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rassegna stampa n.12-2013

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rassegna stampa n.12-2013
GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFI
RASSEGNA STAMPA
Anno 6°, n..12 - Dicembre 2013
Sommario:
Cosa dobbiamo ancora vedere……………...................................................(pag. 2)
Luci e volumi, la magia di Herb Ritts……………………………........................(pag. 5)
Per le foto ce n'è uno, tutti gli altri ne han qualcuno……………………….......(pag. 6)
Una storia americana. Fotografie di Gordon Parks…………………………….…(pag. 8)
Quando lo scrittore ci mette la faccia……………………………………..…..........(pag. 9)
Foto con pellicola vera e gli effetti Instagram: ecco "Last Camera" per... (pag.12)
I miserabili(sti)…………………………………………………………………................(pag.13)
Toni Nicolini, passione e ironia…………………………………………………..………(pag.22)
Herb, un salto oltre il ritratto……………………………....................................(pag.25)
Al via il concorso fotografico "Leica Oscar Barnack Award"......................(pag.30)
Intrepido, tremebondo, vigagista, dialettico o solo utile?.........................(pag.31)
Artuner, la fotografia dall'A alla Z……………………………………………………...(pag.37)
Questo vuoto è troppo pieno.………..……………………………………..…………...(pag.39)
Camera, Martinez e i Grandi della Fotografia…………………….....................(pag.41)
Fotografate ora, fotografate tutto…………………………...............................(pag.43)
Franco Fontana, ottant'anni di passione per la fotografia……………………..(pag.45)
Sui sentieri delle fotografie…….………………………………………………………...(pag.47)
Il corpo solitario.......................................................................................(pag.49)
Non esistono fotografie private................................................................(pag.51)
La strada di William Klein.........................................................................(pag.56)
Qui si va sul difficile…………………………………………………………..................(pag.60)
Autocoscienza dell'immagine....................................................................(pag.64)
...........................
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Cosa dobbiamo ancora vedere
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Elliott Erwitt, Arlington, Virginia, 25 novembe 1963 © Elliot Erwitt/Magnum Photos, g.c.
Quando Mario Calabresi lo intervista (e già questa è una notizia, perché il
fotografo della Primavera e dell’inverno di Praga è notoriamente schivo e
laconico), prima di rispondere Josef Koudelka apre uno dei suoi libri, cerca
l’immagine giusta e la studia: «Non ti puoi fidare della memoria, ma delle foto
sì, ti puoi fidare».
E questa, anche a molti fotografi, sembreràun’affermazione ormai fuori
corso, il residuo di un’era in cui i fotoreporter erano sicuri di sé e del proprio
ruolo, erano ancora, come li chiama un loro amico e critico, il mediologo Fred
Ritchin, «fotografi intrepidi», eroi della visione, sguardi delegati dell’umanità
sul mondo, cavalieri di ventura in missione per conto dell’occhio collettivo.
Mentre quella che viviamo sarebbe l’epoca dei fotografi insicuri, dubbiosi,
emarginati dai mainstream media, messi nell’angolo dall’ubiquità della
smartfonografia.
E forse c’è del vero, ma il fotogiornalismo è già ufficialmente morto troppe
volte per essere morto davvero. Qualcosa nelle sue fondamenta deve essere
solido, e di questo va in cerca Calabresi in un libro, A occhi aperti, che è più
della somma delle sue parti, ovvero dieci interviste a dieci nomi che risuonano
sulla scena e nella storia del fotoreportage contemporaneo.
Qualcosa che ha a che fare con «la malattia di esserci quando le notizie
fanno la storia», ed esserci, per un fotografo, significa obbedire al primo e
unico comandamento del Mosé dei fotorerporter, Bob Capa, che i suoi discepoli
portano tatuato sul cuore: «Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non
eri abbastanza vicino».
Significa obbligatoriamente essere lì, col corpo, immersi fino alla cintola
nell’acqua sporca degli eventi, come Steve McCurry (uno che passa, un po’
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sbrigativamente, per essere un fotografo “facile”, popolare, da effetto) nel
fango del monsone indiano del 1983, dove rischiò di affogare quando un ponte
gli crollò sotto i piedi.
Gabriele Basilico, Beirut 1991 © Gabriele Basilico, g.c.
Significa ripetersi «scatta, dài, scatta»come Paul Fusco salito al volo sul
treno che portava a Washington la bara di Bob Kennedy, quando davanti ai
finestrini, dai bordi della massicciata, gli si parò un’incredibile America
multietnica e interclassiata con la mano sul cuore, significa anche tenere quelle
foto nel cassetto per anni, incomprese, e finalmente poterle esporre: «Non
buttare mai via quello che scrivi, servirà», raccomanda al suo intervistatore.
Significa avere uno sguardo ironico sul mondo, avere in tasca la trombetta
per far sobbalzare cani e umani e catturarli con la guardia abbassata, come
Elliott Erwitt, ma saper sobbalzare come quando scoprì di avere davanti la
notizia: i missili sovietici in parata che solo lui fotografò nel ’57, e che
cambiarono la temperatura della guerra fredda.
Innamorato della fotografia dall’età di dodici anni, Calabresi è oggi
giornalista, direttore della Stampa, e la sua inchiesta attraverso gli occhi dei
fotografi è, in realtà, una lunga domanda sul giornalismo, sulla necessità della
testimonianza, minacciata dalla frana della ridondanza e dell’autoreferenza di
una grande Rete che parla sempre più spesso e solo della Rete.
Ai suoi dieci cavalieri dell’obiettivo rotondo, ha chiesto cosa succede
quando l’occhio del testimone professionale incontra la storia: come
riconoscerla, come prenderle un calco, come colarla in un oggetto visivo che
sia utile a chi lo vedrà.
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Le storie che i fotografi raccontano, le parole attorno alle loro immagini, al
prima e al dopo il momento dello scatto, non sono che diverse risposte alla
domanda, generose confessioni e spesso dolorose: le parallele esperienze
d’esilio di Koudelka dalla sua Praga e di Abbas dalla sua Teheran fanno parte, a
pieno diritto, del loro modo di raccontare anche tutto il resto.
Il fotografo è sempre dentro l’inquadratura. Se è una finestra sul mondo,
il suo volto si riflette un po’ sul vetro. La risalita alle origini primordiali del
mondo di Sebastião Salgado non è l’opposto delle sue narrazioni epiche della
fatica umana, ma la conseguenza, la riparazione simbolica.
Abbas, Afghanistan, 1992 © Abbas/Magnum Photos, g.c.
Il fotografo è sempre stato l’esploratore dell’ignoto: sul confine maledetto
fra Messico e Usa Alex Webb cerca «quel che non mi aspettavo». A volte quel
che non ti aspetti può anche essere una granata, quella che risparmiò Paolo
Pellegrin nel Libano del sud. «Fotografo è l’unico titolo che mi serve», rivendica
Don McCullin stanco di guerre ma non di visione.
Fotografi e basta? C’è in effetti un fotografo che non ti aspetti nel panel di
Calabresi, che non corrisponde al modello del reporter di guerra: è Gabriele
Basilico, fotografo col treppiede, esploratore lento di paesaggi urbani, un
«misuratore dello spazio», si definisce, anche quando è lo spazio devastato di
Beirut in macerie.
Ma ecco che anche Pellegrin, con tutte le sue immagini di dolore estremo, si
definisce quasi allo stesso modo, «un catalogatore». E non è cinismo, è un
modo di rifondare il proprio ruolo: il fotografo intrepido fornitore di risposte è
finito, il fotografo utile cercatore di domande è ancora tra noi. E ci serve
ancora.
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 26 novembre 2013]
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Tag: Abbas, Alex Webb, Bob Kennedy, Don McCullin, Elliott Erwitt, fotogiornalismo, fotografia,Gabriele
Basi, Josef Koudelka, Mario Calabresi, Paolo Pellegrin, Paul Fusco, Robert Capa, Steve McCurry
Scritto in da leggere, fotogiornalismo, Venerati maestri | 12 Commenti »
Luci e volumi , la magia di Herb Ritts
da http://www.ansa.it
Inaugura martedì 10 dicembre alle ore 19 la mostra In piena luce. Fotografie di
Herb Ritts presso l’AuditoriumExpo dell’Auditorium Parco della Musica di Roma.
La mostra, una produzione della Fondazione Musica per Roma e della
Fondazione FORMA per la Fotografia, in collaborazione con la Herb Ritts
Foundation e Contrasto, resterà aperta fino al 30 marzo 2014.
Creatore delle immagini più incisive, sognanti e perfette dello star system
hollywoodiano, Herb Ritts è stato un grande interprete della fotografia
internazionale. Suoi sono molti dei ritratti che hanno costruito, è proprio il caso
di dirlo, celebrities come Madonna, Michael Jackson o Richard Gere. Sue sono
le fotografie patinate e oniriche della moda, dove gli abiti lucenti di Versace, i
corpi perfetti delle modelle, sono immersi in una luce piena e vaporosa.
Concepita espressamente per l’AuditoriumExpo, In piena luce è una
retrospettiva eccezionale di immagini di Herb Ritts, tra le più celebri ed altre
inedite, provenienti dall’Herb Ritts Foundation di Los Angeles. In esposizione
oltre 100 preziose fotografie di diverso formato, dalle imponenti stampe al
platino, alla serie di stampe ai sali d’argento di medio formato fino alle grandi
gigantografie spettacolari. I celebri ritratti realizzati da Herb Ritts, le fotografie
di moda, i lavori sul corpo, le straordinarie immagini della California,
l’eccezionale reportage sull’Africa.
Lo stile di Herb Ritts è inconfondibile, nutrito di uno sguardo potente – uno
sguardo che idealizza – e che arrivò proprio nel momento giusto. Uomo colto e
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sensibile, appassionato di arte e di storia della fotografia, Ritts studiava le
composizioni classiche, la plasticità del dialogo tra i corpi nell’arte
rinascimentale, così come nelle fotografie di inizio secolo. Rapito dal rigore
formale del fotografo tedesco Herbert List (suo riferimento irrinunciabile per
tante immagini), Ritts cercava di comprendere il mistero che risiede al fondo di
quelle perfetti composizioni di luci e di volumi che, spesso distrattamente e con
superficialità, vengono chiamate semplicemente “fotografie di moda”.
Per la foto ce n’è uno, tutti gli altri ne han qualcuno…
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
“Ma ha visto?”, mi telefona con piglio
energico e quasi indignato Italo Zannier, decano degli storici della fotografia
italiani, “neanche un fotografo… Che tristezza”. Vado a recuperare la pagina di
giornale.
In verità uno c’è. Appena in tempo. L’ultimo della lista. Fa capolino lì in
fondo a destra, sorridente e con le braccia aperte, come per dire “accidenti, ci
sono entrato per il rotto della cuffia!”. Lo faccio notare al professore. “Sì…”,
borbotta poco convinto, “Ma non è neppure un italiano…”.
Non è però l’ultimo arrivato, Dennis Chamberlin, fotografo dell’agenzia
Black Star, premio Pulitzer assieme allo staff del Fort Wayne News-Sentinel nel
1983, docente in varie istituzioni. Ma diciamo, non è un nome che solleva
subito le sopracciglia come quelli di Umberto Eco, Ennio Moricone, Andrea
Camilleri o Jack Lang, che è il promotore.
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Ringraziamolo almeno per aver salvato l’onore della categoria, unico
rappresentante, gol della bandiera. Ma non c’erano proprio altri fotografi,
italiani e di nome, da invitare in questo appello di intellettuali a favore della
candidatura di Urbino a Città europea della cultura 2019?
Chamberlin forse è stato incluso perché ha un rapporto con Urbino, dove
dirige il progetto multimediale Urbino Project. Forse il comun denominatore
degli inclusi (volontari o convocati?) nel comitatone è proprio questo, avere
qualcosa a che fare con Urbino o con le Marche.
Ma le Marche sono una storica terra di fotografia, dagli esteti del Misa a
Giacomelli, una terra che continua ad allevare ottimi professionisti
dell’immagine, ad attirarne altrettanti da fuori. Uno per tutti: il grandissimo
Mario Dondero, che da anni vive a Fermo.
Non ce ne stava più di uno, in quella pagina? Almeno due? Non c’era
proprio un altro posto per un fotografo, magari italiano stavolta, fra i 114
firmatari che “ci hanno messo la faccia” nel paginone promozionale acquistato
dalla Regione Marche su alcuni quotidiani nazionali nelle scorse settimane, per
più di un fotografo?
Uno su 114. Il peso relativo della professione e dell’arte di fotografo in
questa specie di sociogramma della cultura è inferiore all’un per cento. Come
tasso di rappresentanza, è l’ultima categoria, alla pari con gli ecclesiastici. Nel
gruppone si distinguono invece 14 giornalisti, 16 musicisti, 19 uomini di
cinema, 11 uomini di teatro, 4 personaggi televisivi, 7 sportivi, 8 scrittori, 8
storici dell’arte, 7 accademici, 2 scienziati (anche la cultura scientifica sse la
passa maluccio, da quelle parti…), 2 architetti. Anche i cuochi sono il doppio
dei fotografi: due.
Più che tanti altri segnali, credo che questo involontario indicatore della
reputazione culturale della fotografia nel nostro paese sia significativo, perché
sembra rivelatore di un’opinione diffusa. Sarebbe un bel test, provare a capire
se anche nel Pantheon intellettuale degli italiani di cultura media i fotografi
figurano nella stessa proporzione di questo comitatone, rispetto agli scrittori,
agli attori, ai calciatori, aglichef.
Di certo, sappiamo come la vedono dalle parti di Urbino. Se tanto mi dà
tanto, dovremo aspettarci che il posto riservato alla fotografia in un’eventuale
programma di Urbino città europea della cultura, nel 2019, riserverà ben poco
spazio alla fotografia.
Meno dell’uno per cento. In un mondo dove si scattano uno o due miliardi di
fotografie al giorno, dove ognuno di noi scorre con gli occhi migliaia di
fotografie al giorno. Dove la cultura visuale scarseggia e la propaganda visuale
trionfa.
Che tristezza, professor Zannier, ha proprio ragione. Monsieur Lang,
provveda, facciamo conto su di lei, che viene dalla patria natale della
fotografia.
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Tag: Andrea Camilleri, Dennis Chamberlin, Ennio Moricone, fotografi, fotografia, Italo Zannier, Jack
Lang, Marche, Mario
Dondero, Mario
Giacomelli, Umberto
Eco, Urbino
Scritto in fotografia e società | 5 Commenti »
Una storia americana. Fotografie di Gordon Parks
da http://www.lastampa.it
Gordon Parks, Harlem 1948. Da “Harlem Gang Leader”
Quando: 05/12/2013 00:00 al 16/02/2014 00:00
Dove: via Dei Prefetti 22 Roma (RM)
Il 5 dicembre apre al pubblico, presso Palazzo Incontro a Roma, la
mostra Una storia americana. Fotografie di Gordon Parks; un progetto
promosso dalla Provincia di Roma e dalla Regione Lazio, realizzato dalla
Gordon Parks Foundation di New York in collaborazione con la Fondazione
Forma per la Fotografia, organizzato da Contrasto e da Civita. Gordon Parks è
un narratore unico dell'America, in grado con il suo apparecchio fotografico e la
sua capacità di comprendere e scavare dentro le pieghe della società, rivelare
le ingiustizie e i soprusi, portare alla luce la storia di chi non aveva voce per
gridare la propria storia. Tra i fotografi più importanti del ventesimo secolo,
dagli anni Quaranta fino alla sua morte, nel 2006, Parks ha raccontato al
mondo, soprattutto attraverso le pagine della rivista Life, la difficoltà di esser
nero in un mondo di bianchi, la segregazione, la povertà, i pregiudizi, ma
anche i grandi interpreti del ventesimo secolo, il mondo della moda e perfino le
grandi personalità del mondo in pieno cambiamento, come Malcom X,
Muhammed Ali e Martin Luther King. La mostra a cura di Alessandra Mauro, è
accompagnata da un volume edito da Contrasto. L’esposizione è anche
l’occasione per festeggiare i 3 anni dall’apertura di Palazzo
Incontro che, voluto con determinazione dal Presidente Nicola Zingaretti,
rappresenta il luogo dove il Progetto ABC Arte Bellezza e Cultura, ideato dalla
Provincia di Roma e da Civita, ha avuto la sua consacrazione. Oggi il Palazzo è
diventato un luogo di tendenza che ha ampliato, qualificandola, l’offerta
culturale della Capitale rispondendo alle sollecitazioni e alle aspettative di un
pubblico singolare, curioso, attento, esigente, giovane e per nulla usuale per
consumi e fruizione di eventi.
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Quando lo scrittore ci mette la faccia
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Jorge Luis Borges, Palermo, 1984. © Ferdinando Scianna/Magnum Photos/Contrasto, g.c.
Dei libri in mano? Sembrerebbe un bibliotecario. La penna sul foglio? Uno
spasimante che scrive all’amata. Sugli altari, i santi si riconoscono perché
esibiscono gli oggetti della loro predicazione o del loro martirio. Nessun
accessorio, invece, può dare un’identità certa allo scrittore.
Resta la faccia. Ma non è forse giusto così? La materia prima dello
scrittore non è l’anima? E il volto non è lo specchio dell’anima?
Ed eccoli i volti degli scrittori, sui giornali, sulle copertine, in tivù, li
riconosciamo, volti nudi, volti significanti, volti-testo che i lettori sbirciano,
scrutano, percorrono ruga per ruga in cerca di quel che non ci troveranno, o
forse sì, ma cosa troveranno davvero? InScrittori, un librone curato da
Goffredo Fofi, ora ne avete quante ne volete, di facce d’autore.
Ma che cosa vi diranno? Anche Leonardo Sciascia cercava ardentemente
qualcosa nei volti dei suoi compagni d’arte. Collezionava ritratti di scrittori,
antichi e moderni: ne ha lasciata una raccolta alla sua Racalmuto. Ne trasse
anche una mostra, a Torino, dal titolo rubato a un verso di Paul Valéry: Ignoto
a me stesso. Identico concetto espresso da Franz Kafka a un amico: il ritratto
fotografico? «Un non-conosci te stesso meccanico».
S’illudeva allora Sciascia? Successero due cose curiose, a quella mostra. Si
scoprì da un confronto di date che il ritratto di Luigi Pirandello non poteva
essere il suo. Chi era dunque quel signore bonario con la faccia da Pirandello?
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Cioè con la faccia da scrittore? Un farmacista, un notaio? Che caso sapiente,
questo incidente capitato proprio all’esploratore delle identità incerte.
E poi, il ritratto di Erskine Caldwell. Era, forse per una svista, l’unico
vivente in quella galleria: ma morì due giorni dopo l’inaugurazione della
mostra. «Per dovere di catalogo», scrisse quasi irriverente Giovanni Arpino.
Sciascia invece ci vide un segno. Una prova dell’entelechia del ritratto: nel
volto fotografato dello scrittore si legge sempre un destino già scritto. Pensò a
un ritratto di Pier Paolo Pasolini preso da Dino Pedriali. Da rabbrividire.
Diffidano dunque i letterati del proprio ritratto. «Virginia Woolf mi accusò di
averla violentata facendole il ritratto», si lamentò Gisèle Freund, «ma non ci si
cambia d’abito due volte per farsi violentare…».
Diffidano, ma poi ci cascano tutti. Perfino Balzac, convinto che ogni scatto
sbucciasse via, come da una cipolla, una pellicola dal corpo mistico dell’uomo,
finì nel Panthéon di Nadar.
Antonio Tabucchi, Milano, 1985. © Giuseppe Pino/Contrasto, g.c.
Diffidano giustamente: il volto dello scrittore è prepotente, invadente.
Condiziona l’immaginario del lettore. Volerlo o no, Leopold Bloom ha per noi i
tratti scavati di James Joyce, e Georges Simenon con la pipa è il commissario
Maigret.
Per questo, forse, J.D. Salinger detestava i fotografi e li fuggiva come la
peste. O forse perché lo ripresero a tradimento mentre usciva da un
supermercato del New Hampshire.
Uno scrittore somiglia a uno scrittore anche quando spinge il carrello della
spesa? Sì, rispose Roland Barthes, perché così li vuole l’industria culturale:
devono apparire esseri speciali che «secernono letteratura» in ogni momento,
anche involontariamente, anche in spiaggia sotto l’ombrellone.
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Il volto dello scrittore è un volto speciale, aureolato? Beffarda, la
rivista Life nel 1947 fece un contro-esperimento: mostrò ai suoi lettori ventotto
fototessere, senza didascalie, di scrittori di gialli mescolati a serial killer, e li
invitò a distinguere gli uni dagli altri. Non conosciamo l’esito. Ma qualcuno avrà
scoperto con sorpresa che in fondo uno scrittore talvolta può avere veramente
una faccia da scrittore.
Ma forse è un caso. L’immagine fotografica crea non il letterato, ma la sua
scena. Si dice che fu una foto di gruppo (c’erano Beckett, Robbe-Grillet,
Simon, Serraute) presa da Mario Dondero nel ‘59 sul marciapiede davanti alle
Éditions de Minuit, a creare il noveau roman.
Di quella scena i letterati sono attori consapevoli. Fotografata da Ulf
Andersen, Julia Kristeva ammise: «questa è la maschera che mi protegge, e
che mostro a voi».
Ernest Hemingway, Sun Valley, USA, 1940. © Robert Capa/Magnum Photos/Contrasto
Molti di loro la indossano con sapienza. Ernest Hemingway e Mark Twain,
per dirne due, gestirono meticolosamente le proprie apparizioni fotografiche
suggerendo una lettura dell’opera attraverso l’esposizione del corpo.
Mostrarsi o no? Ma la domanda è già risolta. Ci guardano a centinaia, in
libreria, dalle vetrine della quarta di copertina. Walt Whitman, pioniere anche
in questo, pubblicò alcune edizioni di Foglie d’erba con il suo ritratto al posto
del nome in frontespizio. Il volto dello scrittore ora è pubblico come il volto dei
politici, un volto senza aura, raggiungibile, negoziabile, consumabile.
Eppure, come verseggiò Eugenio Montale sul dagherrotipo d’un avo, «resta /
che qualcosa è accaduto, forse un niente / che è tutto». In una foto c’è sempre
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uno scarto fra la costruzione che intende essere e la realtà indefinita che vi
s’intrufola.
Se il fotografo è fortunato, scrisse Josif Brodskij, nel ritratto dello scrittore
coglierà «una poesia non compiuta, che non ha ancora il prossimo verso».
[Una versione di questo articolo è apparsa in La Domenica di Repubblica il 10 novembre 2013]
Tag: Alain Robbe-Grillet, Claude Simon, Dino Pedriali, Ernest Hemingway, Erskine Caldwell, Eugenio
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Scritto in fotografia, fotografia e società, ritratto | 8 Commenti »
FOTO CON PELLICOLA VERA E GLI EFFETTI DI INSTAGRAM: ECCO
"LAST CAMERA" PER AMANTI DELLA FOTOGRAFIA ANALOGICA
di melascrivi.com da http://www.assodigitale.it/
In tempi in cui la parola digitale è ormai sulla bocca e le tastiere di tutti, c’è
ancora qualcuno che si diletta nell’ideare nuovi strumenti analogici come Last
Camera.
A guardarla dall’esterno, con un occhio magari un po’ superficiale, si potrebbe
dire che questa nuova macchina fotografica non ha nulla di nuovo rispetto alle
tante altre analogiche che l’hanno preceduta.
Ciò però sarebbe una bugia, dal momento che Last Camera consente al
fotografo, provetto o professionista, di caratterizzare i propri scatti con un
effetto tanto imprevedibile quanto affascinante, la luce.
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Essa infatti permette di farla filtrare direttamente sulla pellicola, e gli effetti
sono incredibili.
Qualcuno starà già pensando a Instagram, noto social fotografico
caratterizzato da numerose funzioni di modifica e abbellimento degli scatti, ma
qui si parla di foto vecchio stile, con pellicola per l’appunto, e dunque di un
effetto che non può in alcun modo essere regolato o previsto al 100%.
Grazie a due sportellini posti nella parte posteriore e laterale della macchina
sarà così possibile compiere un vero e proprio passo all’indietro, a quando
le foto (eccezion fatta per le polaroid) erano un’arte per i maestri del genere e
un regalo agrodolce per chi attendeva con ansia lo sviluppo del fotografo di
fiducia.
Una volta acquistato si riceverà a casa propria un kit non molto ampio,
composto da pezzi quasi totalmente in plastica, che dovranno poi essere
assemblati con minuzia, seguendo le istruzioni annesse.
Qualcuno potrebbe storcere il naso anche in questo caso, ma occorre
sottolineare come la parvenza di complessità del kit sia in realtà un’opzione in
più per gli amanti del genere, che avranno così a disposizione una macchina
del tutto assemblabile, ma soprattutto modificabile e migliorabile a seconda
delle proprie esigenze e dei propri gusti.
Oltre ai pezzi per la costruzione della macchina troveremo poi anche due
obiettivi, per la precisione un grandangolare da 22 millimetri e un obiettivo
classico da 45 millimetri.
A produrla è Superheadz, che al momento è anche l’unico rivenditore. Infatti la
macchina è acquistabile sul loro sito. L’oggetto è interamente made in Japan e
in rete sono già stati diffusi alcuni video per incentivare i clienti a customizzare
la propria macchina fotografica, rendendola aderente alla propria personalità.
Al momento il costo è fissato sui 4.095 yen, ma non lasciatevi spaventare.
Effettuando il cambio di valuta infatti ci si rende facilmente conto che per noi la
spesa sarebbe soltanto di circa 28 euro.
I miserabili(sti)
di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
«Che cosa faceva a Calcutta?» «Fotografavo l’abiezione», rispose Christine.
«Come sarebbe?» «La miseria», disse lei, «la degradazione, l’orrore, lo chiami
come preferisce». «Perché lo ha fatto?» «È il mio mestiere», disse lei, «mi
pagano per questo». Fece un gesto che forse significava rassegnazione alla
professione della sua vita, e poi mi chiese: «lei è mai stato a Calcutta?» Scossi
la testa. «Non ci vada», disse Christine, «non faccia mai questo errore».
«Pensavo che una persona come lei pensasse che nella vita bisogna vedere il
più possibile». «No», disse lei convinta, «Bisogna vedere il meno possibile».
ANTONIO TABUCCHI, Notturno indiano
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Lewis Carroll, Alice Liddel, 1858
Bisogna vedere o non vedere la miseria? Bisogna farla vedere o non farla
vedere? Sono due domande diverse? Sono la stessa domanda?
Non siamo tanto liberi di scegliere. La miseria viene mostrata ovunque.
Perché, purtroppo, è fotogenica. Sentite cosa scrive nel 1910 un tale Gustavo
Bonaventura su La Fotografia Artistica, rivista portabandiera del pittorialismo
fotografico italiano. Un ragionamento che comincia benissimo e finisce
malissimo:
«[...] l’immenso egoismo umano trascura di soffrire vedendo un vecchio
dormire su di una panchina nel gelo delle notti invernali e una madre pascere
di lacrime i figli affamati ed i coscienti. Sono dolori a cui non si pensa, perché
dolori che si guardano, senza vederli, preoccupati dal pensiero di un sonno
dolce e a stomaco pieno, [e fin qui siamo d’accordo, ndr.]mentre potrebbero
servire alla esecuzione di una serie immensa di quadri improntati alla triste,
alla amarissima poesia della miseria e del martirio».
Capita la morale? Guai a chi volta la testa all’altra parte quando vede un
miserabile! È un gigantesco spreco di ottimi spunti artistici! Bisogna guardarli, i
poveri, bisogna fotografarli!
Credo che il cinismo forse inconsapevole e perfino benintenzionato del
signor Bonaventura, che dava consigli ai fotoamatori della sua epoca, sia una
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eccellente sintesi della filosofia di quel sottogenere che percorre tutta la storia
della fotografia, a cui qualcuno ha dato il nome di miserabilismo. Il
compiacimento del rappresentare la povertà in immagine, di guardare la
povertà rappresentata.
Naturalmente, non tutto comincia nella e dalla fotografia, e neppure nella
storia dell’arte, dove i poveri hanno una antica cittadinanza di cui non ho
tempo e competenza per parlarvi qui. Il voyeurismo del privilegiato nei
confronti dello sventurato, il piacere di guardare la catastrofe dallo spalto
sicuro della nostra tranquillità economica e sociale viene da lontano, ha radici
in un meccanismo profondo dell’animo umano. «Le lacrime di compassione per
la sventura dello schiavo», scriveva Nietzsche, «sono le perle più preziose
nell’aurea coppa della cultura, lasciva Cleopatra».
Già Platone, che diffidava dell’arte, intuì il fascino che i corpi
straziati esercitano su chi li guarda. C’è un’estetica specifica per commuovere
attraverso il dolore figurato: quella che il grande storico dell’arte Aby Warburg
identificava nel termine pathosformel.
La gente ama piangere sulle disgrazie altrui. È un potente meccanismo di
rassicurazione. Chi guarda la sofferenza di un miserabile, molto probabilmente
non è a sua volta un miserabile. Chi ode il tuono, sa che non è stato colpito dal
fulmine. Il tuono spaventa e conforta insieme. È toccato a qualcun altro, io
sono salvo.
Quando la fotografia rivolge la sua lente al mondo sociale e comincia a
catturare la sofferenza e la miseria, trova il terreno preparato da numerose
lascive cleopatre culturali. La compassione cristiana, mai priva del
compiacimento della carità. L’etica protestante che nella miseria vede il segno
della mancata predestinazione alla salvezza. L’idealizzazione romantica
del contadino, dell’umile lavoratore legato alla terra.
In un certo senso, il pittorialismo fotografico è persino meno sprezzante di
questi precedenti, recupera in estetica un’etica del labor che vorrebbe
essere serena, classica, virgiliana.
Purtroppo per lei, la fotografia non è fatta per le teorie, non riesce mai a
rappresentare astrazioni, concetti universali, sentimenti disincarnati. Non
possiamo fotografare la povertà. Possiamo solamente fotografare dei poveri.
Quei poveri, quel povero specifico che capita avanti al nostro obbiettivo. La
povertà come metafora funziona male in fotografia: la cieca di Paul Strand è
un’allegoria della visione, una metafora della fotografia stessa: ma quella è
stata una donna in carne ed ossa, una mendicante, che non ha avuto alcun
controllo sull’immagine che le è stata presa.
Probabilmente non avremmo immagini della crocefissione sugli altari se
all’epoca della passione di Cristo fosse esistita la fotografia. «La fotografia è
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troppo esplicita per far apparire nobile o nobilitante il concetto di sofferenza»,
ha osservato lo scrittore Philip Gourevitch a proposito delle fotografia
delle torture di Abu Ghraib.
Ma è solo per compiacimento voyeuristico, per cinica rassicurazione, che da
170 anni fotografiamo i poveri? Naturalmente, nessun fotografo ama sentirsi
cinico o voyeur. In questi due secoli, dunque, non sono mancate giustificazioni
autorevoli, non sempre ipocrite o infondate, all’esistenza della fotografia
miserabilista.
La prima si rifà ad una sorta di vocazione originaria della fotografia stessa,
il suo presunto bisogno insopprimibile, esistenziale, di riprodurre la realtà così
com’è. Quando Heinrich Zille o Thomas Annan fotografano i mendicanti di
strada a Londra o gli slum di Chinatown, si sentono investiti di una missione di
documentazione che li mette al riparo da ogni altra responsabilità morale, da
ogni obbligo di pietà e di pudore. Questo genere di fotografia che si pretende
avalutativa, indagatrice, classificatoria, catalogatrice, ovviamente oggettiva
non è: è lo sguardo della borghesia dell’Occidente che getta fuori da sé e dalle
proprie responsabilità le drammatiche conseguenze umane dell’industrialismo.
Questa fotografia non documenta la povertà, ma crea il povero, come
fenomeno spiacevole, ma inevitabile perché oggettivo e naturale. Con la sua
presunzione di veridicità meccanica, la fotografia è il medium nonché l’alibi
perfetto per questa alienazione.
Sentite cosa scrive Adolphe Smith, giornalista socialisteggiante, nella
prefazione aStreet Life in London, reportage di John Thomson del 1877:
«L’indiscutibile esattezza [delle fotografie] ci permetterà di mostrare autentici
personaggi della miseria londinese risparmiandoci l’accusa di avere aggiunto o
tolto qualcosa all’aspetto particolare di quei miserabili».
Capito? Le foto non creano la povertà, la documentano soltanto, e nel
modo più scientifico e corretto possibile. L’evoluzione di questa pretesa sarà la
fotografiaantropologica, tassonomia umana dell’era coloniale, ovviamente
condotta dai colonizzatori sui colonizzati. Ai quali resta solo, muta arma
dell’oppresso contro l’oppressore, la resistenza di uno sguardo carico di
disprezzo.
Ma se guardiamo questi reportage sedicenti “scientifici”, capiamo subito
dove sta il trucco. Per questo sguardo intrusivo e auto-assolutorio del potere,
camuffato da censimento entomologico, gli unici poveri fotogenici sono quelli
che il medioevo definiva «poveri vergognosi»: i poveri che chiedono senza
pretendere, i poveri umili e sottomessi. I poveri che si ribellano contro le
condizioni della loro povertà non sono più poveri, sono sovversivi, asociali
pericolosi: a loro è destinato un altro genere di fotografia, quella poliziesca, la
fotografia segnaletica dei grandi casellari giudiziari ideati per primo dal capo
della prefettura parigina Alphonse Bertillon.
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I poveri innocui, invece, diventano facilmente figurine di un rassicurante
presepe che può perfino avere un valore commerciale. La poetica degli stracci
si trasferisce nella sua versione folclorica e turistica dei «tipi», dei personaggi
di strada, straccivendolispazzacamini scugnizzi, una collezione di figurine,
anche in senso letterale, elementi di colore locale, da cartolina, curiosità da
souvenir di viaggio. Gli spossessati sono spesso privi anche del potere di
opporsi al prelievo della propria immagine.
È condannata la fotografia a questa «sociopornografia», a questo folclore
degli stracci? Molte volte si è cercato di sfuggire questa sorte, non sempre
ipocritamente, qualche volta efficacemente. Agli inizi del Novecento la
fotografia sembrò l’arma più forte a disposizione dei riformatori sociali per
«gettare luce» sulle contraddizioni della società e invocarne la riparazione.
Detective sociali come Jacob Riis si munirono delle pesanti, ingombranti
fotocamere dell’epoca per intrufolarsi negli slum degli immigrati, nei tenements
dove gli ultimi arrivati nella «terra delle opportunità» si ammassavano in
condizioni spaventose, e asportarne tutto lo squallore a colpi di flash, pazienza
se il lampo di magnesio a volte finiva per appiccare il fuoco ai pagliericci lerci
dei poveracci.
Non è giusto disprezzare o tacciare di ipocrisia quei tentativi, sinceri,
benintenzionati e perfino efficaci: le foto di Riis contribuirono al risanamento
del Mulberry Bend, l’angolo più infame e lurido di Manhattan.Ma la
giustificazione morale di questo tipo di fotografia sociale si fonda sulla fiducia
nella coscienza e nella generosità dei ricchi, che sono il vero pubblico di quelle
immagini.
Il rischio di una pornografia della miseria, del consumo del dolore che ci
consola e ci evita perfino di sentirsi complici (mi sono commosso davanti a
quelle fotografie, è la prova che sono dalla parte del giusto) non è fuori
dall’orizzonte umano, anche al di là delle intenzioni. Scriveva Blaise Pascal che
«piangere gli sventurati non è contro la concupiscenza. Anzi, siamo ben lieti di
offrire questa prova di amicizia, e di attirarci la reputazione di persone sensibili
senza dar nulla».
È quindi difficile scacciare la sensazione che anche questo sguardo non
potesse evitare una quota di paternalismo compiaciuto, quello che lo storico
della fotografia Ando Gilardi definirebbe «porno-concerned», che produce
un’immagine del povero stereotipa, inquietante, estrema, disumanizzante. Per
denunciare la patologia sociale e solleictare reazioni in chi vive nel torpore del
benessere è inevitabile estremizzarne i tratti, si innesca così un meccanismo di
«criminalizzazione a fin di bene» che in anni più recenti ha riguardato anche la
generosa fotografia anti-psichiatrica e basagliana, piena di «matti che hanno
l’aspetto di matti». La fotografia prende individualità e le trasforma in
stereotipi, il rischio lombrosiano (che sostanzialmente consiste nello scambiare
gli effetti per le cause) è sempre dietro l’angolo.
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Non sto dicendo che i fotografi siano tutti incoscienti produttori di cliché.
Gran parte dei fotografi «socialmente consapevoli» avverte da sempre il
rischio, sa di correre su una lama sottile tra denuncia e conferma del
pregiudizio. Sa che è forte la tentazione di affermare, più che uno stato
deplorevole delle cose, il coraggio del fotografo nell’affrontare la vista della
povertà e i rischi corsi per raggiungerla, in nome di una missione morale
superiore. Una sorta di forma moderna del sublime, legittimata dalla morale
umanitaria, secondo il sociologo Luc Boltanski.
Thomas Annan, Glasgow, Close No. 80, High Street, 1868
Contro questo rischio, i fotografi coscienziosi hanno adottato strategie
diverse. La più frequente è quella che invoca a discolpa ed esimente morale la
pretesa di aver «rispettato» se non «restituito» la «dignità» ai soggetti: ma di
quale dannata dignità parliamo? Un bambino che muore di fame, un uomo
ammazzato da un missile, di dignità non ne hanno più, nemmeno un briciolo,
gliel’hanno rubata tutta, gliel’hanno strappata a viva forza con i loro artigli
maledetti.
E se un fotografo gliene mette addosso una che si è portato da casa,
prefabbricata e incartata dentro la borsa assieme agli obiettivi, vuol dire che
sta mentendo, che sta coprendo, che sta nascondendo la realtà. Una “vittima
dignitosa”, educata, che faccia di tutto per non disturbare la nostra sensibilità,
è proprio quel che chiedono le sonnolenze postprandiali di noi occidentali che
vogliamo indignarci, certo, ma solo per qualche minuto, e senza rimetterci
nulla.
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Lasciamo perdere la dignità, dunque, scusa fragile e ipocrita. Più fondato
come giustificazione morale della fotografia della povertà è semmai il dovere
della testimonianza: faccio vedere ciò che ho visto e che altrimenti nessuno
saprebbe. Consapevole che sto mostrando “il dolore degli altri”, per dirla con
un tormentato libro di Susan Sontag, che sull’efficacia e la legittimità morale di
questa testimonianza ha cambiato nel tempo le sue opinioni.
In definitiva, si tratta di quell’etica dell’intenzione, di quel pro bono
malum che sorreggeva l’impresa foto-propagandistica della Fsa americana,
fotografia di Stato dell’era Roosevelt, che mostrava le piaghe sociali che
intendeva risanare, per produrre consenso attorno a una politica. Ma
ugualmente, non basta: da cosa si riconosce la buona dalla cattiva intenzione?
Da quali segni esteriori distinguiamo il voyeurismo del dolore dall’empatia del
riscatto?
Dalla nobilitazione politico-morale del soggetto, è una risposta: il
neorealismo cinematografico, e la fotografia che si richiama a quello stile,
rinnova il cliché neoromantico della miseria: poveri ma belli, poveri ma eroi,
poveri ma virtuosi, poveri ma in cerca di riscatto. Con questa autogiustificazione, nel dopoguerra, i fotografi italiani tenuti per un ventennio,
quello fascista, a digiuno di frequentazione della realtà sociale si lanciarono in
una vera e propria corsa al Sud, in cerca di vedove in nero e cafoni dal volto
scavato. Ne uscirono reportage sconvolgenti su un paese fino ad allora
invisibile, ma ahinoi anche stereotipi da fotoamatori in cerca di effetti facili.
Disse un fotogiornalista di pelo lungo, Vincenzo Carrese, al giovane Ferdinando
Scianna che gli presentava un (bellissimo) reportage sulle feste religiose in
Sicilia: «I poveri sono fotogenici, ragazzo mio, specie quando pregano, vorrei
vede cosa sai tirare fuori da via Montenapoleone…”.
Dalla nobilitazione del soggetto alla estetizzazione della miseria il passo è
breve. È l’accusa versata piene mani sui fotografi «epici» come
Sebastião Salgado. Che si difende dicendo: sono fisime occidentali, quando
mostro fotografie dei migranti in Europa si discute di estetica, in Brasile di
emigrazione. Pornografi della miseria o cantori della contraddizione? (Pivano).
La bellezza è davvero nemica della verità, della compassione, dell’empatia?
Per Jeanloup Sieff la bellezza è condizione di efficacia, è sovversiva. Per
Ferdinando Scianna, se fai una brutta fotografia a un povero ti trovi con «due
problemi: la sofferenza del povero, e una cosa brutta in più che ora impesta il
mondo». Ma c’è anche chi, come Don McCullin, al termine di un duro reportage
sull’Aids, ha concluso che «non riesci a fare grandi foto sulla sofferenza altrui.
è più importante metterle nel giusto contesto».
Ma qual è il «giusto contesto»? Il pericolo è che la fotografia della miseria
trovi giustificazione in sé, si proclami giusta, umanitaria, «dignificante» solo
perché chi la produce si sente animato da buone intenzioni. Ma se è così, ha
ragione Anna Magnani del film L’Onorevole Angelina di Luigi Zampa, che tira
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una bacinella d’acqua a un fotografo che la ritraeva mentre faceva il bagno al
bambino in una tinozza, gridando «Non c’è gnente da fotografa’, non semo divi
der cinema, semo dei disgraziati, capito? E invece de venì ogni du’ ggiorni con
‘ste macchinette, venite co li sordi, così ce ripulimo un po’ e risparmiate pure
tante gitarelle».
E siamo ancora al punto: è giusto o no mettersi con una fotocamera
davanti alla miseria e alla sofferenza? Sfruttamento o solidarietà? Empatia o
ipocrisia? Jean Baudrillard, dopo aver depotenziato qualsiasi immagine del
reale riducendola a simulacro, mette in guardia ugualmente dalla «complicità
vergognosa» delle fotografie dei miserabili «dati in pasto all’evidenza
documentaria e alla compassione immaginaria».
Un rischio ben presente a tutti. Nel 1989 l’assemblea generale delle Ong
europee vara un regolamento per le immagini di sofferenza. La Croce Rossa
Internazionale ne possiede uno suo. È un tema molto sentito, nel mondo delle
organizzazioni umanitarie, questo dell’immagine.
Ovvio che lo sia. Basta un’immagine ben scelta e ben diffusa sui media e il
rubinetto delle donazioni comincia a buttare. Ma un’immagine azzeccata è
anche un’immagine giusta? Bene, quei codici etici sull’immagine della miseria
bandiscono gli estremi opposti delle immagini idilliche e di quelle senza
speranza perché, entrambe, «mirano solo a ripulire le coscienze anziché alla
comprensione delle radici dei problemi».
Quelle senza speranza vorrebbero scuotere la tranquillità del mondo
sazio, aggredendone la coscienza all’ora di pranzo, e ci riescono, ma alla lunga
inducono a pensare che non ci sia nulla da fare, che la povertà sia una
condanna biblica ed eterna.
Quelle idilliche rispondono alla legge del marketing che impone di non
mettere mai a disagio il consumatore (e il donatore è un consumatore di
ricompense etiche), ma alla lunga inducono a pensare che tutto sia sotto
controllo, ce ogni male sia stato già affrontato e risolto da specialisti che ci
dispensano dal preoccuparcene troppo.
Oggettivizzazione, vittimizzazione sono pericoli reali nelle immagini della
sofferenza. Ma forse non sono la loro vera, fondamentale debolezza, che è
un’altra, a mio parere, la seguente.
La fotografia della povertà tende a sostituire la povertà con una immagine
pellicolare, senza spessore, senza storia, ossia senza le categorie di causaeffetto, di responsabilità, di conseguenza.
L’immagine-shock mostra il perseguitato ma raramente il persecutore,
lascia solo il benefattore con la vittima, esclude ogni altra cosa o persona, e
così quando anche produce empatia nella coscienza impegnata (quella che fu
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definita la linkemelankolie), resta autoappagante, non riesce a produrre
reazioni “politiche”, avendo omesso di indicarne il bersaglio.
E qui sta il rischio più forte: un dolore esibito, insopportabile da vedere, ma
che sembra dipendere solo da se stesso, assolutizzato, fuori dalla storia,
produce in chi lo guarda una reazione di impotenza e di fatalismo: è la
sofferenza umana, ce ne dispiace, ma non possiamo farci nulla. E il malessere
momentaneo dell’uomo del benessere trova da sé il proprio lenitivo. Aveva
ragione l’abbé Pierre, guardando queste immagini, a temere «una società che
consuma in fretta l’ostentazione della carità».
Ma le immagini di bambini con le mosche, topos di quelle che sir Cecil
Beaton, fotografo dandy dotato di coscienza, definiva immagini «senza
compassione», continuano ad apparire sui media. È evidente che chiudere gli
occhi davanti ad esse, che nella loro impotenza sono pur sempre tracce di una
sofferenza reale, sarebbe ancora più ipocrita.
Ma dobbiamo anche riconoscere, proclamare, che l’esistenza visibile della
miseria non è di per sé un argomento contro la miseria. Le foto di profughi
stremati e moribondi riversati dai barconi sulle spiagge dei ricchi fanno dire al
leghista di turno «prendeteli a casa con voi».
Le fotografie, diceva Virginia Woolf turbata da quelle della guerra, non
sono argomentazioni, sono solo grossolane affermazioni di fatto. Non possono
essere il punto di arrivo di una coscienza civile, perché la portano nel vicolo
cieco dell’autogiustificazione e dell’indifferenza. Guai dunque se pensiamo che
le fotografia siano un punto di arrivo, un’arma finale, nella lotta contro la
povertà: avranno la funzione opposta, quella di disarmare le coscienze.
Ma le fotografie possono essere eccellenti punti di partenza. Ogni fotografia
dovrebbe imporci una domanda. Solo se cerchiamo la risposta la fotografia
della miseria ha un senso. Bisogna prendere parte, essere coscienti di essere
solo una parte, ma una parte in gioco. Bisogna che le fotografie della miseria
interpellino un noi e non un io.
Nel suo Il contratto civile della fotografia, la studiosa israeliana Ariella
Azoulay ha definito i termini di un possibile patto implicito a tre: il fotografo,
l’oppresso, il lettore, dove l’immagine fotografica, per mutuo consenso, diventa
la condizione di una restituzione della cittadinanza e dei diritti (non di generica
«dignità») negati dai poteri.
La fotografia, qualsiasi fotografia, anche la più ingenua, anche la più
volonterosa e simpatetica, è un atto di potere. Non si può ignorarlo, pena
essere prepotenti. Si può cercare, a nostro rischio, di impugnare quel potere
per il manico, come uno strumento di lavoro da maneggiare con apposite
precauzioni, e non come una bacchetta magica.
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In fondo non c’è molto in più da dire oltre la saggezza del mio amico
fotografo libertario Pino Bertelli: «Hai diritto di guardare un oppresso dall’alto
in basso solo quando sei capace di allungargli una mano per rialzarsi».
[Questo testo combina i miei appunti per l’incontro La povertà nella fotografia
e nel cinema del dopoguerra, per la rassegna Teatri mirabili di povertà,
Bologna 7 settembre 2013; e per la conferenza Miserabilismo, lo spettacolo
della miseria e l’etica della rappresentazione fotografica, per Foggia Fotografia,
9 novembre 2013
Tag: Abu Ghraib, Aby Warburg, Adolphe Smith, Alphonse Bertillon, Anna Magnani, Antonio Tabucchi,
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Bonaventura, Heinrich Zille, Jacob Riis, Jeanloup Sieff, John Thomson, La Fotografia Artistica, Lewis
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Bertelli, povertà, Sebastião Salgado, Susan Sontag, Thomas Annan, Vincenzo Carrese, Virginia Woolf
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TONI NICOLINI, PASSIONE E IRONIA
di Cesare Colombo (presentazione dal catalogo della mostra)
Limbiate (1961)
Ho conosciuto Toni Nicolini alla fine degli anni Cinquanta. Come me, aveva
scelto di lasciare l’uni- versità per fare il fotografo professionista. Milano aveva
tempi lunghi, allora. Si andava dai clienti a portare il lavoro fatto, col tram o
con la Lambretta.Toni aveva un piccolo studio in via Rossini; la sala posa al
piano terra in fondo a un cortile antico, la camera oscura al secondo piano, con
accanto un mini alloggio da single.Toni fotografava di continuo delle elaborate
composizioni di prodotti farmaceutici; suonava il telefono di sopra e lui correva
ansimando a rispondere. Prima di tornare giù guardava l’armadio con le
cravatte appese, di pura seta o di lanetta scozzese, e piegava la testa: «Sono
belle, ma mi mancano le occasioni per metterle». Nel gruppo di amici si
mitizzava la sua amarezza tranquilla, quasi serena. Del servizio militare, a
Conegliano Veneto, rie- vocava le difficili istantanee rubate in cucina, con le
reclute che rovesciavano grigi pentoloni di pasta, emergendo nel vapore:
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«Quand’ero di guardia al freddo mi perseguitava l’immagine delle spider ferme
alla curva coi ragazzi che portavano a sciare le morose in maglione rosso; io
facevo la sentinella, i dannati seguivano gli “itinerari romantici di Grazia”».
Avevamo allora la mania dei fotoracconti, immagini in sequenza “poetica”.Toni
raccontò la storia di una bambina (la figlia della portinaia) cui il vento ruba per
scherzo il pallone; lo scherzo pro- segue in una tempesta sul bosco, con un
ritorno del pallone a lieto fine. Ma in seguito l’infanzia venne raccontata con
fotogrammi di rabbia:Toni pedinò i nipotini, diabolici gemelli, che si compiacevano nel puntare revolver ad acqua alla testa delle galline.A metà degli
anni Sessanta ci tro- vammo a insegnare insieme le tecniche fotografiche ai
giovanissimi apprendisti della Società Umanitaria. Anticipando le contestazioni
degli anni seguenti, alcuni studenti non si facevano mai vedere alle lezioni. E
durante un atroce consiglio degli insegnanti, a gennaio,Toni propose ironicamente di assegnare all’assenteista Matteo G. il premio Nadar Una vita per la
fotografia. Incontrai Matteo per caso mentre fumava al Giardino della Guastalla
e gli raccontai la cosa. Ascoltò con interesse, concludendo: «Mi piace il
professor Nicolini. È flemmatico».
Ma a Nicolini trentenne non furono certo i furori sessantottini a far scoprire che
il problema di fondo della fotografia (e insieme la misura della creatività
personale dei fotografi) sta nel- l’approccio ai soggetti. Dove muoversi,
nell’universo sociale e materico che ci circonda appena usciamo di casa, o
anche se in casa ci restiamo, o se ci affacciamo alla finestra? Appunto il famoso dilemma, specchi o finestre. Riflettere sul proprio ombelico, fino a
trasformarlo nel vortice raffinato di tutte le sensazioni, non solo visive, oppure
affacciarsi alla vita degli altri e creare un ponte per la scoperta di valori
comuni, forse di idee comuni?
Nicolini scoprì il Sud. La Sicilia (ora dimenticata, o rimossa) di Danilo Dolci,
puritano sociologo a Partinico, con l’utopia di un intervento su modelli culturali
scandinavi. La Calabria, al seguito della frenesia pittorica di Ernesto Treccani:
due strumenti in amichevole confronto. Forse furono le cen- tinaia di muretti,
attrezzi di braccianti, muli in salita, contorte mani con olive, e ovunque
bambini, sui letti, sull’erba, sui banchi... a costringere Toni a fare i conti con
l’universo duro delle sembianze: le cor tecce della realtà, che non si modellano
cer to secondo il pre-giudizio che abbiamo in testa.
Così Nicolini, attraverso memorabili sequenze (per esempio il racconto del
flusso migratorio Da Melissa a Valenza, da contadini ad artigiani nella ricca
cittadina dell’oro), prende atto della natura multiforme, o ambigua,
dell’immagine ottica. Proprio mentre ci si accanisce a capire, a sondare, a
descrivere il soggetto questo ricompare sui fotogrammi in modi imprevisti,
secondo l’azzardo e le sorprese della vita stessa. Proprio nella scelta della
fotografia narrativa o “di re- portage” sta anche, per Toni e per altri suoi
colleghi, il tentativo di piegarsi a seguire con im- placabile “freddezza” la
grande commedia del mondo.Artisti,e insieme scienziati ricercatori,il loro
coinvolgimento non deve mai oltrepassare la soglia della nitidezza di ripresa,
della posizione “fisica” funzionale, e anzi deve piegarsi ad accettare le ragioni
tecniche del linguaggio fotografico: queste macchine, quelle pellicole, quelle
luci, quel mimetismo, quella serie collaudata di punti di vista... Dico questo
perché la conoscenza che ho di lui mi permette di capire, credo, quanto la sua
complessiva personalità, la logica del suo carattere guidino il suo modo di
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essere foto- grafo, in qualche modo protagonista e suggeritore di frammenti
della storia. Ed è proprio la coincidenza dei due percorsi, quello esistenziale e
quello dell’espressione fotografica, che ci consente di valutare l’opera di Nicolini
negli ultimi due decenni, quelli della maturità, ove si collocano le sue vicende
professionali più importanti.
Dal 1970 al 1990 Toni Nicolini realizza per il Touring Club Italiano diversi
fotolibri dedicati a Venezia o al Vaticano, a regioni come l’Umbria, il Friuli o la
Calabria, a intere nazioni come l’Austria, il Belgio,l’Olanda,il Portogallo.La
vicenda foto-editoriale delTCI e la particolare formula produt- tiva delle
monografie Attraverso l’Italia e Attraverso l’Europa – che prevedeva mesi interi
di viaggio della simbiotica coppia formata da fotografo e redattore – sono state
sospese. Ma esse hanno segnato per i protagonisti (e per l’eccezionale,
costante udienza di migliaia di soci “lettori” del Touring) una fondamentale
esperienza di cultura visiva.
Nicolini vi ha inoltre affiancato una produzione continua di opere monografiche
sul paesaggio, sull’architettura monumentale, sui musei, anche per altri editori.
Ma soprattutto nelle monografie per ilTouring si è impegnata la sua capacità di
estendere l’efficacia di un’indagine sociale – senza banalità convenzionali – alla
profondità, o solennità, di una narrazione dello spazio e del tempo. Cioè
architettura oltre alle persone, vestigia e testimonianze di remote presenze
dell’uomo, e gli odierni labili segni nel territorio. Stavolta, alle difficoltà di
ordine descrittivo (nulla è complesso come rendere in modo chiaro la
profondità, la progressione dei piani, in un’immagine bidimen- sionale) si
aggiunge un dilemma che Toni sembra accogliere in misura particolare, come
una sfida del proprio mestiere. È cioè possibile far sentire, evidenziando alcuni
indizi del presente, anche i dati trascorsi, le tappe del tempo, il fiume della
storia ?...
Rileggo con emozione oggi – dopo ventun anni – questa parte iniziale del testo
scritto perToni nel 1992, come prefazione al suo fotolibro Sono spenti i plotter?
edito dall’IBM, che presentava le sue immagini dedicate al rapporto tra
l’informatica e l’Università. Nell’occasione, come appare chiaro, io avevo
cercato anche i tratti di una vicenda biografica complessa, che in certa misura
era coincidente con la mia. Non prevedevo che oggi, ricordare la sua figura
attraverso una mostra re- trospettiva avrebbe avuto un senso ben diverso, ben
più coinvolgente sul piano umano. Dal 1968 e per i trent’anni seguenti, ho
diviso con lui lo studio, gli spazi del nostro lavoro e dei nostri archivi (oltre alla
nostra camera oscura) a Milano, in via Vigevano 10. Abbiamo scambiato e
messo a con- fronto quotidianamente idee sul linguaggio visivo, opinioni
politiche, problemi familiari, provini a contatto, rate di condominio.Toni è stato,
e rimane, il mio amico più intimo e grande.Toni ha cercato ogni giorno –
durante questi lunghi trent’anni – di collegare alle immagini le ragioni del suo
perso- nale impegno nella vita. Le ragioni pretese dal suo carattere. Difendeva
le sue idee inflessibili, at- traverso l’estrema mitezza del suo comportamento
sociale apprezzata immediatamente da chiunque lo conoscesse. Mitezza e
ironia, apparente leggerezza dentro una vera profondità della visione: sono
dati leggibili in tutte le immagini qui raccolte. Pur nel forzato limite numerico,
esse presentano tutte – mi sembra – dei tratti memorabili... Sono il frutto di
una selezione operata da me con la figlia dell’autore, Melissa, che qui vorrei
ringraziare per il mix di attenzione critica e coin- volgimento affettivo che è
riuscita a sostenere.
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Peraltro, considero questa breve presentazione, oggi, solo come l’avvio verso
un profondo esame critico su tutta l’opera di Toni Nicolini. Sul suo grande
archivio che Cristina De Vecchi aveva già in parte indagato con attenzione, e
che il CRAF continuerà nei prossimi anni a studiare.
----------------------TONI NICOLINI
PASSIONE E IRONIA a cura di Cesare Colombo
6 dicembre 2013 - 18 gennaio 2014
Bel Vedere fotografia
via Santa Maria Valle 5 20123 Milano
tel+fax 02.6590879 [email protected] www.belvederef
Herb, un salto oltre il ritratto
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Herb Ritts, Backflip, Paradise Cove, 1987, © Herb Ritts Foundation, g.c.
Che ci fa Djimon Hounsou, l’eroico Cinqué diAmistad, con un polipo calcato in
testa come una parrucca? Perché di Demi Moore vediamo solo le spalle nude,
tornitissime per la verità? E Liz Taylor, cranio quasi rasato dopo una
drammatica operazione al cervello? Ma che razza di ritrattista è questo Herb
Ritts?
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Uno con una sola regola: prima di tuttoricevere un’emozione, oppure
costruirla, comunque restituirla. «Credo che la gente vada in cerca di immagini
che
comunicano
sentimenti»,
mi
disse
in
un’intervista
per
il
Venerdì di Repubblica (la trascrivo qui in coda) poco prima di morire, troppo
presto, nel 2002, a soli cinquant’anni.
«Posso solo sperare che anche fra molto tempo chi guarda le mie immagini
riesca a emozionarsi». Undici anni dopo, dovunque lui sia in questo momento,
la
robusta
retrospettiva
dal
titolo In
piena
luce che
gli
dedica
laFondazione Musica di Roma assieme a Fondazione Forma e Ritts Foundation
potrà rassicurarlo: sì, ci sei riuscito, a emozionarci.
Figlio di un grande mobiliere di Los Angeles, scapestrato con metodo, è
stato uno deifotografi glamour più famosi del mondo, con una predilezione per
il nudo e un fiuto speciale per le immagini destinate a diventare simboli,
emblemi, icone.
Ma il suo vero talento sta nell’iniezione di inquietudine e di sconcerto che ha
praticato sul corpo levigato della fotografia di moda e di celebrità,
rispettandone i crismi più classici (il bianco e nero, la nitidezza assoluta, la
stampa perfetta) mentre ne stravolgeva a tutti i livelli la rassicurante funzione:
formale, concettuale, sensuale, sessuale.
In fondo tutto cominciò irregolarmente. Ritts fu proiettato in orbita nel ’78
da un pneumatico bucato, che lo costrinse a passare un paio d’ore di noia in
una stazione di servizio nel deserto californiano assieme al suo compagno di
viaggio, che si chiamava, ma non era ancora, Richard Gere, e gli venne di a
fargli due scatti così, per divertimento, lui in posa sexy-camp in canottiera e
jeans, scatti finiti a razzo su Vanity Fair e Vogue.
Poi fu tutta discesa, Michael Jackson e Madonna che non potevano fare a
meno di lui, Tina Turner e Clint Eastwood trasfigurati, Armani, Versace, Cartier
a rubarselo a colpi di ingaggi strepitosi, e lui che ogni tanto si disingaggiava e
se ne andava a far cose sue, come la sua Africa masai, epica e nobile.
Di supermodelli ne ha avuti quanti ne ha voluti, ma ha amato solo quelli che
«ti danno tutto», come Jack Nicholson di cui, con il solo aiuto di una lente
d’ingrandimento, ha preso il ritratto più vero e luciferino; o come Madonna
«che ho fotografato tante volte quante sono le sue personalità».
[Una versione di questo articolo è apparsa in Le Guide di Repubblica il 7
ottobre 2013]
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Tu chiamale, se vuoi, emozioni
La mia intervista a Herb Ritts, da Il Venerdì, 2001
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Herb Ritts, Profilo di Madonna in True Blue, Hollywood, 1986, © Herb Ritts Foundation, g.c.
Deserto della Californa, estate del ‘78. Un uomo che sta per diventare Richard
Gere lascia Los Angeles sull’auto di un amico. Come in un film, la gomma si
buca in mezzo al paesaggio lunare. «Damn…», ma come in un film c’è una
decrepita stazione di servizio, dove con infinita calma un meccanico cambierà il
pneumatico. L’uomo che non è ancora Richard Gere si rassegna, aspetta, dà un
calcio annoiato ai sassi.
L’amico ricorda di avere una machina fotografica nel baule. La prende,
inquadra,scatta. «Poi ti mando le foto».
Stacco. Richard Gere è diventato Richard Gere. Quelle fotografie fatte per
noia finiscono su Vanity Fair e Vogue. L’uomo che le ha scattate riceve
telefonate di editori: “Ha fatto altre foto così? Vuole lavorare per noi?”. Smette
di vendere mobili e si convince che la sua vita è la fotografia.
Quell’uomo si chiama Herb Ritts. Oggi ha 48 anni ed è uno dei
fotografi glamour più famosi del mondo, con un talento particolare per il nudo
e un fiuto speciale per le immagini che possono diventare simboli, emblemi,
icone. Calvin Klein, Armani, Versace, Cartier se lo contendono.
27
Lui sempre più spesso si scrittura da solo, per progetti che con la moda
hanno ben poco da vedere, come il suo reportage sull’Africa; o per inseguire la
sua autentica vocazione, il ritratto.
Attori, uomini politici, artisti, amici, top model, rockstar: centinaia di volti e
di corpi indagati con sfrontata simpatia e occhio penetrante. Quei ritratti, molti
dei quali inediti, saranno presto esposti a Roma. Ne approfittiamo per fargli
qualche domanda.
Davvero cominciò tutto con una gomma bucata? Lei crede nel caso o
nel destino?
«Penso che prima o poi dovesse accadere. Credo di avere sempre avuto una
sensibilità per le immagini, ma allora non stavo certo pensando a farne il mio
mestiere. Avevo una macchina fotografica, guardai dentro il mirino e cominciai
a comporre un’immagine. Tutto qui. Quelle foto di Richard furono più
un’occasione che un caso».
Dunque la fotografia è venuta a cercarla. Poi, per 25 anni, lei ha
cercato la fotografia. Ovunque: dal glamour delle sfilate all’Africa che
ha fame. Perché questa irrequietezza? Cosa sta cercando ?
«Mi piace mescolare le cose, passare dal fascino dell’eleganza agli aspetti più
crudi della vita. Non mi interessa se sto fotografando una celebrità o uno
sconosciuto: quel che cerco è un’emozione. Il progetto Africa è stata una
grande esperienza».
Lei ha girato spot pubblicitari e videoclip per star del rock, vorrebbe
fare il regista di un film. Dirà addio alla fotografia?
«La fotografia sarà sempre il mio primo strumento. La sento vicina, anche se
mi piace girare video e spot. Credo che lavorare con diversi tipi di immagine
possa ampliare la visione del fotografo. D’altra parte, il mio stile di fotografia si
traduce benissimo in video…».
E se fosse la fotografia ad abbandonare lei? Nell’era digitale resta ben
poco della fotografia che conoscevamo…
«Non credo assolutamente che la fotografia sia morta. Trovo stimolanti le
possibilità offerte dall’elaborazione digitale. Credo che la gente vada in cerca di
immagini che comunicano sentimenti: e le foto digitali sono spesso più forti e
reali di quelle tradizionali».
Nelle sue fotografie di moda, la fotografia sembra più importante della
moda. Ma Versace o Armani non la ingaggiano per vendere i loro abiti?
«Io cerco di creare un’immagine che mi soddisfi, che mi dia qualcosa. I vestiti
hanno un ruolo importante in questo processo. E un’immagine interessante
aiuta sempre a vendere un vestito».
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Helmut Newton ama dire: «Sono un voyeur. Se un fotografo dice di
non esserlo, mente». Lei tratta il nudo con raffinata sensualità. Si
sente un voyeur?
«No, proprio no. Per me il nudo è solo un pretesto per creare una forma che
catturi un’emozione».
Nei suoi ritratti di artisti, invece, cosa cerca? Sembra che le piaccia
stravolgerne l’immagine… Ricordo una Demi Moore di spalle, rasata,
simile a un lottatore, non certo il sex-symbol che tutti conoscono…
«Ho ritratto Demi mentre girava un film in cui appariva con la testa rasata. Mi
piaceva fotografarla proprio così. Forte e naturale, senza trucco».
A volte lei si concentra sul corpo, a volte sul viso. Dove si nasconde la
personalità?
«Non c’è una regola. Dipende dalla persona che hai davanti».
Allora facciamo un esempio: Madonna. L’ha ritratta decine di volte, in
modo sempre diverso: vamp, aggressiva, bambina, Minnie… Pensa di
averne catturato la personalità?
«Sono straordinariamente colpito da Madonna. Le ho fatto molti ritratti per
cercare di fermare le sue diverse identità. Non finge: ogni sua incarnazione
riflette come si sente in quel preciso momento. Le piace recitare ruoli
differenti: è una grande artista».
Che genere di persone le piace di più fotografare: politici, attori,
rockstar, modelle?
«I politici hanno sempre poco tempo. Con loro devi decidere e scattare molto
in fretta. Invece attori come Jack Nicholson o musicisti come Madonna ti danno
tutto, sono eccezionali per lavorarci insieme. Ti buttano addosso un’energia
fenomenale, amano l’obbiettivo. Ho passato straordinarie giornate con loro».
Ma in generale cos’è una seduta di ritratto: una lotta o un duetto
d’amore?
«Quello che conta è creare un’atmosfera rilassata. Se c’è conflitto non otterrai
mai lo scatto che cerchi».
Negli anni Trenta il fotografo tedesco August Sander volle tramandare
con migliaia di ritratti il «volto del tempo». Fra settant’anni saranno i
suoi ritratti a restituire il volto del nostro?
«Posso solo sperare che anche fra molto tempo chi guarda le mie immagini
riesca a emozionarsi. In fondo, che tu fotografi persone famose o no, stai
sempre cercando l’anima dell’uomo. Sì, sarebbe bello che le mie foto
evocassero un giorno le stesse emozioni che quelle di Sander evocano in me».
Tag: Amistad, August Sander, Calvin Klein, Cartier, Clint Eastwood, Demi Moore, Djimon
Hounsou,Giorgio Armani, Herb Ritts, Jack Nicholson, Liz Taylor, Madonna, Richard Gere, Tina
Turner, Vainty Fair, Versace, Vogue
Scritto in Autori, ritratto, Venerati maestri | 31 Commenti »
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Al via il concorso fotografico ‘Leica Oskar Barnack Award’
da http://www.mi-lorenteggio.com/
Leica – storico brand tedesco di fotocamere digitali e ottiche di precisione,
nell’anno del suo centenario rinnova l’appuntamento con il ‘Leica Oskar
Barnack Award’, l’annuale concorso fotografico aperto a tutti i fotografi
professionisti.
Il contest, nato nel 1979, è intitolato a Oskar Barnack, pioniere della fotografia
che nel 1914 costruì la prima Ur–Leica. Fin da allora il concorso ha assunto
grande prestigio rinnovandosi di anno in anno.
L’edizione 2014 prevede infatti grandi novità: un riconoscimento in denaro per
il vincitore - 10.000 euro, il doppio rispetto alle passate edizioni - e una
leggendaria fotocamera Leica M con obiettivo, per un valore complessivo di
ulteriori 10.000 euro. Il vincitore della sezione principianti invece, di età
inferiore ai 25 anni, riceverà un premio in denaro di 5.000 euro e una
fotocamera Leica a telemetro, anch’essa completa di obiettivo.
I progetti presentati nell’ambito del concorso saranno valutati attentamente da
una giuria internazionale composta da cinque esperti che giudicheranno la
capacità di osservazione dei fotografi e il loro talento nell’esprimere al meglio
“l’interazione tra l’uomo e l’ambiente”.
La giuria di qualità sarà così composta: Karin Rehn-Kaufmann, direttore
generale di Leica Galleries International, Ingo Taubhorn, curatore capo della
Haus der Photographie (Deichtorhallen, Amburgo), Xavier Canonne, direttore
del Musée de la Photographie (Charleroi, Belgio), Brigitte Schaller, Art Director
della rivista LFI e, infine, Evgenia Arbugaeva, fotografa russa vincitrice del
‘Leica Oskar Barnack Award’ 2013.
Per partecipare al ‘Leica Oskar Barnack Award’ 2014 basta accedere al sito
ufficiale dell’iniziativa www.leica-oskar-barnack-award.com e caricare i propri
scatti fotografici entro e non oltre il prossimo 31 gennaio.
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La consegna dei premi e l’annuncio del vincitore avverranno poi nel corso del
Festival della fotografia Rencontres Internationales de la Photographie, che si
terrà ad Arles, dal 7 al 13 luglio 2014.
Tra le novità di quest’anno anche l’introduzione di un riconoscimento pubblico:
da marzo, infatti, su www.i-shot-it.com - la piattaforma online dedicata ai
concorsi fotografici - sarà possibile votare pubblicamente il progetto preferito.
Il premio di 2.500 euro in contanti andrà al più votato, mentre per gli altri
partecipanti saranno estratte a sorte alcune fotocamere digitali compatte Leica.
I termini e le condizioni di partecipazione, i moduli di iscrizione e ulteriori
dettagli sul ‘Leica Oskar Barnack Award’ 2014 si possono trovare alla pagina
web www.leica-oskar-barnack-award.com
Intrepido, tremebondo, visagista, dialettico o solo utile?
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Fabio Bucciarelli, Battle to Death, Aleppo, Siria, 2012 © Fabio Bucciarelli, premio Ponchielli 2013,
courtesy Grin
Critico e docente, amico e collaboratore di Sebastião Salgado e di molti altri
grandi reporter, Fred Ritchin nel suorecentissimo Bending the Frame propone
una distinzione, storica professionale ed etica, fra il il “fotografo intrepido” e il
“fotografo dialettico”.
Il “fotografo intrepido” è quello che abbiamo conosciuto nel nostro corto
Novecento: un professionista della visione col mandato di portare a casa tutto
quel che c’è da vedere.
Unico fornitore autorizzato di conoscenza visuale degli eventi, finestra sul
mondo per chi resta nel salotto di casa. Secondo la mission dettata da Henry
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Luce a Life, «To see life; to see the world; to eyewitness great events; to
watch the faces of the poor and the gestures of the proud».
Un crac non troppo imprevedibile ha schiantato questo modello alla fine del
secolo scorso. Fronteggiata con perdite negli anni Sessanta la concorrenza
della televisione, il fotografo intrepido ha ceduto le armi davanti all’ubiquità
della fotografia condivisa sulla Rete.
Al suo posto, rimane precario e frustrato un fotografo tremebondo. La sua
esistenza è dominata da tre grandi paure, le elenca Ritchin, ma nel piccolo del
mio blog le ho toccate inevitabilemente una dopo l’altra, rendendomi conto di
quanto siano scoperti i nervi: la caduta verticale delle remunerazioni; la
concorrenza “sleale” dei non-professionisti; la violazione sistematica
del copyright.
Tre cose diverse con un comune denominatore: la crisi quasi irreversibile,
perchè è una crisi di fiducia, del rapporto con i mainstream media. In questo
caso la parola “divorzio” è più che una metafora, perché il fenomeno a cui
stiamo assitendo è la vera fine di unménage, la fine di un amore, con rinfacci
di colpe e tradimenti, la separazione non consensuale, il problema di dove
mettere i figli, il problema degli alimenti.
I fotoreporter nei panni della moglie tradita rispondono con le comuni
strategie dell’orgoglio ferito: cercano altre relazioni, provano a rifarsi una vita
da soli. Il fotografo si fa battitore libero su “progetti” personali, cerca da sé
finanziatori, si inventa spazi per produrre e canali per raggiungere i suoi lettori.
Di tutto ciò abbiamo peraltro bellissimi esempi, perfino entusiasmanti.
Ma al di là dei successi o degli insuccessi, questa strategia ha un risvolto
rilevante: cambia l’atteggiamento del fotografo rispetto alla mission del suo
mestiere, cambia la percezione del suo ruolo nel sistema dell’informazione, che
si fa più individuale, soggettivo, parziale.
Certo il reporter fotografo ha sempre posseduto e spesso esibito un
punto di vista. Ma se lo è sempre giocato all’interno di una filiera
dell’informazione, dove il suo prodotto doveva necessariamente essere mediato
con il lavoro di altri, con il canale, lo staff del giornale, l’editor, l’agenzia.
Solo davanti al computer (e qui anche i generosi tentativi dei collettivi
fotogiornalistici non cambiano sostanzialmente la questione), con i libri che si
autoproduce on demand, sta in un rapporto sempre meno mediato col lettore
che a sua volta è per lui sempre più generico e difficile da immaginare.
Il fotografo ora è programmaticamente un autore (colui che crea) più che
un reporter(colui che “porta a casa”), un commentatore più che un fornitore di
“materia
prima
semilavorata”,
un osservatore del
mondo
più
che
un comunicatore.
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Il suo lavoro di prelievo primario e di prima elaborazione lascia il posto a
un lavoro di secondo grado, analitico e autoriflessivo. Vediamo sempre più
servizi che ci parlano prima di tutto del modo e delle condizioni in cui sono stati
prodotti, è sempre più evidente e invadente la presenza dell’autore che mostra
se stesso mentre osserva il mondo. Il fotografo giornalista impercettibilmente
scavalca la frontiera, passa dalla parte di quelli che guardano e giudicano le
visioni, non di quelli che le producono e le sottopongono a giudizio.
Questa tendenza sembra fare da specchio e contrappeso a quella,
altrettanto imponente, dell’assottigliamento delle barriere fra giornalista e
lettore, tra produttore e consumatore di informazione, fra comunicazione
selezionata e gerarchizzata (informazione) e non selezionata e non
gerarchizzata (condivisione), distinzioni sempre più labili nell’ambiente digitale,
riassunte dall’(orribile) neologismo prosumer.
Un grande fotogiornalista italiano, Federico Patellani, nel dopoguerra
rispose allo spaesamento dei suoi colleghi usciti da vent’anni di regime
tracciando il profilo di un”fotogiornalista nuova formula”. Temo che il
“giornalista nuovissima formula” che emerge oggi, senza grandi teorizzazioni,
sia il contraltare simmetrico del prosumer.
Storditi da un disagio ben visibile, diorientati da una crisi che li lascia senza
mercato, senza committenti e quindi anche senza mission, i professionisti della
visione si interrogano sulla necessità di trovare nuovi linguaggi, scrutano con
interesse, anche invidia, i linguaggi della fotografia ubiqua e portatile, percepiti
come più freschi, comunicativi, interessanti, cercano di farli propri
(iPhonejournalism, giornalismo Instagram,blogging journalism ecc.) spesso più
con appropriazioni formali che con vera comprensione del loro successo.
Alcuni invece cercauno una via di fuga in direzione opposta. Provano a
ritirarsi “al piano di sopra”, facendosi registi di un remix (mutuando pratiche
dal campo artistico: appropriazione, mash-up, rimediatizzazione, archive art)
di materiali visuali trovati in Rete e riorganizzati. L’informazione è sempre
riorganizzazione, ma qui l’ottica non è quella del filtro analitico, del factchecking, dell’editor giornalistico, ma una modalità di tipo emotivo, creativo,
artistico appunto.
Da qui il passo è breve, per il fotogiornalista, verso il trasloco armi e
bagagli nel sistema dell’arte e nei suoi meccanismi di condivisione e di
mercato; un caldo rifugio che magari non mantiene, ma di sicuro attualmente
sembra promettere di più del sistema dei media. Questo trasloco ovviamente
non è senza conseguenze sul piano delle strategie comunicarive, dei linguaggi,
del prodotto finale.
Quel che rischia di perdersi per la strada è la mission del fotogiornalista
come è stata finora intesa, e a mio modestissimo parere è ancora: la
testimonianza professionale di eventi e processi storici colti nel corso del loro
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dispiegarsi, fondata sulla ricerca e sul prelievo di indizi, informazioni sul
campo, poi sulla loro trasmissione selezionata alla comunità che li attende per
assumerli, interrogarli in funzione della costruzione di opinioni personali e di
decisioni civili.
Bene, la vera torsione del fotogiornalismo, il suo vero e per me pericoloso
allontanamento da questa missione, oggi non sta tanto nella menzogna
conclamata, nella finzione, nella tendenziosità truffaldina. Sono rari i
fotogiornalisti che incollano, cancellano, organizzano dettagli, stravolgono il
testo del prelievo originario per accrditare una falsa versione dei fatti.
È molto più dilagante e sottile, in una situazione di fortissima concorrenza e
di riduzione dei canali, la tentazione di forzare le immagini pigiando sul pedale
emotivo, stilistico, impressionistico, di alterare la superficie delle immagini per
renderle capaci di “bucare” l’accesso sempre più difficile alla visibilità (e qui il
ruolo dei premi fotogiornalistici è stato spesso esiziale nell’incoraggiare questa
tendenza).
Alessandro Scotti, da Maps of Illicit Drugs Routes and Trends, premio Ponchielli 2004, © Alessandro
Scotti, courtesy Grin
Il fotogiornalismo attuale è invaso da immagini che con una metafora da
camera oscura definirei “bruciate”, lasciate troppo nel bagno rivelatore,
caricate di troppe connotazioni tonali, coloristiche, decoloristiche, usate come
attrattori visuali, dadi di glutammato per un brodo che si teme poco saporito, o
come piumaggi pittorici, livree seduttive battere i rivali nell’accoppiamento don
il media, sono immagini che gridano “Guarda me! Scegli me!”.
Sono immagini dove la connotazioneprevale ed emargina la denotazione
(senza denotazione non c’è giornalismo) che tendono prima o poi a scavalcare
il confine (sfumato, ma esistente) fra news e fiction, che scelgono la
costruzione a danno del “riportaggo”, che in definitiva puntano la prua oltre i
confini del giornalismo.
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Qui la tecnologia digitale non è la grande colpevole. È solo la grande
facilitatrice. Di per sé, e di nuovo vi invito a leggere nel libro di Ritchin una
lunga serie di esempi davvero sorprendenti, la miracolosa verabilità
dell’oggetto elettronico può fornire al “fotogiornalista nuovissima formula”
opportunità entusiasmanti per andare oltre la tradizione senza uscire dal
giornalismo.
E invece la tecnologia digitale viene sfruttata troppo spesso solo
come trousse da trucco, come un bel set di vaschette pennelli e spazzolini
da makeup emotivo cattura-sguardi, che seppellisono il prelievo primario sotto
un cerone levigato, una crosta che abolisce le imperfezioni, maschera i nei
della realtà (che spesso sono complessità e fertili contraddizioni), sempre più
compatta, sempre meno dialettica.
Il lettore di queste fotografie viene lasciato senza appigli, senza fessure
attraverso cui entrare nell’immagine, interrogarla, smontarla, farla propria. Da
queste immagini senza ingressi, tutte sulla superficie (e dunque superficiali) il
lettore viene messo di fronte a un brusco prendi-o-lascia, libero solo di
esclamare “oooh hai visto questa!”, e girare pagina.
Allora, viva le immagini imperfette e irrisolte, viva le immagini che
resistono al primo sguardo, che non fingono di parlare da sole, viva le
immagini dialettiche. Ecco, dopo il fotografo intrepido, al posto del fotografo
tremebondo, invece del fotografo visagista io metterei il fotografo dialettico,
come lo chiama Ritchin, più semplicemente il fotografo “utile”.
Utile a chi? Ma santo cielo, agli altri, scusate se lo dico alla papa Bergoglio:
ai suoi fratelli umani. Alla società democratica, se volete che lo dica in termini
più tradizionalmente laici.
E la società democratica delle immagini non è quel vaso di Pandora che è
il Web. È fragile, questa presunta generosità della Rete. Direbbe Massimo
Troisi, siete milioni a scattare e io sono da solo a guardare…. E infatti la
censura per sovrabbondanza è già all’opera. Nessuno di noi può materialmente
non dico vedere e selezionare, ma neppure venire a conoscenza di tutte le
immagini teoricamente a sua disposizione su un argomento che gli interessa.
Chi cerca, si fermerà alle prime che trova, ovvero a quelle che sanno farsi
strada meglio nella giungla smisurata dei byte, ovvero ai canali più aggressivi,
ma crederà, perché digitare qualche parolina su Google gli dà questa
sensazione, di avere fatto una ricerca libera e di avere trovato da solo le
informazioni invece di farsele selezionare da qualcun altro.
Mi stupisce che ci siano così poche reazioni critiche a questo plateale
rovesciamento drammatico della verità delle cose. La presenza di mediatori
professionali dell’informazione (di molti mediatori, perchéil pluralismo è la
ovvia garanzia di democrazia, ma devono essere mediatori riconoscibili,
35
responsabili, identificabili) è una garanzia, non una minaccia alla democrazia
dell’informazione. Ma qui ci allontaniamo dall’argomento.
Fermiamoci al mestiere del fotoreporter: allora dico, se me lo eprmettete:
nervi saldi, nessun complesso di inferiorità o di marginalità, nessuna rincorsa
alle mode visuali facili, cercate di riprendere in mano quel che solo un
professionista dell’informazione visuale può dare, e di darlo usando ciò che di
meglio e di rivoluzionario offrono i nuovi strumenti.
La tecnologia non vi regala solo una versione elettronica dei pennelli di
ritocco per diventare pittogiornsalisti, col rischio di non essere molto più
credibili di Giotto quando dipinge il suo reportage sulla vita di San Francesco…
Offre strumenti di connessione orizzontale, feedback, iperlinkaggio con altri
contenuti di diversa natura, che il fotoreporter del nuovo millennio deve saper
usare.
Dà strumenti di comunicazione, scambio e condivisione con il lettore,
vostro partner non vostro cliente, perché accetta un nuovo patto con il
mediatore, una divisione del lavoro: tu prelevi, selezioni, metti in forma un
complesso visuale che mi segnala la presenza di qualcosa: io mi prendo il
compito di interrogare il tuo messaggio, metterlo alla prova di altri messaggi,
al fine di trarne elementi per agire come cittadino decisore informato.
A un mito bisogna rinunciare di sicuro: non siete più cavalieri di ventura,
magnifici e solitari, che percorrono il mondo a cavallo di un nerissimo 35
millimetri liberando donzelle e uccidendo draghi in singolar tenzone.
La scena dell’informazione è sempre stata un’opera collettiva come un set
cinematografico. Ma ora è anche condivisa e interattiva come una performance
del Living Theater. Il lector è in fabula, ma anche lui può sbagliare misura,
rischio è che si illuda di poter restare solo in campo, dominus assoluto
dell’informazione: per il suo bene, il fotografo deve restarci e impedirglielo.
Ma deve rinunciare a qualche scudo istoriato, a qualche cavallo bianco, e
reinterpretarsi come il funzionario intelligente, attrezzato, modesto e capace di
una collettività informata.
[Appunti per l'introduzione alla Lectio magistralis di Giovanna Calvenzi su 10 anni
dipremio Ponchielli - Grin, presso la Triennale di Milano, 14 novembre 2013, a cura diAfip e Cna
Professioni]
Tag: concorsi, Federico Patellani, fotogiornalismo, Fred Ritchin, Henry Luce, Massimo
Troisi, media,premi, Sebastião Salgado
Scritto in fotogiornalismo, Immagine e Internet | 54 Commenti »
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Artuner, la fotografia dalla A alla Z
di Domenico Quaranta da http://www.businesspeople.it/
opere di Luigi Ghirri
Fra i più grandi maestri della fotografia del secondo Novecento,Luigi
Ghirri (1943 – 1992) inizia oggi a essere considerato uno dei più grandi artisti
italiani tout-court. Chiusa l’antologica dedicatagli dal MAXXI di Roma, e dopo il
tributo fatto dal Padiglione Italiano alla Biennale di Venezia, il modo migliore
per apprezzarne il lavoro resta, fino al 31 dicembre, la mostra An Italian
Journey: Modern and Vintage Prints by Luigi Ghirri. Per visitarla non
bisogna intraprendere lunghi viaggi: basta aprire il proprio browser e digitare
l’indirizzo www.artuner.com. Lanciato a metà ottobre, Artuner è la creatura di
un giovane fresco di madister alla London School of Economics (dove il
progetto è stato elaborato). Ma l’età non deve ingannare: perché Eugenio Re
Rebaudengo il collezionismo ce l’ha nel sangue, e se come imprenditore è agli
esordi, nel mondo dell’arte è già accreditato dalla sua presenza in diversi board
e iniziative.
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Eugenio Re Rebaudengo eredita la passione per l’arte dalla madre Patrizia,
grande collezionista e madrina della fondazione piemontese (con sedi a Torino
e a Guarene d’Alba) che da lei prende il nome.
Membro del cda della Fondazione dal 2008, Eugenio parte da Londra con
Artuner, insieme a un giovane team internazionale
Artuner potrebbe essere confuso con un sito d’aste o una galleria on line, se
non fosse che il termine “buy” compare solo nella quinta riga della sua pagina
di presentazione, preceduto da espressioni come “mostre curate con
competenza”, “intima esperienza visiva”, “lavori di qualità museale”,
“testimonianze di esperti”. «Il vero valore aggiunto è il forte taglio curatoriale
», spiega Re Rebaudengo. «Non vuole essere un aggregatore passivo dove
mostrare le opere disponibili o i magazzini invenduti delle gallerie. Con Artuner
si vuole offrire una piattaforma proattiva che proponga con attenzione un
limitato numero di opere».
La scelta di Internet va nella direzione di aprire l’arte contemporanea a un
collezionismo nuovo, interessato ma magari intimidito dalle dinamiche del
mondo dell’arte. «Vedo nella Rete una grande opportunità di realizzare
qualcosa di davvero innovativo, presentando opere e sviluppando contenuti
esclusivi in modo aperto e rivolgendomi a un pubblico vasto e internazionale ».
Da qui, anche una forte impostazione educativa: «Acquistare arte può essere
un’esperienza che intimidisce e complessa. Per questo motivo l’offerta di
contenuti educativi, chiamati Insights, è parte integrante e fondamentale in
Artuner.
Non vuole offrire solo accesso all’acquisto di opere, ma aiutare il collezionista
nella conoscenza dell’artista e delle mostre sul sito. Inoltre, grazie alla
collaborazione con esperti, offre consigli utili per il collezionista, da come
incorniciare le opere al corretto modo di appenderle».
E a chi pensasse che Internet aumenti la distanza tra la galleria e il suo
pubblico, Re Rebaudengo risponde: «Anche sviluppando un sito on line,
continuo a credere nell’importanza delle relazioni personali: per questo io e il
mio team siamo sempre a disposizione per dialogare e consigliare direttamente
chiunque ci contatti».
Una scelta di personalizzazione che condiziona anche la selezione proposta:
«Tenderò a suggerire su Artuner artisti che seguo anche a livello personale e
che, quindi, potrebbero essere presenti o entrare nella collezione di famiglia.
Mi sembra una dimostrazione di grande serietà verso il nostro pubblico».
E chi non fosse interessato alla fotografia è invitato a tornare su Artuner a
gennaio: «La seconda selezione che presenteremo sarà costituita da giovani
pittori internazionali che si stanno già affermando sul mercato internazionale ».
È proprio il caso di dirlo: Stay tuned!
Nata a Torino nel 1995, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo è oggi una delle istituzioni più attive, vitali e
internazionali della scena italiana dell’arte contemporanea. In questi giorni presenta Soft Pictures, una collettiva
dedicata all’uso dei mezzi tessili nell’arte (fino al 23 marzo 2014) e due progetti sperimentali: Veerle, una “mostra di
mostre” in costante evoluzione; e A Linking Park, una selezione di contenuti on line accessibili tramite smartphone
fotografando i codici installati sulla facciata della fondazione (fino al 12 gennaio).
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Questo vuoto è troppo pieno
di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
La fotografia vincitrice del concorso “Il racconto dell’assenza”, di Sergio Cuvato
Una panchina vuota. Un lontano orizzonte marino. Meglio ancora: una
panchina vuota davanti a un lontano orizzonte marino. Equivalenti visuali del
nulla, sono queste, quasi a pari merito, le due “immagini dell’assenza” più
evocate tra le oltrequattromila ricevute sul nostro sito Web da voi, lettorifotografi di Repubblica.
Lo ammettiamo, non era facile. La sfida che repubblica.it vi ha proposto in
occasione del Festival Fotografia di Roma che quest’anno aveva per tema,
appunto, l’assenza, la latinaVacatio, è la missione impossibile del fotografo.
Non si può fotografare il nulla.
Il fotografo che volesse, come il pittore, lasciare la sua tela in bianco,
dovrebbe negare se stesso, rifiutarsi di premere il pulsante dell’otturatore. Ma
se scatta, allora davanti al suo obiettivo c’è inevitabilmente qualcosa.
Dunque il vuoto in una fotografia non è mai il nulla. Chi vuole fotografare
il vuoto, deve farlo per metafore, mettendo in posa oggetti “pieni di vuoto”.
La vostra inventiva di fotolettori è stata generosa. Il trionfo, prevedibile, di
sedie, poltrone e panchine disabitate non ha escluso la ricerca di immagini via
via più ardite, avete cercato il vuoto nelle case abbandonate, nei campi non
coltivati, nelle strade spopolate, nei binari morti, nei letti sfatti e vuoti, ma
anche negli sguardi che chiamiamo appunto “vuoti” (pochi cimiteri per
fortuna: troppo ovivio), nei gesti senza risposta, negli oggetti orfani, nei giochi
abbandonati su una spiaggia, nell’assenza di bello dei luoghi degradati,
nell’assenza di diritti di un disoccupato o di un barbone, nella solitudine di un
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immigrato che nessuno guarda sulla banchina della metro, foto che mi
permetto di segnalare, anche se non era fra le finaliste, come abusivo e
infruttuoso “premio speciale di Fotocrazia”.
Fotografia di Francesco Lo Sapio, Parigi
Assenza, dunque, per voi, è qualcosa che è stato tolto,che manca
all’appello, privazione, furto, abbandono, menomazione e rimpianto. E questa,
in fondo, non è altro che la bisecolare ossessione della fotografia, la sua ansia
di conservare quel che inizierà a scomparire un attimo dopo lo scatto, la sua
frenesia di catturare il transitorio e renderlo immortale: la sua prometeica
battaglia contro la morte.
Ma c’è un’altra assenza, uguale e contraria, che la fotografia ha coltivato
come sua specialità. La sfida alla realtà, il desiderio di produrre quel che non
c’è o che non si riesce a vedere. Visioni rarefatte e libere dall’eccessiva,
fastidiosa materialità delle cose.
Già a metà Ottocento, le essenzialissime “marine” di Gustave Le Gray furono
il segno di questa ribellione, poi fu la scuola americana di metà Novecento a
mirare al bersaglio che non c’è: con l’impossibile fotografia astratta di Minor
White o Paul Caponigro, con i paesaggi prosciugati di Lewis Baltz.
La “sprezzatura”, del resto, il “lavoro in togliere”, fu una specialità dei primi
artisti “autori”, i pittori del Rinascimento. E anche voi avete esplorato il terreno
delle immagini desideranti, vuote perché pure, i paesaggi incontaminati, gli
animali privi di cultura. Un tinello senza tivù e con un fiore nella bottiglia:
desiderio di downgrading della civiltà dei consumi, foto della decrescita felice.
Il vuoto come attesa, come speranza di migliori pieni. Il peluche in
paziente attesa sul letto di un bambino. Il vuoto come opportunità, non perdita
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ma ricerca. Ecco allora la vostra seconda metafora fortunata, il molo: un
sentiero umano che si protende sul luogo più vuoto, dis-orientato e suggestivo
che esista sulla faccia della terra: il mare.
Ma se la fotografia, arte dell’esistenza, riesce così bene a fare i conti con
la mancanza, allora forse non bisognava cercare così lontano l’oggetto perfetto
per raffigurare l’assenza. Eccolo nelle mani di una donna che mostra la foto
della figlia lontana.
Bastava dunque fotografare una fotografia. Perché la fotografia, prima
ancora di raffigurare l’assenza, è, ed è sempre stata, l’Assenza fatta immagine.
[Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 9 dicembre 2013]
Tag: assenza, fotografia, Fotografia Festival, Gustave Le Gray, Minor White, Paul
Caponigro,sprezzatura, vacatio, vuoto
Scritto in Da vedere, fotoamatori, fotografia e società, premi | 31 Commenti »
Camera, Martinez e i Grandi della fotografia
Camera 1953/1964, gli anni di Romeo Martinez in mostra a Venezia
di Matteo dell'Ava da http://www.vogue.it/
novembre 1954. Foto di Werner Bischof. Photo courtesy Press Offic
Catalogo della II Biennale Internazionale della Fotografia, Venezia 1959.
foto di Arik Nepo. Photo courtesy Press Office
Camera, aprile 1959. Foto di Bruce Davidson. Photo courtesy Press Office
41
Camera, maggio 1957. Biennale Venezia, Esposizione
Vogue. Photo courtesy Press Office
Camera, novembre 1959. Foto di Richard Avedon. Photo courtesy Press Office
Chissà cosa direbbe Romeo Martinez di Instagram, dei selfie e della facilità di
immortalare ogni momento con l’obiettivo di uno smartphone. Non lo sapremo
mai, ma probabilmente il direttore di Camera, dal ’53 al ’64, sarebbe pazzo di
gioia. A mostrarci una parte del suo appassionato lavoro di ricerca iconografica
sono la Dottoressa Francesca Dolzani e Silvio Fuso, curatori della
mostra Camera 1953/1964.
In quegl’anni, il periodico svizzero (edito da Carl-Josef Bucher) attraverso il
lavoro
appassionato
di
Romeo
Martinez
lanciò
decine
di
giovani fotografi passati oggi alla storia, spinse con forza il dialogo tra
immagine e osservatore, dettò o meglio evidenziò i nuovi linguaggi della
fotografia applicati ad ambiti, al tempo, non usuali come i servizi di moda, i
reportage industriali o quelli scientifici.
La fotografia era per Martinez lo specchio del mondo contemporaneo, e
il fotografo doveva fungere da cassa di risonanza. Per questo, il direttore
di origine spagnola e curatore delle Biennali Internazionali di Fotografia di
Venezia cercò di elevare la professione di fotografo da semplice operatore al
rango d’autore.
A 50 anni dalla direzione di Martinez, Ca’Pesaro, con le sue due sale, le
cinquanta copertine di Camera, gli 80 volumi de I Grandi Fotografi (edito
insieme a Bryn Campbell per Fabbri), le centinaia di immagini private cerca di
imprimere il giusto ricordo al lavoro di colui che ha raccontato ed è stato
profeta della fotografia internazionale.
Due curiosità. La 1a Biennale Internazionale di Fotografia del 1957 era proprio
legata al lavoro dei fotografi di Vogue di cui abbiamo un’immagine. La rivista
svizzera Camera uscì con l’ultimo numero nel 1981, ma da un anno
l’editore francese Bruno Bonnabry-Duval ha voluto rieditarla. Il numero
42
di Febbraio ospiterà proprio Romeo Martinez attraverso le parole del nuovo
direttore Allan Porter.
La mostra sarà aperta al pubblico dal 12 dicembre al 16 febbraio 2014 presso
Ca' Pesaro, la Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Venezia.
Fotografate ora, fotografate tutto
di Michele Smargiassi da http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/
Foto: Ap
C’è una buona notizia fra le pessime notizie che vengono dalla Spagna. A volte
capita.
Le pessime notizie riguardano il progetto di legge sull’ordine pubblico che il
governo conservatore di Mariano Rajoy sta mettendo a punto e che, a quanto
pare, darebbe alla polizia un potere repressivo sulle manifestazioni di piazza
pressoché incondizionato.
Vi consiglio di leggere quel che ne pensa lo
nell’articolo uscito ieri su La Repubblica.
scrittore
Javier
Marías
La buona notizia, paradossalmente, è che questa legge se la prende anche
con le fotografie. Buona notizia perché è un’ammissione di debolezza, e
suggerisce una risposta.
Sarà dunque vietato, a quanto è dato leggere, durante le manifestazioni e i
cortei, prendere e diffondere immagini di poliziotti “che prefigurino rischi di
qualsiasi genere per la sicurezza”.
Se non bastasse quel “qualsiasi genere” a rendere assoluto il divieto, la
futura legge a quanto pare prevederà che a decidere sul campo ciò che
costituisce “rischio per la sicurezza” siano i poliziotti stessi, alle cui deposizioni
verrebbe applicato il principio della “presunzione di verità”. Insomma, se un
poliziotto ti accusa, sarai tu a dover mostrare le prove che sei innocente.
43
Ma spesso, se non prove, almeno buoni indizi di innocenza per un
manifestante trattato ingiustamente sono appunto una fotografia o un
video presi dai manifestanti con i cellulari. E dunque la legge spagnola in
gestazione si avvita su se stessa come il Comma 22.
Cos’è allora che trovo paradossalmente confortante? Che il potere abbia
paura delle fotografie. Il miglior complimento involontario che i repressori
possano fare alla fotografia è proprio il tentativo di metterle un paraocchi.
Ed è anche la più limpida smentita alle annoiate dichiarazioni di morte
presunta delle funzioni sociali della fotografia, della sua utilità democratica, e
dello stesso legame fra la fotografia e la realtà. Rajoy seppellisce gli epigoni
stanchi di Baudrillard. Fossimo davvero soltanto in mezzo ai simulacri, non ci
sarebbe bisogno di quell’articolo di legge.
Dunque, la morale che viene dalla Spagna, ed è valida ovunque, è chiara e
semplice: se scendete in piazza per le vostre buone ragioni, se scendete in
piazza senza nulla da nascondere, mettendoci la faccia, fotografate e
dimostratelo. Qualunque legge sia allestita allo scopo di impedirvelo, le sarà
sempre materialmente impossibile evitare che centinaia, migliaia di persone,
ciascuna delle quali ha un fotofonino in tasca, lo adoperino.
Fotografate dunque, fotografate tutto quello che pensate sia il caso di
fotografare, e magari anche qualcosa in più. Tanto lo fate già, anche quando
non è necessario e anzi è irritante (ai concerti, a tavola…). Bene, almeno per
una volta guardare la realtà attraverso un display avrà un senso. Se non volete
fotografare tutti, è importante che almeno qualcuno lo faccia, e lo sappia fare.
Si può anche, nel caso, imparare a farlo meglio.
Fotografate perché la fotografia è un paese di cui siete cittadini per
nascita, di cui nessuno può ritirarvi il passaporto. Fotografate per rivendicare e
difendere questa cittadinanza.
Ma fotografate anche sapendo che fotografando esercitate anche voi un
potere: assumetevene la responsabilità.
Fotografate sapendo che fotografare non basterà, che una fotografia non
è mai una prova, che le fotografie non hanno un senso univoco, che il senso di
una immagine è sempre negoziato in un dialogo o in un conflitto, che quel
senso dipende dal contesto in cui la foto verrà guardata, che
un framing autoritario o prepotente può riuscire a stravolgerne il significato
apparente.
Fotografate mettendo nel conto il rischio che le vostre fotografie vi
tradiscano, che vi sfuggano dalle mani, che vengano usate contro di voi.
Preparatevi a sostenere le vostre ragioni, se ne avete, anche senza, e anche
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contro le immagini. Preparatevi dunque a difendere le vostre immagini con la
forza delle ragioni, e non solo perché “sono fotografie e dicono la verità”.
Fotografate sapendo che anche il potere costituito fotograferà voi.
Preparatevi a sostenere che anche quelle foto, come le vostre, non dicono
tutta la verità. Ma prima ancora, sfidate quelle foto uguali e contrarie alle
vostre soprattutto con i vostri comportamenti. Mostrandovi, e sfidando
chiunque altro a mostrarsi.
Fotografate sapendo che la fotografia è un campo di relazioni fra gli
uomini, è un prodotto delle relazioni fra gli uomini, e si porta dietro tutti i torti
e le ragioni delle relazioni fra gli uomini. Sapendo che una fotografia mostra
ma non dimostra, che bussa alla porta delle emozioni prima che a quella delle
ragioni, e questo la rende difficilissima da maneggiare.
Fotografate sapendo che se per caso voleste usare le vostre fotografie come
alibi, come un fazzoletto sul volto per coprire metodi di lotta violenti, ci
saranno altre fotografie che non vi copriranno. Fotografate dunque anche voi
stessi, dimostrate di non avere paura, voi per primi, delle immagini.
Fotografate sapendo che le fotografie non sono il risultato finale, ma la
palla e il campo da gioco di un conflitto sociale. E che quel conflitto non ha un
esito scontato. Comunque è meglio giocare la partita del senso appoggiandosi
a qualcosa, che una partita nel vuoto assoluto, dove i puri e semplici rapporti
di forza avrebbero campo libero.
Fotografate, conservate almeno per un po’ quelle immagini, e se c’è
bisogno diffondetele, condividetele sul Web, se volete mandatele ai giornali e
chiedete di pubblicarle. (E speriamo che a nessuno salti in testa di dire che la
vostra è concorrenza sleale alla fotografia professionale.)
Perché anche i fotografi professionali, in quei frangenti, hanno un loro
compito, che è diverso dal vostro. Le vostre fotografie saranno la vostra voce,
il vostro grido di parte. Le fotografie dei fotogiornalisti saranno il racconto
coerente e l’intepretazione di testimoni professionali, che si assumeranno la
responsabilità di quello che hanno visto, capito e raccontato.
E anche questo non piacerà a chi ha in mente leggi come quella spagnola .
Tag: cortei, fotografia, Javier Marias, manifestazioni, Mariano Rajoy, Spagna
Scritto in fotografia e società, massificazione, politica | 16 Commenti »
Franco Fontana, ottanta anni di passione per la fotografia
«Ho ricevuto auguri da tutto il mondo, nessuna autorità modenese s’è fatta viva»
«Ai giovani consiglio soltanto tanta umiltà: prima di diventare bisogna essere»
di Michele Fuoco da http://gazzettadimodena.gelocal.it/
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Li porta con leggerezza gli 80 anni che Franco Fontana ha compiuto ieri l'altro.
Forse perché l'assiduo lavoro di fotografo e le continue mostre anche in paesi
stranieri gli fanno dimenticare che il tempo trascorre inesorabilmente. Una
pioggia di telefonate, pure dall'estero per tutta la giornata di lunedì ma anche
ieri mattina il cellulare ha squillato più volte.
E le autorità della città?
«Nemmeno una. Evidente che nessuno è profeta in patria. Si sono ricordati a
Torino, dove il Giornale dell'Arte mi ha dedicato tre pagine...».
Hai regalato alla Galleria Civica una importante collezione di fotografie
e oltre 700 libri fotografici. Questo bel gesto ti è stato almeno in parte
ripagato?
«Mi sono sentito di farlo. Ciò rispetta il mio modo di vivere. Non ci si può
aspettare nulla, né accettare riconoscenza«.
Cosa significa fare fotografia?
«È come fare lo scrittore, il compositore. Mi esprimo con questo linguaggio.
Credo non sia una professione, ma una condizione, un proprio modo di
essere».
Quando ti sei accorto di essere un fotografo di primo piano?
«Non c'è stato un momento particolare. Sono tanti fatti che costituiscono
un’identità. Oltre 400 mostre nel mondo...».
E' provinciale la cultura a Modena?
«Qualcosa di notevole è stato fatto nella fotografia con la Fondazione Cassa di
Risparmio e pure con la Galleria Civica. Mi telefonano da altri luoghi per dirmi
che Modena sta diventando la città più importante per la fotografia".
Fra i fotografi quali consideri "mostri sacri"?
«André Kertész, Cartier-Bresson. Ho scambiato foto da 40 anni con tanti
maestri».
Perché la fotografia è molto amata?
«E' la disciplina artistica più facile come approccio, ma difficile come risultato.
E' l'uomo che fotografa, ma occorre che sia il paesaggio, ad esempio, che entri
dentro di me per farsi una sorta di "autoritratto". Il soggetto è un pretesto. E'
necessaria una corrispondenza, una parte di se stesso che si esprima con
l'immagine».
Chi sono i tuoi amici?
«Tanti. Difficile elencarli tutti. Ma cito Franco Vaccari, Giuliano Della Casa,
Franco Guerzoni».
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La fotografia porta ricchezza?
«Sì, ad alcuni artisti gestiti da galleristi che hanno investito grosse cifre, come
accade soprattutto negli Usa».
Tra le tue centinaia di mostre, ne ricordi qualcuna in particolare?
«Nel 2006, al Palazzo Reale di Milano. E poi al Musée Carnavalet e alla Maison
Européenne de la Photographie di Parigi, al Metropolitan Museum di Tokyo».
Le maggiori soddisfazioni...
«Di essere stato tra i 23 al mondo, degli anni '60 e '70, invitati a Tokyo per la
rassegna dei 150 anni della fotografia. Due gli italiani: io e Mario Giacomelli. Mi
riempie d'orgoglio che il Ministero della Cultura in Francia abbia scelto una mia
immagine (la Baia delle Zagare in Puglia) per fare un manifesto, destinato alle
sue ambasciate nel mondo, per la diffusione del pensiero francese».
Che cosa ti dà felicità?
«Quando vedo qualcosa che mi entusiasma, mi mantiene vivo. Credo molto
all'amicizia e all'amore".
Sei stato mai tentato di andar via da Modena ?
«Ne ho avuto l'occasione. Ho lavorato per quattro anni con la famosa rivista di
moda "Vogue America". Ho rinunciato al contratto di andare a vivere a New
York. Sono qui le mie radici».
Cosa fai quando non lavori?
«Leggo, vedo qualche film, incontro persone per raccontare anche barzellette.
Scrivo agli amici lettere con disegni elementari. Un divertimento. Non bisogna
mai soffocare il cuore del bambino che è in noi».
Quale consiglio daresti ai giovani che vogliono fare fotografia?
«Da 40 anni ho tenuto woorkshop al Guggenheim di New York, alle Accademie
di Bruxelles, all'Università di Tokyo, al Politecnico di Torino che mi ha conferito
la laurea "honoris causa", alla Luiss di Roma. Ai giovani non posso che
consigliare molta umiltà e prendere coscienza che prima di "diventare" bisogna
"essere". I risultati non si vedono dopo 100 metri, ma nelle gare di fondo».
Sui sentieri delle fotografie
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Robert Doisneau, Josette ha venti anni,
sobborgo di Parigi, 1947. © 2011 Gamma-Rapho / Getty Images, g.c.
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Penso di avere un piccolo debito con Walter Guadagnini, critico, curatore e
storico della fotografia, oltre che amico di antica data.
Tempo fa, sollecitato/solleticatodall’uscita quasi contemporanea di diverse
“storie della fotografia”, tra le quali anche una scritta da lui per i tipi di
Zanichelli, mi ero lanciato in alcune riflessioni critiche generali poco entusiaste
sullo stato della storiografia fotografica italiana e non solo.
Per chi non abbia voglia di rileggerle, sintetizzo le mie due perplessità più
forti (di cui sono ancora persuaso): sulla persistente convinzione che fosse
ancora possibile per un singolo studioso tracciare una storia generale di un
campo del sapere, il fotografico, ormai imponente per latitudine tematica e
longitudine cronologica; e sull’abitudine di farlo secondo un approccio a mio
parere ormai fuori corso, quello che considera la storia della fotografia come
una successione di singolari autori, scuole e tendenze, dominata da
un’attezione pressoché esclusiva alla fotografia artistica.
Ho sulle ginocchia il volum(on)e La Fotografia. Dalla stampa al museo
(1941-1980), appena uscito, terzo dei quattro tomi dell’ambizioso progetto che
l’editore Skira ha affidato alle cure, appunto, di Guadagnini. L’ultimo volume
uscirà nel 2014, ma a questo punto ce n’è già abbastanza per farsi un’opinione
d’insieme.
Bene, credo di dover aggiornare il giudizio: quest’opera “da libreria” ha
superato in buona parte le due boe delle mie vecchie perplessità. È un’opera
collettiva, affidata a studiosi di estrazione internazionale e di specializzazione
diversa. Ed è, sostanzialmente, uno sguardo che procede per attraversamenti
tematici, senza l’assillo della “copertura integrale”.
Fotografo anonimo, Il fotografo americano di origine
polacca Arthur Fellig con la sua macchina fotografica Speed Graphic, dicembre 1943. New York,
International Center of Photography © Epics / 2010 Getty Images, g.c.
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Mi piace pure che l’opera non abbia la parola “storia” nel titolo, anche se
immagino si sia trattato di una rinuncia non facile sotto il profilo del marketing
(una “storia della fotografia” è un oggetto editoriale facilmente inquadrabile dal
lettore), e ben sapendo che la classica parentesina con le due date suggerisce
lo stesso il concetto (e obbliga ancora i curatori a “stringere” la trasversalità
delle loro ricerche in segmenti temporali).
Di fatto, in consonanza con analoghi tentativi in area francese e
anglosassone, lo sguardo va più ad alcuni filoni importanti dell’evoluzione della
cultura del fotografico che sulla storia generale di un medium. Non essendo
questa una recensione, lascio ai lettori il piacere di scoprire i contenuti e le
scelte di questo (che comprende testi di Urs Stahel, Francesco Zanot, Camiel
van Winkel) e deei precedenti volumi.
Mi limito a sperare che siamo davvero a una svolta nell’editoria
fotografica: finalmente si comincia a rinunciare a quella scaduta pretesa
universalistico-enciclopedica velleitaria delle “storie generali” che altri campi
del sapere hanno giustamente lasciato da tempo in carico alla manualistica
scolastica, alle strenne pretenziose, ai gadget dei giornali e ai volumi
divulgativi a basso prezzo, e si affronta lo sguardo retrospettivo alla ricerca
delle singolari catene causali che hanno fatto della fotografia quello che è oggi.
Finalmente si lavora sulla storia della fotografia con lo spirito di chi risale
un sentiero, o un fiume, cioè senza voler per forza battere tutte le piste, ma
scrutando bene il terreno per individuare e disporre in ordine le tracce di
quell’animale selvatico ancora fuggitivo che è il fotografico.
Tag: Camiel van Winkel, Francesco Zanot, Skira, storia della fotografia, Urs Stahel, Walter Guadagnini
Scritto in da leggere, storia | 7 Commenti »
Il corpo solitario
di Alessandra Ronetti da http://www.indie-eye.it
Francesca Woodman
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L’autoscatto nella fotografia contemporanea, volume ricchissimo
scritto dal critico d’arte e saggista Giorgio Bonomi, è un luogo di
convergenza di una riflessione più ampia sullo statuto stesso
dell’immagine contemporanea
Il corpo solitario. L’autoscatto nella fotografia contemporanea, scritto dal critico
d’arte e saggista Giorgio Bonomi, ha l’ambizione più o meno dichiarata di
inserirsi nel dibattito culturale su due questioni centrali, da tempo protagoniste
delle ricognizioni sull’arte: il corpo e l’identità. Il tema dell’identità, soprattutto
in ambito anglosassone, ha goduto di grande fortuna critica, portando spesso a
riletture della categoria del ritratto e dell’autoritratto.
Il corpo è stato invece protagonista indiscusso dell’arte dalla Body Art in poi,
sia inteso come corpo dello spettatore, con il suo portato di partecipazione
attiva alla costruzione dell’opera, sia come soggetto dell’immagine, offerto allo
sguardo di un fruitore nella dimensione del travestimento o del basso
materialismo. In questo panorama variegato, Bonomi concentra la propria
attenzione su una specifica forma di immagine: l’autoritratto fotografico
realizzato con l’autoscatto.
Il tentativo di questa monografia, che assomiglia a una sorta di catalogo o
archivio digitale di fotografie, è di accostare, in base alle tematiche, artisti più
noti e codificati ad altri più giovani e sconosciuti. Il volume conta infatti più o
meno 700 artisti che lavorano con la tecnica dell’autoscatto fotografico, dagli
anni settanta ad oggi, rappresentati attraverso circa 2000 fotografie.
L’autoscatto viene interpretato non tanto in quanto tecnica, ma piuttosto come
metodo a cui sono attribuibili specifici significati.
Bononi procede a una divisione di questo vasto archivio di immagini in
categorie. La prima è la ricerca dell’identità, ossia una sorta di messa in scena
dell’io
dell’artista,
tra
cui
spiccano
le
introspezioni
di Schirin
Neshat e Francesca Woodman.
La seconda è il travestimento, dove la messa in scena è portata allo scoperto e
l’artista non attribuisce significati al proprio io, ma si traveste identificandosi
con un altro da sé, spesso attraverso una chiave ironica.
Si pensi a Andy Warhol e Cindy Shearman. A queste si aggiungono le
categorie della narrazione e del corpo nudo, a cui si contrappone il corpo
assente, categoria con la quale Bonomi identifica un gruppo di artisti che
lavorano celando il proprio corpo.
Ma il corpo può essere anche strumento di pura sperimentazione nelle mani di
artisti come Franco Vaccari, oppure di denuncia e scandalo come in Nan
Goldin, Gilbert & George e inMario Pischedda, che Bonomi inserisce in
questa categoria pubblicando alcune foto dal vastissimo repertorio del
poliedrico artista Sardo, ovvero “Il fotografo photoshoppato”, “dal comunismo
all’autismo ” (che è anche un articolo dell’autore pubblicato sul suo blog) e
“Burning artist, 2010″
Il corpo ‘solitario’ si impone dunque come luogo di convergenza di una
riflessione più ampia sullo statuto stesso dell’immagine contemporanea,
attraverso un doppio sguardo che oscilla costantemente tra caduta e salvezza.
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Il corpo solitario, l'autoscatto nella fotografia contemporanea
di Giorgio Bonomi - Rubbettino Editore - 2012
Non esistono fotografie private
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
Le fotografie di un archivio storico, le fotografie nell’armadio pubblico di una
comunità appartengono quasi sempre a generi molto diversi fra loro. Fotografie
di paesaggi, scene urbane, eventi cittadini, feste, personaggi, ritratti singoli e
di gruppo…
Possiamo dividere queste immagini in due grandi insiemi abbastanza
distinti, concettualmente opposti e all’apparenza incomunicanti fra loro: le
fotografie “pubbliche” e quelle “private”.
Al primo insieme apparterrebbero le fotografie prodotte per essere viste da
tutti, perché stampate sui giornali, o sulle cartoline, o distribuite ed esposte in
luoghi visibili a tutti, come vetrine di negozi, uffici, esposizioni, o più
semplicemente perché commissionate da poteri pubblici. Al secondo genere
apparterrebbero invece tutte fotografie destinate a una circolazione più
familiare e intima, alla visione di spettatori selezionati.
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Bene, vorrei sfidare quella distinzione apparentemente così ovvia. Vorrei
provare a spiegarvi questa mia opinione un po’ azzardata: che la fotografia
privata non esiste. Che la fotografia, tutta quanta, in tutte le sue diversissime
pratiche, è sempre stata ed è ancora sempre pubblica.
Non sarà facile. Le fotografie “private, anche quando erano prodotte da
professionisti, dai fotografi di studio che per il primo secolo di vita
del medium furono di fatto gli unici depositari del sapere foto-genico, venivano
subito rinchiuse nel circuito delle cose domestiche.
Parlo di ritratti, individuali o di gruppo, anche delle memorie visuali di
momenti alti dell’esistenza, viaggi, cerimonie, ma soprattutto di ritratti, ritratti
in abbondanza, per l’album da tenere sul tavolino del tinello, da appendere
sopra il camino o la testiera del letto, da infilare fra le pagine del diario
sentimentale, oppure da spedire al parente lontano per riallacciare
virtualmente prossimità distrutte dall’emigrazione.
Immagini quindi premeditate per essere cariche di emozioni intime,
immagini che assumevano valore e significato solo quando illuminate dalla
relazione umana a cui appartenevano. Fuori da quel circuito, sono immagini
mute. E dunque, in che senso vorrei definirle pubbliche?
Certo, è curioso quel che è successo alla fotografia. Quando uno dei più
grandi scienziati della sua epoca, il fisico francese François Arago, nel 1839,
durante un’attesissima seduta dell’Accademia parigina delle scienze, presentò
al mondo la meravigliosa invenzione del signor Daguerre, i compiti che
assegnò alla fotografia erano ben diversi. E tutti “pubblici”. La fotografia
sarebbe stata il taccuino del viaggiatore, l’assistente dell’archeologo, la
segretaria dell’erudito, l’archivista dello storico d’arte, il cannocchiale
dell’astronomo…
Il ritratto era ancora escluso dal campo del possibile, per via dei
lunghissimi tempi di esposizione che avrebbero costretto i soggetti a pose di
una immobili tà da tortura. Strano che Arago, scienziato del suo tempo e
dunque fiducioso nel progresso inarrestabile delle conoscenze, non avesse
riposto la sua fiducia nell’intelligenza collettiva dei suoi colleghi. In pochi anni,
una pioggia di “perfezionamenti” rese possibile migliorare le emulsioni e
accorciare i tempi di esposizione e di posa.
E la fotografia svelò allora la sua vera vocazione, la ragione che in fondo
l’aveva fatta nascere proprio nel secolo della borghesia, quando le conoscenze
per inventarla erano a disposizione da secoli. Ovvero: fornire alla nuova classe
generale, potente e globalizzata, la classe media dell’età industriale, uno
specchio di identità, una macchina per fabbricare quell’immagine di sé che fino
a quel momento era prerogativa solo dei più ricchi, in grado di pagare un
pittore, e di dedicare ore ed ore di ozio a posare per lui.
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Quel che ci resta della fotografia dell’Ottocento, in termini quantitativi, è
una massa sterminata di ritratti: dagherrotipi, calotipi, ambrotipi, ferrotipi,
ritratti di tutti i -tipi, all’albumina, al collodio, al bromuro, in tutte le salse della
gastronomia da camera oscura. Al confronto, benché oggi siano queste le
immagini che più ci affascinano, le fotografie di viaggio, di paesaggio, di
eventi, scientifiche eccetera, sono una interessante significativa minoranza.
E dunque si può dire che la fotografia, promessa come immagine pubblica,
fu sequestrata subito dal consumo privato. Si può dire, certo, ed è stato detto.
Ma che cosa è, veramente, una fotografia privata? Che cosa è di preciso che
qualifica come privata un’immagine: l’autore che la produce, chi la condivide
con altri, ciò che raffigura, chi la guarda, la funzione a cui serve? Vediamo, un
passo alla volta.
Una fotografia, come un film, non ha mai un solo autore. Può averne uno
apparente, principale, un “regista” che è il fotografo, ma resta il prodotto di un
incontro fra parecchie persone, molte delle quali non sanno nulla le une delle
altre.
Prima di tutto, i produttori dei materiali della camera oscura. Luogo che
alla fine del secolo cessa di essere l’antro dell’alchimista, per diventare la
cucina di prodotti preconfezionati, e anzi per sparire dalle case dei fotografi e
diventare un servizio esterno,You press the button we do the rest, così da
lasciare al fotografo solo il piacevole momento del clic.
Così per gli apparecchi: da mobili artigianali di legno a macchinette prodotte
in serie. Chi progetta una fotocamera, chi produce una pellicola, prende a
monte alcune decisioni importanti sull’aspetto, sulla forma che avrà la
fotografia finita. Nello scatto “privato” di un fotografo di paese, o di un
fotoamatore, ci sono la volontà l’ideologia e la cultura visuale di un chimico, di
un ingegnere: e questo fa di quella immagine, prima ancora dello scatto, il
prodotto di un sapere sociale, pubblico.
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I fotografi. Professionisti dell’immagine.
Imprenditori di un nuovissimo mestiere, non vengono dal nulla. Più che pittori
mancati, come dicevano i maligni, i fotografi professionali dei primi atelier sono
magari ottici, o droghieri, o farmacisti che hanno intuito la fortuna di un ramo
d’attività promettente. Ma hanno una cultura visuale, quella della loro epoca, la
pittura d’accademia, il ritratto da galleria degli avi, le incisioni dei giornali
illustrati. Questa tradizione si riversa nel loro modo di comporre l’immagine, di
organizzare la luce, di disporre la posa dei loro soggetti. C’è un canone che
rende simili fra loro i ritratti di un’epoca, ed è un canone sociale, storicamwnte
determinato, un gusto non privato ma pubblico.
Del resto, è a quel gusto che vogliono conformarsi per primi le signore e i
gentiluomini che vanno a farsi “tirare il ritratto” nello studio del professionista.
La “somiglianza” che cercano è più l’adeguatezza a modelli riconosciuti di
rispettabilità, eleganza, bellezza, che alla propria individualità. La
parola identità sembra indicare più l’ansia di essere identici agli altri che di
manifestare una propria unicità. L’originalità dell’individuo è di fatto bandita
dagli studi di posa, salvo rare eccezioni: gli attori, o i sovrani.
Gli studi di posa, in quegli attici dal tetto di vetro azzurro, dove la luce è
imbrigliata e addomesticata da macchinari di tendaggi, palchi ingombri di
arredi e accessori di scena, sono dunque l’avanscena di una recita sociale, la
commedia del ritratto, che pesca i suoi canovacci dal repertorio comune a una
classe, a un ambiente, a un ceto, e sono scenografie “significanti”, simboliche,
che volutamente trascurano ogni realismo: colonne di finto marmo poggiano
incongrue sopra tappeti orientali, sfondi dipinti senza alcuna pretesa di
illusionismo esibiscono la messinscena come le signore eleganti esibiscono fiori
finti sul cappello.
Gli abiti stessi sono di fatto costumi di scena, sono citazioni degli abiti veri
e propri: bisogna scegliere con cura la mise con cui presentarsi davanti
all’obiettivo, i manuali suggeriscono quali colori fotogenici scegliere, per
adeguarsi alle emulsioni dell’epoca che erano diversamente sensibili alle
lunghezze d’onda della luce.
Per non parlare del maquillage, che con le emulsioni fotografiche
dell’epoca, poco sensibili ad alcuni colori, come l’azzurro che risultava quasi
bianco, ma troppo ad altri come il rosso, che risultava nero, se scelto male
poteva trasformare il volto di una gentile signora in quello tumefatto di un
pugile o nella maschera di Morticia Addams.
Ogni ritratto quindi è l’attenta costruzione di una narrazione fittizia, è un
capitolo di una pubblica commedia umana che ha solo un rapporto mediato con
le esistenze reali che intende presentare agli altri.
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Ma a chi? Quella fotografia formato gabinetto o carte de visite che il
galantuomo e la gentildonna poi si portano a casa, diventano poi almeno in
quel momento oggetti privati? No, non lo diventano fino in fondo neppure qui.
Certo, vengono rinchiusi in un circuito di condivisione limitato e
sorvegliato: familiari, parenti, amici, conoscenti, cerchie più o meno larghe,
alcune più “condi/visibili” di altre ma tra un minimo e un massimo, dalla
fotografia acquerellata dell’amata che resta nel portafogli, all’album delle
cerimonie familiari a disposizione di ogni visitatore sul tavolino da caffè del
salotto.
Ecco: l’album, poi, quello sì che è un dispositivo sociale. È una macchina
relazionale potentissima. L’ordine in cui le fotografie sono disposte (così come
la disposizione dei personaggi nei ritratti di gruppo) non è mai casuale,
risponde a una gerarchia di importanza e vicinanza, a una narrazione
complessa, gli avi, poi i padroni di casa in carica, i figli, i parenti. Ogni album
familiare è un sociogramma preciso della struttura dinastica e dei rapporti di
potere domestico.
Nell’album di famiglia, poi, non è raro trovare intrusioni deliberate del
mondo esterno, vere e proprie convocazioni della storia nell’ambito domestico:
spesso l’album di famiglia inizia con i ritratti dei sovrani, come per agganciare
la vicenda familiare a una più ampia vicenda nazionale, storica.
Spesso l’album include oggetti “trovati”, ritagli di giornale, souvenir di
viaggio, biglietti di teatro, fiori: sono i reperti, le tracce della relazione fra l’io
interiore e il mondo… L’album è una soglia osmotica fra spazio privato e spazio
pubblico
Questa soglia ha un doganiere. La condivisione dell’album è sorvegliata
dall’attenta supervisione del suo compilatore, che ne è anche, quando lo sfoglia
davanti agli ospiti, l’unico legittimo affabulatore.
La presentazione dell’album agli estranei è un delicato rito di autodefinizione sociale: noi siamo questi, siamo così, vogliamo essere visti così. È
anche un rito di inclusione: sfogliare l’album di famiglia assieme al fidanzato
della figlia o alla fidanzata del figlio significa introdurre il nuovo membro della
famiglia in una genealogia e in una gerarchia, istruirlo sui legami che dovrà
rispettare.
Infine, questi album non terminano la loro funzione sociale quando si
esauriscono le relazioni umane a cui erano funzionali. Gli album sopravvivono
alle persone per la cui immagine sociale furono costruiti. Arrivano fino a noi,
orfani di senso e di racconto, come pelli di cicale che non cantano più, ma che
conservano miracolosamente l’aspetto esteriore degli esseri viventi che le
abitarono.
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E noi li immettiamo di nuovo in un circuito di visione e condivisione, sia
che li archiviamo in una biblioteca, che li collezioniamo privatamente, che ne
facciamo la base di un’operazione artistica nuova, o di una ricostruzione
storica.
E dunque anche la seconda vita della fotografia “privata” è una vita
pubblica, anzi è tutta e interamente pubblica ora: altri racconti si
sovrappongono a quelli originali, li sostituiscono: in queste immagini possiamo
cercare indizi per la ricostruzione della cultura materiale di un’epoca, per la
storia sociale, o anche solo per nuove emozioni narrative e artistiche.
Possiamo farne un libro, dove quel che conta non è più tanto chi erano,
singolarmente, individualmente, le persone che guardiamo da un’altra epoca,
anche se magari i loro volti e i loro nomi possono ancora dirci qualcosa,
possono avere con noi un legame, essere parenti di parenti, avi di conoscenti,
persone famose, ma che non ci interesserebbero più di tanto se non ci
arrivassero così, in un insieme che racconta qualcosa di più della somma delle
sue parti, dove le tessere di un mosaico di individui diventa storia di una
comunità, storia condivisa, storia di tutti perché storia di ciascuno. Buona
visione.
[Testo rielaborato del mio intervento alla presentazione del volume Gioco di sguardi: Fotografi e
fotografia a Carpi 1860-1930, a cura di Anna Maria Ori e con testi di Alfonso Garuti e Roberta
Russo, a cura della Fondazione cassa di Risparmio di Carpi]
Tag: album, Alfonso Garuti, Anna Maria Ori, Carpi, Daguerre, fotografia, François
Arago, ritratto,Roberta Russo, storia della fotografia
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La strada di William Klein
di Francesco Angelucci da http://www.insideart.eu/
Ad Amsterdam una retrospettiva sul fotografo, ricostruita tutta la sua carriera
Spesso riferendosi a William Klein lo si definisce il padre della fotografia di
strada e questo è un errore da vari punti di vista, dei quali il più grave è
sicuramente storico. Il museo Foam’s 3h library ad Amsterdam presenta una
retrospettiva sul fotografo statunitense che ripercorre tutta la sua carriera, una
buona occasione per mettere dei puntini sulla vita e sulle influenze che Klein ha
avuto e su quelle che ha lasciato nella storia dell’arte.
Klein nasce nella periferia di New York nel 1928 da una famiglia, come spesso
succedeva all’epoca, di immigrati ebrei ungheresi. Il padre era un piccolo
commerciante e dire che se la passavano bene sarebbe una bugia. Ad
aggravare ulteriormente le condizioni economiche ci pensa la grande
depressione che nel 1929 si abbatte come un fulmine a ciel sereno sui mercati
statunitensi (e poi europei) mettendo la parola fine ai roaring twenties.
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Sarà la dura vita della periferia, sarà la crisi ma il piccolo William cresce
precocemente tanto che a 14 anni si iscrive alla facoltà di sociologia del city
collage of New York. Sarà la noia perché troppo sveglio, sarà la facoltà perché
troppo difficile per un pre-adolescente, fatto sta che Klein non raggiunge la
laurea e abbandona gli studi. Mette a servizio dell’esercito la sua abile mano di
vignettista e grafico collaborando con il giornale Stars and Stripes realizzato
all’interno dell’U.S. departement of defense e lavorando come operatore dal
1945 al 47 alla radio militare, impegno che lo costringe a spostarsi fra la
Francia e la Germania.
Finita la guerra il non ancora fotografo decide di rimanere a Parigi per studiare
arte alla Sorbona. La capitale francese non è certo quella di un ventennio
prima ma rimane piena di maestri a cui strappare qualche buon consiglio. Da
ragazzo sveglio di periferia William entra subito in contatto con gli ambienti
artistici francesi stringendo amicizia con Fernand Leger che gli tira un paio di
diritte: lascia la pittura astratta (genere che Klein praticava con molta
passione) e datti alla strada.
Lontano dall’aver seguito il consiglio, l’americano continua a dipingere e lo fa
anche per l’architetto Angelo Mangiarottiche a Milano gli commissiona delle
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quinte rotanti per una scenografia. Altissimi panelli rettangolari neri solcati da
linee bianche è la costruzione astratta che Kline realizza per l’italiano.
Appoggiati su dei perni i quattro elementi posso arrivare a una rotazione
completa di 360 gradi. Qui, il ragazzo di periferia, quello sveglio, il pittore che
è stato anche militare, il giovane che parla due lingue, decide di diventare
fotografo. Un’illuminazione improvvisa: i pannelli che girano, il movimento e
l’impossibilità di rappresentare tutto questo con la pittura. Preso dal furore
William si ricorda di quandoCartier Bresson gli aveva regalato una
macchinetta fotografica, la cerca, la prende, si piazza davanti alle quinte
rotanti, imposta un’esposizione lunga, inquadra e scatta. Prevedibile il risultato
non è un’opera d’arte ma lui da lì capisce che se ha un senso usare la
fotografia bisogna farlo come mai si è fatto fino a quel momento. Lascia i
pennelli nel cassetto e si dedica totalmente alla causa. I suoi primi scatti sono
per Domus, la rivista d’architettura di Giò Ponti, poi torna negli Stati Uniti,
torna a casa, a New York dove per vivere fotografa per Vogue. È qui, nella
grande mela, che Klein si ricorda del consiglio del vecchio maestro francese
Leger: datti alla strada. E stavolta lo fa, sul serio.
Fedele alla linea Klein cerca nuovi modi di fare fotografia e parte proprio
scardinando il patinatissimo mondo dello still life da passerella. Il fotografo
prende le modelle, le veste e le getta in mezzo alla mischia urbana, fra i
grattacieli e sull’asfalto, fra barboni o semplici passanti creando un vivo
contrasto fra l’eleganza e la bellezza di una mannequin con dei comuni
passanti. Vogue e il suo direttore Alexander Liberman impazziscono, tanto
che lo stesso Liberman sostiene economicamente (carta fotografica e pellicola
in quantità industriali) il primo libro fotografico di Kilne: Life in good and good
for you in New York: trance witness revels. Il volume, meglio conosciuto come
New York, esce nel 1956 per tre editori diversi: Editino de Seuil in Francia,
Feltrinelli in Italia e Photography magazine in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti il
libro non viene pubblicato, la grande mela vista da Klein è troppo squallida e
sgraziata, lontana anni luce dal sogno americano e dal rappresentare una città
simbolo di prosperità e crescita economica.
Gli scatti del fotografo ribaltano l’idea di reporter e alla scelta d’immortalare un
fatto preferiscono non immortalare proprio niente. La poetica che regge l’intero
volume è non provarci neanche a fermare qualcosa in uno scatto, piuttosto
fare di tutto per non bloccare la vita che scorre oltre il mirino. Questo significa
un paio di cose. La prima: la bellissima, equilibratissima composizione, le
perfette messe a fuoco, il classico 45mm sono bannati. La seconda: l’idea della
fotografia come la voleva Bresson, l’atto che unisce mente, cuore e occhio non
viene minimamente preso in considerazione.
Al loro posto si sostituisce una composizione caotica, viva, all’obiettivo base di
ogni fotografo, Klein monta un teleobiettivo che raccoglie nella sua lente più
persone, gesti e azioni possibili, alla calma di uno scatto ricercato c’è l’infinito
flusso di click non tanto per paura di perdere l’attimo ma per paura di perdere
il tempo.
Nel libro allora le fotografie sono sfocate, il primo piano scompare, la grana
della pellicola lo sostituisce, la grande mela o meglio il wild side che
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cantava Lou Reed è l’unico teatro possibile per questo genere di fotografie e il
caso ha voluto che quel wild side fosse esattamente casa sua o che solo chi è
di casa nel selvaggio poteva concepire un tale modo di scattare.
Il libro ha un successo planetario e Klein comincia (continua) a girare il mondo
raccogliendo di simili reportage per Tokyo e Roma dove tra l’altro era stato
chiamato da Fellini come assistente per Le notti di Cabria.
Facile scambiare William Klein per il padre della fotografia di strada ma è una
bugia. Da manuale il primo fotografo che segna uno stacco dal pittorialismo
fotografico (genere nato agli albori della tecnica che scimmiottava la pittura e
rappresentato perfettamente da Whilhem von Gloeden) è stato Albert
Stieglitz.
Al suo nome si lega la straight photography, tipologia di scatto che non
prevede la messa in posa dei soggetti ma invita il fotografo a scendere per
strada e catturare il bello del mondo così com’è. Stieglitz allora segna la svolta
della pellicola che finalmente si rende autonoma dalla pittura trovando una sua
natura specifica irrealizzabile con pennelli e colori.
Sommo esponente del genere, un ventennio dopo, è proprio Bresson e
compagni (per intenderci il filone francese definito umanistico). Composizioni
perfette che sembrano riordinare il mondo, stampa impeccabile e uno spiccata
dote per l’attimo perfetto.
A rimescolare le carte in tavola ci pensa la seconda guerra mondiale. È Adorno
che sintetizza il clima post bellico: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un
atto di barbarie». La ricerca del bello non è più permessa, provare a raccontare
qualsiasi cosa in modo oggettivo è impossibile. L’informale e il Nouveau roman
sono espressioni artistiche di questo clima culturale.
La fotografia reagisce in maniera simile e se il mondo che conosciamo non è
più possibile da rappresentare, l’artista gira la pellicola verso la sua vita, i
reportage non sono più quelli di un Robert Capa ma diventano testimonianze
di vita privata, l’unica ancora salvabile dall’abisso. Robert Frank è fra i primi,
o comunque il più noto, a sviluppare questa tendenza testimoniata dal libro
pietra miliare Les American, pubblicato per la seconda ristampa con un testo di
Kerouac.
Il volume presenta scatti on the road che sfuggono la bellezza come la peste,
raccolti nelle pagine del libro come fosse un diario privato dell’autore, scatti
strappati, attaccati con lo scotch, fotografie rovinate, stampate male o coperte
di note dove la cosa più importante non è la vita ma il brandello che se ne può
prendere. È da qui che viene William Klein che per quanto geniale sia stato il
suo operato rimane comunque un anello di una catena che non inizia ne finisce
con lui (vedi Nan Goldin).
Fino al 12 marzo; Foam’s 3h library, Keizersgracht 609, Amsterdam.
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Qui si va sul difficile
di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it
© Vasco Ascolini, g.c.
Sono anni che non sento più dire di un’opera d’arte, di un libro, di un film, che
“è difficile”, “è un po’ difficile per me”.
All’uscita da un cinema, gli spettatori che si sono visibilmente rotti le
scatole, rimpiangendo i soldi del biglietto dicono semmai “è troppo lento”. Di
un libro lasciato a metà per noia, i lettori dicono “si perde in troppe
descrizioni”; di un quadro che sfida l’immediata decifrazione, i visitatori del
museo dicono che “non mi dice niente, non mi dà emozioni”.
Nell’era del click-and-go, della velocità come valore in sé, nell’era dello
spazientimento, delle chat, nel tempo dove il “tempo reale” diventa la schiavitù
della raggiungibilità obbligatoria, la colpa del mancato incontro con un
messaggio espressivo viene immancabilmente addossata all’emittente, mai al
ricevente.
Intendiamoci: i film noiosi, i libri inutili, le opere d’arte vuote esistono.
Troppo spesso, anzi, l’oscurità diventa l’alibi della mancanza di un pensiero.
Troppo spesso chi dovrebbefavorire l’incontro fra opera e lettore lo rende più
difficile, coprendo quel vuoto, per incapacità o per calcolo.
La prima condizione per una lettura di opere “difficili” è che quella lettura sia
possibile, e sia stata resa possibile.
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Ma perché non ci viene mai il dubbio, almeno una volta, per quanta stima
abbiamo della nostra preparazione e del nostro gusto, il dubbio che esperiti
tutti i tentativi, fatto ricorso a tutti gli agevolatori, forse non siamo i lettori
giusti per una certa opera?
Nessuno più ama pensare che un autore possa proporre legittimamente al
suo lettore opere che, semplificate troppo, sarebbero banalizzate.
La complessità viene considerata sempre e solo complicazione inutile. Lo sforzo
del lettore, viceversa, non si ritiene dovuto. L’arte che “parla a tutti”, concetto
romantico, assume un corollario pigro: “…dunque tocca solo a lei farsi capire”.
Vorrei rivalutare dunque la categoria del “difficile” come una modalità
della comunicazione culturale che contempla anche la possibilità di un mancato
incontro fra autore e lattore. Con la conseguente ammissione onesta del limite
che il lettore può avere raggiunto di fronte a un’opera, oppure con l’impegno a
scavalcare quel limite attraverso uno sforzo maggiore. Anche a costo (è
possibile, spesso probabile) di scoprire alla fine che non ne valeva la pena, che
non c’era davvero nulla da scoprire.
Difficile, questa parola così facile da capire, è un suggerimento di una
recente amica, Manuela Cigliutti, collaboratrice di Vasco Ascolini, di cui mi
invitava a vedere un lavoro su Rodin. Mi ha convinto a riflettere con queste
parole: “perché non ti occupi della lettura delle fotografie difficili? Voglio dire,
le fotografie che oggi forse non siamo abituati a leggere perchè oggi è tutto
immediato, palesato”.
Ho guardato quel lavoro su Rodin, commissionato a suo tempo dal Louvre.
È una lettura muta, emotiva, di opere e di luoghi legati al celebre scultore
francese. Credo voglia essere una sorta di biografia visuale indiretta, una
lettura senza parole della sua vita e del suo lavoro. Credo sia anche un
tentativo di fare “esplodere” la gabbia del museo, quello reale (molte immagini
sono prese al Museo Rodin) ma anche quello virtuale che le fotografie
potrebbero costruire, per riportare la memoria a vita, il culto all’uomo. Un
lavoro contro le pratiche di memoria istituzionale del lavoro degli artisti. Un
tentativo di ridare una vita, anche surrogata, alle tracce di vita ormai immobili
lasciate da un creatore nelle sue opere. Non per nulla Ascolini nasce
come fotografo di teatro, di vita rivissuta nella finzione.
Posso aver preso una cantonata, ma è il mio tentativo, il mio azzardo, il
mio lavoro di co-autore, di responsabile di quello che vedo. Un tentativo va pur
fatto. Quanti spettatori, pur avendone gli strumenti, spesso migliori dei miei,
sono disposti a farlo e lo faranno? Quanto invece prevarrà l’etologia del
visitatore che, disposto a dedicare alle fotografie un tempo in fondo
infinitesimale, ne esplora per qualche secondo i valori formali, elogia i “bianchi
purissimi e i neri intensi” di tante stanche recensioni, poi dedica qualche
istante svogliato a cercare di identificare le forme e a dar loro un senso, e
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prima di mettere assieme il tutto conclude quasi sempre, tempo dieci secondi
al massimo per opera, con un “bella, sì, ma non mi dice niente”?
È stato un piccolo cortocircuito. Mi sono subito venuti alla mente i nomi di
due o tre fotografi che ora, dopo il suggerimento di Manuela, potrei
accomunare in questa categoria trasversale del “difficile”.
Non perché le loro immagini siano incomprensibili al primo sguardo. Al
contrario: perché la loro apparente “trasparenza” ci lascia interdetti, con la
sensazione che non ci sia altro da fare che guardarle, ricevendone però in
cambio troppo poco per esclamare il fatidico “che bello!”, col quale i dieci
secondi di contemplazione di una fotografia sul muro di una mostra (tre
secondi sulla pagina di un libro) vengono per sempre estroflessi dai confini
dell’Io, per dirla alla Gadda.
Il “difficile” è proprio questo: non è l’ostico, il confuso o il respingente al
primo sguardo. Quasi mai la fotografia lo è: la fotografia è sempre,
apparentemente, “facile”, essendo sempre “la foto di qualcosa” (e noi
cerchiamo qual qualcosa fino allo sfinimento, anche nelle fotografie “astratte”).
Ma questa sua prerogativa unica è anche il suo handicap: chi la guarda
oltrepassa di slancio, senza fermarsi, la superficie dell’immagine, corre con
ansia verso “la cosa”, e finisce per prendere quella come oggetto del giudizio:
“bella!” è la forma che crediamo di vedere oltre il velo albertiano della
raffigurazione, non quella che si disegna sulla sua superficie. È la “cosa in sé”
che giudichiamo interessante o meno, e poi è finita. Alla “cosa per sé” non
abbiamo tempo, voglia e spesso neanche idea di dover tornare.
Il “difficile”, voglio dire, è nascosto dietro il “facile”, è il gradino che
l’architetto dell’immagine ha nascosto nel buio, dietro il muro diafano
dell’apparente trasparenza della fotografia, il gradino che non solo ci costa
fatica salire, ma anche trovare.
Roberto Salbitani, dalla sequenza “Viaggio in terre sospese” (1975), © Roberto Salbitani, g.c. Postcart
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Prendete per esempio Roberto Salbitani. Fotografo della generazione di
Luigi Ghirri, dal lui amato, abbandonato e in parte ritrovato. Fotografo
calvinista, intransigente con se stesso e quindi con il mondo della fotografia,
refrattario ai compromessi dello stile che ti aprono le porte del successo.
Il suo La città invasa, denuncia dell’occupazione paramilitare dell’orizzonte
urbano da parte dell’immaginario consumista, fu per me il dark
side dell’ottimismo (sì, in fondo era ottimismo) dello sguardo della generazione
di Viaggio in Italia, quel circolo di cercatori che sperava di curare la malattia
della visione assopita con dosi omeopatiche di immagini marginali e
“insignificanti”.
Ho incontrato il lavoro di Salbitani, negli anni, come si incontra un
concittadino, un conoscente ma non troppo: ogni tanto, con piacere, ma un
saluto e via. Una bella biografiacritica di Roberta Valtorta ora rimette a posto i
pezzi, e mi fa capire che ero io in difetto: avrei dovuto metterci del mio.
Il volume di fotografie di Venezia, ad esempio, questa sua strana
collezione di tondi (formato “naturale” e invece da sempre proscritto in
fotografia, ma ne parleremo un’altra volta) dove l’orizzonte non può
appoggiarsi ad alcuna ortogonalità, fluido come l’acqua che assedia la città dei
sogni.
Non chiedeva forse a me, questo lavoro, di misurarmi con il “difficile”,
senza acontentarmi di una scrollata di spalle o di un diplomatico
“Interessanti…”. Mi chiedeva, per dirla con le sue stesse parole (dal brevissimo
testo nel libro), di “dare la caccia soprattutto a quelle immagini che sono
sfuggite finora alla loro autoritaria attribuzione di significato”.
Antonio Biasiucci, Vapori n.1, 1983, © Antonio Biasiucci, g.c.
Oppure, prendete Antonio Biasiucci. Un galantuomo che con discrezione e
gentilezza, tempo fa, mi mandò in visione le ultime cose sue, senza insistere
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troppo perché ne facessi qualcosa. Biasiucci di solito è considerato
un artista plastico della fotografia, un creatore di forme lontane dal
documentario e dalla disdegnata referenzialità.
Io, dopo averci pensato su un po’,dopo aver superato la tentazione di dire
“belle forme, belle composizioni, interessante dialogo con la scultura” e altre
cose così, ho cercato il mio “gradino” dietro le sue forme, e alla fine,
arbitrariamente, ho scelto di considerarlo un antropologo visuale, non so se gli
piacerà. Me ne assumo la responsbailità di lettore.
Antropologo è il cultore dell’uomo, e Biasiucci ha lavorato sempre sulle
cose dell’uomo, sugli oggetti della cultura materiale, il pane, il coccio, la cera,
scendendo poi via via più alla radice, sugli elementi basilari della sua relazione
con l’ambiente terreste, l’acqua, il fuoco, la terra.
Al primo impatto, visto in una galleria o sfogliato senza attenzione su uno
dei suoi volumi, il suo lavoro rischia di essere classificato sotto etichette
estetizzanti o formaliste. Solo uno sforzo del lettore documentato può svelare,
almeno a parer mio, il tentativo ambizioso di produrre un trattato visuale
sull’uomo, con i mezzi della fotografia, che non sa scrivere saggi, ma sa
attraversare i pensieri indicando scorciatoie che il discorso razionale non
conosce.
Sono solo tre esempi, i primi che mi sono venuti in mente, di come il
“difficile”, quando non è un furbo alibi per coprire un vuoto intellettuale, sia
sfida e valore, requisito e non difetto della fotografia. E di come il giudizio di
“troppo difficile” sia il riconoscimento di un fallimento di comunicazione che
non è sempre (spesso sì, ma non sempre) addebitabile all’autore.
Abbiamo sempre bisogno di una buona lettura critica delle opere. Ogni tanto
però avremmo bisogno anche di una buona critica della lettura delle opere.
Tag: Antonio Biasiucci, Auguste Rodin, Carlo Emilio Gadda, difficile, fotografia, Luigi Ghirri, Manuela
Cigliutti, Roberta Valtorta, Roberto Salbitani, Vasco Ascolini
Scritto in Autori, creatività, fotografia | 24 Commenti »
Autocoscienza dell’immagine
di Stefano Castelli da http://www.artribune.com
Il terzo volume della storia della fotografia curata per Skira da Walter
Guadagnini racconta gli anni dal 1941 al 1980. Anni in cui l’immagine
riflette su se stessa e sceglie strade come la fotografia soggettiva e
quella concettuale.
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La fotografia vol. 3 – Dalla stampa al museo, 1941-1980
Giunge al terzo volume la storia della fotografia curata per Skira da Walter
Guadagnini.
Dopo i due libri sul primo secolo di vita del mezzo (Le origini, 1839-1890 e Una
nuova visione del mondo, 1891-1940), il terzo capitolo si intitola Dalla stampa
al museo, 1941-1980. Un periodo decisivo, in cui si gettano i semi della
trasformazione da strumento tecnico e di reportage allo statuto di opera d’arte.
Passaggio che si compirà definitivamente nel periodo successivo, che sarà
oggetto del quarto e ultimo volume, in uscita nella seconda metà del 2014.
Tre i punti di svolta di questo quarantennio che vengono individuati: la nascita
del Dipartimento di fotografia al MoMA nel 1940, l’arrivo sul mercato delle
pellicole negative a colori (Francesco Zanot analizza questa rivoluzione con
un saggio), la mostra The family of man al MoMA nel 1955. E due le strategie
che reagiscono ai mutamenti epocali, la fotografia soggettiva (inaugurata e
teorizzata da Otto Steinert) e quella concettuale (Anselmo, Huebler,
Baldessari, Smithson, Messager, Rosler, Levine).
Ma il vero fil rouge dei quarant’anni qui trattati è lo sviluppo di una
autocoscienza della fotografia: la consapevolezza progressiva della natura
mediata dell’immagine, la ricerca del posto della fotografia artistica nel mare
sempre crescente di immagini che la comunicazione di massa mette in circolo.
Come scrive Guadagnini nell’introduzione, “la fotografia passa da quella che si
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potrebbe definire la fase dell’azione a quella della riflessione, sul mondo e su
se stessa“.
È questo un tratto che si ritrova trasversalmente in tutti i temi trattati in
questo terzo volume. Nel passaggio “dalla verità alla veridicità” analizzato
da Urs Stahel nel suo saggio sulla fotografia documentaria dal 1950 al 1980;
e anche, indirettamente, nell’utilizzo della foto da parte dell’Arte concettuale,
oggetto del saggio di Camiel van Winkel.
Oltre ai saggi più generali, la spina dorsale del volume sono i capitoli brevi
(tutti scritti da Francesco Zanot) dedicati a singoli fotografi, mostre o
pubblicazioni. Da figure mitiche come Weegee, Doisneau, Cartier-Bresson,
Avedon, Minor White si giunge a pratiche concettuali come gli scatti seriali di
Ed Ruscha, l’archivio fotografico di Gerhard Richter (che da spunti per i dipinti
diventano opera autonoma), Larry Clark e il suo libroTulsa, i coniugi Becher.
La varietà delle pratiche e l’evoluzione dello statuto della fotografia è ben
rappresentato nel volume, anche se- per scelta – in modo non esaustivo.
Talvolta l’approccio dal punto di vista fotografico penalizza la descrizione della
pratica di artisti puri come ad esempio Nan Goldin, ma il rischio è insito
nell’oggetto di studio del libro
. E si aspetta con curiosità, leggendo questo terzo volume, l’avvento della
fotografia come arte contemporanea tout court. Ma l’appuntamento è
rimandato (anche per comodità di organizzazione, visto che il fenomeno
comincia ad affacciarsi già negli anni Settanta) al quarto volume.
La fotografia vol. 3 – Dalla stampa al museo, 1941-1980 a cura di Walter Guadagnini - Skira, Milano 2013
Pagg. 215, € 60 - ISBN 8857215075 - www.skira.net
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Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore BFI
a cura di Gustavo Millozzi, MFIAP-HonEFIAP-SemFIAF
www.gustavomillozzi.it
www.fotoantenore.org
[email protected]
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