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Le malattie che rubano la mente

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Le malattie che rubano la mente
Le malattie che rubano la mente
Piccolo manuale dedicato a caregivers e familiari
per conoscere e affrontare le demenze
.
Redazione: Laura Rossi
Hanno collaborato:
Barbara Dessi e Guido Rodriguez (Università degli Studi di Genova) che hanno scritto le parti sul caregiving
e le malattie che generano demenze.
Dario Arnaldi e Agnese Picco (Università degli Studi di Genova) che hanno elaborato i dati originati
dall’inchiesta condotta a Cogoleto attraverso la diffusione del Test della Memoria.
Ivana Oliveri (coordinatrice Inca Regione Liguria) che ha curato la parte relativa ai diritti.
Anita Venturi (attuale sindaco di Cogoleto) e i tanti volontari dello Spi e delle associazioni di familiari che
hanno reso possibile l’inchiesta di Cogoleto.
Genova, giugno 2011
Indice
Introduzione
p. 3
Il caregiver (chi si prende cura) e le demenze
Parte I
p. 7
Parte II
p. 27
Esperienze di approfondimento della conoscenza sulla diffusione delle demenze tra p. 49
gli anziani e sui problemi correlati
Benefici, indennità e agevolazioni di legge. Cosa fare, come fare, dove andare
p. 51
Numeri utili
p. 62
Link utili
p. 65
Appendice 1
p. 66
Appendice 2
p. 68
Appendice 3
p. 72
1
Introduzione
Il Sindacato Pensionati Cgil di Genova e Liguria ha deciso di dedicare la propria attenzione anche
alla condizione delle persone anziane affette dalla malattia di Alzheimer e da altre demenze, ed in
particolar di chi si prende cura di loro.
I temi dell’invecchiamento sono un terreno su cui abbiamo provato a cimentarci per
esercitare con efficacia la nostra funzione di tutela e rappresentanza in materia previdenziale,
della difesa del reddito, dell’intervento sulla organizzazione dei servizi, e più in generale del
benessere e dei diritti di cittadinanza.
Con l’aumento dell’età media della popolazione, soprattutto in una regione come la nostra,
che ha il più alto indice di dipendenza tra le regioni italiane, oltre che il più alto indice di
invecchiamento, crescono anche le situazioni di non autosufficienza e le malattie degenerative.
Tra queste, la diffusione delle demenze si presenta come un fenomeno sociale drammatico, di
cui non c’è ancora sufficiente consapevolezza nella politica, nelle istituzioni e nelle organizzazioni
sociali. È un fenomeno che incide pesantemente sulla vita collettiva, oltre che su quella dei singoli,
che influenza talmente le condizioni di reddito da portare a livelli di povertà tante famiglie, che fa
rinunciare al lavoro molte donne, che porta con sé la diffusione del lavoro domestico di un numero
molto significativo di persone immigrate, e non solo. La situazione è tale da richiedere ormai una
diversa organizzazione dei servizi pubblici e strumenti per orientare e tutelare anche la spesa
privata delle famiglie che investono una parte rilevante del loro reddito per l’invalidità.
Non c’è solo il carico di assistenza; si aggiunge lo “smarrimento” che provoca vedere i propri
cari perdere la memoria, non sapere più dove sono, non conoscere più le persone che stanno loro
intorno. Ci sono momenti di emergenza che è così difficile affrontare e nei confronti dei quali ci si
sente impotenti.
I numeri (circa 30.000 in Liguria, con previsioni di crescita “esponenziale”), la complessità dei
fattori che vengono investiti, la speciale sofferenza che malati e famiglie vivono, dovrebbero
richiamare tutti a non considerare questo fenomeno come uno dei tanti e a impostare una vera
strategia per organizzare interventi e reperire risorse adeguate.
Lo SPI e la Cgil nel suo insieme lavorano per proporre e rivendicare scelte necessarie da parte
delle Istituzioni; nel contempo esercitano la propria funzione di tutela individuale, attraverso il
Patronato Inca e i Servizi fiscali.
3
Con questo libretto ci proponiamo l’obiettivo di diffondere la conoscenza, e quindi la
consapevolezza collettiva, sulla qualità e la dimensione del fenomeno; vogliamo anche, però,
offrire alle persone interessate uno strumento, tra i tanti che sono disponibili, per “orientarsi”, per
sapere un po’ di più sui loro diritti; uno strumento anche per riconoscersi in una condizione che
non è solo la loro, da vivere in solitudine e magari con “vergogna”. È invece la condizione di molti,
per la quale sono previsti anche servizi, prestazioni economiche e interventi che loro hanno diritto
di ricevere: la diagnosi presso strutture pubbliche, la prescrizione dei farmaci, l’affiancamento
all’interno di precorsi di assistenza dedicati, l’indennità di accompagnamento; e risorse sufficienti,
che invece sono state tagliate in questi anni dal governo nazionale.
Su questo insieme di questioni una organizzazione di rappresentanza collettiva come la Cgil
vuole fare la propria parte, sia sul piano della tutela individuale, sia su quello dell’iniziativa
rivendicativa verso le Istituzioni, affinché il governo nazionale finanzi in modo certo e adeguato i
livelli essenziali delle prestazioni sociali e le amministrazioni regionali e locali organizzino il proprio
sistema di servizi in modo efficace, integrato e aperto alle esigenze delle persone.
Anna Giacobbe
Segretaria generale Spi CGIL Liguria
4
La mia giornata non
comincia la mattina perché
non finisce la sera.
Una donna
Il caregiver (di chi si prende cura) e le Demenze
Quanto scritto in queste pagine non ha nessuna pretesa di
essere un documento “scientifico” esaustivo sul grande
problema delle demenze; il tentativo è invece quello di fornire
un piccolo aiuto “pratico” a chi, per qualsiasi ragione, si trova
a contatto con persone che vivono il problema delle malattie
che generano demenza, in particolare quello della malattia di
Alzheimer.
La maggior parte dei concetti e delle informazioni non sono
“originali” e si possono trovare, espressi ovviamente in forme
diverse, in numerose pubblicazioni divulgative edite dalle
Associazioni di volontariato o dalle istituzioni (la Regione
Liguria ha finanziato il manuale “Caregiver”) o in moltissimi
altri libri e testi anche di carattere scientifico.
Ho cercato di esprimere concetti, anche quelli più complessi, in
una forma il più possibile chiara per tutti. Il manuale è diviso in
due parti nettamente distinte che posso essere lette
separatamente: la seconda è sicuramente la parte più
complessa che per diventare fruibile necessita di un notevole
desiderio di conoscenza più specifica, non indispensabile a chi
affronta la prima parte.
Nel caso si desiderasse approfondire alcuni temi o mandare
suggerimenti o riflessioni per le future edizioni, scrivete a
[email protected].
G.R.
PARTE I
In genere, quando si affronta il problema delle demenze si è soliti iniziare a
parlare nello specifico della malattia e in seconda battuta dei molti problemi a
essa correlati, tra i quali quello delle persone che assistono i malati e che, anche
da noi, vengono ormai definiti caregivers (prestatori di cure) prendendo la
definizione dal lessico anglosassone.
Crediamo invece che in una trattazione come questa, rivolta essenzialmente
ad operatori che si confrontano con un pubblico che necessita di informazione,
piuttosto che a operatori che si riferiscono a persone malate, sia giustificato
iniziare a parlare, prima di tutto proprio dei “prestatori di cura”.
Sono questi infatti il più delle volte i soggetti più esposti di una situazione in
cui da un lato è presente il malato con le sue enormi problematiche, poche delle
quali possono essere affrontate e risolte dalla medicina – almeno a tutt’oggi –
dall’altro le persone che, per scelta, per dovere o per mille altre ragioni, ogni
giorno impiegano parte o tutta la giornata ad assistere il malato.
7
“Caregivers”, i
prestatori di cura
Nel nostro paese dai primi anni Novanta, sulla spinta della realtà
epidemiologica emergente (si pensi che in Italia nel 2010 ci sono circa 1 milione
di malati ) e, soprattutto, sulla non più illimitata disponibilità di risorse
economiche del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), le problematiche legate alle
demenze e all’impatto che queste malattie hanno sulle famiglie sono diventate
oggetto di attenzione sempre crescente. Le demenze sono a tutt’oggi un insieme
di patologie tra le più onerose dal punto di vista sociale, con un costo medio per
paziente, comprensivo sia dei costi dei familiari sia di quelli a carico della
collettività, stimato in differenti studi tra 50 e 60.000 euro all’anno (Gambina G.,
http://www.aiesweb.it/media; Trabucchi, 1996).1
La cifra comprende costi diretti, quali quelli per l'assistenza domiciliare
professionale, la spesa farmacologica, gli ausili non farmacologici, le visite
mediche specialistiche, gli esami di laboratorio e strumentali, le ospedalizzazioni
e così via. Ci sono poi i costi indiretti, che sono l’assistenza domiciliare prestata
dai familiari con conseguente mancato guadagno per riduzione di ore di lavoro, o
rinuncia all’impiego e tutte le spese accessorie tra cui, quando possibile, un
aiuto– la così detta badante – i molti farmaci che non vengono distribuiti
gratuitamente dal SSN e i tanti ausili per i malati. Essendo proprio i costi indiretti
a pesare sui familiari, questi devono sopportare una spesa che è addirittura il 6070% della spesa annua media; impegno economico per mantenere il malato tra
le mura domestiche, che spesso porta le famiglie alla povertà (Cavallo, 1997). 2
Ma anche quando i familiari devono ricorrere a una residenza protetta, una parte
delle spese alberghiere è ancora a carico della famiglia; solo chi è totalmente
indigente non spende per il ricovero.
Così la figura che viene ad assumere un ruolo fondamentale nella gestione
del malato è quella del caregiver , colui che in ambito domestico si prende cura
1
La citazione è tratta da un saggio pubblicato sul web e al momento non reperibile: Gambina G.,
Broggio E., Martini M.C., Merzari L., Gaburro G., Ferrari G., Analisi del costo sociale delle persone
affette da malattia di Alzheimer assistite a domicilio. http://www.aiesweb.it/media; Trabucchi
M., Ghisla M.K., Bianchetti A., CODEM, A longitudinal study on Alzheimer diseaese costs, in
Alzheimer Disease: Therapeutic Strategies, Giacobini E. - Becker R. Editors, Birkhauser Boston, pp.
561-565, 1996.
2
Cavallo M.C., Fattore G., The Economic and Social Burden of Alzheimer’s Disease on Families in
the Lombardy Region of Italy, in Alzheimer Disease and Associated Disorders, 11, pp. 184-190,
1997.
8
I costi delle
demenze
del malato. Una inchiesta del Servizio di Neurofisiologia Clinica dell’Università di
Genova, pubblicata nel 2003, riporta dati interessanti sul caregiver. Il 75,8% dei
caregivers sono donne e tale percentuale cresce col peggiorare delle condizioni
cliniche del paziente (poco più dell’80%) (Rodriguez, 2003).3
Dall’inchiesta, inoltre, è risultato un rapporto molto complesso con il medico
di medicina generale (MMG) che appare molto distante dai reali problemi del
malato e dei familiari e che troppo spesso, a detta degli intervistati, non
attribuisce il valore diagnostico– come fa invece lo specialista – ai sintomi che il
malato presenta; si desume che il 53% dei caregivers si rivolge in prima istanza al
medico di medicina generale, ma solo il 10% considera soddisfacente tale
rapporto. Risultato questo oggetto di discussione tra molti colleghi e le
spiegazioni, ovviamente, sono molto differenziate: tra tutte, forse quella che
maggiormente emerge è il non aver ancora completamente scisso il problema
dell’invecchiamento fisiologico da quello patologico e quindi anche la necessità
di maggiori e costanti informazioni. In quest’ottica si possono leggere le molte
iniziative rivolte ai MMG inerenti le demenze, tra le quali nel 2010 una presso la
Neurofisiologia Clinica di Genova, che ha coinvolto una trentina di colleghi. In
questa occasione i medici hanno anche dato la loro disponibilità alla raccolta di
dati sui disturbi cognitivi nelle persone con più di 60 anni che frequentano
l’ambulatorio medico, attraverso l’autosomministrazione di un questionario
tradotto dall’inglese dal nostro gruppo. L’autore, J. Brown, ha autorizzato
l’utilizzo del test nel nostro paese dopo l’accordo sulla traduzione (Brown J.,
2009).4
Infine nell’inchiesta si è anche cercato di valutare se il caregiver avesse mai
pensato la morte del malato come una possibile uscita dalla tragica realtà della
malattia; sono stati molto pochi i familiari che hanno ammesso di aver avuto un
tale pensiero. Questo, allora, ci convinse più che mai del fatto che il familiare
caregiver diventa a tutti gli effetti così protettivo nei confronti del malato, da
essere disposto ad accettare limitazioni di vita impensabili in altri contesti. Altra
3
Rodriguez G., De Leo C., Girtler N., Vitali P., Grossi E., Nobili F., Psychological and social aspects
in management of Alzheimer’s patients: an inquiry among caregivers, in Neurol Sci, pp. 329-335,
2003.
4
Brown J., Pengas G., Dawson K., Brown L.A., Clatworthy P., Self administered cognitive screening
test (TYM) for detection of Alzheimer’s disease: crossectional study, BMJ, 2009.
9
Il rapporto tra il
caregiver e il
medico di medicina
generale
possibile spiegazione è nella marcata diversità della gravità della malattia nel
gruppo dei caregivers intervistati. È abbastanza ovvio che per un certo periodo di
tempo la malattia non modifica sostanzialmente la vita del malato e del
caregiver; solo alla comparsa dei sintomi comportamentali oltre a quelli cognitivi
– irrequietezza motoria, vagabondaggio e aggressività violenta – il caregiver
realizza fino in fondo quanto sia difficilmente accettabile la sua completa e totale
dedizione al malato.
Al di là degli spunti dell’inchiesta, credo che in genere un individuo diventa
caregiver nel momento in cui intuisce che qualcosa si sta modificando nel
comportamento della persona di cui poi ci si prenderà cura e in quel momento
decide che si deve fare qualcosa; si rivolge al medico di famiglia, ne parla con un
amico fidato o in famiglia e a volte arriva in un centro specializzato nella diagnosi
delle malattie degenerative cerebrali. Spesso in questi casi ci si trova a parlare
con la colei che per prima ha ritenuto di non dover sottovalutare le cose un po’
bizzarre e insolite che la persona di cui ci si prenderà cura metteva in mostra, con
qualcuno che ha deciso che bisognava insistere e che ha cercato una risposta. È
proprio a lei che il medico deve comunicare la diagnosi di demenza, è con questa
persona che deve confrontarsi in quei pochi momenti in cui tutta la vita del
futuro caregiver si trasforma. Il medico deve concedere a se stesso e al futuro
caregiver il tempo sufficiente e necessario per accompagnare chi riceve la notizia
della diagnosi ad accettare una realtà tanto temuta quanto purtroppo attesa.
“Ma è proprio vero?” - “ È come una mazzata sulla testa” - “Un pugno in pancia”
- “Ho voglia di gridare e di piangere” - “Non doveva succedere a me”.
Il caso
Tante le reazioni a quelle parole, a quella diagnosi che segnerà un cammino tutto
da scoprire e per il quale il medico deve trovare il tempo necessario perché
soprattutto il familiare possa comprendere e interiorizzare il senso della
diagnosi. Ho incontrato molto spesso uno sguardo che andava al di là delle
parole quando la persona che si ha di fronte ti chiede di confermare una
diagnosi, cercando una condivisione, una relazione interpersonale che permetta
10
Quando si diventa
caregiver
di elaborare fino in fondo quello che solo la parte razionale della sua mente ha
già accettato.
È così che rivedo Mario mentre trattiene a stento le lacrime. Capisco che sa
già quello che gli dirò ma si appende ancora a una speranza, che io dica la parola
“depressione” e non “demenza”. Sua moglie è troppo giovane, per anni il vero
punto di riferimento sul suo posto di lavoro, la moglie che ora, quando parla,
nessuno riesce più a capire. Mario e la sua angoscia di come parlarne ai figli, di
come organizzare la sua vita personale: “Allora devo andare dai sindacati” e poi
una lunga pausa: “Forse devo prendermi un periodo di ferie per decidere cosa
fare”. Non siamo di fronte all’attesa di una diversa diagnosi, né alla speranza in
un diagnosi sbagliata. Di fronte a me Mario deve percorrere una strada che
potremmo dire “apprendere per insight”, ridefinire il problema nel suo insieme.
Non ha esperienze passate a cui far riferimento, non ci sono modelli teorici a cui
rifarsi, Mario deve affrontare la nuova situazione e, una volta introiettata,
raggiungere lo scopo finale di una ridefinizione del problema centrale: la sua vita
futura. Il medico deve dargli il tempo necessario e sufficiente, anche se sappiamo
che ci sarà poi un altro percorso ancora più complesso: ci saranno i figli e i
parenti con i quali condividere l’informazione e programmare il da farsi. Poi
Mario cerca di scendere nei dettagli e mi chiede la “prognosi”: quanto tempo ha
ancora sua moglie a disposizione prima che si aggravi e nulla sia più possibile.
Mario è già andato avanti, dice di voler subito programmare qualcosa, un viaggio
o qualunque altra cosa possa essere in grado di dare felicità alla moglie. Passa
ancora un po’ di tempo con pause dolorose per entrambi, dove a fatica gli
sguardi si incontrano per non ledere il diritto a vivere la propria disperazione.
Quando, dopo i primi colloqui, rivedo Mario, lui mi pone una questione che
molto spesso i sanitari devo affrontare: “questa malattia è ereditaria?”
Il timore che un gene dal quale si potrebbe originare la malattia possa essere
trasmesso ai figli lo si incontra spesso nei gruppi di counseling con i familiari.
Indipendentemente dalla familiarità, tutti a un certo punto della vita possiamo
ammalarci.
Bisogna essere molto precisi nella spiegazione. Oggi sappiamo che un gene
rende più probabile il verificarsi della malattia. Il gene si trova sul cromosoma 19,
11
Ereditarietà e
l’alipoproteina
ed è responsabile della produzione di una proteina chiamata apolipoproteinaE
(ApoE), di cui esistono tre tipi principali, uno dei quali (l'ApoE4) – sebbene poco
comune – è quella che aumenta le probabilità di sviluppare in un certo momento
della vita la malattia di Alzheimer. La persona portatrice di questa proteina non è
destinata ad ammalarsi, ha solo aumentate la probabilità di sviluppare la
malattia. Per esempio, una persona di cinquant'anni portatrice di questo gene
avrebbe 2 probabilità su 1000 di ammalarsi invece del consueto 1 per 1000, ma
può nella realtà non ammalarsi mai. Soltanto nel 50% dei malati di Alzheimer si
trova la proteina ApoE4, e non tutti coloro che hanno tale proteina presentano la
malattia.
La badante e il territorio
Da diversi di anni, abbiamo a che fare con una nuova figura, la cosìddetta
badante, solitamente un immigrato/a che collabora col caregiver nell’assistenza
al malato; secondo alcuni studi circa il 35% dei malati dementi è assistito a
domicilio da una badante. Perché quando la malattia si aggrava il caregiver cerca
La badante
un aiuto. La presenza di questa figura spesso ha un effetto positivo sul nucleo
familiare perché è in grado di ridurre il carico lavorativo e lo stress del caregiver.
Come ovviamente anche il caregiver, la badante il più delle volte non è
adeguatamente preparata. È sorta così la necessità di creare centri di riferimento
per la preparazione degli operatori. Il compito più rilevante di coloro che entrano
in contatto con le famiglie dei malati di Alzheimer è quello di informare dove sul
territorio sia possibile ottenere, anche attraverso le istituzioni, un aiuto in
termini di miglioramento delle conoscenze sulla malattia e sui compiti di
caregiving.
Nella regione Liguria c’è una grave dispersione di questi luoghi di
informazione, mentre mancano del tutto sportelli o punti di riferimento al quale
le famiglie possono rivolgersi rispetto ai molti problemi della malattia. Nel nostro
paese, a differenza di molti altri, quasi il 90% dei malati vive in famiglia fino quasi
agli ultimi giorni, infatti, nonostante le trasformazioni demografiche e sociali, la
famiglia rimane la protagonista dello scenario assistenziale. In effetti il
mantenimento del paziente a casa ha anche un risvolto “terapeutico”, poiché la
12
La casa e la famiglia
persona con demenza riesce a muoversi e a interagire con un ambiente, almeno
in parte, riconoscibile, mentre il ricovero in strutture non note è in genere
seguito da un aggravamento delle condizioni generali e neuropsichiatriche (Lee
H., 2004).5
È necessario sviluppare una serie di interventi – educativi, formativi, di
sostegno e di supporto – senza i quali la famiglia non è in grado di sostenere un
impegno così gravoso, che può durare moltissimi anni (la durata media di una
demenza è dal momento della diagnosi di circa 8-10 anni).
Un costo di difficile quantificazione e spesso sottostimato è quello costituito
dalle conseguenze del caregiving sulla famiglia: stress psicologico, impatto sulla
Il costo del
caregiving
salute, con conseguente riduzione della qualità della vita. I bisogni dei caregivers
non sono tutti uguali: i caregivers primariamente coinvolti per parentela e
rapporti affettivi hanno un stress superiore e forniscono un maggior contributo
assistenziale diretto, mentre i caregivers secondari, ad esempio le badanti,
soffrono di depressione e per questi bisogna agire soprattutto sul tono
dell'umore. Ove la condizione di caregiver si associa a una condizione di stress vi
è una riduzione delle risposte immunitarie e un aumento delle malattie
cardiovascolari, con alti livelli di sintomatologia ansiosa.
Molto importante è il tempo che il caregiver dedica all’assistenza, che
dipende essenzialmente dalla gravità del paziente e da altre variabili: età, tipo di
demenza, aspetti clinici, patologie concomitanti, intervento terapeutico
farmacologico e non farmacologico, condizioni familiari, ambientali, socioeconomiche, qualità dell’assistenza medica ed efficienza della rete dei servizi del
SSN.
Il ruolo del malato e del caregiver
Quali sono, nel dettaglio, le problematiche che maggiormente possono
coinvolgere le famiglie e chi al loro interno diventa il caregiver principale?
5
Lee H., Cameron MH., Respite care for people with dementia and their carers. Cochrane
Database of Systematic Reviews 2004, Issue 2. Art. No.: CD004396. DOI:
10.1002/14651858.CD004396.pub2.
13
Il ruolo del malato
nella famiglia e il
percorso del
caregiver e dei
familiari
Il ruolo che il malato occupa – o meglio che ha occupato prima della malattia
– all’interno del nucleo familiare, ugualmente alle dinamiche affettive, consce e
inconsce, che fanno parte dei rapporti fra i componenti della famiglia stessa,
comporta un diverso coinvolgimento emotivo dei familiari. Il caregiver, e in
genere i familiari tutti, è costretto da una parte a una lenta elaborazione delle
L’elaborazione del
lutto
varie fasi del lutto (in questo caso lutto va inteso come perdita del congiunto così
come era conosciuto prima della malattia) e del dolore e dall’altra adeguarsi
costantemente ad una situazione che, tutt’altro che “immobile”, si trasforma
ogni giorno. È infatti terribile – spesso insopportabile – vedere una persona che,
ad esempio, era stata il perno su cui gravava la famiglia, oppure quella che era
stata la o il compagno di una vita e con la quale si erano condivisi decine di anni,
perdere lentamente le capacità cognitive, “smarrire la mente” e con questa
annullare la propria identità e i rapporti con gli altri. Difficile rendersi conto di
cosa possa significare per un figlio che aveva nel genitore il proprio punto di
riferimento, trovarsi con un malato che necessita di tutto e rispetto al quale
devono essere superati diversi tabù. Lavare la mamma o il papà, accudirli e stare
loro vicino possono diventare per il caregiver un gesto d’amore che ha dietro una
incredibile quantità di angosce, di ansie e un processo di perdita raramente
comunicati anche alle persone più intimamente vicine.
Il familiare deve quindi fare un percorso che presenta alcune tappe. La prima
è quella del “non è possibile” che si traduce nella convinzione che il medico non
La negazione della
malattia
abbia compreso la situazione e che la malattia non sia veramente una demenza.
Negare la malattia è abbastanza comune e naturale: il caregiver chiede diversi
consulti impegnandosi anche a inutili esborsi economici alla ricerca del
“luminare” più conosciuto o di medicine ad oggi inesistenti. Ma anche nei
confronti del malato la negazione della malattia ha effetti non positivi: il
caregiver cerca infatti di non vedere quanto accade e con ogni mezzo sollecita il
malato ad agire in maniera corretta, a comportarsi bene, a non commettere
“stupidi” errori; queste richieste sono ovviamente incomprensibili al malato,
aumentano la sua angoscia, provocano confusione e profonda depressione.
Se la negazione è una modalità di risposta normale all’inizio del percorso, è
necessario che con il tempo la malattia venga accettata e questo può avvenire
14
Il senso di colpa
anche attraverso l’aiuto di persone estranee al nucleo familiare, persone ad
esempio che abbiano già vissuto l’esperienza della malattia di un proprio
familiare. Ma quando il tempo e l’abitudine alle cure da prestare portano ad
accettare la malattia altri atteggiamenti non positivi possono comparire; anche
questi devono essere presto superati. Uno dei più importanti è il senso di colpa
del caregiver. I familiari dei malati di Alzheimer dedicano mediamente sette ore
al giorno all’assistenza diretta del paziente e quasi undici ore alla sua
sorveglianza; inoltre, l’impatto dell’attività assistenziale diventa più gravoso
quanto più essa si somma all’impegno legato allo svolgimento di altri ruoli
professionali e familiari, come accade per la maggior parte dei caregivers;
quando la malattia è grave l’assistenza è di 24 ore. Il caregiver si trova così a
dover affrontare una condizione non conosciuta prima alla quale deve dare delle
risposte efficaci, deve risolvere problemi che si pongono giornalmente con
strategie mentali e comportamentali del tutto nuove. È così che viene stimolata
la sua reattività all’ambiente e le capacità ad affrontare adeguatamente le
situazioni che incontra. Ad esempio, chiunque abbia frequentato un malato
demente conosce i tantissimi atteggiamenti che possono generare nel caregiver
una reazione aggressiva. Una donna faceva notare che il marito ripete una stessa
frase tutto il giorno, non smette mai, che non riesce mai a rispondere in modo
adeguato alle richieste della moglie; questa condizione genera esasperazione e
l’esasperazione genera un senso di colpa non facilmente sopibile. Ugualmente
questo capita quando si sente che “bisogna” fare alcune cose, anche quando la
vita richiede altri impegni. Il caregiver si trova a correre da una parte all’altra e
sente di non essere in grado di reggere allo stress, vorrebbe fermarsi, ma questo
solo pensiero genera il senso di colpa perché non si è risposto appieno ai compiti
prefissati. Altre condizioni possono portare al senso di colpa: per esempio,
quando si assiste, senza poter fare nulla, alla totale perdita della personalità, alla
eliminazione di ogni possibile e credibile inibizione – ricordo la telefonata di una
signora che tra le lacrime confessa che il padre lancia le feci dalla finestra – e
allora scatta la domanda sul senso reale di questa malattia e su quello che il
malato vive e si pensa alla morte, come unico rimedio a una tragedia impensabile
15
(anche se dall’inchiesta già citata, è emerso che solo raramente il caregiver pensa
alla soluzione “morte”).
La rabbia e il senso di colpa vengono anche quando si cerca di fare tutto, ma
proprio tutto al posto del malato. Si ha paura che lui non sia in grado di gestire la
realtà e lo si sostituisce, così almeno le cose vengono fatte e non bisogna
ripetere e stare attenti. Ma anche così facendo la situazione non migliora, anzi,
sembra che giorno dopo giorno la volontà di fare del malato si indebolisca, che si
richiuda in una realtà del tutto distante, che i rapporti con gli altri si
affievoliscano. Così le domande usuali – dove e in che cosa ho sbagliato? – così la
rabbia e il senso di colpa, perché nonostante tutto, ma proprio tutto, nulla
migliora.
Bisogna entrare ancor più nella malattia. Il caregiver deve ancora fare un
tratto di cammino, accettare che non sia l’ansia a motivare il troppo fare
inconcludente e che non ci siano troppa frustrazione e troppa rabbia. Perché va
tutto storto, mentre la fatica aumenta e il peso delle nostre contraddizioni ci
porta a non vedere con chiarezza i fatti. Una signora era affranta dal
comportamento che teneva nei confronti del marito demente che la voleva
seguire sempre, che non poteva stare da solo mentre lei avrebbe gradito alcune
ore di tranquillità, lontana da casa, a fare ciò che le piaceva, insieme alle sue
amiche. Lei comprendeva in quei momenti, quando chiedeva di essere lasciata in
pace per poche ore, di essere molto ambigua. Da un lato l’affetto grande per
quell’adulto, che sembrava un bambino alla ricerca della mano della mamma e
che non voleva stare da solo, ma dall’altro una gran rabbia, una collera
incredibile perché lui settantenne, da quarant’anni circa con lei, non riusciva
proprio a capire che lei aveva bisogno di quelle poche ore di libertà. Ma quel
marito dallo sguardo perso era, per caso, anche un motivo di vergogna? Anche
questo sentimento è presente e condiziona il comportamento del caregiver e la
vita del malato. Come non comprendere che i rapporti sociali e in genere la vita
che una famiglia conduce ha delle regole che difficilmente possono essere
modificate; regole che possono esigere comportamenti adeguati a quelli che
sono i canoni dell’ambiente in cui si vive. Vergogna per come il malato si
comporta, vergogna che non si riesce a superare, perché non si può parlare con
16
La vergogna
gli altri – i “normali” – di questa malattia. Ricordo una giovane donna
La scelta della fuga
raccontarmi di comportamenti impensabili del suocero: quando qualcuno
entrava in casa lui si presentava sulla porta e, scattando sull’attenti in una rigida
parodia di situazione militare, salutava tutti con un “buonasera signor generale”.
Non molto tempo dopo, ho saputo che quel saluto era ripetuto all’infinito in una
casa di riposo.
È possibile che un individuo, preso dallo sconforto, decida di fuggire dalla
condizione imposta o scelta, sperando di sottrarsi al fardello delle responsabilità
psicologiche che il tempo della malattia inevitabilmente provoca. La fuga – anche
se appare modalità semplice ed egoistica di deresponsabilizzazione – prendendo
le distanze dal malato, comporta una presa di distanza emotiva, la rinuncia a
vivere una parte della propria vita affettiva, negando un’esperienza che per
quanto dolorosa comporta nuovi contenuti emozionali e la scoperta di tante
nuove risorse. La fuga è accompagnata da un grande senso di colpa e da un acuto
rimorso che difficilmente vengono compensati dal senso di liberazione
dall’affanno della malattia. Il sollievo della fuga è solo apparente: coloro che
rimangono coinvolti nella cura si sentiranno traditi e abbandonati senza
qualcuno con il quale condividere questo inaspettato viaggio. Questi sono
sicuramente amareggiati, si sentono traditi e abbandonati, senza un compagno
con il quale condividere questo incredibile viaggio.
Fare proposte al “fuggitivo” per continuare a essere utile alla famiglia e al
malato sposta l’attenzione dal malato al caregiver cercando il recupero di chi si è
allontanato, senza che il senso di colpevolizzazione per aver abbandonato il
malato diventi l’elemento dominante del nuovo rapporto. Così facendo forse
sarà possibile non rimuginare in solitudine sul disaccordo. Ma in qualunque caso
la soluzione di questi avvenimenti è molto dolorosa e spesso comporta un
allontanamento definitivo dei familiari.
Come si comprende facilmente, la malattia e gli aspetti psicologici delle
persone vicine al malato possono facilmente generare tensioni e conflitti. Le
condizioni di malessere sono rivolte spesso alle strutture assistenziali. Alcune
delle prestazioni ricevute o atteggiamenti non compresi del personale possono
generare conflitti con il caregiver, situazioni non chiarite che spesso comportano
17
I conflitti dei
caregivers
l’allontanamento dalla struttura. Sovente i malati vengono “sballottati” da una
struttura a un’altra senza un reale motivo. La soluzione è alla portata di tutti e
consiste in una maggiore disponibilità del personale assistenziale a chiarire fino
-
con le
strutture
sanitarie
-
con i
familiari
in fondo con il caregiver le problematiche legate alla malattia, fornendo le
indicazioni generali sulla patologia in atto, suggerendo luoghi e persone con cui
entrare in contatto o, se possibile, fornire corsi di aggiornamento e momenti di
confronto con i familiari. Ci rendiamo conto che tali proposte nell’organizzazione
sanitaria del nostro paese sono poco realizzabili. Un medico che presta la sua
attività in un ambulatorio si sentirà molto più gratificato a fare “diagnosi e
terapia” piuttosto che a fare il consulente dei familiari; molti sanitari penseranno
che questo è un compito di un altro tipo di personale assistenziale o delle
associazioni dei malati. Tutto questo è sicuramente vero, ma è anche vero che è
proprio al sanitario che fa la diagnosi che le persone chiedono un rapporto
umano, un vero aiuto, una capacità di “consulenza”, un rapporto non chiuso alla
cruda realtà della “diagnosi di malattia”. Ma forse questo è un modo di pensare
alla medicina che poco si addice a quanto oggi avviene nel nostro paese, dove è
permesso che la medicina privata si mescoli in modo provocatorio a quella
pubblica, dove è consentito al medico di esercitare a pagamento nelle strutture
pubbliche, allargando così a dismisura il concetto di una cultura mercantile che
ha trasformato, purtroppo per molti, il tempo in denaro e il tempo può solo
servire a “visitare” i malati.
Esistono situazioni conflittuali anche con gli altri membri della famiglia che
non aiutano, che non comprendono o non valutano nella dovuta maniera gli
sforzi fatti dal caregiver. Conflitti si aprono con le persone che più condividono
l’esperienza del caregiver, ad esempio con il coniuge che può non comprendere
come e perché la persona che gli è vicino appaia sempre stanca, depressa, che
non ha mai tempo per nulla e che pensa solo al malato. Il caregiver così entra in
conflitto con se stesso, perché si trova sempre davanti a un bivio. Il caregiver
deve scegliere tra la necessità di assistere e accudire nel modo migliore possibile
il malato e la necessità di non trascurare gli altri membri della famiglia; tra tempo
da dedicare al lavoro – che pure è fonte di soddisfazione e piacere – e tempo da
dedicare al malato; oppure tra il continuare a prestare le cure al malato e trovare
18
il desiderio di recuperare spazi per sé stessi, per la propria vita, per il proprio
piacere. Non riuscire a trovare modalità soddisfacenti per “ricavare gli spazi della
propria vita” è una situazione svantaggiosa sia per il caregiver che per il malato: il
primo si carica di rancore, di dubbi sul proprio ruolo, di sensi di colpa, invece di
comprendere l’importanza e l’assoluta necessità di riappropriarsi, per quanto
possibile, di una parte del tempo della vita. È indispensabile. Non è egoismo ma
necessità, perché ridando spazio alle proprie esigenze di vita si possono ricaricare
le energie da dedicare al malato e il tempo che trascorrerà vicino a lui sarà un
tempo del tutto nuovo, un tempo scelto, desiderato, frutto di una
razionalizzazione delle necessità di tutti. Come non vedere la tristezza di
un’assistenza carica di tensioni, dove la mente del caregiver è impegnata dai
pensieri del quotidiano che non dà tregua e incalza costantemente; dove si è
infastiditi per essere vicini al malato spinti dal senso del dovere, dove il peso
dell’assistenza è assolutamente soffocante, ma se per caso facciamo un piccolo
ritardo ci sentiamo colpevoli per non aver rispettato l’impegno preso.
È così che anche il malato diventa motivo di conflitto quando vecchi rancori,
incomprensioni e altri sentimenti non positivi, che spesso la vita porta nelle
-
con il
malato
famiglie, ritornano prepotentemente a galla. Perché la demenza, oltre alla
perdita dell’autosufficienza, conduce a una trasformazione tale del normale
sentire, che le cose più impensabili diventano quasi “naturali” per il malato . Il
caregiver può non sopportare più, può giungere all’abbandono del malato o,
all’opposto, tentare tutto il pensabile per soffocare la rabbia che ha dentro.
Come superare queste condizioni di conflitto? Dobbiamo cercare
essenzialmente di entrare nella fase di gestione del razionale. Se un nostro
parente non si comporta nei confronti del malato come si vorrebbe e se tutto
questo genera conflitti e rabbia, ci si dovrebbe chiedere se è proprio vero che gli
altri possono fare tutto come facciamo noi, o addirittura sostituirsi a noi. E
dovremmo capire che questo è veramente impossibile. La modalità con cui gli
altri si pongono nei confronti del malato è l’oggettivazione di quanto gli esseri
umani siano diversi nel fare e nel sentire. Non è giustificato insistere nell’errore;
si dovrebbe trovare la giusta modalità per un confronto chiarificatore, far
comprendere agli altri ed elaborare noi stessi che quello che avremmo voluto
19
La depressione del
caregiver
che gli altri facessero non lo si è mai chiaramente esplicitato e che non è una
colpa sentire e vivere la malattia di un parente con modalità molto diverse.
Se questo è sostenibile, allora ne consegue che alcuni atteggiamenti del
caregiver necessitano di essere ripensati. Un errore molto grave del caregiver –
per se stesso, per il malato e per l’intero mondo intorno – è rinchiudere
l’esistenza alla sola attività di cura. Credo che solo in casi del tutto eccezionali
questa condizione non comporti una sofferenza così elevata e destinata prima o
poi a trasformarsi in una vera e propria patologia. Non solo per questa ragione,
ovviamente, ma è noto che il 30-40% dei caregiver soffre di depressione, disturbi
del sonno, modificazioni nell’alimentazione tali da condurlo a dover ricorrere
all’aiuto di un medico e ad assumere psicofarmaci (Beeson,6 2003). Uno studio
americano abbastanza recente, che conferma molte delle cose suddette, ha
valutato le caratteristiche del paziente e del caregiver per ipotizzare l’eventuale
depressione dei caregivers. Le caratteristiche del malato sono l’età piuttosto
giovane e la gravità della malattia (ad esempio i disturbi comportamentali, tra
questi l’aggressività, incidono di più dei disturbi cognitivi); nel caregiver
potenzialmente depresso troviamo un basso reddito economico, la relazione
stretta con il paziente (moglie o figlia), l’elevato numero di ore dedicate alla cura
e la condizione fisica non buona del caregiver stesso. È evidente quindi che la
depressione del caregiver è motivata non solo da caratteristiche legate alla
malattia, ma anche a condizioni proprie della persona che assiste, per cui è
necessario trovare modalità di riposte che sappiano tener conto di questa realtà
multifattoriale e non credere che la sola risposta medicalizzata sia in grado di
risolvere il problema (Covinsky KE., 2003). 7
6
. Beeson R.A, Loneliness and Depression in spousal Caregivers of Those With Alzheimer’s Disease
Versus Non – Caregiving Spouses Electronic Version , in Archives of Psychiatric Nursing, n. 17 , pp.
135-143, 2003.
7
Covinsky KE., Newcomer R., Fox P., Wood J., Sands L., Dane K. & Yaffe K., Patient and Caregiver
Characterisctics Associated with Depression in Caregivers of Patients with Dementia Electronic
Version, in Journal of General Internal Medicine, n. 18, pp. 1006-1014, 2003.
20
Aiutare il caregiver
Innanzitutto facendo cultura, perché solo l’informazione corretta potrà portare i
familiari ad un consapevole ruolo di cura.
In secondo luogo alcune semplici raccomandazioni: di fronte ai disturbi della
memoria sarebbe meglio fornire le informazioni, evitando richiami a fatti o cose
Non sollecitare la
memoria
dimenticate. Rispetto ai problemi di linguaggio bisognerebbe cercare di
comprendere il senso del discorso, anche se le parole sono inesatte, rispondere
alle domande, anche a quelle ripetitive e cercare di continuare a parlare con il
malato. Per quanto concerne i problemi di comprensione degli stimoli e in
genere dell’ambiente, sarebbe meglio sostituirsi a lui nel fare le cose solo quando
è davvero inevitabile. Se si aiuta il malto a fare alcune azioni, bisogna ricordarsi
che c’è bisogno di molta sensibilità, i gesti devono essere semplici. Se possibile,
sarebbe bene adattare la casa alle possibilità residue del malato. Quando
compaiono le difficoltà con l’utilizzo di oggetti di uso comune, come il pettine,
conviene rimuoverli perché non essendo più riconosciuti porterebbero al malato
solo ansia. Quando non vengono riconosciute cose o persone è del tutto inutile
cercare di “far ragionare” il malato; la logica non è nel suo mondo e sono i
“normali” che si devono adattare. L’attenzione del malato è molto limitata e
serve a fare poco e una cosa sola alla volta quindi mai chiedere più cose
contemporaneamente, mai proporre compiti complessi o così difficili che
porteranno il malato a comprendere la sua incapacità e quindi sofferenza per la
frustrazione conseguente. Bisogna sempre ricordare che un sintomo centrale
della malattia è la confusione. Anche se “i normali” vanno in confusione quando
il carico a cui sottoponiamo la mente è eccessivo, il malato molto spesso è
confuso perché non riesce a percepire correttamente l’ambiente che lo circonda.
La reazione normale a questo stato di cose è la più varia: i malati possono urlare,
diventare aggressivi, fuggire, mettersi a vagabondare senza una vera meta. È
importante verificare l’ambiente di vita, per esempio se è troppo carico di
stimoli, troppi rumori, troppe luci o troppa gente. A volte la confusione del
malato può essere segno di qualcosa che non funziona come un improvviso
dolore fisico. Bisogna riconoscere la gestualità che si accompagna alla confusione
21
Fare gesti semplici
(sguardi in più direzioni, camminare in tondo senza fermarsi, afferrare e lasciare
oggetti diversi); bisogna allora fermarsi, provare a distrarre il malato,
Distrarre il malato
in confusione
comprendere se è veramente pronto e disponibile a fare quello che gli si chiede,
aiutarlo perché si senta a proprio agio, rispettarne i tempi e i modi, farsi vedere
bene quando ci si avvicina e fare tutto con grande.
Più drammatici appaiono i disturbi comportamentali quali il vagabondaggio e
l’affaccendamento inoperoso (gesti ripetitivi senza alcuna finalità). A fronte di
Ambiente sicuro e
attività manuali
semplici e
gratificanti
questo occorre ricordarsi che i gesti possono essere legati ad azioni del passato e
non a condizioni del presente, Permettiamo al malato di camminare e muoversi
liberamente in un ambiente il più possibile sicuro, proponiamogli attività di tipo
manuale che richiedano uno sforzo minimo e che possano dare anche una
minima gratificazione.
La condizione del delirio è spesso molto complessa da essere compresa e
gestita dal caregiver, perché il malato può credere di essere derubato dallo
stesso, di essere abbandonato dalle persone care, di voler tornare alla propria
casa natale, di essere tradito sessualmente. Si dovrebbe cercare di non smentire
il malato, di parlare con lui in maniera chiara e rassicurante per evitare che si
isoli, cercare di sviare la sua attenzione verso stimoli diversi e capaci di fermare
le idee deliranti. Se il malato non riuscisse a stare fermo, continuasse a chiedere
di qualcuno che deve arrivare, bisognerebbe cercare di comprendere quali
possano essere le cause, parlare con calma, rassicurarlo. Mi rendo perfettamente
conto di quanto questi suggerimenti non siano sempre praticabili. Penso, per
esempio, all’aggressività che si esprime con insulti, parolacce, bestemmie, pugni,
graffi, morsi e che noi interpretiamo come una reazione difensiva verso qualcosa
che è sentito dal malato come una minaccia, come quando si pretende che si lavi
(anche se aiutato) o si vesta. Il caregiver dovrebbe essere in grado di ridurre al
minimo le situazioni a rischio, sviare l'attenzione per prevenire l’aggressività ma
se questa insorge proporre le cose con calma, cambiare l'interlocutore o
aspettare un momento più propizio e non sgridare il malato. Tutto ciò non
sempre riesce ed è questa una condizione di grande imbarazzo e di scelte molto
radicali, come l’istituzionalizzazione.
22
Il delirio
Come si arriva all’istituzionalizzazione
Tra le tante possibilità di intervento nei confronti del caregiver e della sua
depressione dobbiamo citare quella che cerca di rompere il meccanismo che
porta il caregiver a ritenersi perno centrale della cura del malato, a credere il
proprio ruolo indispensabile e insostituibile. Il tempo della malattia è troppo
lungo e tutti devono poter avere, almeno a un certo punto del cammino
terapeutico, delle pause. Il malato deve avere più gestori e se questi non sono
presenti nella famiglia allora è necessario trovarli fuori. Tra questi assumono un
ruolo fondamentale i Servizi di Assistenza Domiciliare, i Centri Diurni, e forse in
alcuni casi i Ricoveri di Sollievo. Una recensione da parte del gruppo “Cochrane
Dementia and Cognitive Improvement Group” dei lavori presenti in letteratura
ha portato alla conclusione – non definitiva perché gli studi sono pochi ed
eterogenei – che le evidenze a disposizione non dimostrano alcun effetto
benefico – ma neanche un effetto avverso – del ricorso ai Ricoveri di Sollievo sia
per il malato che per il caregiver. Tuttavia gli autori sottolineano la necessità di
affrontare il tema con una ricerca strutturata e scientificamente adeguata.
Nell’attesa di queste evidenze scientifiche il caregiver vicino all’esaurimento
di “energie” deve ricorrere all’aiuto esterno. Rivolgersi a una entità istituzionale
(assistenti sociali) o ad una associazione di familiari non equivale a tentare di
scaricare il malato, ma al contrario significa tentare nuove strategie, per
consentire – se ancora possibile – la permanenza del malato nella sua casa.
Il problema centrale delle demenze è il loro carattere “progressivo”: la
malattia più o meno lentamente progredisce, le modalità di reazione - e in
genere tutto il comportamento del malato – si modificano. Anche nei momenti di
discussione dei gruppi di aiuto è difficile riuscire a trasmettere ciò che accade al
malato. La perdita progressiva della memoria cancella le facce e gli ambienti. Il
malato non riconosce più i familiari e il mondo che lo circonda, così il caregiver
non riconosce nel malato la persona conosciuta; se non accetta che la causa di
tutto questo è la malattia, si troverà a soffrire, perché privato del rapporto con il
malato e di tutta la sua storia di affetti. In queste condizioni il tempo segna solo
successive “perdite”: facce, ambienti, parole. Il malato necessita di cure sempre
maggiori, le preoccupazioni per il caregiver aumentano, per la salute, per il
23
Il ricovero
tempo, per le spese, per gli aiuti ormai indispensabili. I deliri e le allucinazioni
insieme a un vagabondare senza senso, l’aggressività – se non la vera e propria
violenza, a volte assolutamente ingiustificato – rendono la vita così difficile che,
dopo aver chiesto aiuto disperatamente al medico - “non ce la faccio più”, “lei
mi deve aiutare”, “ci deve essere qualcosa da dargli perché si calmi” - dopo che
le medicine non fanno più nulla, anche il migliore dei caregiver può convincersi
che è giunto il momento dell’istituzionalizzazione, del ricovero in una struttura
dove saranno altri a prendersi l’onere di assistere il malato in questa ultima parte
del viaggio. È una decisione difficile e sofferta, vissuta dalla famiglia e dal
caregiver come l’evento più significativo nel percorso di cura iniziato molti anni
prima. È un evento traumatico nella storia relazionale con il malato. Il caregiver,
improvvisamente privato del suo ruolo assistenziale, decisionale e di tutore,
rischia di riaffacciarsi alla vita senza essere preparato: ennesima violenza con cui
fare i conti, mentre perde il suo ruolo di primo attore nella gestione dei bisogni e
nelle scelte per il malato. Da quel momento può solo accettare e condividere le
decisioni prese da altri. Può allora credere che le persone che si prendono cura
del malato non siano adeguate, che le cure che riceveva prima fossero migliori e
questo rende conflittuale il rapporto tra lui e la nuova condizione del malato.
Ovviamente possono essere sempre gli aiuti esterni che aiutano a modificare tali
atteggiamenti, prima che il caregiver si immetta in un cammino di stress, di sensi
di colpa sempre maggiori e di profonda depressione. Di nuovo il medico che ha
seguito il malato potrebbe rappresentare l’“ancora”; potrebbe essere colui che
chiarisce il problema, che delimita le responsabilità di questa operazione e che
permette la “metabolizzazione del lutto”. Il medico potrebbe essere anche colui
che aiuta il caregiver a non sviluppare una relazione conflittuale con il personale
infermieristico e con il resto dell'équipe.
L’istituzionalizzazione può invece costituire in altri casi una sorta di
liberazione. Ricordo la frase “O lui – il malato – o me” come segno di un
traguardo, di un limite che si è raggiunto, la necessità di recuperare lo spazio
esterno alla casa che era diventato come una “tomba”. “Io sono ancora troppo
giovane”: non contano l’età, ma la qualità e la quantità di tempo trascorso
accanto a quella persona che ora è ancora più lontana con i suoi urli, le
24
bestemmie, o la identica parola e frase ripetuta all’infinito. Un dolore per
l’impossibilità di modificare la situazione che rende la vita un inferno che “se non
l’hai vissuto non lo puoi capire”. Allora viene il momento in cui chi può, chi ne ha
autorità morale e culturale deve aiutare a far sì che il caregiver accetti la
necessità della delega, accetti l’idea che la vita deve continuare e che la famiglia
non è più il luogo in cui si possa gestire un malato tanto complesso e stressante.
A questo punto, spero sia chiaro che, lungo il percorso della malattia e del
caregiving, sono necessari uno o più operatori socio sanitari. È altrettanto
indispensabile un luogo di ascolto per le famiglie, dove l’incontro possa sostituirsi
alla solitudine, dove la persona che ascolta possa davvero comprendere i bisogni
reali che non sempre trovano spazio nelle parole, ma in tutte quelle forme di
comunicazione che gli esseri umani praticano anche inconsciamente. È un posto
ancora da costruire, ma di cui, sono certo, molti sentono il bisogno. Il malato e il
caregiver non hanno bisogno di giudizi in cui si espliciti la ragione o il torto di uno
o dell’altro o chi fa bene e chi fa male, hanno bisogno di operatori qualificati in
grado di valutare la situazione del malato e del caregiver, di comprendere i punti
di forza e le criticità. Anche quando non si conoscono a fondo la storia e i vissuti
dei partecipanti, si deve collaborare con loro per trovare possibili strategie che
diano forza. Questo parlare e ascoltare, tentare di condividere, può essere
fondamentale nelle fasi iniziali della malattia. Le persone sono molto più
disorientate di quello che appaiono, hanno bisogno di un grande aiuto, non
hanno esperienze o ricordi a cui attingere e devono quindi imparare. Spesso sono
proprio le strategie di intervento inadeguate o sbagliate che rendono ancora più
difficile la strada dell’assistenza: aiutare a modificare le strategie e a definire
quelle più adeguate è quanto si potrebbe chiedere a un operatore che deve
rimanere in prima linea dando suggerimenti in moltissimi ambiti, ad esempio
come riorganizzare l’ambiente per renderlo idoneo alla condizioni del paziente,
come gestire alcuni strumenti (telefono, televisione), come usufruire della rete
dei servizi.
Tutto questo è alla base di una corretta informazione che poi è quello che
ormai, quasi sempre dopo i primi colloqui, ci chiedono le persone che entrano in
contatto con noi. Adesso definiamo alcuni concetti sulle demenze. I caregiver
25
Luoghi di ascolto
per le famiglie
devono infatti poter riconoscere i “segni” della malattia, identificare le cause dei
comportamenti del malato, capire che cosa realmente accade nel cervello per
poter meglio dominare l’insieme delle situazioni familiari. L’informazione e la
conoscenza portano le persone a trovare meccanismi di difesa più funzionali,
ottenendo così anche un discreto controllo delle emozioni. Sapere infatti che
l’alternanza tra la lucidità e la confusione sono frutto della malattia e non di
cattiveria o dispetto aiuta il caregiver a razionalizzare la situazione e a
relazionarsi meglio col malato. Il caregiver impara così ad attribuire la
responsabilità del gesto bizzarro alla malattia e non al malato evitando l’inutile
rimprovero cui seguirebbe il senso di colpa.
26
PARTE II
Di seguito si riassumono le informazioni che la ricerca scientifica mette a disposizione sulla Malattia di
Alzheimer e sulle altre le altre malattie che causano demenza.
Le demenze e le malattie che ne sono la causa
Se ci si domanda da dove debba mai cominciare l’informazione, direi che definire
i termini potrebbe servire almeno a fare chiarezza.
Per demenza s’intende la compromissione globale delle funzioni cerebrali
Cos’è la demenza
superiori – ivi comprese la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del
vivere quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in
precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e
di controllare le proprie reazioni emotive – in assenza di compromissione dello
stato di vigilanza. Questa condizione diventa con il tempo tanto severa e
invalidante che porta la persona ammalata a non essere più in grado di svolgere
in maniera adeguata le attività tipiche del normale vivere – dal preparare il cibo
ad avere cura della propria persona – e quindi altri devono prendersi cura di lei.
La demenza quindi è un insieme di sintomi. Possiamo paragonare la demenza
alla febbre: un rialzo della temperatura indica solo che una persona non è in
piena salute, ma non dà nessuna informazione sulla causa del disturbo che ha
generato la febbre. La demenza indica che lo stato della mente – del cognitivismo
– di una persona è alterato, ma non dà alcuna informazione sulle cause che
determinano tale disturbo. La demenza non è una malattia, ma è la
presentazione clinica di una malattia che ne è alla base.
Molte sono le malattie che possono causare la demenza; alcune reversibili
come l’ipotiroidismo e alcune condizioni di mancanza di vitamine. L’ipotiroidismo
– molto più presente nelle donne – si realizza con una marcata riduzione dei livelli
ematici di triodotironina T3 e tiroxina T4 dovuta a differenti cause, nella
maggioranza dei casi per un aumento dei livelli di TSH, ormone stimolante la
tiroide. Mentre negli anni passati la condizione patologica era legata alla
mancanza di iodio – assunto con gli alimenti – oggi il più delle volte è chiamato in
27
L’ipotiroidismo
causa il trattamento medico degli stati di ipertiroidismo. In sintesi questa forma
di demenza – dovuta al rallentamento dei processi metabolici in tutto il corpo e
quindi anche nel cervello – è quella che si osserva nelle persone sui 40-50 anni
che hanno il gozzo e un aspetto particolare: il volto inespressivo, di bassa statura
e obese, insofferenti al freddo; inoltre, si riscontrano mancanza di forza,
sonnolenza, rallentamento dell’eloquio, disturbi della memoria più o meno
marcati. Questa particolare forma di demenza può ovviamente essere risolta se
si accerta la causa: la riduzione degli ormoni tiroidei, i quali possono essere
introdotti nell’organismo con una terapia sostitutiva.
Purtroppo il più delle volte la demenza è dovuta a malattie degenerative del
cervello. Queste malattie al momento non hanno una cura per cui si definiscono
croniche e ingravescenti nel tempo. Sulla base di tale definizione – formulata nel
1982 dal Royal College of Physicians, UK – sono state individuate diverse forme di
demenza, suddivise in alcuni grandi gruppi.
1. Il 15% circa è costituito dalle demenze cosiddette secondarie con
cause infettive, metaboliche, psichiatriche o generate da processi
espansivi endocranici o da idrocefalo normoteso.
2. Un altro 15% circa è costituito dalle demenze vascolari, derivanti
cioè da uno o più infarti cerebrali.
3. Il 70% circa è quello relativo alle demenze degenerative primarie,
causate da lesioni degenerative a carico di un numero rilevante di cellule
in diverse aree cerebrali.
In questo ultimo gruppo vi è la Malattia di Alzheimer (MA), che da sola
costituisce circa il 60% di tutte le forme di demenza. Le altre forme degenerative
comprendono diverse forme di degenerazione fronto-temporali, le demenze con
“corpi di Lewy”, le demenze nella malattia di Parkinson, le demenze nella paralisi
sopranucleare progressiva, le demenze nella degenerazione cortico-basale, le
demenze nella malattia di Huntington, le demenze nelle malattie da prioni, rare e
comunemente denominate “da mucca pazza”. È chiaro che anche se al momento
attuale avere tutte queste classificazioni non ha grande importanza ai fini pratici,
in quanto non si hanno a disposizione farmaci in grado di fermare o rallentare la
malattia, quando – e si spera presto – i farmaci ci saranno, sarà sicuramente
28
Le malattie
degenerative del
cervello
della massima importanza conoscere in maniera sicura il processo patologico che
conduce alla demenza; sembra infatti probabile che i farmaci saranno specifici
per le singole forme morbose.
Nuovi criteri diagnosti. Nell’Aprile 2011 è stato pubblicato un lavoro
scientifico in cui si annuncia che dopo ben 27 anni l’aggiornamento dei criteri per
la diagnosi clinica della malattia di Alzheimer che risalivano al 1984 (McKhann
1984).8 Da tempo molte delle persone addentro ai problemi delle demenze
chiedevano una revisione dei criteri diagnostici in quanto le conoscenze che si
erano accumulate negli anni esigevano una rinnovata capacità diagnostica. Un
gruppo di esperti aveva avanzato, su di una prestigiosa rivista medica, una
proposta perché era ormai chiaro che la malattia iniziava decine di anni prima
della comparsa dei sintomi clinici (Dubois B., 2010). 9 In estrema sintesi si
proponeva di abolire il concetto che vedeva la malattia di Alzheimer definita
come una duplice entità clinico-patologica per cui la diagnosi necessitava di un
cattivo funzionamento di almeno due diverse funzioni cognitive con
compromissione delle attività della vita quotidiana (demenza) e di specifici
cambiamenti neuropatologici, le matasse neurofibrillari, le placche senili, l’atrofia
cerebrale e la perdita sinaptica; questo comportava la diagnosi a malattia
conclamata e in stadi avanzati, impediva la diagnosi della malattia “in vivo”, che
veniva quindi definita solo “probabile”.
Dubois e colleghi proponevano invece di definire la Malattia di Alzheimer
solo
sul
piano
clinico
e
sintomatologico
(escludendo
cioè
quello
anatomopatologico) e di includere sia la fase di predemenza che quella di
demenza, questo grazie anche alla possibilità di utilizzare dei marcatori biologici
8
McKhann GM., Knopman DS., Chertkow H., Hyman BT., Jack CR. Jr., Kawas CH., Klunk WE.,
Koroschetz WJ., Manly JJ., Mayeux R., Mohs RC., Morris JC., Rossor MN., Scheltens P., Carillo MC.,
Thies B., Weintraub S., Phelps CH., The diagnosis of dementia due to Alzheimer’s disease.
Recommendations from the Natinal Institute on Aging e The Alzheimer’s Association workgroup.
Alzheimers Dement, 20 Aprile 2011. Epub ahead of print; McKhann GM. et al., Clinical diagnosis
of Alzheimer’s disease: report of the NINCDS-ADRDA Work Group under the auspices of
Department of Health and Human Services Task Force on Alzheimer’Disease, in Neurology, n. 34,
pp. 939-944, 1984.
9
Dubois B., H. H. Feldman, C. Jacova, J.L. Cummings, S.T. DeKosky, P. Barberger-Gateau, A.
Delacourte, G. Frisoni, N.C. Fox, D. Galasko, S. Gauthier, H. Hampel, G.A. Jicha, K. Meguro, J.
O’Brien, Florence Pasquier, P. Robert, M. Rossor, S. Salloway, M. Sarazin, L.C. de Souza, Y. Stern,
P.J. Visser, P. Scheltens., Revising the definition of Alzheimer’s disease: a new lexicon, in Lancet
Neurol, n. 9, pp. 1118–1127, 2010.
29
L’aggiornamento dei
criteri per la diagnosi
clinica
che permettono la diagnosi in vivo (se ovviamente sono presenti i disturbi
cognitivi). I marcatori biologici ritenuti più validi sono: i livelli nel liquido cefalo
rachidiano di beta amiloide, di proteina tau totale e della sua frazione fosforilata;
la presenza di depositi cerebrali di beta amiloide evidenziati da specifici traccianti
con l’esame PET; l’atrofia del lobo temporale mediale evidenziato con la
risonanza magnetica; ipometabolismo temporale e/o parietale evidenziato con il
tracciante PET fluorodesossiglucosio. Inoltre avanzavano la possibilità di
considerare una fase preclinica e/o prodromica oltre alla condizione di malattia di
Alzheimer manifesta. Infine fu proposto di tenere in considerazione la condizione
di decadimento cognitivo tale da non presentare ancora l’impedimento alle
attività della vita quotidiana – Mild Cognitive Impairment, MCI, decadimento
cognitivo lieve – caratterizzata essenzialmente da un disturbo di memoria isolato
con alto rischio di eventi avversi, la progressione in demenza e mortalità. Si stima
che fra il 30 e il 70% degli ultra75enni ne sia affetta. Il disturbo cognitivo lieve è
una delle condizioni che pone i soggetti a maggior rischio di sviluppare demenza.
Clinicamente i disturbi cognitivi lievi presentano aspetti cognitivi al limite tra
l’invecchiamento normale e la compromissione di tipo Alzheimer.
La Malattia di Alzheimer
La condizione sociale. Nei paesi sviluppati una speranza di vita elevata ha
sempre rappresentato un obiettivo fondamentale, progressivamente conquistato
grazie sia al miglioramento delle condizioni di vita – alimentazione, igiene,
ambienti di lavoro – sia alla possibilità di accedere a presidi sanitari di qualità a
partire dall'infanzia. Questo ha reso possibile il raggiungimento di un'età
avanzata da parte di una considerevole quota di popolazione. Negli ultimi venti
anni si è verificata una nuova realtà. A determinare l’allungamento
dell’aspettativa di vita sono, almeno nei paesi a economia avanzata, le decadi più
anziane. Per questo, il progressivo invecchiamento della popolazione ha portato
a una incidenza sempre maggiore di malattie degenerative, cerebrali e non. Oggi,
l'obiettivo non può più essere solo quello di conquistare altri anni di vita, ma
anche quello di consentire che gli anni guadagnati siano vissuti in maniera
dignitosa e proficua.
30
L’aumento della
vita media
Una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista “Lancet” ci dà un quadro
10
aggiornato del problema (Jagger C., 2008). Gli autori puntano l’attenzione sulle
L’aspettativa di vita
in salute
differenze nell’aspettativa di vita in salute (AVS) tra le 25 nazioni europee. Il
divario constatato è impressionante: l’AVS per gli ultracinquantenni maschi
danesi è di 23,6 anni mentre per gli estoni di 9,1 anni. L’Italia si colloca tra i primi
posti. Per i maschi italiani l'aspettativa di vita è di 80,4 anni, e l’AVS è, dopo i 50
anni, di 20.6 anni; per le donne l'aspettativa di vita è di 85,3 anni e l’AVS, dopo i
50, di 20,86 anni.
Tornando allo specifico dell’Alzheimer nel nostro paese, i dati più recenti
parlano di circa 1 milione di persone con MA – circa 30-40.000 già accertati in
Liguria, regione in cui la presenza di ultrasessantacinquenni è decisamente
superiore alla media nazionale – e la sua prevalenza può essere stimata in circa il
3% delle persone – maschi e femmine – di età compresa tra i 65 ed I 75 anni. La
percentuale delle persone colpite dalla MA sale a circa il 50% se si considerano
coloro che hanno più di 85 anni d’età (The Italian Longitudinal Study on Aging.,
1997).11 I dati previsionali informano di un forte ridimensionamento delle classi
d’età adulte, ovvero quelle proprie dei potenziali caregivers, con conseguente
necessità di prefigurare anche possibili figure alternative con le quali poter
almeno condividere il carico assistenziale. Il problema, già oggi molto grave, si
presenta quindi come esplosivo per i prossimi decenni – si presumono 115
milioni di malati nel mondo nel 2050 – e richiede la progettazione di interventi
mirati non solo alla cura in senso stretto, bensì anche al sostegno delle reti
informali che erogano assistenza.
La malattia di Alzheimer è sicuramente quella che occupa il primo posto tra
tutte le possibili cause di demenza e rappresenta fino al 60% di tutte le forme di
malattie con demenza.
Il Dott. Alois Alzheimer. La malattia deve il nome al medico Alois Alzheimer,
figlio del notaio Eduard, nato il 14 giugno 1864 nella piccola città bavarese di
10
Jagger C., Gillies C., Moscone F., Cambois E., Van Oyen H., Nusselder W., Robine J-M and the
EHLEIS team, Inequalities in healthy life years in the 25 countries of the European Union in 2005:
a cross-national meta-regression. Analysis, in Lancet, n.372, pp. 2124–2131, 2008.
11
The Italian Longitudinal Study on Aging. Prevalence of chronic disease in older Italians:
comparing self-reported and clinical diagnoses., in Int J Epidemiol, n. 26, pp. 995-1002, 1997.
31
La scoperta di
Alzheimer
Marktbreit. Alois frequentò diverse Università, Aschaffenburg, Tübingen, Berlino,
e Würzburg, dove nel 1887 ottenne la Laurea in Medicina e nello stesso anno
discusse la tesi del suo dottorato: "Über die Ohrenschemalzdrnsen" (trad. “Sulle
ghiandole ceruminose”), frutto del lavoro sperimentale condotto presso il
laboratorio del massimo istologo dell'epoca, Rudolf Albert von Kölliker. L'anno
successivo iniziò a lavorare presso Städtischen Heilanstalt für Irre und
Epileptische di Francoforte sul Meno, luogo gestito dallo stato dove erano
ricoverate persone con malattie mentali. Qui iniziò a studiare la psichiatria
dedicandosi a quello che sarebbe poi stato il suo massimo interesse, la
neuropatologia. Fondamentale l’incontro con il celebre neurologo Franz Nissl,
trasferito presso lo stesso istituto. I due, insieme, si dedicarono allo studio del
sistema nervoso, in particolare all'anatomia patologica della corteccia cerebrale
e diedero alle stampe il prodotto della loro ricerca, il monumentale
"Histologische und histopatologische Arbeiten über die Grosshirnrinde" (trad.
“Studi patologici e istopatologici della corteccia cerebrale”).
Nissl si trasferì poi a Heidelberg e Alzheimer fu nominato direttore della
Clinica Psichiatrica. Qui rimase fino al 1895 quando Emil Kraepelin – luminare
della psichiatria noto per il suo tentativo di classificare tutte le forme di malattia
mentale conosciute al tempo – lo chiamò a Heidelberg, dove lavorò ancora con
Nissl.
Nel 1903 Kraepelin e Alzheimer si trasferirono a Monaco, nella clinica
psichiatrica universitaria. Qui Alzheimer, nel novembre del 1906, descrisse "una
rara malattia della corteccia cerebrale", basandosi sugli studi effettuati su una
donna morta a 51 anni nella clinica di Monaco, Auguste D. Della donna si
conserva ancora oggi la cartella clinica e una fotografia scattata durante il
ricovero. La signora Auguste era stata portata all’osservazione del Dott.
Alzheimer perché presentava gravi turbe cognitive; il sintomo principale, oltre a
perdita della memoria e a confusione, era, in quelle prime fasi di malattia, un
delirio di gelosia nei confronti del marito. In seguito si definì il corteo
sintomatologico più tipico della malattia che oggi ben conosciamo –
disorientamento spazio temporale e difficoltà nella lettura e scrittura – e alla
morte della paziente venne concessa l’autorizzazione a eseguire l’autopsia.
32
L’esame istopatologico mise in evidenza una corteccia cerebrale più sottile del
normale – corteccia atrofica – con presenza di alcune alterazioni peculiari: la
prima era una formazione - “placca senile” - già osservata nei cervelli di altre
persone anziane e la seconda una matassa neuro fibrillare all’interno di neuroni
morti. Questa alterazione corticale, mai descritta prima, permise di capire che ci
si trovava di fronte a una nuova condizione patologica che Kraepelin chiamò
“Morbo di Alzheimer” nell’edizione del suo “Manuale di Psichiatria” del 1910.
Nel 1910 Alzheimer fondò la Rivista generale di neurologia e psichiatria insieme
al neurologo Max Lewandowsky e nel 1912 l'imperatore Guglielmo II gli offrì
l’incarico di professore ordinario di psichiatria presso la Clinica Psichiatrica e
Neurologica dell’Università Federico Guglielmo a Breslavia (oggi in Polonia). In
quell’anno durante un viaggio in treno Alzheimer si ammalò. Morì, a soli 51 anni,
nel dicembre del 1915, anno in cui stava preparando le nozze della figlia con il
suo grande amico, il Dott. G. Strerz.
Il cervello malato. Oggi sappiamo che il cervello delle persone con MA
contiene delle formazioni proteiche – le placche di beta-amiloide e le matasse
neurofibrillari – che all’inizio della malattia sono concentrate in regioni del
cervello che giocano un ruolo chiave nei processi di memorizzazione: le strutture
ippocampali e para ippocampali site nella parte più interna o mediale di entrambi
i lobi temporali. Con l’avanzare della malattia l’intero cervello viene coinvolto.
Anche se è noto che molte persone in età avanzata possono presentare
placche di beta-amiloide del tutto simili a quelle trovate nei malati dementi, la
quantità delle placche è molto maggiore nei malati di Alzheimer. Da alcuni anni si
conosce la composizione delle placche, come si formano e un loro possibile ruolo
nella genesi della malattia. Le placche sono costituite da frammenti extracellulari
di un peptide beta-amiloide che derivano dalla demolizione di una proteina di
membrana,
l’Amiloid
Precursor
Protein
(APP), la
proteina
precursore
dell’amiloide. La demolizione avviene ad opera di alcuni enzimi (l’enzima è una
proteina che permette e/o facilita i processi biochimici che si svolgono all’interno
e/o all’esterno del neurone), e precisamente la beta e la gamma secretasi.
Avviene così il troncamento dell’APP, di cui una parte, la beta-amiloide, viene
33
Le placche di betaamiloide
lasciata libera, fuori dalla membrana cellulare. La beta-amiloide compattandosi
con altre molecole e con i neuroni e le cellule gliali, forma le note placche di
Alzheimer (Schettini G., 2010).12
Le matasse neuro fibrillari sono un’altra formazione tipica della malattia.
Normalmente i neuroni sono costituiti da uno scheletro interno di supporto, che
Le matasse
neurofibrillari
in parte è formato da strutture chiamate microtubuli, subunità stabilizzate di una
proteina definita tau. Nella malattia di Alzheimer avviene una modificazione di
questa proteina– in linguaggio chimico si dice che la tau è iperfosforilata – dando
origine alla fusione delle diverse proteine tau. A lungo andare il processo provoca
anche un cambiamento della struttura dei neuroni che si aggroviglia e porta a
morte le cellule. Ovviamente la malattia di Alzheimer non è la sola patologia in
cui tali proteine si trovano alterate.
Di particolare interesse è però la relazione temporale tra queste alterazioni
cerebrali e la comparsa della sintomatologia dementigena. Infatti, prima che i
disturbi cognitivi diventino chiari,tanto da essere riconosciuti dalle persone che
normalmente circondano il malato, devono trascorrere alcune decine di anni, tra
40 e 50. Un recente studio condotto sui cervelli di 42 individui di età compresa tra
i 4 ed i 29 anni ha rilevato in circa la metà dei casi alterazioni che daranno origine
alle matasse neuro fibrillari in strutture cerebrali sotto corticali. La ricerca
suggerirebbe che queste modificazioni cerebrali potrebbero avere origine
addirittura nella fase preadolescenziale della nostra vita (Braack, Del Tredici,
2011).13
L’altra grande modificazione dei cervelli dei malati di MA che si riscontra
all’autopsia è l’atrofia cerebrale: perdita consistente di cellule – neuroni e glia – e
dei loro collegamenti. Le aree più colpite sono generalmente la parte anteriore
del lobo temporale, le sue componenti più profonde o mesiali (in special modo
l’ippocampo), come pure il lobo frontale e quello parietale. Molte altre strutture
sono generalmente interessate dall'atrofia come le aree limbiche. Queste aree
definite anche come “sistema limbico” (anche se non tutti i ricercatori nel settore
12
Schettini G., Govoni S., Racchi M., Rodriguez G., Phosphorylation of APP-CTF-AICD domains and
interaction with adaptor proteins: signal transduction and/or transcriptional role-relevance for
Alzheimer pathology, in J.Neurochem, n. 115, pp. 1299–1308, 2010.
13
Braak H., Del Tredici K., The pathological process underlying Alzheimer’s disease in individuals
under thirty, in Acta Neuropathol, n. 121 , pp. 171–181, 2011.
34
L’atrofia cerebrale
delle neuroscienze si trovano d’accordo sul termine “sistema”) comprendono una
serie di strutture cerebrali che includono l'ippocampo, l'amigdala, i nuclei talamici
anteriori e la corteccia limbica (giro del cingolo, corteccia olfattoria e entorinale
ed altre strutture tra cui, per alcuni, possono includersi anche le aree frontali
sovra orbitali) che supportano svariate funzioni psichiche come emotività,
comportamento, memoria a lungo termine e olfatto (Braak H., Braak E., 1991). 14
Il sistema limbico influenza anche il sistema endocrino e il sistema nervoso
autonomo è connesso con il nucleus accumbes – la degenerazione di questi
circuiti è stata associata all'insorgere di sindromi schizofreniche – e riceve una
importante afferenza dopaminergica da parte della via mesolimbica. Uno dei
centri principali di questo sistema è proprio il nucleus accumbens che insieme al
sistema limbico sembra coinvolto nei meccanismi di ricompensa e punizione.
Infine, come su accennato, si ricordano le importanti connessioni con la corteccia
prefrontale che sono parte di un sistema decisionale più di tipo emozionale che
razionale anche secondo le ipotesi suggerite da alcuni ricercatori tra cui Antonio
Damasio (Damasio, 2000).15
Altra area ritrovata atrofica è il nucleo basale di Meynert (Whitehouse PJ.,
1981).16 Questa struttura è importante perché sede di neuroni che utilizzano
come neurotrasmettitore l’acetilcolina, uno dei trasmettitori cerebrali di tipo
attivante, e per le numerose connessioni con aree cerebrali attive in moltissimi
processi cognitivi quali quelli mnesici (ippocampo). Nel cervello dei malati di MA è
stata trovata un’importante riduzione di acetilconina (nei malati l’attività
corticale acetilcolinergica è ridotta di circa il 60-70%) e anche su questa
osservazione si basa il trattamento con inibitori delle acetil colinesterasi – gli
enzimi che catabolizzano l’acetilcolina – praticato nella MA e di cui parleremo in
seguito.
La degenerazione sinaptica è tipica della MA. L’autopsia rivela una
diminuzione del numero di sinapsi una carenza di sostanze proteiche presenti
14
Braak H., Braak E., Neuropathological stageing of Alzheimer-related changes, in Acta
Neuropathol, n. 82, pp. 239–259, 1991.
15
Antonio R. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, 2000.
16
Whitehouse PJ., Prince DL., Clark AW., Coyle JT., DeLong M., Alzheimer disease: Evidence for
selective loss of cholinergic neurons in the nucleus basalis, in Annals of Neurology, n. 10, pp. 122–
126, 1981.
35
La diminuzione
delle sinapsi
nelle sinapsi di cellule sane. La degenerazione ha una buona correlazione con il
decorso e l'entità della malattia. I sintomi della demenza potrebbero dunque
essere interpretati come conseguenza del deficit sinaptico, in quanto i neuroni
hanno difficoltà a comunicare.
Ovviamente la domanda che tutti ci poniamo è perché mai si formino sia le
placche che le matasse fibrillari. Purtroppo la risposta non è ancora stata data e
Le alterazioni
genetiche
questo condiziona anche la ricerca farmaceutica.
Tra le ipotesi formulate una riguarda la possibilità che alla base della
malattia ci sia un’alterazione genetica. Contro questa ipotesi, anche se solo
parzialmente, è il dato che solo circa il 5-10% dei casi di MA è di tipo ereditario:
in questi casi, la malattia è definita “familiare” perché più persone della stessa
famiglia sono colpite dalla malattia che ha insorgenza molto più precoce di
quanto avvenga nella forma sporadica (tra i 35 ed i 50 anni).
Tra le alterazioni genetiche ricordiamo quella del gene della proteina
amiloide (APP), localizzato sul cromosoma 21 che presenta mutazioni molto rare,
La proteina
amiloide
circa 43 famiglie finora identificate nel mondo; quella del gene della presenilina 1
(PS1) localizzato sul cromosoma 14 con oltre 125 diverse mutazioni finora
identificate in malati appartenenti a 254 famiglie, in tutto il mondo. Queste
mutazioni – le preseniline sono proteine che hanno la funzione di tagliare la
proteina amiloide e per questo l'ipotesi è che il loro alterato funzionamento
potrebbe portare all’accumulo di proteina amiloide – rappresentano la causa più
comune delle forme di Alzheimer familiare a esordio precoce (tra i 28 ed i 60
anni). La mutazione del gene della presenilina 2 (PS2), localizzato sul cromosoma
1, è stata identificata solo in 6 casi in pazienti appartenenti a famiglie americane
originarie dell’Europa dell'Est e in 2 famiglie italiane; in queste famiglie l’età di
esordio può essere precoce (30 anni) ma anche molto tardivo (oltre 80).
Si è trovata una mutazione genetica anche a carico del cromosoma 21 –
responsabile della formazione della proteina precursore dell'amiloide – e del
cromosoma 14. La variante genetica del gene 19 - denominata ApoE-e4 – è
presente nel 15% della popolazione sana ma nel 50% della popolazione affetta da
MA. Tale variante è stata pertanto considerata un fattore genetico di rischio.
36
I cromosomi 21, 14
e il gene 19
Una ricerca del 2005 mette in luce che i frammenti 151 e 421 della proteina
tau sono in grado di portare a morte i neuroni ippocampali, che sappiamo essere
una della zone chiave della MA. Più recentemente in un modello animale di MA si
è trovato che alla comparsa dei primi sintomi della malattia, nell'ippocampo
compariva un eccesso della proteina caspasi-3, che
comportava il
deterioramento delle sinapsi e quindi della memoria (D'Amelio M., 2011). 17 Infine
gli studi epidemiologici hanno messo in luce un rischio di circa 3-4 volte maggiore
di sviluppare la MA in persone che abbiano i genitori – uno o entrambi – malati;
la malattia inoltre presenta anche un decorso più rapido.
A fronte di tali condizioni è bene conoscere in dettaglio il senso generale di
ereditarietà. Tutte le informazioni che servono alle cellule dell’organismo umano
per svolgere i compiti loro assegnati sono immagazzinate nel DNA in una
proteina del nucleo cellulare, suddivisa in strutture, chiamate cromosomi,
ereditate dai genitori, metà da parte materna e metà da parte del padre. Nel
DNA le informazioni sono organizzate a blocchi, cosiddetti “geni”, ognuno dei
quali codifica determinate azioni. Quando per una qualsiasi ragione, i geni si
modificano – le cosiddette mutazioni – l'azione di cui è responsabile il gene non
avverrà più nella forma in cui era in precedenza codificata: il nuovo prodotto
genico potrà portare sia a miglioramenti – la chiave di volta per spiegare
l’evoluzione della specie umana e di tutte le creature della terra – ma anche a
problemi che si possono esprimere in anomalie o patologie e quindi alterazioni
patologiche che verranno dette ereditarie. Quindi, malattie ereditarie o genetiche
sono quelle anomalie di strutture o funzioni presenti dalla nascita che derivano
da un errore generato in un singolo gene oppure da anomalie strutturali dei
cromosomi. Alcune malattie genetiche danno segni visibili alla nascita. Tali
patologie possono derivare da mutazioni di un singolo gene o da anomalie a
carico dei cromosomi.
17
D'Amelio M. ,Cavallucci V., Middei S., Marchetti C., Pacioni S., Ferri A., Diamantini A., De Zio D.,
Carrara P., Battistini L., Moreno S., Bacci A., Ammassari-Teule M., Marie H., Cecconi F., Caspase-3
triggers early synaptic dysfunction in a mouse model of Alzheimer's disease, in Nat Neurosci, n.
14, pp. 69-76, 2011.
37
La proteina caspasi3
Le forme più comuni della MA – quelle sporadiche, non legate direttamente
alla ereditarietà – sono la maggioranza (circa il 75% dei casi), non colpiscono i
parenti del malato e come già detto non sono certe le cause.
Per spiegare la MA, tra le altre ipotesi avanzate, ma con pochi chiari indizi a
La causa virale
suo favore ricordo quella virale. Si è pensato che possano influire negativamente
a livello cerebrale gli alti livelli di alluminio trovati nel cervello di persone con
MA. Infatti, sali di alluminio posti direttamente sulla corteccia cerebrale di
animali da esperimento producono matasse neurofibrillari, ma non vi sono prove
dirette che la MA possa essere causata da una forma di intossicazione da
alluminio. Anche il sistema immunitario è stato chiamato in causa potendo
l'organismo produrre anticorpi che attaccano selettivamente i neuroni per
l'acetilcolina, come pure la Barriera Emato Encefalica, struttura che serve a
separare nel cervello i neuroni dal circolo ematico. Secondo questa ipotesi, una
mutata permeabilità della barriera ematoencefalica permetterebbe a sostanze
tossiche di entrare nel cervello e di attaccare i neuroni. Nessuno può attualmente
escludere che due o più di queste ipotesi combinate costituiscano la patogenesi
del morbo di Alzheimer (Reitz C., 2011). 18
La diagnosi. Per molto tempo si è ritenuto corretto ritenere che la diagnosi di
LA DIAGNOSI
MA richiedesse, oltre a tutta la parte clinica sintomatologica, anche la conferma
autoptica delle tipiche alterazioni cerebrali. Essendo queste rilevabili solo dopo la
morte del malato, si comprende che in vita il medico poteva fare solo una
diagnosi di “probabile” MA. Da alcuni anni, però, da parte di molti gruppi di
ricerca si è posto l’accento sulla necessità di superare questa diagnosi e di
accettare nuovi criteri. Molto recentemente queste idee sono state oggetto di
pubblicazioni di prestigiose riviste internazionali, spero che presto anche la
medicina di base possa far proprie queste nuove posizioni.
La novità è che negli ultimi anni si è fatta luce, dopo una serie di osservazioni
strumentali, sulla presenza nei malati ma anche in persone che hanno sviluppato
la MA di quadri particolari e in parte specifici di MA. Tra queste i radiofarmaci
18
Reitz C., Brayne C. Mayeux R., Epidemiology of Alzheimer disease, in Nature
Reviews/Neurology, n. 7, pp. 137-152, 2011.
38
PET
che sono in grado di legarsi alla proteina beta-amiloide e quindi di rendere visibile
la deposizione di beta-amiloide cerebrale utilizzando un’apparecchiatura, la PET
(tomografia ad emissione di positroni). Queste “neuroimmagini” sono molto
importanti non solo perché permettono di evidenziare nei malati la deposizione di
beta-amiloide, ma anche di mostrarla nei cervelli di persone che sono ad alto
rischio di sviluppare la MA ma non presentano ancora il tipico corteo
sintomatologico dei disturbi cognitivi. Così molti ricercatori ritengono di poter
attribuire questi quadri ad una fase pre clinica della malattia di Alzheimer. Con la
PET è inoltre possibile evidenziare, grazie ad un tracciante radioattivo – il desossifluoro-glucosio che viene intrappolato nelle cellule cerebrali normalmente
funzionanti – un’alterazione del metabolismo cerebrale nelle regioni parietali
posteriori del cervello nei malati di MA. Anche con questo tipo di esame è
possibile evidenziare delle alterazioni anni prima dello sviluppo dei sintomi.
Ancora è possibile con la Risonanza Magnetica strutturale cerebrale pesare la
perdita del tessuto cerebrale a causa dell’atrofia e in particolare valutare il
volume di una regione molto importante nella genesi della malattia, l’ippocampo.
Alcuni gruppi di ricerca hanno elaborato dei sistemi automatici per la “pesatura”
dell’ippocampo e si può quindi sperare che, quando questi sistemi saranno
definitivamente accettati dalla comunità scientifica, sarà possibile disporre di uno
strumento accessibile a tutti in grado di definire il rischio potenziale di sviluppare
la MA (Chincarini, 2010).19
Infine molto indicativi di MA sono anche i rapporti tra la concentrazione di
beta amiloide – variante Abeta42 – e di tau, la proteina indicatore di danno
Il rapporto tra betaamiloide e tau
citoscheletrico neuronale. Gli anziani sani hanno livelli elevati di Abeta42 e bassi
di tau nel liquor, mentre nelle fasi anche molto iniziali di malattia di Alzheimer il
rapporto è invertito (bassi livelli di Abeta42 e alti di tau). Ricordo anche che, sia
per le forme familiari che per quelle sporadiche, è stato introdotto anche un
esame genetico per un particolare allele – l’allele 4 – del gene della
Apolipoproteina E (APOE4). L’APOE è una proteina che si lega alla proteina
19
Chincarini A., Corosu M., Gemme GL., Calvini P., Monge R., Penco MA., Rei L., Squarcia S.,
Boccacci P., Rodriguez G., Automatic Morphological Analysis of Medial Temporal Lobe The Open
Nuclear, in Medicine Journal, n. 2, pp. 31-39, 2010.
39
L’esame dell’allele 4
e della
apolipoproteina
amiloide e diversi studi hanno mostrato che l’allele 4 è più frequente nelle
persone affette da MA rispetto a quelle sane (Reitz C., 2011). 20
Da quanto detto appare evidente come fossero maturi i tempi per modificare
finalmente i criteri diagnosti della Malattia di Alzheimer. Nell’Aprile del 2011
sono stati pubblicati i nuovi criteri di diagnosi che sostituiscono quelli del 1984
che, ovviamente, riflettevano le scarse conoscenze del momento e che davano
alla malattia una singola fase, quella della demenza, e che basavano la diagnosi
solo sui criteri clinici. Si assumeva così che le persone senza demenza fossero
anche non malate di Alzheimer; diagnosi confermata all’esame autoptico. Da
allora si è ormai accertato che la malattia di Alzheimer può causare danni al
cervello decine di anni prima dalla comparsa dei sintomi e che i sintomi non
sempre sono strettamente correlati ai danni che l’Alzheimer causa al cervello.
Inoltre, sembra ormai appurato che i depositi di amiloide cominciano presto,
durante il percorso della malattia, ma la formazione delle matasse neuro fibrillari
e la perdita dei neuroni avviene più tardi e addirittura possono accelerare proprio
nel periodo che precede la comparsa dei tipici sintomi.
I nuovi criteri diagnostici per la malattia di Alzheimer proposti coprono tre
distinte fasi della malattia (Jack CR., 2011).
21
1- Preclinica. La fase preclinica, per la quale le linee guida si applicano solo in
NUOVI CRITERI PER
LA DIAGNOSI
CLINICA
un ambiente di ricerca, descrive una fase in cui le modificazioni del
cervello – la formazione delle placche di amiloide e degli altri precoci
cambiamenti a carico delle cellule nervose – potrebbe essere già in
corso. In questa fase, non sono ancora evidenti significativi sintomi
clinici. In alcune persone, l'accumulo di amiloide può essere rilevato
grazie alla tomografia a emissione di positroni (PET) e all’analisi del
liquido cefalo rachidiano, ma a tutt’oggi per queste persone non si sa
quale sia il vero rischio di una progressione verso la demenza di
Alzheimer. Tuttavia, al momento, l'uso delle indagini di imaging
20
Ibidem.
Jack CR. Jr, Albert M., Knopman DS., McKhann GM., Sperling RA., Carrillo MC., Thies B., Phelps
CH., Introduction to revised criteria for the diagnosis of Alzheimer’s disease. National Institute on
Aging and the Alzheimer’s Association workgroup. Alzheimers Dement, 20 aprile 2011, Epub
ahead of print.
21
40
Le tre fasi stabilite
dai nuovi criteri
diagnosti
cerebrale e di ricerca di biomarcatori sono consigliati solo a scopo di
ricerca. Questi biomarcatori sono ancora in una fase di sviluppo e non
ancora standardizzati per cui non sono ancora adottabili nella pratica
clinica routinaria.
2- Disturbo cognitivo lieve (MCI). Anche le linee guida per la fase del MCI
sono in gran parte per la ricerca, anche se chiariscono quelle già esistenti
per MCI da utilizzare in ambienti di clinica routinaria. La fase del MCI è
caratterizzata da sintomi che si riferiscono a difficoltà di memoria, tali da
essere notati e pesati con opportuni test neuropsicologici, che non non
compromettono l'indipendenza di una persona. Le persone con MCI
possono o no progredire verso la demenza di Alzheimer. La ricerca, in
questa fase, dovrebbe concentrarsi in particolare sulla standardizzazione
dei biomarcatori per l’amiloide e per gli altri possibili marcatori di danno
cerebrale. Attualmente, i biomarcatori includono: elevati livelli di
proteina tau e diminuzione dei livelli di beta-amiloide nel liquido
cerebrospinale; ridotta captazione del glucosio nel cervello, come si
evidenzia con l’esame PET, e l'atrofia di certe aree del cervello, come si è
visto con la risonanza magnetica strutturale (MRI). Questi test saranno
utilizzati principalmente in ambito di ricerca, ma potrebbero anche
essere applicati in ambienti clinici specializzati per la diagnostica delle
malattie che portano alla demenza, allo scopo di dare maggior valore ai
test clinici standardizzati così da giungere alla comprensione delle
possibili cause dei sintomi di MCI.
3- La Malattia di Alzheimer. I criteri stabiliti valgono per la fase finale della
malattia e sono più importanti per i medici e i pazienti. I criteri
definiscono i modi con cui i medici dovrebbero valutare le cause e la
progressione del declino cognitivo. Le linee guida inoltre espandono il
concetto di malattia di Alzheimer oltre la perdita di memoria come sua
caratteristica più peculiare. Un calo in altri aspetti dei domini cognitivi,
come trovare le parole corrette, alterazioni visuo/spaziali e la
compromissione del ragionamento o della capacità di giudizio
potrebbero essere i primi sintomi notati. In questa fase, i risultati della
41
valutazione dei biomarcatori possono essere utilizzati, in alcuni casi, per
aumentare o diminuire il livello di certezza di una diagnosi di malattia di
Alzheimer e per distinguere la demenza tipo Alzheimer da altre forme di
demenza, anche se la validità di tali prove per l'applicazione nella pratica
clinica quotidiana è ancora in fase di studio.
I sintomi. Nelle fasi più precoci della malattia i disturbi cognitivi sono molto
I SINTOMI
vaghi. Tra questi, come è ben noto, è la perdita di memoria che, a volte, può
anche compromettere le capacità lavorative mentre, altre volte, si esprime solo
come incapacità per esempio di ritrovare le cose riposte da qualche parte. Ci
sono poi piccole difficoltà nelle attività della vita quotidiana o sul posto di lavoro
La I fase
(ad esempio non saper più che fare di fronte ad compito normalmente eseguito
senza problemi; dimenticare parole semplici o sostituirle con parole improprie,
rendendo quello che si dice difficile da capire), momenti di disorientamento sia
nel tempo (non ricordare le date o l’anno in corso) e nello spazio (trovarsi in un
La perdita di
memoria e il
disorientamento
posto noto e non sapere più dove si è), diminuzione della capacità di giudizio e
difficoltà nel pensiero astratto, mettere le cose in posti del tutto inadeguati (un
orologio nel barattolo dello zucchero), cambiamenti di umore o di
comportamento, infine modificazioni della personalità e mancanza di iniziativa in
molte o in tutte le solite attività.
Come facilmente si intuisce, la malattia inizia in modo insidioso e subdolo,
molte volte è preceduta da un lungo periodo in cui il malato è depresso e
apatico, lentamente e gradualmente la sintomatologia progredisce. Prima di
questa fase iniziale riconosciuta, le modificazioni che hanno danneggiato il
cervello erano presenti da decenni anche se senza evidenti sintomi e segni, per
cui, quando questi si manifestano e viene fatta la diagnosi clinica, ci si trova ad
un punto di non ritorno, nonostante l’imprevedibilità del decorso clinico. Anche
per queste ragioni è importante arrivare alla diagnosi il più precocemente
possibile; dato il carattere progressivo della malattia, è ipotizzabile un suo
arresto solo se il cervello non è danneggiato in maniera irreparabile. Inoltre la
diagnosi precoce permette di mettere sull’avviso l’intero sistema familiare e di
prendere da subito tutti quei provvedimenti, molti dei quali anche di tipo
42
La diagnosi precoce
amministrativo, per una gestione più tranquilla della malattia. In questa fase
potrebbe rilevarsi molto utile per il malato e per la famiglia la frequentazione di
un Centro Diurno per MA. Queste strutture infatti, offrendo un ambiente in cui il
malato è stimolato a compiere una serie di azioni che difficilmente possono
essere fatte in ambiente familiare, sono un momento terapeutico importante.
Ma anche per la persona o le persone che prestano le cure, perché il centro può
rappresentare nella giornata un momento di pausa, indispensabile per reggere il
carico della cura sul lungo periodo.
Andando avanti nel suo corso naturale la malattia arriva ad una seconda fase
La II fase
in cui, oltre a presentare l’accentuazione di tutti i disturbi già presenti (si noterà
un marcato peggioramento delle capacità della memoria), compaiono altri segni
molto particolari: viene a mancare l’orientamento temporale per cui fissare un
impegno o un appuntamento potrebbe generare nel malato un particolare stato
di agitazione e quindi a un aumento della tensione ed irritabilità che può portare
a stati di confusione, iperattività ed evidente ostilità.
Il deficit dell’orientamento spaziale si esprime anche nei dintorni della
propria abitazione e nei lunghi percorsi, l’ammalato comprende di non sapere
più dove si trova e quindi tende spontaneamente a non uscire di casa. L’unica
risposta di chi si prende cura del malato sarà quella di accompagnarlo ogni qual
volta ci si allontana dall’ambiente domestico. Certamente in questa fase è ancora
possibile stimolare, almeno in parte, le residue autonomie del malato
convincendolo a passeggiare ad esempio in un giardino privato, o in spazi
protetti vicini all'abitazione o anche frequentando luoghi molto familiari.
Compare anche la compromissione delle capacità di astrazione: per il malato
risulta sempre più difficile comprendere situazioni complesse per cui è
necessario semplificare i messaggi, le istruzioni debbono essere molto
elementari. Anche il linguaggio mostra alterazioni sempre più marcate e diventa
difficile per tutti, anche per il caregiver, comprendere i motivi di un possibile
disagio (anche fisico) oppure i bisogni che il malato non riesce più a comunicare
in maniera chiara e intelligibile. Il malato non ha più la capacità di prevedere,
controllare o incidere sull’ambiente circostante per cui sarà in un persistente
stato di agitazione. Anche la capacità di giudizio si allenta e non è difficile sentire
43
Aggravamento dei
sintomi già presenti
raccontare di chi vorrebbe uscire di casa nudo o in vestaglia e non ritiene
necessaria la cura della propria persona. L’apatia è sempre più presente e il
Apatia
malato riduce le proprie attività; anche per questo lo si vede, immobile e inerte,
rimanere seduto (anche di fronte ad un televisore acceso) senza presentare
alcun tipo di reattività. Infine, spesso, in questa fase compaiono nel malato
allucinazioni in genere spiacevoli (ossia percezioni visive e/o uditive in assenza
dei corrispondenti oggetti) che possono innescare veri e propri deliri che non
Allucinazioni e deliri
hanno nessun riscontro oggettivo. Tipici sono quelli in cui il malato è convinto
che qualcuno voglia fargli del male o privarlo dei suoi averi: “mio figlio quando
viene a casa mia mi ruba i soldi”. Ancora, i malati ritengono che le persone che li
assistono siano degli impostori, oppure hanno la convinzione che visitatori
immaginari vivano nella propria casa, spesso non riconoscono la propria
immagine allo specchio e possono ritenerla appartenere ad un’altra persona, lo
stesso accade quando il malato ritiene che quello che vede alla televisione sia a
tutti gli effetti un evento reale. Inoltre, come conseguenza del danno cerebrale,
alcuni malati di demenza possono anche confondere o interpretare
erroneamente ciò che vedono, sentono o gustano. Per esempio, possono
lamentarsi perché un dolce è salato, perché una musica è troppo forte, o perché
fuori fa un freddo glaciale quando in realtà c'è un sole che spacca le pietre.
Allucinazioni e deliri
possono provocare
paure intense
o
scatenare
comportamenti aggressivi.
A distanza di alcuni anni dal momento della diagnosi – tra i cinque e i sette
La III fase
anni – la malattia si aggrava e compaiono nuovi sintomi. Tra i più frequenti,
l’incontinenza sfinterica è il sintomo che in alcune scale cliniche, utili per valutare
il decorso della malattia, segna il passaggio verso le fasi più gravi. In genere
compare prima quella urinaria e poi quella fecale. Il malato perde la capacità di
riconoscere i familiari, come pure gli amici più stretti, può dimenticare il nome
del proprio partner o addirittura scambiarlo per un’altra persona. Viene
lentamente a mancare la capacità di legare gli avvenimenti, il malato non sa più
nulla di tutto quello che recentemente è avvenuto, è completamente
disorientato nel tempo e nello spazio, come anche è del tutto inconsapevole
della dimensione temporale o degli spazi e degli ambienti in cui vive e fuori dalla
44
Disorientamento
totale
spazio domestico. In questa fase l’assistenza deve essere continua, 24 ore al
giorno; il malato deve essere aiutato per la cura della persona (ormai l’igiene
della persona è cosa inesistente) e per tutte le necessità primarie del vivere
come ad esempio alimentarsi (il malato potrebbe lasciarsi morire di fame perché
non è più in grado né di procurarsi né di prepararsi il cibo). Il sonno diventa
completamente destrutturato (il malato spesso di notte si aggira per la casa) e
Destrutturazione
del sonno
sono sempre più frequenti i disturbi comportamentali come pure le modificazioni
e i cambiamenti emotivi e della personalità che si manifestano con ansia e
agitazione, allucinazioni, deliri (gelosia, persecuzione), sintomi ossessivi e
purtroppo anche con aggressività, verbale o fisica. Queste sono le modificazioni
comportamentali che maggiormente compromettono la capacità di resistenza
del caregiver.
Così, lentamente, si arriva alla fase terminale della malattia: la mente perde
La IV e ultima fase
gli ultimi bagliori degli aspetti cognitivi rimasti e le persone, le cose e i luoghi
perdono la dimensione che li aveva resi parte fondamentale dell’esperienza di
vita del malato. Adesso il caregiver vive interamente il dramma della DE-mentis e
il tempo del malato trascorre in una ovattata incoscienza. In queste condizioni, il
malato è il più delle volte costretto a letto perché importanti disturbi motori – la
Disturbi motori
rigidità del tronco, della nuca e degli arti ed il tremore – gli impediscono la
stazione eretta. Non ci sono più vere parole – quello che rimane del linguaggio
consiste in una serie di suoni inarticolati ed incomprensibili – e quando
l’emissione della voce cessa del tutto la fine è veramente vicina. Il malato non
riesce più ad alimentarsi: per l’incapacità di coordinare i movimenti per la
deglutizione, i liquidi devono essere gelificati per evitare che vadano nei polmoni
ma nonostante tutte le precauzioni spesso compaiono complicanze come la
polmonite, dovuta all’aspirazione di materiale alimentare nelle vie respiratorie. A
questo punto non lo stato nutrizionale del malato è compromesso; questa
condizione, insieme all’allettamento, determina la perdita di massa muscolare e
la distruzione di massa ossea, con un aumento dell’eliminazione del calcio con le
urine. Ormai il malato deve avere qualcuno sempre vicino. Si ripeteranno gli
episodi di polmonite e lentamente, a fronte di qualsiasi sforzo, interverrà in
pochi mesi la fine.
45
Assenza del
linguaggio
La terapia. Ancora oggi non esiste una cura per la MA: la malattia è
LA TERAPIA
progressiva, il malato continuerà a peggiorare sia che prenda o no le medicine
sintomatiche oggi somministrate. Queste sono essenzialmente due tipi: gli
anticolinesterasici (donezepil, rivastigmina e galantamina) e gli antagonisti del
recettore NMDA (memantina). I primi sono giustificati dal fatto che durante la
malattia si alterano i neurotrasmettitori e tra questi l’ACe è maggiormente
Gli
anticolinesterasici e
gli antagonisti della
nemantina
interessata. Questi farmaci inibiscono la degradazione dell’ACe permettendo una
sua maggiore presenza a livello delle sinapsi: in alcuni casi ciò conduce ad una
stabilizzazione della sintomatologia per un tempo variabile, in genere per alcuni
mesi. Gli altri farmaci cercano di combattere l’eccessiva stimolazione
glutamminergica (in America sono stati ammessi per il trattamento delle fasi più
gravi della malattia).
Altri interventi sono: la terapia con antiossidanti (vitamina E) che non
sembra essere efficace; quella con antinfiammatori o con alcuni estratti di erbe,
senza alcuna reale evidenza scientifica.
Durante il decorso della malattia possono comparire anche malattie
organiche (cardiopatie, diabete, infezioni….) la cui presenza spesso aggrava i
sintomi cognitivi e le capacità funzionali del soggetto, malattie che vanno
pertanto diagnosticate e curate con attenzione , per non peggiorare la qualità di
vita del paziente e di chi lo cura.
Esiste infine una vastissima gamma di interventi sia con sostanze di origine
naturale o con integratori alimentari di svariati tipi, come pure attività di ogni
genere con le quali in tutte le parti del mondo si è tentato di arginare il decorso
della malattia. Ad oggi, nessuno di questi tentativi si è dimostrato, in termini
scientifici, in grado di modificare anche solo in minima parte il decorso naturale
della
malattia.
Ciò
nonostante
molte
attività
possono
giovare
momentaneamente al malato, dargli una maggiore tranquillità e permettere così
una migliore gestione della malattia anche nell’ambiente familiare. In effetti,
molti di questi tentativi sono stati apprezzati essenzialmente dai caregivers
perché hanno concesso loro momenti di maggiore tranquillità e una maggiore
interazione con il malato.
46
Altri interventi
Conclusione. La Malattia di Alzheimer è una malattia degenerativa, cronica, ancor oggi senza
una cura. Coinvolge non solo il malato ma l’intero nucleo familiare, con un carico lavorativo per il
caregiver spesso così drammatico da portare il rischio aggiuntivo di mortalità di circa una volta e
mezzo. Il caregiver, infatti, completamente immerso nel ruolo di prestatore di cura, trascura
totalmente la propria condizione di salute. I costi sociali e quelli a carico delle famiglie sono
impressionanti: in media tra il 30 ed i 40 mila euro l’anno. Ovviamente i costi, minori nelle prime
fasi, sono considerati nell’arco dell’intera malattia e aumentano progressivamente insieme al
carico assistenziale. La maggior parte dei costi è a carico delle famiglie (circa 80%): questo rende
ragione non solo della drammaticità della situazione ma anche della necessità di considerare la
demenza una vera malattia sociale. Per queste ragioni e perché si ipotizza che nel 2050 saranno
presenti nel mondo circa 150 milioni di malati, ci si dovrebbe dotare di un grandioso programma di
ricerca scientifica in grado finalmente di trovare una cura per questa incredibile tragedia umana.
47
Le altre malattie che possono causare i sintomi della demenza
Under construction
48
Esperienze di approfondimento della conoscenza sulla diffusione delle
demenze tra gli anziani e sui problemi correlati
Lo Spi Cgil della Liguria ha realizzato in questi anni alcune esperienze e iniziative sul tema delle
demenze negli anziani e sui bisogni delle famiglie che si curano di loro.
Siamo partiti nel 2009, proponendo la compilazione di un questionario (Appendice 1) alle
persone che si recavano, per altre necessità di informazione e tutela, in alcune delle nostre sedi
(Cogoleto, Pegli, Sestri Ponente, Porto, San Teodoro, Corso Sardegna). Abbiamo pensato fosse
utile partire da un lavoro di conoscenza e di presa di contatto, attraverso la distribuzione,
appunto, di uno strumento semplice. Su un campione di 880 intervistati, hanno compilato la
scheda di rilevazione 84 persone che hanno risposto “sì” alla domanda: “ha in famiglia persone
con problemi, a suo giudizio importanti, di memoria e/o disorientamento?”
Ciò che è emerso, confermando una valutazione già presente tra di noi, è stato che la
diffusione delle demenze tra la persone anziane è un fenomeno che, per una parte significativa,
rimane sommerso. Le persone interessate e i loro familiari rischiano di non accedere neppure ai
servizi dedicati o ai sostegni pubblici ai quali hanno diritto.
I risultati del questionario hanno confermato anche la necessità di avere un’attenzione
specifica alle persone “che si prendono cura”: non solo il malato ha bisogno di essere individuato
come
destinatario
di
“cure”,
ma
anche
chi
gli
sta
accanto
(http://www.liguria.cgil.it/attachments/6891_ricerca%20non%20autosufficienza.pdf).
Da questa prima esperienza è nata una azione più approfondita, sperimentata nel Comune di
Cogoleto. Il questionario è stato distribuito, con invio per posta, a tutti i nostri iscritti.
Questa attività ha contribuito a generare nel Comune di Cogoleto un’attenzione al problema,
che ha portato il Comune stesso a distribuire, in collaborazione con molte associazioni di
volontariato, a circa 2700 cittadini ultrasessantacinquenni il test “Test Your Memory”,
questionario autocompilativo, pubblicato originariamente sul British Medical Journal nel 2009 e
ritenuto efficace nel diagnosticare precocemente alcuni tratti tipici della demenza. Ci sono stati
riconsegnati 276 questionari compilati da altrettante persone; sono 223 le persone che hanno
49
totalizzato un punteggio pari o superiore al valore indicato come “soglia” al di sotto della quale è
ipotizzabile la presenza di deficit cognitivi (Appendice 2).
Questo studio ha i suoi limiti nella ristrettezza del campione preso in esame; inoltre
rimangono dei dubbi su quanto esso sia rappresentativo della popolazione ultrasessantacinquenne
residente nel comune di Cogoleto.
Tuttavia ha reso possibile verificare una certa diffusione di situazioni nelle quale potrebbero
esistere problemi e su cui i servizi preposti possono approfondire conoscenze e realizzare
eventuali interventi.
Alla fine di questo libretto, troverete il testo del questionario (Appendice 3).
50
Benefici, indennità e agevolazioni di legge.
Cosa fare – Come fare – Dove andare
Riconoscimento di handicap
(Legge 104/1992)
Portatore di handicap è colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale causa di
difficoltà di apprendimento, relazione o integrazione lavorativa tale da determinare un processo di
svantaggio sociale o di emarginazione.
L’handicap può assumere connotazione di gravità (articolo 3 comma 3 della legge 104/92) se la
minorazione riduce l’autonomia personale in modo tale da rendere necessario un intervento
assistenziale permanente nella sfera individuale o in quella di relazione.
Il riconoscimento dello stato di handicap è il presupposto per poter beneficiare delle tutele
previste da questa legge che integra il sistema dei benefici previsti da altre norme per le diverse
categorie di invalidi.
Per potervi accedere è necessario il riconoscimento di handicap e in particolare di situazioni di
“grave handicap”. Occorre quindi presentare una domanda all’INPS, corredata di certificato
medico del Servizio Sanitario Nazionale (curante o specialista). La visita di accertamento è a cura
della Commissione ASL integrata da un medico dell’INPS.
Poiché la certificazione medica ha una valenza di 90 giorni occorre che la domanda amministrativa
sia inviata entro tale termine pena la decadenza: l’invio della sola certificazione da parte del
medico curante non equivale alla presentazione della domanda.
La domanda e la certificazione medica devono essere inviate telematicamente; per la domanda ci
si può avvalere dell’assistenza del patronato INCA.
Per saperne di più consulta il sito dell’INCA:
http://www.inca.it/Servizi/081Handicapedisabilita
Permessi mensili per i familiari che assistono una persona gravemente disabile
(Legge 104/1992 art.3, comma 3)
La legge 104/1992 offre la possibilità al lavoratore dipendente, sia pubblico sia privato, di fruire di
permessi retribuiti per l’assistenza al familiare affetto da handicap grave. Il lavoratore può
beneficiare di tre giorni al mese, anche frazionati a ore.
I permessi spettano al coniuge, parenti o affini entro il 2 grado. Il diritto può essere esteso ai
parenti e agli affini di terzo grado della persona in situazione di disabilità grave soltanto qualora i
genitori o il coniuge della persona disabile abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure
siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. Per poter fruire dei
51
permessi la persona gravemente disabile non deve essere ricoverata a tempo pieno (24 ore) in
strutture ospedaliere. Non è richiesta la convivenza tra il disabile e il familiare.
Il datore di lavoro o l’Amministrazione pubblica non possono respingere la domanda del
lavoratore. La modalità di fruizione dei permessi è un accordo fra le parti ed è necessario
informare preventivamente il datore di lavoro delle giornate di permesso.
La domanda deve essere inoltrata all’INPS per il settore privato o all’ufficio personale
dell’Amministrazione se dipendente pubblico, allegando il verbale ASL di riconoscimento di
handicap grave.
Per saperne di più consulta il sito dell’INPS alla voce “assistenza ai disabili”:
http://www.inps.it/portal/default.aspx?itemdir=5792
Congedo biennale retribuito
(Legge 388/2000 art.80, comma 2 - Dlgs.151/2001)
Il congedo biennale retribuito per i genitori che assistono un figlio disabile è stato introdotto con la
legge 388/2000. Due sentenze della Corte Costituzionale hanno esteso il diritto per l’assistenza di
un coniuge o di un genitore disabile.
Ogni lavoratore ha diritto a due anni di congedo, complessivamente (i periodi di congedo non
retribuito previsti dai contratti di lavoro concorrono al raggiungimento dei due anni complessivi). I
periodi di congedo, che il datore di lavoro non può rifiutare, sono validi ai fini pensionistici.
I requisiti richiesti:
la persona disabile deve avere la certificazione di handicap in stato di gravità e non deve
essere ricoverata a tempo pieno;
il lavoratore richiedente il congedo, se coniuge o figlio della persona disabile, deve essere
convivente con quest’ultima e deve avere un rapporto di lavoro in atto.
Esiste una priorità fra i familiari aventi diritto al congedo retribuito:
1.
il coniuge convivente della persona gravemente disabile;
2.
i genitori (naturali, adottivi o affidatari) del figlio gravemente disabile
3.
i fratelli o le sorelle conviventi con il familiare gravemente disabile nel caso in cui i genitori
siano deceduti o gravemente inabili
4.
il figlio convivente con il genitore gravemente disabile in caso si verifichino le condizioni
seguenti:
il genitore non sia coniugato o non conviva con il coniuge, oppure se coniugato e
convivente con il coniuge, il coniuge non sia lavoratore o sia lavoratore autonomo;
il coniuge rinunci espressamente a beneficiare del congedo nello stesso periodo;
i genitori del disabile (i nonni del lavoratore) siano deceduti o totalmente inabili;
il genitore disabile non abbia altri figli o non conviva con alcuno di loro. In caso di
convivenza, tali altri figli non devono prestare attività lavorativa o essere lavoratori autonomi;
oppure rinunciare espressamente a beneficiare del congedo nello stesso periodo
il genitore disabile non abbia fratelli o non conviva con loro, a meno che i fratelli non
prestino attività lavorativa o siano lavoratori autonomi oppure ancora rinuncino espressamente a
beneficiare del congedo nello stesso periodo.
52
Il congedo biennale può essere fruito con modalità frazionata fra tutti gli aventi diritto,
alternativamente e non contemporaneamente. A fronte di più lavoratori richiedenti è l’ordine
prioritario degli aventi diritto a determinare chi fra loro per primo può beneficiarne. Per questa
ragione, chi fra gli aventi diritto non vuole esercitare tale diritto deve rinunciare espressamente ad
avvalersene nel periodo richiesto dall’altro avente diritto. Nel caso infatti di genitore gravemente
disabile che convive con due figli, ambedue lavoratori dipendenti, il congedo è concesso al figlio
richiedente se l’altro rinuncia espressamente a fruirne nello stesso periodo. Potrà godere, in un
periodo successivo, di un periodo di congedo qualora i 24 mesi non siano già esauriti e il fratello
(cioè il figlio che per primo ha fruito del congedo) a sua volta rinunci espressamente a fruirne nello
stesso periodo.
Il requisito della convivenza è richiesto con l’eccezione dei genitori che assistono il figlio/a disabile.
Il familiare gravemente disabile per assistere il quale viene richiesto il congedo retribuito non può
esercitare attività lavorativa durante la fruizione del congedo.
I lavoratori del settore privato devono inoltrare domanda all’INPS e il dipendente pubblico alla
propria Amministrazione. Entrambi devono allegare la certificazione sanitaria.
Ci si può avvalere dell’assistenza del patronato INCA CGIL Genova.
Per saperne di più consulta il sito INPS:
http://www.inps.it/portal/default.aspx?iMenu=1&iNodo=5825
Congedo non retribuito per gravi motivi familiari
(Legge 53/2000 art.4)
La legge 53/2000 offre la possibilità ai lavoratori dipendenti pubblici e privati di chiedere un
congedo non retribuito per gravi motivi personali e familiari, tra i quali l’assistenza e la cura di un
familiare. Rispetto al precedente congedo, quello previsto dalla legge 53/2000 per gravi motivi di
famiglia, non è retribuito e non è coperto da contribuzione. Nonostante il congedo non sia
computabile ai fini previdenziali, il lavoratore può procedere al riscatto o al versamento volontario
dei contributi.
Il vantaggio non trascurabile è quello della conservazione del posto di lavoro in situazioni di grave
difficoltà, in caso in cui per varie ragioni non possa essere utilizzato il congedo retribuito. Il datore
di lavoro non ha l’obbligo di riconoscere il congedo, ma entro dieci giorni dalla richiesta deve dare
la sua risposta e l’eventuale diniego deve essere motivato.
Il congedo può essere utilizzato per assistere parenti e affini entro il terzo grado portatori di
handicap anche non conviventi.
Il congedo straordinario retribuito e quello per gravi motivi familiari non retribuito concorrono
entrambi al raggiungimento del limite individuale dei due anni.
Il lavoratore privato deve presentare domanda al datore di lavoro, il dipendente pubblico alla
propria Amministrazione. Entrambi devono allegare la documentazione sanitaria.
Indennità di accompagnamento
(Legge 11 febbraio 1980, n. 18)
L’indennità di accompagnamento, o assegno di accompagnamento, previsto dalla legge 11.2.1980
n.18 per le persone dichiarate totalmente invalide, è un sostegno economico statale pagato
53
dall’INPS. È la provvidenza economica riconosciuta dallo Stato, in attuazione dei principi sanciti
dall’art. 38 della Costituzione, a favore dei cittadini la cui situazione di invalidità, per minorazioni o
menomazioni, fisiche o psichiche, sia tale per cui necessitano di un’assistenza continua; in
particolare, perché non sono in grado di deambulare senza l’assistenza continua di una persona
oppure perché non sono in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita.
Tale provvidenza ha la natura giuridica di contributo forfettario per il rimborso delle spese conseguenti
all’oggettiva situazione di invalidità, non è assimilabile ad alcuna forma di reddito ed è esente da imposte.
L’indennità di accompagnamento è a totale carico dello Stato ed è dovuta per il solo titolo della
minorazione, indipendentemente dal reddito del beneficiario o del suo nucleo familiare.
Viene erogata a tutti i cittadini italiani o UE residenti in Italia, ai cittadini extracomunitari in
possesso del permesso di soggiorno nella CE per soggiornanti di lungo periodo.
L’importo corrisposto viene annualmente aggiornato con apposito decreto del Ministero
dell’Interno. Il diritto alla corresponsione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello in
cui è stata presentata la domanda. Nel 2011 l’importo mensile è pari a 487,39.
Per poter usufruire dell’indennità, il soggetto non deve essere ricoverato in strutture residenziali
gratuitamente o a pagamento. Ogni anno il requisito relativo alla condizione di ricovero deve
essere dichiarato attraverso un' autocertificazione resa al Caaf sul modello ICRIC01.
Assegno per il Nucleo Familiare
L’assegno per il nucleo familiare (ANF) è una prestazione previdenziale erogata al lavoratore
dipendente nel corso dell’attività lavorativa o al pensionato alla cessazione del rapporto di lavoro
dipendente.
È una prestazione a sostegno del reddito delle famiglie dei titolari di pensione a carico del Fondo
pensioni lavoratori dipendenti, dei Fondi speciali di previdenza, dell’Enpals e di ex dipendenti dello
Stato, degli Enti locali e dell’Amministrazione postelegrafonici, che abbiano un reddito
complessivo al di sotto delle fasce stabilite ogni anno per legge.
L’assegno spetta in misura differente in rapporto al numero dei componenti e al reddito del nucleo
familiare.
I nuclei che comprendono soggetti inabili beneficiano di particolari condizioni di reddito cui
vengono rapportati sia il diritto che la misura dell’assegno.
Anche la vedova o il vedovo inabili titolari unici di pensione ai superstiti derivante da lavoro
dipendente possono fruire dell’assegno. Il titolare di pensione ai superstiti può chiedere l’ANF
anche solo per se stesso, purché inabile oppure orfano minore.
Il riconoscimento dell’inabilità viene accertata dagli istituti previdenziali preposti all’erogazione
dell’assegno, previa presentazione di idonea documentazione medica.
Il riconoscimento dell’assegno o l’incremento di quello già in pagamento è possibile, con efficacia
retroattiva, fino a un limite di 5 anni qualora si sia in grado di dimostrare, con idonea
documentazione medica, che lo stato di inabilità è pregresso.
54
L’assegno non spetta ai titolari di pensione a carico delle gestioni speciali dei lavoratori autonomi
(artigiani, commercianti, coltivatori diretti, coloni e mezzadri), per i quali è prevista la concessione
delle quote di maggiorazione per carichi di famiglia (assegni familiari).
Per l’inoltro della domanda di assegno al nucleo familiare con inabile nel nucleo ci si può rivolgere
al Patronato INCA.
Assegni familiari
Gli assegni familiari vengono corrisposti sulle pensioni dei lavoratori autonomi (artigiani,
commercianti, coltivatori diretti).
Il pagamento degli assegni è subordinato alla condizioni che i familiari beneficiari non superino un
determinato limite di reddito personale. Inoltre, non deve essere superato un limite di reddito
dell’intero nucleo familiare.
Come nel caso dell’ANF i nuclei che comprendono soggetti inabili beneficiano di particolari
condizioni di reddito per il diritto agli assegni.
Diversamente dall’ANF, gli assegni familiari non spettano alla vedova o vedovo inabili titolari unici
di pensione ai superstiti.
Il riconoscimento degli assegni familiari può avere efficacia retroattiva quindi è possibile chiedere
gli arretrati fino a un limite di 5 anni qualora si sia in grado di dimostrare che lo stato di inabilità è
pregresso con idonea documentazione medica.
Per l’inoltro della domanda di assegni familiari con inabile nel nucleo ci si può rivolgere al
patronato INCA.
Il Fondo per la non autosufficienza
Il FRNA istituito con legge regionale 24 maggio 2006 n.12 – “promozione del sistema integrato di
servizi sociali e sociosanitari” - prevede l’erogazione di un contributo economico per sostenere la
permanenza delle persone non autosufficienti presso il proprio domicilio.
Possono richiedere il contributo i cittadini italiani o europei, i cittadini extracomunitari titolari di
permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo, invalidi al 100% con riconoscimento
dell’indennità di accompagnamento.
Il contributo non è erogabile alle persone che usufruiscono di servizi di assistenza residenziale o
inserite in Centri diurni a totale carico del servizio pubblico e ai non titolari di indennità di
accompagnamento.
Da quest’anno, per effetto del taglio di 14 milioni di euro nei trasferimenti dallo Stato alla Regione
operato dalla legge di stabilità 2011, solo le persone non autosufficienti con un reddito ISEE
inferiore a 10 mila euro potranno beneficiarie del fondo ricevendo un assegno mensile da 350
euro. Fino allo scorso anno, invece, potevano ottenere l’ assegno regionale anche le persone non
autosufficienti con un reddito ISEE fino a 20 mila euro.
Il modulo della domanda può essere ritirato presso gli sportelli dei Distretti Socio Sanitari o degli
Ambiti Territoriali Sociali di zona.
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Agevolazioni fiscali
La persona che ha il riconoscimento di handicap ha diritto ad usufruire di tutte le agevolazioni
fiscali previste per i cittadini disabili, ad eccezione di quelle relative all’auto per cui sono necessarie
ulteriori valutazioni.
Deduzioni fiscali.
Le spese mediche generiche e quelle di assistenza specifica sostenute dalle persone non
autosufficienti o da chi le assiste sono deducibili dal reddito complessivo.
Si considerano spese mediche generiche le prestazioni diagnostiche rese da un medico generico o
specialista e l’acquisto di farmaci.
Si considerano spese per assistenza specifica quelle infermieristiche e riabilitative svolte da
personale qualificato o da operatori tecnici.
I contributi previdenziali per gli addetti ai servizi domestici e familiari e all’assistenza personale
sono deducibili nel limite di 1549,37 euro.
Detrazioni fiscali.
Detrazione del 19% della spesa di assistenza.
La spesa di assistenza per una persona non autosufficiente, anche lo stipendio dell’assistente
familiare “badante”, può essere detratta nella misura del 19% su un ammontare di spesa non
superiore a 2100 euro quindi fino a un beneficio massimo di 399 euro l’anno della spesa di
assistenza per una persona. Il reddito del contribuente non deve superare i 40.000 euro.
Detrazione del 19% delle spese sanitarie.
Le persone con handicap fruiscono dello stesso trattamento previsto per tutti i contribuenti.
Detrazione fiscale senza limiti e franchigie.
È prevista solo per le spese relative all’accompagnamento e alla deambulazione per i portatori di
handicap.
Per saperne di più consulta il sito dell’Agenzia delle Entrate. Tra le guide fiscali è possibile
scaricare le agevolazioni fiscali per i disabili:
http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/portal/entrate/home
L’Amministratore di sostegno
(Legge 6/2004)
L’ amministratore di sostegno è una figura istituita con la legge 6 del 2004 a tutela di chi, pur
avendo difficoltà nel provvedere ai propri interessi, non necessita comunque di ricorrere
all’interdizione o all’inabilitazione. La legge ha infatti la finalità di tutelare, con la minore
limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia
nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana.
L’amministrazione di sostegno si rivolge alle persone con grave e permanente disabilità intellettiva
o psichica che materialmente hanno bisogno di protezione, anche per un periodo di tempo
limitato, per provvedere ai propri interessi civili e/o patrimoniali, limitatamente ad alcuni atti, per
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esempio per proporre istanze alla Pubblica Amministrazione, presentare la dichiarazione dei
redditi, riscuotere la pensione.
L’amministratore di sostegno viene nominato dal giudice tutelare e scelto, ove possibile, nello
stesso ambito familiare dell’assistito: il coniuge non separato legalmente, la persona stabilmente
convivente, il padre, la madre, i figli o il fratello o la sorella, o comunque un parente entro il quarto
grado.
L’ufficio di amministrazione di sostegno non prevede l’annullamento delle capacità del
beneficiario a compiere validamente atti giuridici, e in ciò si differenzia dall’interdizione.
Il procedimento di nomina dell’amministratore di sostegno ha inizio con un ricorso al giudice
tutelare del luogo di residenza del disabile che deve essere depositato presso il Tribunale civile,
cancelleria della volontaria giurisdizione.
Per saperne di più consulta il sito dell’INCA:
http://www.inca.it/Servizi/081Handicapedisabilita/07Handicap+e+disabilità.htm
Prestazioni socio sanitarie
I Distretti Sanitari, punto qualificato dell’analisi dei bisogni e della relativa programmazione del
sistema integrato dei servizi, hanno le funzioni di garantire l’accesso ai servizi sanitari e
sociosanitari per gli utenti del proprio territorio assicurando l’integrazione tra il settore sanitario e
quello sociale.
Gli Ambiti territoriali sociali e le aziende ASL hanno realizzato una rete di Uffici accoglienza e
relazioni con il pubblico per mettere a disposizione informazioni precise sull’offerta dei servizi
sanitari e sociali, su come accedervi, sulle sedi e gli orari, i tempi d’attesa, le procedure e i moduli
necessari per ottenere le prestazioni integrate, come ad esempio:
Fornitura protesi: ausili per la deambulazione, carrozzine, pannoloni, materassi antidecubito.
Assistenza geriatrica: cure domiciliari, centri diurni, riabilitativi, assistenza residenziale.
Assistenza sociale.
Per saperne di più consultare i siti delle ASL liguri:
ASL 1 IMPERIESE
http://www.asl1.liguria.it/
ASL 2 SAVONESE
http://www.asl2.liguria.it/
ASL 3 GENOVESE
http://www.asl3.liguria.it/
ASL 4 CHIAVARESE
http://www.asl4.liguria.it/
ASL 5 SPEZZINO
http://www.asl5.liguria.it/
Contributi per l’eliminazione e il superamento delle barriere architettoniche negli
edifici privati
(Dgr n. 1851 del 22 dicembre 2009)
57
Questa norma sostiene finanziariamente gli interventi volti all'abbattimento delle barriere
architettoniche sia negli edifici pubblici che in quelli privati, per garantire un sempre maggiore
utilizzo degli spazi edificati a tutti coloro che soffrono di una ridotta o impedita capacità motoria o
percettiva.
Gli interventi ammissibili a contributo ai sensi del paragrafo precedente possono consistere in:
a) opere edilizie direttamente finalizzate all’eliminazione delle barriere architettoniche, fisiche e
percettive;
b) acquisto e installazione di attrezzature direttamente finalizzate all’eliminazione delle barriere
architettoniche, fisiche e percettive, quali:
• mezzi idonei a garantire il superamento dei dislivelli da parte delle persone con problemi di
mobilità;
• strumenti idonei a favorire la sicurezza d’uso e la fruibilità degli spazi da parte delle persone
disabili;
• dispositivi idonei a favorire l’orientamento e la mobilità negli ambienti;
• dispositivi impiantistici idonei a favorire l’autonomia domestica delle persone disabili.
I soggetti in possesso dei requisiti devono presentare domanda al Comune/Distretto ove è situato
l’immobile da adeguare entro il 1° marzo di ogni anno.
Per saperne di più, rivolgersi alle amministrazioni comunali, ai Distretti Socio-Sanitari oppure
consulta il sito: www.regione.liguria.it
Attività sociali
Ricoveri di sollievo.
Dura di solito dai 40 ai 60 giorni e ha lo scopo di sollevare il caregiver dall'attività di assistenza.
L’attivazione di questo percorso può avvenire con richiesta del Medico di Medicina Generale di
“Valutazione per ricovero di sollievo”, segnalazione al Nucleo Residenzialità in base alla Zona di
appartenenza o all’accoglienza del Distretto socio sanitari competenti.
Centri diurni.
Luoghi di accoglienza in cui i pazienti vengono accuditi per mezza giornata o la giornata intera.
L'accesso al servizio può avvenire presentando domanda autonomamente ai servizi sanitari di
riferimento o, in caso si richieda un supporto economico al Comune di Genova per il pagamento
della retta, è necessario fissare un appuntamento per un colloquio personale (Segretariato Sociale)
presso gli Ambiti Territoriali Sociali (ATS).
58
Residenza sanitaria assistenziale.
Sono strutture che ospitano persone non autosufficienti. Il caregiver deve procurarsi la richiesta
del Medico di Medicina Generale (Valutazione per inserimento definitivo in struttura residenziale)
ed effettuare la segnalazione telefonicamente al Nucleo Residenzialità, a seconda della Zona, o
all’accoglienza del Distretto Sanitario di appartenenza. In seguito alla segnalazione, un geriatra del
Dipartimento effettuerà una visita domiciliare.
Servizi di assistenza domiciliare.
Esistono due tipi di assistenza: 1. Assistenza domiciliare familiare (aiuto dell’anziano nella gestione
della vita domestica - es. spesa, pulizia della casa, ecc.); 2. Assistenza domiciliare leggera ( es.
piccola spesa, compagnia, disbrigo di pratiche, sostegno alla socializzazione, ecc.). È prevista la
contribuzione al costo della prestazione erogata in relazione al valore dell’attestazione ISEE. È
necessario fissare un appuntamento per un colloquio personale (Segretariato Sociale) presso: gli
Ambiti Territoriali Sociali (ATS) oppure presso le sedi territoriali delle Agenzie Domiciliarità.
Residenzialità per i pensionati INPDAP e/o coniugi conviventi
I pensionati Inpdap e/o i loro coniugi conviventi, non autosufficienti, affetti da gravi patologie
psicoinvolutive senili o altre patologie neurovegetative possono beneficiare dell’accoglienza,
residenziale o diurna, presso strutture specializzate, Rsa o Case protette.
La domanda va presentata alla Direzione regionale sul cui territorio si trova la struttura. Se le
richieste eccedono i posti disponibili viene formata una lista d’attesa graduata in base
all’indicatore Isee e al grado di non autosufficienza. Da un elenco di Rsa dislocate sull’intero
territorio nazionale si sceglie, sulla base della localizzazione e dei costi sanitari a carico del
pensionato, la struttura d’interesse.
L’indicatore Isee non deve superare i 30.000 €.
Per saperne di più, telefonare ai recapiti indicati sul sito:
http://www.inpdap.it/webinternet/FiloDiretto/StrOrgCompartimenti.asp
59
Il Caffè di Oz
Luogo di incontro accogliente per il malato di Alzheimer e la sua famiglia che offre ai malati la
possibilità di svolgere, con personale dedicato, attività occupazionali di semplice esecuzione,
mentre il caregiver può partecipare ad incontri tematici o approfittare del tempo libero per
commissioni o svago.
L’idea è stata accolta e condivisa dagli operatori dello Spazio Anziani-Cooperativa Saba- di Piazza
dei Greci che da anni operano a favore degli anziani del quartiere.
Il Caffè di Oz è aperto ogni giovedì dalle ore 14.30 alle ore 16.30 in Piazza dei Greci 5 Tel.: 0102476578. (Chiusura estiva ad agosto)
Il calendario aggiornato degli incontri tematici è consultabile sul sito dell’Associazione Alzheimer
Liguria
www.alzheimer.liguria.it
Per informazioni rivolgersi a:
Ambito Territoriale Sociale 42
Sede: Piazza Posta Vecchia 3/3
Sara Medici: 010-2533126
Angela Lazzarino: 010-2533123
Luana Luiu: 010-2533125
Polo Castelletto: Corso Firenze 24
Eloisa Perricone: 010-2722800 010-2724344
Cooperativa S.A.B.A.
Piazza dei Greci 5
Paola Giacopello: 010-2476578
L’Alzheimer Café
Uno spazio gratuito e informale gestito dall’Associazione famiglie malati di Alzheimer (AFMA) dove
si svolgono incontri e momenti di convivialità in un'atmosfera accogliente e rilassata. Gli ospiti
sono seguiti dai volontari e da operatori specializzati. Le attività sono specifiche per stimolare le
capacità di concentrazione e di manualità: ci sono i laboratori di musicoterapia, il decoupage, il
giardinaggio, la modellatura di materiali vari, la ginnastica dolce pet therapy:.
L’Alzheimer Café, è aperto al pubblico aperto al pubblico tutti i martedì dalle 15.00 alle 18.00 e il
venerdì dalle ore 15.00 alle 18.00 in via Nino Cervetto 35.
60
http://www.afmagenova.org/alzheimer_cafe.html
Entro la fine del 2011 verrà inaugurato Arcobalen, centro diurno di 2° livello per malati di
Alzheimer gestito dall’AFMA.
Per ulteriori informazioni, scrivi a [email protected]
oppure vai alla pagina web http://www.afmagenova.org
61
NUMERI UTILI
Distretti sanitari dell’Asl3 – Genova
http://www.asl3.liguria.it/
Distretto Ponente 8
010/6449674
010/6449676
010/6449677
Distretto Medio Ponente 9
010/6447250 Sampierdarena
010/6447251 Sampierdarena
010/6447967 Sestri Ponente
010/6447973 Sestri Ponente
Distretto Val Polcevera e Valle Scrivia 10
010/6449505
Distretto Centro 11
010/3447581
010/3447582
Distretto Valbisagno e Valtrebbia 12
010/3447920
010/3447939
Distretto Levante 13
010/3445630
Per consultare l’elenco dei distretti sanitari della Regione Liguria, vai alla pagina web:
http://www.asl2.liguria.it/pdf/elencodistretti.pdf
62
Unità di valutazione Alzheimer – Genova
Ambulatorio U.V.A. C/O Osp. San Martino
Neurofisiologia Clinica
010/5552246
Responsabile: Guido Rodriguez
Dipartimento Di Neuroscienze, Università Di
Genova
010/3537040
Responsabile: Leonardo Cocito
U.V.A. Geriatria - Università Di Genova
010/3537536
Responsabile: Patrizio Odetti
U.V.A. Geriatria Eo Osp Galliera
010/5634391
Responsabile: Camilla Prete
Ambulatorio U.V.A. c/o Rsa Chiavari
0185/329328
Responsabile: Babette Dijk
Ambulatorio Psicogeriatria, Centro Salute Mentale
Chiavari
0185/329330
Responsabile: Vittorio Uva
Unità di Valutazione Alzheimer nelle province di Savona e La Spezia
Divisione Neurologia, Pietra §Ligure (SV)
019/6234012
Responsabile: Tiziana Tassinari
U.V.A. Geriatrica Asl 2, Savona
019/8405994
Responsabile: Giovanna Caorsi
019/8405294
Ambulatorio U.V.A. e disturbi cognitive
dell’Anziano, La Spezia
0187/533314
Responsabile: Elena Carabelli
63
Unità di psicogeriatria U.V.A., Sarzana (SP)
0187/604933
Responsabile: Antonello Colameo
Centri Diurni – Genova
Via Sestri 1316154 Genova Sestri Ponente
010/6448733
Via Castelli 52r 16149 Genova
010/6423066
via Salita Inf. di Murta 2 16162 Genova
010/7411183
Via Peschiera 10 16122 Genova
010/886867
Località Serino 16165 Genova
010/804981
Cso Montegrappa 16137 Genova
010/814810
Via G. Maggio 6 16147 Genova
010/3446251
Via G. Maggio 6 16147 Genova
010/3446303
Per consultare l’elenco dei Centri diurni presenti in Liguria, vai alla pagina web:
https://sisweb.regione.liguria.it/struttureresidenziali/Default.aspx
I recapiti degli uffici provinciali del Patronato INCA sono consultabili alla pagina:
http://www.liguria.cgil.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1305&Itemid=24
I recapiti degli uffici Spi provinciali e delle Leghe della provincial di Genova sono consultabili alla
pagina:
http://www.liguria.cgil.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1475&Itemid=75
I recapiti degli uffici dell’Auser Liguria sono consultabili alla pagina:
http://www.auserliguria.it/dovesiamo.aspx
64
LINK UTILI
http://3eta.accmed.org/
http://www.afmagenova.org
http://www.aiesweb.it/
http://www.alzheimer.it/
http://www.alzheimer-europe.org/
http://www.alzheimerfamiliari.it/
http://www.alzheimerliguria.it/
http://www.fimmg.org/home
http://www.pamonline.it/
65
Appendice 1
SINDACATO PENSIONATI
REGIONALE LIGURIA
AREA METROPOLITANA DI GENOVA
SCHEDA RILEVAZIONE
MALATTIE LEGATE ALLA NON AUTOSUFFICIENZA E CONSEGUENZE
SULLA VITA DELLE PERSONE CHE SI OCCUPANO DELLA CURA IN
FAMIGLIA
1. Ha in famiglia persone con problemi importanti, a suo giudizio, di memoria e/o di
disorientamento?
2. della persona con problemi,
> grado di parentela con lei__________________________
> sesso:
M
F
> età:______________________________
3. Attualmente la persona con problemi vive:
da solo
col coniuge
con figlia/o
altro_________________________________________
4. la persona che ha problemi riesce, da sola :
> a gestire il denaro?
SI
NO
IN PARTE
> ad usare il telefonino?
SI
NO
IN PARTE
> a pensare alla propria igiene?
SI
NO
IN PARTE
> a fare la spesa?
SI
NO
66
> a farsi da mangiare?
SI
NO
5. E’ preoccupato/a di questa situazione?_________________________________________________
6. Da quanto tempo sono presenti questi problemi? ______________________________________
7. Di questi problemi ha già parlato con il medico di famiglia?______________________________
____________________________________________________________________________________
8. Si è mai rivolto/a ai servizi
sociali?_____________________________________________________
9. La persona, per questi problemi, è seguita, dal punto di vista medico, da:
medico di base
reparto ospedaliero
centro UVA
specialista privato
10. Se è seguita, come valuta, da 1 a 10, l’assistenza di cui dispone la persona con problemi?
1 2
3
4
5
6
7
8
9
10
11. Da 1 a 10, quanto influisce, nella sua vita personale, avere una persona con problemi di memoria
o/o disorientamento?
1 2
3
4
5
6
7
8
9
10
NOME………………………………COGNOME…………………………………………………
INDIRIZZO………………………………………………………………………………………..
N. TEL………………………………………………………………………………………………...
e-mail………………………………………………………………………………………………….
formula privacy
Ricevuta l'informativa sull'utilizzazione dei miei dati personali ai sensi dell'art. 10 della legge n. 675/96,
consento al loro trattamento nella misura necessaria per il perseguimento degli scopi statutari.
67
Appendice 2
TYM a Cogoleto
Sono stati inviati circa 2700 questionari autocompilativi "Test Your Memory" alla popolazione residente a
Cogoleto che avesse un'età superiore ai 65 anni.
276 persone hanno risposto positivamente a questo sondaggio, rinviandoci i questionari debitamente
compilati. Il TYM test, pubblicato originariamente sul British Medical Journal nel 2009 è un test a 10 item
che indagano vari aspetti del cognitivismo, ed è ritenuto efficace nel diagnosticare precocemente alcuni
tratti tipici della demenza.
223 persone hanno totalizzato un punteggio pari o superiore a 43/50: questo valore è stato da noi
indicato come "soglia", al di sotto del quale è ipotizzabile la presenza di deficit cognitivi.
È bene sottolineare che nella versione originale del questionario, validata in lingua inglese, il valore di
cut-off indicato era di 42/50. Abbiamo inserito questa piccola modifica per rendere più realistico il quadro,
dato che nell'attribuzione dei punteggi abbiamo utilizzato alcune strategie per evitare possibili fattori
confondenti e garantire una valutazione equa a tutti i partecipanti. Questi accorgimenti rendono forse
ragione dell'alta percentuale di test valutati positivamente. Abbiamo infatti attribuito punteggio pieno nel
primo item "se lo desidera può scrivere il suo nome e la sua data di nascita" anche a chi non ha scritto le
proprie generalità, per non penalizzare coloro i quali abbiano voluto mantenere la privacy. Altri due item
sono stati lievemente modificati: nel settimo, ("scriva il nome di cinque particolari di questo
abbigliamento"), abbiamo aggiunto un punto di default a causa di un refuso. L'ultimo item ("aiuto
prestato") risultava invece impossibile da determinare data la mancanza di supervisione diretta, quindi
abbiamo dato punteggio massimo (5 punti) a tutti.
Abbiamo inoltre correlato il punteggio di ogni partecipante alla sua età: i valori sono distribuiti intorno
ad una linea di tendenza, che divide i partecipanti fra i maggiori e i minori di 70 anni. Pur non essendo
statisticamente significativa, essa suggerisce che i soggetti d'età più avanzata totalizzino punteggi
lievemente inferiori rispetto ai più giovani.
Infine, abbiamo correlato la media dei punteggi di ogni singola prova alla media dei punteggi totali:
questa operazione è stata fatta con l'obiettivo di individuare l'item che risultasse affetto più precocemente,
cioè che fosse alterato anche quando gli altri risultavano nella norma. Questo item è risultato essere il
decimo:"per favore senza girare il foglio scriva la frase che prima ha copiato" ("i bravi cittadini indossano
sempre scarpe robuste"), seguito dall'ottavo "per favore unisca i cerchietti in modo da formare una
68
lettera". Il terzo posto nella graduatoria degli item "più difficili" è stato invece attribuito al nono "per favore
disegni un quadrante d'orologio, i numeri 1¬12 e metta le lancette come se fossero le nove e 20". In
conclusione i nostri dati fanno presupporre che la funzione mnesica di richiamo di un elemento
precedentemente appreso sia precocemente alterata nei quadri di iniziale declino cognitivo.
Questo studio ha i suoi limiti nella limitata numerosità del campione preso in esame; inoltre
rimangono dei dubbi su quanto esso sia rappresentativo della popolazione ultrasessantacinquenne
residente nel comune di Cogoleto.
Tab 1 SOGGETTI CON DEFICIT E SENZA DEFICIT
250
200
150
100
50
0
Senza deficit
Con deficit
69
Tab 2. GENERALITA’
Se lo desidera può scrivere il suo nome e la sua data di nascita:
…………………………………………………………………………………………………………………
Oggi è …………………………………………………………………(Giorno della settimana)
La data di oggi è ………….. mese……………………………….. …………………..20……..
Quanti anni ha: …………………………………anni
Scriva la sua data di
nascita…………./………………………........(Mese)/19………….
Tab 3. GRADUATORIA DEI PUNTEGGI IN BASE ALL'ETÀ DEI PARTECIPANTI
50
y = -0,1653x + 57,006
R² = 0,0676
40
30
Serie1
20
10
0
50
60
70
80
90
70
100
110
Tab. 4. CORRELAZIONE MEDIA PUNTEGGI SINGOLA PROVA MEDIA PUNTEGGI TOTALI
71
Appendice 3
Esamina la tua memoria
The TYM-I (Test your memory Italian version)
Se lo desidera può scrivere il suo nome completo ed un recapito telefonico
……………………………………………………..
Oggi è ………………………………………………(Giorno della settimana)
La data di oggi è ………….. mese……………………………….. 20
Quanti anni ha: …………………………………anni
1
Scriva la sua data di nascita…………./……………........(Mese)/19………)
Per favore copi la frase che vede nella riga qui sotto
I BRAVI CITTADINI INDOSSANO SEMPRE SCARPE ROBUSTE
……………………………………………………………………………………………………………
Per favore legga di nuovo la frase e cerchi di ricordarla
2
Chi è l’attuale capo del governo ………………………………………….
i
In che anno l’Italia è entrata nella prima guerra mondiale ……………
3
Esegua queste operazioni
20 – 4 = …………………………
Scriva il nome di quattro animali
che incominciano con la lettera S
(esempio squalo)
16 + 17 = ……………………….
1S…………………………………
8 x 6 = …………………………..
2S…………………………………
4 + 15 – 17 = …………………
4
3S…………………………………
4S……………………………………………………
Perché una carota è simile ad una patata? ………………………………………………………………………………..
72
Perché un leone è simile ad un lupo? ……………………………………………………………………………………..
4
Per favore scriva il nome dei cinque particolari di questo abbigliamento
4
5
Per favore unisca i cerchietti in modo da formare una lettera( escluda i quadratini)
3
Per favore disegni in questo quadrante d’orologio i numeri 1-12 e metta le lancette come se fossero le 9.20.
4
Senza girare il foglio per favore scriva sotto la frase che prima ha copiato
………………………………………………………………………………………………………………………………………
……….
73
6
Per chi ha eseguito il test:
Aiuto prestato : nessuno, minimo, poco, moderato, importante. ……………………………………………………………...
Barrare il riquadro se le risposte sono state scelte dall’esaminatore e non dal paziente
74
…/50
5
Attribuzione dei punteggi
Errori di ortografia e/o di punteggiatura assieme all’utilizzo di abbreviazioni non devono essere
conteggiate come errori, ad eccezione del box due, se il significato delle parole è comprensibile.
Box 1 Due punti per il nome completo, 1 punto se vengono scritte le sole iniziali o se sono presenti
piccoli errori. Attribuire un punto alla data anche se è sbagliata di un giorno.
Box 2 Due punti se tutto è corretto, 1 punto un errore in una parola, 0 punti per errori in due
parole.
Box3 Un punto per il nome, 1 punto per il cognome, 1 punto per la risposta 1915
Box 4 Un punto per ogni operazione corretta
Box 5 E’ accettato ogni animale sia esso insetto, pesce, uccello o mammifero. Le razze di cani e
gatti (per esempio spinone) vanno bene. Sono considerati errori le creature mitologiche (ad
esempio mostri marini), e la parola squalo (che viene presentata come esempio).
Box
6
Due
punti
per
una
definizione
precisa
come
“verdura”
o
“animali/mammiferi/predatori/carnivori” . Risposte adeguate ma meno precise come cibo, hanno
quattro zampe, animali feroci 1 punto. Se vengono date due risposte adeguate, anche se meno
precise, si attribuiscono due punti (ad es. Animali feroci con quattro zampe).
Descrizione della giacca Un punto per ogni risposta corretta.
Lettera M Tre punti se viene eseguita senza nessun errore, 2 punti se viene disegnata una lettera
diversa dalla M, se tutti i cerchietti vengono collegati senza che venga tracciata la lettera M 1
punto.
Orologio Se vengono disegnati tutti i numeri dell’orologio 1 punto, per il corretto posizionamento
dei numeri 1 punto, per ogni lancetta disegnata correttamente 1 punto.
Frase Un punto per ogni parola ricordata correttamente sino ad un massimo di 6 punti.
Attenzione Al punteggi totale va aggiunto il valore attribuito all’aiuto che si è dovuto fornire al/alla
paziente come indicato sotto
Nessuno 5 punti
Minimo 4 punti
Poco 3 punti
Moderato 2 punti
Importante 1 punto
75
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