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l`uso legittimo delle armi nell`ordinamento italiano

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l`uso legittimo delle armi nell`ordinamento italiano
L’USO LEGITTIMO DELLE ARMI NELL’ORDINAMENTO ITALIANO
L'uso legittimo delle armi, come attualmente configurato, è stato introdotto nell'ordinamento penale
italiano con l’art. 53 del codice penale emanato nel 1930, ed integrato dall’art. 14 della Legge 22
maggio 1975 n. 152 in materia di ordine pubblico, e testualmente recita: “… non è punibile il
pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far
uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di
respingere una violenza o di vincere una resistenza all'Autorità e comunque di impedire la
consumazione dei delitti di strage, di naufragio, di sommersione, disastro aviatorio, disastro
ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. La stessa
disposizione si applica a qualsiasi persona che, legalmente richiesta dal pubblico ufficiale, gli presti
assistenza. La legge determina gli altri casi, nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro
mezzo di coazione fisica”. Storicamente l’esimente in narrativa non aveva una sua configurazione
autonoma, e nel previgente codice penale del 1889 per giustificare la liceità dell’impiego della
coazione fisica da parte dei pubblici ufficiali, si faceva ricorso alle già tipicizzate scriminati della
legittima difesa, dello stato di necessità o dell’adempimento del dovere.
L’articolo 53 c.p. costituisce una causa di giustificazione del reato “propria”, nel senso che i
destinatari della norma sono esclusivamente soggetti aventi la qualifica di pubblici ufficiali. Il
legislatore sembra, quindi, aver escluso dal campo di applicazione dell’uso legittimo delle armi gli
incaricati di pubblico servizio e gli esercenti un servizio di pubblica necessità. La sua natura di
scriminante è pacificamente riconosciuta dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza che si
è pronunciata in materia in modo conforme e costante, e che concorda, in massima parte, nel
riconoscere alla stessa una genesi di natura preminentemente politico istituzionale, la cui
introduzione nel codice rilevava un’impronta chiaramente autoritaria dello Stato anche per la
mancata menzione, tra i requisiti per l’applicazione dell’esimente, della "proporzionalità" intesa
come valutazione e verifica di bilanciamento tra interessi contrapposti alla luce della situazione
concreta. Oggi, detta norma è circoscritta, in ambito interpretativo, nel contesto più ampio degli
immanenti principi costituzionali, che porta a considerare la causa di giustificazione di cui all’art.
53 c.p. ulteriore rispetto alla legittima difesa, all'adempimento di un dovere ed allo stato di
necessità, e necessaria affinché assuma significato concreto l’autorità dello Stato. In questo senso
lo Stato, attraverso la forza pubblica è in grado di contrastare una violenza in atto o di vincere una
resistenza al fine di poter conseguire le superiori pubbliche finalità. Con riferimento al quadro
costituzionale esistente, è inoltre da considerarsi la posizione dottrinale di chi individua lo scopo
dell’art. 53 c.p. nell’assicurare l’adempimento dei pubblici doveri, come direttamente individuati
dalla lettera costituzionale dell’art. 97 della Costituzione sul “buon andamento” della pubblica
amministrazione.
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Inquadrata la scriminante nelle sue nozioni generali passiamo ad analizzare la qualifica soggettiva
di pubblico ufficiale, necessaria affinché dispieghi i suoi effetti giuridici sul soggetto agente. La
qualifica di pubblico ufficiale deve essere posseduta al momento in cui l’azione da scriminare si è
posta in essere. Ciò indica che sono da escludersi dalla riferibilità soggettiva della scriminante gli
incaricati di pubblico servizio e gli esercenti un servizio di pubblica necessità. In proposito va detto
che dottrina minoritaria, a sostegno di una interpretazione letterale ed estensiva di pubblico
ufficiale, considera la categoria soggettiva del pubblico ufficiale coincidente con quella enunciata
all’art. 357 c.p.. Di contro dottrina maggioritaria, in aderenza ad una lettura costituzionalmente
orientata della scriminante in esame, ritiene che i soggetti legittimati a realizzare le condotte
tipizzate dall’art. 53 c.p. siano ristrette ai soli appartenenti alle Forze di polizia il quale compito
principale attiene al mantenimento dell’ordine e la sicurezza pubblica. Risulta convincente la
posizione di chi ritiene che la nozione di pubblico ufficiale delineato dalla combinata lettura degli
artt. 53 e 357 c.p., non sia da ricondursi a quella di pubblico ufficiale generalmente inteso, quanto
a quella specifica corrispondente al soggetto dotato di potere autoritativo che si esplica
nell’esercizio della forza pubblica.
Altro punto di analisi è l’espressa previsione dell’art. 53 c.p. che estende la scriminante a quelle
persone che prive della qualifica giuridica di pubblico ufficiale sono chiamate ad operare
attivamente da quest’ultimo.
La previsione normativa in questo caso genera un delicato problema di coerenza ordinamentale tra
la regola generale di non ingerenza nella sfera di pertinenza operativa della pubblica
amministrazione e la legale richiesta d’intervento del pubblico ufficiale. Tale apparente conflitto
d’interessi è risolto dalla dottrina con la figura dell’agente ausiliario di polizia, che si identifica con
un comune cittadino chiamato a concorrere al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica
per motivi particolarmente gravi ed urgenti. Si tratta di un’estensione giuridica soggettiva che trova
copertura ordinamentale nel dovere di solidarietà in capo ad ogni cittadino e finalizzata alla tenuta
generale dello Stato democratico. Perché la richiesta d’intervento al comune cittadino sia
legalmente conforme è necessario che essa sia formulata dal pubblico ufficiale, così come
individuato, che la stessa sia espressa, quindi non è ammessa richiesta tacita o desumibile da fatti
concludenti, e che sia anteriore all’intervento in ausilio prestato, non potendo ritenersi lecito un
consenso posteriore ai fatti.
L’uso delle armi o di altri mezzi di coazione è ammesso a condizione che lo stesso sia necessario
per l’adempimento di un dovere d’ufficio. Sul significato da attribuire al dovere d’ufficio si sono
contrapposte due diverse visioni: una soggettiva ed una oggettiva.
La prima, soggettiva, individua il presupposto dell’adempimento del dovere d’ufficio quale
elemento psicologico che caratterizza la destinazione finalistica della volontà del pubblico ufficiale.
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La seconda, oggettiva, attribuisce alla condizione in parola perimetro oggettivo di azione, ponendo
un limite oggettivo della condotta, teso ad individuare le azioni che la forza pubblica può
legalmente porre in essere e quindi circoscrivibili entro i confini di una oggettiva realizzazione di
interessi pubblici.
Le condotte in esame, perché superino il vaglio di legalità devono essere dirette al respingimento
di una violenza o a vincere una resistenza all’autorità.
La violenza per tradizionale interpretazione consiste in un comportamento attivo destinato a
coartare la volontà del soggetto passivo in modo da indurlo a compiere un atto contrario al dovere
d’ufficio. In senso estensivo si ritiene che la violenza possa includervi anche la coercizione
psichica, intesa come minaccia, purché concreta, seria e particolarmente grave.
La violenza non deve necessariamente essere diretta a colui il quale utilizzerà l’arma, essendo
sufficiente che la condotta violenta sia destinata a contrastare l’attività posta in essere al fine
dell’adempimento del dovere d’ufficio.
Molto più problematica risulta essere l’esatta individuazione dei confini da attribuire alla nozione di
resistenza. Secondo tesi costantemente accolta in giurisprudenza, la resistenza è solo quella
estrinsecatasi
mediante
condotta
attiva
destinata
ad
ostacolare
il
pubblico
ufficiale
nell’adempimento del dovere. Punto problematico di detta interpretazione e che lasciano avulse
dalla scriminante di cui all’art. 53 c.p. le ipotesi della resistenza passiva e della mera fuga. A
sostegno della posizione maggioritaria intervenire il dato testuale della norma in esame “vincere
una resistenza”, la locuzione sembrerebbe rinviare ad un elemento di fisicità attiva nella condotta
comprendente: la resistenza armata, l’apposizione di ostacoli, ecc., il limite negativo della
resistenza è che essa non deve mai integrare elementi tipici della violenza. A fronte di detto
granitico orientamento giurisprudenziale, in dottrina si sostiene la sussistenza della scriminante di
cui all’art. 53 c.p. anche nelle ipotesi di resistenza passiva purché sussista un rapporto di
proporzione tra i mezzi impiegati per la coartazione e la resistenza da vincere in concreto posta in
essere. Il criterio della proporzionalità impiegata, in questo caso, verrebbe rimesso alla sensibilità
giudicante non essendo la proporzione elemento qualificato dal dettato normativo.
La tesi sembrerebbe trovare conforto dal riferimento legislativo all’uso non solo delle armi ma di
qualsiasi altro mezzo coattivo: colpo in aria esploso in modo intimidatorio, squillo di tromba ecc.,
casistica aperta che in quanto tale necessita di uno strumento di valutazione d’idoneità
individuabile appunto nella proporzionalità.
La proporzione tra uso legittimo delle armi e azione illegale da contrastare, come ricordato, non è
un dato testuale enunciato dalla norma.
Ma la lettura costituzionalizzata della norma invita ad osservare che nonostante sussiste in
generale una prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, al pronto adempimento dei
doveri di istituto vada comunque fatta una sugli effetti coercitivi imposti al privato cittadino.
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Di qui la necessità di considerare un principio di proporzione, implicante un bilanciamento in
concreto tra interessi contrapposti, quale generale limite di operatività della causa di giustificazione
in esame. Si può affermare che la proporzione può reputarsi sussistente, allorché l’uso della
coazione non leda un interesse di valore superiore rispetto a quello soddisfatto con l’adempimento
del dovere. Solo in tal modo l’uso delle armi e dei mezzi di coazione fisica divengono strumento di
tutela dell’ordine democratico costituzionalmente definito. Si è lungamente discusso se la
scriminante in parole fosse da intendersi come limitata al solo uso delle armi in caso di reato in
corso di consumazione, ovvero ammissibile anche nelle fasi preparatorie della consumazione del
reato.
Le fattispecie previste, del resto, prevedono diverse possibilità: ad esempio taluni disastri
potrebbero essere realizzati con azioni delittuose a consumazione istantanea, per impedire le quali
sarebbe perciò ammesso l'uso delle armi nella fase preparatoria, affinché venga interrotta l’azione
che porterebbe inevitabilmente alla consumazione del reato. Diversa la continuazione dell’azione
nei reati quali il sequestro di persona che potrebbe ovviamente essere assai durevole. A questa si
aggiunga, inoltre, la questione della determinazione del momento conclusivo della consumazione,
con l'esempio tipico della fuga e della sua qualificabilità in ordine alla flagranza. Proprio in ordine
alla fuga, il diritto comunitario (Convenzione europea dei diritti dell'uomo del 4 novembre 1950,
articolo 2, n. 2) ha introdotto una previsione, da considerarsi cogente, che ammette l'uso legittimo
delle armi “per eseguire un arresto regolare”, considerando l'atto illecito della sottrazione alla
cattura, condotta coercibile con l’uso delle armi. Va detto che sull’idoneità del diritto comunitario di
permeare la disciplina penale non vi è ancora orientamento univoco, e per quanto suggestivo non
è argomento affrontabile in questa sede. Per il caso che l'uso delle armi sia da considerarsi non
legittimo, deduzione solitamente desunta ex post, ove si rilevi l'assenza del dolo si deve valutare
l'eventuale sussistenza dell’eccesso colposo. Per concludere, un veloce riferimento all’errore
indotto nel soggetto agente. La sussistenza dell’errore è condizione che non inficia la sussistenza
della scriminante. Esempio ne sono l’utilizzo minaccioso da parte della vittima di un arma
giocattolo priva del tappo rosso, e che proprio per tale alterazione appaia vera. In questi casi l'uso
delle armi resta legittimo, configurandosi la scusabilità dell'errore in quanto validamente indotto da
parte del delinquente e dunque responsabile della verificazione dell’errore stesso.
La Segreteria Regionale Friuli Venezia Giulia
Il Comitato M.G.A. Friuli Venezia Giulia
Co.I.S.P.
F.I.J.L.K.A.M.
Fagagna (UD), 20 novembre 2011
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