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Mirko Giacchetti Scommessa a Memphis Racconto vincitore del

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Mirko Giacchetti Scommessa a Memphis Racconto vincitore del
Mirko Giacchetti
Scommessa a Memphis
Racconto vincitore del concorso “Morte a 666 Giri”,
indetto da Dunwich Edizioni e Letteratura Horror.
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Mirko Giacchetti – Scommessa a Memphis
© Mirko Giacchetti
Dunwich Edizioni, Via Albona, 95 – 00177 Roma
www.dunwichedizioni.it
Codice isbn 9788898361267
Fotografia in copertina © Kesu, licenza da shutterstock.com
Progetto grafico © Mauro Saracino
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Dedicato a mia moglie Annalisa
Scommessa a Memphis
16 agosto del ’77
Graceland, Memphis.
Un morto in più non fa la differenza, dicono. Mi ricordo di
un poeta italiano e di una manciata di versi adatti per l’occasione. Parlavano della coda di San Bartolomeo, o qualcosa di
simile, e finivano per dire che l’universo era fatto di indifferenza. Va bene, per come ve li ho raccontati non sembrano un
granché ma, se vi capita di leggerli con le parole al posto
giusto, finirete per crederci.
Davvero, se muori l’universo prosegue dritto per la sua
strada e se ne fotte se finisci sotto un lenzuolo di pietra.
D’estate Memphis fa schifo. Anche nel resto dell’anno non è
una meraviglia, ma che ve lo dico a fare? Intanto, mica ci siete
voi a sudare nel cesso del Re. Controllo l’orologio, tra circa
dieci minuti varcherà la porta e la sua anima lascerà per sempre
questo mondo.
Che ne so io della puntualità della Morte? Con le amiche
giuste niente può rimanere segreto.
Tanto vale fumarsi una sigaretta.
Metto una presa di tabacco sulla cartina e inizio a rollare. Perché
lo sappiate, la stanza è grossa la metà di quanto riuscite a
immaginare, almeno per un re. Sulle pareti della doccia le tessere
oro e nero formano un mosaico scintillante che nemmeno nella
Roma imperiale si potevano sognare. Il rosso cupo degli
asciugamani stesi e lo stesso fastidioso colore delle piastrelle
creano una densa sensazione di soffocamento. L’unica via di fuga
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per la vista e per il respiro è un corridoio, largo più o meno un
metro e occupato da un piccolo comò bianco.
Lecco la cartina, stiro la sigaretta tra le dita e la porto alle
labbra. Alzo gli occhi e, oltre alla confusione dei prodotti di
bellezza e a un televisore spento sul lavandino, vedo la mia
immagine nello specchio.
Porto in giro sempre la stessa faccia da schiaffi.
Il silenzio implode quando lo sento chiacchierare nella
stanza accanto con l’ultima conquista. Non è Priscilla e non
potrà mai esserlo.
Non è mai stato capace di scegliersi le donne.
Elvis entra nel bagno. Appena mi vede, fa un passo indietro e si
schianta contro la porta chiusa. Il suo volto è gonfio, farcito da
così tanto grasso da poterci riempire un cuscino. La pelle è lucida
per il sudore sputato fuori dai pori. Il suo addome riempie e tende
oltre il punto di smagliatura un’anonima tuta verde. Una
pericolosa combinazione di sciatteria e ingordigia esalta il suo
essere schifosamente in sovrappeso.
Striscio il fiammifero contro l’unghia e accendo la paglia.
«Ciao ragazzo, ti ricordi di me?»
Sbuffo il fumo verso di lui solo per dargli fastidio, non per
altro.
Passata la sorpresa, barcolla per un paio di passi, si appoggia
al cesso nero e dopo una piccola pausa raggiunge il mobile.
Ansima un paio di volte per lo sforzo e apre il primo cassetto.
Ne estrae una .44 Magnum e me la punta contro.
Faccio sparire il cerino in tasca. «Ehi, Dirty Harry vacci
piano», dico, tirando un’altra boccata.
Ama le armi, ma nasconderle in tutta la casa è davvero da
malati. Ma in fondo, cosa ci si può aspettare da uno che ha una
tazza di marmo nero?
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Stringe le palpebre, non ci vede più bene, ma riesce comunque a riconoscermi. «Come sei riuscito a entrare», dice,
afferrando la rivoltella con due mani, «e con quale coraggio ti
presenti qui, dopo avermi abbandonato?»
Forse gli è passata la voglia di giocare al tiro al bersaglio
oppure tutti i muscoli gli sono diventati adipe, ma alla fine
abbassa le braccia e aspetta una risposta.
***
All’inizio di tutto
Da qualche parte nel tempo, giù all’Inferno
È arrivata agli inizi dei tempi o un quarto d’ora fa, non
saprei dirlo con precisione. Qui il tempo è un concetto inutile.
Tutto è eternità. Non c’è una vera differenza tra “l’attimo” e il
“per sempre”.
La accolgo con un inchino. «Benvenuta in mia umile dimora,
ma hai sbagliato posto. Qui nessuno ha paura di te, ormai sono
già tutti morti.»
Nessuno dei dannati la degna di uno sguardo. Uno scheletro
con indosso un saio nero logoro e una falce scintillante sulle
spalle potrebbe spaventare sulla Terra, ma all’Inferno nessuno
ha paura della Morte.
Quest’ultima mi fissa, sento le sue orbite vuote su di me.
Non parla, ma capisco esattamente tutto quello che dice.
«No», rispondo, «è strano vederti da queste parti.»
Un alone opaco di tristezza la circonda. Di solito è la ragazza
più allegra della compagnia. Ha sempre una buona parola per
tutti, riesce a infondere coraggio anche ai più disperati e, cosa
non da poco, sa raccontare le barzellette senza ridere prima del
finale.
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Vederla così mi fa capire che qualcosa le tormenta l’anima.
«Cosa è successo?» Uso l’intonazione più dolce e sfodero le
zanne incluse nel mio sorriso.
Una volta bastava poco per incantarla, ma era tutto più
semplice quando ci amavamo e basta.
Cerco di non lasciarmi travolgere dai suoi ricatti emotivi.
«No, davvero, non puoi presentarti in questo stato e rispondere
niente.»
La vedo abbassare lo sguardo e ho la sensazione che stia
piangendo.
Provo a ignorarla, non voglio farmi coinvolgere nei suoi
contorti psicodrammi esistenziali. Anche se vedere scivolare le
lacrime sul teschio è una tentazione troppo forte.
Mi arrendo subito. «E va bene, hai vinto tu. Dai, vieni dentro
ci beviamo un caffè.»
Passa l’avambraccio sotto il cappuccio. Mi segue senza fare
rumore ed entriamo a palazzo.
«Che c’è, mai visto una donna?» urlo verso un paio di diavoli che la fissano senza pudore. «Se non la piantate vi mando
in Paradiso, lì vi castrano e vi pettinano sino a trasformarvi in
tanti piccoli shih tzu.»
Quindi torno a rivolgermi a lei. «Perdonali, non sanno
quello che fanno.»
Siamo seduti attorno a un tavolo di pietra con due caffè e ci
siamo ritagliati un pezzo di eternità tutto per noi. Che poi,
riuscite a immaginare cosa avranno di così importante da dirsi
la Morte e il Diavolo?
«Quindi quel Wagner è riuscito a litigare con quell’altro, il
filosofo tedesco… guarda se mi viene in mente il nome.»
Metto sotto stress la memoria, ma niente, non sento nemmeno
la presenza del nome del crucco di turno sulla punta della
lingua. «E pensare», dico per allungare il brodo, «che se lo son
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preso “sopra”, tanto per curare la sua fissazione per la morte di
Dio.»
Morte solleva la tazzina.
«Giusto, Nietzsche. Hai ragione.» Non so perché, ma si è
messa a parlare di quei due.
Dopo il caffè scatta il bisogno di nicotina, ma devo resistere. Se
riesce anche solo a immaginare che sto per accendere una
sigaretta, inizia con la solita storia. Si lamenta per il fumo negli
occhi. Vi giuro, lo dice sempre, anche se sembra impossibile.
«Cosa, scusa?» Ero sovrappensiero e mi sono perso le sue
parole. «Ah, certo. Per un periodo ci avevo provato anch’io a
farmi una cultura, ma era una cosa troppo complicata. Quando
sono bravi a scrivere e a parlare, sembrano tutti avere ragione,
sempre. Qualcosa mi è rimasto, ma poca roba. Io preferisco
agire, tutto qui.» Muovo le dita a vuoto, fingendo di rollare per
dare il meglio di me per le sigarette a venire. «Davvero
Nietzsche ha scritto che senza musica la vita sarebbe un
errore?»
Annuisce.
«E noi, cosa ne sappiamo? Cioè, siamo mica vivi, no?»
Con un gesto studiato, alza il mento e appoggia il teschio sulla
mano d’ossa. Volge lo sguardo altrove, assorta nei suoi pensieri.
Quasi mi strozzo con il caffè quando la sento. Mi pulisco il
mento con il dorso della mano. «Come sarebbe a dire che ti
annoi?»
Ah, le donne penso.
«Trovati un hobby o falciane qualcuno in più al giorno e
vedrai che lavorando ti passerà anche l’insoddisfazione.»
Dall’oscurità del suo sguardo parte un’occhiataccia che mi
fulmina. «Certo, ti ascolto.» Mi gratto il collo con una mano.
«Ho capito, è a causa della tua mansione se ti annoi.» Metto a
riposo la lingua per un attimo, giusto il tempo di pensare a
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qualcosa di intelligente. «Vero, fare sempre la stessa cosa dopo
un po’ è noioso.»
Nel silenzio in cui io non chiedo e lei non parla, l’imbarazzo
si insinua tra noi senza troppe cerimonie.
Mi passo un dito sulle corna e lo annuso. Lei sorseggia la bevanda senza fretta, sino a finirla. Poi, si alza e riprende la falce.
Faccio per alzarmi e incollo un paio di parole in risposta.
«Figurati, quando voi, ma scusami per prima, insomma, hai
capito, no?»
Ecco, lo sapevo.
Ripone la falce e spalanca le braccia.
Nessuna parola è adatta quando parli con una donna che hai
amato, nemmeno quando cerchi di chiederle scusa.
«No, non ti apprezzo solo quando sei di compagnia.»
Mi punta addosso l’indice e inizia una lunga serie di accuse.
Alcune sono anche vere, ma la cosa non mi dà fastidio più di
tanto.
Agita l’indice.
Ancora.
E ancora.
Sta vuotando il sacco.
Mi accomodo sulla sedia e aspetto.
Prima o poi finirà.
Ormai sapete come funziona: agita l’indice, agita l’indice e
via così sino a quando non termina le parole.
«No, stai esagerando, non siamo invecchiati e non è vero che
non riusciamo più a provare un brivido. E poi, ci siamo
frequentati ma non eravamo mica sposati. Perché parli così?»
Quando alza le braccia al cielo e le agita, le maniche le
scendono sino al gomito, mettendole a nudo l’avambraccio.
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Se non fosse così indispettita, le proporrei di fare un altro
giro nel paese del piacere, in ricordo dei vecchi tempi, ma è
meglio non farla incazzare ancora di più.
«Allora, cosa proponi?» dico e mi metto a sbirciarle le
gambe.
Appoggia le mani sui fianchi e pesta la terra con le ossa del
piede.
«Lo so, devo guardarti negli occhi. Allora, te lo chiedo
un’altra volta: cosa proponi?»
Non cambia posizione, non fa nulla, si limita a dire cosa
vuole. E la dice grossa.
«Dai, quelli erano altri tempi e con quel Giobbe volevo solo
fare incazzare il Vecchio. E poi sei davvero convinta che
nessuno riesca a batterti?»
Il guanto è stato lanciato, la Morte ha appena scommesso
con il Diavolo.
Se non voglio passare un altro brutto pezzo d’eternità mi
conviene accettare la sfida.
***
29 giugno ’54
Memphis, davanti alla Sun Records
Mi ha fatto un’offerta che non potevo rifiutare e alla fine mi
ha trascinato a Memphis.
Io odio questo posto.
È una città troppo calda, piena di cristiani e chiese a ogni
angolo. Se proprio devo uscire a fare quattro passi sulla Terra,
scelgo con cura le mie mete, non lascio l’Inferno per finire in
un luogo peggiore.
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«Quindi, se ho capito bene, si trova qui?» Lancio una rapida
occhiata ai dintorni, ma rimango concentrato sulla cartina, il
tabacco e il difficile lavoro di coordinamento tra occhio e
mano. Il risultato è pessimo, ma è quanto di meglio riesca a
fare in sua presenza.
E se il fumo le dà fastidio, poco importa.
«Tu», proseguo, «pensi che un uomo solo possa cambiare il
mondo?»
La Morte annuisce.
«Quindi dovrei aiutarlo, senza trucchi e diavolerie varie, a
compiere qualcosa di grande, ho capito bene?» Il fiammifero incendia buona parte della carta e per poco non mi scotto le labbra.
Le sue mani si muovono dolcemente e si appoggiano sul mio
petto. «Sì e pensi che me la beva? Io sarei l’unico in grado di
far sognare davvero gli uomini?» Fisso il cadavere ustionato
della sigaretta tra le dita. «Cara, non sono vanitoso, anche se
ricevere complimenti non mi dispiace. Comunque non sono poi
così bravo, non immagini quanti mi vendano l’anima senza
averne davvero bisogno. Spesso sono in grado di fare da soli
tutto ciò che comprano a caro prezzo.»
Getto a terra il mozzicone e tolgo un filo di tabacco dalle
labbra.
Lei fa spallucce e alza i palmi delle mani.
«E già, dici solo la verità, ma fammi il piacere.»
Dalla sinistra arriva un grosso camion della Crown Electric.
Alla guida c’è un ragazzo così anonimo che non riusciresti a
distinguerlo nemmeno se lo conoscessi e lo vedessi in mezzo
ad altre persone.
Cosa ci vedrà la Morte è un mistero, ma tant’è.
Lei porta la falce al petto e sembra provare del piacere
nell’abbracciare il bastone.
Chiaro, si tratta di un surrogato.
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Lo capisco quando la vedo lanciare un paio di sguardi
clandestini verso il nuovo arrivato e sento la sua voce salire di
un’ottava.
Almeno, così si usa dire quando una voce squilla per l’emozione.
Gelosia no, ma qualcosa di fastidioso mi punge nell’orgoglio. Con me non aveva mai fatto così.
«Okay, erano due gemelli e ti sei presa Jesse Gaaron e
questo Elvis Aaron lo hai risparmiato, perché?»
Scuote la testa e per un attimo il suo sorriso eterno sbuca dal
cappuccio. Libera la falce e ci si appoggia quasi fosse un
normale bastone da passeggio.
«Ascolta, mentre ti annoiavi, sei sicura di non essere diventata pazza?»
La testa ballonzola da spalla a spalla.
«Sì, è pazzia perché non credo sia amore.»
Si volta di scatto e mi colpisce con la mano all’altezza del
petto, proprio dove credo di avere un cuore.
Nascondo il dolore e cerco di sembrare indistruttibile. «Invecchiando stai diventando sentimentale.»
Mi gira le spalle, per poco non mi colpisce con il manico di
legno, e incrocia le braccia.
«Dai, non fare così, sei davvero sicura?»
Gira appena il capo e mi squadra con sufficienza.
«Doveva morire con il gemello, vero? Vuoi vedere quanto
può portarlo lontano il suo sogno?»
Batte la falce a terra e mi fa scivolare la lama a pochi centimetri dal naso.
«Ho tempo sino al 16 agosto ’77, ventitré anni non sono pochi.»
Ora ho capito, non si tratta proprio di una scommessa. È
troppo orgogliosa per chiedermelo apertamente, ma vuole che
aiuti Elvis.
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Non ne è innamorata, almeno non nel senso tradizionale. Mi
sento sollevato.
Alza una mano e indica la vetrina dall’altro lato della strada.
“Sun Records”, recita l’insegna pitturata sul muro. L’edificio è un
brutto ammasso di mattoni, con una forma fuori da ogni geometria
simmetrica, posto al 710 della Union Ave.
«Ho capito, vuole fare il cantante.»
La guardo e sorrido. Ragazza, ti amo ogni giorno di più,
penso, allungando una mano.
«Affare fatto», dico mentre cerco di capire quale sarà il mio
ruolo, «e vedremo se nemmeno il Diavolo può battere la Morte.»
Stringo le ossa sbucate dalla manica, stando attento a non
farle scrocchiare.
Lei scompare in una nuvola di cenere.
Elvis spegne il motore e si guarda attorno. Sprofonda nel
sedile e fissa la vetrina. Muove appena le labbra. Sta parlando
da solo.
È arrivato il momento di assumere le mie sembianze umane.
Siamo negli anni ’50, chi posso essere se non Marlon Brando?
Appaio con indosso una giacca di pelle nera aderente con il
bavero alzato, una t-shirt di cotone bianca, jeans neri, un paio
di stivali e un cappello color crema con visiera calato sul viso
da bel tenebroso.
E che cazzo, sono il Diavolo e il ruolo del selvaggio ce l’ho
cucito addosso.
Vero, ma solo un piccolo dettaglio rovina l’atmosfera.
Una giacca di pelle, se sfrecci sull’asfalto sul dorso di un
“cavallo meccanico”, anche solo per fare figura, serve a qualcosa. Ma è del tutto inutile se non c’è nemmeno l’ombra di una
Triumph e sei a piedi in piena estate a Memphis. Oltre a farmi
sudare quanto un maiale su una griglia, mi fa pure fare la figura
del fesso.
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Tolto lo strato superfluo di vestiti e levandomi il berretto
della testa, seppur di poco, la situazione migliora.
«Ehi, ragazzo», dico avvicinandomi all’abitacolo, «temo di
essermi perso.»
Elvis sobbalza per lo spavento, poi spalanca gli occhi e mi
fissa. Salta giù dal mezzo e mi viene incontro sorridendo. «Ma
lei è Marlon Brando, cosa ci fa qui a Memphis?»
Saltella sul posto e si guarda attorno con la stessa espressione incredula di uno che ha appena incontrato il suo idolo in
un posto impensabile.
Se fate fatica a immaginarvelo, è più o meno quella di chi,
scavando in giardino per piantare un albero, scopre un tesoro
così grande da far scoppiare per l’invidia il genio della
lampada.
A quanto pare ho scelto bene il mio aspetto. Tra me e lui
sembrano esserci una decina di anni di differenza, giusto quelli
sufficienti per farmi sembrare uno che sa il fatto suo.
Sposto la giacca e il cappello nella mano sinistra. «Eh,
magari fossi Brando. No, gli assomiglio, ma non sono lui.»
Mi guarda ancora una volta e mette in moto gli ingranaggi
del cervello. Non sento nessun rumore di ferraglia. Buon
segno: è abituato a pensare.
«Spero di non averti deluso.»
«No, assolutamente, anzi mi scusi», dice e si pulisce la mano
sulla tuta blu da lavoro prima di porgermela. «Mi chiamo
Elvis.»
La voce, ecco cosa ci ha visto Morte in questo diciannovenne.
Sino a quando sta zitto è anonimo, ma quando parla salta agli occhi
la differenza. D’accordo, anche il resto non è da buttare.
Eccomi, ancora intento a stringere un’altra mano e a sorridere.
Se continuo di questo passo potrebbero scambiarmi per un politico.
«John Smith», rispondo con un nome a caso, «piacere.»
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Mica posso presentarmi come Louis Cypher, no?
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