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PADRE PINO PUGLISI: il rompiscatole
PADRE PINO PUGLISI: il rompiscatole la speranza ad ogni costo. eroe suo malgrado “ME L’ASPETTAVO” Era il 15 settembre 1993 quando, all’imbrunire di una giornata ancora estiva a Palermo, don Giuseppe Puglisi, parroco di Brancaccio, quartiere della periferia a est della città, fu freddato con colpi di pistola alla nuca da un killer della mafia, mentre stava per aprire la porta del condominio di case popolari in cui abitava. Due individui con fare sospetto gli si avvicinarono per intimargli che si trattava di una rapina. Don Pino sorrise con il volto velato di tristezza. «Me lo aspettavo» rispose. Quel sorriso triste e quelle parole, affilate come una lama, penetrarono nel cuore del suo uccisore. I GIOVANI NEL MIRINO Eroe suo malgrado, don Puglisi, uomo schivo e umile, aveva sempre tenuta alta la testa per la forza che gli veniva dal suo Signore. Lo spirito del concilio Vaticano II era entrato nel suo cuore e nella sua mente ed egli sentiva l’ansia evangelica di portare l’annunzio della speranza con la testimonianza della vita. Per tutta la vita era stato un formatore di giovani e ora, da tre anni, come parroco di Brancaccio, l’attenzione era per i giovani di un quartiere della città, particolarmente segnato dalla presenza mafiosa. UN NUOVO DIOGENE ALLA RICERCA DELL’UOMO Su due linee si era sviluppato l’impegno pastorale di Puglisi: la ricerca di senso della vita e le modalità di comunicazione del messaggio cristiano. La ricerca di senso coincideva per lui con la ricerca della verità stessa dell’uomo. Per questo un tema dei campi estivi per i giovani, che egli soleva tenere come direttore del Centro diocesano vocazioni, era sempre: «Cercando l’uomo». Ai suoi giovani ascoltatori, desiderosi di costruire in qualunque modo il loro futuro, Puglisi ripeteva frequentemente: «Sì, ma verso dove?». Una frase che li metteva in crisi. Il «Sì» condivideva la necessità di ideazione di un progetto personale, che non poteva essere però un progetto qualsiasi. Qualunque progetto umano sarebbe stato monco senza l’orientamento verso Gesù Cristo, Parola, Senso. Ma se il senso della vita va scoperto, trovato, come la perla o il tesoro del vangelo, allora si comprende anche che la vita stessa è dono. E se noi siamo dono a noi stessi, ogni itinerario di vita deve essere vissuto come una vocazione. La vita stessa è una chiamata di Dio ad esserci in questo mondo e questo esserci prende il suo significato profondo dall’amore con cui Dio ci ha amati e ci ama. Perciò l’uomo deve interrogare se stesso e Dio: «Signore che vuoi che io faccia?». L’uomo va verso il Padre per mezzo di Gesù. Questo andare è un andare verso la libertà. E non è un andare da soli, ma con gli altri, in comunità-chiesa, nutriti e rafforzarti dal pane dell’eucaristia, e guidati dallo Spirito di Dio. IL SEGRETO DELLA COMUNICAZIONE: DALLA VITA ALLA PAROLA Come comunicare questo annunzio? Puglisi aveva capito con chiarezza che il cristianesimo non è preminentemente messaggio che deve diventare esperienza di vita, ma esperienza di vita che diventa messaggio. La conclusione del cristiano era quindi ineludibile per Puglisi: «Dobbiamo cioè produrre esperienze che si fanno messaggio, come?». E qui si cala direttamente nella evangelizzazione del mondo giovanile: «Per i giovani di oggi quali le esperienze che si fanno messaggio?». E risponde: «Le esperienze di produzione di vita nel quotidiano: il volontariato, stare con i piccoli, i poveri…». In poche parole: produrre la vita dove c’è la morte. Non si trattava però di sacralizzare la realtà della vita che ha invece una sua consistenza, ma di coglierne il senso più profondo che la lega al mistero di Dio, di viverla come luogo di incontro con Dio: «Le esperienze hanno una loro consistenza profana, ma è necessario interpretarle in modo da farle diventare messaggio; devono diventare il luogo nel quale incontro il Dio buono e accogliente. La Parola ha il compito di elaborare i fatti in modo da renderli eloquenti». LA PARROCCHIA: DA OVILE A PASCOLO Se è nell’esperienza dell’agire dei credenti che Dio invisibile si fa visibile, la credibilità dell’annunzio cristiano si gioca nella testimonianza personale dei credenti, ma anche nella credibilità delle stesse strutture ecclesiali e delle scelte pastorali. L’attenzione quindi di Puglisi non era rivolta solo alla conversione delle persone, ma anche alla riforma di queste strutture. In un appunto egli elenca i modelli di parrocchia che non accettava: parrocchia-bambolarussa, parrocchia utilitaristica, parrocchia castello con fossato, parrocchia arcipelago, parrocchia nuvoletta senza fantasia anche se con buona volontà, parrocchia stazione di servizio. CONOSCERE LE PIAGHE… Per radicare l’annunzio nella storia concreta degli uomini era convinto della necessità di conoscerne i bisogni. Quando accettò di diventare parroco di Brancaccio, sapeva già che la sua missione non poteva non accogliere l’uomo concreto con tutti i suoi problemi all’interno di quel territorio. Aveva ormai maturato un grande esperienza pastorale: negli anni ‘60 come cappellano tra gli orfani di lavoratori, negli anni ’70 come parroco a Godrano, un paese di montagna e di faide terribili, e contemporaneamente a Palermo come animatore di volontari tra i baraccati dello Scaricatore, e poi negli anni ’80 come direttore del Centro vocazionale. Nella veste di responsabile regionale del centro vocazionale e membro del Consiglio Nazionale aveva conosciuto anche la realtà siciliana e quella nazionale. L’analisi dei problemi del territorio fu il punto di partenza del lavoro di Puglisi appena nominato parroco di Brancaccio. Attraverso una indagine, fatta nel quartiere da alcune assistenti sociali volontarie che collaboravano con lui, si rese conto ancora più chiaramente del degrado sociale e ambientale che la forte presenza mafiosa nel quartiere aveva mantenuto e accentuato, delle sacche di emarginazione, della mancanza di servizi sociali, della devianza minorile, della evasione scolastica, della povertà di cultura e di valori. Ma questo significava evidenziare le piaghe di sofferenza e di sfruttamento, significava inserire nel territorio fermenti nuovi, attenzioni nuove che turbavano equilibri e interessi consolidati, aprivano varchi nel controllo mafioso del territorio e sollecitavano una fede religiosa che si traduceva in processi di liberazione nei giovani che volevano pensare e decidere della loro vita e della vita del quartiere. E CURARLE CON UNA COMUNITÀ DI FEDE Il segno della novità cristiana nel quartiere doveva essere il consolidamento di una comunità di fede. Si trattava di produrre in quel territorio, coerentemente con il vangelo, non solo parole o riti, ma esperienze nuove di fede e di servizio ai fratelli più poveri. Una comunità quindi che sapesse coniugare il vangelo con l’impegno di liberazione dal bisogno o, come diceva Puglisi, di restituzione ai poveri della loro dignità. Da questa consapevolezza e dall’esperienza di iniziative analoghe in quartieri degradati della città nacquero a Brancaccio il “Centro Padre nostro” e l’appoggio alle iniziative del “Comitato Intercondominiale”, portavoce dei problemi del quartiere. Puglisi fu dalla parte della gente di fronte alle istituzioni per rivendicare ora una scuola media ora i servizi più elementari di cittadinanza. Non si poteva costruire un modello nuovo di comunità e di vita parrocchiale senza la corresponsabilità personale dei cristiani tutti nella parrocchia. Scrisse perciò ai suoi parrocchiani una lettera per invitarli ad assumere un servizio all’interno della comunità parrocchiale: «Per evitare il pericolo di continuare a venire a messa rimanendo chiusi nel nostro egoismo, ignorandoci a vicenda, esaminiamo le attività sotto elencate e indichiamo con un segno il tipo di servizio (anche più di uno) che corrisponde alle nostre attitudini e possibilità. Saremo così seguaci del Cristo che è venuto per servire». Il modello di comunità evangelica proposto da don Pino Puglisi era già alternativo al modello mafioso imperante nel quartiere. NON SONO LE PAROLE A PREOCCUPARE LA MAFIA Non era questa la nuova evangelizzazione della parola di Dio? E non erano i fatti, luogo dell’incontro di Dio con i singoli e con la comunità di Brancaccio, che sconvolgevano la struttura di peccato della mafia? Era questa esperienza di vita, e non di sole parole, da cui si sentiva minacciato il potere mafioso che controllava il territorio. Dichiarò il collaboratore Giovanni Drago: «Chi combatte la mafia, chi esorta i giovani a non rivolgersi ai boss ma alle istituzioni, chi avvicina e cerca di redimere i piccoli ladri di borgata, i drogati, dà fastidio alle famiglie mafiose». Secondo il mafioso Salvatore Cancemi, un prete che parla soltanto non dà fastidio alla mafia. Ma le parole di Puglisi non erano solo parole, erano pietre che costruivano un modo nuovo di vivere nel quartiere, mettevano in movimento processi che la mafia non riusciva a controllare. Toccavano perciò interessi concreti. Puglisi era un prete «che non si faceva i fatti suoi», rompeva una pace mafiosa costruita sull’indifferenza e sul silenzio di molti, e in alcuni casi sulla connivenza, a volte anche di uomini di chiesa. Ci furono le prime intimidazioni e minacce e poi furono incendiate le porte degli esponenti del Comitato Intercondominiale. Puglisi fu incalzante nel chiedere ai mafiosi perché si opponevano a che i loro figli fossero educati «al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile». NON C’È AMORE PIÙ GRANDE DEL DARE LA VITA Nel suo ministero poteva restare in silenzio e limitarsi alla sola amministrazione dei sacramenti in un quartiere dominato dalla mafia, ma di fronte a una mentalità radicalmente diabolica e a un sistema di potere che annienta la dignità dell’uomo e vanifica la possibilità di una vera evangelizzazione nelle giovani generazioni, non poteva tacere. Annunziare Gesù Cristo con la vita significa annunziarlo anche con la morte, perché il dare la vita è l’atto di amore più grande, l’annunzio di un amore che travalica la pura esperienza umana. Gesù aveva dato testimonianza al Padre nel suo morire sulla croce, voluta dalla perversione del potere. La morte di don Pino, ammazzato dalla mafia, non è stata forse la conclusione più coerente della sua evangelizzazione, la sua esperienza più alta di testimone di Gesù Cristo? E non è stata questa sua morte per i fratelli la testimonianza più credibile della speranza «in un amore che cerca l’unione definitiva con l’amato»? Testimonianze su don Pino Roberto, uno dei suoi ragazzi: “Se c’era un problema grave non ti riempiva di paroloni, di massime sublimi ma ti stava a sentire con l’espressione di chi si fa carico del tuo dolore. Non lo minimizzava ma poi riusciva a trovare il pensiero che ti consolava, anche perché ti veniva comunicato da fratello, da compagno di strada che però aveva la certezza della luce perché aveva trovato il senso del cammino”. Un suo studente: “Di lui ricordo poche cose: le sue mani, molto grandi rispetto alla sua statura minuta. Il tono della sua voce, dolce ma deciso, che all’occasione sapeva diventare severamente duro. Una immensa cultura umanistica, ma anche scientifica. Alla fine dell’anno scolastico ci portava tutti a prendere il gelato a piazza Indipendenza, era un gesto di straordinaria dolcezza, voleva significare che i suoi alunni non erano per lui semplici controparti della sua attività didattica, ma persone che amava una per una, con cui voleva stabilire un rapporto di affettuosa comunione. Era il gesto di un papà che desidera mostrare il suo amore per i figli. Un ragazzo che partecipava ai campi estivi: “Padre Puglisi ci insegnava a cercare Dio anche attraverso il contatto con la natura. Particolarmente, durante il campo, era la giornata con la scalata notturna sul monte per assistere al sorgere del sole. Era per noi giovani una avventura divertente e formativa. La difficoltà dell’impresa ci rendeva più uniti e ci faceva gustare in profondità quello spettacolo meraviglioso. Era una occasione per pregare insieme, lodare e ringraziare Dio per la bellezza del creato. Anche successivamente, traeva spunto da quell’esperienza per spiegarci la logica del chicco di grano secondo la quale ogni scelta che riguarda la propria vocazione implica impegno e sacrificio che però conduce alla vera gioia”. Una ragazza del gruppo di riflessione dei giovani: “E’ un gruppo di riflessione e di preghiera. La fraternità che ci unisce è quasi una cornice alla nostra vita. Ci riuniamo ogni 15 giorni e cerchiamo di riflettere sul significato delle nostre giornate, delle nostre vite che non sono isole ma parte di un continente più grande che è la chiesa. Ci caratterizza una grande eterogeneità siamo circa 35 ragazzi e ragazze, molto diversi come carattere, età e attività. Alcuni di noi vanno all’università (io sono iscritta a medicina) altri lavorano o frequentano la scuola di servizio sociale. Stiamo cercando di capire il significato della nostra vita, del lavoro e del futuro. Lo facciamo soprattutto attraverso la preghiera”. LE PAROLE DI “3P” Padre Pino Puglisi, 3P per i suoi parrocchiani, è stato ucciso una sera di tarda estate, il 15 settembre 1993, di fronte alla porta di casa. Un colpo di pistola alla nuca, senza testimoni. che aveva fatto quel piccolo prete per costringere la mafia a decretare un'esecuzione in piena regola? La risposta è in parte semplice, 3P era discreto, umile, mite ma di quella mitezza che non cede mai a compromessi. Cosa Nostra aveva decretato la sua morte perchè aveva osato ripristinare la normalità, perchè con la sua infaticabile azione pastorale e pedagogica strappava manovalanza alla mafia. Non è possibile capire la vita e la porte di don Pino, martire, per il quale è stato aperto un processo di beatificazione, se non si approfondisce, oltre al suo impegno contro la mafia, la sua grande dimensione spirituale, la sua opera di apostolato intimamente legata alla parola di Dio, la sua umiltà autenticamente evangelica. “C’è nella parrocchia un buon fermento di persone impegnate in un cammino di fede, nel servizio liturgico, catechistico e caritativo, ma i bisogni della popolazione sono molto superiori delle risorse che abbiamo. Vi sono nell’ambiente molte famiglie povere, anziani malati e soli, parecchi handicappati mentali e fisici; ragazzi e giovani disoccupati, senza valori veri, senza un senso della vita; tanti fanciulli e bambini quasi abbandonati a se stessi che, evadendo l’obbligo scolastico, sono preda della strada dove imparano devianza, violenza e scippi. Che cosa fare?” (in una lettera del 4 ottobre 1991) “Saper ascoltare il fratello significa andare oltre le parole per entrare nel mondo interiore dell’altro e apprezzare le cose dal suo punto di vista, entrare nel cuore dell’uomo. Al fratello bisogna dare e chiedere quanto è necessario per aiutarlo. La capacità di accogliere e comprendere i fragili e i delicati frammenti interiori che un individuo trasmette incoraggia ad esplorare il suo mondo e a trasformare la sua paura in libertà, la disperazione in speranza , la solitudine in condivisione”. “Dio ci ama, ma sempre tramite qualcuno”. “Temiamo la sofferenza, la malattia, la povertà, la miseria, però potremmo dire che la sofferenza più grande è quella di essere soli. Essere soli, senza nessuno che ci ama è la cosa peggiore”. “Credo a tutte le forme di studio, di approfondimento e di protesta contro la mafia. La mafiosità si nutre di una cultura e la diffonde: la cultura dell’illegalità. La cultura sottesa alla mafia è la svendita del valore della dignità umana. E i discorsi, la diffusione di una cultura diversa sono di grande importanza. Ma dobbiamo stare molto attenti che non ci si fermi alle proteste, ai cortei, alle denunce. Se ci si ferma a questo sono soltanto parole. Le parole vanno convalidate dai fatti”. “L’azione dei volontari e delle suore del centro “Padre Nostro” deve essere un segno. Non può trasformare l’ambiente, questo non ce lo possiamo permettere neppure come illusione. E’ soltanto un segno per cercare di dare un modello di comportamento, per spingere le autorità a fare il loro dovere. Non per risolvere i problemi del Brancaccio. Se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto”. “Mi rivolgo ai protagonisti delle inutili intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci, vorrei conoscervi e conoscere i motivi che vi spingono a ostacolare chi cerca di educare i vostri figli al rispetto reciproco, ai valori della cultura e della convivenza civile”. “Nessun uomo è lontano dal Signore. Il Signore ama la libertà, non impone il suo amore. Non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto, si aprirà”.