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Saggio critico di Ema Weiss - PDF

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Saggio critico di Ema Weiss - PDF
Eva Weiss
‘Nel regno dei segni’
Sulla vita e sull’opera di Massimo Campigli
I
L’opera di Massimo Campigli, un vero esperto di interazioni femminili, si evolve e trae origine
da un fantasma, un’unica scena primaria di cui riferiamo qui la versione più particolareggiata:
“Racconterò una di queste storie, che è poi quella alla quale sono rimasto affezionato più a lungo,
che per anni ho elaborato e aggiornato. Avevo
immaginato, avrò avuto otto anni, uno sfarzoso palazzo
orientale nel quale ero maragià, con un gran numero di
sultane. (Ero rimasto molto impressionato dalla notizia
che Abdul Hamid aveva cinquecento donne. Nel mio
harem però non andai mai oltre la dozzina).
Questo palazzo era costruito a chiocciola, non voglio dire come una scala a
chiocciola verticalmente, ma tondeggiante come una conchiglia di lumaca,
come una cupola, attorno alla quale si snodava a spirale una sequela di
stanzette, un po’ come palchi al teatro, e tutto girava attorno a un punto centrale
dove, in un’alcova dalle pareti traforate, giacevo io con una
favorita.
Le stanzette erano occupate ciascuna da una due o tre di
queste mie sultane o schiave, che vi passavano beati ozi,
tutt’al più occupate ad interminabili toelette, a pettinarsi e
adornarsi; o a giuochi fanciulleschi o lavoretti muliebri.
Attraverso le traforature della mia alcova potevo osservarle
e udirne i discorsi.”
Alle illustrazioni per l’edizione de Il Milione di Marco Polo, uno dei
grandi libri d’artista del Novecento, che Campigli presenta nel 1942 e
quindi nel bel mezzo della sua creazione artistica, spetta in questo
contesto un ruolo eminente e sinora trascurato.
Campigli tralascia completamente la dimensione economica di questa relazione di viaggio,
“prodotto di una sensibilità essenzialmente mercantile”, per via della quale il libro
raccontato dal mercante veneziano Marco Polo viene a tutt’oggi celebrato, e interpreta
l’onnipotenza del Gran Can come potere sulle donne, intronizzando se stesso: con
l’autoritratto in veste di Gran Can sul frontespizio, Campigli chiarisce che è da lui che
promana ora il potere del racconto.
Il nucleo del volume è costituito da una litografia su due pagine, senza dubbio la più completa trasposizione della
giubilante fantasia del bambino di otto anni, che mostra il palazzo del Gran Can, sorvegliato e pieno di donne, nella cui
stanza centrale giace il sovrano, cioè l’artista,
circondato dalle donne. Il palazzo fa, per così dire, da
superiore cornice architettonica all’opera di Campigli
con i suoi tanti quadri di facciate e scale e con scene
d’interni, di palchi, di tende e di gioco.
A partire dalle litografie per Il Milione si possono
seguire diversi percorsi miranti al centro dell’opera di
Campigli: il libro funge così da punto di sutura che ne
collega l’opera artistica precedente con quella
successiva, per il fatto che qui da un lato ricorrono dei
quadri degli anni Trenta, ma dall’altro trovano origine
spunti di quadri futuri; così, come si dimostra già
sfogliando di sfuggita il volume, questo nucleo di
motivi e temi dà espressione quasi in ogni litografia a
quella radicale focalizzazione sulla donna, decisiva per
l’universo di Campigli, che i suoi interpreti hanno spesso sottolineato. Soprattutto però si possono dare alcune prime
risposte a due questioni fondamentali: quella del rapporto tra amore e cattura e quella della specifica funzione di
quest’arte. I quadri di Campigli non hanno nulla di voyeuristico, al contrario di quanto potrebbe far supporre la sua
confessione citata in apertura. A parte pochissime eccezioni, tralasciano as-solutamente la donna in quanto oggetto
sessuale. Per quanto chiaramente quasi tutti i quadri siano rapportabili a quell’immaginazione fantasmatica come sue
presentificazioni illustrative e mostrino quindi la donna in una situazione in cui è frontalmente rivolta e consegnata al
suo creatore, altrettanto chiaramente rinunciano, di nuovo a prescindere da poche eccezioni (Le recluse, 1930),
a garantire la presenza permanente delle donne stesse per mezzo della
violenza fisica. Le ragazzee le donne di Campigli non vengono tenute
prigioniere in un carcere, bensì poste sotto il patronato di un onnipotente e ne
abitano – bisognerebbe aggiungere: anche quando non è visibile – il palazzo.
Questo rapporto quasi dialettico tra palazzo e prigione ha condotto al fatto che
i quadri sono stati intesi e fruiti in genere sullo sfondo di una mediterraneità
estetica armoniosa e non problematica, e del suo retaggio antico. Questa
chiave di lettura, che pure senz’altro si avvicina a un punto di vista spontaneo,
collide però con la brutale franchezza con la quale gli scritti di Campigli
stesso chiamano le cose per nome.
In questo modo si dirige lo sguardo sulle raffinate strategie compositive usate
da Campigli per trasporre le proprie ossessioni: il posizionamento delle figure
e le loro interazioni, il ruolo dell’architettura, delle ringhiere, dei telai, ma anche dei gioielli. Questo metaforismo,
divenuto nel corso della sua vita una topica, un disponibile schema, con l’aiuto del quale – secondo una famosa
definizione di Roland Barthes – può essere detto quello che si deve dire, alla fin fine allude alla
struttura del segno: la collana come gioiello
e come catena, il diabolo come cordicella e
come legame, la ringhiera come ornamento
e come inferriata. Solo così si rende evidente
come a Campigli potesse riuscire di
attribuire un doppio fondo ai suoi quadri:
poiché come ogni segno i simboli sono non
univoci, ovvero leggibili con più significati.
Per quanto riguarda la seconda questione: a
partire da questi presupposti, in un primo
momento stupisce che Campigli nelle illustrazioni situi il proprio
fantasma con una precisione addirittura filologica nello spazio
orientale e asiatico dettato dal testo, e quindi ad esempio
differenzi con precisione tra costruzioni islamiche d’argilla, accampamenti di iurte tartare, pagode cinesi ecc. La sintesi
tra fedeltà al dettaglio geografico e storico-culturale e soggettività mette in evidenza quanto indissolubilmente l’atto
della produzione nell’opera di
Campigli sia legato a momenti della
ricezione. Nei confronti di questa
formula sottesa all’attimo creativo
sono debitori non solo numerosi
quadri nati dal confronto con
l’antichità oppure, negli anni
Sessanta, con l’arte extraeuropea,
ma anche ad esempio la serie tanto
spesso esposta dei quadri di teatro,
che sembrano da un lato rendere
edifici realmente esistenti come La Fenice di Venezia oppure La Scala di Milano e che pure al contempo – già solo per
la resa esclusivamente al femminile del pubblico – derivano da immaginazioni soggettive.
La pittura di Campigli ci mette a confronto con una variante sua propria di quel rapporto tra citazione e originalità che
tanto predomina nell’arte moderna. Portando inscritti in sé come subtesti gli ordinamenti simbolici della cultura,
dell’arte, del gioco e del culto, in un procedimento di permanente
riposizionamento e ricodificazione di tali costellazioni può
continuamente rimettere in scena il fantasma. Un’attenta considerazione
del palazzo nel Milione rivela l’equilibrio assolutamente precario della
situazione. Mostra, infatti, il padrone dell’harem assediato da uno
strapotere delledonne, rinchiuso e quasi evanescente nel mondo delle
proprie ossessioni. Sia dalla versione postuma dell’autobiografia che da
certi quadri dell’opera giovanile – quelli delle donne “pesanti” e quelli
che già nel titolo attestano il ribaltamento dei rapporti di potere (le due
versioni de La carceriera come anche la versione grande dello stesso
motivo della padrona del cane in Marché de femmes et de pots, si può
dedurre che dev’essere stato lungo il cammino per arrivare a un
rapporto disincantato e distante, quasi autoironico con le proprie ossessioni, com’è riuscito per la prima volta sul
frontespizio oppure nella scena di corte del Milione.
L’arte era per Campigli un mezzo per il ritrovamento di sé e la liberazione dell’io, perché non doveva reprimere le
proprie ossessioni ma le poteva invece trasferire e agire nella finzione.
La presunta unidimensionalità della sua opera, occasionalmente oggetto di critica – la limitazione cioè a un solo tema –,
da questo punto di vista si dimostra, per dirla esasperando e liberamente citando Nietzsche, come il progetto di una
pittura come gaia scienza, come quella lunga, laboriosa, ostinata serietà nella commedia della vita la cui ricompensa è la
serenità.
II
Con la pubblicazione postuma della seconda, ben più particolareggiata e radicale stesura della sua autobiografia – uscita
nel 1995 con il titolo Nuovi Scrupoli, modellato su quello della prima (Scrupoli, 1955) – si è sì reso evidente che la
chiave per la comprensione dell’arte di Campigli va ricercata nella sua prima infanzia, ma anche che questi inizi della
storia della sua vita sono accessibili solo in modo frammentario e spesso misteriosi. Così, pars pro toto, siamo del tutto
all’oscuro soprattutto dell’identità del padre.
Massimo Campigli nacque il 4 luglio 1895 come Max Ihlen-feld a Berlino, figlio illegittimo di genitori tedeschi. Sua
madre, la diciottenne Anna Pauline Louisa Ihlenfeld, che presumibilmente proveniva da un ambiente borghese e
benestante, troncò qualsiasi contatto con il padre del bambino, un giovane studente, e per paura dello scandalo in società
si trasferì in Italia, probabilmente insieme a sua madre e alle sue due sorelle.
Il bambino venne affidato alla sua famiglia, a Settignano, mentre lei stessa andò a stare a Firenze. Da lì veniva spesso in
visita – senza tuttavia rivelarsi al figlio come sua madre. Nel 1899 sposò il cittadino britannico Walter Richard Joseph
Bennett, che lavorava a Firenze come rappresentante di una ditta inglese di colori, e prese con sé il figlio, che però solo
per caso, ormai quindicenne, scoprì che quella che davanti a lui aveva sempre continuato a farsi passare per sua zia era
sua madre. In Nuovi Scrupoli Campigli descrive questo avvenimento come un’improvvisa spiegazione per numerose
incongruenze – dal patrigno ad esempio era stato mandato in scuole private sotto diversi nomi –, che non gravò però sul
rapporto con la famiglia, anche con le due sorellastre nate nel 1906 e nel 1907, bensì lo consolidò. L’argomento delle
sue origini tuttavia rimase per tutta la sua vita un tabù in famiglia.
Non è difficile riconoscere, in base a questa costellazione, che Campigli dovette superare problematiche che rivestivano
importanza ben al di là di un ambito biografico – soprattutto il cosmo senza uomini dei suoi quadri sembra prefigurato
nel
mondo
delle
giovanissime zie e privo di
padre della sua prima
infanzia – e che si
spostarono
in
campo
artistico, con la massima
insistenza certo nei dipinti
eseguiti alla fine degli anni
venti ed all’inizio degli anni
trenta che già nei titoli si
dedicano alla questione
dell’identità dell’uomo: La famiglia, La biografia e La loi d’atavisme/Généalogie.
Nel 1914, tre anni dopo la morte improvvisa del patrigno, il diciannovenne iniziò a lavorare – evidentemente senza aver
assolto alcun particolare apprendistato e senza che ci sia noto come fosse nato questo rapporto – come segretario di
Renato Simoni, il famoso critico teatrale e direttore del supplemento letterario del quotidiano milanese Corriere della
Sera.
Datano da questo periodo i primi contatti con cerchie d’artisti, soprattutto con i futuristi attorno a Carlo Carrà e
Umberto Boccioni. Campigli scrisse anche diversi testi futuristi di cosiddette parole in libertà, in cui “la sintassi [...] si
era scompaginata” e che anche tipograficamente rompevano con le norme tradizionali. Uno di questi testi, dal titolo
Giornale + Strada, Campigli poté pubblicarlo nel 1914 nella rivista d’avanguardia Lacerba – un documento degno di
nota anche per il fatto che firmò qui per la prima volta con il suo nome italianizzato, che avrebbe utilizzato da allora in
avanti.
Grazie al suo arruolamento volontario nella prima guerra mondiale Campigli poté legalizzare il proprio nome e
acquisire la cittadinanza italiana. Per la famiglia restò pur sempre “Max”, ma nei confronti del mondo esterno cercò di
tenere segrete le sue radici tedesche, indicando Firenze come luogo di nascita in tutti i cataloghi e le monografie e
pregando chi ne era al corrente, come Emilio Cecchi e Carlo Carrà, di non accennare alle sue origini tedesche nei loro
articoli.
Nell’estate del 1915, dopo il suo reclutamento a Ivrea, in Piemonte, Campigli venne mandato al fronte vicino a Trieste.
Un anno dopo, il 15 agosto 1916, cadde prigioniero degli austriaci e venne portato nella fortezza di Sigmundsherberg, a
nord-ovest di Vienna. Nella primavera del 1918 gli riuscì la fuga a Bucarest, grazie alla sua perfetta conoscenza del
tedesco e a un’uniforme di caporale austriaco. Da lì riuscì, perlopiù a piedi, a giungere sino a Mosca, dove il 1° giugno
1918 trovò rifugio nella missione militare italiana.
Facendo poi tappa tra l’altro ad Archangelsk e a Murmansk, nell’estremo nord della Russia, su di una nave inglese
nell’ottobre 1918 arrivò a Londra, da dove poté ritornare a Milano.
In Nuovi Scrupoli Campigli descrive il tempo di guerra come improvvisa irruzione della realtà, ma
non gli riconosce alcun’altra importanza per la propria vita interiore e per la propria arte. È noto
solamente un quadro che mostra quattro soldati in tenuta da combattimento, ma che nell’insieme
dell’opera figura come un corpo estraneo.
Otto mesi dopo il suo ritorno a Milano, nel giugno del 1919, Campigli venne mandato a Parigi come
corrispondente del Corriere della Sera. A Montparnasse prese la decisione radicale, e non inusuale
per l’estetica della genialità di quel tempo e luogo, di diventare artista, e iniziò a dipingere da
autodidatta, sino al 1927 ancora parallelamente al suo lavoro notturno per il giornale. Gli riuscì di
affermarsi come artista in tempi sorprendentemente brevi, stabilendo contatti con galleristi e critici
già a partire dal 1922. Léonce Rosenberg, il mercante di Picasso e dei cubisti, nel 1922 gli comprò i
primi quadri, e la Galleria d’Arte Bragaglia di Roma, una delle più rinomate gallerie d’arte contemporanea in Italia,
allestì nel 1923 la sua prima mostra personale, con
un’introduzione di Emilio Cecchi.
La reputazione internazionale di Campigli venne promossa
soprattutto dalla sua associazione al Novecento Italiano e dalla
sua appartenenza agli Italiens de Paris, un gruppo d’artisti da lui
fondato insieme a de Chirico, Savinio, De Pisis e altri. Con
ambedue i raggruppamenti dal 1926 partecipò a una fitta serie di
esposizioni in tutta Europa, tra l’altro a Zurigo, Berna, Amburgo,
Berlino, Chemnitz e Lipsia. A Dresda ebbe luogo nel 1927 la sua
seconda personale, alla Galleria Baumbach.
Nel 1928 ebbe l’onore di una parete a lui riservata alla XVI
Biennale di Venezia.
Alla sua terza personale presso la galleria d’avanguardia di
Jeanne Bucher a Parigi nel 1929 toccò un successo sensazionale:
nel giro di tre giorni tutti i quadri erano stati venduti.
In questa carriera alla fin fine lineare sono tuttavia inscritte due
cesure fondamentali. Presumibilmente per reazione alla mostra
da Bragaglia, che sembra esser stata un “fiasco”12 , nel 1923/24
Campigli dà un orientamento completamente nuovo alla propria
arte. I personaggi stereometrici, longilinei, spesso calvi e che
appaiono quasi virtuali in piccoli spazi a cassetta e fortemente
prospettici oppure davanti a un’archi-tettura labirintica e quasi da
quinta teatrale cedono il passo a figure voluminose e statuarie,
che per la loro grandezza e pesantezza eccessive sembrano quasi
far esplo-dere gli interni in cui siedono oppure i piani
dell’immagine a loro disposizione. La seconda e ancor più fondamentale cesura è segnata dalla leggendaria visita del
1928 al Museo Etrusco di Villa Giulia a Roma, visita a cui Campigli stesso fa risalire l’inizio della sua opera vera e
propria, nel corso di un viaggio in compagnia della moglie, la pittrice Magdalena Radulescu, sposata due anni prima,
che lo portò in Italia e in Romania, patria della moglie.
Già la ricerca di una propria identità artistica tra il 1919 ed il 1928 si era
compiuta nel dialogo con l’arte classica (nel senso più ampio) e con la sua
ricezione contemporanea. Appare importante a questo proposito
soprattutto il rapporto sempre più autonomo con le fonti. Nell’opera
giovanile Donna sulla soglia, una scena di morte di non facile
interpretazione, con l’arte funeraria della grecità classica, il Cristo che
ascende al cielo, inoltre la piana architettura e la figura sulla soglia come
la si conosce dalla pittura del Trecento, Campigli si servì di stili e motivi
iconografici disparati, ma pur sempre facilmente identificabili –
un’enigmatica arte combinatoria dell’eterogeneo simile a quella praticata
negli stessi anni anche dalla Pittura metafisica.
I quadri con pesanti figure femminili dipinti dal 1924 in poi, dopo una
crisi creativa durata quasi un anno, ricordano naturalmente per la loro
pressante corporeità quelli di Picasso o di Léger. Il rapporto più libero con
i suoi modelli si manifesta nel fatto che Campigli proietta e sovrappone
ora parecchie fonti in un’unica figura, invece di per così dire allinearle
paratatticamente una accanto all’altra, come faceva prima. Così, nel
dipinto Donna con le braccia conserte il motivo, il portamento della
testa, la semplificazione sculturale e la compattezza della figura femminile rimandano a Sironi quanto a Picasso e alla
Grecia classica.
I paralleli formali con i rappresentanti del classicismo degli anni Venti non devono però
trarre in inganno rispetto alle importanti divergenze nel contenuto. Il dialogo condotto da
Campigli è sempre, a differenza che per i suoi contemporanei, autoreferenziale. Campigli
non è interessato né a dati antropologici fondamentali, ad esempio il rapporto madre-figlio
(v. Picasso, Funi, Severini), né a costellazioni mitologiche o storiche (de Chirico, Funi).
Persino quando, come in Donna con le braccia conserte, dipinge in linea di massima lo
stesso soggetto di Sironi in Donna con vaso, tramite l’articolazione semantica lo condensa
rigorosamente nel senso del proprio fantasma: costretta in uno spazio a sfondo chiuso e
non, come in Sironi, aperto verso l’esterno, spinta in avanti per via della rinuncia a una
barriera spaziale verso lo spettatore e compressa tra la mensola che segue l’angolo della
parete a sinistra e la ciotola a destra, la figura femminile corrisponde all’idea standard di
Campigli della donna come prigioniera.
Su questo sfondo, la visita del 1928 a Villa Giulia si rappresenta come
evento non tanto d’iniziazione quanto catalizzatore, grazie al quale
determinate predisposizioni di Campigli vennero portate alla luce. Egli
stesso sottolineava che era stato lo “spirito” dell’arte etrusca, e non
singole opere identificabili, a suscitare in lui “emozioni” che aveva
potuto subito tradurre in pittura durante il suo soggiorno
immediatamente successivo in Romania, un paese che ai suoi occhi
aveva conservato un carattere ancora antico.
Quello “spirito” dell’arte etrusca celebrato da Campigli deriva dalla sua
clamorosa deroga a ogni normatività, cosa per cui si distingue
fondamentalmente sia dalla classicità greco-romana che dall’arte egizia
canonica con le quali Campigli si era confrontato negli anni precedenti.
La differenza è insita già nel mezzo materiale: invece della dura pietra,
come i popoli vicini, gli etruschi prediligevano persino per le loro
grandi sculture la tenera argilla, che consentiva una modellatura molto
più spontanea e assai meno convenzionale. Questa libertà nel
trattamento del materiale evidentemente incoraggiò Campigli a una
radicalizzazione della tecnica pittorica, che si era già annunciata in una
stesura del colore sempre più inquieta e a macchie: nei quadri eseguiti
a partire dall’estate 1928 sperimenta con sfondi biancastri e ruvidi,
attraverso i quali traspaiono gli strati di colore sottostanti.
Certe parti le rifà continuamente, le ridipinge, torna a grattare via,
applica uno strato sopra l’altro. Talvolta stende il colore in modo molto
pastoso e non lavora solo col pennello, ma spesso anche con la spatola
oppure incide delle linee nel colore umido con il manico del pennello.
Parallelamente a questa forma di espressione individuale e diretta – proprio se confrontata con la stesura del colore
impersonalmente liscia dei primi anni Venti – cambia anche la coloritura. Campigli dà per esempio in parte coloritura
monocromatica a singole figure e limita la sua tavolozza a pochi toni di bianco, ocra, marrone e nero oltre a un rosso
terracotta che senz’altro non a caso è spesso dominante, se si pensa alla scultura etrusca in argilla, a cui talvolta si
aggiungono un grigio-azzurro e un verde spento.
A prescindere da modificazioni graduali, abbiamo con ciò più o meno circoscritto quella che è la segnatura artigianale
di tutta l’opera, che riveste importanza ben oltre il lato tecnico.
Dalla specifica stesura del colore infatti e dalla riduzione cromatica che rammenta l’odierno stato di conservazione
sbiadito, friabile e frammentario di opere antiche risulta quell’aura “antica” tanto tipica della pittura di Campigli a
partire dal 1928, che non va peraltro confusa con una regressione nell’antico e nel mito, come sostiene un’accusa del
critico Christian Zervos (1931), ma è un indicatore dell’immaginario: le figure sono deterritorializzate e collocate
perlopiù su sfondi chiari e piatti, ampiamente indefiniti, che come nei frammenti di un sogno non vengono strutturati
che da elementi architettonici dispersi, senza che questi si congiungano a formare spazi concreti. La condizione
fantasmatica viene rafforzata dalla stilizzazione delle figure nettamente ridimensionate: i tratti più appariscenti ne sono
l’estremo assottigliamento della vita, che contrasta con la pienezza dei seni spesso nudi, e la frequente torsione dei
corpi.
L’arte etrusca fece da catalizzatore anche nel senso che Campigli trovò per suo tramite un nuovo approccio soggettivo
all’arte. Se in precedenza aveva nutrito interesse – come i cubisti e i puristi, che teneva all’epoca in grande stima – solo
per un’antichità in cui si incarnassero principi esemplari di ordine, proporzioni e armonia, adesso invece si apriva a
opere che lo tangevano personalmente. Ricco di conseguenze nell’esperienza etrusca è l’incoraggiamento che ne
promana, anche se ne trascende poi l’epoca, a praticare anche settori marginali e a liberarsi dal diktat della celebrità di
un’opera. Questo spiega perché Campigli, anche se egli stesso non parla che dello spirito etrusco, negli anni dopo il
1928 recepì accanto a quella etrusca anche l’arte egizia, romana e greca, e precisamente perlopiù opere d’arte minore,
poco considerate.
Così ad esempio il piccolo Torso di Nefertiti di quarzite rossa del
Louvre riappare inconfondibilmente nella grande figura eretta del
dipinto La canicola. eseguito nel 1928 in Romania.
Campigli deve aver inconsciamente fatta propria la statuetta egizia, una
delle opere più sensuali e meno canoniche dell’arte egiziana in
generale, mesi e forse addirittura anni prima del viaggio, durante le sue
numerose visite al Louvre. Di conseguenza non cita fedelmente i
dettagli della figura, ma dà nel proprio quadro nuova distribuzione a
elementi pregnanti come i fianchi sporgenti e le larghe cosce, la
trasparenza e il plissé della veste e anche al colore rosso della pietra,
trasformandoli: assottiglia talmente la vita che busto e ba-cino creano
la forma a clessidra caratteristica delle donne di Campigli, riduce la veste a una gonna, trae dalle
pieghe che attraversano il petto in diagonale l’ispirazione per il ventaglio aperto e rende la figura eretta solo in parte, ma
in compenso una seconda figura coricata completamente, in rosso. La statuetta viene inoltre straniata dal diverso
contesto e dalla sintassi decisamente moderna. Campigli provoca mirate fratture nei mezzi d’espressione artistica:
all’accentuata piattezza dello sfondo si contrappone la plasticità delle figure ottenuta tramite forti ombre di riporto,
elementi pittorici contrastano con parti rese in modo puramente grafico.
In seguito alla visita a Villa Giulia hanno origine in rapida sequenza diverse opere maggiori, tra
cui l’Autoritratto da scultore del 1929, attualmente purtroppo da ritenere perduto, a cui spetta
un ruolo preminente tra i circa venti autoritratti dipinti da Campigli nell’arco della sua vita.
Campigli vi estende il ritratto del capo o a mezzo busto che altrimenti predilige, volto
esclusivamente a cogliere una fisionomia, sino a un ritratto d’artista a figura intera e dotato di un
carattere scenico. Immediatamente esposto nel 1929 da Jeanne Bucher a Parigi e nel 1930 alla
Galleria Milano e pubblicato inoltre l’anno seguente nella monografia russa di Selenina, è
l’autoritratto programmatico di un artista che annuncia la fine del proprio apprendistato e
comunica di aver definitivamente trovato la propria tematica e i propri mezzi raffigurativi.
Campigli si presenta, per così dire, con la materia prima della sua arte.
La forma a clessidra del busto che sta sul banco di lavoro infatti è quella che inserisce come segno universale per la
donna in ognuno dei suoi quadri: come elemento di costruzione del corpo, come attributo, come elemento architettonico
oppure come ornamento.
Come su un biglietto da visita, nel quadro sono leggibili i dati determinanti dell’arte di Campigli: il lavorare secondo
immaginazione, senza modello; la concezione esistenziale dell’arte, sottolineata dalla nudità; il rapporto ambivalente
con la donna, tra intronizzazione per mezzo del piedistallo e cattura per mezzo dell’inferriata, tra la mano sinistra tanto
protettiva quanto opprimente e la mano destra intenta a perfezionare e al contempo pronta alla violenza; la professione
di adesione come fondamento della propria arte da un lato e alla modernità della propria arte dall’altro, grazie alla
differenza formale tra busto e ritratto romano a mezzobusto; come anche, infine, l’infinita ricerca della “formula” per la
donna, simboleggiata nello stato di sospensione del busto tra compimento e frammentarietà.
Il dipinto di grande formato Marché de femmes et de pots,
un ulteriore quadro-chiave di questa fase, illustra
esemplarmente in che modo l’arte diventi per Campigli,
ispirato dalla teoria psicanalitica, un campo di superamento
dei conflitti. Tematizza l’ambito problematico in quel
periodo centrale e precario per Campigli, come apprendiamo
dall’autobiografia, della sessualità, del rapporto tra i sessi,
del corpo e della violenza. Probabilmente nel contesto di un
confronto intensivo con il proprio io su base psicanalitica,
nell’ambito del quale Campigli lesse e rilesse opere di Freud
e di Jung in edizione originale, il quadro riprende sotto forma
di un sogno l’antagonismo fondamentale delle idee
concorrenti e in reciproco spostamento e sovrapposizione
della voluttà e dell’ordine: da un lato, nella metà sinistra del
quadro, l’harem ovvero il mercato delle donne con i suoi
feticci, il busto, e anche l’istinto maschile soggiogato dalla
donna e simboleggiato dal cane, visioni di dissolutezza e di
spreco quindi come ben rappresentano i vasi che giacciono
per terra, che non trattengono né trasportano il loro
contenuto; e d’altra parte, nella metà destra del quadro, idee
estetico-apollinee: il rapporto ordinato della coppia di busti e
i vasi sta-bili, che si completano in colonne e serbano il loro
contenuto, in corrispondenza quindi con il cavallo come
“indicatore”, come “parte positiva della libido” (C.G. Jung).
Tutte le sequenze del dipinto, isolate oppure modificate, ricorrono in altri quadri dell’epoca – come ad esempio la donna
con il cane nelle due versioni della Carceriera (1929) – e (senza cane) nella coppia di
donne a sinistra in Donne (1929), la sua gonna a righe e il cavallo bianco ne Gli zingari
(1928), il vaso coricato in Volto (1930), la scena della vestizione ovvero svestizione in
Abbigliamento in quattro fasi (1928), il motivo della figura di spalle con il
personaggio-ombra in Tre donne (1929), la coppia di busti in Donne (1929), il busto
femminile in Busto con vaso blu (1928), i vasi accatastati
uno sull’altro e il
palazzo in Donna
alla fontana (1929)
e il motivo del
dormiente
nella
figura
femminile
coricata
ne
La
canicola (1928).
È nella natura di
tutte queste opere
costruite secondo il
modello del rebus di
Marché de femmes et de pots che non siano
decifrabili che approssimativamente. Eppure
dall’agglomerato scenico attorno al sognatore
in Marché de femmes et de pots si può dedurre che si tratta di narrativizzazioni
dell’inconscio: di pittura come “sessualità simboleggiata”, per usare l’espressione di
Campigli. La funzione dell’arte consiste per Campigli nel poter articolare i complicati
e tabuizzati processi psichici in una cornice accettata dalla società, e nel non doverli
reprimere.
Questo effetto di alleggerimento si ripercuote nell’opera degli anni Trenta. Se nei
dipinti eseguiti alla fine degli anni Venti si rispecchiava ancora la precarietà della
situazione personale in cui Campigli si era venuto a trovare in alcune fasi, il fantasma si rende in misura crescente
autonomo in una dimensione estetica. La contrapposizione dei sessi, della massima evidenza nell’incontro tra il
cavaliere nudo e la zingara semispogliata rivolta verso di lui ne Gli zingari, lascia il posto ad accostamenti di gruppi
desessualizzati, armoniosi e liberi da ogni opposizione, che traggono la loro forza sia dalla cultura mediterranea che
anche – e soprattutto – dall’intento addirittura enciclopedico di rappresentarsi la vita privata delle donne in tutte le sue
sfaccettature.
In questo decennio Campigli si conquistò velocemente ulteriore reputazione internazionale. Le sue personali a Milano
(dove era ritornato nel 1931 a causa della crisi economica mondiale), Parigi, Bucarest, Amsterdam e le cinque da Ju-lien
Levy a New York, tra il 1931 ed il 1939, la partecipazione alle mostre itineranti del Novecento, degli Italiens de Paris e
alle Biennali, Triennali e Quadriennali come anche le prime monografie condussero ad acquisizioni da parte di musei
(nel 1929 a Darmstadt, nel 1935 a Roma e Palermo) e gli procurarono committenze private e pubbliche ben remunerate.
Campigli ritrasse, oltre ad italiani famosi come Bruno Barilli, Achille Funi, Curzio Malaparte, Gio Ponti,
Adriano Pallini, Raffaele Carrieri oppure Carlo Cardazzo, anche – durante il suo soggiorno di diversi mesi a New
York, nel 1935 – dei membri dell’alta società americana. A ciò si aggiunsero committenze pubbliche e provenienti dal
mondo dell’economia: ad esempio un arazzo per il transatlantico Conte Biancamano
oppure una scena di spiaggia divisa in tre parti e lunga oltre quattordici metri per il
gruppo industriale Ferrania, produttore di materiale tecnico fotografico e
cinematografico, nella quale combinò diverse proprie versioni di spiagge e navi
collegandole a un preciso omaggio al suo committente, integrando cioè nella scena,
conformemente a quella che era allora la gamma di prodotti del-l’azienda, macchine
fotografiche sia per uso professionale che per uso privato.
Al centro della sua attività nello spazio pubblico si collocano i quattro affreschi realizzati tra il 1933 e il 1940:
al Palazzo dell’Arte della Triennale di Milano (distrutto nel 1933),
al Palazzo delle Nazioni di Ginevra,
al Palazzo di Giustizia di Milano
e soprattutto quello di 250 metri all’Università di Padova, in onore di Tito Livio.
L’affresco Le madri, le contadine,
le lavoratrici per la V Triennale del
1933 non si è conservato sino a
oggi. Nell’anno stesso in cui fu
compiuto si attirò – come la
Triennale nel suo complesso –
violente critiche da parte dei fascisti
di estrema destra, che dopo la
chiusura della mostra disposero
l’immediata distruzione di tutti gli
affreschi. In seguito a ciò, quattro
degli artisti avversati – Sironi, Funi,
Carrà e Campigli – presentarono
con il Manifesto della pittura
murale, uscito nel dicembre 1933 e
di cui non è stata definitivamente
chiarita la paternità, la loro
controperorazione a favore di
un’arte fascista diversa; vi sottolineano la funzione educativa e sociale di una tale arte e assegnano il ruolo principale
alla pittura murale, in quanto mezzo espressivo pubblico.
La differenza tra la concezione soggettiva dell’arte di Campigli e la risoluta perorazione di un’arte anti-individualistica,
perlomeno anche da lui sottoscritta, è non solo di assai difficile spiegazione e sinora non indagata in modo
soddisfacente, ma Campigli stesso ne era anche consapevole, se è possibile citarne una frase del 1943 con cui sostiene
che “gli aspetti sociali dell’arte”, per i quali si era infervorato come pittore murale nel 1933, in realtà erano
“inconciliabili” con la sua “vera indole”. L’ipotesi più ragionevole è probabilmente quella che Campigli volesse
prestare il proprio appoggio, in una discussione stilistica contro un realismo grossolano e sedicente vicino al popolo e
per difendere le posizioni estetiche dell’avanguardia italiana, al collega e amico Mario Sironi, che era l’avversario
principale dell’estrema destra fascista e alla responsabilità del quale si pensa che vada fatto perciò risalire il Manifesto.
Inoltre, il Manifesto stesso non richiedeva alcun tipo di adeguamento, ma da ultimo lasciava le scelte stilistiche nelle
mani dell’artista.
Anche se Campigli, come risulta dalla citazione sopra riportata e che va datata al più tardi al 1943, aveva preso le
distanze dal Manifesto già durante il fascismo, non ha in seguito preso una posizione più particolareggiata riguardo a
questa parte della sua opera né nella sua autobiografia né in interviste. A E.N. Rogers che lo intervistava rispose nel
1947: “Non me ne parli [...] Si vede che mi presi sul serio come pittore civico. Prevalse un ‘super-io’ pedante e severo.”
Anche se incontrò Mussolini e gli fece un ritratto, Campigli non era fascista, com’è comprovato da sufficienti
testimonianze. Non si conoscono sue dichiarazioni propagandistiche, e nella propria opera – contrariamente ad esempio
a Sironi – non fece mai concessioni estetiche o contenutistiche. I suoi affreschi sono privi di ogni militarismo,
monumentalismo e pathos del corpo, e nell’ambito della moderna pittura murale italiana serbano la loro autonomia,
come ha messo in evidenza da ultimo la mostra Muri ai pittori. Il programma narrativo dell’affresco più ambizioso di
Campigli, ancor oggi di facile accesso nell’atrio della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, per la sua
complessità si avvicina ai cicli del primo Rinascimento italiano. Nel quadro della presente sintesi ci porterebbe troppo
lontano volerne dispiegare ed analizzare i molteplici riferimenti soprattutto al mondo antico. Da un punto di vista
odierno va tuttavia segnalato che appare abbastanza problematica la sottile combinazione di sapere, potere e, sulla
parete destra, costruzione di un nuovo mondo sulle fondamenta proprio della civiltà imperiale romana, strumentalizzata
da Mussolini, la quale sul lato principale detta il proprio sapere, sotto le spoglie del suo cronista Livio, agli studenti
moderni – anche se d’altro canto bisogna tener conto del fatto che Campigli stesso eliminò il riferimento al regime
mussoliniano, ancora presente nel progetto del 1938 sotto forma di una scena di vittoria fascista.
All’intensa attività pubblica degli anni Trenta fece seguito negli anni Quaranta un forzato ripiegamento nel privato, per
via dello scoppio della seconda guerra mondiale. Insieme alla seconda moglie, la scultrice
italiana Giuditta Scalini, sposata nel 1937, Campigli si trasferì a Venezia, città protetta dai
bombardamenti aerei, dove nel 1943 nacque il loro unico figlio, Nicola. Qui Campigli
iniziò a occuparsi di illustrazione di libri. In collaborazione con rinomati editori e
stampatori – tra cui Giovanni Mardersteig, Carlo Cardazzo e Ulrico Hoepli – vennero
realizzati cinque lussuosi libri d’artista, stampati su torchio a mano con litografie originali
in tirature molto limitate. Campigli si dimostrò molto disponibile alla sperimentazione in
questo mezzo per lui nuovo, ampliando la tecnica della litografia a gesso nel senso che non
rinunciava ad apportare correzioni persino durante il trattamento della pietra, raschiando
via con il bulino il colore già applicato – un principio in realtà contrario al procedimento
classico, nel quale le correzioni “sulla pietra [...] sono praticamente escluse”. In tal modo
Campigli otteneva contrasti di grande effetto e coerentemente impiegati come mezzi
stilistici tra la struttura morbida e a grana grossa del gesso grasso e le scalfitture nitide e sottili che conferiscono alle sue
litografie una nota e una freschezza estremamente individuali.
Accanto al Milione di Marco Polo (vedi sopra), la poesia di Saffo si prestava particolarmente all’illustrazione (1944). Al
contrario infatti che per il suo confronto con gli altri testi letterari di partenza – oltre a Marco Polo, le poesie di Paul
Verlaine e di Raffaele Carrieri (ambedue nel 1945) come anche il
Theseus di André Gide (1949) –, Campigli qui non si trovava costretto a
tralasciare parti del testo: i frammenti saffici scelti per l’edizione,
tradotti in italiano e fusi tra loro sino a formare poesie complete,
espressione per così dire dell’originaria voce poetica femminile, sono
del tutto concordanti con il suo mito personale, visto che raccontano
esclusivamente dei pensieri e sentimenti delle donne e della loro
conclusa comunità.
Una caratteristica ricorrente delle sue illustrazioni di libri è quella del
“quadro nel quadro”. Così, nella quarta litografia delle Liriche di Saffo
La tua veste mi fa tremare Campigli armonizza esattamente lo scenario
da lui costantemente variato di donne che si occupano di stoffe e abiti, li
fabbricano, li cuciono, prendono le misure, li provano ecc. con la
corrispondente poesia: con il motivo della donna accovacciata che si
stringe al mantello ricadente della donna in piedi accanto a lei allude al
nucleo dei versi – l’ammirazione dell’una per il “mantello di latte”
dell’altra. Le illustrazioni conducono quindi una sorta di doppia vita,
sono cangianti tra riferimento all’altro e al sé, fanno parte sia di un
dialogo con il testo del momento che del monologo che Campigli
conduce tra sé e sé.
Tra le poche mostre allestite durante la guerra va messa in particolare
evidenza la prima personale di Campigli nel 1942 alla Galleria del Cavallino di Venezia, con la quale ebbe inizio una
cooperazione straordinariamente fruttuosa e di successo per ambo le parti con Carlo Cardazzo, un ex industriale e
collezionista che si era messo in proprio come editore e gallerista. La sua galleria, nella quale Campigli fece dieci
esposizioni sino alla morte di Cardazzo nel 1963, ascese rapidamente sino a essere una delle più importanti d’Italia per
l’arte contemporanea. Oltre alle illustrazioni a Saffo e all’altrettanta esclusiva cartella grafica La Ruche, per la quale
scrisse un saggio Jean Paulhan, le edizioni annesse pubblicarono un buon numero di curatissimi e accurati cataloghi e
scritti su e di Campigli, tra cui l’ampia monografia di Raffaele Carrieri (1945) e Scrupoli (1955) – che nella prima
stesura era piuttosto una riflessione estetica su di sé che un’autobiografia.
Dopo la seconda guerra mondiale Campigli riacquistò in fretta una presenza
internazionale: a Parigi, dove si era nuovamente trasferito dal 1949, la Galerie
de France in certe fasi lo presentò con cadenza annuale; in Italia collaborava
con diversi galleristi molto influenti e sia nel 1948 che nel 1958 ebbe l’onore di
una sala propria alla Biennale. Ricevette committenze per lavori e mosaici
decorativi di gran formato da parte di compagnie nautiche, di hotel, del Cinema
Metropolitan di Roma, della Banca Nazionale del Lavoro di Bologna come
anche dei grandi magazzini La Rinascente di Milano, dove a tutt’oggi una sua
opera si ammira nel ristorante interno.
In Olanda e in Inghilterra furono soprattutto due collezionisti a dargli notorietà:
grazie all’iniziativa di P.A. Regnault, un suo precoce sostenitore, nel 1946 fu
allestita una sua prima ampia mostra presso lo Stedelijk Museum di
Amsterdam, forte di più di sessanta opere, una seconda vi ebbe luogo nel 1955.
L’inglese Eric Estorick, amico di Campigli dal 1947, nel 1954 mandò in tournée attraverso l’Inghilterra la sua
collezione di arte moderna italiana, di cui oggi nel museo londinese che porta il suo nome non resta purtroppo che una
parte e all’interno della quale originariamente l’opera di Campigli rivestiva, con almeno trenta dipinti, una posizione di
rilievo; la presentò poi nuovamente nel 1956 alla Tate Gallery di Londra, prima che nel 1957 venisse mostrata anche al
pubblico tedesco presso l’Akademie der Künste di Berlino. In Germania seguirono personali di Campigli a Monaco,
alla Galleria Stangl (nel 1959 e nel 1963), e a Berlino da Gerd Rosen (nel 1961). Fuori d’Europa, Campigli fu presente
non solo nel 1951 e nel 1953 alla I e alla III Biennale di São Paulo con rispettivamente nove e dieci opere, ma partecipò
anche a esposizioni itineranti in America.
La sua fama giunse sino a Hollywood: Kirk Douglas e Billy Wilder
acquistarono suoi quadri, e Wilder fece uso di un dipinto di
Campigli in numerosi suoi film.
A partire dagli anni Quaranta, nell’opera di Campigli si manifesta
una crescente tendenza alla culturalizzazione del suo fantasma.
Accanto ai ritratti femminili singoli o di gruppo lo vediamo infatti
elaborare nuovi scenari. Ben oltre cento
quadri mostrano le protagoniste a teatro, al concerto, al circo, mentre ballano, fanno musica, nell’atelier, al telaio e intente a diversi giochi. A differenza ad esempio delle raffigurazioni di Spose dei
marinai oppure Donne al balcone degli anni Trenta, si
tratta ora sempre di sistemi d’interazione operazionalmente
chiusi, in cui l’esistenza delle donne è legata all’esecuzione
di funzioni prestabilite e in cui devono rispettare delle
regole – norme del parlare, dei gesti e dei movimenti del
corpo (in quanto attrice, danzatrice e giocoliera), del tempo
(in quanto musicista) oppu re di un gioco (giochi da
scacchiera, con la palla e con la corda). Tutti questi quadri
sono generalmente influenzati da un accostamento e un
incastro di gioco (nel senso più vasto di occupazione
oziosa) e regola. Per Campigli è decisiva non tanto la loro realtà lon-tana dalla quotidianità,
cioè quella per così dire domenica della vita evocata dai quadri, quanto piuttosto l’implementazione di un secondo
ordine invisibile di precise norme di comportamento.
Teatro del 1943, Donne al piano del 1947 e le scene
con il Diabolo degli anni Cinquanta rivelano in
maniera che colpisce particolarmente che il tema
trattato di volta in volta non costituiva appunto che un
pretesto. Il quadro di teatro – esemplare per gli anni
Quaranta per quanto riguarda la cromia di toni chiari
ocra e marrone – non è che diriga lo sguardo verso il
palcoscenico, bensì coglie in una veduta d’insieme
tutto il pubblico femminile che riempie i palchi e la
platea, accalcato sino all’ultimo posto. Gli occhi delle donne sono rivolti verso un punto esterno al quadro e quindi
verso l’osservatore, come a dire il pittore. Dal suo punto di vista, il vero palcoscenico è l’auditorio.
Il secondo quadro mostra due ragazze che suonano il pianoforte a quattro mani. Nei ghirigori che si corrispondono
dell’inferriata posteriore, nelle linee ondulate delle bordure laterali, nelle piccole ruche delle scollature, nelle rotondità
delle spalle e nei vitini sottili e arcuati, elementi che sembrano tutti variare un tema fondamentale
che non trova fine, viene tradotto in immagine il tono della musica che suonano le due fanciulle, il
suo ritmo, le sue ripetizioni e gli alti e bassi della melodia. Eppure si tratta di una situazione del tutto
artificiale. Le suonatrici orientate in senso frontale non hanno nulla di spontaneo e di mosso,
rimangono invece rigidamente ferme al loro posto tra la tastiera che erige una barriera sul davanti e
l’inferriata che impedisce loro la via d’uscita sul retro. Sembrano solo seguire, come ipnotizzate,
quello che Campigli – poiché è lui (ovvero lo spettatore) che regge in un certo senso lo spartito,
davanti alla tastiera – impone loro di suonare.
Anche i quadri sul tema del diabolo sono addirittura antimimetici nella misura in cui mancano loro tutte le
caratteristiche che costituiscono l’essenza del gioco: invece di lanciare in aria il diabolo il più in alto possibile per poi
tornare ad afferrarlo, di muoversi quindi con destrezza e agilità, le giocatrici, intralciate
comunque dalle vesti lunghe e strette, se ne stanno rigide nello spazio. Le loro braccia sono
legate dalle corde e i loro corpi imbrigliati nel reticolo di bacchette e corde che copre tutto il
piano del quadro. In questa situazione non possono avere alcun controllo sull’attrezzo, è piuttosto
il gioco che si prende gioco di loro. Campigli non rappresenta il diabolo come gioco veloce con
situazioni imprevedibili, bensì come culto rituale che si ripete sempre uguale, come cerimoniale.
La radice di questo ciclo, a cui Campigli ha dedicato almeno trenta dipinti, va senz’altro cercata
nel secondo volume di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, là dove Marcel va a
passeggio con la sua amata, e in seguito prigioniera (!), Albertine, dopo averla trovata “mentre
innalzava in fondo ad un cordoncino un attributo bizzarro che la faceva somigliare all’idolatria
di Giotto; Si chiama ‘diabolo’, ed è talmente caduto in disuso che, davanti al ritratto di una fanciulla che ne abbia uno, i
commentatori dell’avvenire potranno dissertare, come davanti ad una figura allegorica dell’Arena, su ciò ch’essa ha in
mano.”
La triade proustiana del mondo femminile: mistero, cattura e documentazione estetica
corrisponde esattamente a quella di Campigli. I sette volumi del romanzo possono essere
addirittura chiamati il libro della vita di Campigli – la “Ricerca” giaceva sempre a portata di
mano e lo ha accompagnato per decenni. In particolare deve averlo affascinato e stimolato la
permanente e mai psicologicamente differenziata trattazione delle donne, una fenomenologia
non solo degli atteggiamenti, della moda e dei gioielli, ma anche della pura fattualità della loro
comparsa.
Successivamente, il tema della donna è stato sviluppato in misura crescente nella serialità. È
vero che le opere di Campigli avevano seguito da sempre il principio della ripetizione e
dell’accoppiamento delle immagini, ma dalla fine degli anni Quaranta - inizio degli anni
Cinquanta vengono realizzate delle serie in tutt’altro ordine di grandezza su temi come le giocatrici di diabolo, le
tessitrici, le donne al caffè, sulle scale, nei campi o nel labirinto, con quadri difficili da distinguere l’uno dall’altro.
Anche se si può averne la tentazione per via della posizione di mercato di Campigli, sarebbe troppo facile spiegare
questo fenomeno in termini puramente economici e svalutare queste serie come stereotipi.
Soprattutto la serie dei Pagliai di Monet ha posto la storia dell’arte e gli studi culturali di fronte alla questione del
rapporto tra opera singola e serie: quesiti che toccano il significato non solo dell’unico, ma anche del molteplice, e la
funzione dell’unico nel molteplice. Con la serie Monet reagisce al problema di poter rappresentare di volta in volta
sempre solo l’apparenza momentanea di un oggetto, mai però l’oggetto in sé. La cosa riprodotta infatti è sempre solo
parte di una relazione con un tutto non determinabile, perché soggetto a un processo di permanente trasformazione – nel
caso di Monet a causa dei movimenti della luce.
A prescindere dalla scena di palazzo nel Milione di cui si è trattato in apertura e dal dipinto Marché de femmes et de
pots, anche Campigli non ha mai intrapreso il tentativo di una veduta totale del proprio fantasma. Trae con ciò le
conclusioni dal fatto che, come risulta dall’autobiografia, il nucleo narrativo del fantasma, una vaga fantasia sulle
donne, in realtà è amorfo, ovvero solamente uno scenario. Circolano solamente delle storie al suo interno, cosicché del
fantasma non può darsi un’immagine definitiva, bensì solo vedute parziali e metafore, che per quanto riguarda il
personale e l’allestimento sono estensibili ovvero riducibili a piacere. Il senso di un quadro resta lo stesso,
indipendentemente dal fatto che il tavolo nei quadri del caffè sia rotondo o quadrato, che le giocatrici di diabolo alzino o
abbassino le braccia, che si vedano due o quattro tessitrici, che il labirinto sia raffigurato dall’alto o di fronte – quel che
importa è la circolazione delle componenti, sempre le stesse: della corda e del diabolo, del tavolo, della sedia,
dell’ombrello ecc. Non esiste in Campigli né un quadro d’arrivo, un’opera ultima e ideale a cui potersi gradualmente
avvicinare, né il singolo quadro ha un significato individuale. Sia le singole opere di una serie che le serie tra di loro
sono funzionalmente equivalenti.
A ciò corrispondeva la prassi nell’atelier, dove Campigli non lavorava mai linearmente a una serie, bensì
simultaneamente a parecchie serie, per esplicita dichiarazione “come [se fossero] un’opera unica”. In questo trattamento
seriale delle serie l’atelier diventa un panorama dell’immaginario.
Un’ultima e significativa svolta – la svolta verso l’astrazione – venne provocata verso la fine degli anni Cinquanta e
l’inizio degli anni Sessanta dalla ricezione dell’arte dell’Africa e dell’Oceania, di cui Campigli si occupava già da anni
come collezionista. In ciò, le analogie con l’arte primitiva vanno molto oltre quelle somiglianze puntuali e formali che
sarebbero state conformi allo spirito del tempo: come nell’esperienza di Villa Giulia, le questioni artistiche e quelle
biografiche si intrecciano nel modo più stretto.
In un certo senso, con ciò arriva a compimento la tendenza alla geometrizzazione. In modo ancor più coerente che nei
suoi quadri giovanili infatti, ad esempio in Donne al sole, Campigli ora sviluppa e concepisce le proprie figure a partire
dalle forme geometriche elementari del triangolo, cerchio e
quadrato, con le quali può rappresentare sia le parti della testa, del
tronco e delle gambe che le parti sessuali. Come nell’arte primitiva,
il significato dei simboli geometrici si dischiude di volta in volta
solo in base al contesto, in base quindi alla loro collocazione. Così, i
cerchi rossi sul famoso Spirito delle acque dei Baga hanno più
significati, proprio come quelli nel dipinto Composizione con
l’ombrellino di Campigli, forse da esso direttamente ispirato, e nel
caso dello Spirito delle acque indicano sulla testa gli occhi ovvero
sono parte del disegno che ricopre il corpo del serpente, mentre sul
corpo della donna che porta l’ombrello segnano prima i seni e poi il
sesso.
Si danno delle coincidenze anche riguardo all’organizzazione della
superficie. Talvolta Campigli ricopre i quadri, in modo paragonabile
alle pitture sui muri delle case africane, di figure e ornamenti geometrici in parte identici, come linee a zigzag o a
serpentina, rombi, croci e rette, estesi su tutta la superficie. Talaltra invece inserisce le proprie figure – alla maniera
delle porte dei dogon, su cui animali e uomini cristallizzati in sigle sono additivamente allineati e sovrapposti uno
all’altro in diversi registri – in una griglia geometrica, con la quale si fondono in un unico tessuto compositivo. Le
proporzioni
considerevolmente
divergenti delle figure vanno fatte
risalire al loro differente rango nel
quadro e non più, come ad esempio
in Villaggio del 1958, al fatto che
debbano essere pensate piuttosto in
primo piano oppure più sullo sfondo.
Conformemente alla prospettiva
semantica, nota tanto dall’arte
primitiva quanto dall’antichità e dal
medioevo, la figura più grande è la
più importante, per cui è spesso
quella che determina il titolo.
L’opera tarda di Campigli segue
l’arte africana in quanto evita
l’aneddotico a favore di ciò che è
statico-iconico. Con l’assenza di
momenti narrativi, Campigli sacrifica
miratamente “i contatti fra i personaggi”, per far apparire “tanto più ieratici” (sacerdotali) i suoi personaggi femminili.
Spesso vengono messi in risalto da un’aura cromatica, e i loro rari gesti occasionali rimandano alla sfera delle pratiche
rituali collettive della danza e dell’adorazione, mentre alla fin fine come per gli idoli preistorici resta impossibile
decidere se le donne stesse si presentino come oranti oppure si offrano alla venerazione dello spettatore.
Si delinea così nei suoi contorni il significato dell’opera tarda: Campigli vi affronta con un linguaggio artistico
radicalmente rinnovato l’ultima fase della propria vita, una costellazione che è definitiva per ogni individuo. La svolta
verso l’astrazione infatti non intende nientedimeno che la scomparsa dell’oggetto nella sua forma sensibile. I corpi delle
donne perdono le loro spoglie fisiche.
Campigli non fa più differenza tra tono della pelle, abbigliamento, acconciatura, gioielli e attributi, ma li riduce invece a
sigle piatte, perlopiù monocrome, sulle quali sono (semmai) riportati solamente i caratteri sessuali. È sintomatica per
questo effetto di distanziazione la trasformazione della zona degli occhi. Al posto degli occhi ipnotizzabili, rivolti verso
l’esterno, ora le figure hanno orbite vuote. In questo modo slitta la struttura della comunicazione. Le donne non possono
più essere fissate dallo sguardo del pittore ovvero
dell’osservatore.
Il dominio è sospeso, le figure sono inviolabili. Lo
sottolineano spesso anche gli ampi archi che
circondano le composizioni, con i quali Campigli in
un certo senso situa le figure entro zone di
protezione. Marcature cromatiche, suddivisioni
dello spazio in determinati settori tramite cerchi,
triangoli oppure rombi danno ai quadri una carica
magica.
Con l’aspetto di idoli preistorici o primitivi, le
donne diventano parte di una storia sovrapersonale.
Tramite la riduzione a “cifra, sigla, segno” Campigli
non solo distacca il nucleo universale dal fantasma e
con ciò dalla propria persona, ma colloca le figure
nell’area di confine tra la vita e la morte: quello che
perdono di vitalità lo acquistano di duratura
statuarietà d’aspetto. Devitalizzando i suoi
personaggi, Campigli anticipa l’esperienza della morte. Non sembra davvero un biografismo riduttivo porre tutto ciò in
relazione tra l’altro con la grave malattia della moglie Giuditta (morta nel 1966) e con la sua stessa vecchiaia. Anche
nell’atto con cui elabora una contingenza personale Campigli
punta sull’arte, e così facendo rende alla propria pittura
qualcosa di quella forza simbolica che originariamente era insita
nel quadro. L’ultimo decennio della sua vita Campigli lo
trascorse alternando soggiorni a Parigi, Milano, Roma e SaintTropez, dove nel 1960 costruì una villa di propria progettazione.
Con la grande retrospettiva del 1967 al Palazzo Reale di Milano,
alla cui preparazione collaborò l’artista stesso, e partecipando
anche alla redazione della monografia, di oltre trecento pagine,
curata da Raffaele de Grada nel 1969, Campigli stesso poté
tirare ancora in vita le somme della propria
opera. Massimo Campigli morì il 31 maggio 1971 a SaintTropez per un attacco di cuore.
III
La singolare opera di tutta la vita di Campigli trova forse le più probabili affinità là dove l’arte seriamente cerca di
liberarsi dalla costrizione mentale sia di una realtà vincolante che di un universo sociale vincolante per tutti. Non solo
biograficamente (il fantasma sull’harem del bambino di otto anni!), anche dal punto di vista metodico questo senso
della possibilità di Campigli è radicato non nell’autonomia del quadro, bensì nelle strutture della lingua. In quanto
trasposizione di immaginazione fantasmatica, la sua arte è coerentemente basata sin dall’inizio su di un sistema di segni.
I quadri non hanno nulla a che vedere con un ordine reale delle cose, sono invece espressione del suo desiderio.
L’ombrello, la scala, il vaso, il busto, l’inferriata, la facciata, ma anche il cerchio, il triangolo, il rombo, il quadrato sono
elementi costitutivi di un repertorio di segni in gran parte costante e limitato
come l’alfabeto, che entro determinate regole offre infinite possibilità di
connessione e combinazione. Ne risultano affascinanti forme del fittizio,
forme di liberazione dal reale e di poeticità. I segni rispondono ai segni: la
forma ornamentale nel vestito o della corporatura non si richiama a un
referente nella realtà, ma a se stessa, ad esempio alla forma ornamentale di
un’inferriata. I cerchi corrispondono ai cerchi: le perle della collana, i riccioli,
le pupille e gli orecchini della donna in Affresco del 1941 fanno rima l’uno
con l’altro – la bellezza come gioco dei segni, come arte della messinscena e
dell’allestimento di segni.
Non solo tramite la donna in quanto fulcro di ogni costellazione, ma anche
tramite queste catene di significanti sussiste una stretta parentela di tutti i
quadri. L’arte di Campigli esige la formulazione di una teoria della creatività
dell’elemento mobile e componibile. L’opera nel suo complesso è un sistema
di rimandi privo di lacune. Da ciascuno dei quadri a caso ci sono percorsi che
conducono ad altri quadri, e da lì per vie traverse di nuovo al punto di
partenza.
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