la nomina ad amministratore delegato (anche
se risultano determinanti alcuni documenti
forniti dal padre capaci di ricattare i colleghi del consiglio di amministrazione);
Riccardo riesce a salvare dalla chiusura il
suo reparto ospedaliero e a scoprire il doloso comportamento del suo primario.
Lo stesso Michele si presenta in conferenza stampa per ammettere il cattivo comportamento di una vita e mettersi a disposizione della magistratura.
24
assimiliano Bruno fa da “entertainer” agli episodi del suo film
leggendo semplicemente alcuni articoli fondamentali della nostra carta
costituzionale per illustrare ciò che è sotto i suoi occhi e quelli di tutti: la corruzione dei politici, l’immoralità dell’ingresso
nel mondo del lavoro solo con le raccomandazioni, gli scandali sessuali, la sanità da terzo mondo difesa da pochi, eroici
paladini, insomma una serie di esempi del
vasto campionario di aberrazione che ha
connotato questo nostro disgraziato Paese.
Naturalmente Bruno tiene la barra fissa sulla commedia e quindi l’orrore è virato
in grottesco e l’amarezza porta alla risata
che difficilmente assume però un carattere
liberatorio quanto piuttosto la sottolineatura della verità da cui chi ride non può prescindere e quindi ride amaro, sbigottito e
indifeso dal racconto di tanto fango.
A realizzare la chiave interpretativa di
base cioè la Costituzione come “capolavoro di fantasia e umorismo” se rapportata con quanto realizzato sotto la sua presunta guida, c’è uno stuolo di attori consumati e di alto livello professionale che ci
accompagnano come tanti Virgilio in mez-
M
Film
zo a una classe dirigente che ha messo in
ginocchio il Paese. È una valanga di situazioni che Placido, Gassman, Bova, Papaleo, la Angelini e tutti gli altri padroneggiano con grande senso dell’humour e una
precisa capacità di rispondere a temi e a
ritmi da Commedia dell’Arte così spinti al-
Tutti i film della stagione
l’eccesso da farci dimenticare amaramente in più di un’occasione che si tratta di
una sequenza terribile di terribili verità.
Il monologo finale di Placido è un
grande pezzo di bravura, la summa delle
capacità di un nostro attore che dobbiamo continuare a tenerci ben stretto e a
lungo, il violento pamphlet su quanto è
stato il recente passato per tutti noi e la
base di quello che può essere costruito
per il futuro.
Basterà?
Fabrizio Moresco
CHEF
(Comme un chef)
Francia 2012
Regia: Daniel Cohen
Produzione: Gaumont, Tf1 Films Production, A Contracorriente
Films, Ufilm, Ina Associazione con Backup Films
Distribuzione: Videa - Cde
Prima: (Roma 22-6-2012; Milano 22-6-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Daniel Cohen
Direttore della fotografia: Robert Fraisse
Montaggio: Géraldine Rétif
Musiche: Nicola Piovani
Scenografia: Hugues Tissandier
Costumi: Emmanuelle Youchnowski
Effetti: Guy Monbillard, Nicolas Borens
arigi. Jacky Bonnot è un trentenne amante della buona cucina e
dotato di talento che sogna di diventare un cuoco di successo e gestire un
grande ristorante. La sua situazione finanziaria precaria (per di più ha una compagna incinta), lo costringe ad accettare piccoli lavori che non riesce mai a tenersi.
Spesso lavora per bistrot dove i clienti vogliono mangiare solo cibi “mordi e fuggi”
e dove la sua creatività non viene capita.
Licenziato dall’ennesimo ristorante, è costretto ad accettare un lavoro da imbianchino in una casa di riposo per sostenere
le spese di un ménage familiare che sta per
allargarsi. Mentre è al lavoro, incontra per
caso Alexandre Lagarde chef pluristellato
la cui fama è minacciata dal gruppo finanziario proprietario del suo ristorante, il
Cargo Lagarde. Alexandre non corrisponde più all’immagine del gruppo perché
costa troppo e rischia di essere licenziato,
soprattutto se, in occasione della presentazione del nuovo menu di primavera di
fronte a un gruppo di severi critici gastronomici, perderà una stella nella valutazione. Colpito dalla fantasia creativa di Jacky
che, nonostante il lavoro da imbianchino
non perde occasione di entrare nelle cucine dell’ospizio per suggerire originali ricette, Alexandre lo assume per uno stage
sperando che lo aiuti a mantenere alta la
fama del suo ristorante. Jacky, entusiasta,
accetta anche se lo stage è gratuito ed è
quindi costretto a tenerlo nascosto alla
P
Interpreti: Jean Reno (Alexandre Lagarde), Michaël Youn
(Jacky Bonnot), Raphaëlle Agogué (Béatrice), Julien Boisselier (Stanislas Matter), Salomé Stévenin (Amandine), Serge
Larivière (Titi), Issa Doumbia (Moussa), Mean Bun-hay
(Chang), Pierre Vernier (Paul Matter), Santiago Segura (Juan),
Geneviève Casile (Madre di Béatrice), André Penvern (Padre
di Béatrice), Rebecca Miquel (Carole), James Gerard (Cyril
Boss), Henri Payet (Thibault), Kentaro (Akio Takenaka), Alban Aumard (Serge Paillard), Ginnie Watson (Marion), Pierre
Aussedat (Gérard de Luz)
Durata: 84’
Metri: 2300
compagna Beatrice. Jacky mette la sua fantasia per modificare le ricette di Lagarde
che non vede di buon occhio quei cambiamenti. Il famoso chef va su tutte le furie
quando Jacky “cita” una sua vecchia ricetta. Lagarde licenzia il giovane aiutante, ma subito dopo si pente e lo riassume.
Intanto la posizione di Alexandre è sempre
più in bilico: tra breve nel suo ristorante
verranno dei critici amanti della nuova
cucina molecolare per giudicare il suo
menu. Le cose si complicano anche per
Jacky: le sue bugie vengono scoperte dalla moglie che scappa fuori Parigi. Lagarde accompagna il giovane cuoco a Nevers
a recuperare Beatrice che si trova coi genitori a cena nel ristorante di proprietà di
Carole, una donna affascinante che colpisce Alexandre. Grazie all’intervento di Lagarde, Jacky fa la pace con Beatrice. I due
chef tornano a Parigi e Jacky convoca un
cuoco spagnolo celebre per le sue creazioni di cucina molecolare. Dopo un’ardita
dimostrazione culinaria, Lagarde confessa di essere esausto di quella nuova cucina “magica” tanto di moda. Ma il tempo
stringe e Alexandre ha solo due giorni per
inventare un nuovo menu. In compagnia
di Jacky, lo chef si reca in perlustrazione
nel ristorante più “in”specializzato in cucina molecolare. Travestiti come una coppia di coniugi giapponesi, i due assaggiano specialità come champagne all’azoto,
vino senza alcool e uva e strani dessert dai
colori sgargianti. Dopo aver rubato dei
25
“campioni” di cibo, i due chef se la danno
a gambe. Il giorno dopo è attesa la visita
dei critici gastronomici al Cargo e contemporaneamente la discussione della tesi di
laurea della figlia di Alexandre. Come se
non bastasse, Beatrice ha le doglie. Il mattino dopo, Alexandre manda Jacky a occuparsi del ristorante decidendo per una volta di dedicarsi a sua figlia, dopo una vita
da padre assente. Dopo aver preparato
un’abbondante colazione per la ragazza,
Lagarde la segue all’università. Intanto al
ristorante è emergenza: i frigoriferi sono
vuoti e Jacky è disperato. Al telefono dall’ospedale Beatrice lo incoraggia ad andare fino in fondo mentre gli annuncia la
nascita della figlia. Il giovane chef fa la
spesa in un piccolo negozio di alimentari
riuscendo a tempo di record a preparare
un nuovo menu. I critici sono senza parole, il nuovo menu di primavera del Cargo
Lagarde è eccezionale perché capace di
coniugare alla perfezione tradizione e innovazione. In sala tutti richiedono la presenza di Lagarde per complimentarsi, ma
lo chef, giunto in extremis, raccoglie gli
applausi confessando che il menu è opera
del giovane Jacky Bonnot presentandolo
come il nuovo chef del Cargo e annunciando il suo ritiro. Per riconquistare Beatrice, Jacky chiede subito un contratto di lavoro. Poi, ottenuta in prestito la Maserati
del suo datore di lavoro, si reca da sua
moglie. Grazie al suo nuovo chef, il Cargo
Lagarde ha mantenuto la sua terza stella.
Film
Alexandre ha lasciato Parigi e ora lavora
a Nevers nel piccolo ristorante della bella
Carole.
hef, una parola (per meglio dire,
un mestiere) di gran moda. Dopo
l’ultima “trovata” in fatto di cucina, con i più grandi cuochi di Francia intenti a uscire dai loro ristoranti-santuari e
a “scendere in strada” per servire le loro
raffinate creazioni a bordo di un bus che il
prossimo settembre farà tappa nei luoghi
più suggestivi di Parigi, anche il cinema
d’Oltralpe entra prepotentemente in cucina. Non che non fosse già successo più
volte in passato, di “commedie gastronomiche” se ne sono viste già parecchie sul
grande schermo, talvolta anche molto “gustose”. Ma ormai la cucina è proprio una
mania dilagante e, dopo innumerevoli programmi televisivi che insegnano a cucinare praticamente a tutti i livelli, libri bestseller pieni di ricette di qualsiasi tipo, talent-show a colpi di mattarelli e sac-à-poche, ecco la chef-mania sbarcare sul gran-
C
Tutti i film della stagione
de schermo. Un piatto light cucinato con
mano delicata dal regista Daniel Cohen,
vero divertissement culinario, Chef mescola gli ingredienti leggeri della commedia
gastronomica con poco pepe e molto zucchero. Tipica grazia d’Oltralpe, niente di più.
Ma sufficiente a sollevare lo spirito.
La commedia percorre il facile binario
dei contrasti: tradizione contro modernità,
cucina francese tradizionale contro la nuova “cucina molecolare”, un giovane cuoco
alle prime armi contro un maturo e navigato chef in crisi d’ispirazione. Dicotomie,
dualismi. E ancora, metropoli contro cittadina, grandi ristoranti con stucchi alle pareti e piccoli ristoranti di provincia. E poi,
manager che devono far quadrare i conti,
programmi televisivi dai grandi ascolti a
base di ricette, fidanzate in dolce attesa,
figlie laureande trascurate da padri assenti.
Sullo sfondo, sorniona, la Parigi della Torre Eiffel e del Trocadero. Come salsa di
accompagnamento, il tocco “made in Italy”
delle musiche spensierate di Nicola Piovani.
Certo, tutto è più o meno scontato e
fin dai primi minuti si intuisce dove le vite
dei due cuochi andranno a parare. Ma i
due interpreti sono davvero indovinati e
capaci di dosare al meglio le loro qualità
istrioniche, Jean Reno è perfetto nel ruolo
di uno chef pluripremiato e Michaël Youn
è capace di usare la sua inconfondibile
mimica facciale e metterla al servizio di un
personaggio un po’ folle ma anche tenero,
un simpatico bugiardo, un genio incompreso dei fornelli (“mi chiamano il Mozart del
piano... di cucina, ovviamente!” dice di sé).
Il richiamo a L’ala o la coscia (1976),
riuscita commedia culinaria con un grande Louis de Funès, è evidente, anche se a
Chef manca quella dose di graffio sociale
del film di Claude Zidi.
Insomma, se quello che state cercando è un piatto delicato, scacciapensieri e
sentimentale, ecco il film che fa per voi.
Ma se cercate qualcosa di più “deciso”
evitate commediole come questa.
Elena Bartoni
21 JUMP STREET
(21 Jump Street)
Stati Uniti, 2012
Regia: Phil Lord, Chris Miller
Produzione: Stephen J. Cannell, Neal H. Moritz per Original Film, Cannell Studios, in associazione con Relativity
Media
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
Prima: (Roma 15-6-2012; Milano 15-6-2012)
Soggetto: Stephen J. Cannell (dalla serie Tv), Patrick Hasburgh (dalla serie Tv), Michael Bacall, Jonah Hill
Sceneggiatura: Michael Bacall
Direttore della fotografia: Barry Peterson
Montaggio: Joel Negron
Musiche: Mark Mothersbaugh
Scenografia: Peter Wenham
Costumi: Leah Katznelson
a serie televisiva “di culto” degli anni Ottanta “21 Jump Street” diventa film. Il celebre indirizzo del titolo si riferisce al liceo dove nel
2005 due giovani poliziotti, Schmidt e
Jenko, sono stati nemici. In seguito, iscrittisi entrambi all’Accademia di Polizia,
sono diventati amici. Ora, sette anni dopo,
anche se non sono certo i migliori poliziotti
del mondo (anzi, a dire il vero, sono davvero dei pasticcioni), ai due viene offerta
la possibilità di cambiare la situazione
quando entrano a far parte dell’unità segreta delle forze di polizia Jump Street, diretta dal Capitano Dickson. Così i due re-
L
Effetti: DuMonde Vfx, Pixel Magic
Interpreti: Jonah Hill (Schmidt), Channing Tatum (Jenko), Brie
Larson (Molly Tracey), Dave Franco (Eric Molson), Rob Riggle (Sig. Walters), Ice Cube (Capitano Dickson), DeRay Davis
(Domingo), Dax Flame (Zack), Chris Parnell (Sig. Gordon),
Ellie Kemper (Griggs), Jake M. Johnson (Preside Dadier), Nick
Offerman (Vice capo Hardy), Holly Robinson Peete (Agente
Judy Hoffs), Johnny Pemberton (Delroy), Stanley Wong (Roman), Justin Hires (Juario), Brett Lapeyrouse (Amir), Lindsey
Broad (Lisa), Caroline Aaron (Annie Schmidt), Joe Chrest
(David Schmidt),Geraldine Singer (Phyllis), Dakota Johnson
(Fugazy), Rye Rye (Jr. Jr.)
Durata: 109’
Metri: 3000
stituiscono distintivo e pistole e, armati di
uno zainetto, devono sfruttare il loro aspetto giovanile per lavorare sotto copertura
nel liceo di Jump Street. Nella scuola gira
un nuovo tipo di droga sintetica. La missione è scoprire chi la spaccia e chi è il
fornitore. Il problema è che gli adolescenti di oggi non hanno nulla a che vedere
con quelli di qualche anno fa, come erano
loro. I due agenti scoprono, così, che quello
che pensavano degli adolescenti è tutto
sbagliato ma soprattutto si accorgono che
entrambi non hanno risolto i loro problemi e devono confrontarsi con le paure e
con l’ansia di essere nuovamente adole26
scenti. Nascosti sotto due nuove identità,
Brad e Doug, i due non conoscono il nuovo mondo giovanile e ne combinano una
dietro l’altra. Oltretutto si scambiano per
errore i compiti e così l’impacciato e grassoccio Schmidt assume l’identità di Doug
trovandosi a contatto con i tipi più “giusti” della scuola capitanati dal fascinoso
leader Eric, mentre il fusto Jenko con il
nome di Brad deve vedersela con una classe di chimica piena di secchioni. Entrati
in contatto con un piccolo spacciatore, i
due sperimentano la nuova droga passando attraverso diverse fasi: dal vomito all’euforia, dall’eccesso di falsa sicurezza
Film
alla sonnolenza. Usciti dall’effetto della
sostanza, non hanno ancora trovato la pista da seguire per capire chi sia il vero
spacciatore. Doug-Schmidt entra sempre
di più nel giro di Eric e si invaghisce della
bella Molly distraendosi dal suo compito,
mentre Brad-Jenko fa colpo sulla professoressa della classe di chimica. Il Capitano Dickson ammonisce i due agenti e li riporta ai loro doveri: la droga si sta espandendo in tutta la scuola e devono trovare
assolutamente lo spacciatore. Dopo una
serie di pedinamenti e dopo aver percorso
una serie di false piste, i due riescono a
risalire al vero fornitore: si tratta dell’insegnante di educazione fisica Walters. Una
serie di vorticosi inseguimenti li portano a
una resa dei conti con un gruppo di motociclisti. Finalmente i due agenti riescono
a catturare Walters. Come ciliegina sulla
torta, Schmidt a sorpresa conquista il cuore
di Molly. I due giovani sbirri rientrano al
loro distretto festeggiati come veri eroi. Ma
devono ancora vedersela col loro capo che
ha in serbo per loro una nuova missione.
i nuovo una coppia comica, di
nuovo due tipi che più diversi non
si può, di nuovo due poliziotti. Ma
questa volta si tratta di due giovanissimi
sbirri, ancora molto imbranati con pistole,
manette e inseguimenti.
Ennesima rivisitazione del gioco degli opposti, da un lato un bullo belloccio e
D
Tutti i film della stagione
ignorante come una capra, dall’altro il
classico secchione grassoccio e imbranato. Infiltrati speciali in un liceo (grazie
alla loro giovane età possono ancora farsi passare per studenti) ne combinano,
neanche a dirlo, di tutti i colori. Il film è la
rivisitazione parodistica della celebre serie televisiva 21 Jump Street che, andata
in onda per cinque stagioni (dal 1987 al
1991), lanciò il giovane Johnny Depp facendolo diventare un idolo delle ragazzine. E proprio il divo maturo fa la sua comparsa a sorpresa (non accreditata) in una
movimentata scena finale. Una ciliegina
su una torta piuttosto tradizionale, una
classica teen comedy che vira in direzione action nel finale.
A onor del vero va sottolineato che la
squadra di lavoro è di tutto rispetto, almeno sulla carta,: lo sceneggiatore Michael
Bacall è lo stesso che ha scritto la commedia Project X – Una festa che spacca,
la coppia di registi (Phil Lord e Christopher
Miller) è la stessa del successo d’animazione Piovono polpette, i produttori sono
nomi di grande esperienza come Neal H.
Moritz (tra i suoi assi nella manica la serie
di The Fast and the Furious) e Stephen J.
Cannell (uno degli ideatori e co-sceneggiatori della serie televisiva cui il film è ispirato). Certamente indovinata la coppia dei
protagonisti: il talentuoso emergente “faccione” di Jonah Hill (che ha sorpreso accanto a Brad Pitt in L’arte di vincere) e il
belloccio Channing Tatum (che ha mostrato i suoi potenti bicipiti sotto la corazza
dell’antico romano nell’epico The Eagle);
giusti tipi per dar vita alla coppia protagonista di sbirri in erba. Il bello è proprio nell’inaspettata inversione di ruoli una volta
tornati tra i banchi: e così il “figo” si trova
ad avvicinarsi agli “sfigati” occhialuti della
classe di chimica e l’ex studente “nerd” si
trova gomito a gomito con i tipi più “cool”
della scuola.
Al di là della storia che ruota attorno al
mix droga-alcool-musica, ovvero le passioni degli adolescenti di ieri come di quelli di
oggi, rispetto ai tanti esempi di film tratti
da serie televisive “di culto” (da Charlie’s
Angels a Starsky & Hutch), questo 21
Jump Street regala un pizzico di pepe in
più semplicemente perché si distacca parecchio dalla sua fonte d’ispirazione, di cui
resta poco più che un omaggio.
Le trovate divertenti non mancano: dai
diversi gradi di sballo conseguenti all’assunzione della nuova micidiale droga sintetica, fino al vorticoso inseguimento finale con fulminei cambi di auto in corsa sulla
tangenziale all’ora di punta. Parafrasando
il grande successo d’animazione del duo
di registi, si può affermare che questa volta, dalle parti del civico 21 di Jump Street,
piovono... risate!
Ma attenzione, solo e soltanto quelle.
Elena Bartoni
UN SAPORE DI RUGGINE E OSSA
(De rouille et d’os)
Francia, Belgio 2012
Regia: Jacques Audiard
Produzione: Jacques Audiard, Martine Cassinelli, Pascal Caucheteux, Antonin Dedet e Alix Raynaud per Why Not Productions, Page 114, France 2 Cinéma, Les Films du Fleuve, Rtbf,
Lumière, Lunanime
Distribuzione: Bim
Prima: (Roma 4-10-2012; Milano 4-10-2012)
Soggetto: dalla raccolta di racconti “Ruggine e Ossa” di Craig
Davidson
Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain
Direttore della fotografia: Stéphane Fontaine
lì vive nel nord della Francia,
solo e precario. Improvvisamente nella sua vita entra Sam, il figlio di cinque anni che conosce appena.
Senza un tetto né un soldo neanche per
mangiare, i due trovano accoglienza a
sud, ad Antibes, in casa della sorella di
Alì. Dopo un breve periodo di assesta-
A
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Alexandre Desplant
Scenografia: Michel Barthélémy
Costumi: Virginie Montel
Interpreti: Marion Cotillard (Stephanie), Matthias Schoenaerts (Ali), Armand Verdure (Sam), Céline Sallette (Louise), Corinne Masiero (Anna), Bouli Lanners (Martial), Jean-Michel
Correia (Richard), Mourad Frarema (Foued)
Durata: 120’
Metri: 3300
mento, tutto sembra essersi sistemato. Il
giovane padre, con un passato da pugile, trova lavoro come buttafuori in una
discoteca e il piccolo Sam riprende ad
andare a scuola. Tuttavia Alì non ha l’indole del genitore, è violento e poco paziente e spesso si dimentica del figlio per
coltivare i suoi interessi, la boxe e le
27
donne. Una sera, nel locale in cui lavora conosce Stéphanie, una bella ragazza
che viene malmenata durante una rissa.
La accompagna a casa scoprendo che è
un’addestratrice di orche e le lascia il
numero di telefono in caso di necessità.
Le loro vicende sembrano separarsi definitivamente, ma in seguito ad un dram-
Film
matico incidente, le loro strade si rincontrano. Infatti Stéphanie durante
un’esibizione a causa di un’orca perde
l’uso delle gambe che le vengono amputate. La donna distrutta psicologicamente chiama Alì: tra i due si instaura un
rapporto di crescente intimità, non privo però di tensioni e incomprensioni.
Grazie ad Alì, Stéphanie ritrova la voglia di vivere, di uscire, andare al mare
e stare tra la gente senza doversi trovare
in imbarazzo per la sua situazione. Si fa
anche costruire su misura delle protesi
di acciaio per poter camminare di nuovo. Iniziano ad avere rapporti sessuali,
ma mentre Alì li vive solamente come uno
sfogo fisico, Stéphanie dà a quei momenti
e alle sensazioni vissute un significato
molto diverso. Intanto Alì si lascia invischiare in un giro di affari illeciti, instaurando telecamere all’interno di uffici e negozi per sorvegliare i dipendenti.
Nel tempo libero viene trascinato a incontri clandestini di lotta, entrando così
nel losco giro delle scommesse. Trascina con lui anche la ragazza che assiste
curiosa e impaurita agli incontri. Presto, per colpa delle telecamere montate
da Alì la sorella (che portava a casa prodotti scaduti) perde il posto al supermercato in cui lavorava. In altre aziende
vengono trovate le telecamere e Alì è costretto a dimettersi dal lavoro. Cacciato
anche dalla sorella, l’uomo abbandona
il figlio e la donna senza dare più notizie e scappa a Bruxelles dove inizia ad
allenarsi per i campionati di boxe. Dopo
qualche tempo, il cognato gli porta il figlio per trascorrere una giornata insieme. Padre e figlio sembrano essersi ri-
Tutti i film della stagione
trovati, giocano a scivolare su un lago
ghiacciato, quando in un attimo di distrazione Sam cade nell’acqua. Alì disperato, a mani nude, comincia a rompere
lo strato di ghiaccio, finché non lo tira
fuori. Il bambino dopo un coma di qualche ora si risveglia. Alì in un momento
così drammatico sente il bisogno di avere Stéphanie al suo fianco e le rivela il
suo amore. Dopo un periodo di convalescenza per le fratture alle mani, Alì ritorna sul podio a vincere i più importanti titoli. Questa volta però al suo fianco
ci sono suo figlio e la sua donna.
resentato all’ultimo Festival di
Cannes Un sapore di ruggine
e ossa è l’ultima pellicola di Jacques Audiard. Il regista francese scrive
la sceneggiatura con Thomas Bidegain
(già cosceneggiatore di Un prophète),
partendo da alcuni racconti del canadese Craig Davidson, ricombinando però il
materiale di partenza con il sentimento
amoroso come elemento coesivo. La trama e la regia sono estremamente coerenti nel seguire uno stesso rischiosissimo movimento, che spinge il film verso
un melodramma brutale e lirico. Una storia d’amore quella raccontata, dove due
anime così diverse l’una dall’altra si incontrano nel momento dello schianto e
si salvano a vicenda. Ci sono alcune ferite che non si possono rimarginare completamente, come spiega la voce off nella
sequenza finale del film. Tuttavia si può
tornare ad affrontare la vita con passione ed entusiasmo, con il sorriso di chi
ha ritrovato la speranza. Viene descritto
un universo dove i corpi sembrano voler
P
lottare per procurarsi un loro spazio e
tentare di stravolgere il destino che gli è
riservato. E nel film corpo e spirito fanno
tutt’uno, si premono e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole.
La comunicazione, specie quella femminile, infatti passa spesso attraverso un
linguaggio muto, ma intimamente comprensivo. Stéphanie “parla” con l’orca marina anche dopo la mutilazione e anche il
“dialogo” sessuale con Alì si approfondisce senza l’uso di parole. Dunque una forma cinematografica all’insegna dell’espressionismo, dei silenzi, dei primi piani e degli sguardi in cui la forza dell’immagine si presta al servizio dell’attore e
del melodramma stesso. Si evidenziano i
contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, anima e carne. Due
persone si ricostruiscono gradualmente
pezzo per pezzo. Il personaggio di Alì è
ruvido, ma capace di una delicatezza reale. Come le bestie va diritto ai bisogni
primari: cibo, sesso e un tetto; quando si
trova a dover fare i conti con la civiltà e le
responsabilità non riesce a stare al passo. Tuttavia conosce il senso della libertà, il potere salvifico della natura e della
bellezza. Stéphanie è una donna carnale
e passionale, che vive d’istinto e di sensazioni. Una volta che riesce a sentire sue
di nuovo le proprie ossa e la propria carne (simbolico è il fatto che si faccia tatuare sulle gambe “destra” e “sinistra”) è in
grado di rimuovere la ruggine che paralizza l’emotività dell’uomo, facendogli ritrovare quella parte di umanità sommersa, che assomiglia vagamente all’amore. La prestanza animalesca di Alì sopperisce all’handicap e alla solitudine di
Stephanie. Quello che c’è in mezzo, dal
sesso consumato in maniera brutale, ai
combattimenti clandestini dell’uomo, ai
bagni sulle luminose spiagge della Costa Azzurra, alle fughe notturne, costituisce lo spazio in cui si applica questa fusione, appunto, di ruggine e ossa. Molto
studiate le musiche e l’uso dei colori e
della fotografia. Ma Audiard si rivela un
vero maestro soprattutto nella direzione
degli attori, con la scelta di due interpreti molto diversi: il bello e aitante attore
belga Matthias Schoenaerts e la splendida Marion Cotillard, capaci di ricreare
un’alchimia perfetta nella costruzione di
un pathos ossessivo. In un’operazione di
impressionante mutilazione, la Cotillard,
lontana da interpretazioni da icona e da
star, conquista con un talento naturale e
una recitazione davvero notevole.
Veronica Barteri
28
Film
Tutti i film della stagione
WORKERS – PRONTI A TUTTO
Italia 2012
Regia: Lorenzo Vignolo
Produzione: Gianluca Curti, Galliano Juso per Margherita Film
e Minerva Film in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: Istituto Luce - Cinecittà
Prima: (Roma11-5-2012; Milano 11-5-2012)
Soggetto: Stefano Sardo, Galliano Juso
Sceneggiatura: Stefano Sardo
Direttore della fotografia: Paolo Bellan
Montaggio: Ian Degrassi
Musiche: Mambassa
Scenografia: Monica Sgambellone
orkers” è il nome di
un’agenzia di lavoro “interinale” con sede a Torino: “Sandro & Sandro” (solo perché suona meglio). In realtà i due si chiamano Sandro e Filippo e se ne vedono passare davanti agli occhi di tutti i colori. Persone di
ogni tipo a caccia di un impiego. I due si
imbattono talvolta in storie eclatanti che è
impossibile non raccontare. I due soci inizieranno i loro racconti in ufficio e li finiranno a cena con due belle ragazze. Seguiamo così tre storie di lavori che nessuno vorrebbe fare ma che qualcuno “pronto a tutto” si presta a svolgere.
La prima storia è Badante e vede protagonista Giacomo, un giovane adulto mai
cresciuto che vive alla giornata, finché il
padrone di casa non lo minaccia di sfratto. Sua madre e la sua ragazza gli negano
l’aiuto e, a quel punto, è costretto ad accettare un lavoro che mai nella vita avrebbe pensato di fare: il badante. Ma il peggio deve ancora venire perché deve occuparsi di Mario Spada, un invalido arrogante, volgare, strafottente, vizioso, attaccabrighe, amante della vodka e degli eccessi. Per Giacomo sarà una delle prove
più difficili della sua vita. Sulle prime disperato per gli atteggiamenti volutamente
provocatori di Spada, Giacomo riesce gradualmente a entrare in confidenza con l’uomo che finisce per confessargli le circostanze tragiche che lo hanno ridotto su
quella sedia a rotelle.
La seconda storia, Cuore toro, segue
le disavventure di Italo, innamorato non
corrisposto di Tania, una commessa di un
negozio di abbigliamento. Un giorno, per
miracolo, la ragazza, cede al corteggiamento insistente del suo ammiratore e accetta un invito a pranzo. Ma, a tavola, Tania si annoia, Italo si dimostra molto imbranato e la conversazione langue, alme-
“W
Costumi: Fiorenza Cipollone
Interpreti: Michelangelo Pulci (Sandro, agente interinale), Alessandro Bianchi (Filippo, agente interinale), Alessandro Tiberi (Giacomo “Badante”), Francesco Pannofino (Mario Spada “Badante”),
Dario Bandiera (Italo “Cuore Toro”), Daniela Virgilio (Tania “Cuore
Toro”), Andrea Bruschi (Omar “Cuore Toro”), Pietro Casella (Giovanni “Cuore Toro”), Nicole Grimaudo (Alice “Il trucco”), Paolo Briguglia (Saro Tartanna “Il trucco”), Nino Frassica (Don Ciccio Tartanna “Il trucco”), Luis Molteni (Leopoldo Miletto “Il trucco”)
Durata: 105’
Metri: 2870
no fino a quando la ragazza, per un equivoco, non crede che il giovane sia un chirurgo. Improvvisamente Tania si mostra
interessata e coinvolta, ma c’è un problema: Italo non è un dottore, sebbene abbia
un camice e un cercapersone. In realtà
l’uomo lavora in un allevamento di tori
come prelevatore di campioni genetici di
esemplari da riproduzione. Ora, complici
le attenzioni di Tania, Italo deve nascondere il suo vero lavoro. Ma le bugie si sa,
hanno le gambe corte. Quando la storia
tra i due sembra procedere a gonfie vele,
Tania scopre la verità. Sulle prime sconvolta, allontana il ragazzo. Ma Italo non
deve vedersela solo con la ragazza di cui è
innamorato, ma anche con la gelosia del
migliore dei tori dell’allevamento, Ramon,
che sembra essersi invaghito proprio del
suo prelevatore di campioni genetici. Sarà
proprio il fascino che Italo ha nei confronti dell’animale che farà ricredere anche la
bella Tania.
La terza storia, la più incredibile, è Il
trucco. Sandro e Filippo la raccontano a
Eva e Eleonora, due splendide ragazze che
accettano il loro invito a cena. La protagonista è Alice, giovane truccatrice precaria in difficoltà. L’unico impiego che
l’agenzia “Workers” riesce a trovarle è
come truccatrice di cadaveri in un’agenzia di pompe funebri. Proprio nel nuovo
posto di lavoro, Alice s’imbatte nel giovane siciliano Saro Tartanna, figlio del superlatitante Don Ciccio, che si presenta all’agenzia per piangere la moglie defunta
Samantha. Ma, per uno scherzo del destino, Alice è la sosia perfetta di Samantha.
Per la ragazza si apre così una nuova opportunità di lavoro: impersonare una defunta. Infatti la ragazza cede alle preghiere di Saro accettando di fingere di essere
la moglie Samantha al cospetto di suo padre, il famigerato boss mafioso Don Cic29
cio Tartanna. La giovane piace così tanto
al suocero che Saro propone ad Alice di
impersonare sua moglie per tutte le riunioni familiari future. Ed ecco che la giovane truccatrice da disoccupata si ritrova
ad avere addirittura un remunerativo doppio lavoro da “attrice”!
l sottotitolo è chiaro Pronti a tutto
... pur di lavorare naturalmente.
Disoccupati o precari, oggi bisogna essere per forza così. Non più lavoratori, meglio Workers, come l’agenzia di lavoro interinale che fa da fil rouge ai tre
episodi del film.
Un’amara constatazione è d’obbligo: la
presenza di precari e disoccupati nel cinema italiano continua esponenzialmente
ad aumentare riflettendo, ahimè, il cambiamento nel mercato del lavoro “reale”. Il
lavoro raccontato ancora una volta “in sua
assenza”, ridendoci su, se possibile. E proprio questi sono gli ingredienti scelti per
Workers – Pronti a tutto: una buona dose
di ironia, la giusta quantità di leggerezza,
un pizzico di sfumature grottesche, et voilà, il dramma della disoccupazione in tempi di crisi è servito in salsa di commedia.
Dietro il progetto c’è Lorenzo Vignolo
che, partendo da un’idea del soggettista
Galliano Juso e con l’aiuto dello sceneggiatore Stefano Sardo, fa diventare film tre
buffe e anche un po’ grottesche storie di
disoccupati.
L’italica “arte di arrangiarsi” è declinata
in tutte le sue forme, ma, dietro una situazione sempre più disperata per giovani e meno
giovani, uomini e donne, laureati e non, si
allunga davvero un’ombra nera. Il primo articolo della Costituzione italiana recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata
sul lavoro”. La domanda immediata che sorge oggi è “Quale?”. Quale lavoro, quale futuro (anzi quale presente), quale dignità? La
I
Film
risposta ce l’abbiamo sotto gli occhi tutti i
giorni. Il film di Vignolo racconta questa realtà restituendoci un ritratto divertente, ma allo
stesso tempo impietoso di tanti giovani che
devono rimboccarsi le maniche rinunciando
ai propri sogni. Certo, sdrammatizzare fa
sempre bene e gli attori chiamati a farlo sono
tutti bravi: a cominciare da un Francesco Pan-
Tutti i film della stagione
nofino dai lampi mefistofelici, a un Dario
Bandiera “raccoglitore di sperma di tori”, per
finire con una Nicole Grimaudo truccatrice
che diviene attrice in un episodio dai lontani
echi pirandelliani.
Il ritmo è agile e l’ambientazione a Torino, città perfetta per un film legato al
mondo del lavoro, è azzeccata: i sorrisi
dunque non mancano insieme a un pizzico di cinismo nella scena finale.
Il presente è duro, il futuro è un grosso
buco nero e forse conviene davvero sdrammatizzare.
Ma basterà riderci su?
Elena Bartoni
TRAVOLTI DALLA CICOGNA
(Un heureux événement)
Francia, Belgio 2011
Regia: Rémi Bezançon
Produzione: Mandarin Cinéma, Gaumont, France 2 Cinéma,
Scope Pictures, Radio Télévision Belge, Francophone (Rtbf)
Distribuzione: Videa-Cde
Prima: (Roma27-7-2012; Milano 27-7-2012)
Soggetto: dal romanzo “Lieto evento” di Eliette Abecassis
Sceneggiatura: Vanessa Portal, Rémi Bezançon
Direttore della fotografia: Antoine Monod
Montaggio: Sophie Reine
Musiche: Boban Apostolov
Scenografia: Maamar Ech Cheikh
Costumi: Christian Schnezier
arbara e Nicolas si conoscono
in una videoteca. In breve tempo fra loro nasce una forte
passione e il desiderio di avere un bambino. La bella notizia non si fa attendere,
Barbara rimane subito incinta e si appresta a vivere i nove mesi più belli della sua
vita.
Le numerose aspettative sulla gestazione, però, vengono travolte dalla cruda realtà fatta di nausee, sbalzi ormonali e un
corpo in continuo mutamento.
Dopo il parto la situazione non migliora. Le notti insonni, le continue richieste
d’attenzione della bimba portano la coppia a una crisi molto profonda. Barbara
esausta lascia Nicolas per qualche giorno
rifugiandosi dalla madre. Qui, lontana da
tutto, riflette sulla sua storia e sul significato di essere madre scoprendo, inoltre, di
essere nuovamente incinta.
Qualche giorno dopo, più serena, ritorna dal compagno e gli annuncia l’arrivo di un nuovo bambino.
B
uando in Francia uscì il libro di
Eliette Abècassis Lieto Evento,
un racconto sui cambiamenti fisici e psicologici durante e dopo la gravidanza, fu un piccolo scandalo. La maternità, da sempre osannata come il periodo
più alto nella vita di una donna, in poche
righe veniva privata di quell’aurea di benessere totalizzante per trasformarsi in un
Q
Effetti: Mac Guff Ligne
Interpreti: Louise Bourgoin (Barbara Dray), Pio Marmaï (Nicolas Malle), Josiane Balasko (Claire, madre di Barbara), Thierry Frémont (Tony),Gabrielle Lazure (Édith, la madre di Nicolas), Firmine Richard (Ostetrica), Anaïs Croze (Daphné),
Daphné Bürki (Katia), Lannick Gautry (Dott. Camille Rose),
Gérard Lubin (Dott. Jonathan Malle), Nicole Valberg (Ginecologa), Louis-Do de Lencquesaing (Jean-François Truffard),
Patrick Spadrille (Daniel), Dominique Baeyens (Sig.ra Tordjmann), Michel Nabokoff (Sig. Tordjman)
Durata: 90’
Metri: 2480
incubo, in un segreto lacerante difficile da
confessare anche nel più intimo dei ginecei.
Da queste premesse è felice intuire la
natura degli attacchi alla scrittrice e non si
può che ammirare il coraggio del regista
Remi Bezançon nel curare la trasposizione cinematografica del romanzo.
La pellicola, ribattezzata da noi Travolti dalla cigogna, si presenta nel trailer e
nel marketing pubblicitario come una commedia frizzante fra pappe, pannolini e notti
insonni. Non è proprio così; anzi utilizzare
questa veste è un po’ sminuire tutto lavoro
del regista e del cast. Travolti dalla cicogna, infatti, è un film dove è il dramma a
imperare, un dramma sottile che si coglie
nei silenzi, un crescendo di emozioni che
culmina con il rifiuto della creatura appena nata.
I due protagonisti pur desiderando ardentemente un figlio si ritrovano impreparati alla sua venuta. Gli equilibri di coppia
cedono il passo alla frustrazione, al risentimento e, non per ultimo, allo scambio di
colpe. I codici comunicativi cambiano, così
come il corpo e i desideri in un progressivo allontanamento che trasforma due
amanti in due estranei.
Bezançon coglie perfettamente ogni
momento di questa evoluzione, lasciando
che sia Barbara, la voce femminile, a raccontarci gli eventi. È proprio la donna, infatti, la “particella impazzita” incapace di
30
conciliare la sua individualità con l’essere
madre e allo stesso tempo compagna.
Ogni personaggio che gravita attorno a lei,
il professore, la madre e ovviamente il fidanzato e la figlia, rivendica un ruolo esclusivo nella sua vita, incapace di comprendere l’universo corrotto dietro uno sguardo assente. Ed è proprio l’egoismo subito
che porta Barbara a lasciare tutto e tutti in
un contrappasso estremo che, nel finale,
si rivelerà l’unica soluzione possibile per
sconfiggere un disagio, solo in apparenza, insormontabile.
A differenza del libro la versione cinematografica concede al pubblico una conclusione che, seppur non esplicita, guarda con ottimismo al futuro, lasciando intendere che certe dinamiche, anche dolorose, fanno parte del processo di accettazione della genitorialità.
Bezançon, inoltre, ha un merito che gli
va riconosciuto: sceglie una forma narrativa particolare che allontana la vicenda da
una qualsiasi forma di universalità. Non sale
in cattedra per annunciare la verità, ma sussurra una delle tante “verità” possibili nell’universo umano. E lo fa con la giusta dose
di leggerezza che non va mai a intaccare
la profondità dei sentimenti espressi dai
protagonisti, in una pellicola dove il dolce e
l’amaro si rincorrono in quello che resta
sempre e comunque “un lieto evento”.
Francesca Piano
Film
Tutti i film della stagione
LA KRYPTONITE NELLA BORSA
Italia 2011
Regia: Ivan Cotroneo
Produzione: Nicola Giuliano e Francesca Cima per Indigo Film
in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: Lucky Red
Prima: (Roma 4-11-2011; Milano 4-11-2011)
Soggetto e Sceneggiatura: Ivan Cotroneo, Monica Rametta, Ludovica Rampoldi
Direttore della fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Giogiò Franchini, Donatella Ruggiero (collaborazione)
Musiche: Pasquale Catalano
Scenografia: Lino Fiorito
apoli, 1973. Giuseppe Sansone,
detto Peppino, è un bambino di
nove anni molto curioso della
vita. Ha lunghi capelli neri con tanto di
boccoli, grandi occhi verdi e porta gli occhiali. Vive in una famiglia numerosa piuttosto curiosa e popolata di personaggi eccentrici. Come suo cugino Gennaro, che è
convinto di essere il supereroe Superman
ed è ossessionato dal minerale kryptonite.
Il ragazzo muore investito da un autobus
e, da quel giorno, appare solamente come
visione nell’immaginazione di Peppino.
Suo padre, che gestisce a Portici un
negozio della Singer di macchine da cucire, tradisce la moglie con Valeria, la figlia
della tabaccaia. Sua madre, Rosaria, fa invece la dattilografa. È una donna insoddisfatta e infelice. E quando si accorge del
tradimento del marito, entra in depressione e decide di chiudersi in casa in assoluto silenzio. Non si occupa più neppure del
figlio.
Il bambino, poco considerato anche dai
suoi amichetti di scuola, resta spesso da
solo. Viene allora seguito e “iniziato” alla
vita dai suoi due giovani zii Salvatore e
Titina, due tipi alternativi che vestono alla
moda e frequentano discoteche e locali trasgressivi dove gira droga a volontà (la ragazza rimarrà incinta del claudicante Elio,
chiamato “o’ zoppo”). Oppure si ritrova a
passare del tempo anche con Assunta, una
zitella amica della madre, che vive nelle
case popolari e sogna un giorno di incontrare l’anima gemella.
Mentre il padre tronca la relazione con
l’amante cercando di riconquistare la moglie, quest’ultima finisce per innamorarsi
del suo analista. Intanto Peppino, per sfuggire ai problemi della sua famiglia, preferisce continuare a viaggiare con la sua fantasia: aggrappato al collo del suo fedele
N
Costumi: Rossano Marchi
Interpreti: Valeria Golino (Rosaria), Cristiana Capotondi (Titina), Luca Zingaretti (Antonio), Libero De Rienzo (Salvatore),
Luigi Catani (Peppino), Vincenzo Nemolato (Gennaro), Monica Nappo (Assunta), Massimiliano Gallo (Arturo), Lucia Ragni (Carmela), Gennaro Cuomo (Federico), Sergio Solli (Vincenzo), Antonia Truppo (Valeria), Rosaria De Cicco (Maestra
Lina), Carmine Borrino (Elio), Nunzia Schiano (Zia Spagnola), Fabrizio Gifuni
(Matarrese)
Durata: 98’
Metri: 2700
amico immaginario “Superman-Gennaro”, vola felice e spensierato sui tetti di
una suggestiva Napoli notturna illuminata solo dalla luna e dalle stelle.
olorato, vivace e molto musicale.
Insomma, come è nelle corde
abituali di Ivan Cotroneo (ideato
re della spumeggiante serie televisiva Tutti pazzi per amore) che, al suo esordio dietro la macchina da presa, regala al pubblico una moderna fiaba napoletana e un’originale lezione sulla diversità. O meglio, sul
diritto alla non-omologazione. Anche quando si è continuamente oggetto di scherno
e di sopraffazione.
Attraverso gli occhioni innocenti di un
ragazzino bruttarello e miope, ma assai
intelligente per la sua età (il debuttante e
promettente Luigi Catani), lo sceneggiatore ci catapulta in un’epoca di grandi illu-
C
31
sioni, sogni a occhi aperti e desideri di trasgressione. Con una colonna sonora densa di suggestioni e di magia, che alterna
Mina e Dalidà a David Bowie, Peppino di
Capri ai Planet Funk.
Il simpatico cugino Gennaro, un Superman in versione partenopea, racchiude in
se tutta la voglia di evasione degli Anni
Settanta, la gioia di vivere e di spaziare
con il cuore e con la mente verso luoghi
lontani e speciali (come la Swinging London in cui vorrebbero scappare i due zii di
Peppino, troppo all’avanguardia per rimanere in quella soffocante realtà).
Siamo in piena rivoluzione sessuale e
le donne, consapevoli e disinibite, rivendicano la propria identità: completamente
nude, si baciano davanti ad un incredulo
Peppino... È la stagione in cui fermentano
le comunità hippie, che affermano la loro
ansia di libertà grazie al linguaggio del
Film
corpo (l’episodio della danza di Zorba è
uno degli intermezzi musicali più frizzanti). Gli anni in cui impazza la disco music
e, tra uno spinello e l’altro, si insinua anche il veleno della LSD (perfino il piccolo
protagonista ne diventa involontario “consumatore”).
La kryptonite nella borsa, tratto dall’omonimo romanzo del 2007 dello scrittore-regista, vuole essere un appassionato omaggio
alla nostalgia di quel particolare periodo della
nostra storia: «Mi parevano giorni così come
tanti – dice Rosaria al figlio, rievocando davanti al mare i tempi in cui andava a ballare
–, non pensavo a niente. Forse era quella la
felicità...» (assomiglia tanto ad una frase pro-
Tutti i film della stagione
nunciata da una delle protagoniste femminili del libro Le ore di Michael Cunningham, di
cui, guarda caso, Cotroneo è il traduttore italiano per Bompiani).
Ma questa opera prima costituisce anche una stravagante fotografia sulla famiglia italiana e sulle sue disfunzioni. Non ci
troviamo di fronte alla tradizionale famiglia
napoletana, ma a una strana “tribù allargata” di sognatori e battitori liberi, ognuno
dei quali vive in un mondo a parte, quasi
da fumetto o da cartoon. Dallo zio studente che passa tutto il giorno sullo stesso libro e impiega ben cinque anni per preparare il primo esame all’università, alla signorina sfigata Assunta (la bravissima
Monica Nappo) che si mette in costume
da bagno sugli scogli nella vana speranza
di fare colpo sugli uomini!
Il film, che mostra una coralità di anime sole e malinconiche in cerca di riscatto, oltre a puntare sulla performance del
baby-prodigio protagonista, si affida alle
interpretazioni degli ottimi Nicola Zingaretti
e Valeria Golino (rispettivamente, padre e
madre del bambino). A completare il bizzarro quadretto di famiglia ci pensano poi
Libero de Rienzo e Cristiana Capotondi,
decisamente a loro agio nel ruolo atipico
di zii “moderni”.
Diego Mondella
PROMETHEUS
(Prometheus)
Stati Uniti, 2012
Regia: Ridley Scott
Produzione: Ridley Scott, Tony Scott, Walter Hill, David Giler
per Scott Free Productions, Brandywine, 20th Century Fox
FilmCorporation
Distribuzione: 20th Century Fox Italia
Prima: (Roma 14-9-2012; Milano 14-9-2012) V.M.: 14
Soggetto: dai personaggi di Dan O’Bannon e Ronald Shusett
Sceneggiatura: Jon Spaihts, Damon Lindelof
Direttore della fotografia: Dariusz Wolski
Montaggio: Pietro Scalia
Musiche: Marc Streitenfeld, Harry Gregson-Williams (musiche
addizionali)
Scenografia: Arthur Max
Costumi: Janty Yates
cozia, 2089. Elizabeth Shaw e
Charlie Holloway, coppia di geologi, scoprono sulla parete di una
grotta una mappa stellare dipinta, simile a
quella già rinvenuta in passato per molte
altre culture antiche non collegate tra loro.
È un invito dai precursori dell’umanità, i
cosiddetti “ingegneri”, pensano i due geologi. Che quattro anni dopo, nel 2093, fanno parte dell’equipaggio di Prometheus,
nave scientifica creata per raggiungere il
luogo nell’universo in cui la disposizione
dei pianeti è identica a quella della mappa
ritrovata. La spedizione è finanziata dall’anziano Peter Weyland, presidente della Weyland Corporation: raggiunta la luna LV223, l’equipaggio viene svegliato dall’ibernazione dall’androide David. La squadra è
sotto il severo comando di Meredith Vickers,
che ordina di non prendere contatto con
nessun alieno qualora dovesse essere trovato durante l’esplorazione di un’enorme
struttura sul pianeta. Struttura all’interno
della quale l’aria torna a essere respirabi-
S
Effetti: Richard Stammers, Trevor Wood, Charley Henley, , MPC,
Weta Digital Ltd., Fuel VFX, Rising Sun Pictures, Hammerhead Productions, Invisible Effects, Prologue Films, Lola Visual Effects, Luma Pictures, Pixel Pirates
Interpreti: Noomi Rapace (Elizabeth Shaw), Michael Fassbender (David), Guy Pearce (Peter Weyland), Idris Elba (Capitano Janek), Logan Marshall-Green (Charlie Holloway), Charlize Theron (Meredith Vickers), Sean Harris (Fifield), Rafe Spall
(Milburn), Kate Dickie (Imora), Emun Elliott (Chance), Benedict Wong (Ravel), Kate Dickie (Ford), Patrick Wilson (Padre
di Shaw), Giannina Facio (Madre di Shaw), Lucy Hutchinson
(Shaw bambina)
Durata: 124’
Metri: 3400
le: prima il cadavere di una creatura aliena, poi alcuni ologrammi degli “ingegneri” in fuga da qualcosa, che appaiono dopo
che David digita alcune strane sequenze in
un’iscrizione nella parete, finalmente si apre
una porta che conduce il gruppo in una stanza piena di cilindri di pietra, con un’enorme monolite a forma di testa umana sullo
sfondo. David prende un cilindro per portarlo sulla nave, dagli altri intanto inizia a
fuoriuscire un liquido scuro e viscoso.
Un’improvvisa tempesta di sabbia li costringe a rientrare sulla nave, ma due componenti del gruppo, Millburn e Fifield, distaccati dagli altri, rimangono a vagare nella
struttura. Saranno attaccati poco dopo, il
primo da una specie di serpente alieno, che
lo ucciderà, il secondo dall’acido che la
stessa creatura gli spruzza sul casco, corrodendolo fino al volto. Sulla nave, intanto,
Shaw comprende che il DNA degli ingegneri
coincide con quello degli umani, mentre
David estrae un campione del liquido nero
dal cilindro, che farà ingerire con l’ingan32
no a Holloway. Poco dopo, Holloway e
Shaw avranno un rapporto sessuale.
L’indomani la squadra di ricognizione
torna nella struttura, in cerca di altre risposte e, soprattutto, di Milburn e Fifield:
ancora una volta all’insaputa del gruppo,
David scopre in una sala di controllo un
ologramma di una mappa stellare che evidenzia la Terra e gli “ingegneri” che la
selezionano come destinazione. In più, in
una capsula simile a quelle per le ibernazioni, trova anche un ingegnere ancora
vivo, in stasi.
Holloway inizia invece a sentirsi male,
infettato dal liquido ingerito la notte prima: Vickers si rifiuta di farlo tornare a bordo e lo uccide con un lanciafiamme per
evitare il contagio con il resto dell’equipaggio. Contro ogni previsione, poi, Shaw
– convinta di essere sterile – scopre di essere rimasta incinta: quella che porta in
grembo però è una creatura non umana.
Fuggirà dal controllo di David e si sottoporrà a un taglio cesareo sul tavolo chi-
Film
rurgico automatizzato della nave, dove riuscirà anche ad “imprigionare” il feto abortito, molto simile ad un calamaro. Vagando su Prometheus, Shaw scopre poi che
Weyland – oltre ad essere padre di Vickers
- non è morto ma ha viaggiato con loro,
deciso a incontrare gli “ingegneri” sperando nella vita eterna. L’uomo prende
così parte all’ultima spedizione nella struttura – che il capitano della nave, Janek,
ha scoperto essere in realtà un’astronave
a sua volta e che, in realtà, quel luogo è
una sorta di base per esperimenti sulle armi
batteriologiche – atta a risvegliare la creatura dormiente nella capsula per il sospirato incontro: David tenta di comunicare con lui, ma l’ingegnere lo decapita e
uccide il resto del gruppo, Weyland compreso. Shaw riesce a fuggire e comunica a
Janek che l’alieno ha riattivato l’astronave per il decollo, con il proposito di raggiungere la Terra e distruggerla. Per evitarlo, Janek e altri due membri si immolano scagliando il Prometheus contro la nave
dell’ingegnere. Vickers riesce ad eiettarsi
prima dell’impatto, ma viene successivamente schiacciata dall’astronave danneggiata. Shaw riesce a raggiungere a sua
volta la suite di Vickers per recuperare
ossigeno e, poco dopo, la testa di David le
comunica che l’ingegnere è ancora vivo e
la sta raggiungendo per ucciderla. A fer-
Tutti i film della stagione
marlo ci penserà il feto alieno, ora gigante: Shaw raggiunge la testa e il corpo di
David e, insieme a lui, riesce a decollare
con un’altra astronave aliena. Il nuovo
obiettivo è quello di raggiungere il vero
pianeta degli ingegneri e capire perché,
dopo averla creata, hanno deciso di annientare l’umanità. Su Prometheus, nel
frattempo, dal petto dell’ingegnere prende
vita una spaventosa creatura aliena...
he cos’è Prometheus? Meglio:
che cosa voleva essere nelle intenzioni di Ridley Scott? Ce lo
siamo chiesti in molti, dall’annuncio della
lavorazione del film: ce lo chiediamo ancora oggi, dopo averlo visto. Sì, perché
fatto salvo il riuscito ritorno alle atmosfere
di Alien, “arricchite” da un 3D che nulla
aggiunge alla intermittente spettacolarità
del film, il nuovo lavoro del regista di Blade Runner e Il gladiatore sembra continuamente in cerca di una propria identità: prequel? Sequel?, Reboot? Prometheus è
tutto e il contrario di tutto, “torna” al capolavoro del ’79 ma ne dimentica la portata,
pone domande sull’inizio del tutto e fornisce risposte poco soddisfacenti (ammesso il genere umano sia stato “creato” da
questi “ingegneri”, perché ora lo vogliono
eliminare?), risposte che un inequivocabile finale rimanda a un altro futuro, succes-
C
sivo al 2093, di certo più vicino al 2122,
anno in cui il tenente Ripley (Sigourney
Weaver) affrontò per la prima volta le mostruose creature. E allora il senso più ampio dell’operazione sembra trovare una
certa collocazione, pur rimanendo il film
zoppo sotto molti punti di vista: credibile
nella prima parte, dal preambolo alla prima missione esplorativa, finisce poi per
sgretolarsi di fronte a un cambio di rotta
che prevede più “azione” e poca suggestione. Abbastanza prevedibile nei colpi a
“sorpresa”, obiettivamente “stanco” nella
riproposizione di alcuni (auto)omaggi nemmeno troppo celati – il cesareo che ricorda il sogno di Ripley con la creatura che
fuoriesce dal ventre – e la sempre più crescente sensazione della perdita costante
di un centro intorno cui far ruotare l’intera
struttura, Prometheus fa anche molto poco
per approfondire alcuni personaggi chiave del racconto, come l’algida e sin troppo
severa Vickers (d’accordo, il padre le ha
preferito un androide: tutto qui?), in un gioco di “resistenza” che, come ampiamente
previsto, fa della sempre più sopravvalutata Noomi Rapace l’highlander di baracca e burattini. Con l’androide Fassbender
al seguito, ovviamente da rimontare durante il tragitto. Che porterà a Prometheus 2.
Valerio Sammarco
ELLES
(Elles)
Francia, Polonia, Germania 2011
Regia: Malgorzata Szumowska
Produzione: Slot Machine in coproduzione con Zentropa International Poland, Zentropa International Köl, Canal+ Poland,
Zdf Shot Szumowski, Liberator Productions
Distribuzione: 20th Century Fox Italia
Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012) V.M.: 14
Soggetto e Sceneggiatura: Tine Byrckel, Malgorzata Szumowska
Direttore della fotografia: Michal Englert
Montaggio: Pietro Scalia
Musiche: Pawel Mykietyn
Scenografia: Pauline Bourdon
Costumi: Katarzyna Lewinska
Interpreti: Juliette Binoche (Anne), Anaïs Demoustier (Char-
nne è una donna borghese, giornalista del magazine “Elles” e
con il marito, ben posizionato con
un lavoro di livello e con due figli, uno piccolo e l’altro adolescente in fase di ribellione e spinelli, costituisce una classica famiglia del ceto medio alto, piena di impe-
A
lotte), Joanna Kulig (Alicja), Louis-Do de Lencquesaing (Patrick), Krystyna Janda (Madre di Alicja), Andrzej Chyra (Cliente Sadico), Ali Marhyar (Saïd), Jean-Marie Binoche (Padre
di Anne), François Civil (Florent), Pablo Beugnet (Stéphane), Valérie Dréville (Madre di Charlotte), Jean-Louis Coulloc’h (Padre di Charlotte), Arthur Moncia (Thomas), Scali Delpeyrat (Charles), Laurence Ragon (Colette), Alain Libolt (Marito di Colette), José Fumanal (Cliente), Laurent Jumeaucourt (Cliente), Nicolas Layani (Cliente con la chitarra), Swann
Arlaud (Cliente Giovane), Martine Vandeville (Segretaria
Università), Jenny Bellay (Vicina),Tom Henin (Amico di Florent)
Durata: 96’
Metri: 2630
gni, contatti che contano, cene con amici,
qualche malumore, qualche interrogativo
e, naturalmente, infelicità.
Anne riceve l’incarico di dedicare un
articolo inchiesta al fenomeno della prostituzione tra le studentesse di Parigi. Conosce così la francese Charlotte e la po-
33
lacca Alicja le cui prime rivelazioni spiegano alla giornalista un’esperienza comune molto semplice: arrivate a Parigi per
iscriversi all’università, sono state sommerse entrambe dalla varietà di problemi
e di costi (appartamenti, tasse, libri, vitto,
telefonini etc) per lo più insostenibili, pur
Film
con l’aiuto di una base familiare che si rivela presto insufficiente.
La soluzione è presto trovata: ufficializzare tramite internet la propria disponibilità per prestazioni sessuali a pagamento: le risposte subissano il sito delle ragazze pochi minuti dopo la loro apertura;
è un fiume di messaggi che richiedono alle
studentesse appuntamenti, prestazioni e
fantasie erotiche.
Ad Anne le due ragazze fanno i loro racconti con grande naturalezza presentando
un mondo molto comune di cui sono protagonisti uomini che hanno per lo più l’età
dei loro padri e che hanno soprattutto bisogno di essere ascoltati, coccolati, capiti
(spesso parlano della moglie e dei figli o
suonano la chitarra) e in cui l’atto sessuale
non rappresenta la parte primaria.
La giornalista resta annichilita da questo fiume di situazioni per lei impensabili e
ne risulta turbata, presa, scossa, sconvolta.
Soprattutto mette a confronto i racconti di
sesso, la disponibilità, il piacere che gli
uomini traggono dagli incontri con le due
ragazze con la povertà dei sensi che caratterizza il suo nucleo familiare, così perfetto
e così vuoto, i mille impegni e adempimenti
a cui lei deve far fronte che la distraggono
e la distolgono da una vicinanza fisica con
il marito indifferente e disinteressato.
Al culmine di una cena in casa, dove,
come in una visione, crede di vedere seduti a tavola gli uomini incontrati da Char-
Tutti i film della stagione
lotte e Alicja, Anne esce a fare un giro all’aria aperta per pensare a come dare una
svolta alla sua vita: torna e si offre al marito per un incontro di sesso, lui rifiuta,
meravigliato e seccato per questa iniziativa noiosa e imprevista.
La mattina dopo tutto è tranquillo: la
famiglia è a tavola per la colazione nella
banale ripetizione dei gesti consueti in cui
tutti riconoscono con sgomento la propria
solitudine.
a vita è questa qui, forse c’è ancora qualcuno che non se n’è accorto? O meglio, è quella che l’essere umano impazzito ha pensato di costruirsi affidando al denaro e a una spietata
competizione senza freni il significato centrale dell’esistenza: è ovvio che in questo
modo a disposizione di tutti resti un terreno
arido dove non si può impiantare alcunché,
ma solo altre piattaforme, altri trampolini
adatti a proiettarsi verso traguardi sempre
più lontani, sempre più insteriliti.
È inutile che Anne si accorga finalmente di quale forza repressiva sia composto il
quadro esistenziale in cui prima si dibatte e
poi cerca di liberarsi senza riuscirci. È inutile per la buona borghese/giornalista/moglie/
madre/cuoca/intrattenitrice urlare alla notte quel bisogno improvviso di sensi da calmare dopo essere stata stuzzicata e incendiata dai racconti delle due studentesse.
Ormai è tardi e la strada che Anne si è la-
L
sciata dietro le spalle è troppo lunga: ridicoli, goffi e da tempo accantonati e dimenticati risultano per un compagno infastidito
(che molto probabilmente frequenta anche
lui studentesse) i suoi ultimi slanci, somiglianti più ai richiami di un naufrago che a
un gesto di sensuale coinvolgimento.
Di tutto questo parla il film che mette
subito in chiaro il disinteresse per un’indagine sociologica che non gli appartiene (preferendo l’inquadratura patinata di nudi e d’incontri alternati agli studi di colori e sfumature), anche se l’argomento esiste, decine
di migliaia sono le studentesse francesi che
si prostituiscono per vivere nel confort quando frequentano l’università e altri film lo
hanno già trattato. È un film dedicato al percorso che la protagonista compie sgretolando le proprie certezze e facendo affiorare smarrimenti e pulsioni di cui prende atto,
anche se tardivamente come detto, con
coraggio e determinazione.
A tutto ciò Juliette Binoche presta il suo
bel volto come un pianoforte di colori per
dipingervi sopra la confusione, i turbamenti, il desiderio, la forza dei sensi, la dolcezza e tanti, tanti; perché spesso spinosi che
la oscurano e la segnano con una spietatezza che solo la padronanza di una grande attrice è in grado di gestire, offrendo
nei primi piani se stessa come un grande
dono di sofferenza, d’arte e d’amore.
Fabrizio Moresco
DETACHMENT – IL DISTACCO
(Detachment)
Stati Uniti, 2011
Regia: Tony Kaye
Produzione: Greg Shapiro, Austin Stark, Benji Kohn, Chris
Papavasiliou, Bingo Gubelmann, Carl Lund per Paper Street
Films, Kingsgate Films, in associazione con Appian Way
Distribuzione: Officine Obu
Prima: (Roma22-6-2012; Milano 22-6-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Carl Lund
Direttore della fotografia: Tony Kaye
Montaggio: Barry Alexander Brown
Musiche: The Newton Brothers
enry Barthes, supplente di letteratura, è un uomo solitario che
tiene tutti a distanza. Entra ed
esce dalla vita degli studenti cercando di
lasciare qualche insegnamento come meglio
può. Henry si porta dietro un carico di dolore e di sofferenza irrisolti; una madre suicida quando lui era ancora bambino, vittima forse di un’oscura vicenda di incesto.
I fantasmi del passato, i ricordi dei giorni felici, la scoperta del corpo esanime del-
H
Scenografia: Jade Healy
Costumi: Wendy Partridge
Interpreti: Adrien Brody (Henry Barthes), Sami Gayle (Erica), Christina Hendricks (Sarah Madison), James Caan (Charles Seaboldt), Lucy Liu (Dott.ssa Doris Parker), Tim Blake
Nelson (Sig. Wiatt), Blythe Danner (Sig.ra Perkins), Marcia
Gay Harden (Preside Carol Dearden), Betty Kaye (Meredith),
William Petersen (Sarge Kepler)
Durata: 100’
Metri: 2750
la madre sono sempre lì a tormentare le sue
notti e i suoi momenti di vuoto e solitudine
in cui si chiede quale sia il senso della vita.
Henry è solo al mondo fatta eccezione
per l’unico legame familiare che ha con il
nonno, ricoverato in una clinica, che lui
assiste amorevolmente ogni volta che può.
Quando un nuovo incarico lo porta in
una degradata scuola pubblica di periferia, il mondo di Henry subisce una forte
scossa attraverso gli incontri con studen34
ti privi di speranze per il futuro e con colleghi insegnanti disillusi e demoralizzati.
La sua vita viene, in particolare, sconvolta dall’incontro con Erica una prostituta adolescente in fuga dalla famiglia;
Henry le dà riparo in casa sua, respinge le
avances della ragazzina abituata a vendersi con chiunque e piano piano cerca di affrancarla dalla sua squallida realtà.
Erica si insinua nella vita di Henry che
per lei rappresenta un’ancora di salvezza,
Film
va spesso a tenere compagnia al nonno di
lui ed è sempre lei ad avvisare Henry quando il vecchio è prossimo alla fine.
Nel contempo Henry instaura un rapporto di profonda sintonia con Meredith un’alunna particolarmente dotata ma oggetto di derisione e disprezzo, sia in casa che a scuola,
per il suo aspetto fisico. Schiacciata dal conflitto con il padre, la ragazza non regge più e
arriva all’atto estremo suicidandosi durante
una festa scolastica.
Per Henry è un colpo; in fondo la sensibilità e il disagio di Meredith sono lo
specchio in cui lui vede riflesso il suo stesso male di vivere.
Per questo alla fine decide, forse per
la prima volta nella sua vita, a non farsi
sopraffare dagli eventi e allerta i servizi
sociali perché si prendano cura di Erica.
La giovane inizialmente si ribella e si
dispera, ma è solo affrancandosi da una
esistenza disperata che si possono creare i
presupposti per un legame più duraturo,
sereno e consapevole con l’uomo che le ha
salvato la vita.
n uomo solo con un’antica ferita,
un dolore irrisolto, un buco nero
dell’anima e un distacco da tutto
quanto vive e palpita. E poi una scuola ormai votata al fallimento della sua missione primaria, docenti demotivati e impotenti,
genitori assenti e deleganti, giovani senza
ambizioni, violenti e aridi.
L’eclettico artista britannico Tony Kaye,
cantante, compositore e pittore, già regista di American History X con Detachment
ci porta a esplorare questo mondo di sofferenze personali e lo contestualizza in un
ritratto non convenzionale delle falle del
sistema di istruzione americano.
Certamente la tematica dell’educazione scolastica è abbastanza ricorrente nel
cinema e la memoria corre subito a L’attimo fuggente di Peter Weir; anche lì c’era
un professore in grado di cogliere l’essenza dei suoi alunni, il passato difficile, un
suicidio. Ma, fatte le doverose e necessarie differenze, l’elemento che accomuna le
due pellicole sono i giovani con le loro perenni inquietudini, alla ricerca di uno scopo di vita per cui lottare.
Detachment è un film ostico, duro che
scava nei malesseri delle anime e arriva
diretto allo stomaco come un gancio ben
assestato; tuttavia interessante e girato con
uno stile particolare a metà strada tra il
documentario e il dramma.
Kaye, infatti, adotta la tecnica del
Mockumentary inserendo nella trama
spezzoni di interviste che servono a farci
capire ciò che il protagonista realmente
pensa ma non dice apertamente, quasi ad
U
Tutti i film della stagione
entrare e uscire dalla sua mente e che rendono veritiero tutto il racconto.
Gli occhi di Henry Barthes, superbamente interpretato dal premio Oscar (Il pianista)
Adrien Brody, sono vuoti e spenti come possono esserlo quelli di un bambino che assiste impotente a una tragedia familiare che
ne segna il suo destino di dolore.
“Falliamo – esclama durante una delle
sue solitarie elucubrazioni – perché deludiamo tutti compresi noi stessi”.
Fare il supplente, non a caso, gli consente di evitare l’eccessivo coinvolgimento con
gli altri, come gli alunni difficili di quartieri degradati. Tuttavia come docente è in grado di
instillare in loro una visione più ampia e, paradossalmente, più ottimistica del futuro.
Così se da un lato la sintonia che si instaura tra Henry e Meredith (Betty Kaye,
figlia del regista) poco a poco crea delle frat-
ture nel muro che Henry ha eretto tra lui e il
mondo, dall’altro assume valore catartico
l’incontro con Erica (la quindicenne Sami
Gayle), la ragazzina che si prostituisce e
che Henry cerca di affrancare dalla sua
squallida realtà per recuperarla alla vita.
Ad affiancare Brody un nutrito cast di
attori tra cui Marcia Gay Harden (Mystic
River, Oscar come non protagonista per
Pollock) il veterano James Caan e Lucy
Liu (Charlie’s Angels, Kill Bill).
La pellicola ha raccolto diversi apprezzamenti sia dalla critica che dal pubblico
in diverse manifestazioni quali: il TriBeCa
Film Festival, il Festival del cinema americano di Deauville, il Tokyo International
Film Festival, il Festival di San Paolo, il
Woodstock Film Festival.
Cristina Giovannini
L’ESTATE DI GIACOMO
Italia, Belgio, Francia 2011
Regia: Alessandro Comodin
Produzione: Paolo Benzi, Alessandro Comosin, Marie Géhin, Réjane Michel, Valérianne Boué, Stéphane Lehembre, Yov Moor, Thomas Bertacche e Sabrina Baracetti
per Faber Film, Les Films Nus, Les Films D’Ici, Tucker Film in coproduzione con
Wallpaper Productions, Cba
Distribuzione: Tucker Film
Prima: (Roma20-7-2012; Milano 20-7-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Alessandro Comodin
Direttore della fotografia: Tristan Bordmann, Alessandro Comodin, Jan-Jacques Quinet
Montaggio: João Nicolau
Interpreti: Giacomo Zulian (Giacomo), Stefania Comodin (Stefania), Barbara Colombo (Barbara)
Durata: 78’
Metri: 2150
35
Film
iamo in estate nella campagna
friulana vicina alle rive del Tagliamento. Giacomo, diciottenne
rimasto sordo da piccolo e Stefania sua
amica d’infanzia sedicenne, percorrono un
sentiero stretto tra rovi e pantani fangosi.
Come in una favola, si perdono nel bosco
e, dopo un lungo cammino, si ritrovano in
un luogo paradisiaco sulle rive del fiume.
E lì avviene una vera esperienza dei sensi:
fanno il bagno, scherzano, si sfiorano, si
provocano, fanno un picnic. Di sera vanno a una festa popolare, salgono su una
giostra e girano fino a stordirsi, ballano.
Sono vicini, molto vicini. Come lo sono di
nuovo al fiume mentre giocano a tirarsi il
fango e ancora su una bicicletta che percorre i grandi spazi aperti al tramonto.
Nella scena successiva Giacomo è sulle
rive del fiume, ma con una compagna diversa: questa volta accanto a lui c’è Barbara
una giovane sordomuta come lui. La ragazza affida alle sue parole il ricordo delle grandi
emozioni vissute insieme a Giacomo con cui
ha fatto l’amore per la prima volta. Nel racconto di Barbara c’è però forte il timore che
Giacomo non capisca quanto lei lo ama, ma
soprattutto la paura che tutto finisca lasciandola sola con la sua sofferenza.
S
n soffio o poco più, un piccolo
“racconto d’estate”, una fiaba
moderna girata con stile minima
lista, L’estate di Giacomo è il primo lungometraggio del friulano Alessandro Comodin, classe 1982.
A metà strada tra documentario e film
di finzione, L’estate di Giacomo ha il pregio dell’originalità, collocandosi in un territorio finora mai occupato dal cinema italiano. Il debito a un certo cinema francese
influenzato dalla nouvelle vague è chiaro
U
Tutti i film della stagione
(in particolare, ma solo a tratti, l’influsso
dei racconti delle ‘quattro stagioni’ di Rohmer), ma non solo, forse ciò che salta di
più agli occhi è la lezione dei documentaristi teorici di quel “cinema-verità” alla maniera di Jean Rouch in cui si penetra nell’intimità della vita quotidiana e in cui la
macchina da presa fissa la tempesta di
percezioni vissuta dal protagonista.
Natura e sentimenti si fondono in un
percorso che trova la sua ragione di fondo
in luoghi, rumori, suoni, luci, colori. Un film
di atmosfere che mette in scena l’educazione affettiva di un adolescente sordo, un
ragazzo diviso fra l’amica che lo accompagna per quasi tutto il film, Stefania, e Barbara, non udente come lui e destinata a
condividere con Giacomo un’esperienza
profonda in una scena finale rivelatrice della paura come conseguenza inevitabile
dell’abbandono amoroso.
L’estate di Giacomo è immerso per quasi tutta la sua durata in un’atmosfera simile
a quella dei sogni, come un invito a immergersi di nuovo nel ricordo della nostra adolescenza con tutto il suo bagaglio di emozioni. Un “docu-sogno”, lontano dal presente
e immerso nella memoria di un passato
dolce. Le lunghe inquadrature iniziali con
cui il regista segue, quasi pedina, i personaggi di spalle, rendono sulle prime il racconto un po’estenuante. Il ritmo cadenzato
prosegue nella lunga scena sulle rive del
fiume in cui i due ragazzi si provocano come
in una lotta danzata nelle acque del fiume.
Giacomo biascica parole poco comprensibili, mentre Stefania parla pochissimo. Nelle scene seguenti la macchina da presa
continua a pedinare i due ragazzi, mentre
solo nel finale entra in scena Barbara, l’altra figura femminile del film.
Una serie di lunghi piani-sequenza fis-
sano per immagini le azioni dei ragazzi che
si muovono spontanei. La scena d’apertura
è simbolica e di forte impatto: Giacomo, ripreso di spalle con un evidente apparecchio
acustico nelle orecchie, suona la batteria, il
suo battere forte sui piatti restituisce il suo
mondo, quasi la sua anima che, al contrario,
è prigioniera del silenzio. Un contrasto semplice ma forte che percorre come una corrente sotterranea tutto il film come la dicotomia tra la natura idilliaca e lo sconquasso
emotivo vissuto dal giovane protagonista.
Il film ha una marcata origine autobiografica: il regista ha trascorso la sua infanzia
sulle rive del Tagliamento e ha conosciuto
davvero Giacomo, il fratellino minore di un
amico, quando era un bambino sordo. Dieci
anni dopo lo ha ritrovato in procinto di operarsi per sentire per la prima volta e ha deciso poi di farne una fiaba moderna con l’intento di rendere, parole sue, “la realtà il più
astratta possibile così da rarefarla e farla diventare una sensazione, un sentimento”.
Un percorso esemplare quello di Comodin, diplomatosi in regia presso l’Institut National Supérieur des Arts du Spectacle di
Bruxelles e che ha trovato il suo primo importante riconoscimento con il Pardo d’oro
– Cineasti del Presente nel 2011 al Festival
di Locarno per questo film, una coraggiosa
co-produzione italo-franco-belga.
Un’opera riservata agli spettatori
amanti di un cinema di atmosfere che cercano la delicatezza di un tocco, di un respiro, di un momento fuggevole.
Il dolceamaro ricordo di un’ultima estate della giovinezza che ha il pregio di tenersi alla larga da tanti insopportabili toni
falsamente paternalistici legati al tema
della disabilità.
Elena Bartoni
LA BICICLETTA VERDE
(Wadjda)
Arabia Saudita, Germania 2012
Regia: Haifaa Al Mansour
Produzione: Razor Film in coproduzione con High Look Group
e Rotana Studios in cooperazione con Norddeutscher Rundfunk e Bayerischer Rundfunk
Distribuzione: Academy 2
Prima: (Roma6-12-2012; Milano 6-12-2012)
Soggettoe Sceneggiatura: Haifaa Al Mansour
Direttore della fotografia: Lutz Reitemeier
Montaggio: Andreas Wodraschke
R
yadh, Arabia Saudita.
Wadjda, ragazzina di dieci anni,
amata da una bellissima mamma
Musiche: Max Richter
Scenografia: Thomas Molt
Costumi: Peter Pohl
Interpreti: Waad Mohammed (Wadjda), Reem Abdullah (Madre), Abdullrahman Al Gohani (Abdullah), Ahd Kamel (Hussa),
Sultan Al Assaf (Padre)
Durata: 97’
Metri: 2660
che desidera aiutarla in tutti i modi a diventare una donna moderna di un’auspicabile moderna nazione araba e da un papà
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che ama entrambi, ma che è spinto da altre
opportunità a prendere una seconda moglie,
ha un grande desiderio, possedere una bi-
Film
cicletta. Per questo Wadjda cerca di raggranellare tutti i soldi che può, anche vendendo a scuola braccialetti che fa in casa,
per comprare la bellissima bicicletta verde
in mostra presso il negozio vicino.
Il desiderio della bicicletta, con cui potrebbe gareggiare con il suo amichetto Abdullah, rappresenta il culmine di un comportamento che spesso diventa trasgressione, che la madre cerca soprattutto di comprendere e che l’occhiuta direttrice della
scuola cerca di smorzare e reprimere.
Comunque l’unica strada percorribile
per poter mettere insieme gli ottocento
ryals necessari all’acquisto è una gara
coranica, il cui primo premio rappresenta
proprio il gruzzolo necessario.
Wadjda si impegna molto nello studio
e vince la gara coranica: al momento però
in cui esprime il desiderio di comprare
l’oggetto tanto agognato, la direttrice severamente impone che i soldi siano devoluti alla causa palestinese.
Le lacrime della bambina hanno però
breve durata: al ritorno a casa trova la bicicletta verde comprata dalla mamma.
un gruppo di scolare un po’ rumorose la direttrice ricorda alcuni capisaldi della legge coranica:
“La voce della donna deve arrivare fino alla
soglia di casa, non oltre, è la sua nudità; è
meglio anche che la donna sola in casa
eviti di cantare ad alta voce perchè non sa
chi possa ascoltare dall’altra parte del
muro, non il marito ma un altro uomo che
potrebbe infiammarsi di desiderio...”
Ecco, dobbiamo partire da qui per capire la forza di questo film di Haifaa Al Mansour, la prima ragista saudita che abbia
potuto girare nel suo Paese (dove non esistono sale cinematografiche) e, per di più,
addirittura nella capitale; davvero una trasgressione nella trasgressione. È una ribellione che prende corpo in tutto il film, sostenuto, è da sottolineare, da Amnesty International, gran successo nella sezione
Orizzonti di Venezia 2012, senza mai giudicare, né cadere nella facile retorica di stigmatizzare usi e costumi ancora seppelliti in
un’oscurità tribale, lontana nello spazio e
nel tempo. La regista si limita a mostrare e
lascia che gli altri giudichino, raccontando
le cose in maniera molto semplice, mettendo in risalto i rapporti tra la ragazzina, un’intensa, concentrata, bellissima promessa del
nuovo impegno culturale del mediooriente
e la madre, un’affascinante attrice professionista della televisione araba; ne segue
le giornate, il loro legame espresso in tanti
particolari, la loro complicità nel trovare tra
le strette maglie del reclusorio maschilista
uno strappo, un pertugio che possa permet-
A
Tutti i film della stagione
tere loro di esprimersi come madre, moglie,
figlia, come donne.
Tutto scorre con precisione e naturalezza in questa schermaglia continua tra
il forte telaio del regime che tutto guarda, indica, regola e bacchetta e il continuo logorio della donna che, fortunatamente, non si arrende mai e ha le sue
vittorie toccate dall’ironia e da uno sguardo più ampiamente umano verso ogni
debolezza, cosicchè anche il malfidato
e vigile controllo della guardinga direttri-
ce può, talvolta, zoppicare. Si racconta
che il padre di lei abbia messo in fuga
un uomo entrato di sorpresa nella loro
casa, chi dice trattarsi sicuramente di un
ladro, chi sommessamente avanza la
possibilità (concreta) di un amante di lei,
ipotesi non smentita ufficialmente dall’offesa direttrice....
Una risata, prima o poi, dovrà seppellire tutta la repressione di questo mondo.
Fabrizio Moresco
L’AMORE DURA TRE ANNI
(L’amour dure trois ans)
Francia 2011
Regia: Frédéric Beigbeder
Produzione: The Film, Akn Productions, Europacord, France 2Cinema, Scope Pictures, con la partecipazione di Canal+ e Cine+
Distribuzione: Moviemax
Prima: (Roma27-6-2012; Milano 27-6-2012)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Frédéric Beigbeder
Sceneggiatura: Frédéric Beigbeder, Christophe Turpin, Giles Verdiani
Direttore della fotografia: Yves Cape
Montaggio: Stan Collet
Musiche: Martin Rappeneau
Scenografia: Christian Marti
Costumi: Marie-Laure Lasson
Interpreti: Louise Bourgoin (Alice), Gaspard Proust (Marc Marronnier), Joey Starr
(Jean-Georges), Jonathan Lambert (Pierre),Valérie Lemercier (Francesca Vernesi,
editrice), Frédérique Bel (Kathy), Elisa Sednaoui (Anne), Nicolas Bedos (Antoine),
Bernard Menez (Padre di Marc), Anny Duperey (Madre di Marc),Thomas Jouannet
(Insegnante di surf), Christophe Bourseiller (Parroco), Pom Klementieff (Fidanzata
del padre),Camille Verschuere (Flore), Chloé Beigbeder (Bambino), Victoria Olloqui
(Inès), Alain Buron (Giudice), Alain Kruger (Dottore), Frédéric Beigbeder (Soldato
russo)
Durata: 98’
Metri: 2700
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Film
ll’inizio del film lo scrittore Charles Bukowski definisce l’amore
come una nebbiolina che ai primi bagliori della realtà svanisce. Ha poi
inizio il racconto in prima persona dello
scrittore Marc Marronnier e della sua storia d’amore con Anne. Dopo tre anni esatti, il suo matrimonio è finito.
Marc e Anne divorziano perché lei gli
preferisce uno scrittore di successo.
Di nuovo single, Marc, critico letterario e cronista mondano che esce molto la sera per lavoro, cerca conforto dalle
sue pene d’amore nella sua passione per
il cantante Michel Legrand e inizia a
scrivere un libro dal titolo “L’amore
dura tre anni”, un cinico pamphlet che
si basa sulla teoria che l’amore ha una
data di scadenza precisa, tre anni appunto.
Al funerale della nonna, Marc è folgorato da Alice, moglie di suo cugino Antoine. I giorni seguenti i due iniziano a frequentarsi.
Il primo vero incontro d’amore con Alice avviene al bar dell’hotel “Amour”. La
ragazza confessa che trova la coincidenza
originale. Marc si confida con gli amici
Jean-Georges e Pierre. Poco dopo, riceve
una chiamata da Alice: i due si incontrano
e si baciano per la prima volta. Poi fanno
l’amore ma la ragazza ha paura che quando sarà davvero disponibile a lui non interesserà più.
Intanto Marc viene chiamato da una
casa editrice, dove l’editor Francesca Vernesi gli dice di voler pubblicare il suo libro e gli chiede il suo nome d’arte.
Marc confessa agli amici che userà
uno pseudonimo per pubblicare il suo romanzo perché Alice non lo deve sapere
nulla. Dopo un romantico weekend nei
Paesi Baschi, Marc chiede alla ragazza
di lasciare il marito. Poco tempo dopo,
esce il libro di Marc firmato con uno
pseudonimo. Dopo averlo letto, Alice
dice che si tratta di un autore scadente
che confonde il desiderio con l’amore,
parla di logorrea di un poveraccio immaturo. Tornata a casa, Alice trova un
mazzo di fiori regalo del marito per i loro
tre anni di matrimonio ma la ragazza,
puntualmente con la teoria del libro, lo
lascia e torna da Marc. Intanto il libro
ha successo, ma Marc continua a non
volersi mostrare in pubblico, rinunciando anche ai 300.000 euro di diritti d’autore. Il libro vince un premio letterario.
Durante la premiazione, l’editrice legge
un messaggio dell’autore ma poi, a sorpresa, lo presenta rivelandone l’identi-
A
Tutti i film della stagione
tà. Alice vede la notizia in TV. La ragazza fa la valigia e discute con Marc rinfacciandogli la sua falsità: anche il titolo del suo libro è falso perché l’amore
dura meno di tre anni e, oltretutto, spesso, come nel loro caso, non è neanche
amore. Alice lo lascia. Distrutto, Marc
si sfoga prima col padre, un uomo che si
gode la vita, e poi con la madre scrittrice che lo accusa di essere un debosciato. Ora che è uno scrittore famoso, Marc
ha successo con le donne ma è inconsolabile.
Si reca sotto casa di Alice urlandole
la sua disperazione al citofono; poi le
scrive una lettera d’amore. Lui la aspetta tutte le sere nella piazza del loro primo bacio sempre alla stessa ora. Ospite
in un programma televisivo, Marc si rivolge ad Alice in diretta e recita versi
d’amore. Intanto l’editrice si complimenta con lui per il successo del libro e gli
consiglia di andare in Australia a scrivere in un rifugio per scrittori. Poco tempo dopo, Jean-Georges confessa a Marc
il suo colpo di fulmine per un surfista.
72 ore dopo, Marc si trova su una spiaggia a parlare con i due compagni omosessuali. Alice riceve la partecipazione
alle nozze di Jean-Georges con un biglietto che la informa che sarà presente
Marc in procinto di partire per l’Australia dove rimarrà due anni. Durante il matrimonio gay, viene presentata la sorpresa della giornata: Michel Legrand al piano. Subito dopo, arriva Alice. Finalmente
Marc e Alice si baciano appassionatamente in riva al mare mentre un’enorme
onda sta per travolgerli.
ell’amore ... e non solo. Ancora
una grande incognita, forse. Almeno stando alla teoria su cui
ruota il romanzo “L’amore dura tre anni”
di Frédéric Beigbeder da cui il film è tratto.
Prendendo le mosse (e si parte decisamente “alto”, forse troppo) dall’assunto di Charles Bukowski secondo cui
“l’amore è una nebbiolina che scompare
all’apparire della realtà”, L’amore dura tre
anni è una rielaborazione in chiave di
sophisticated comedy del tema dell’amore a scadenza.
La matrice letteraria del film è più che
evidente, l’opera è costruita attorno alle
parole, materia che il regista-scrittore ovviamente padroneggia alla perfezione.
Critico letterario, scrittore, editore, Beigbeder abita e manipola le parole costruendo una sceneggiatura che sembra una
D
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tela intessuta alla perfezione tra rimandi
letterari (da Shakespeare in giù), citazioni cinematografiche, riferimenti musicali.
Il film racconta la costruzione di un romanzo, la sua genesi, i suoi esiti e poi quelle
stesse parole diventano immagini e il libro si fa film. Sicuramente l’universo di
Beigbeder è ricco, sfaccettato, pieno di
riferimenti colti (e meno colti) ma forse un
po’ troppo autoreferenziale quando diventa film. E la sensazione che si tratti solo
di cinico e furbo romanticismo aggiornato al terzo millennio con uno sguardo indietro a illustri ma irraggiungibili “genitori” del passato si fa sempre più forte con
il procedere del film.
Truffaut fa capolino, ma solo con le
dovute cautele si può rintracciare nelle
pene d’amore del nostro Marc un lontano
ricordo delle vicende sentimentali del fu
Antoine Doinel raccontate dal maestro
francese nelle celebri pellicole del ciclo
omonimo.
Quanti agli interpreti, alla luminosa
presenza della fascinosa Louise Bourgoin (vista di recente anche nella commedia sulla “dolce attesa” Travolti dalla
cicogna), non fa da pendant un Gaspard
Proust che, incarnando una sorta di alter-ego vagamente autobiografico del
regista, cerca di fare il verso al DoinelLéaud, ma ne è davvero lontano anni
luce, prigioniero di un personaggio di illuso-disilluso troppo preso dalla sua
gamma ristretta di espressioni tra lo stralunato e l’ammiccante.
Sconfessare la teoria del titolo e del
romanzo è, complice un incontro fatale, la
missione della storia, raccontata dai fiumi
di parole del film condensate in una moltitudine di riflessioni tra il serio e il faceto (e
in una serie di frasi a effetto) ma che alla
fine si rivelano un giochino intriso di ironia
che gira intorno a sé stesso senza dire in
fondo nulla di nuovo nonostante qualche
divertente invenzione visiva.
Alla fine dei conti, la vicenda di Marc e
Alice sembra proprio dimostrare che, no,
l’amore non ha (come uno yogurt) una data
di scadenza esatta, no davvero. E allora?
Allora forse la verità è molto più banale di tante teorie e di tanti filmetti pseudoraffinati ma non privi di una consistente
dose di retorica e di aforismi banali come
questo.
L’amore è eterno... finché dura, sentenziava Carlo Verdone qualche anno fa nel
titolo di un suo film, e forse è semplicemente davvero così.
Elena Bartoni
Film
Tutti i film della stagione
THE RUM DIARY – CRONACHE DI UNA PASSIONE
(The Rum Diary)
Stati Uniti 2011
Regia: Bruce Robinson
Produzione: Graham King, Tim Headington, Johnny Depp,
Robert Kravis, Anthony Rhulen, Christi Dembrowski per Filmengine, Dark & Stormy Entertainment, Gk Films, Infinitum
Nihil Production
Distribuzione: 01 Distribution
Prima: (Roma 24-4-2012; Milano 24-4-2012)
Soggetto: dal romanzo autobiografico di Hunter S. Thompson
Sceneggiatura: Bruce Robinson
Direttore della fotografia: Dariusz Wolski
Montaggio: Carol Littleton
Musiche: Christopher Young
Scenografia: Chris Seagers
an Juan, Porto Rico, 1960. Paul
Kemp, giornalista free-lance e
accanito bevitore si trasferisce
sull’isola per scrivere sul “The San Juan
Star” quotidiano locale sull’orlo del fallimento diretto dallo stanco Mr. Lotterman.
Nella redazione del giornale Kemp fa la
conoscenza di Sala, un fotografo di talento ma rovinato da una vita di eccessi. I due
condividono un appartamento e diventano
compagni di bevute. Lotterman dà l’incarico a Paul di andare in aeroporto per intervistare il sindaco di Miami al suo arrivo nell’isola. All’aeroporto il cronista si
imbatte in Sanderson, un ricco uomo d’affari corrotto, che lo informa che il sindaco
non arriverà a causa di un volo cancellato. Sanderson invita Paul a pranzo nella
sua lussuosissima villa sul mare. Lì il giornalista rimane folgorato da Chenault, bellissima fidanzata dell’uomo d’affari. Quella sera Paul viene invitato a una festa nella villa di Sanderson e lì sotto le stelle, nel
mare antistante la villa, vede apparirgli
come una visione Chenault. Paul è fin da
subito molto attratto dalla ragazza. Sanderson intuisce che Kemp potrebbe essergli utile e lo invita a un incontro con i suoi
soci in affari il giorno dopo. Durante la
riunione viene fuori che Sanderson sta progettando la costruzione di una serie di alberghi e condomini di lusso su un’isola
incontaminata. Sanderson chiede a Kemp
di scrivere articoli che sostengano i suoi
progetti. Dopo una notte sfrenata di bevute con Sala e una lite con la polizia locale,
Kemp viene arrestato. Poco dopo, viene
salvato da Sanderson che usa i suoi soldi
e la sua influenza per farlo rilasciare. Ora
Paul è in debito con l’uomo d’affari e non
può far altro che accettare la sua proposta. Sanderson lo invoglia ancora di più
S
Costumi: Colleen Atwood
Effetti: Furious Fx, Kevin Harris, Hirota Paint Industries
Interpreti: Johnny Depp (Paul Kemp), Aaron Eckhart (Sanderson), Michael Rispoli (Bob Sala), Amber Heard (Chenault), Richard Jenkins (Lotterman), Giovanni Ribisi (Moberg), Bill Smitrovich (Zimburger), Amaury Nolasco (Segurra), Marshall Bell (Donavon), Julian Holloway (Wolsey), Bruno Irizarry (Lazar), Enzo Cilenti (Digby), Aaron Lustig
(Monk), Tisuby González (Rosy), Karen Austin (Signora
Zimburger), Andy Umberger (Signor Green), Karimah Westbrook (Papa Nebo)
Durata: 120’
Metri: 3300
prestandogli la sua magnifica auto, una
Corvette rossa e chiedendogli di portare
con sé Chenault. I due percorrono a forte
velocità le strade dell’isola e Kemp è sempre più attratto dalla ragazza. L’atteggiamento ambiguo di Paul nei confronti di
Sanderson è ancora più evidente quando
l’affarista organizza una visita nei luoghi
dove progetta di costruire resort e hotel.
La bellezza dei luoghi colpisce Kemp ma
dentro di sé cresce l’ira sentendo i discorsi dei soci di Sanderson su come liberarsi
degli abitanti e trasformare l’isola incontaminata in un paradiso per turisti. Per farlo distrarre, Sala invita Paul al carnevale
sull’isola dove incontrano Sanderson e
Chenault già ubriaca. Sanderson è seccato che Paul abbia portato con sé Sala. La
festa continua in un night dove il comportamento provocante di Chenault nei confronti di un ragazzo sulla pista da ballo fa
si che scoppi una rissa. Sanderson, Paul e
Sala vengono cacciati fuori dal locale. All’alba Chenault è sparita. Kemp torna con
Sala a San Juan dove incontrano Moberg,
un giornalista del “San Juan Star”, un
uomo sopra le righe i cui interessi sono la
droga e l’alcool. Moberg fa provare ai due
un potente allucinogeno che si prende attraverso gli occhi. Dopo una notte di visioni, il mattino dopo Paul apre la porta
del suo appartamento e si trova davanti
Chenault. Paul va da Lotterman e gli dice
che ha una storia per lui che riguarda Sanderson ma il direttore lo rimprovera di essere tutto ciò che non va in un giornalista.
Paul va da Sanderson che, seccato, gli lancia gli abiti di Chenault dicendogli di godersela. Kemp torna a casa e si mette a
scrivere un articolo in cui denuncia corruzione e avidità. Nel frattempo Sanderson
ritira la cauzione: ora Paul e Sala rischia-
39
no di tornare in prigione. Il “San Juan
Star” rischia di chiudere, ma Paul vuole
pubblicare alcuni materiali contro Lotterman chiedendo l’appoggio dei colleghi. Il
gruppo di giornalisti entra di forza nella
redazione. Nel frattempo, Chenault parte
per New York lasciando cento dollari a
Paul che vuole stampare il giornale per
sputtanare Lotterman e poi lasciare l’isola. Dopo aver vinto una grossa somma
scommettendo sui combattimenti clandestini dei galli, Kemp e Sala vanno in redazione ma trovano Moberg che li informa
che i curatori fallimentari hanno portato
via tutti i macchinari. Con circa 6.000 dollari in tasca Paul prende la barca di Sanderson e lascia l’isola da solo riflettendo
sul valore della verità, vera arma in mano
al mestiere di cronista.
essun attore meglio di Johnny
Depp poteva vestire i panni dell’alter ego dello scrittore “di culto” Hunter S. Thompson inventore del “gonzo journalism” e protagonista di queste
“cronache del rum”. Dopo Paura e delirio
a Las Vegas del 1998, ecco di nuovo Depp
vicino-vicino a Thompson. E questa volta
si tratta, per ammissione dello stesso divo,
di vero e proprio omaggio. Lo scrittore arrivò nel 1960 a Puerto Rico dove collaborò per un periodo come cronista per la rivista di sport “El Sportivo” che chiuse presto le pubblicazioni. Cercò quindi, senza
successo, di farsi assumere al “The San
Juan Star”. Le esperienze di quel periodo
spinsero lo scrittore a scrivere “The Rum
Diary”, un libro che non venne pubblicato
almeno fino agli anni ’90, quando Depp,
legatissimo a Thompson, scoprì casualmente il manoscritto durante una visita fatta allo scrittore nella sua casa di Woody
N
Film
Creek. In una notte, i due decisero di pubblicare il romanzo e farne un film. Il regista
scelto per scrivere la sceneggiatura e dirigere la pellicola fu Bruce Robinson.
Thompson è morto nel 2005, ma Depp
si è detto fermamente convinto che il suo
amico avrebbe apprezzato molto questo
film.
Se da una parte merito indubbio va
all’attore americano per aver scoperto il
manoscritto scritto nel 1959 e abbandonato dall’inventore del “gonzo journalism”
in un seminterrato della sua casa nella
cosiddetta “stanza di guerra” piena di scatoloni, dall’altro il film tratto da queste
Cronache del Rum ha tutto il sapore di
un’operazione poco riuscita.
Anche se la molla è stata forte. È noto
come Depp abbia da sempre ammirato
l’onestà di Thompson, la sua inconfondibile abilità nel mescolare cronaca, invenzione, commento spudorato e disarmante. Questo romanzo è la storia delle origini
di Thompson: “È prima che Hunter diven-
Tutti i film della stagione
tasse Hunter o piuttosto, prima che Hunter Thompson diventasse il Dr. Hunter S.
Thompson” ha sottolineato Depp. Quel giovane giornalista dedito al rum contiene “in
nuce” quegli elementi che lo hanno portato a essere il maturo Raoul Duke di Paura
e delirio a Las Vegas.
Ma Robinson non è Terry Gilliam e forse è questa la ragione del fatto che lo spirito di Hunter S. Thompson, a dispetto dei
fiumi di rum e di qualche trip allucinogeno compiuto nel film, alla fine latiti davvero. Insomma, più di un decennio prima del
viaggio delirante a Las Vegas del dottor
Duke in compagnia del suo avvocato samoano Dottor Gonzo, Raoul Duke da giovane, nei panni di Paul Kemp, era un giornalista-scrittore alla ricerca di tante risposte ma anche ancora, forse, del vero sé.
E così guardando la coppia Kemp-Sala
(un fotografo che diviene amico e complice di bevute e indagini giornalistiche) non
si può non pensare a Duke-Gonzo da giovani.
Peccato che alla mano dell’inglese
Robinson (che pur aveva colpito per l’interessante opera prima Shakespeare a colazione nel 1987) manchi quel necessario
tocco di follia che, unita a una cospicua
dose di visionarietà, fece capire che Terry
Gilliam fosse il geniaccio irriverente più
adatto a trasportare sul grande schermo
l’inconfondibile stile narrativo di Hunter
Thompson. E il film, pur sorretto dalla buona prova interpretativa di Depp, ben coadiuvato da Aaron Eckhart, Michael Rispoli
e Giovanni Ribisi (mentre la presenza di
Amber Heard si limita a folgorare sul piano della bellezza), procede per due ore
piene (decisamente troppe) seguendo il
percorso di un racconto classicheggiante
(condito da una fotografia fin troppo brillante e patinata), franando rovinosamente
sulla più trita convenzionalità. E cioè niente di più lontano da Hunter Thompson e
dal suo sogno americano infranto.
Elena Bartoni
L’ERA GLACIALE 4 – CONTINENTI ALLA DERIVA
(Ice Age: Continental Drift)
Stati Uniti, 2012
Regia: Steve Martino, Mike Thurmeier
Produzione: Lori Forte, John C. Donkin per Blue Sky Studios
Distribuzione: 20th Century Fox Italia
Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012)
Soggetto: Michael Berg, Lori Forte
a forsennata caccia all’inafferrabile ghianda da parte di Scrat,
iniziata nella notte dei tempi, ha
delle conseguenze sconvolgenti per il mondo intero. Ossessionato dalla sua ghianda, l’animaletto sfortunato provoca un disastro di dimensioni epocali: la frattura
della Pangea e la deriva dei continenti.
Intanto il mammut Manny e la moglie Ellie sono alle prese con l’adolescenza della
figlia Pesca, attratta da amicizie superficiali se non pericolose. Infatti si è presa la
prima cotta per il giovane Ethan, un mammut carismatico, ma di poca sostanza. Per
fortuna ha un grande amico, una simpatica talpa di nome Louis, che la protegge e
non l’abbandona mai. Il bradipo Sid riceve la visita della sua numerosa famigliola,
finalizzata esclusivamente a scaricare una
nonnina un po’ “ingombrante”. All’improvviso gli animali si trovano a dover affrontare il cataclisma messo in moto da
Scrat e il ghiaccio sotto le zampe comin-
L
Sceneggiatura: Michael Berg, Jason Fuchs
Direttore della fotografia: Renato Falcão
Montaggio: James M. Palumbo, David Ian Salter
Musiche: John Powell
Durata: 94’
Metri: 2600
cia a tremare fino a rompersi. Manny, Diego e Sid, con la compagnia della nonna si
ritrovano alla deriva su un iceberg. La famiglia è costretta così a dividersi e mentre
Ellie con la figlia Pesca e Louis si mettono
in marcia per salvarsi, i tre amici iniziano
a viaggiare sul loro iceberg, utilizzato come
nave, alla ricerca della terra ferma. Dopo
aver resistito eroicamente al richiamo incantatore di terribili mostri marini, il loro
viaggio viene interrotto da una ciurma di
pericolosi pirati, capitanata dall’odioso
Capitan Sbudella, famoso predatore di tutti
i mari. Tra i membri della sgangherata
combriccola dei pirati, c’è Shira, una bella tigre dai denti a sciabola, che subito instaura un rapporto di rivalità con Diego.
Ostinati a non farli tornare a casa per renderli membri dell’equipaggio, Capitan
Sbudella e i suoi scagnozzi catturano Manny e gli altri. Tuttavia grazie all’intervento di una balena, amica della nonna, Manny e gli altri riescono a salvarsi e ad af40
fondare la nave di Sbudella. Ora però il
pirata ha un motivo in più per vendicarsi.
Shira viene catturata da Diego e si ritrova
suo malgrado a continuare il viaggio con
loro. Intanto Ellie e la figlia proseguono
la loro marcia e la piccola mammut ha
modo di sperimentare la superficialità dell’amato Ethan. La guerra poi si sposta sulla terra ferma. Shira torna con i pirati, ma
ormai è stata surclassata da altri membri
dell’equipaggio. Finalmente Manny riesce
a ritrovare la sua Ellie, ma c’è ancora in
agguato Sbudella. Di nuovo si trovano faccia a faccia con il terribile pirata. Pesca
viene presa in ostaggio e grazie al coraggio del piccolo Louis e a Shira che questa
volta si mette dalla loro parte, riescono ad
avere la meglio. Sbudella invece finisce
sbranato dai mostri marini che lo ammaliano con allettanti visioni. Scrat tra i titoli di coda raggiunge l’“Atlantide delle
ghiande”, un vero paradiso dove dalle fontane sgorgano ghiande. Ma la sua golosi-
Film
Tutti i film della stagione
tà e avidità non hanno limiti e toglie la
ghianda-tappo che non deve essere toccata. Così viene tutto risucchiato.
l tanto atteso quarto capitolo di L’era
glaciale, ancora una volta distribuito dalla Fox, realizzato anche in 3D,
non delude affatto le aspettative. Diventato
un franchising dalla forza trascinante, L’era
glaciale 4 - Continenti alla Deriva riporta in
sala la famiglia più strampalata, allargata e
meno “tradizionale” della storia del cinema.
Se il cartone aveva sbancato i box office
nel 2009 con il capitolo tre, riuscito nell’impresa a incassare ben trenta milioni di euro
solo in Italia, Steve Martino e Michael Thurmeier questa volta non hanno fatto altro che
aggiornare l’infinita avventura di Sid, Diego, Manny e Scrat, incrociando il mondo
dell’Era Glaciale con i Pirati dei Caraibi. Il
risultato è un ibrido animato in grado di
soddisfare piccoli e adulti. La sicurezza è
che i personaggi sono quelli già talmente
conosciuti e amati che mai potrebbero
stancare. Ora però si aggiorna la saga,
ampliando la famiglia tradizionale dei primi tre capitoli, grazie a parenti naturali e
acquisiti. Perché non servono per forza
matrimoni e figli per considerarsi una “famiglia”, ma molto più semplicemente affetto, amore e amicizia. Legami affettivi che
abbattono sesso e differenze di razza, da
sempre al centro della trama. Dunque non
solo quella “naturale”, composta dai mammut (naturale si fa per dire, non bisogna
dimenticare gli opossum), ma anche quella disomogenea composta da esseri viventi
quanto più diversi tra loro, che tuttavia si
proteggono a vicenda, pur non avendo lo
I
stesso sangue. I nuovi personaggi sono
tutti ben delineati e spudoratamente esilaranti. Parliamo di Pesca, figlia adolescente di Manny alla disperata ricerca di una
maggiore libertà, della magnifica nonna di
Sid, fonte inesauribile di guai e autentico
vulcano di battute, di Shira, “femme fatale”, tigrata, coraggiosa e intraprendente
che farà battere il cuore al grintoso Diego,
ma soprattutto di lui, Capitan Sbudella, pirata rude e malvagio e incontrastato re dei
mari. In questa odissea che è il viaggio di
Manny verso il ricongiungimento familiare, non mancano riferimenti ai classici
come al mito delle sirene e del vaso di Pandora, né accenni ai romanzi per ragazzi
come Moby Dick e Pinocchio. Ma ciò che
più si fa apprezzare in questo Continenti
alla deriva è la quantità di battute riuscite e
di gag originali e spassose. Fra le sequenze narrative, poi, s’inseriscono come di consueto le “invasioni barbariche” di Scrat, mini
cortometraggi, sempre più curati e fantasiosi, che hanno per protagonista l’infelice
animale all’inseguimento cronico della
ghianda che rotola, scivola e s’inabissa fuori
del pianeta. Novità anche nel campo del
doppiaggio. Nella versione italiana Claudio Bisio e Pino Insegno, ormai veterani
nel settore, tornano a prestare la voce a
Sid e Diego, rispettivamente il bradipo e la
tigre. Tra le new entry, il mammut Manny,
doppiato stavolta da Filippo Timi, che
sostituisce Leo Gullotta. Sebbene la tecnica tridimensionale sia spesso abusata
nella produzione recente, stavolta i realizzatori hanno non solo indovinato l’occasione, ma anche la modalità d’uso, rendendo la visione fruibile anche ai più piccoli.
Ma anche da adulti si esce dalla sala pienamente appagati e con il sorriso sulle labbra.
Veronica Barteri
MARGIN CALL
(Margin Call)
Stati Uniti 2011
Regia: J.C. Chandor
Produzione: Michael Benaroya, Neal Dodson, Zachary Quinto, Robert Odgen Barnum, Corey Moosa, Joe Jenckes, per
Benaroya Pictures, Before the Door Pictures in associazione
con Washington Square Films, Sakonnet Capital, Partners,
Untitled Entertainment
Distribuzione: 01 Distributionc
Prima: (Roma 18-5-2012; Milano 18-5-2012)
Soggetto e sceneggiatura: J.C. Chandor
Direttore della fotografia: Frank G. DeMarco
Montaggio: Pete Beaudreau
Musiche: Nathan Larson
L
e ventiquattr’ore che precedono
la crisi finanziaria del 2008 in
una grande banca di investimen-
Scenografia: John Paino
Costumi: Caroline Duncan
Interpreti: Kevin Spacey (Sam Rogers), Paul Bettany (Will Emerson), Jeremy Irons (John Tuld), Zachary Quinto (Peter Sullivan),
Penn Badgley (Seth Bregman), Simon Baker (Jared Cohen), Mary
McDonnell (Mary Rogers), Demi Moore (Sarah Robertson), Stanley Tucci (Eric Dale), Aasif Mandvi (Ramesh Shah), Ashley Williams (Heather Burke), Susan Blackwell (Lauren Bratberg), Al
Sapienza (Louis Carmelo), Peter Y. Kim (Timothy Singh), Grace
Gummer (Lucy), Maria Dizzia (Assistente)
Durata: 106’
Metri: 2900
ti. Eric Dale, uno dei capi-settore che gestisce l’ufficio gestione rischi di una banca di
credito finanziario, viene licenziato in tron-
41
co. Ha pochissimo tempo per raccogliere i
suoi effetti personali e lasciare gli uffici. Prima di andarsene, riesce però a consegnare
Film
una chiavetta di computer a un giovane analista, Peter Sullivan, raccomandandogli solo
di fare attenzione. Peter analizza le informazioni contenute nel dispositivo e scopre che i
dati che emergono dai file del collega evidenziano che la banca, appoggiandosi su
azioni virtuali, ha le ore contate. Sullivan,
che ha mostrato i dati al suo giovane collega
Seth Bregman, mette in allarme Will Emerson, il suo referente, che subito informa della cosa Sam Roger, il loro capo. Dopo aver
visionato i calcoli di Sullivan che ha ampliato il lavoro di Dale, Sam a sua volta informa
il suo superiore, Jared Cohen.
È necessario ritracciare Dale che,
però, risulta irraggiungibile. La situazione è di grande rischio, i titoli dell’istituto
hanno superato i limiti di volatilità già da
circa sei giorni.
Viene informata Sarah Robertson, responsabile del settore rischi, alla quale
mostrano i risultati dei calcoli fatti prima
da Dale e poi da Peter. Sono le due di notte ormai e il clima negli uffici è sempre più
teso. Will Emerson ha paura che la gente
smetta di comprare ciò che loro vendono e
teme grosse perdite per il loro istituto. Tutto
il gruppo di lavoro si reca a una riunione
con John Tuld, il potente amministratore
delegato della banca. Tuld si fa spiegare
minuziosamente la situazione. La macchina su cui si sono arricchiti si è fermata,
ma Tuld è convinto che debbano continuare a vendere le loro azioni anche se non
hanno più valore. Devono assumere un
comportamento rischioso se vogliono provare a sopravvivere. In un confronto privato con Tuld, Sam lo mette in guardia sul
fatto che stanno mandando consapevolmente in rovina delle persone. Ma Tuld è
irremovibile, quella è l’unica va d’uscita
per salvarsi. Sam avverte tutti che si sta
per compiere un vero bagno di sangue, si
ricorderanno a lungo del giorno che sta
per iniziare. Tuld dà un assegno a Sam e
gli chiede di essere con lui. Sam ha delle
riserve ma finisce per accettare. Nel frattempo, dopo essere andato a parlare con
Eric Dale, Will dice al giovane Seth che
sarà licenziato. Di prima mattina, si dà
inizio all’operazione: Sam parla agli operatori del suo settore e spiega quello che
dovranno fare. Si tratterà di vendere a prezzo di costo dei pacchetti azionari. Poco
dopo, in un faccia a faccia con Tuld, Sam
confessa di sentirsi in colpa per aver mandato sul lastrico molte persone. Tuld risponde cinicamente ricordando le crisi del
1929, 1974, 1987, 1992, 1997 e del 2000,
è sempre la stessa storia che si ripete e il
processo non si può né firmare, né rallentare, perché c’è sempre stata la stessa percentuale di fortunati e di sfortunati a questo mondo. Sconsolato perché costretto ad
Tutti i film della stagione
accettare di essere parte di un ingranaggio di cui non approva l’operato, Sam va
via da solo, torna nel giardino davanti casa
sua e piange la morte del suo amato cane.
l tragico tramonto di un’era. Ventiquattr’ore fatali, in cui dall’alto di un
grattacielo di Wall Street un pugno
di uomini osserva la notte che lascia il posto all’alba di un nuovo giorno in cui, alla
riapertura delle contrattazioni, il mondo sarà
destinato a piombare nel gorgo di una crisi
finanziaria epocale. Quella crisi che quegli
uomini stanno contribuendo a creare.
Nonostante l’andamento cadenzato e
a tratti farraginoso, Margin Call ha dalla sua
una forte tensione drammatica che tiene
per tutta la sua durata grazie a un gruppo
di attori in stato di grazia. Reso merito alla
grande prova di un Kevin Spacey sempre
all’altezza di ogni ruolo che interpreta, ai
convincenti Paul Bettany e Zachary Quinto e a una ritrovata Demi Moore, va detto
che su tutti svetta la classe innegabile di
un perfetto Jeremy Irons: la sua interpretazione di uno squalo dell’alta finanza, vero
‘deus ex machina’ di un’operazione sconsiderata, è da applauso.
Il pregio maggiore dell’opera è proprio
nella sua apparente freddezza, il film non
giudica, non emette sentenze, ma illustra i
fatti con stile pacato e rigoroso. Quello messo su da J.C. Chandor è cinema di denuncia
perfettamente congegnato, ottimamente recitato e ben diretto (stupefacente la sicurezza della mano di un regista esordiente).
Il difetto maggiore però, si potrebbe
dire, sta nel manico, perché il pericolo noia
è dietro l’angolo, rischio che crediamo calcolato nel momento in cui si è scelto di trattare un tema così ostico per lo spettatore
medio. E il tentativo di cercare di spiegare
con parole semplici alcune cose come se
ci si trovasse davanti a “un bambino o a
un golden retriver” resta una promessa
I
mantenuta a metà. Davanti a certi discorsi
sui “livelli di volatilità” di alcuni investimenti, di “test sugli andamenti storici”, ci si perde un po’ e si rimane perplessi se proprio
non si è ferrati in materia di finanza.
Cinematograficamente però l’operazione
rimane valida. Un film capace di rappresentare il nodo di una crisi divenuta ben presto
mondiale, il suo nucleo nevralgico, può essere considerato davvero il primo esempio di
“cinema della recessione”. A questo proposito, appare perfetta la scelta del titolo, l’espressione “margin call” indica infatti la richiesta a
un cliente, da parte dell’intermediario, di un
deposito di copertura a garanzia di un fondo
titoli (a fronte di una maggiore esposizione).
Ma in parole povere, qui si tratta di avidità, solo di quella. In breve la banca d’affari, sull’orlo del baratro, ordina di vendere, vendere tutto al miglior prezzo fin dalle
prime luci dell’alba, tanto all’ora di pranzo
non varrà più niente. La banca si salverà
ma ne usciranno a pezzi i risparmi, i risparmiatori ma anche l’intero sistema economico. Ed è bagno di sangue, perpetrato
con freddezza e calcolo da uomini in giacca e cravatta e in uffici di prestigio.
Tecnicismi finanziari a parte (che in fondo non è richiesto di comprendere appieno), il film mette di dito nella piaga di una
cruciale quanto disarmante verità: la sorte
economica di miliardi di persone è nelle mani
di pochi potentissimi uomini. Detto in “soldoni”, un’ulteriore conferma del fatto che i risparmi della gente sono in balia di meccanismi spietati (nel caso specifico una banca
che specula sul credito) che possono ridurli
in cenere. Anche in una sola notte.
La notte più lunga, più cupa, più nera,
la notte che ha portato al collasso di un
mondo: osservarla da dentro quelle mura
dove tutto ebbe inizio al buio di una sala fa
una certa impressione.
PARANORMAN
(ParaNorman)
Sati Uniti 2012
Regia: Sam Fell, Chris Butler (II)
Produzione: Laika Entertainment
Distribuzione: Universal Pictures International Italy
Prima: (Roma 11-10-2012; Milano 11-10-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Chris Butler (II)
Direttore della fotografia: Tristan Oliver
Montaggio: Christopher Murrie
Musiche: Jon Brion
Scenografia: Nelson Lowry
Costumi: Deborah Cook
Durata: 93’
Metri: 2550
42
Elena Bartoni
Film
orman è un bambino introverso
e appassionato di horror che fatica a fare amicizie. Frequenta le
scuole elementari, ma è emarginato dai
compagni. Il suo problema infatti è che
vede le persone morte. Tutti i trapassati
che hanno ancora questioni irrisolte sulla terra gli appaiono e gli parlano, costantemente, nonna inclusa. Così Norman
trascorre i pomeriggi guardando film horror alla tv in compagnia della dolce nonnina, rimastagli accanto per vegliare su
di lui. A scuola è preso di mira dal bulletto di turno, Alvin, mentre a casa soffre
l’incomprensione di un padre un po’ prevenuto, di una madre troppo affettuosa e
di una sorella maggiore, Courtney, terribilmente superficiale. I familiari credono
che quelle strane visioni di Norman siano solo un modo per mettersi al centro
dell’attenzione. La madre, invece, pensa
sia un passaggio che fa parte dell’elaborazione del lutto e lo difende con dolcezza. In più, da qualche tempo è preda di
allucinazioni che sembrano catapultarlo
nel passato. Per questo motivo gli altri lo
credono un “diverso”, nonostante il piccolo paese in cui vive secoli prima sia stato teatro di diversi roghi di streghe e ancora se ne vanti come fosse un’attrazione
turistica. L’unico ragazzino che si avvicina a Norman è un altro “freak” come
lui, Neil, il ragazzo cicciottello della scuola, che condivide l’isolamento e le prepotenze del protagonista. I due riescono a
giocare insieme e a capirsi e Neil è l’unico che trova straordinaria la capacità di
Norman di vedere la gente morta. Tutto
cambia però quando uno zio di Norman,
ritenuto matto e barbone, comunica poco
prima di morire che ora tocca a lui tenere lontani, ogni anno, i morti viventi e la
maledizione di una delle streghe bruciate
secoli prima. Secondo la leggenda, infatti, una strega perseguita gli abitanti del
luogo che secoli prima l’avevano ingiu-
N
Tutti i film della stagione
stamente condannata al rogo. Il fantasma
dello zio spiega a Norman come poter fermare la strega e spezzare l’incantesimo,
ma, pur avendo seguito le raccomandazioni, il bambino non sembra riuscire nell’intento. Anzi, dal cimitero risorgono tutti
gli zombi, invadendo la città. Per bizzarre circostanze si ritrovano insieme Norman, la sorella civettuola, il bulletto della scuola, Neil e il fratello palestrato.
Dopo varie discussioni mettono insieme
il loro coraggio e decidono di affrontare i
fantasmi, mettendosi contro tutto il paese. Dopo essersi riconciliato con gli zombie degli antichi inquisitori, Norman affronta la strega con coraggio e scopre la
sua storia. In realtà si trattava di una
bambina di nome Agata, accusata secoli
prima, per paura e ignoranza, di stregoneria. Norman le parla e la riconduce nel
luogo dove era stata bruciata per farla
tornare in pace nel regno dei morti, dove
l’aspettava anche la mamma. L’incantesimo finalmente è sciolto, tutto ritorna alla
normalità, ma meglio di prima. Ora Norman è stimato e rispettato da tutti e la sua
famiglia convive felicemente anche con la
nonna fantasma.
I
n anticipo rispetto ad Halloween arriva sul grande schermo ParaNorman una grande produzione in
stop motion d’animazione, firmata da Sam
Fell e Chris Butler. La pellicola non fa mistero di trarre ispirazione dai grandi classici dell’horror per come vengono descritte
atmosfere dark e personaggi (gli zombie su
tutti, già presentati nel prologo attraverso
un irresistibile film splatter di serie b in televisione). Sebbene in scala ridotta e per spettatori più piccoli, ParaNorman fa quello che
è il lavoro dell’horror: indagare le fobie del
suo pubblico per sovvertire il buonismo che
solitamente regna nel cinema o nelle storie
edificanti. Butler infatti riesce nell’impresa
di tradurre per l’immaginario di un bambino
e rendere coerente in una commedia animata, alcuni dei più grandi momenti del genere, senza tuttavia cadere nella banalità o
nelle parodie forzate. Il timore dei fantasmi
e delle visioni, le apparizioni nei bagni della scuola, la visita nella casa piena di scheletri e il confronto con lo spirito sono tutte
sequenze di un film capace di deridere tutto e tutti per mostrare che un altro mondo è
possibile. Nel film si porta avanti un discorso sulla diversità e sull’integrazione da non
sottovalutare, L’eroe è infatti un outsider, un
“freak” come viene chiamato nel film, che
scopre come l’origine della paura di tutti
quanti sia in realtà un’altra “diversa” proprio
come lui. A essere davvero “strano”, invece, è il mondo degli adulti, che siano genitori poco comprensivi, cheerleader superficiali o muscolosi senza cervello, che si
dimostrano incapaci di prendere le giuste decisioni, perché proprio in preda alla
paura che non li fa ragionare. Si dedica
molta attenzione ai bambini, che vengono trattati come veri adulti, facendoli ridere delle assurdità del mondo che li circonda ed entusiasmare con le immagini
più spaventose. Un protagonista come
Norman scatena subito l’empatia dello
spettatore, perché timido, imbranato, insicuro, eppure onesto e generoso, perché
riesce a riportare sulla retta via anche gli
adulti. I dialoghi ci riportano nel vissuto di
tutti i giorni e nel linguaggio tipico dei ragazzi. Un horror comico in cui si ride moltissimo e ogni sorriso svela una contraddizione, mette in ridicolo una figura di potere o aiuta a sovvertire l’ordine naturale
delle cose. Non solo dunque pupazzetti
in stop motion fotografati e animati in maniera impeccabile, con una cura incredibile per i dettagli e le espressioni, ma un
lungometraggio inaspettato e dal ritmo incalzante, che riesce a coinvolgere in maniera trasversale diverse generazioni.
Veronica Barteri
MONSIEUR LAZHAR
(Monsieur Lazhar)
Canada 2011
Regia: Philippe Falardeau
Produzione: Micro_Scope
Distribuzione: Officine Ubu
Prima: (Roma31-8-2012; Milano 31-8-2012)
Soggetto: dal testo teatrale di Évelyne de la Chenelière
Sceneggiatura: Philippe Falardeau, Évelyne de la Chenelière
Direttore della fotografia: Ronald Plante
Montaggio: Stéphane Lafleur
Musiche: Martin Léon
Scenografia: Emmanuel Fréchette
Costumi: Francesca Chamberland
Interpreti: Mohamed Fellag (Bachir Lazhar), Sophie Nélisse, Émilien Néron, Brigitte Poupart, Danielle Proulx ,Francine Ruel, Louis Champagne
Durata: 94’
Metri: 2600
43
Film
achir Lazhar è un algerino di cinquant’anni residente a Montreal
che, saputo che in una scuola
media è venuta a mancare un’insegnante,
si presenta per prendere il posto di supplente. Il fatto è che l’insegnate titolare,
Martine, si è impiccata proprio nell’aula
dove Lazhar comincerà a insegnare a una
classe di alunni profondamente scossi e
sgomenti di fronte al primo evento doloroso della loro vita.
L’insegnamento di Lazhar inizia subito in maniera non molto ortodossa (un
dettato tratto da una pagina di Balzac) e
così è facile ipotizzare che l’algerino nasconda qualcosa: egli è infatti fuggito dal
suo Paese in seguito agli eccidi dei movimenti estremisti islamici che hanno trucidato tutta la sua famiglia e lo hanno
reso un esule. Non solo, Bachir non ha
mai fatto l’insegnante ad Algeri, come
lui stesso confessa alla Preside verso la
fine della storia, ma il gestore di un ristorante!
Nonostante questo il rapporto che l’algerino instaura con i suoi allievi, al di là
di una metodologia non particolarmente
corretta, guadagna ogni giorno terreno e
consenso: lui riesce a dare loro quella
convinzione e quella forza capace di elaborare il suicidio della loro insegnante e
li aiuta nella formazione di una personalità che apparterrà loro da adulti; i ragazzi invece, facendolo accostare a un
mondo di esigenze, desideri, sogni e incapacità a lui sconosciute, riescono a fargli metabolizzare l’episodio sanguinoso
che ha travolto la sua famiglia e permetterne così l’inserimento nella nuova società civile.
Alcuni dei genitori dei ragazzi però,
messi in attenzione per gli insegnamenti
B
Tutti i film della stagione
un po’ sui generis che avvengono in classe fanno delle ricerche approfondite
presso l’amministrazione cittadina e scoprono che lo stato civile di esule non permette a Bachir di insegnare nelle scuole.
È tempo per lui di lasciare la sua classe. Il distacco è struggente per tutti ma
enorme è il dono che tutti scambievolmente si sono fatti.
i può essere dei pessimi insegnanti pur sapendo insegnare e
degli ottimi insegnanti pur non
sapendo insegnare per nulla. Ed è un ottimo insegnante il Lazhar protagonista di
questo film perchè oltre stimolare la prontezza e la curiosità intellettuale dei suoi ragazzi, avvalendosi di una cultura che travalica i paletti dei programmi ministeriali,
S
fa loro intravedere le mille sfaccettature in
cui può presentarsi la vita e come questa
possa mutevolmente realizzarsi nei modi
più impensati e dolorosi. Sono le stesse
cose che Lazhar impara dagli allievi mentre le insegna perchè anche lui ha bisogno di colmare quel vuoto terribile dietro
le spalle e per cui talvolta si ferma, si blocca attonito, lo sguardo nel vuoto come se
in quel momento gli sfiorasse l’idea che
non ci sia nulla che possa insegnare o imparare, sufficiente e capace di colmare
quel vuoto.
Una cosa fondamentale però la imparano tutti, insegnante e allievi: anche se la
vita va avanti e intorno non restano che
vuoti, bene; altrettanto frequentemente e
misteriosamente si costituiscono dei “pieni” in un travaso continuo e circolare di intelligenza, rispetto, tolleranza, amicizia,
amore.
Siamo felici che in questo momento
ci sia quest’altro film sulla scuola (varie
sono le pellicole già uscite e in corso di
edizione), un settore che più di altri appare nel nostro Paese offeso e degradato a causa di una prolungata, opaca, miope e criminale gestione della cosa pubblica.
Talvolta il cinema è capace di scatti in
avanti, frutto di esigenze insopprimibili e
di sguardi anticipatori; confidiamo che questo film pieno di significati allegorici e di
tocchi poetici privi di patetismi e banalità
possa costituire un tassello importante di
una strada tutta da percorrere, alla pari del
racconto che chiude il film, che narra della
crisalide che dopo sforzi, privazioni e sostegni da chi le è vicino, sarà in grado, da
sola, di volare.
Fabrizio Moresco
APPARTAMENTO AD ATENE
Italia 2011
Regia: Ruggero Dipaola
Produzione: L’occhio e la Luna, Pandora Filmproduktion
Distribuzione: Eye Moon Pictures
Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Glenway Wescott
Sceneggiatura: Heidrun Schleef, Ruggero Dipaola, Luca De Benedittis
Direttore della fotografia: Vladan Radovic
Montaggio: Roberto Missiroli
Musiche: Enzo Pietropaoli
Scenografia: Luca Servino
Costumi: Alessandra Lai
Interpreti: Laura Morante (Zoe), Gerasimos Skiadaressis (Nikolas), Richard Sammel (Capitano Kalter), Vincenzo Crea (Alex), Alba de Torrebruna (Leda)
Durata: 95’
Metri: 2600
44
Film
tene, 1943, l’appartamento abitato dalla famiglia Helianos viene requisito per ospitare un ufficiale tedesco, il Capitano Kalter. L’ex editore di libri scolastici Nikolas Helianos e
sua moglie Zoe hanno due figli, la mite
Leda di tredici anni e il ribelle Alex di dodici. Il nuovo ospite si installa nell’appartamento occupando tutti gli spazi della famiglia: si sistema nella camera da letto dei
padroni di casa, riserva il bagno a suo uso
esclusivo, si siede da solo in salone facendosi servire i pasti, regola gli orari della
famiglia, sistema i suoi libri e i suoi sigari
nello studio. Gli Helianos si sottomettono,
remissivi, alle rigide regole imposte da
Kalter. Ma mentre la piccola Leda sembra
subire un fascino simile a un’infatuazione
per il Capitano, l’irrequieto Alex cova risentimento rifiutandosi di piegarsi agli ordini imposti dall’ufficiale nazista. Incaricato di portare gli avanzi della cena al
Maggiore Von Roesch che ha un cane adorato, Alex, affamato, mangia il cibo per
strada e non esegue l’ordine. Venuto a conoscenza dell’accaduto, Kalter punisce il
ragazzo accusandolo di essere uno spocchioso e un ladro e di averlo messo in cattiva luce con un suo superiore. Poi il Capitano costringe Nikolas a picchiare il figlio sotto i suoi occhi.
Improvvisamente però accade l’inaspettato. Richiamato in patria, il Capitano si assenta per due settimane alla fine
delle quali rientra completamente trasformato. È stato promosso Maggiore ma è
mite, depresso, non ha appetito, assume un
atteggiamento più gentile e non prova più
piacere nell’esercizio del suo potere: sembra addirittura trovare confidenza e dialogo con Nikolas. I due si trattengono in
chiacchiere dopo cena nello studio e Kalter mostra interesse all’attività di editore
di libri che Helianos aveva prima della
guerra. I due parlano di letteratura, filosofia e musica. L’ufficiale sta facendo testamento e sta lasciando tutto a una scuola di musica di Lipsia.
Una sera, Kalter confessa di aver perduto sua moglie e i suoi due figli, l’ultimo
dei quali in guerra: l’amaro sfogo lo porta a crollare e ad ammettere di essere stanco della guerra. Nikolas replica dicendo
ciò che pensa su tutto il male portato dal
grande potere di Hitler e Mussolini. Proprio questa battuta, manda su tutte le furie
il Maggiore che scatena la sua ira sul povero Nikolas. Kalter fa arrestare l’uomo e
poi comunica alla moglie che è necessaria
un’indagine su suo marito. Zoe reagisce
con fermezza e apparente freddezza. Poco
dopo l’ufficiale si chiude nella sua stanza
e si spara. Zoe cerca di mantenere la cal-
A
Tutti i film della stagione
ma. Sopraggiunge il Maggiore Von Roesch che trova una lettera di Nikolas sullo
zerbino di casa Helianos e la consegna a
Zoe. La donna offre del cibo per il cane
dell’ufficiale, poi confessa al piccolo Alex
di essere sicura che Van Roesch aiuterà
Nikolas a uscire di prigione. Poco dopo
però, a casa dell’ufficiale, scopre che Kalter quella mattina, prima di uccidersi aveva dato un ultimo ordine a Von Roesch.
Nella compostezza del suo dolore, Zoe legge l’ultima lettera scrittale dal marito dalla prigione.
nche se incentrato su un momento storico troppe volte portato al
cinema, seppur visto da un’angolazione inedita, il film di Ruggero Dipaola
è un’opera prima sobria e delicata, al tempo
stesso carica di dolore e rabbia. Per questo
motivo Appartamento ad Atene è un film apprezzabile, proprio perché riesce nella ricerca di un difficile equilibrio di toni e registri.
Una “piccola” storia di un’invasione privata
che rispecchia la “grande” storia dell’oppressione nazista. Un’invasione fisica di spazi intimi, familiari, personali, ma anche un’invasione dell’anima. L’inflessibile capitano tedesco sembra davvero desideroso di succhiare l’anima dei suoi ospitanti attraverso l’esercizio di un potere assoluto che toglie ai dominati anche le più elementari libertà. Le diverse reazioni dei componenti della famiglia
all’ospite sgradito disegnano un nitido, quadro di equilibrio tra le parti. Come ha sottolineato il regista, il film non parla solo di nazismo ma ruota attorno alle relazioni che si
sviluppano tra le persone e all’ambiguità dei
rapporti umani, spesso fonte di logiche imprevedibili e spietate. Alla sottomissione servile del padre e alla fascinazione che diviene quasi “innamoramento” della piccola
Leda, fa da pendant la reazione di opposizione dura del figlio minore Alex (che porta il
A
nome dell’indomito e fiero condottiero macedone) che culla fantasie di vendetta e della madre Zoe, che si piega solo in apparenza riuscendo a tenere una rigida distanza
da un carnefice di cui non si fida neanche
dopo l’apparente cambiamento. E l’ombra
dell’immane tragedia della follia della Guerra (il maiuscolo è d’obbligo) si allunga oscura verso un drammatico finale.
L’esordiente Dipaola prende il romanzo di Glenway Wescott “Appartamento ad
Atene” e lo traduce sul grande schermo
con sensibilità e coraggio, firmando un film
convincente che regala momenti intensi
pur nella sua struttura chiusa: un kammerspiel raffinato con pochissimi esterni che
riesce a mantenere sempre alta la tensione emotiva anche grazie a un ottimo cast.
Accanto ai validi protagonisti maschili,
Gerasimos Skiadaresis (Il mandolino del
capitano Corelli di John Madden e Il passo sospeso della cicogna di Theo Angelopoulos) e Richard Sammel (Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino), il valore
aggiunto al femminile è rappresentato da
Laura Morante (attrice fortemente voluta
da Dipaola) sul cui volto intenso di moglie
e madre, accompagnato dalla voce del
marito che legge la sua commossa lettera-testamento, si chiude il film.
Una nota felice infine: il film vanta un
piccolo record, essendo stato presentato
in 51 Festival in giro per il mondo e ricevendo ben 27 premi. Tra questi il Premio
come Miglior Film nella sezione Vetrina dei
Giovani Cineasti Italiani al Festival Internazionale del Film di Roma 2011 e lo stesso riconoscimento al Los Angeles Greek
Film Festival. Un motivo per sorridere e ben
sperare per Ruggero Dipaola e la sua storia “particolare” e allo stesso tempo “universale”.
HOTEL TRANSYLVANIA
(Hotel Transylvania)
Stati Uniti 2012
Regia: Genndy Tartakovsky
Produzione: Sony Pictures Animation
Distribuzione: Warner Bros. Picture Italia
Prima: (Roma 8-11-2012; Milano 8-11-2012)
Soggetto: Todd Durham, Dan Hageman, Kevin Hageman
Sceneggiatura: Peter Baynham, Robert Smigel
Montaggio: Catherine Apple
Musiche: Mark Mothersbaugh
Scenografia: Marcello Vignali
Effetti: Sony Pictures Imageworks Inc.
Durata: 91’
Metri: 2500
45
Elena Bartoni
Film
racula, dopo la morte prematura
della moglie, cresce amorevolmente la sua unica figlia, Mavis.
Come ogni buon padre, quando arriva il
suo centodiciottesimo compleanno le prepara una magnifica festa e invita tutto il
mondo dei mostri per brindare insieme.
Fra gli invitati, però, compare anche Jonathan, un ragazzo umano capitato lì per
caso. Dracula è inorridito all’idea che i
suoi ospiti possano scoprire l’intruso e,
sotto minaccia, lo convince a travestirsi
da mostro. Jonathan tutt’altro che spaventato sta al gioco diventando il beniamino
della festa. Anche Mavis non può che notare lo strano ragazzo e, in poche ore, se
ne innamora. Il padre preoccupato prende in disparte Jonathan e lo obbliga a rifiutare le attenzioni di sua figlia perché
sua moglie è stata uccisa da degli umani
come lui.
Il ragazzo mantiene la promessa; quando Mavis lo bacia infatti, oltre a rivelarle
la sua natura, la copre di insulti e scappa
via.
Dracula è convinto di aver agito bene,
ma sua figlia è distrutta. Con l’aiuto di altri mostri, allora, corre in paese alla ricerca del ragazzo. Qui scopre che gli umani
non sono così cattivi come ricordava e che,
anzi, sono disposti a dargli una mano. In
breve tempo riesce a raggiungere Jonathan, salito in lacrime su un aereo, e gli
propone di tornare con lui da sua figlia. Il
D
Tutti i film della stagione
giovane accetta e inizia una nuova vita insieme a Mavis e ai suoi amici mostri.
a vita, a volte, è semplicemente
una questione di punti di vista.
Basta essere al di là della barricata per etichettare tutto ciò che è estraneo come mostruoso. Eppure c’è qualcosa che accomuna tutti gli esseri viventi (o
pseudo tali): l’amore per i propri figli. In
questi casi, non c’è differenza che tenga;
umani, mostri, ibridi seguono tutti le stesse regole, così come i loro pargoli in perenne ricerca di una identità che quasi
sempre si trasforma in una sana ribellione. Anche a 118 anni, come accade a
Mavis, la figlia del temutissimo conte Dracula nella nuova pellicola di Tartakovsky
Hotel Transylvania.
In questo film, già campione d’incassi al
botteghino, le caratteristiche che hanno dominato il cinema per oltre cento anni si invertono: sono gli umani il pericolo, i cattivi,
mentre i mostri detengono lo scettro del
bene. I problemi nascono quando una vampira, Mavis appunto, si innamora di un ragazzo “normale” costringendo tutto il nutrito
gruppo di strane creature a rivedere le sue
posizioni e, soprattutto, i suoi pregiudizi.
Tartakosky, noto al pubblico televisivo
per essere il padre del genietto Dexter,
mette in scena un lungometraggio animato efficace, divertente e, per alcuni aspetti, anche educativo.
L
Partendo da una trama piuttosto semplice, riesce a costruire un racconto dal ritmo serrato, incalzante che non si perde
mai dietro alle numerose gag e riesce perfettamente a conciliare il divertimento con
l’intento pedagogico, senza annoiare o risultare banale.
È facile, infatti, quando si parla di rispetto dell’altro scivolare su ovvietà o su concetti istituzionalizzati, specialmente quando ci si rivolge a un pubblico molto giovane;
ecco Tartakosky evita tutto questo usando
una formula “rockeggiante “e veloce che
permette di digerire il messaggio
risultando anche originale.
A completare la riuscita messa in scena anche l’insospettabile bravura dei doppiatori, Cladio Bisio e Cristiana Capotondi, abili nel dare colore alle voci di Dracula
e Mavis. Certo dovrebbe essere una dote
naturale per gli attori e non dovrebbe neanche esser menzionata, ma visti alcuni
recenti doppiaggi per l’animazione è quasi doveroso riconoscere un buon lavoro
quando viene fatto.
In conclusione, Hotel Transylvania è una
pellicola che centra l’obbiettivo, intrattiene i
più piccoli senza far sbadigliare troppo i più
attempati accompagnatori, e non è da poco.
Se poi poi nel giudizio si aggiunge il perfetto tempo comico con la battuta su Twilight,
l’applauso è quasi d’obbligo.
Francesca Piano
I BAMBINI DI COLD ROCK
(The Tall Man)
Canada, Francia, Sati Uniti 2012
Regia: Pascal Laugier
Produzione: Radar Films, Minds Eye Entertainment, Forecast
Pictures, in associazione con Snd, Highwire Pictures e Iron
Ocean Filmsm, con la partecipazione di M6, Canal+
Distribuzione: Moviemax
Prima: (Roma 21-9-2012; Milano 21-9-2012) V.M.: 14
Soggetto e Sceneggiatura: Pascal Laugier
Direttore della fotografia: Kamal Derkaoui
Montaggio: Sébastien Prangère
Musiche: Todd Bryanton, Christopher Young (temi aggiunti)
Scenografia: Jean-André Carrière
ella cittadina di Cold Rock si susseguono numerosi rapimenti di
bambini che gettano la popolazione nello sconforto. Fra la gente si fa
strada la convinzione che l’artefice di tutto sia un mostro che abita nel bosco chiamato “l’uomo alto”.
Julia, la giovane infermiera del paese
N
Costumi: Angus Strathie
Interpreti: Jessica Biel (Julia Denning), Stephen McHattie (Tenente Dodd), William B. Davis (Sceriffo Chestnut), Jakob Davies
(David), Jodelle Ferland (Jenny), Samantha Ferris (Tracy), Katherine Ramdeen (Carol), Colleen Wheeler (Sig.ra Johnson),
Teach Grant (Steven), Eve Harlow (Christine), Janet Wright (Trish),
John Mann (Douglas), Garwin Sanford (Robert), Ferne Downey
(Lady/Sig.ra Parker Leigh), Lucas Myers (Vicesceriffo Campbell),
Georgia Swedish (Sig.ra Ashcroft), Prya Lily Campbell (Tiffany)
Durata: 98’
Metri: 2700
vedova con un bimbo piccolo, David, non
crede a queste superstizioni fino a quando
una sera non assiste al rapimento del figlio. Disperata rincorre la figura scura,
ma, nonostante una lotta furibonda, riesce a farsela scappare.
Aiutata da un poliziotto, si dirige nel
bar del paese per avere le prime cure, ma
46
qui scopre una strana alleanza fra la proprietaria e i gli avventori del locale. Spaventata scappa via alla ricerca del figlio.
Lo trova in un casolare, ma il bambino sembra spaventato da lei. Viene colpita brutalmente da una donna che si presenta
come la vera madre del bambino e che con
la tortura le fa confessare di essere lei in
Film
realtà il mostro che rapisce i bambini. La
polizia sta arrivando, ma Julia, con l’aiuto di Jenny, una ragazzina con problemi
corsa a darle una mano, riesce a scappare
e portare con sé David.
Arrivata a casa, avverte Christine, la
babysitter dell’accaduto e promette a Jenny che “l’uomo alto” verrà anche per lei.
La casa è circondata. Tutto il paese ormai
sa chi si cela dietro i rapimenti e urla vendetta. La polizia a fatica riesce a far uscire Julia da casa, mentre Christine per la
disperazione si impicca, ma David sembra
sparito nel nulla.
In carcere Julia confessa di aver rapito i bambini del paese perché vivevano in
situazioni poco adatte a loro e di averli uccisi perché non riusciva a mantenerli tutti.
Gli inquirenti a più riprese le chiedono in
luogo dove sono sepolti i corpi, ma la donna si rifiuta di rispondere a questa domanda attendendo fra le lacrime la terribile
sentenza.
Nel frattempo, Jenny mentre assiste
all’ennesimo litigio fra la madre e il compagno della sorella viene rapita da un
uomo, il marito di Julia creduto morto, che
la porta in una nuova città, le fa cambiare
nome e la fa adottare da una famiglia amorevole. Qui scopre che anche gli altri bambini scomparsi, incluso David, sono stati
adottati e vivono una vita felice grazie a
Julia e a suo marito.
Tutti i film della stagione
ià al suo esordio con Saint Ange
il cineasta francese Pascal Laugier aveva dimostrato, seppur
con qualche incertezza, di volersi ritagliare un ruolo importante nel mondo dell’horror psicoanalitico.
Dopo anni di studio e qualche altra
esperienza, con la sua ultima fatica ha
centrato in pieno l’obiettivo confermandosi come uno dei giovani registi europei di
genere capaci di competere a livello internazionale. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalle apparenze.
I bambini di Cold Rock, infatti, si presenta al pubblico in incognito con una veste logora e una trama che di originale
ha ben poco. Neanche l’ambientazione,
l’ormai inflazionata provincia americana,
è di quelle più accattivanti. Ma, dopo una
partenza faticosa, il film prende vita travolgendo lo spettatore in un ritmo serrato. Niente è come sembra e quando si ha
l’illusione di aver compreso il mistero ecco
il colpo di scena che rimescola i tasselli
riportando l’indagine su altre direzioni per
arrivare a un epilogo sofferto e decisamente spiazzante. Non ai fini narrativi, ma
per il risvolto morale che lo accompagna:
è giusto rapire un bambino disagiato, privarlo dell’affetto dei genitori, per offrirgli
un futuro migliore? La risposta potrebbe
essere ovvia, ma Laugier attraverso una
sofisticata tecnica registica porta lo spet-
G
tatore a vacillare, a sospettare che determinate dinamiche non siano tanto scontate come si vuole credere. E imprime
questo suo pensiero con un “forse”, un
interrogativo tagliente che accompagna i
titoli di coda.
Ovviamente ogni persona è libera di
crearsi un’opinione a riguardo e, poiché la
questione estremamente delicata, esula da
ogni competenza cinematografica è giusto non confondere il lettore con considerazioni di natura prettamente personale.
In realtà, questo spingere chi guarda
a porsi delle domande potrebbe considerarsi il valore aggiunto della pellicola che
altrimenti si ridurrebbe ad un semplice thriller sulla figura archetipica dell’uomo nero,
decisamente poco allettante.
Sul fronte delle interpretazioni è doveroso spezzare una lancia in favore di Jessica Biel, la protagonista, inopinatamente
massacrata da critica e pubblico. La sua
recitazione non fa certo gridare all’Oscar,
ma sicuramente rende onore a un personaggio complesso che, come in Saint
Ange, nasconde, dietro un atteggiamento
materno portato agli eccessi, una fragilità
emotiva inquietante. Un ritratto femminile
che diventa quasi la “firma” di Laugier,
un’ossessione su cui varrebbe la pena di
indagare.
Francesca Piano
REALITY
Italia, Francia 2012
Regia: Matteo Garrone
Produzione: Domenico Procacci e Matteo Garrone per Archimede Film, Fandango, Le Pacte-Garance Capital, in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Prima: (Roma 28-9-2012; Milano 28-9-2012)
Soggetto: Matteo Garrone, Massimo Gaudioso
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Ugo Chiti, Massimo Garrone, Massimo Gaudioso
Direttore della fotografia: Marco Onorato
Montaggio: Marco Spoletini
Musiche: Alexandre Desplat
Scenografia: Paolo Bonfini
apoli, oggi. Luciano, sposato, tre
figli, è un pescivendolo che per
integrare i suoi scarsi guadagni
si arrangia facendo piccole truffe insieme alla moglie Maria. Attore di natura,
non perde occasione per esibirsi durante
sfarzosi matrimoni o di fronte ai clienti
N
Costumi: Maurizio Millenotti
Effetti: Leonardo Cruciano
Interpreti: Aniello Arena (Luciano), Loredana Simioli (Maria),
Nando Paone (Michele), Graziella Marina (Mamma di Luciano), Nello Iorio (Massimone), Nunzia Schiano (Zia Nunzia),
Rosaria D’Urso (Zia Rosaria),Giuseppina Cervizzi (Giusy),
Claudia Gerini (Presentatrice GF), Raffaele Ferrante (Enzo),
Paola Minaccioni (Cliente romana), Ciro Petrone (Barista),
Salvatore Misticone (Calzolaio), Vincenzo Riccio (Vincenzo),
Martina Graziuso (Martina), Alessandra Scognamillo (Alessandra)
Durata: 115’
Metri: 3180
della pescheria. Finché un giorno, per
scherzo, più per accontentare le pressanti richieste dei figli e dei parenti, partecipa a un pre-provino del Grande Fratello
organizzato all’interno di un centro commerciale. Passano i giorni, Luciano quasi se ne dimentica, poi arriva la telefona47
ta: la produzione del programma lo vuole rivedere per un vero provino, stavolta
a Roma. Luciano arriva nella capitale con
moglie e figli, entra a Cinecittà, sostiene
il provino. E quando esce da lì la sua vita
non sarà più la stessa: “Ho fatto un figurone Marì!”, dice alla moglie. La convin-
Film
zione di averli “scioccati” cede giorno
dopo giorno il posto a un’altra certezza:
l’uomo è sicurissimo di essere stato scelto per la nuova edizione del programma.
Ora, ogni sua azione, ogni singolo momento della sua vita, è scandito da una
paranoia sempre più autodistruttiva, maniacale: la produzione lo osserva, pensa
Luciano, segue ogni singolo momento della sua giornata, lo sta “testando” definitivamente per verificare se, durante il provino, l’uomo ha raccontato di sé il vero o
spudorate menzogne.
È un loop senza fine, un distacco dalla
realtà che porterà Luciano a compiere
azioni scellerate, tra le quali vendere la pescheria e donare ai poveri ogni cosa, mobili e vestiti, solamente perché convinto che
un senzatetto che gli ha chiesto l’elemosina sia in realtà un altro attore della messinscena che lui stesso si è costruito. Ma il
Grande Fratello inizia, e lui non viene più
richiamato.
Tornerà lo stesso a Roma, in occasione della via Crucis, insieme all’amico Michele: ma Cinecittà è lì, a due passi e Luciano non potrà non raggiungere quella
che ormai considera la sua “casa”. Si in-
Tutti i film della stagione
troduce, di nascosto, e osserva i partecipanti al reality, quelli “veri”, per poi stendersi su un lettino del giardino e osservare
le stelle.
A
pertura: dolly aereo, poi zoom su
una carrozza diretta a uno sfarzoso matrimonio. Chiusura: zoom
out ascensionale sul protagonista disteso e ridente nel giardino della casa del
GF. In mezzo, il racconto di un sogno che
conduce alla follia. Matteo Garrone, dopo
Gomorra, voleva realizzare un film “piccolo”, che lo “aiutasse a superare l’ansia
da prestazione dopo l’enorme successo
ottenuto con il film precedente”. Reality
però, per fortuna, sarà “piccolo” nelle premesse, ma è un altro grandissimo spaccato, disarmante specchio di un paese
alla deriva: Luciano (interpretato magistralmente dall’ergastolano Aniello Arena)
diventa protagonista di un reality che invece non è mai iniziato, ma che la sua
testa non vuole più abbandonare. Garrone dirige una favola moderna, con le musiche di Desplat che ne amplificano la direzione fiabesca, da una prospettiva insieme felliniana e debitrice dello sguardo
dei vari Germi o Risi, De Sica o Eduardo,
per seguire poi la discesa agli inferi di un
uomo la cui ossessione finisce inevitabilmente per distorcere il senso delle cose,
della vita, del reale.
E lo fa, ancora una volta, attraverso filtri ed espedienti, tecnici e narrativi, che non
distorcono ma che nemmeno soffocano la
verve insieme surreale e drammatica dell’intera vicenda: sì, perché forse in apparenza Reality è un film meno tragico di
Gomorra, ma non si può dire non sia altrettanto agghiacciante. Caldo nei colori e
nelle luci del compianto Marco Onorato,
glaciale nel ritratto di un microcosmo abitato nuovamente da attori semisconosciuti (Claudia Gerini ha una sola posa, come
conduttrice del programma tv), il film prende le mosse da un fatto di cronaca realmente accaduto e costringe lo sguardo a
specchiarsi su una superficie di volta in
volta più riflettente, trasformando la farsa
in orrore.
Vincitore del Grand Prix al 65° Festival di Cannes, stesso riconoscimento ottenuto nel 2008 con Gomorra.
Valerio Sammarco
UN GIORNO SPECIALE
Italia, 2012
Regia: Francesca Comencini
Produzione: Carlo Degli Esposti per Palomar
Distribuzione: Lucky Red
Prima: (Roma 4-10-2012; Milano 4-10-2012)
Soggetto: dal romanzo “Il cielo con un dito” di Claudio Bigagli
Sceneggiatura: Giulia Calenda, Francesca Comencini, Davide Lantieri (collaborazione)
Direttore della fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Massimo Fiocchi, Chara Vullo
ina si alza presto e viene preparata, truccata e vestita dalla
madre per essere al meglio in
occasione di un appuntamento importante che, sempre la madre, è riuscita a procurarle con il consueto giro parentale;
Gina vuole fare l’attrice e da tempo studia per questo fine, naturalmente ha bisogno della spinta necessaria per entrare
dalla porta giusta. L’appuntamento è con
l’On. Balestra, particolarmente vicino al
mondo della televisione, quindi l’uomo
giusto per aprire la porta giusta. Naturalmente madre e figlia sanno che qualcosa in cambio l’onorevole vorrà, ma un
G
Musiche: Ratchev & Carratello
Scenografia: Paola Comencini
Costumi: Ursula Patzak
Interpreti: Filippo Scicchitano (Marco), Giulia Valentini (Gina),
Roberto Infascelli (Autista deposito), Antonio Giancarlo Zavatteri (Onorevole Balestra), Daniela Del Priore (Marta), Rocco Miglionico (Rocco)
Durata: 90’
Metri: 2470
“piccolo” sacrificio può essere sopportato se in grado di condurre a un brillante futuro.
A prendere Gina con un classico macchinone scuro d’ordinanza si presenta
Marco, anche lui giovanissimo, addirittura al suo primo giorno di lavoro come
autista presso la società di noleggio di
auto di rappresentanza. Marco è entusiasta e grato per la sua nuova vita lavorativa che, grazie alla madre, è riuscito ad avere e si mostra disponibile,
positivo e gentile nei confronti di Giulia
che inizialmente sta molto “sulle sue” e
risponde con una certa supponenza ai
48
tentativi di conversazione del giovane
come volesse far sentire la differenza tra
il lavoro ordinario di lui e il luminoso
futuro che sembrerebbe le sia stato assegnato.
I continui rinvii dell’appuntamento
(l’onorevole ha una giornata molto impegnata) che giungono a Marco tramite
cellulare offrono ai due giovani la possibilità di passare molte ore insieme: da
una passeggiata in campagna a un giro
in un centro commerciale e al bowling,
da un percorso ai Fori Romani a una
colazione spropositamente cara sul conto dell’onorevole fino a un maldestro ten-
Film
tativo, più che altro una sbruffonata, di
furto di un vestito in una preziosa boutique del centro che rischia di mandare a
monte la giornata. Marco e Gina hanno
così la possibilità di comunicare e capirsi, di confidarsi pezzi della propria
vita, le proprie paure, speranze e difficoltà e lasciano anche che sorga tra di
loro qualcosa di serio (soprattutto da
parte di Marco), anche se non compiutamente espresso.
La giornata volge al termine, finalmente arriva il via libera dall’onorevole il cui
studio è raggiunto dai due giovani con il
magone nel cuore: Marco è prontamente
allontanato, Gina si presta arrendevole a
“pagare” il prezzo della sua entratura negli ambienti televisivi.
In un mutismo di piombo Marco riaccompagna Gina a casa che racconta alla
madre che tutto è andato come doveva andare, cioè bene; Marco scarica la sua rabbia e la sua impotenza in una lite furibonda con i colleghi dell’agenzia di noleggio (restituisce il bel macchinone con
una brutta strisciata) e trasforma il suo
primo giorno di lavoro nell’ultimo; corre
poi da Gina in moto e la chiama da sotto
le finestre ma la ragazza è assorta e inebetita per come ha dato il via alla sua
nuova esistenza.
cena dopo scena sembra proprio
che Francesca Comencini non
riesca a fermare la sua sofferenza e la sua rabbia nel presentarci questa
storia di vita ordinaria che ogni giorno si
consuma sotto i nostri occhi impotenti e
complici e che ha al suo centro come un’intera generazione di giovani sia stata svilita, mercificata, privata dei suoi valori fondamentali da madri ignobili e da adulti corrotti; in una parola, sia stata spazzata via.
È un discorso che la Comencini tiene
sempre molto alto, senza abbassare mai
la guardia, dando vita a un’ambientazione
resa come un ulteriore personaggio, splendidamente fotografata da Luca Bigazzi in
stato di grazia: i quartieri degradati da cui
provengono Gina e Marco e gli abitanti loro
coetanei presentati in sequenza in una
colorazione arida, da terzo mondo; i palazzi opulenti del potere, gli atri, i cortili, i
vestiboli e le stanze tenuti sotto una cromatura spessa che trasuda denaro e un
potere arroccato, torvo, insolente, impunito e spregiudicato; le scene tra i due protagonisti, private invece di ogni forzatura
coloristica per mettere in risalto l’illusorietà e l’involontaria inconsistenza delle speranze che saranno presto demolite dallo
scontro frontale con la società di oggi. La
scena finale con Gina devastata e incapa-
S
Tutti i film della stagione
ce di qualsiasi azione e Marco, passato di
colpo dalla leggerezza al dramma che incessantemente la chiama senza che lei
senta o possa o voglia sentire dà i brividi:
è l’attestazione di un disastro che la regista sottoscrive, per i due personaggi, per
chiunque sia attento a quello che accade,
per lo spettatore meno giovane in sala che
si domanda in quale momento dei decenni trascorsi la sua generazione si sia distratta, colpevolmente distratta e abbia
ceduto, colpevolmente ceduto per poter
permettere tutto questo.
Assecondano la Comencini in maniera docilmente perfetta, seguendone non
solo l’impianto principale ma anche le tante
annotazioni, i dettagli, i suggerimenti che
in maniera evidente la regista ha dato, i
due giovani interpreti: Giulia Valentini, padrona molto di più di un’esordiente qual è
di inquadrature che la rendono bellissima
e seducente e di altre in cui mostra dubbi,
difficoltà incertezze, smargiassate e una
sconfinata, struggente tristezza. Filippo
Scicchitano conferma dopo Scialla una
presenza scenica intensa, qui accresciuta da spontanee ingenuità che lo fanno
ancora più giovane di quanto effettivamente lui è.
Entrambi questi due ragazzi hanno
seguito e fatto loro la forte impostazione
registica con intelligenza e sensibilità, rendendo l’acerbità di alcuni momenti basi
preziose e non deficitarie su cui costruire
un futuro di professionisti adulti, consolidati, ricchi di un mestiere che non abbia
rinunciato alla freschezza e alla fragilità del
recitare.
Fabrizio Moresco
IL CUORE GRANDE DELLE RAGAZZE
Italia 2011
Regia: Pupi Avati
Produzione: Antonio Avati per Duea Film, in collaborazione con Medusa Film e Sky
Cinema
Distribuzione: Medusa
Prima: (Roma 11-11-2011; Milano 11-11-2011)
Soggetto e Sceneggiatura: Pupi Avati
Direttore della fotografia: Pasquale Rachini
Montaggio: Amedeo Salfa
Musiche: Lucio Dalla
Scenografia: Giuliano Pannuti
Costumi: Catia Dottori
Effetti: Justeleven
Interpreti: Cesare Cremonini (Carlino Viggetti), Micaela Ramazzotti (Francesca Osti),
Gianni Cavina (Sisto Osti), Andrea Roncato (Adolfo Vigetti), Erika Blanc (Eugenia
Vigetti), Manuela Morabito (Rosalia Osti), Gisella Sofio (Olimpia Osti), Marcello Caroli
(Edo Vigetti), Sara Pastore (Sultana Vigetti), Massimo Bonetti (Umberto Vigetti),
Sydne Rome (Enrichetta), Rita Carlini (Maria Osti), Stefania Scarpa (Amabile Osti)
Durata: 85’
Metri: 2330
49
Film
rima metà degli anni ‘30, in un
paese dell’Italia centrale. La famiglia contadina dei Vigetti ha tre
figli: il piccolo Edo, Sultana e Carlino, giovanotto molto ambito dalle ragazze, ma quasi
analfabeta. Sisto Osti e la seconda moglie
Rosalia, una ruspante donna che viene dall’agro pontino, sono invece i proprietari terrieri che vivono in una casa padronale con
le loro due figlie un po’ attempate, entrambe
da maritare: Maria e Amabile.
Facendo buon viso a cattivo gioco, gli
Osti accettano che Carlino Vigetti corteggi le due sorelle con l’intento di sistemarne almeno una. In cambio delle nozze, la
famiglia del giovane avrà il rinnovo del
contratto immobiliare per altri dieci anni.
Inizia un periodo di incontri con le due
donne (ogni giorno per un’ora nel salotto
di casa Osti), turbato però un giorno dall’arrivo improvviso di Francesca. La ragazza era stata mandata a studiare a Roma
in un collegio di suore.
Tra i due è colpo di fulmine. A questo
punto, Carlino non vuole più corteggiare
le due sorelle bruttine e Francesca non
vuole sposare altri che lo spiantato contadino. Dopo l’iniziale contrarietà, gli Osti
devono cedere: Francesca forza loro la
mano con tutti i mezzi, non ultimo un tentativo di suicidio.
Si prepara il matrimonio ma, nella concitazione, ci si dimentica di avvisare il prete: sposi ed invitati si ritrovano davanti alla
porta della chiesa chiusa. La cerimonia
salta, ma si festeggia comunque con il banchetto. Subito dopo il signor Vigetti, non
potendo sopportare il dolore e la vergogna provocatigli dal figlio per aver scelto
la donna sbagliata, si ammala e muore.
Finalmente i due ragazzi si sposano.
Ma, proprio durante il viaggio di nozze,
mentre la moglie si sta preparando per la
prima notte, Carlino la tradisce con una
cameriera dell’albergo, una sua vecchia
fiamma.
P
Tutti i film della stagione
Francesca, disperata, scappa in Puglia da una zia. Qui, nonostante le lettere
del marito pentito, non vuole più saperne. Fino a quando un telegramma la informa della morte di Carlino. Lei si precipita al paese ma, una volta arrivata, si
accorge che il marito è vivo e che si trattava soltanto di un pretesto per farla ritornare da lui.
upi Avati torna a far commuovere sorridendo come non gli riusciva da tanto tempo. La sua ultima “fatica”, di nuovo fedele a quella poetica della provincia italiana dei buoni sentimenti che forse non tradirà mai, ricorda per
leggerezza e genuinità di ispirazione pellicole di successo come Il cuore altrove e
La seconda notte di nozze.
Questa piccola storia agreste narrata
ai tempi della terza elementare dal piccolo Edo Vigetti (che ha la voce di Alessandro Haber) ha ritmo e dimostra una certa
finezza di scrittura. Ma, sopratutto, presenta un’irresistibile galleria di personaggi che
sembrano usciti da uno dei film-sogno di
Fellini.
Pensiamo, ad esempio, all’ignorante e
grezza Rosalia, nuova donna di casa Osti
dal forte accento romanesco (interpretata
da una Manuela Morabito al limite della
caricatura), allo zio reduce di guerra rincoglionito che ha sposato un’ex puttana a
cui manca un occhio! Oppure alla ragazzotta simile a Gradisca, dal nome già bizzarro, Sultana, dalle lunghe trecce rosse,
che aspetta di avere il ciclo mestruale da
ben nove anni! O ancora alla banda di ciechi chiamata a suonare come orchestra per
il matrimonio dei due sposini.
Anche il protagonista Carlino, a suo
modo, è una figura curiosa ed eccentrica:
ha la particolarità di avere un alito che profuma di biancospino, “arma” di cui si serve
per conquistare tutte le femmine del paese. Alla sua prima prova di attore, il simpa-
P
tico cantautore bolognese Cesare Cremonini non “stona”, anzi è perfettamente in
sintonia col suo personaggio. Un giovane
quasi sospeso nelle nuvole in un mondo
tutto suo e in un ruolo che invece non gli
appartiene: come dire - un “analfabeta di
cinema”. Una scelta voluta e ben congegnata dal regista, che ha dato il risultato
sperato.
Avati, con il suo solito tocco elegante
e dolce-amaro, racconta tutti i rituali, da
vera e propria farsa, che animano la (mai
consumata) cerimonia delle nozze. Dai tre
spari del padre della sposa nel tragitto verso la chiesa al movimentato banchetto,
passando per l’improvvisa sparizione del
prete.
E poi mostra l’anima più popolare e
verace del sapere contadino, con le sue
tradizioni (il corredo ricamato della sposa),
le sue credenze (la verginità prima del
matrimonio), e i suoi riti “scaramantici” (il
padre di Carlino, ormai sul letto di morte,
tocca il pube di una donna del paese nel
tentativo di rianimarsi!).
Il cuore grande delle ragazze, girato
nelle campagne delle Marche, tra Mogliano e Porto San Giorgio, è impreziosito dalle
musiche dell’”invidiato” amico di conservatorio Lucio Dalla. Il film alla fine riesce a
incantare soprattutto per il felice assortimento del cast. Gianni Cavina e Andrea
Roncato non sono soltanto i capifamiglia
ma si rivelano oltretutto essere autentici
“capocomici”, tale è la bravura e la naturalezza con cui si muovono in scena.
Infine, anche l’idea di Micaela Ramazzotti come fidanzata disposta a tutto pur di
difendere il proprio amore e la propria antica concezione di amore (perfino a gettarsi dalla finestra!) ci sembra indovinata,
perché dona un senso di freschezza e brio
a tutto il racconto. Il vero ingrediente vincente di questa novella “bucolica”.
Diego Mondella
L’INTERVALLO
Italia, Svizzera, Germania 2012
Regia: Leonardo Di Costanzo
Produzione: Tempesta e Amka Films Productions in collaborazione con Rai Cinema, in coproduzione con Rsi Radiotelevisione Svizzera Srg Ssr, Zdf/Das Kleine Fernsehspiel, in collaborazione con Arte
Distribuzione: Istituto Luce - Cinecittà
Prima: (Roma 5-9-2012; Milano 5-9-2012)
Soggetto: Maurizio Braucci, Leonardo Di Costanzo
Sceneggiatura: Maurizio Braucci, Mariangela Barbanente,
Leonardo Di Costanzo
Direttore della fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Carlotta Cristiani
Musiche: Marco Cappelli
Scenografia: Luca Servino
Costumi: Kay Devanthey
Interpreti: Francesca Riso (Veronica), (Salvatore), Carmine
Paternoster (Bernardino), Salvatore Ruocco (Mimmo), Antonio Buíl (Padre di Salvatore), Jean-Yves Morard (Slavo)
Durata: 90’
Metri: 2480
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Film
apoli, oggi, uno dei suoi quartieri degradati.
Veronica (15 anni) ha commesso
uno sgarro: si è incapricciata di un ragazzo di un altro territorio, avversario
del gruppo camorrista guidato da Bernardino che spadroneggia nella zona
dove Veronica vive. Per punizione, per
fare capire alla ragazza come devono
andare le cose, Bernardino la “condanna” a un giorno di reclusione in un palazzo abbandonato, custodita da Salvatore (pressappoco della stessa età), venditore ambulante di granite insieme al
padre e, naturalmente, a disposizione
dei camorristi per servizi piccoli e grandi.
I due ragazzi così vivono insieme una
giornata da reclusi in un palazzo fatiscente e pericolante che sembrerebbe essere
stato un tempo un collegio (chi dice un manicomio), nelle cui stanze una ragazza, di
cui c’è ancora una foto attaccata al muro,
si è impiccata.
Veronica morde il freno, è inquieta,
vorrebbe fare mille cose, bere, mangiare, correre, fuggire. Salvatore è più pacato, intelligente e sensibile sotto la sua
compostezza; nonostante la sua giovane
età sa benissimo con chi hanno a che
fare: è gente che non scherza e non perdona, è meglio restare tranquilli e aspettare la sera. L’unica cosa che i due ragazzi possono fare per ammazzare il tempo è girare in lungo e in largo per il palazzo, percorrere gli sconfinati corridoi,
le stanze, le gallerie annerite dal tempo,
le cantine allagate, i giardini desolati e
poi scambiarsi qualche brandello delle
proprie vite, scampoli di pensieri, desideri e aspirazioni appena accennate, so-
N
Tutti i film della stagione
gni di ragazzini perchè tali, in fin dei
conti sono.
A sera, arriva Bernardino con i suoi
guardaspalle per un lungo colloquio con
Veronica; lei inizialmente pare manifestare la stessa ribellione della mattina poi, in
seguito ai discorsi di lui fermi, forti, non
violenti ma decisamente intimidatori e,
nello stesso tempo, serenamente convinti
di un potere che non si può mettere in discussione, la ragazza sente sgretolare le
proprie convinzioni, si adatta alla situazione e se ne va in moto con il suo ex carceriere.
Anche Salvatore può riprendere la propria vita: gli viene restituito il carrettino
con le granite e dato qualche euro per coprire il “disturbo” della giornata.
ttimo il primo film “vero” del documentarista ischitano Leonardo Di Costanzo che si è immerso completamente in una dimensione che
sente sua, sulla propria pelle, fatta di dialoghi ed espressioni di una napoletanità
dalle forti radici, antica, oscura, violenta,
quella dei “lazzari”.
In questo fiume sempre più gonfio troviamo di tutto: la spiritualità dell’antico e
la presenza assidua e abituale dei morti
con tutte le loro credenze e leggende; il
rapporto tra i personaggi che, volendo o
non volendo è densamente sensuale; la
complicità tra due esseri che riconoscono il loro status di vasi di coccio in mezzo
a terribili vasi di ferro ma inconsciamente
pretendono una lama di luce anche per
loro o, quantomeno, rispetto se non considerazione.
Vengono in mente le tinte neorealiste
di Rossellini e, naturalmente, la Ortese di
“Il Mare non bagna Napoli”: una discesa
O
all’inferno commossa e angosciata scritta
sessant’anni fa’; bene, gli inferi sono ancora lì, nulla è cambiato, la violenza è attecchita ancora di più e i morti vagano insieme ai vivi senza che si possano distinguere gli uni dagli altri.
Poi questa stupenda riflessione tragica su un pezzo della nostra gente e del
nostro Paese che potrebbe essere bellissimo e invece è dannato e condannato diventa un pezzo di cinema puro d’alta scuola a tal punto che parrebbe sfuggito di mano al suo autore ma che invece conferma la molteplicità delle soluzioni spettacolari in suo possesso: stiamo
parlando dell’entrata in scena del capoclan Bernardino che alla fine della storia
deve mettere definitivamente le cose in
ordine.
La scena è condotta da Di Costanzo
con un bellissimo dosaggio di ombre e luci
e di movimenti di macchina che alternano sinuosità circolari alla Kubrick con fermi repentini, primi piani implacabili: al
centro i due giovani, Veronica, dolce farfalla senza armi tra le chele di un ragno e
poi lui, la rivelazione Carmine Paternoster. Non sappiamo quasi nulla di quest’ottimo attore, l’abbiamo visto in Gomorra,
ora qui con Di Costanzo, non ne conosciamo l’origine professionale, ma sappiamo riconoscere la sua padronanza scenica e quell’uso di gestualità e sguardi
senza compiacimenti né sbavature che
trasforma un uomo in un attore, rendendolo tutt’uno con quello che ha in testa il
suo regista: una vera “occupazione” dello
schermo per la quale raramente lo spettatore in sala ha un impatto così forte e
immediato.
Fabrizio Moresco
L’INDUSTRIALE
Italia 2011
Regia: Giuliano Montaldo
Produzione: Angelo Barbagallo per Bibi Film in collaborazione
con Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution
Prima: (Roma 13-1-2012; Milano 13-1-2012)
Soggetto: Vera Pescarolo Montaldo, Giuliano Montaldo
Sceneggiatura: Andrea Purgatori, Giuliano Montaldo
Direttore della fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Consuelo Catucci
Musiche: Andrea Morricone
Scenografia: Francesco Frigeri
Costumi: Elisabetta Montaldo
Interpreti: Pierfrancesco Favino (Nicola), Carolina Crescentini (Laura), Eduard Gabia (Gabriel), Elena Di Cioccio (Marcella), Elisabetta Piccolomini (Beatrice), Andrea Tidona
(Barbera), Mauro Pirovano (Olivieri), Gianni Bissaca (Saverio), Roberto Alpi (Banchiere), Francesco Scianna (Ferrero)
Durata: 94’
Metri: 2600
51
Film
orino. L’ingegnere Nicola Ranieri è il proprietario di
un’azienda di prodotti meccanici ecologici sull’orlo del fallimento. Il
direttore di una banca gli nega il ri-finanziamento, perché da 3 anni non produce
profitti e non ha fiducia nella sua nuova
sperimentazione di moduli fotovoltaici.
L’unica speranza di risollevare le sorti dell’industria fondata dal padre è rappresentata da una società tedesca intenzionata a rilevare alcune quote di mercato. Il compito viene affidato all’amico avvocato Ferrero, che si reca in Germania
per la trattativa.
I dipendenti, ansiosi di conoscere il
loro destino, chiedono un chiarimento a
Ranieri, il quale si impegna a battersi per
salvare l’azienda, a patto però che gli operai sostengano il suo sforzo.
Nicola attraversa un momento difficile anche nella vita privata. Il suo matrimonio sta andando a pezzi: lui e sua moglie Laura non riescono più a comunicare
e vivono come separati in casa.
La donna è combattuta: vorrebbe aiutare il marito (che vuole andare avanti da
solo) ma, allo stesso tempo, rifiuta la proposta della madre che si offre di garantire
per il genero. Sentendosi abbandonata da
Nicola, Laura stringe un’amicizia con Gabriel, un garagista romeno innamorato di
lei.
I due iniziano a frequentarsi di nascosto. Presto però il marito li scopre e, da
quel momento, decide di seguire gli spostamenti della donna. Offre quindi del denaro al ragazzo per togliersi di mezzo.
Nel frattempo, si inventa una soluzione “stravagante” per convincere i tedeschi
T
Tutti i film della stagione
a rilevare il pacchetto di minoranza dell’azienda: una fantomatica società concorrente dietro cui si celano in realtà i proprietari di un ristorante giapponese.
Il ricevimento organizzato per festeggiare l’accordo sembra l’occasione giusta
per Ranieri per ritrovare la serenità anche
in famiglia. E, invece, entrambe i coniugi
scoprono due tristi verità.
Nicola viene a sapere che è stata la
moglie ad acquistare le azioni, mentre Laura rimane scioccata quando legge che Gabriel è morto e il responsabile è il marito:
quest’ultimo, a seguito di un incidente (il
giovane cadendo ha battuto fatalmente la
testa su un masso), lo ha gettato nel fiume.
n una Torino invasa dagli scioperi
di operai e studenti, notturna e
gelida come la fotografia seppiata
e virante al bianco e nero di Arnaldo Catinari, va in atto il calvario del moderno imprenditore globale. Schiacciato dal senso
di colpa familiare, e soffocato dal bieco cinismo degli istituti bancari (i cui imperturbabili direttori non amano scommettere sul
futuro se non ci sono garanzie sufficienti)
e dall’«usura legalizzata» delle finanziarie.
Queste, almeno sulla carta, le intenzioni di Montaldo e dello sceneggiatore
Purgatori. Ma rappresentare la difficile e
stratificata realtà della crisi economica non
è un’impresa semplice, neppure per un
veterano del nostro cinema “impegnato”.
Il copione rischia continuamente di essere didascalico, quasi da fiction televisiva.
Così come i dialoghi, che non brillano per
originalità.
A volte, si ha la sensazione che la tra-
I
gedia sociale dell’ing. Ranieri e del precario capitale umano alle sue dipendenze
conti di meno delle sue fisime di gelosia
per la moglie insoddisfatta (una splendida
Carolina Crescentini). Invece di occuparsi
dell’azienda, che gli si sta sbriciolando in
mano proprio come la vecchia insegna di
famiglia, preferisce spiare la donna nei suoi
incontri clandestini, ma innocenti, col garagista romeno (che si diverte a lavare le
macchine al ritmo di musica classica!).
Mentre, quarant’anni dopo il capolavoro di Elio Petri, la “classe operaia va all’inferno”, ed è consapevole questa volta di
finirci per davvero («Non è colpa tua. È il
mondo che ci sta crollando addosso» dice un vecchio manovale al principale),
il protagonista, interpretato da un Favino
meno convincente del solito, “sveste” i
panni dell’industriale per trasformarsi in
improbabile detective. Il pedinamento,
però, non soltanto si rivela un buco nell’acqua (la moglie non consuma alcun tipo
di tradimento) ma, alla lunga, risulta essere piuttosto tedioso per la ripetitività dei
suoi movimenti.
Il colpo di scena finale, con il più debole (il romeno) che paga per l’arroganza
del più ricco (e in realtà più fragile), ricorda i melodrammi americani anni ‘50, con
l’effetto di sembrare perfino stucchevole
per il suo voler rincorrere a tutti i costi il
“politicamente corretto”. Dietro la pretesa
di raccontare l’Italia di oggi (compito che il
cinema non riesce purtroppo più ad assolvere se non a colpi di “commedie seriali”), si scorge un’onesta storia di sentimenti,
sofferti e contrastanti.
Ma allora è proprio vero che non ci può
essere solidità di affetti senza stabilità economica. L’equazione è obbligata. Del resto, ce lo ricorda anche l’ultimo bellissimo
lavoro di Cèdric Kahn: Une vie meilleure
(anch’esso presentato al Festival di Roma
del 2011 e in attesa di avere una distribuzione italiana). Qui il dramma intimo di una
giovane famiglia disgregata dai debiti e in
lotta per la sopravvivenza, almeno nell’ultima parte, pare prendere il sopravvento.
Ma non è mai disgiunto da quello più ampio che scorre ogni giorno sotto i nostri
occhi, al contrario di quanto avviene in L’industriale.
Insomma, se il film francese ha il potere di condensare in sé tutte le contraddizioni del sistema globale e le devastanti
conseguenze che esse hanno sulla quotidianità, quello di Montaldo si perde invece
per strada, gettando al vento una straordinaria occasione: raccontare il nostro Paese, senza retorica e schemi televisivi.
Diego Mondella
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Film
Tutti i film della stagione
LO HOBBIT – UN VIAGGIO INASPETTATO
(The Hobbit: An Unexpected Journey)
Stati Uniti, Nuova Zelanda 2012
Regia: Peter Jackson
Produzione: Carolynne Cunningham, Zane Weiner, Fran Walsh, Peter Jackson, Philippa Boyens, Eileen Moran per Wingnut Films, New Line Cinema, Metro Goldwyn Mayer, 3Foot7
Distribuzione: Warner Bros. Pictures Italia
Prima: (Roma 13-12-2012; Milano 13-12-2012)
Soggetto: dal romanzo di J.R.R. Tolkien
Sceneggiatura: Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson,
Giullermo del Toro
Direttore della fotografia: Andrew Lesnie
Montaggio: Jabez Oissen
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Dan Hennah
Costumi: Ann Maskrey, Richard Taylor, Bob Buck
Effetti: Richard Taylor, Joe Letteri, Eric Saindon, David Clayton,
R. Christopher White, Weta Digital Ltd., Weta Workshop Ltd.
Interpreti: Ian McKellen (Gandalf), Martin Freeman (Bilbo Baggins), Richard Armitage (Thorin Scudodiquercia), James Nes-
iamo nella Terra di Mezzo e la
storia inizia sessant’anni prima
che Frodo inizi la sua avventura
verso Gran Burron. Bilbo Baggins conduce una vita tranquilla fino a quando non
riceve la visita di Gandalf, il quale chiede
il suo aiuto per una missione il cui scopo è
liberare il proprio regno da un potere ormai volto solo all’arricchimento e all’accumulo del denaro e la cui vitalità è stata
persa da tempo. Il tranquillo hobbit non
vuole invischiarsi in questa eroica proposta fino a che grazie a un segno lasciato
da Gandalf sulla porta della sua abitazione viene rintracciato dalla sua squadra. 12
nani e il loro capo Thorin Scudodiquercia
“costringono” Bilbo a essere loro alleato.
Così parte “ il viaggio inaspettato “ di
Bilbo alla riconquista di Elbor, il regno dei
nani sotto le grinfie del drago Smaug assetato di monete d’oro. Da lì, una serie di
scontri con orchi, troll, fino all’incontro
con Gollum e alla lotta contro gli alberi.
S
er tutti gli appassionati della trilogia uno spunto interessante per
scoprire qual è il passato di Bilbo Baggins. A mio parere l’impressione
che se ne ha è di assistere a scene e spezzoni già visti nella trilogia e adattati a una
nuova storia, ovvero quella dell’hobbit, zio
di Frodo. Una trama molto più fiabesca di
quella della trilogia, in cui, comunque, rimangono costanti il valore e l’alta suggestività delle musiche e degli scenari mozzafiato. Il regista Peter Jackson realizza un
prequel più soft i cui ritmi sono un po’ rallentati (soprattutto nella prima parte) ma
le battaglie come nella trilogia non mancano. Per tutti i fan di Gigi Proietti il dop-
P
bitt (Bofur), Ken Stott (Lord Balin), Cate Blanchett (Galadriel),
Ian Holm (Bilbo Anziano), Christopher Lee (Saruman), Hugo
Weaving (Elrond), Elijah Wood (Frodo), Andy Serkis (Gollum),
Orlando Bloom (Legolas), Graham McTavish (Dwalin),William
Kircher (Bifur), Stephen Hunter (Bombur), Dean O’Gorman (Fili),
Aidan Turner (Kili), John Callen (Oin), Peter Hambleton (Gloin),
Jed Brophy (Nori), Mark Hadlow (Dori), Adam Brown
(Ori),Sylvester McCoy (Radagast il Bruno), Barry Humphries
(Goblin), Jeffrey Thomas (Re Thror), Michael Mizrahi (Re Thrain),
Lee Pace (Re Thranduil), Manu Bennett (Azog),Conan Stevens
(Bolg), John Rawls (Yazneg),Stephen Ure (Fimbul/
Grinnah),Timothy Bartlett (Master Worrywort),William Kircher
(Tom Troll), Mark Hadlow (Bert Troll), Peter Hambleton (William
Troll), Bret McKenzie (Lindir), Kiran Shah (Goblin Scribe), Benedict Cumberbatch (Negromante),Glenn Boswell (Nano minatore), Thomas Robins (Giovane Thrain)
Durata: 173’
Metri: 4011
piaggio di Gandalf è molto spassoso. Lo
ammetto non sono una appassionata del
genere, ma credo che la scena più bella
sia quella con Gollum e lo scambio di indovinelli che riesce sempre ad attirare la
simpatia di tanti. Possiamo dire che si tratta di un’opera che esiste solo in funzione
della saga. Un film che non ha senso vedere se non si conosce la trilogia. Non funziona in maniera autonoma e la visione in
3D non aggiungerebbe niente al film. I ruoli
e gli attori molto azzeccati mentre i costi di
produzione del film sono stati come sempre ingenti e accanto a questo forte è l’appello degli ecologisti che portano avanti la
loro battaglia e denuncia contro il danneggiamento dei set naturalistici del film (sempre in Nuova Zelanda).
Inizialmente Guillermo Del Toro che doveva dirigere Lo Hobbit ha solo collaborato
per quel che riguarda la sceneggiatura.
Jackson ha voluto cambiare, raddoppiando
i fotogrammi: da 24 a 48. Non bastano questi espedienti tecnici a salvare un film lanciato con grandi aspettative da parte della
produzione e grande desiderio del pubblico.
Ingaggiare qualcuno per una missione eroica ricorda tanti altri film del genere fantasy.
In particolare mi ha fatto rievocare il recente
Biancaneve e il cacciatore per ambientazione e atmosfera dark gotica.
A dirla tutta, ribalterei quello che si dice
un successo inaspettato.. si tratta piuttosto inaspettatamente di un successo!
Giulia Angelucci
COSIMO E NICOLE
Italia 2012
Regia: Francesco Amato
Produzione: Riccardo Tozzi, Giovanni Stabilini, Marco Chimenz per Cattleya e Fastfilm in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: Bolero Film
Prima: (Roma 29-11-2012; Milano 29-11-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Giuliano Miniati, Daniela Gambaro, Francesco Amato
Direttore della fotografia: Federico Annichiarico
Montaggio: Luigi Mearelli
Musiche: Francesco Cerasi
Scenografia: Emita Frigato
Costumi: Medile Siaulytyte
Interpreti: Riccardo Scamarcio (Cosimo), Clara Ponsot (Nicole), Paolo Sassanelli
(Paolo), Souleymane Sow (Alioune), Giorgia Salari (Nadia), Andrea Bruschi (Commissario), Jo Prestia (Jean), Thierno Thiam (Thierno), Angela Baraldi (Patty)
Durata: 101’
Metri: 2780
53
Film
osimo è un giovane italiano, Nicole una ragazza francese. Si conoscono a Genova nel 2001 durante gli scontri del G8 e si innamorano a
prima vista. Da subito nasce una passione
incontrollata. I due sono pieni di vita, vagabondi e un po’ incoscienti, la musica è
la loro grande passione. Dopo tanto girovagare e un periodo trascorso in Francia
presso il padre della ragazza, Cosimo e
Nicole decidono di tornare a Genova, dove
iniziano a lavorare presso il loro amico Paolo, organizzatore di concerti, che li aveva aiutati mentre scappavano dagli scontri del G8.
Cosimo impara un mestiere diventando uno dei collaboratori più validi di Paolo e tutto sembra andare per il meglio. I
due ragazzi trovano anche il loro nido
d’amore in una palafitta in riva al mare.
Ma, un giorno, Alioune, un operaio africano immigrato clandestino, precipita da
un’impalcatura mentre sta montando un
palco. Il giovane sembra morto. Scosso
dall’incidente e temendo grossi guai con
la giustizia dal momento che dava lavoro
in nero a un clandestino, Paolo si fa aiutare da Cosimo a sbarazzarsi del corpo del
ragazzo, dopo aver fatto sparire i suoi documenti e i suoi effetti personali. Ma i giorni successivi Nicole, scossa da quel fatto,
non si dà pace. Frugando nello zaino di
Alioune, la ragazza trova una lettera che
l’uomo aveva scritto alla moglie e, piena
di sensi di colpa, vorrebbe mettersi in contatto con lei. La ragazza scrive una lettera
alla donna e litiga con Cosimo, intenzionato a lasciar passare sotto silenzio quel
drammatico incidente. Ma il destino ci
mette lo zampino perché casualmente, in
un ospedale, Nicole vede Aliuone che è sopravvissuto e giace in un letto privo di conoscenza. Nicole lo va a trovare con regolarità, finché un’infermiera le dice che vuole comunicare le sue visite alla polizia. Un
giorno il giovane si sveglia. Saputo che
Alioune è ancora vivo, Paolo lo affronta
minacciando di farlo fuori. Cosimo e Nicole aiutano Alioune a fuggire attraverso
la Francia e poi in Belgio dove il ragazzo
vuole raggiungere il fratello. Ma, subito
dopo aver varcato il confine belga, i tre
vengono sorpresi da alcuni poliziotti in un
bar. Cosimo e Nicole vengono arrestati e
condannati a due anni di reclusione. Trascorso il periodo di detenzione, i due giovani si incontrano di nuovo e si ritrovano
diversi e maturati. I due vengono invitati a
pranzo da Thierno, fratello di Alioune.
Durante il pranzo, in cui si festeggia la festa del montone, Cosimo e Nicole si ritrovano vicini e si lasciano andare alla musica in una danza liberatoria.
C
Tutti i film della stagione
resentato alla settima edizione
del Festival Internazionale del
Film di Roma, Cosimo e Nicole è
il film vincitore della sezione “Prospettive
Italia”.
Al suo secondo lungometraggio dopo
Ma che ci faccio qui? del 2006, il trentaquattrenne Francesco Amato ha confessato di
aver pensato il film partendo dal desiderio
di raccontare una generazione a cui in parte sente di appartenere. Al centro della storia, un amore “folle”, assoluto, passionale,
che trova il suo apice nella scelta di una
vita nomade, libera da regole o legami. Una
coppia precaria “per scelta” (in tempi di tante
precarietà “forzate”) che si ama spudoratamente. Il loro slancio vitale si manifesta in
quella che il regista ha definito “complicità
fisica, tattile”. L’intento di fare un film non
“sulla” coppia ma “dentro” la coppia, cercando disegnare un “perimetro intimo” dentro al quale potessero entrare solo Cosimo
e Nicole riesce però solo fino a un certo
punto. Proprio nel momento in cui i due
mettono radici (e Cosimo sembra addirittura trovare un lavoro fisso), la loro storia viene drammaticamente a contatto con la vita
vera. E si perde qualcosa, a livello emozionale e di tenuta drammatica. Le diverse reazioni dei due protagonisti a una (quasi)
morte bianca fanno perdere coesione alla
coppia ma anche al film.
Uno dei meriti maggiori dell’opera, è,
comunque, da rintracciarsi nel particolare
sguardo sugli avvenimenti del G8 di Genova del 2001 (che qui è solo il motore della
miccia che si accende fra i due protagonisti) riletto con occhi nuovi. Come ha sottolineato Riccardo Scamarcio, mettendo al
centro due esseri umani e non una teoria
P
sociale, quegli eventi di drammatica attualità sono visti con taglio “antropologico” più
che “sociologico”. Più che il G8 però, che è
solo uno spunto di partenza, il vero tema
sociale che entra prepotentemente nella
storia d’amore è il dramma delle morti bianche (gli sceneggiatori hanno ammesso di
aver pensato questo film prima degli episodi balzati agli onori delle cronache delle
morti sui palchi di concerti famosi come
Jovanotti e la Pausini). E il fatto di aver
mostrato un tema di tale scottante attualità
in una pellicola che mette al centro una storia d’amore è cosa non da poco.
Ma è proprio il finale la parte più debole del film: quella fuga da ‘road movie’ che
diviene un percorso di espiazione dei sensi
di colpa non è esente dal rischio banalità.
E l’ultima scena, con i due protagonisti, più
maturi e consapevoli, che si lasciano andare alla musica e al suo potere trascinante non convince in pieno.
Un applauso, comunque, alle prove
recitative di un intenso Riccardo Scamarcio, di una conturbante e bellissima Clara
Ponsot e di un bravissimo Paolo Sassanelli. La sua caratterizzazione, tra paura e
rabbia, di un organizzatore di concerti, un
uomo all’apparenza progressista e ‘easy’
ma capace di mostrare anche un aspetto
‘oscuro’, cinico e prevaricatore che non
esita a violare la legalità, è una delle note
più felici del film.
Una nota finale di apprezzamento va
alle musiche di gruppi rock come Afterhours, Verdena e Marlene Kuntz, registrate ‘live’ in veri concerti organizzati apposta
per le riprese.
Elena Bartoni
LA SPOSA PROMESSA – FILL THE VOID
(Lemale et ha’chalal)
Israele 2012
Regia: Rama Burshtein
Produzione: Norma Productions
Distribuzione: Lucky Red
Prima: (Roma 15-11-2012; Milano 15-11-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Rama Burshtein
Direttore della fotografia: Asaf Sudry
Montaggio: Sharon Elovic
Musiche: Yitzhak Azulay
Scenografia: Ori Aminov
Costumi: Chani Gurewitz
Interpreti: Hadas Yaron (Shira Mendelman),Yiftach Klein (Yochay Mendelman), Irit Sheleg
(Rivka Mendelman),Chayim Sharir (Aharon), Razia Israeli (Zia Hanna), Hila Feldman
(Frieda), Renana Raz (Esther Mendelman),Yael Tal (Shifi), Michael David Weigl (Shtreicher), Ido Samuel (Yossi Mendelman), Neta Moran (Bilha), Melech Thal (Rabbino)
Durata: 90’
Metri: 2480
54
Film
hira ed Esther sono sorelle e parte
di una famiglia di un rabbino di
una comunità ebrea ortodossa (in
particolare della corrente chassidica) di
Tel Aviv. Shira sogna il matrimonio con
Miller, ma la realtà che dovrà affrontare
sarà ben più dura. Sua sorella Esther
sposata con Yochai muore nel dare alla
luce suo figlio. Così la madre, che vorrebbe avere accanto a sé il genero ed il
nipotino Mordacai, decide di proporre
Shira appena diciottenne come moglie di
Yochai. Nonostante il permesso concesso dal rabbino, il ragazzo crede che sia
meglio sposare un’altra donna e trasferirsi definitivamente in Belgio. Grazie
alle pressioni della suocera che lo reputa un bravo ragazzo, Yochai decide a dichiararsi a Shira dicendola che è bella e
che crede che non ci sia miglior madre
per suo figlio. La ragazza in tutta sincerità afferma di aver saputo precedentemente da sua sorella Esther che avrebbe
voluto in caso di una sua scomparsa la
cugina nubile Frieda come moglie di Yochai. Offeso da questa affermazione, Yochai decide di riprendere in mano la sua
intenzione iniziale e anche Sheila dice
di avere delle perplessità sulla loro unione, sia per quel che riguarda la sua età
sia perché avrebbe il diritto di scelta in
prime nozze. Dopo diversi ripensamenti, Shira decide di sposare Yochai: sarà
la scelta giusta?
S
Tutti i film della stagione
o spettatore si sentirà catapultato in questa realtà a lui estranea,
che viene affrontata con molto
tatto ed eleganza, nonostante i riti e le
leggi che vigono nella comunità ebraica
ortodossa. La storia mette quindi di fronte a una realtà difficile da comprendere:
prima di essere un film che vede una giovane ragazza quasi costretta ( anche se
non ufficialmente) a sposare il marito di
sua sorella , l’opera della Burshtein vede,
prima di tutto, un essere umano che si
trova a non essere padrone delle sue
scelte. Una scelta che la vede davvero
stritolata dal suo destino, un destino forzato e dettato dagli egoismi della sua famiglia d’appartenenza. La zia disabile è
l’unica voce fuori dal coro che vorrebbe
per lei come per sua figlia Frieda un marito veramente desiderato. Paradossalmente parlando, ci si trova di fronte a un
film delicato e duro allo stesso tempo.
Qualcuno lo ha definito claustrofobico e
non ci sono parole più adatte per descrivere un finale davvero glaciale. Si dipinge, quindi una società ermetica in cui le
comunicazioni sono piuttosto formali e
in cui la formalità e le apparenze contano davvero tanto. Un campo chiuso e
una realtà limitata in cui forme rituali
come quelle rivolte alla nubile Frieda, o
come anche quelle usate in segno di
lutto per la morte di Esther sono come
delle raffiche di mitra. La colonna sono-
L
ra e la fotografia veramente sofisticate
e toccanti. Ottimi gli attori soprattutto
la protagonista Hadas Yaron (Coppa
Volpi a Venezia 2012). Un film per un
pubblico dal palato fine e che aldilà di
tutte le convenzioni parla di sentimento
e di umanità ed è accompagnato dal sottofondo melanconico di una fisarmonica. Così, il pianto in occasione delle
nozze, che sembra di gioia, che si tramuta in dolore poco dopo. Un film il cui
titola funziona di più in lingua originale:
Fill the void ovvero “Riempi il vuoto”. Il
passaggio molto labile tra dovere e
amore , interessante l’aspetto della redistribuzione del reddito e del dipendere da ogni tipo di scelta ,dalla civile al
materiale, del rabbino. Il percorso di
Shira è travagliato e sofferto; l’immagine suggestiva dall’alto sdraiata e implorante Dio lo testimonia. Vi sono molti
aspetti culturali da conoscere come, ad
esempio, la divisione tra poteri evidenti
delle figure maschili e quelli reali, più
influenti e psicologicamente efficaci
delle donne. Interessante è anche la figura della protagonista che volge dall’essere ribelle all’accettare la volontà
materna facendola sua, solo però a un
livello superficiale, come quel velo bianco che le sfiora il volto senza mai completamente avvolgerla.
Giulia Angelucci
GRANDI SPERANZE
(Great Expectations)
Gran Bretagna, Stati Uniti 2012
Regia: Mike Newell
Produzione: BBC Film, Lipsync Productions, Number 9 Films,
Unisos Films, in associazione con Ideal Parteners Film Fund
Distribuzione: Videa-Cde
Prima: (Roma 6-12-2012; Milano 6-12-2012)
Soggetto: dal romanzo omonimo di Charles Dickens
Sceneggiatura: David Nicholls
Direttore della fotografia: John Mathieson
Montaggio: Tariq Anwar
Musiche: Richard Hartley
Scenografia: Jim Clay
’orfano Pip vive nelle campagne
londinesi insieme alla sorella e
al marito Joe, fabbro del paese.
Un giorno il ragazzo si imbatte in un malintenzionato Magwitch che gli chiede
qualcosa da bere e da mangiare. Il ragazzo esaudisce questa richiesta a costo di essere aspramente punito dalla sorella mag-
L
Costumi: Beatrix Aruna Pasztor
Interpreti: Jeremy Irvine (Pip), Olly Alexander (Herbert
Pocket), Ralph Fiennes (Magwitch), Jason Flemyng (Joe
Gargery), Robbie Coltrane (Jaggers), Helena Bonham Carter (Miss Havisham), Holly Grainger (Estella), David Walliams (Mr. Pumblechook), Tamzin Outhwaite (Molly), Sally
Hawkins (Mrs. Joe), Ewen Bremner (Wemmick), Jessie
Cave (Biddy), Ben Lloyd-Hughes (Bentley Drummle), Ralph Ineson (Sergente)
Durata: 128’
Metri: 3550
giore. Un giorno Pip viene chiamato a tenere compagnia a Miss Havisham, una eccentrica nobildonna abbandonata il giorno delle sue nozze, che vive in una vecchia
tenuta in cui il tempo sembra essersi fermato quel giorno. È proprio in questo polveroso e buio castello che incontra l’amore della sua vita , Estella, educata da Miss
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Havisham come strumento di vendetta
personale per sedurre e abbandonare gli
uomini che trova sul suo cammino. Grazie
poi alla somma ingente di un ignoto benefattore, Pip va a vivere a Londra per diventare un vero gentiluomo. Va a convivere con Herbert Pockett e comincia a frequentare il circolo dei Fringuelli, popola-
Film
to da giovani ricchi e sfrontati. Così torna
a far visita a Miss Havisham dove ritrova
il suo antico amore e si dichiara. Nel frattempo muore la sorella e l’affezionatissimo zio Joe lo va a trovare a Londra. Una
notte Pip trova nella sua casa Magwitch
che gli svela di essere il suo benefattore.
Si scopre inoltre che Magwitch e Molly, la
governante del circolo dei Fringuelli, sono
i genitori di Estella. Magwitch continua a
essere ricercato per l’omicidio della moglie di Compison, quello che sarebbe stato
il marito di Miss Havisham e viene condannato, ma muore prima di essere giustiziato. Miss Havisham muore per un incidente nella sua casa e Estella sposa Dummond, il più vile e meschino del circolo dei
Fringuelli. Così Pip perde tutti i suoi beni
e torna dallo zio Joe, ormai risposato.
Come nel libro, finale aperto per la storia
d’amore tra Estella ( che nel frattempo è
diventata vedova) e Pip... .
hiunque abbia letto il romanzo di
Dickens scritto tra il 1860 e il
1861 rimarrà colpito dalla fedel
tà dell’opera di Mike Newell. Alcuni passaggi che rimangono stampati nella memoria del lettore non vengono riportati
nel film (come ad esempio l’incendio della villa di Miss Havisham, la mancanza
del personaggio Orlick). Per il resto si
C
Tutti i film della stagione
può parlare davvero di un ottimo film a
cominciare dal cast. Helena Carter Boler e Ralph Fiennes sono magistrali nei
loro ruoli ( anche se leggendo il romanzo si immagina la sig.na Havisham un
po’ più agée),entrambi vincitori dell’ Academy Award Nominee. Molto bella la ricostruzione storica dalle ambientazioni
ai costumi d’epoca. La regia e la fotografia molto accurate e delicate. L’impressione di chi ha letto il romanzo è di
vedere esattamente i frutti della propria
immaginazione. Giusta la scelta anche
dei protagonisti. Dopo Quattro matrimoni e un funerale e Harry Potter e il calice
di fuoco, Newell decide di incentrare il
film sul risvolto sentimentale della storia. Secondo le parole del regista era
esattamente suo intento puntare su questo aspetto e distinguersi rispetto agli
altri adattamenti precedenti. “Ci sono
molte versioni cinematografiche di questa storia (tra cui quella celebre del 1946
diretta da David Lean, ndr), io le ho viste
tutte, ma non posso dire che siano proprio sexy. Qui invece, nella nostra pellicola, ci viene data l’opportunità di chiederci: cosa prova un ragazzo nei confronti di una ragazza per la quale sente non
solo un folle amore, ma una fortissima
attrazione? Questo lato della storia è stato raramente raccontato, prima d’ora”. Il
tema più forte del libro è la denuncia del
classismo della società inglese, con tutti
i pregiudizi e le ingiustizie che comporta. L’intreccio scritto da Dickens aiuta la
riuscita del film in cui a farla da padrone
sono sicuramente i personaggi e i paesaggi (soprattutto quelli campestri e rurali davvero fantastici). Anche l’attore
Robbie Coltrane è perfetto nel ruolo di
Jaggers . Bellissimi i due interpreti principali Jeremy Irvine e Holliday Granger.
Sicuramente una scelta del regista quella
di non approfondire tutti gli aspetti anche storici e sociali presenti nel romanzo. Forse il film diviso in due episodi sarebbe stato più completo, ma sicuramente non così efficace dal punto di vista
psicologico ed emotivo. Alcuni considerano il film poco originale per le poche
scelte di estro e di autonomia della regia, ma, come sappiamo, nel momento
in cui si intende portare sullo schermo
un adattamento, specie se di un grande
romanzo come quello di Dickens, le cose
diventano difficili. O forse no. Proprio per
la brillantezza di base della sceneggiatura, si poteva rischiare di più su altri
fronti. Avremo da rifletterne su, vista la
programmazione di adattamenti letterari
prevista per il 2013.
Giulia Angelucci
RALPH SPACCATUTTO
(Wreck-it Ralph)
Stati Uniti, 2012
Regia: Rich Moore
Produzione: Walt Disney Animation Studios
Distribuzione: Walt Disney Company Italia
Prima: (Roma 20-12-2012; Milano 20-12-2012)
Soggetto e Sceneggiatura: Phil Johnston, Jennifer Lee
alph spaccatutto è il cattivo del
videogioco Felix in cui Felix Aggiustatutto è l’eroe. Ralph si
stanca del suo ruolo e per una volta vorrebbe essere anche lui amato, ricevere una
medaglia ma soprattutto essere invitato
al 30 anniversario del suo videogioco. Il
fatto di non essere benvoluto dagli altri
personaggi del suo videogioco spinge il
gigante a fuggire da Felix e andare in un
altro, quello di Hero’s Duty, un videogioco da duri il cui scopo è lottare contro gli
scafoidi, degli scarafaggi giganti. Una
volta arrivato in cima alla torre riesce a
ottenere la medaglia che però va a finire
R
Montaggio: William J.Caparella
Musiche: Henry Jackman
Effetti: Walt Disney Animation Studios
Durata: 101’
Metri: 2780
in Sugar Rush e in particolare nelle mani
di una dispettosa bambina. Nel frattempo
il suo gioco d’origine non funziona più a
causa della sua assenza e viene messo
temporaneamente fuori servizio. La medaglia rubata dalla bambina Vanellope
serve per partecipare ad una gara di corsa, a cui il re Candito non la vuole far
partecipare perché è un glitch, ovvero un
errore di programmazione. La bambina e
Ralph diventano amici e stringono un patto: lui riavrà la sua medaglia se in cambio farà avere una nuova cart a Vanellope. Il gigante aiuta la bambina a imparare a correre in pista fino a quando il re
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Candito lo corrompe: gli consegna la
medaglia che gli era stata, sottratta, ma
in cambio chiede al gigante di convincere la bambina a non gareggiare;essendo
un glitch nel caso in cui vincesse porterebbe il gioco alla sua rovina. Così Ralph distrugge tutti i sogni di Vanellope
come il loro legame e torna nel suo gioco. Felix ormai è desolato . I suoi avatar
sono tutti fuggiti da quando se ne è andato Felix che lo era andato a cercare insieme all’eroina del gioco Hero’s Duty.
Così Ralph si accorge che il gioco di Vanellope, posizionato nella sala giochi di
fronte al suo, mostra sul suo box la sua
Film
immagine e da lì capisce che in realtà la
bimba non è un glitch e c’è qualcosa che
non va. Torna quindi a Sugar Rush e scopre che Vanellope era la più brava pilota
in gara e il re Candito per invidia aveva
manomesso delle impostazioni del gioco,
cancellando la memoria degli avatar del
gioco e spacciando la bambina per un glitch l’aveva emarginata. Felix viene imprigionato ma poi viene salvato da Ralph
che gli ripara la macchina di Vanellope
che può così gareggiare e vincere finalmente la corsa. Solo con la sua vittoria,
il gioco si riavvia. Vanellope salva lui
dopo aver combattuto lo scontro finale
con il vero cattivo, il re Candito. Ognuno
torna nel proprio videogioco e Ralph torna al suo ruolo di spaccatutto riuscendo
nel suo intento: quello di essere amato
dagli altri avatar del suo gioco.
alph spaccatutto prima di essere
considerato un cartone è, prima
di tutto, un film sul cambiamento, sulla integrazione e sulla diversità. In
una realtà in cui se non esiste il cattivo
non esiste neanche il buono e in cui ognuno è importante e da valorizzare per le
proprie peculiarità e ricchezze. Un rapporto quasi simbiotico tra Ralph e Vanellope, un forte legame in cui l’uno non sa-
R
Tutti i film della stagione
rebbe salvo senza l’altro come nel finale.
Carina la bidimensionalità dei videogiochi più antiquati e alcune trovate che ricalcano la nostra realtà, o sono espedienti
cinematografici spesso usati (penso ad
es. al barista con cui si confida Ralph oppure alla trovata geniale della dogana tra
un videogioco ed un altro). Un film che
sottolinea la differenza tra fare il cattivo e
sentirsi il cattivo (molto carino il circolo
dei cattivi anonimi), scoprendo che alla
fine anche nei cattivi c’è un fondo di bontà. Molti sono i personaggi che appartengono ai vecchi videogiochi. Contenti e allo
stesso tempo nostalgici, saranno quelli
della generazione degli anni 80/90. Trovate davvero geniali sono quelle del vulcano fatto da Coca Cola e dalle Mentos,
le sabbie mobili fatte dal Nesquik, i biscotti
Oreo che fanno da guardia al castello del
re Candito, i pop corn che saltellano come
fans che si agitano sugli spalti, etc.. Un
prodotto efficace sia dal punto di vista tecnico che della sceneggiatura. L’idea ricorda un po’ quella di Toy story e Monsters & Co. Un film ricco, dagli svariati
spunti, sui buoni sentimenti in cui è importante che ognuno accetti i propri limiti
e che capisca quale sia il suo ruolo. Ad
esempio, la bambina che non vuole essere principessa ma presidente di una de-
mocrazia costituzionale, Ralph che non
vuole essere cattivo. Un film che insegna
davvero la bellezza della diversità come
testimonia l’unione della eroina di Hero’s
duty e di Felix. Come nei videogiochi, così
nella società. Riflessioni molto profonde
sul sentimento dell’invidia come col personaggio di Turbo. Dovute differenziazioni da fare tra la volontà di cambiamento
di Ralph che vuole diventare buono col
solo desiderio di essere accettato e quella di Turbo che varca anche lui clandestinamente i confini dei videogiochi ma solo
spinto dall’invidia e dalla voglia di primeggiare. Un confronto tra videogiochi di diverse ere, il cui scopo è quello di non finire out of order. Commovente la solidarietà che nasce in Ralph che vede la bambina emarginata dalle altre pilote in gara.
Un personaggio definito spacca tutto ma
che grazie alla sua bontà di cuore riesce
a “sistemare” l’armonia dell’intera sala
giochi. Riesce a essere amato dal pubblico. Il finale veramente a sorpresa in cui
tutto finisce per il verso giusto e in fondo
dove si scopre che se qualcuno ti vuole
bene in fondo tanto cattivo non può essere. Un film imperdibile, difficile non definirlo un capolavoro dell’era moderna.
Giulia Angelucci
VALUTAZIONI PASTORALI
Alì ha gli occhi azzuri – consigliabile-problematico / dibattiti
Amore dura tre anni (L’) – futile / volgare
Appartamento ad Atene – n.c.
Bambini di Cold Rock (I) – consigliabile
/ velleitario
Belve (Le) – complesso / violento
Biancaneve e il cacciatore – consigliabile
/ semplice
Bicicletta verde (La) – consigliabile-problematico / dibattiti
Bourne Legacy (The) – consigliabile /
problematico
Castello nel cielo (Il) – consigliabile / poetico
Cavaliere oscuro (Il) – Il ritorno – complesso / violenze
Cavalli – consigliabile / semplice
Cena tra amici – consigliabile / brillante
Cesare deve morire – consigliabile-problematico / dibattiti
Chef – consigliabile / brillante
Cosa aspettarsi quando si aspetta –
consigliabile / brillante
Cosimo e Nicole: complesso-problematico / dibattiti
Cuore grande delle ragazze (Il) –
consigliabile / poetico
Detachment – Il distacco – consigliabileproblematico / dibattiti
Elles – sconsigliato-non utilizzabile / negativo
Era glaciale 4 (L’) – Continenti alla deriva – consigliabile / semplice
Estate di Giacomo (L’) – consigliabileproblematico / dibattiti
Freerunner – corri uomo corri – n.c.
Giorno speciale (Un) – futile / superficialità
Grandi Speranze: consigliabile / problematico
Hotel Transylvania – consigliabile / brillante
Industriale (L’) – consigliabile-problematico / dibattiti
Intervallo (L’) – consigliabile-problematico / dibattiti
Knockout – Resa dei conti – consigliabile
/ semplice
Kryptonite nella borsa (La) – consigliabile / brillante
Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato:
raccomandabile / poetico
Margin Call – consigliabile-problematico
/ dibattiti
Monsieur Lazhar – consigliabile-problematico / dibattiti
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Oltre le colline – complesso-problematico / dibattiti
On the Road – complesso / scabrosità
ParaNorman – complesso / problematico
Prometheus – complesso / velleitario
Ralph spaccatutto: consigliabile / brillante
Reality – consigliabile-problematico / dibattiti
Rum Diary (The) – Cronache di una
passione – futile / velleitario
Pietà – discutibile / problematico
Sapore di ruggine e ossa (Un) – complesso-problematico / dibattiti
Scomparsa di Patò (La) – consigliabileproblematico / dibattiti
Sposa promessa (La): consigliabile-problematico / dibattiti
Taken 2 – La vendetta – consigliabile /
semplice
Ted – futile / volgarità
Travolti dalla cicogna – n.c.
21 Jump Street – n.c.
Viaggio in Paradiso – futile / violent
Viva l’Italia – consigliabile / brillante
Workers – Pronti a tutto – consigliabile /
grossolanità
Film
Tutti i film della stagione
Mostra Internazionale del Nuovo
Cinema 48 - Pesaro, giugno 2012
LA SCOMMESSA CONTINUA
A cura di Flavio Vergerio
La “Mostra” di Pesaro (non “festival” perché da sempre è meritoriamente la rassegna
meno mondana del panorama italiano) sta avvicinandosi, ahimé come il tempo passa!, al
mezzo secolo di vita, ma i tagli dei
finanziamenti pubblici quest’anno si sono
fatti sentire pesantemente. Passato ad altra
funzione il glorioso Astra, sede di tante retrospettive dedicate ai cineasti italiani, Il programma si è svolto in una sola sala, lo Sperimentale, oltre che all’aperto nella
malatestiana Piazza del Popolo, quindi forzatamente ridotto (è venuta meno la sezione
più curiosa e sperimentale della rassegna,
Bande à part). Malgrado ciò Giovanni
Spagnoletti e i suoi collaboratori sono riusciti a mettere in piedi un bel programma “alternativo” , proponendo al pubblico serale
alcuni film della retrospettiva dedicata a
Nanni Moretti insieme a un gruppo di film
del “concorso” rigorosi e di forte testimonianza sociale (come è nelle corde della Mostra).
IL CONCORSO
Il film premiato, Dejca (tit. it. Buon anno
Sarajevo) della bosniaca Aida Begiæ, mette
in scena la dolorosa lotta quotidiana per la sopravvivenza di due fratelli orfani di guerra. La
sorella maggiore protegge il fratello adolescente vittima di soprusi di una società che fatica a
superare il ricordo della guerra, vittima ancora di politicanti e burocrati corrotti, e cerca
nell’adesione (più simbolica che reale) alla
religiosità islamica una nuova dimensione
identitaria e le ragioni del proprio riscatto.
Inconsueto atto di denuncia dell’arretratezza
sociale e del maschilismo nella provincia
cilena è apparso La Jubilada (t.l. La pensionata) di Jairo Boisier Olave, drammatico ritratto di una donna che ritorna al suo villaggio natale dopo aver abbandonato la sua precaria attività di attrice di film pornografici. Il
suo reinserimento sociale si scontrerà contro
i pregiudizi della popolazione rurale e provocherà un sanguinoso conflitto fra il padrone di una piccola società di riciclo dei metalli e il figlio adolescente di questi. Il film è
caratterizzato da un linguaggio filmico scabro e da una messa in scena volutamente povera e scostante. Volto all’essenzialità e alla
ripetitività alienante delle situazioni descritte è apparso Sharqiya (Stazione centrale) dell’israeliano Ami Livne, racconto allucinato
della condizione di vita di un giovane beduino
cui viene distrutto dalle forze di polizia la sua
povera baracca in un accampamento nel deserto. Dopo aver inutilmente messo in scena
un’azione dimostrativa alla stazione, l’uomo
ricostruirà la sua tenda insieme con un gruppo di altri beduini. Un piccolo film, se si vuole, ma capace di denunciare con forza l’ottusità dello stato israeliano nel rapporto con le
minoranze arabe.
Uno sguardo allucinato è quello con cui
Sandro Dionisio che in Consiglio a Dio descrive il lavoro notturno di un “recuperatore
di cadaveri” che raccoglie per un misero compenso su un litorale del Sud i poveri resti di
immigrati annegati. Tratto da un monologo
teatrale, il film denuncia la progressiva caduta agli inferi di strati di società sempre più
diffusi e degradati.
Doverosa anteprima è apparso infine Barbara del tedesco Christian Petzold, sofferto ritratto di una pediatra che nella Germania dell’Est del 1980 vive una condizione di
sdoppiamento morale ed esistenziale. Da una
parte la giovane donna vorrebbe raggiungere
il fidanzato fuggito all’Ovest, dall’altra si fa
coinvolgere nella cura di una giovane malata
(forse conosciuta in prigione) e dal nuovo
amore per un collega. Barbara reinterpreta
gli stereotipi del cinema di frontiera, in cui
agisce la dialettica solidificata fra prigione e
libertà, repressione e democrazia, povertà e
benessere. Problematica e sofferta appare la
scelta di Barbara per il suo lavoro all’Est e il
suo nuovo amore, piuttosto che la libertà all’Ovest (malgrado le sirene edonistiche) contro la dittatura.
MORETTI, È FINITO IL TEMPO
DELL’IRONIA?
Oltre che alla retrospettiva completa di tutti i
suoi film e alla pubblicazione di un corposo
volume di saggi e di schede curato da Vito
Zagarrio, l’omaggio a Moretti ha permesso
di rivisitare la vera anima “morale” di un regista a lungo considerato dai tempi di Ecce
bombo e di Io sono un autarchico solo un
58
intelligente “provocatore”, venato di umori
dissacranti e malinconie post-sessantottine.
Non c’era bisogno di Habemus Papam per
capire che Nanni Moretti è profondamente e
amaramente addolorato per la decadenza etica (ed estetica) degli italiani e delle istituzioni che li governano in preda ai falsi valori
del consumismo e del liberismo selvaggio.
La maturazione di una poetica e di un linguaggio sempre più essenziale e organico alla
materia trattata si può fa notare sin dai tempi
di Bianca (1984) stimolato a dire dello stesso regista dalla visione de La femme d’â côté
di Truffaut. Se nei primi super-8 era
percepibile una certa cinefilia di ispirazione
nuvelvaghista, progressivamente la sua cifra
stilistica si fa più essenziale e rigorosa. Macchina fissa, inquadrature ben costruite, attenzione ai dialoghi e alla sceneggiatura sono le
caratteristche che si impongono e che segnalano in Moretti una sempre maggiore attenzione ai drammi esistenziali dei suoi personaggi, siano essi un Papa che rifiuta la nomina ritenendosi inadegiuato all’immane compito di riformare la Chiesa, oppure uno psichiatra che scopre la propria anima dolente
dopo la morte del figlio.
IL DOCUMENTARIO ITALIANO
Il documentario italiano è solo apparentemente un fenomeno produttivo secondario nel
nostro complesso panorama mass-mediatico.
Le ragioni di una esplosione produttiva sono
molteplici, quali la ramificazione inarrestabile
del web, la proliferazione di canali tematici
che superano la logica univoca della televisione generalista, la duttilità e la fruibilità dei
nuovi strumenti di registrazione digitale, la
diffusione capillare di nuove scuola di cinema, l’attrazione dei bassi costi e la convinzione (non sempre ben fondata) nei giovani
aspiranti registi che il documentario sia la
strada più funzionale per arrivare al “grande” cinema di finzione, oltre alla ricerca di
nuove strada per esprimersi e rinnovare le
stanche convenzioni del cinema commerciale.
Ma ci sono ragioni estetiche e sociali che
stimolano la produzione documentaristica.
Se per quanto riguarda i “contenuti” sociali
Film
si nota anche nella selezione pesarese la prevalenza di opere di documentazione e di denuncia su argomenti occultati dal sistema dei
mass-media, quali l’immigrazione, la negazione dei diritti civili e la povertà dilagante,
più complesso sarebbe indagare le ragioni
estetiche di queste opere, che spesso si esprimono con una forte autorialità. Afferma significativamente Marco Bertozzi: “È un
tema che mi appassiona: che il documentario italiano, nonostante la sua endemica debolezza e la scarsa capacità nel comunicare
le proprie storie, sia stato il condensatore
estetico e il principale artefice di un nuovo
realismo”.
Nella variegata selezione di 21 opere proposta da Giovanni Spagnoletti non sono state
poche quelle capaci di sviluppare questa idea
di “nuovo realismo”. Opere cioè che non si
limitano a cercare una giustificazione e un
“riparo” dietro l’evidenza del “contenuto”,
ma sperimentano le forme di rappresentazione che mettano in luce gli aspetti oscuri e
occultati (o simbolici, o le relazioni nascoste) della realtà. Straordinario, ad esempio,
per rigore formale Il passaggio della linea
(2007) di Pietro Marcello. Vi si mostra una
infinita e dolorosa traiettoria di treni espressi
(in parte oggi soppressi) che traghettano esistenze desolate fra Nord e Sud, alla ricerca
(o forse no) di un luogo ove vivere. Esistenze destinate a perdersi nel buio della notte e
di un peregrinare che dal sociale si trasforma
in dimensione metafisica.
Da segnalare anche l’efficace metodo di indagine sull’uomo di Stefano Savona in Palazzo delle aquile (2011, ma girato in anni
precedenti), assurto a sua volta alla fama internazionale con Tahrir Liberation Square
(2011). Nel rappresentare un mese di occupazione della sede del Municipio di Palermo
da parte di 18 famiglie sfrattate, le manipolazioni e l’affarismo dei politici, Savona raccoglie con accanimento e acutezza dello
sguardo i microcomportamenti degli uni e
degli altri per fare emergere la problematicità
di una situazione in divenire, senza
didascalismi o false speranze.
LA “NOUVELLE VAGUE” TEDESCA
Nel 1958 sulla rivista “Arts” François
Truffaut diede giustificazioni teoriche e produttive al nascente movimento dei giovani
cineasti francesi che si opponevano al
“cinéma de papa” con il celebre saggio Une
certaine tendance du cinéma français, in cui
in particolare si accusavano i cineasti della
precedente generazione di aver tradito la storia evitando di affrontare i temi del collaborazionismo e del movimento di liberazione.
Quattro anni dopo, nel 1962, 26 giovani
filmaker di Monaco riunitisi durante il
Festival del Cortometraggio di Oberhausen,
firmavano un documento collettivo in cui si
decretava “la morte del cinema convenzio-
Tutti i film della stagione
nale tedesco” e l’affermarsi di una generazione di giovani cineasti che parlava “un nuovo linguaggio cinematografico”. Si auspicava
“nuove libertà” che affrancassero i cineasti
“dalle convenzioni abituali dell’industria cinematografica, da qualunque tentativo di
commercializzazione, da ogni tutela finanziaria”.
Tra i firmatari si notano i nomi di cineasti
destinati ad affermarsi a livello internazionale quali Alexander Kluge, Edgar Reitz,
Haro Senft, Peter Schamoni. Mancano le firme del francese Jean-Marie Straub, ma allora esule in Germania, e di Werner Herzog,
comunque vicini allo spirito del movimento
e presenti nel programma presentato a
Pesaro. Negli anni successivi faranno parte
del gruppo Wim Wenders e Rainer
W.Fassbinder.
Come si ha avuto conferma dai film visti a
Pesaro, in effetti il movimento di Oberhausen non aveva un’estetica unitaria, anche se
era comune l’interesse per la sperimentazione, l’apertura al reale, il recupero della storia. Se alcuni film si occupavano di fornire
una sofferta testimonianza sul terribile periodo nazista e sul pericolo di una sua ricostituzione, l’interesse per la politica si manifestava anche contro altre ideologie antidemocratiche. Straordinario a questo proposito il
film di Peter Schamoni Moskau ruft (Viaggio a Mosca, 1957) girato di nascosto fra le
masse ignare partecipanti al Festival Mondiale della Gioventù. Nel filmare i riti della
grande manifestazione il regista evidenzia le
tecniche di manipolazione delle coscienze e
l’occultamento della miserrima realtà sociale in cui versava l’URSS nel dopoguerra.
Quanto ai film che cercavano di elaborare il
lutto del passato nazista appare ancora oggi
di grande rigore formale Brutalität in stein
(Brutalità nella pietra, 1961) di Alexander
Kluge, che mette in relazione la magniloquente architettura hitleriana con l’orrore della
repressione anti-popolare e anti-ebraica.
I pericoli dei rigurgiti nostalgici nazisti sono
il tema affrontato con implacabile e fredda
ironia da Walter Krüttner in Es muss ein stuck
von Hitler sein (1963), reportage sul turismo
nostalgico sulle montagne del Salisburghese
e al “nido d’aquila”, il mitico rifugio del dittatore, ora ridotto in rovina.
Segnalo infine due film in qualche modo
assimilabili al neorealismo italiano.
Grossmarkthalle (1958) di Ferdinand Khittl:
dietro l’apparente descrizione naturalistica
della frenetica attività di un mercato generale di frutta e verdura illustra i meccanismi
capitalistici del commercio e dell’industria
conserviera. Notabene Mezzogiorno (1962)
di Hans Rolf Strobel e Heinrich Tichawsky
descrive in modo scabro e rigoroso il fallimento della Riforma Agraria nel Metaponto,
addebitando alla antiche sudditanze culturali
la permanente arretratezza dei contadini del
nostro Sud.
59
SIMONE MASSI, LA POESIA
DELL’ANIMAZIONE
Uno dei momenti più felici della Mostra di
Pesaro è stata la retrospettiva del cinema
d’animazione di Simone Massi, una artista
singolare, più conosciuto all’estero che non
da noi, ove la struttura produttiva “culturale”
è particolarmente difficile, se non ottusa.
Retrospettiva rapida perché i corti di Massi
durano da un minimo di un minuto a un massimo di otto, ma destinati a restare impressi
nella nostra memoria per la loro folgorante
qualità estetica e narrativa.
Massi rompe ogni barriera codificata di tempo e di spazio, facendo apparire inattesi e
problematici rapporti di forme sviluppando i
dettagli del disegno essenziale di un corpo
umano o animale, di un paesaggio, di uno
strumento di lavoro agricolo. Il racconto si
sviluppa nella continuità, in un unico piano
sequenza che rappresenta una intrigante ricostruzione onirica della realtà, fra incubo,
desiderio, sogno, rivisitazione poetica di un
mondo contadino sottratto al peso del tempo
e della ripetizione. Massi fa scaturire la forza del simbolico dall’accostamento apparentemente libero e casuale, non didascalico, di
materiali espressivi diversi (le forme umane
si sperdono nel paesaggio delle dolci colline
marchigiane ed esse a loro volta producono
l’umano). Il meccanismo produttivo si può
forse ricondurre a due maestri del
surrealismo, Kafka e Magritte, citati del resto come icone in alcuni suoi film.
La poesia di Massi sta forse in questo rapporto fra costrizione e libertà, desiderio di
rielaborare esteticamente i misteri di una condizione umana coercitiva. Non è casuale che
Massi provenga da una famiglia contadina
dell’entroterra marchigiano e, dopo aver frequentato la scuola d’Arte d’Urbino, abbia
fatto anche l’operaio. La sua vocazione artigianale e orgogliosamente solitaria si manifesta nel suo metodo di lavoro: egli disegna a
mano, senza l’ausilio del computer, le migliaia di immagini necessarie per comporre le sue
brevi narrazioni. In una bellissima intervista
di Fabrizio Tassi, Massi spiega così le proprie origini ancestrali ed artistiche: “Sono
nato a Pergola (…), un paese che per motivi
storici e geografici è rimasto isolato per secoli; e per secoli gesti e pensieri delle persone sono stati gli stessi. Mi dico che un luogo
chiuso custodisce e protegge , dall’altro diffida e produce acqua stagna. E se le strade
sono malagevoli e sconsigliano il viaggio, in
compenso c’è un sottosuolo che è un intrico
di gallerie scavate dagli uomini per sfuggire
gli assedi. Chi cresce in questo tipo di paese
finisce inevitabilmente per somigliargli. Io
non sono riuscito a staccarmi da Pergola: ho
scelto e sono stato spinto dalle circostanze a
rimanere, a custodire e proteggere, a diffidare e produrre acqua stagna, e anche a lasciarmi una via di fuga”.
Film
Tutti i film della stagione
VENEZIA 2012:
NUOVI PERCORSI NARRATIVI?
A cura di Flavio Vergerio con il contributo di Marzia Gandolfi,
Silvio Grasselli, Luisa Ceretto
Il ritorno di Alberto Barbera alla direzione
della Mostra del Cinema veneziana, con un
nuovo gruppo di selezionatori, ha portato alcuni cambiamenti nell’impostazione del programma e nelle scelte estetiche. Innanzitutto un numero inferiore di opere in Concorso (19 contro la trentina dell’ultimo anno
della gestione Müller), sparite le cineserie
(l’Oriente era presente solo, ahimé, con
l’inaffondabile Kitano e, per fortuna, con il
coreano Kim Ki-duk), ridotto anche il programma-monstre Orizzonti, luogo dedicato
alla sperimentazione, ora normalizzato verso una narratività più riconoscibile e lineare, un Fuori Concorso con alcune notevoli
anteprime (Bonitzer, Demme, De Oliveira,
Redford) e soprattutto un paio d’opere atipiche che avrebbero meritato il concorso
maggiore: Anton’s Rights Here della russa
Lyubov Arkus (il ritratto doloroso di grande
intensità di un giovane autistico) e Era meglio domani della tunisina Hinde Boujemaa
(esempio efficace di cinema “diretto” a seguire i vani tentativi di trovare un tetto di
una donna allo sbando con il figlio handicappato, all’indomani della ambigua “rivoluzione” tunisina).
Lodevole, dopo i discutibili recuperi del cinema italiano di “culto” nazional-popolare, il ritorno ai “classici” in occasione di
restauri o nuove uscite in DVD (Hawks,
Welles, Wilder, Rossellini, Pasolini...): studiare la storia del cinema vuol dire anche
rivedere e ripensare le opere maggiori.
Apprezzabile anche il recupero di dieci film
rari passati in lontane edizioni della Mostra e riemersi
delle opere dell’archivio ASAC della Biennale. Di grande interesse nella direzione
di una loro revisione critica L’ultima notte
di Julij Jakovlevi Rajzman (URSS, 1936),
opera molto più problematica e complessa
di quanto ci facesse pensare la fama di regista di regime di Rajzman, e soprattutto
Il brigante di Renato Castellani (1961),
storia profetica di una rivoluzione contadina mancata (un oscuro episodio di oc-
cupazione delle terre in Sicilia), esempio
di quello che avrebbe potuto essere un neorealismo non inficiato da condizionamenti ideologici.
CONCORSO
Il numero ridotto di opere selezionate lasciava intendere un maggior rigore nella selezione stessa. Anche senza dar credito alle
chiacchiere di corridoio, è purtroppo facile
pensare che alcune opere (De Palma, Kitano, Francesca Comencini) siano state imposte da ragioni esterne al merito, tanto che
non appare chiara una linea estetica sottesa
alle scelte. Diciamo allora che sia pure nei
limiti stretti in cui operava il gruppo selezionatore si sono viste alcune opere notevoli, diverse fra loro, necessarie, ma non fondamentali.
Pieta di Kim Ki-duk mi è apparso straordinario nel suo tentativo di sondare l’ambiguità, il non detto, l’anima oscura di un piccolo carnefice e vittima della macchina atroce dell’usura. La prima parte del film sembra voler percorrere gli scenari macabri dell’horror, con il giovane solitario, privo di
relazioni umane, che si accanisce nell’ infliggere terribili mutilazioni ai corpi di piccoli artigiani e commercianti che non riescono a pagare i loro debiti all’organizzazione mafiosa per cui lavora. Poco alla volta ci rendiamo conto che gli apparenti stereotipi di genere sono funzionali a creare
un’atmosfera opprimente in cui l’uomo e le
sue vittime sono pedine di una struttura totalizzante. Nella seconda parte del film,
quando appare una donna che si dice sua
madre (ma forse è in effetti la vedova di una
sua vittima), si sviluppa il vero tema del film,
il reciproco bisogno d’amore fra esseri umani, apparentemente parestetizzati nei sentimenti e incapaci di relazioni. L’uomo raggiunge la propria liberazione solo con la
morte, procuratagli dalla madre tanto desiderata. Dice il sulfureo regista coreano: “Il
denaro mette inevitabilmente alla prova chi
60
vive in una società capitalistica dove tutti
sono convinti che esso possa risolvere ogni
cosa (…) In questo film, due persone che
provocano e subiscono dolore per via del denaro e che molto difficilmente si sarebbero
potuti incontrare, si conoscono e diventano
una famiglia. Grazie a questa famiglia, ci
accorgiamo che siamo complici di tutto quello che accade. Il denaro farà domande tristi
fino a quando tutti quelli che vivono in questa epoca moriranno. Finiremo per diventare denaro agli occhi degli altri, schiacciati
sull’asfalto. Piango ancora rivolto al cielo
con scarsa fede. Dio, abbi pietà di noi”. Ingiustamente dimenticato nel palmarés l’opera di Marco Bellocchio Bella addormentata, scontava forse il “difetto” della rinuncia
a qualsiasi compiacimento ideologico o sentimental-emotivo. Si tratta di una delle opere più rigorose e complesse di un vero artista-intellettuale che rivisita in modo aperto
e problematico il tema del libero arbitrio nell’accettazione della morte, senza cadere nelle trappole pro-contro della vicenda ancora
irrisolta della liceità della rinuncia alle cure
di fine vita di Eluana Englaro. Mentre sullo
sfondo si manifesta l’indecente spettacolo
mass-mediatico di politici e integralisti,
Bellocchio mette in scena quattro storie che
hanno in comune l’apertura al dolore, al
dubbio, alla sofferenza. Paradossale e straziante l’episodio del medico che con la sua
sola presenza umana salva e fa risorgere alla
vita una giovane tossicodipendente volta al
suicidio. Paradossalmente il film, accusato
ingiustamente di propaganda all’eutanasia,
non celebra il diritto a morire ma è un invito
alla vita e al cambiamento di sé. Bella addormentata contiene poi la battuta più incisiva di tutto il festival. Dice lo psichiatra impersonato da Roberto Herlitzka al senatore
friulano in crisi di coscienza (Toni Servillo)
fra i fumi di un bagno turco: “La vita è una
condanna a morte e bisogna sbrigarsi”. Il
vero significato dal film è forse il conflitto
fra la violenza dei media e la verità della
vita.
Film
L’altro film italiano È stato il figlio di Daniele Ciprì, pur apprezzabile nella sua capacità
di descrivere senza reticenze il terribile sfascio morale in cui anche i ceti popolari sono
caduti dietro l’illusione di facili arricchimenti,
sconta a mio avviso un certo compiacimento
voyeuristico che riduce a stereotipo e macchiettismo una realtà umana molto più complessa e dolente.
Il new-yorchese Amin Bahrani con At Any
Price rinnova e attualizza la grande tradizione del cinema delle saghe famigliari americane (da La valle dell’Eden a Il petroliere),
in cui si assiste al conflitto fra padre e figlio
nella gestione dell’impresa. Qui si tratta di
grandi produttori di cereali del Midwest,
messi in crisi dalla concorrenza globale, divenuti anche produttori di semi geneticamente modificati (che manipolano spesso in modo
illegale). Vittime e interpreti della filosofia
dell’”espanditi o muori”, questi agricoltorimanager, vivono una tensione continua che
mette in crisi la propria integrità morale, i
rapporti umani e gli equilibri familiari. I tentativi di crearsi un esistenza diversa da parte
dei figli sono destinati a “rientrare nell’ ordine”.
Notevole conferma della genialità narrativa
di Paul Thomas Anderson con The Master
che, dopo il canonico Il petroliere, torna ad
analizzare l’anima profonda dell’America illustrando i rapporti psicanalitici fra potere,
danaro, profetismo e la legge del Padre. Il
film diventa una acuta riflessione sulla manipolazione delle coscienze da parte di falsi
leader carismatici, un tempo operanti in sette
religiose, oggi predicatori mediatici.
Interessante per la sua capacità di rendere misteriosi e problematici tempi e spazi del racconto Izema (Betrayal) del russo Kirill Serebrennikov. Il film descrive l’attrazione verso
il vuoto, la coazione a ripetere e la morte di
un uomo e una donna che scoprono di essere
traditi dai rispettivi coniugi, morti in modo
imprevedibile, e che vivono a loro volta una
tragica storia d’amore passionale. La storia
vira progressivamente dalla dimensione psicanalitica a quella di un inestricabile thriller
metafisico.
Sorprendente e inatteso Fill the Void (Colmare il vuoto) dell’esordiente new-yorchese Rama Burshtein, di origine ebraica. Il film
getta uno sguardo inedito sulla comunità ultra-ortodossa chassidica, molto importante
negli orientamenti politici di Israele, ma priva di rapporti sociali e culturali con il mondo esterno. La Burshtein descrive, senza accenti critici e con profonda partecipazione
le tradizioni patriarcali e i rapporti umani
determinati da un fortissimo rispetto della
tradizione, controllata da un rabbino depositario della Legge. Shira, una ragazza di Tel
Aviv, è felice promessa sposa di un giovane
della sue stessa età e cultura. Ma il matri-
Tutti i film della stagione
monio viene annullato quando la sorella di
Shira muore di parto. La ragazza finirà per
sposare il cognato, anche per evitare che
questi si allontani dalla famiglia sposando
una vedova belga. Il film più che denunciare la chiusura culturale della comunità, studia con grande sottigliezza l’evoluzione dei
sentimenti della protagonista che riesce a
trasformare in atto d’amore il sacrificio impostole dalla famiglia.
Altro film che avrebbe meritato qualche riconoscimento ci è apparso Sinapupunam (Thy
Womb, ovvero Il tuo ventre) del sorprendente e sempre innovativo Brillante Mendoza. Il
grande regista filippino abbandona gli angosciosi paesaggi urbani di Kinatay per esplorare in chiave etnografica la splendida natura
ancora intatta dell’arcipelago a sud del suo
Paese. In un villaggio costruito sulle palafitte vive una pacifica comunità musulmana di
pescatori d’alghe, in buoni rapporti con i cristiani, spesso però messa in pericolo da incursioni di pirati o da opposte fazioni militari. Una matura levatrice non riesce a dare un
figlio al marito e, pur di renderlo felice, cerca di comune accordo una più giovane donna fertile. Dopo il matrimonio la nuova moglie rivela però tutto il egoismo e cerca di
emarginare la prima moglie, scatenando un
profonda gelosia nella levatrice, che tuttavia
sovrintende alla nascita del bimbo tanto desiderato. Il film si sviluppa a tratti come un
commovente documentario etnografico su
una società ancora integra, in perfetto equilibrio fra natura, tradizioni e religiosità. Ma
l’apparente bellezza pacificata delle immagini è rotta dalle improvvise incursioni della
violenza esterna, portata da pirati e militari,
sintomo di un malessere economico e morale che ha ormai raggiunto anche questo angolo sperduto di paradiso, e dalla difficoltà
umana a realizzare l’utopia della poligamia e
della paternità condivisa dalle due donne.
Flavio Vergerio
ORIZZONTI
La sezione è stata “depurata” di quegli aspetti
“sperimentali” che l’avevano resa l’occasione più curiosa e sorprendente degli ultimi anni
della gestione Müller, alla ricerca di forme
di narrazione più “classiche” e fruibili da un
pubblico più vasto. La “normalizzazione” é
apparsa non ancora chiara nei suoi obiettivi
linguistici ed estetici accogliendo opere (per
fortuna) molto diverse fra loro e qualche toppata (la flebile commediola Gli equilibristi
di Ivano De Matteo), che l’ha fatta apparire
un sorta di “Informativa” in cui accogliere
alcune opere interessanti, ma forse giudicate
non sufficientemente compiute e degne del
Concorso maggiore.
Dei 18 film presentati segnalo solo le maggiori riuscite
61
Tre sorelle, opera fluviale (2h30’) del grande
documentarista cinese Wang Bing, vincitore
della sezione, descrive con grande empatia
la miserrima esistenza di una famiglia contadina nelle montagne dello Yunnan. Abbandonate a se stesse in un sordido tugurio, tre
ragazzine governano una mandria di maiali,
vagano nella campagna, percorrono senza
meta le strade fangose del villaggio. Quando
la zia cui sono affidate smette di nutrirle, il
padre (la madre non appare mai) viene a prenderle per portarle in città, ma lascia la più
grandicella alle cure del nonno.
Wang non organizza le riprese, ma si limita
a riprendere apparentemente senza un piano prestabilito segmenti di tempo e di spazio, facendo proprio lo scorrere di un’esistenza inane e precaria. L’osservatore, al
tempo stesso presente e assente, diventa una
presenza umana misteriosa e capace di intrattenere un rapporto solidale con la dolente umanità che filma. La denuncia sociale
del regista è volta a rivelare le terribili condizioni di vita dei contadini in una Cina che
ha privilegiato la crescita di un capitalismo
selvaggio, senza curarsi degli squilibri creati fra città e campagna. Il suo film parla del
rapporto fra le bambine, “di come sono state capaci di adattarsi alla miseria per sopravvivere, di come i bambini crescano anche
con nulla, di come le cose più insignificanti
possano diventare ostacoli insuperabili per
loro”.
Probabilmente L’intervallo di Leonardo Di
Costanzo meritava una maggiore attenzione
e promozione. Si tratta di un’opera di grande
intensità drammaturgica, capace di creare una
dimensione spazio-temporale compatta e stimolante attorno alle figure di due ragazzi segregati in un edificio spettrale dalla camorra.
Lei é una giovane prostituta che tenta di ribellarsi ai suoi sfruttatori, lui un venditore
ambulante messo a sorvegliarla, che scoprono momenti di libertà e di verità nel breve
“intervallo” di rapporto umano che viene loro
concesso.
Difficile da classificare il provocatorio Bellas Mariposas di Salvatore Mereu, sospeso
fra la descrizione surreale del degrado di un
quartiere popolare, le piccole avventure errabonde di due ragazze in fuga verso il mare
e una dimensione favolistica con un intervento salvifico di una fata che evita l’esecuzione
punitiva ai danni di un amico. Mereu conferma il suo talento nell’indagare la dimensione
del fantastico in storie apparentemente quotidiane.
Sorprendente esordio nel lungometraggio della saudita Haifaa Al Mansour con Wadjda,
storia gentile, ma di grande forza nella denuncia dello stato di sottomissione della donna nel suo Paese. La protagonista é una ragazzina libera e intraprendente che si ribella
alle regole incomprensibili degli adulti. Wa-
Film
djda vorrebbe scorazzare in bicicletta con un
amichetto, ma il contatto del soprassella con
la sella é proibito alle donne... Arriverà a iscriversi a una gara di recita del Corano per vincere un premio con cui acquistare una bici. Il
film comunica con leggerezza (e forza) l’idea
che la strada della liberazione delle donne nei
paesi arabi sarà lunga, faticosa, ma inarrestabile.
Più pessimista il melodramma La casa del
padre dell’iraniano Kianoosh Ayyari, terribile epopea di una famiglia patriarcale che
nasconde per diverse generazioni il segreto dell’omicidio di una donna uccisa per
mal inteso senso dell’onore. La turca Yesim Ustaoglu, nel trattare a sua volta lo stesso tema vagamente “femminista”, racconta in termini naturalistici (e a tratti brutali)
nel suo Araf -Somewhere in Between la
dolorosa “educazione alla vita” di due ragazzi addetti a una stazione di servizio ipnotizzati dai programmi televisivi. La protagonista viene violentata da un ambiguo
camionista, rimane incinta, il compagno la
vendica e finisce in prigione dove i due si
sposeranno dopo un brutale aborto solitario. Il film, pur manifestando notevole forza narrativa appare troppo programmatico
nel denunciare il vuoto di vita sospese in
una terra di mezzo (Araf) alla ricerca di una
nuova difficile identità.
Su un versante opposto, dedito alla poetica
del tempo vuoto e dell’inanità, memore della
grande lezione di Antonioni, è apparso Low
Tide (Bassa marea) del marchigiano - emigrato in America - Roberto Minervini, descrizione “a bassa definizione” del difficile rapporto fra un dodicenne abbandonato a se stesso e una madre dedita a fuggevoli avventure
amorose e alla bottiglia. Ambientato in un
Texas inedito, popolato di diseredati alloggiati in camper precari, il film si impone per
la qualità del linguaggio filmico, fatto di attese e di sospensione di senso, fluire immoto
del tempo, interrotto solo dalla riconciliazione finale fra madre e figlio.
Altro bel risultato stilistico The Cutoff Man
(L’uomo che taglia) dell’esordiente israeliano Idan Hubel, fondato sulla forma narrativa della ripetitività e della perdita progressiva del rapporto fra l’azione e il suo significato. Il protagonista è un uomo che ha perso il lavoro ed è costretto a fare un lavoro
ingrato: interrompere l’erogazione dell’acqua ai morosi. Egli diventa poco alla volta
strumento, vittima e carnefice, di un sistema economico che impoverisce sempre più
la popolazione, mettendo a nudo la crisi del
ceto medio. L’uomo vedrà messi in crisi
anche i propri sogni di riscatto e benessere
quando sarà costretto a tagliare l’acqua a un
allenatore di calcio che potrebbe fare la fortuna del figlio.
Di impianto invece simbolico Me Too del talentuoso russo Alexej Balabanov, road mo-
Tutti i film della stagione
vie fra Mosca e una lontana landa desolata
colpita da radiazioni nucleari, alla ricerca del
“Campanile della felicità”, capace di trasformare in nuvole colorate uomini alla ricerca
della pace interiore. Ma non tutti vi sono accolti... Il percorso in macchina di quattro personaggi emblematici (il Padre, il Bandito,
l’Amante...) attraverso il freddo, la solitudine e la miseria di un Paese sempre più ripiegato su stesso, volge in tutta evidenza alla
ricerca di risposte religiose alla crisi dell’uomo. Le nuvole di vapore colorate che si levano dal campanile ricordano quelle della straordinaria installazione di Anish Kapoor che
salivano nell’estate 2011 dall’altare della
Chiesa di San Giorgio a Venezia verso la cupola e il cielo.
Flavio Vergerio
FUORI CONCORSO
Dopo il congedo di Marco Müller è stata la
volta (ma non la prima) di Alberto Barbera,
che ha diminuito la quantità delle opere presenti alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica con la speranza di migliorarne la qualità e di colmare il vuoto distributivo italiano. Le migliori scoperte delle edizioni
precedenti sono, di fatto, rimaste invisibili nel
nostro Paese nonostante i premi e il plauso
meritati. Sezione magmatica e non competitiva, il Fuori Concorso ha guadagnato quest’anno i documentari della sezione Orizzonti e presentato una selezione ‘instabile’ dove
non sono mancate le (piacevoli) sorprese. Più
dei medici di Mazzacurati (Medici con l’Africa) e degli immigrati di Vicari (La nave dolce), da segnalare nella compagine italiana è
senza dubbio il bel documentario di Daniele
Incalcaterra e Fausta Quattrini, El Impenetrable, storia di un’eredità paterna di cui liberarsi per diventare a propria volta padre.
Viaggio personale e politico nelle terre inespugnabili del Paraguay di un regista deciso
a riconsegnare la terra ai nativi, confrontandosi con l’arroganza dei latifondisti e le leggi economiche di profitto. Italiano è pure il
documentario di Liliana Cavani in conversazione con le Clarisse del Monastero di Santa
Chiara. Appassionata da sempre del movimento francescano e al suo ideale di libertà,
la regista torna nei luoghi di Francesco per
avvicinare il mistero della vocazione e interrogare le sorelle sul valore della preghiera.
Solennità liturgica e suoni laici mescola anche Enzo Avitabile Music Life di Johnathan
Demme, che muovendo dalla poetica musicale dell’artista napoletano traduce in immagini il suo desiderio in musica di salvare il
mondo. Un mondo che può essere difficile
per una bambina di tre anni a cui le Brigate
Rosse hanno assassinato il padre nella provincia veneta degli anni Settanta. Silvia Giralucci, giornalista padovana, si mette letteralmente in campo dominando un oggetto
62
critico come gli anni di piombo dal punto di
vista personale, collettivo e storico. Sfiorando il muro della Giralucci prova allora a fare
chiarezza sugli anni del nostro scontento, partendo da un intervento di Toni Negri tenuto
in occasione del trentesimo anniversario del
“7 aprile 1979”, quando un’operazione di polizia cambiò la storia del Paese e mise in manette i teorici della guerriglia di Autonomia
Operaia. Di fondamentalismi che accecano e
abbattano i diritti umani racconta anche il film
di apertura della sessantanovesima edizione
veneziana, The Reluctant Fundamentalist,
confessione di un pakistano cresciuto negli
States, destinato a una brillante carriera all’interno del mondo finanziario e poi entrato
in crisi col dramma dell’undici settembre. Al
valore del dollaro e della produttività, il protagonista di Mira Nair, preferirà i valori della propria cultura, provando a costruire un sogno pakistano. Di sogno americano deviato
parla invece il gangster movie di Ariel Vromen, ispirato alla biografia di Richard Leonard Kuklinski, killer su commissione nell’America degli anni sessanta e Settanta, e a
quella letteraria di Anthony Bruno (“The Iceman: The True Story of a Cold-Blooded Killer”). The Iceman sfuma però il comportamento patologico del protagonista, imboccando l’agiografia sommaria e sprecando il potenziale biografico di Kuklinski, un sicario
che a dispetto dell’efferata professione e dell’ingorgo psichico riusciva a esprimere e a
veicolare emozioni dentro lo spazio domestico. Bad guy fuori concorso insieme all’
‘uomo di ghiaccio’ di Michael Shannon è il
Michael Jackson di Spike Lee, che batte il
tempo in un’esecuzione perfetta e dentro un
documentario pop intorno alla gestazione di
Bad, l’album più celebre dell’artista americano. Ugualmente ‘musicale’ con nutrite concessioni alla commedia è Love is all you need
di Susanne Bier, che dentro la cornice della
fiaba hollywoodiana e di un romanticismo
facile favoleggia l’amore di una coppia matura interpretata dalla danese Trine Dyrholm
e dallo statuario e irresistibile Pierce Brosnan.
Meno azzurro ma più intenso di Brosnan è il
‘principe’ di Jean-Pierre Bacri, protagonista
della commedia romantica di Pascal Bonitzer, che avvicina la materia sociale con una
grazia senza pari e fa di Cherchez Hortense
una delle perle della sezione. Pregio e onere
da spartire con Penance di Kiyoshi Kurosawa
che incarna l’orrore nelle ‘cose sociali’ e dentro una serie televisiva in cinque puntate. Le
sue inquietudini abitano questa volta il mondo scolastico e quello familiare, consumando infanticidi, matrimoni, feticismi, relazioni e figli illegittimi, rivelando un Giappone
alienato in cui si muovono le esistenze fragili del suo cinema. Chiude la rassegna il dramma classico e democratico di Robert Redford,
di nuovo alla ricerca della verità e della purezza ancestrale degli Stati Uniti da insegui-
Film
re con le armi dell’indagine, del giornalismo,
dello smascheramento. Regista e interprete
di The Company you keep, Redford sembra
dirci ancora una volta che il cinema americano, quello di ieri e quello di oggi, è sempre
frutto di un dietro le quinte, di una menzogna, di un intrigo nazionale.
Marzia Gandolfi
23 SETTIMANA INTERNAZIONALE
DELLA CRITICA
La ventisettesima edizione della Settimana
Internazionale della Critica si ritrova inserita in un’edizione della Mostra del Cinema di
Venezia che segna una rottura e un passaggio. Più che l’allontanamento di Marco Müller dalla direzione del festival o il successivo
incarico ad Alberto Barbera, quel che sembra aver direttamente inciso sulla selezione e
sull’assortimento dei titoli della SIC è da una
parte il declassamento – per ora solo parziale
– del festival sullo scacchiere internazionale, dall’altra il taglio e la riorganizzazione
complessiva delle sue sezioni. L’esordio alla
regia di Luigi Lo Cascio, per esempio, fino
all’anno scorso avrebbe avuto con tutta probabilità l’invito a far da fiore all’occhiello
nella selezione di Controcampo Italiano. La
città ideale invece si è ritrovato scelto, senza averne i titoli minimi necessari, per partecipare al concorso della Settimana. Scritto in modo schizofrenico, disorganico, approssimativo, il film passa arbitrariamente
dai colori della commedia a quelli del noir,
attraversando senza gusto né estro i toni del
grottesco, del dramma letterario, fino a ricongiungersi alla farsa paradossale. Quasi
in un pallido rovesciamento di Indagine su
un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Lo
Cascio accumula temi alla rinfusa tentando
goffamente un discorso moraleggiante e vagamente politico sulla irresponsabilità nell’Italia di oggi. Altro esordio blasonato deludente, quello della figlia d’arte Xan Cassavetes, scelta con il suo Kiss of the Damned per chiudere, Evento Speciale Fuori
Concorso, il programma della Settimana. La
non più giovane esordiente scrive e dirige
un fumettone a tinte fosche che mescola vampiri, sangue e sesso con un indecente quanto
involontario gusto per il kitsch: lo stile tenta
di ricostruire la parvenza di un gotico postmoderno, ma una certa tracotante inesperienza
spinge Cassavetes a goffi accumuli di effettacci (flou, immagini sottoesposte, uso incontinente di macchina a mano) che invece di
infondere forza al racconto lo fanno impietosamente assomigliare alla parodia di una soap
opera horror.
E non si tratta solo di alcune eccezioni negative: l’edizione 2012 della SIC è stata segnata da una trasversale mediocrità. Eppure alcuni degli esordi meno appariscenti hanno
giustificato qualche interesse. A cominciare
Tutti i film della stagione
dal film vincitore del Concorso, il turco Küf
di Ali Aydin. Con ascesi stilistica e parsimonia narrativa si racconta la storia di un padre
disperato che resiste alla morte, un umile
guardiano della ferrovia che da anni aspetta
gli sia concesso di conoscere il destino del
figlio, scomparso in circostanze misteriose
nella lontana Istanbul. Aydin, pur dimostrando l’inesperienza del principiante nel montaggio delle scene e nella modulazione del
ritmo del racconto, riesce a evitare il facile
rischio della retorica e dell’esplicitezza estrema, facendo trasudare dalle azioni e dai gesti
– prima e oltre che dalle parole – i pezzi coerenti di un discorso. Quasi secondo una consuetudine in via di consolidamento, dalla
Turchia – sempre più compressa tra lo spasimo europeista e la contrazione tradizionalista - viene l’ennesimo film apertamente seppure discretamente politico diretto da un regista giovane e promettente.
Meno discusso, ma altrettanto interessante,
il messicano No quiero dormir sola di Natalia Beristain. Il diario minimo della relazione tra una giovane donna – bloccata sulla
soglia della maturità – e sua nonna, ex femme
fatale, ridotta dalla vecchiaia e dalla solitudine a una disperazione affogata nell’alcol.
Fondandosi sulla ricostruzione d’atmosfere
e sulla sapiente registrazione di dettagli minuti – il tono di una frase, il movimento di
una carezza o l’inatteso incresparsi d’un sorriso – la Beristain mostra l’imprevedibile
agitarsi di due identità che entrano in collisione l’una con l’altra, penetrandosi; i suoi
palpiti appena percepibili, le parabole vertiginose e impreviste delle emozioni, della vita.
Un piccolo film fatto di piccole cose che sa
costruirsi come esplorazione acuta della relazione tra due donne.
Ultima menzione per il film che più esplicitamente sembra occuparsi del presente socioeconomico della parte di mondo in cui viviamo. Si tratta di Eat, Sleep, Die esordio quasi
autobiografico di Gabriela Pichler, prevedibile destinatario del Premio del Pubblico. La
giovane regista è figlia di genitori bosniaci e
austriaci emigrati in Svezia: condizione assai simile a quella vissuta dalla protagonista
del suo film, poco più che adolescente, figlia
d’immigrati slavi musulmani stabilitisi nella
provincia svedese, costretta di punto in bianco alla frustrante vita della disoccupata. Come
previsto dalle regole non scritte del cinema
scandinavo contemporaneo, la narrazione è
asciutta, organizzata sul procedere di un logico allineamento di fatti. Lo stile è essenziale, crudo, mimetico di molte delle forme
più tipiche di certo cinema documentario
d’osservazione. Il tono gelido ben si adatta
al ritratto di una provincia depressa e deprimente, periferia umana ed economica di una
nazione che sembra fondare la solidità della
sua norma sulla legittimazione del denaro e
del lavoro. Un quadro apparentemente dispe63
rato che non vuol parlare solo ai connazionali, e che forse per questo, all’analisi della
cupa, violenta disumanizzazione imposta ai
cittadini dell’Europa di oggi, aggiunge il ritratto – politico – della forza vitale della dignità degli uomini e delle donne di buona
volontà.
Silvio Grasselli
GIORNATE DEGLI AUTORI
Promosse dalle associazioni dei registi e degli autori cinematografici italiani Anac e 100
Autori, le “Giornate degli Autori”, giunte
alla nona edizione, quest’anno hanno moltiplicato la loro programmazione, confermandosi ancora una volta un osservatorio
interessante.
In particolare la manifestazione è stata caratterizzata da tre momenti distintivi: il progetto Women’s Tales, lo sguardo femminile della creatività, l’irruzione del Cinema Corsaro, un programma autogestito da un collettivo di cineasti, la riflessione sul Cinema degli
anni Zero. Oltre a tutto questo, l’interessante
selezione Ufficiale, insieme alle Venice Nights nell’arena a cielo aperto della Casa degli Autori, hanno contribuito ad arricchire ulteriormente la proposta culturale.
Se l’eterogeneità tematica delle opere rende
difficoltoso il rintracciarne un fil rouge, tuttavia il tratto che accomuna ogni opera presentata, che si tratti di un documentario, o di
un lungometraggio, o ancora di un corto, è
l’attenzione alla ricerca linguistica, a un cinema autoriale e indipendente; nell’impossibilità di potersi soffermare su ogni singolo
film, possiamo tuttavia segnalare alcuni titoli che ci sono parsi particolarmente significativi.
Intensa la presenza italiana: tre titoli esemplificativi di un cinema che fa i conti con la
realtà del proprio Paese.
Acciaio diretto da Stefano Mordini, attinge
alle pagine dell’omonimo romanzo di Silvia
Avallone per raccontare le difficoltà della fase
adolescenziale, la storia dell’amicizia di due
quattordicenni; a far da sfondo, una Piombino scandita dai ritmi lavorativi degli operai
delle Acciaierie Lucchini. Diretto da Vincenzo Marra, Il gemello offre uno sguardo inedito sulla vita in carcere e più precisamente a
Secondigliano dove segue, in una sorta di
pedinamento zavattiniano, il proprio protagonista, Raffaele, un giovane rinchiuso che
deve scontare dodici anni di pena per aver
rapinato una banca. Uno sguardo singolare,
un docu-fiction che conferma il talento del
regista.
Terramatta – Il Novecento italiano di Vincenzo Rabito analfabeta è stato un caso editoriale per Einaudi nel 2007 ora è divenuto un
film, diretto da Costanza Quatriglio. La storia è quella di un bracciante semi-analfabeta
che ha scritto per sette anni, dal 1968 al 1975,
Film
un diario destinato a rimanere nel cassetto del
suo autore, Vincenzo Rabito, scomparso nel
1981. Il film racconta la vita di quest’uomo,
scritta in una lingua tutta sua: il racconto, in
prima persona, è accompagnato da immagini
di repertorio, belle ed efficaci, che vanno dagli inizi dal 900, alla prima guerra mondiale,
quindi alla seconda, fino agli anni sessanta.
Alle immagini di repertorio si sovrappongono pagine del diario e ancora quelle di una
Sicilia odierna dove sono ripresi i figli del
protagonista. Perfetta la voce narrante di
Roberto Nobile.
Provengono dalla Francia, due tra le pellicole più interessanti.
Crawl diretta da Hervé Lasgouttes è l’opera
prima vincitrice del Label Europa Cinemas.
Il film ha per sfondo la Bretagna, dove si incrociano i destini di Martin, un giovane che
vive di lavori precari e piccoli furti e Gwen,
una nuotatrice che si allena tutti i giorni in
alto mare. Facendo propria la lezione dei fratelli Dardenne, in particolare per quello sguardo empaticamente vicino ai personaggi, il
regista di Crawl ne segue le traiettorie, il loro
trovarsi e perdersi e ancora ritrovarsi. Un film
sulla responsabilità, sulla presa di coscienza
del peso delle proprie azioni, sulla difficoltà
di vivere oggigiorno, che offre tuttavia una
via di fuga.
Diretto da Solveig Anspach, Queen of Mon-
Tutti i film della stagione
treuil racconta di Agatha, una regista appena
tornata in Francia che deve elaborare la morte prematura del marito. L’arrivo inatteso di
una donna e del figlio islandesi, insieme ad
un leone marino le daranno la forza di reagire e tornare a vivere. Anspach rivela un talento non comune nel tratteggiare le stravaganze di personaggi insoliti, che sfuggono i
cliché e firma una commedia sullo spaesamento, un’acuta e insolita riflessione sulla
solitudine e sulla capacità di farvi fronte, affidandosi ad una scrittura che raggiunge momenti di rara poesia.
È georgiana l’opera prima della regista Rusudan Chkonia, Keep smiling, che vede dieci
madri di famiglia alle prese con un concorso
televisivo di bellezza. La vincitrice riceverà
in regalo un’ingente somma di denaro, oltre
a un appartamento. Il film svela alcuni dei
meccanismi del mondo del piccolo schermo,
mettendo alla prova le proprie protagoniste
per vedere fin dove ognuna di loro riesce a
spingersi. Una tragicommedia, che alterna
toni lievi alla gravità di certe situazioni dove
alcuni valori come il rispetto di sé, la dignità,
un senso etico sono messi a dura prova.
Hayuta Ve Berl – Epilogue per la regia di
Amir Manor, racconta la vicenda di una coppia di anziani e del loro rifiuto ad adattarsi
all’Israele contemporanea, dove solidarietà e
responsabilità collettiva sembrano essere stati
spazzati via da un bieco consumismo. Un inedito e duro ritratto della società odierna dalla
valenza universale, che può rimandare, per
la scelta dei personaggi ritratti, pur con i dovuti distinguo, alla determinazione del desichiano Umberto D.
Diretto da Marc-Henri Wajnberg, Kinshasa
Kids nasce dai resonconti dei bambini di strada congolesi, costretti ad allontanarsi dai propri genitori perché accusati di stregoneria e a
sopravvivere in contesti precari e difficili; in
particolare la mdp segue José e i suoi amici,
un gruppo di ragazzi senza tetto, decisi a formare una band musicale per tenere alla larga
la sfortuna, con l’aiuto di un impresario coraggioso. Rispetto alla scelta linguistica,
come dichiara il regista: ”Ho scelto di scrivere questo film come una fiction, usando il
linguaggio e lo stile documentario per catturare lo spirito di Kinshasa: l’umorismo, il
pathos, l’intraprendenza e la disonestà. Sembrava che il modo migliore per sviluppare
questo film fosse seguire diverse trame e
guardarle unirsi come le tessere di un puzzle.
Tuttavia sarebbe stato impossibile fare incontrare i personaggi senza con ciò determinarne il destino. Per questo, abbiamo deciso di
trasformare il progetto iniziale in un racconto di finzione, pur mantenendo uno stile documentario”.
Luisa Ceretto
IL RAGAZZO SELVAGGIO è l’unica rivista in Italia che si occupa di
educazione all’immagine e agli strumenti audiovisivi nella scuola. Il suo
spazio d’intervento copre ogni esperienza e ogni realtà che va dalla scuola
materna alla scuola media superiore. È un sussidio validissimo per insegnanti e alunni interessati all’uso pedagogico degli strumenti della comunicazione di massa: cinema, fotografia, televisione, computer. In ogni
numero saggi, esperienze didattiche, schede analitiche dei film particolarmente significativi per i diversi gradi di istruzione, recensioni librarie
e corrispondenze dell’estero.
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di Cinema
direttore Carlo Tagliabue
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