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tesi pronta stampa
INDICE
INTRODUZIONE
pag. 3
CAPITOLO 1 funzioni dell’aggressività
Origine e I centri nervosi implicati nel comportamento
aggressivo
pag.
6
1.2
Le basi filogenentiche dell’aggressività
pag. 21
1.3
Le basi ontogenetiche dell’aggressività
pag. 35
CAPITOLO 2
L’uso criminale dell’aggressività nei canidi
2.1
Scelta e addestramento dei cani da
Combattimento
2.2
46
pag.
64
pag.
83
Forme di prevenzione e repressione del
fenomeno illecito
2.3
pag.
Un gioco d’azzardo o una forma di
aggressività repressa proiettata.
CAPITOLO 3
Le origini, il presente ed il futuro del fenomeno dei
combattimenti tra animali, organizzati dall’uomo
3.1
Le prime conoscenze storiche e l’evoluzione
dei combattimenti tra e con animali
pag. 100
1
3.2
La diffusione dei combattimenti nei vari territori e
l’impatto sulla società odierna
pag. 112
CONCLUSIONI
pag. 125
BIBLIOGRAFIA
pag. 142
SITOGRAFIA
pag. 148
APPENDICE
Operazione “Fox”
pag. 149
Doping, farmaci e maltrattamento
pag. 153
2
Introduzione
L’argomento centrale di questa tesi è “il combattimento tra cani”,
analizzato
attraverso
gli
aspetti
fisiologici
ed
etologici
dell’aggressività e l’uso criminale dell’aggressività dei cani da parte
dell’uomo”. Questa idea è nata coniugando le esperienze delle
mie due principali attività, quella riferita al mio lavoro di Ispettore di
Polizia e quella di appassionato allevatore cinofilo.
Gli studi sull’aggressività e sulle sue origini, fisiologiche, filo- e
ontogenetiche, mi hanno aiutato nel tentativo
di giungere alla
comprensione delle cause e concause che sono all’origine del
fenomeno.
Lo scopo di questo lavoro è di sviluppare tutti i singoli elementi sia
di tipo scientifico che relativi alla giurisprudenza, collegati in
qualche
modo
al
verificarsi
dei
combattimenti
clandestini,
portando esempi di fatti accertati e censiti, ma anche di
esperienze di tipo personale.
Nutrendo da sempre un particolare interesse per le teorie
evoluzionistiche di Darwin, mi è subito sembrato evidente uno
stretto legame tra gli elementi che cooperano nella sopravvivenza
delle specie ed i combattimenti tra cani, organizzati e non.
Charles Darwin ebbe una grande intuizione quando realizzò,
utilizzando i termini “lotta per la sopravvivenza”, che l’aggressività
non era da considerarsi un atteggiamento necessariamente
negativo. Si rese conto che tale comportamento aveva radici
profonde e che pertanto doveva svolgere un ruolo importante
nell’evoluzione delle specie. Infatti, nelle sue teorie evoluzionistiche
della selezione naturale, emergono già accenni che parlano di
3
aggressività intra- e interspecifica. Elementi che, come vedremo più
avanti, svolgono un ruolo fondamentale nella conservazione della
specie.
Seguendo queste orme, sviluppò le sue teorie evolutive l’etologo
Konrad Lorenz, che andò ben oltre nei suoi studi e nei suoi
esperimenti, fornendo elementi di valutazione importanti
per la
scienza psicobiologica.
La Psicobiologia studia la biologia del comportamento, unendo la
ricerca neurofisiologica con gli esperimenti relativi all’osservazione
del comportamento (Dewsbury 1991).
In questo elaborato cercherò di analizzare l’aggressività in maniera
interdisciplinare, dall’approccio prettamente fisiologico sino a
quello
etologico-comportamentale.
origini neuronali,
attraverso
Partendo dallo studio delle
le derivazioni utili all’evoluzione,
giungendo alle devianze fortuite o indotte, tenterò di dare una
risposta a
come la predisposizione aggressiva nei canidi possa
venire dall’uomo
utilizzata in modo criminale a scopi “ludico -
economici”.
Nel presente lavoro tenterò di dare un quadro attuale del
fenomeno, anche dal punto di vista statistico, quindi descriverò le
attività di prevenzione ed in che modo
la legge interviene per
arginare la proliferazione di questo tipo di attività illecite.
Successivamente, racconterò delle origini
ambientali che incidono nella tendenza al
animali. Ciò servirà a comprendere
storiche, culturali e
maltrattamento degli
se tale fenomeno
è da
ricondursi ad un fatto di mera esigenza di trasgressione, di interessi
economici, oppure se di fondo vi sono cause scatenanti che
trovano origine nell’evoluzione antropologica o, magari, in una
sorta di devianza psicopatologica della personalità dei malfattori.
4
Infine, vorrei porre l’accento sul fatto se lo studio della storia di tali
fenomeni e della loro diffusione territoriale possa dare
delle
indicazioni utili per porre in essere delle attività che consentono una
maggiore prevenzione, al fine di ridurre sensibilmente il problema.
5
Capitolo 1
Origine e funzioni dell’aggressività
1.1
I centri nervosi implicati nel comportamento
aggressivo
Il controllo neuronale del comportamento aggressivo, effettuato da
alcune regioni del nostro cervello in seguito meglio descritte,
è
organizzato in ordine gerarchico e programmato. I movimenti
muscolari relativi all’attacco e alla difesa sono programmati da
circuiti neuronali localizzati nel tronco dell’encefalo. Le attività dei
circuiti troncoencefalici sono a loro volta controllate dall’ipotalamo
e dall’amigdala [vedi fig. 1.1].
Fig. 1.1) il Sistema limbico comprende le aree cerebrali maggiormente
coinvolte nelle varie forme di aggressività; tratto da www.crulygirl.naturlinl.pt
6
Negli
esperimenti
in
vivo
sui
gatti
comportamento predatorio che quello
è
emerso
che
sia
il
difensivo possono essere
evocati dalla stimolazione della sostanza grigia periacquedottale
(PAG) del mesencefalo. Già con la semplice stimolazione artificiale
dei circuiti neuronali, emerge come le differenti
tipologie
di
aggressività ed i comportamenti connessi abbiano origini diverse
per far fronte ad esigenze appunto di tipo diverso. ROBERTS e KIESS
(1964), impiantando degli elettrodi nel cervello di gatti, in un punto
dove lo stimolo suscitava l’attacco predatorio, hanno dimostrato
che la stimolazione dell’istinto predatorio non implicava la
contestuale sollecitazione dell’esigenza di nutrimento. Infatti, gatti
che non avevano mostrato una naturale propensione a sopprimere
ratti, a seguito della stimolazione, uccidevano il ratto senza di fatto
nutrirsene nonostante risultassero affamati.
Pertanto, si è visto che l’attacco di tipo predatorio non è sinonimo
di comportamento nutritivo.
Inoltre, il sistema della elettrostimolazione ha consentito di rilevare
che, per esempio, l’aggressività predatoria e quella difensiva
suscitano sensazioni ben diverse. PANSKEPP (1971) osservò nei suoi
esperimenti con i ratti che essi preferiscono la stimolazione delle
aree cerebrali che evocano l’attacco, anziché quelle interessate
nell’aggressività difensiva.
Negli esperimenti di condizionamento operante emergeva in modo
evidente come i ratti, pigiando una leva, interrompevano lo stimolo
evocante
l’attacco
difensivo,
facendo
altrettanto
per
autostimolarsi l’attacco predatorio. Si è dunque evidenziato che la
stimolazione delle aree cerebrali scatenanti l’attacco predatorio
costituisce un rinforzo positivo per l’animale, mentre quella
interessata nella difesa un rinforzo negativo. Vedremo più avanti, in
7
alcune citazioni riferite alle ricerche fatte dall’etologo Konrad
Lorenz,
come
il
comportamento
aggressivo
stimolato
dalla
predazione non crea sconforto o disagio, ma al contrario un senso
di
gratificazione, mentre l’aggressività difensiva, a salvaguardia
della propria incolumità, di quella della prole come anche a difesa
del territorio, è accompagnata da una percezione di panico e
quindi implica sempre un forte senso di disagio.
Altri esperimenti hanno aiutato a comprendere le implicazioni
neuronali nel comportamento aggressivio. SHAIKH ,
SIEGEL e
collaboratori [1999] hanno indagato i circuiti neuronali dei gatti per
individuare i centri responsabili del comportamento aggressivo, sia
di tipo predatorio che di difesa.
Hanno utilizzato una tecnica
particolare, che consentiva sia l’elettrostimolazione che l’infusione
di sostanze chimiche in alcune aree del cervello. I dispositivi utilizzati
a tal fine si chiamano elettrodi a cannula e sono costituiti da una
cannula in acciaio inossidabile, rivestita da materiale isolante con
la sola punta scoperta per consentire la trasmissione degli stimoli
elettrici. Questi esperimento hanno consentito di evidenziare che il
comportamento aggressivo, sia predatorio che difensivo, può
essere attivato dalla stimolazione di diverse regioni della sostanza
grigia periacquedottale (PAG). Anche le ricerche e gli esperimenti
di Shaikh
e Siegel hanno, come
già accennato, evidenziato
l’influenza dell’ipotalamo e dell’amigdala
e della loro funzione
eccitatoria ed inibitoria, attraverso le interconnessioni neuronali con
la PAG [vedi fig. 1.2].
8
Fig. 1.2 Il diagramma mostra le interconnessioni tra parti dell’amigdala,
dell’ipotalamo e della sostanza grigia periacquedottale e i loro effetti
sulla rabbia difensiva e sul comportamento predatorio dei gatti..
Diagramma tratto dal Carlson.
Per dare una idea di cosa in concreto avveniva negli esperimenti
anzidetti, ne descriverò uno al quale ha collaborato anche
SCHUBERT [1996] .
Fu collocato un
elettrodo a cannula nella PAG dorsale ed un
elettrodo tradizionale a filo metallico nell’ipotalamo mediale. La
stimolazione della PAG dorsale sollecitò nel gatto una rabbia
difensiva e la contestuale sollecitazione dell’ipotalamo mediale
amplificò tale comportamento. Ciò
conferma quanto già
sperimentato in precedenza, ma la tecnica con la cannula ha
consentito di ottenere altre informazionni. Infatti, l’infusione nella
PAG dorsale di AP-7,
bloccando i recettori NMDA (recettori
ionotropici per il glutammato) inibiva gli effetti della stimolazione
dell’ipotalamo mediale. Segno questo di un diretto collegamento e
9
di una interconnessione immediata tra PAG e ipotalamo.
Tale
scambio di informazioni tra le due strutture cerebrali è stato
ulteriormente confermato iniettando del tracciante retrogrado
(fluorogold) nella PAG, che è andato a
marcare dei neuroni
nell’ipotalamo.
Attraverso l’autoradiografia di
fettine
di
tessuto della PAG
contenenti NMDA radioattivo, si è riscontrata una densa presenza
di recettori NMDA in quell’area, mentre attraverso la procedura a
doppia marcatura si è visto che gli assoni che l’ipotalamo mediale
invia alla PAG sono glutamatergici.
Questa metodologia e altre
simili, hanno consentito di osservare che le tre principali
regioni
dell’amigdala e due regioni dell’ipotalamo controllano la rabbia
difensiva e la predazione , entrambi evidentemente controllate
dalla PAG.
L’aver potuto determinare questa rilevante ed inconfutabile
importanza delle citate
regioni cerebrali nelle manifestazioni
aggressive non significa che altre
aree
siano
del tutto
disinteressate da tale fenomeno comportamentale. Anzi, è senza
dubbio il contrario ed è assunto ormai comunemente condiviso
che
molte
altre
regioni
siano a vario
titolo coinvolte
ed
interferiscano in questa rete di comunicazione neuronale.
Vari
nuerotrasmettitori
aggressivo.
sono
coinvolti
nel
comportamento
Per esempio, generalmente l’aumento dell’attività
delle sinapsi serotoninergiche inibisce l’atteggiamento aggressivo.
Nel Proencefalo la sezione degli
assoni serotoninergici facilita
l’attacco aggressivo, presumibilmente rimuovendo un effetto
inibitorio [VERGNES et al. 1988]. Per tale ragione, alcuni medici
hanno utilizzato farmaci serotoninercici per inibire l’aggressività e
dunque l’atteggiamento violento nell’uomo.
10
Sono state effettuate ricerche su un gruppo di scimmie alle quali è
stato prelevato un campione di liquido cerebrospinale per rilevarne
la concentrazione di 5-HIAA ( un metabolica della serotonina “5HT” ). Al momento del rilascio della serotonina, la maggior parte
del neurotrasmettitore viene riassorbito attraverso la ricaptazione,
ma la restante parte, diffondendosi, si degrada in 5–HIAA che
confluisce nel liquido cerebrospinale. Alti livelli di questo metabolita
nel
LCS
sono
pertanto
indice
d’un
alto
livello
di
attività
serotoninergica.
Dalle ricerche di vari studiosi [MEHLMAN et. al.1995; HIGLEY et al.
1996] è emerso che, ad esempio, le giovani scimmie con una
minore
concentrazione di 5-HIAA si esponevano con maggiore
facilità a situazioni di rischio, rispetto a quelle
con una
concentrazione maggiore. Le scimmie contraddistinte da una
minore concentrazine di 5-HIAA nel LCS avevano manifestazioni di
aggressività anche verso animali gerarchicamente e fisicamente
superiori.
È dunque tacito che questo indice di ridotta attività
serotoninergica evidenzia una minore inibizione dell’aggressività.
Ovviamente
bisogna essere cauti nell’interpretazione dei dati
sperimentali, non dimenticando che la causa scatenante di una
reazione comportamentale non sarà mai dovuta ad un solo fattore
specifico, ma che nella vasta e complicata rete neuronale del
nostro labirinto cerebrale intervengono
sempre
una serie di
interconnessioni corroboranti o modulanti. Allo stesso modo, un
neurotramettitore non ha mai una sola
specifica funzione, ma
interviene in molteplici altre elaborazioni di trasmissioni sinaptiche.
Per
tornare
alla
serotonina,
essa
non
agisce
solamente
nell’inibizione dell’aggressività o dell’atteggiamento violento, ma
più in generale sembra esercitare una funzione di controllo
11
generale in tutti quelli che possano considerarsi atteggiamenti
pericolosi.
In uno studio di COCCARO e KAVOUSSI [1997] è stato dimostrato
come la fluoxetina, meglio conosciuta in commercio con il nome di
“Prozac”, che è un agonista della serotonina, abbassa in modo
evidente i livelli di irritabilità. Uno studio di [BRUNNER et. al. 1993]
ha evidenziato uno stretto legame genetico tra la serotonina ed il
comportamento antisociale nell’uomo ed in particolare nei
maschi. La sindrome antisociale ereditaria verrebbe provocata e
quindi trasmessa dalla mutazione del gene delle monoaminoossidasi di tipo A (MAO-A) . Questo gene è localizzato sul
cromosoma “X”
e poiché nei maschi è presente un solo
cromosoma “X”, di frequente si evidenziano in loro delle alterazioni
dovuti a tale cromosoma.
Dal momento che la “MAO-A” è
l’enzima responsabile della degradazione della serotonina, si
comprende la ragione di una maggiore tendenza all’aggressività
delle persone con la tara genetica di un disordine X-dipendente.
Questa particolare problema, concernente il cromosoma maschile,
ci introduce nel campo specifico dell’aggressività nei maschi.
Tutti gli studi sinora svolti hanno evidenziato come il controllo
ormonale intervenga nel comportamento aggressivo.
L’attività
ormonale
finalizzati
che
stimola
all’accoppiamento
è
gli
atteggiamenti
strettamente
connessa
con
il
comportamento aggressivo per la conquista della femmina. Persino
nelle specie dove non è necessario combattere per motivi
territoriali, si manifestano comportamenti aggressivi volti alla
conquista del partner.
Del resto, in senso più lato, anche le strategie del gentiluomo,
messe in atto per conquistare la donna, sono una forma di
12
aggressività, interpretando la parola nel senso più puro della sua
origine etimologica.
La derivazione dal latino, della parola aggressività, si compone
dalle parole “ad” (moto a luogo) e “gredior” dall’origine celtica
“gradi”
(procedere
per
passi).
Dunque
nell’accezione
più
comunemente condivisa “adgredior” viene tradotto con “andare
verso”, ovvero raggiungere un obiettivo.
Da ciò è facilmente
deducibile che l’impegno di ottenere un risultato sia da considerarsi
una forma di aggressività , che sotto questo punto di vista la scinde
in modo netto da quella accumunata alla violenza. Per tornare
all’esempio di cui sopra, le strategie di conquista di una donna,
volte a
sgombrare il campo da altri
pretendenti, possono
considerarsi una forma di aggressività, tra la sublimazione e la
ritualizzazione.
Ma questo è un argomento di cui parlerò
più
avanti.
Torniamo
al
contesto
fisiologico-ormonale,
e
a
come
i
comportamenti aggressivi risentano degli effetti organizzativi ed
attivanti degli ormoni.
Negli esperimenti sui roditori di laboratorio si è evidenziato che la
secrezione degli androgeni comincia in fase prenatale, diminuendo
con la crescita per tornare ad aumentare nel periodo della
pubertà. Il fatto che nella pubertà aumenti anche l’aggressività tra
maschi lascia desumere che tale comportamento sia anch’esso
controllato dai circuiti neuronali stimolati dagli androgeni.
Già nel
1947 BEEMAN scoprì
che la castrazione riduceva
l’aggressività e che le iniezioni di testosterone la ripristinavano.
La precoce androgenizzazione influisce sullo sviluppo del cervello,
rendendo i circuiti neuronali di controllo del comportamento
sessuale più reattivi al testosterone in età adulta.
13
Anche VOM SAAL nel 1983, nei suoi esperimenti, trova conferma del
fatto che una precoce androgenizzazione
sensibilizza i circuiti
neuronali, abbassando la soglia di attivazione del comportamento
aggressivo in età avanzata.
Questo fenomeno ovviamente non
riguarda solamente l’aggressività finalizzata alla copulazione, ma
interviene anche in comportamenti
diversi, come la
difesa del
territorio o del rango gerarchico.
All’interno di questo capitolo ho accennato alla suddivisione delle
aree cerebrali interessate a vario titolo nelle manifestazioni
aggressive attraverso la loro attività neuronale. BEAN E CONNER
[1978] hanno dimostrato, attraverso l’innesto di testosterone
nell’Area Preottica Mediale (APM) di ratti maschi castrati, che tale
stimolazione
dei
neuroni
sensibili
agli
androgeni
ripristinava
l’atteggiamento aggressivo sia nel comportamento sessuale che
tra maschi.
Possiamo dedurne che l’area preottica mediale è
coinvolta nei comportamenti di tipo aggressivo collegati all’attività
della riproduzione.
Inoltre è stato evidenziato che l’ipotalamo maschile e quello
femminile sono funzionalmente diversi. Già nel 1971, RAISMAN E
FIELD scoprirono, nei ratti,
mediale
dell’ipotalamo,
un nucleo situato nell’area preottica
poi
chiamato
nucleo
sessualmente
dimorfo, che nei maschi era più grande rispetto alle
femmine.
Mentre alla nascita detti nuclei sono di grandezza uguale, sia nelle
femmine che nei maschi , già pochi giorni dopo si evidenzia una
notevole differenza nella crescita. La crescita è scatenata
dall’estradiolo che è stato aromatizzato a partire dal testosterone.
Successivamente, questa differenza di grandezza dei nuclei
sessualmente dimorfi nell’ipotalamo è stata verificata anche in altre
14
specie di animali e tali differenze sono riscontrabili anche tra l’uomo
e la donna [SWAAB e FLIERS 1985].
E’ stato visto
che l’aggressività nelle femmine e tra femmine di
roditori può essere stimolata con l’innesto di testosterone. Abbiamo
così una ulteriore conferma che gli androgeni producono un
effetto organizzativo sull’aggressività delle femmine.
L’aggressività
più
sviluppata
nelle
femmine
materna, volta alla difesa della prole.
abbiamo l’intervento di un ormone,
è
l’aggressività
Anche in questo caso
il progesterone, i cui livelli
incidono su tale aggressività [MANN, KONEN e SVARE, 1984].
Si è però rilevato che, per verificarsi detto atteggiamento
aggressivo materno, non è sufficiente la sola presenza di ormoni
ovarici o ipofisari, ma che intervengono fattori tattili ed olfattivi.
Ovvero, in assenza dei neonati o di possibilità di allattamento tale
comportamento non si verifica [SVARE e GANDELMAN, 1976]. Esiste
quindi una combinazione di elementi che
includono paradigmi
comportamentali trasmessi geneticamente, che esulano dalla
mera attività neuronale modulata dagli ormoni. Vediamo ora gli
effetti degli androgeni sul comportamento umano.
Questo studio tornerà utile quando, più avanti, andrò a comparare
l’aggressività animale e quella umana, in relazione al tema cardine
di questa tesi, cioè lo stimolo nell’uomo ad incitare i cani nel
combattimento.
Anche nell’uomo troviamo una maggiore presenza di aggressività
nel maschio che non nelle donne, e questo già in giovane età.
prescindere dai comuni modelli
A
educativi occidentali, che
accettano e pertanto stimolano una maggiore aggressività nei
ragazzi piuttosto che
nelle ragazze, non si può negare una
15
influenza di natura
biologica in tale differente potenziale
aggressivo.
Come studiato nelle varie specie di animali, così anche nei primati
l’esposizione
prenatale
comportamento
agli
aggressivo,
androgeni
per
cui
incrementa
costituiremmo
il
l’unica
eccezione se non fosse così anche per noi “umani”, o meglio noi
“animali razionali”.
Gli effetti degli androgeni si manifestano con la pubertà, quando
iniziano ad aumentare i livelli di testosterone nei ragazzi, che in quel
periodo
dello
sviluppo
tendono
in
modo
maggiore
ai
comportamenti aggressivi. Anche nell’uomo le lotte fra maschi e
l’aggressività a scopo sessuale sono soggetti a questa interferenza
ormonale. Ovviamente non esistono ricerche supportate in modo
scientifico, che comprovino in modo inconfutabile tali teorie sugli
esseri umani, non potendo per ovvie ragioni etiche riprodurre
nell’uomo gli esperimenti effettuati sugli animali da laboratorio. Ciò
nonostante, abbiamo qualche testimonianza storica significativa
che, quantomeno, ci suggerire di non essere molto lontani dalla
verità con le nostre deduzioni.
Infatti, alcune autorità, in passato, hanno tentato di reprimere le
aggressioni sessuali attraverso l’evirazione dei condannati per tali
crimini. Effettivamente si è rilevato che, con il cessare della pulsione
sessuale, venivano meno anche gli attacchi aggressivi sia eteroche omosessuali [ HAWKE, 1951; STURUP, 1961; LASCHET, 1973].
Ora abbiamo imparato, studiando i metodi nella ricerca scientifica,
che ci vuole ben altro per cominciare a poter parlare di risultati
inconfutabili che possano costituire dogma. Di contro, per quanto
consapevoli dei limiti insiti in certi risultati, questi non possono essere
del tutto disattesi. In casi particolari ci sono stati anche trattamenti
16
con steroidi di sintesi, che inibiscono la produzione di androgeni da
parte dei testicoli e che hanno effettivamente ridotto l’aggressività
a sfondo sessuale, ma come osservato anche da WALKER e MAYER
[1981], l’efficacia dei farmaci antiandrogeni viene meno nelle altre
forme di aggressività. Anche le misurazioni dei livelli di testosterone,
paragonati al tasso di tendenza a comportamenti aggressivi,
hanno stabilito una correlazione diretta. Bisogna però qui ribadire
che correlazione non è sinonimo di causalità. Infatti, nessuno studio
correlazionale è in grado di darci la certezza che alti livelli di
testosterone
inducano
ad
atteggiamenti
aggressivi
o
alla
dominanza su altri.
Secondo gli esperimenti effettuati da MAYER-BAHLBURG [1981], i
tentativi di dimostrare la causalità tra gli effetti organizzativi
attivazionali del testosterone e l’aggressività durante e dopo il
periodo della pubertà nei maschi umani si sono dimostrati vani.
Mentre, anche se le ricerche di
ALBERT , WALSH e JONIK [1993],
hanno altrettanto dimostrato che l’aggressività non aumenta con i
livelli di testosterone,
castrazione
e
non
che essa non viene eliminata con la
viene
testosterone, essi sono
incrementata
con
le
iniezioni
di
giunti a conclusioni diverse. Ovvero,
asseriscono che la confusione venga ingenerata dalla mancanza
di una opportuna distinzione tra aggressività sociale e difensiva
nell’uomo e che gli eccessi di aggressività negli esseri umani siano
solitamente reazioni esagerate
a minacce,
siano esse reali o
solamente percepite tali. In questo modo il ricercatore può
confondere gli attacchi difensivi con l’aggressività sociale. In
conseguenza a tale riflessione, la mancanza dell’incremento di un
attacco difensivo in relazione ai livelli di testosterone, sarebbe del
tutto conforme a quanto osservato anche nelle diverse specie di
17
animali. Io qui mi vorrei spingere oltre nelle ipotesi che possano
contribuire ad inficiare la giusta lettura dei risultati sperimentali nei
confronti dell’uomo. Come abbiamo appreso dallo studio sulle
metodologie relative alla sperimentazione e dei rispettivi limiti in
ordine all’obiettività nei risultati, uno degli scogli più difficili da
superare è proprio la soggettività
nell’osservatore [BATTACCHI
M.W., 1983] [BORGOGNO F. 1978]. Nel libro “L’aggressività” di
Konrad Lorenz, Giorgio Celli, che ne scrisse l’introduzione, nel
capitolo intitolato “Quasi trent’anni dopo.. c’era una volta Lorenz”
ci rammenta come il mondo scientifico ancora in tempi piuttosto
recenti stentava ad accettare
l’origine animale alla base dei
comportamenti dell’uomo. Siamo dunque certi che i risultati degli
esperimenti sull’aggressività nell’uomo siano sempre stati valutati in
assenza di qualsivoglia, magari anche inconscio, rifiuto di vedere la
realtà? Non solo. L’aggressività nell’uomo, così come sublimata,
ritualizzata, reindirizzata o inibita dall’educazione etico-morale,
riesce
ad
essere
manifestazione
riconosciuta
e
comparata
con
la
sua
originaria? Ovviamente, bisogna porre molta
attenzione alle interpretazioni delle manifestazioni aggressive
nell’uomo. Un animale esprime l’istinto aggressivo in modo evidente
mentre è ormai asserzione comunemente condivisa che l’uomo
tende a reprimere molti degli istinti primordiali, quando persino a
somatizzare anche le forme di aggressività, che in tal modo
divengono
meno
manifeste,
per
cui
meno
individuabili
e
difficilmente valutabili.
Dunque, riassumendo in breve quanto sin qui detto, si è evidenziato
che alcune regioni cerebrali del Sistema Nervoso Centrale sono
coinvolte in modo particolare
nel sollecitare
il comportamento
aggressivo e che vi sono dei neurotrasmettitori che svolgono un
18
ruolo
fondamentale
nell’attivazioni
o
inibizione
di
tali
comportamenti.
Allo stesso modo, è emerso che le forme di aggressività si
distinguono per la loro funzione e che quella collegata alla
riproduzione è soggetta a variazioni di tipo ormonale.
Più in particolare, abbiamo visto che la PAG risulta essere coinvolta
nei comportamenti difensivi e nella predazione e che questi
atteggiamenti sono modulati dall’ipotalamo e dall’amigdala.
Mentre l’amigdala basolaterale evoca l’aggressività, il nucleo
centrale l’inibisce.
Abbiamo inoltre visto che l’ipotalamo mediale facilità l’aggressività
difensiva e che le connessioni di tipo inibitorio con l’ipotalamo
laterale riducono l’atteggiamento predatorio.
Parlando dei neuromediatori, è emerso che i neuroni serotoninrgici
riducono i comportamenti a rischio, per cui la resezione degli assoni
serotoninergici del proencefalo li accresce. Troviamo ulteriore
conferma di tale potere inibitorio della serotonina nel fatto che la
somministrazione
serotoninergica
di
farmaci
che
diminuiscono
la
facilitano
tendenza
la
trasmissione
all’aggressività.
Ricordiamo ancora che anche la mutazione del gene responsabile
delle monoamino – ossidasi di tipo A, l’enzima responsabile della
degradazione della serotonina, porta a frequenti comportamenti
antisociali.
Come appena accennato, i comportamenti aggressivi collegati
alla riproduzione, invece hanno un origine di tipo ormonale
steroidea. In particolare, gli androgeni stimolano nei maschi
l’attacco offensivo.
Infatti, gli stessi effetti attivanti l’attacco
offensivo si verificano anche nel comportamento sessuale maschile.
19
Nell’aggressività collegata all’inferenza degli androgeni, la regione
cerebrale implicata sembra risultare l’area preottica mediale.
Abbiamo invece osservato come l’aggressività materna nei ratti sia
strettamente collegata alla secrezione di progesterone, ma che
devono
intervenire
anche
contestualmente
elementi
comportamentali, evidentemente appresi, sollecitati a livello tattile
ed olfattivo, nella cui assenza l’aggressività viene meno.
Nell’ultima parte di questo capitolo abbiano visto le difficoltà che
emergono nel traslare i risultati ottenuti nello studio degli animali
sull’uomo.
Certo è che gli androgeni
favoriscono
anche
nell’uomo il comportamento aggressivo e che alti livelli di
testosterone sono concomitanti con la tendenza all’aggressività;
ma l’elemento di più certa individuazione è che l’effetto degli
androgeni
aumenta
la
tendenza
alla
dominanza
e
che
l’aggressività risulterebbe essere un atteggiamento conseguente.
Possiamo dunque asserire che le regioni cerebrali comunicano tra
loro attraverso la rete neuronale elaborando informazioni , azioni e
reazioni, attraverso i
neurotrasmettitori che intervengono nella
trasmissione sinaptica.
Così come possiamo sostenere che l’aggressività abbia anche un
origine fisiologica, allo stesso modo è evidente già
capitolo che esistono altri elementi di tipo
in questo
comportamentale,
geneticamente trasmessi, corresponsabili nel verificarsi delle forme
di aggressività, come emerge ad esempio in
modo evidente
nell’aggressività materna dei ratti.
Nel prossimo capitolo descriverò i modelli comportamentali che le
varie specie si tramandano geneticamente per garantirsi la
sopravvivenza.
20
1.2 Le basi filogenentiche dell’aggressività
“ La teoria dell’ aggressività inter- ed intraspecifica.”
Nel campo etologico, il precursore è senza dubbio il naturalista
Charles Darwin che, con le sue ricerche e le sue opere
sull’evoluzionismo e sulla conservazione della specie, ha lasciato ai
posteri degli assunti di base fondamentali.
Come ci suggerisce il padre dell’etologia
Konrad Lorenz, per
cercare di comprendere le origini di un dato comportamento,
perpetrando la filosofia di Darwin,
chiedersi: “A che scopo?”.
il ricercatore deve sempre
Ogni comportamento osservato,
dunque anche la manifestazione aggressiva, ha una origine ed una
funzione che sono interdipendenti. Pertanto, se si riesce ad
individuare la ragion d’essere di un determinato comportamento,
immancabilmente si finirà per conoscerne l’origine.
Partiamo dal fondamento
che ha dato origine a
tutte le
successive ricerche, volte a conoscere e valutare in primis il
comportamento animale e successivamente quello umano, cioè
la
naturale
predisposizione
all’autoconservazione , finalizzata
di
ogni
essere
vivente
alla sopravvivenza della propria
specie.
Intervengono qui due elementi fondamentali per la sopravvivenza,
che potrebbero sembrare quasi contrapposti come indirizzo
comportamentale: l’aggressività da una parte e l’adattabilità
dall’altra. Nell’immaginario collettivo la parola aggressività viene
subito identificata come una forma di contrapposizione, mentre
l’adattamento viene assimilato all’accondiscendenza, al “cedere
a”. E’ stata proprio l’intuizione geniale di Darwin a percepire come
21
ambedue gli elementi, ognuno per il suo verso, contribuiscono in
modo fondamentale alla conservazione delle diverse specie.
DARWIN, nel suo libro “Origine della Specie” , selezione naturale e
lotta per l’esistenza
[1872 (edizione originale)-1967 (versione
tradotta e pubblicata in italia) ] usa in modo intuitivo
delle
terminologie, formando delle asserzioni che, alla luce delle attuali
conoscenze,
già contenevano
in modo evidente le future
risultanze delle ricerche etologiche.
spiega cosa
Quando nel terzo capitolo
s’intende per lotta per l’esistenza, inquadra il
problema in modo molto ampio, ricomprendendo anche la
semplice capacità di una pianta di resistere alle intemperie. Usava
dunque la parola “lottare” senza poter presagire che, nel giro di
“appena”
un
secolo,
un
termine
di
derivazione
simile,
“aggressività”, avrebbe assunto anch’esso un valore diverso e più
importante che non la semplice indicazione di una forma di
violenza.
Nella
sarebbe stata
sostanza che accomuna
individuata
le due terminologie
la spinta vitale necessaria alla
conservazione delle specie. Kornrad Lorenz , appunto attribuendo
questa nuova veste a tale terminologia, fu soggetto a non poche
contestazioni quando intitolò il suo libro,
“L’agrressivtià”,
oggi conosciuto con
“Das sogenannte Boese” (Il cosiddetto male).
Darwin, quando accenna alla lotta per la sopravvivenza, punta
maggiore attenzione sulle variazioni casuali negli animali e nelle
piante, che favoriscono la nuova variante rispetto alla precedente,
quindi parla sostanzialmente di adattamento,
del
cedere a
condizioni imposte, in un’ottica quindi lontana rispetto alla nostra
disquisizione sull’aggressività. Ciò nonostante pone l’attenzione su
una differenziazione importante, che successivamente ha assunto
notevole rilevanza negli studi
che sono seguiti. Egli ha fatto una
22
prima distinzione tra
lotta intraspecifica e
quella interspecifica,
asserendo che la lotta fosse più aspra tra individui di una varietà
della stessa specie che tra individui di specie diverse.
Inoltre, Darwin si avvicina in modo particolare alle evidenze emerse
dalle analisi dei suoi successori, quando accenna a quella che lui
definisce
“selezione
sessuale”,
parlando
in
modo
chiaro
dell’aggressività tra maschi della stessa specie finalizzata alla
riproduzione.
Troviamo persino una sorta di input su quanto
avrebbe detto molti anni dopo Lorenz, riferito alla ritualizzazione
dell’aggressività, quando racconta delle danze degli uccelli per
aggiudicarsi la partner.
A questo punto ritengo necessario un approfondimento sulle varie
forme di aggressività.
Come già accennato, nell’atteggiamento aggressivo dell’animale,
bisogna differenziare tra quello di tipo inter- e quello di matrice
intraspecifica. Ambedue sono finalizzati alla conservazione delle
specie, ma con funzioni differenti.
L’Aggressività interspecifica, ovvero tra specie diverse, si riferisce
quasi esclusivamente all’istinto della predazione. Parliamo dunque
dell’istinto dell’aggressione fisica di un animale nei confronti di un
altro, finalizzato al cibarsene.
Null’altro della
famosa catena
alimentare dei carnivori [vedi fig 1.3].
23
Fig 1.3; scena di predazione del cacciatore quadrupede più
veloce in assoluto, tratta da www.arcadiaclub.com
Meno frequente è l’aggressività finalizzata alla difesa del territorio
tra specie diverse essendosi i carnivori, durante la loro evoluzione,
specializzati al punto tale da essersi creati ognuno la propria
nicchia ecologica. Verrebbe da supporre che tra gli erbivori non
esista aggressività, mancando l’ esigenza di catturare e sopprimere
altri animali per cibarsene. Così invece non è.
Più avanti vedremo come anche negli animali non predatori
l’aggressività intraspecifica svolga un ruolo fondamentale, ma
quello che ora ci interessa è che persino nel contesto della
convivenza di specie diverse, l’erbivoro o insettivoro ha necessità di
sviluppare uno speciale tipo di aggressività.
Nel III capitolo del libro di Lorenz , “ Quel che c’è di buono nel
male”, l’etologo spiega come questa lotta fra chi mangia e chi
viene mangiato conduce ad un forma di aggressività da parte
delle prede, di tipo più puro che non quella che muove il
predatore.
È
una
forma
di
aggressività
che
si
incontra
maggiormente tra gli animali che vivono in gruppo e che,
quantunque glie se ne presenti la possibilità, aggrediscono il loro
potenziale predatore. Questa manovra di controffensiva è stata
24
identificata con il termine inglese “mobbing”, che in italiano si può
tradurre con la parola “braccare”, per usare un termine venatorio
[vedi fig. 1.4]
Fig. 1.4, scena di braccaggio di un falco da parte di gabbiani,
tratto da www.effewebdesigne.com
25
Una ulteriore e più agguerrita forma di aggressività è
quella
dettata dalla “disperazione”, cioè quella scaturita dal panico per
non avere via di scampo, non potendo lasciare
libero sfogo
all’impulso della fuga. Hediger l’ha chiamata “reazione critica”.
Ma perché si parla di aggressività più e meno pura? Come
abbiamo già visto nel primo capitolo di questa tesi, attraverso
l’esame
degli
studi
di
neurofisiologia
del
comportamento
aggressivo, nell’istinto di predazione, che di fatto porta ad una vera
aggressione fisica con la verosimile soppressione della preda, non
si verifica una sensazione di disagio nel predatore.
Anzi, negli
esperimenti di condizionamento operante dei ratti di laboratorio, si
è visto che lo stimolo alla predazione costituisce un rinforzo positivo
e quindi porta all’autostimolazione; contrariamente a quanto
avviene nello stimolare della
sensazione di paura che porta a
quelle altre forme di aggressività appena citate.
Mentre le citate forme di aggressività sono appunto volte alla
sopravvivenza della specie, quelle intraspecifiche
sono più
precipuamente finalizzate alla conservazione della specie. Infatti,
la parola sopravvivenza contiene le condizioni intrinseche di vita o
morte ed implica sia l’aggressività di attacco
che uccide, che
quella difensiva (braccaggio – reazione critica) che sottrae dalla
morte.
Nell’aggressività intraspecifica
è invece
più attinente il
termine conservazione in quanto i combattimenti non portano, ad
esclusione
di rari casi spesso fortuiti,
alla soppressione del
conspecifico.
Le lotte tra animali della stessa specie sono volte a garantire una
consona dislocazione territoriale per garantire il cibo per tutti, alla
conservazione della gerarchia nel branco ( sia per consentire la
pacifica convivenza , che
per una più funzionale strategia di
26
caccia) ed alla conquista della femmina per l’accoppiamento.
Lorenz ha spiegato magistralmente nel capitolo “prologo in mare”
come i piccoli pesci della barriera corallina dai colori sgargianti, si
scagliano esclusivamente contro i propri conspecifici affinché non
si possano insediare nello stesso territorio troppi
pesci che
usufruiscono della medesima nicchia ecologica per il nutrimento.
Lorenz ha chiamato questo fenomeno lo “spacing out” che noi
individuiamo con una sorta di mutua repulsione.
Lorenz, in quel capitolo ha anche spiegato che l’aggressività di un
soggetto aumenta o diminuisce proporzionalmente alla distanza
che intercorre tra il territorio proprio e quello dell’intruso. Ovvero, più
il soggetto che difende il proprio territorio si trova al centro dello
stesso, più aumenta la sicurezza e quindi la determinazione, mentre
più vi si allontana e minore diviene la determinazione dovuto alla
crescente insicurezza. Questo rende quasi matematico il fatto che
l’intruso da queste sfide ne esce sconfitto.
Non molto tempo fa un mio amico mi ha chiesto di poter lasciare,
per un tempo limitato alle esigenze di trasferimento, le sue galline
ed il gallo presso il mio ricovero dove già detengo una mezza
dozzina di galline ed un gallo di nome Anacardio. Ho acconsentito
e, quando questo mio amico è arrivato e ha inserito i suoi animali
nel recinto, ha osservato che forse lo spazio era troppo esiguo per
la pacifica convivenza dei due galli. Ha però voluto aggiungere
che il suo gallo grasso, grosso e forte era anche molto agguerrito e
che avrebbe senz’altro annientato il mio.
Abbiamo dunque collocato gli animali nel recinto e non c’è voluto
molto che i due galli iniziassero a combattere. Forse la presenza di
nuove galline non dispiaceva affatto al mio gallo, ma la presenza
del rivale l’ha subito portato su tutte le furie.
27
Proprio la mia sete di conoscenza sul comportamento animale mi
ha trattenuto dal separali immediatamente, ma non avrei
ovviamente atteso un eventuale epilogo tragico.
Invece proprio pensando alla mia tesi ho subito preso la mia
macchina fotografica digitale per scattare qualche foto, che
quindi avete il piacere di ammirare qui sotto.
Ma la cosa più importante è che ho avuto conferma del fatto che
l’animale che si trova nel proprio territorio ha la meglio sull’altro.
Infatti, dopo alcuni brevi
attacchi e contrattacchi, dove i due
contendenti si beccavano rispettivamente sulla cresta, l’intruso si è
sdraiato per terra sul fianco ed immobile.
Ho voluto prima
immortalare la scena e poi l’ho tolto dal recinto, chiedendo al mio
amico di collocarlo da qualche altra parte. Se lo spazio fosse stato
sufficiente, sicuramente avrebbero potuto convivere, instaurandosi
un rapporto gerarchico, il cosiddetto “pecking order” di cui parlero
più avanti. Nelle seguenti figure si vede la sequenza del “peching
order” nel mio piccolo pollaio [Fig.re 1.5 e 1.6]
Fig. 1.5, scena in cui il mio gallo combatte contro l’intruso
28
Fig. 1.6, il gallo intruso manifesta con questo gesto la sottomissione
e l’altro lo ignora
Tornando alle spiegazioni sullo “pacing out” di Lorenz, per dare
una idea più chiara di quanto stava asserendo ha voluto portare
un esempio elementare che riguarda l’essere umano.
In sintesi,
dice che in una piccola comunità trovano spazio non più di un
professionista o artigiano di ogni specifico genere, per conservare
una clientela sufficientemente numerosa che gli garantisca
un
guadagno idoneo alla sopravvivenza.
Abbiamo oggi esempi che vanno ben oltre e che dimostrano
come la condizione di una stretta convivenza di molte persone sul
medesimo territorio
crei elementi di
stress e di maggiori
esternazioni aggressive. Si è visto come, nelle città e nei ghetti con
una maggiore densità di popolazione, emergano forme di
aggressività che esulano da vere esigenze di sopravvivenza e che,
a primo impatto, sembrerebbero essere ingiustificate.
Questo
potrebbe indicarci che, se pur ci basta uno spazio proprio alquanto
29
ridotto per il nutrimento del nostro corpo, forse per il nutrimento
della nostra psiche necessitiamo di maggiori spazi e di maggiore
libertà di movimento.
Ho già accennato all’aggressività
organizza le
sviluppati.
per principio gerarchico che
comunità di animali intellettivamente
già più
Tale tipo di ordinamento, che si sviluppa attraverso
reciproci atteggiamenti aggressivi, serve per stabilire e fornire
consapevolezza nei soggetti di una stessa comunità del proprio
ruolo detenuto.
Questo per evitare superflue lotte cruente e
dannose che porterebbero, oltre alla morte certa di qualche
individuo, alla disgregazione del gruppo. Uno dei primi a scoprire
questo tipo di ordinamento fu SCHJELDERUP – EBBE, studiando i polli
domestici e coniando il termine “ pecking order”
(ordine di
beccata ), che ancora fino a tempi recenti è stato utilizzato anche
in contesti diversi.
L’ordine gerarchico è propedeutico a molteplici funzioni. Da una
parte permette la pacifica convivenza dei componenti di una
comunità e dall’altra consente una maggiore azione sinergica nelle
tattiche di caccia, come avviene per esempio nei branchi di lupi.
Ancora in modo maggiore, salta all’occhio come l’aggressività
intraspecifica intervenga nella riproduzione. Sarà infatti il capo
branco ad esercitare il diritto di monta, garantendo una progenie
forte sia fisicamente che caratterialmente. Così si genera una prole
tendenzialmente
sana sotto tutti gli aspetti, fatto che è
maggiormente conveniente per la conservazione di quella specie.
Questa lotta, finalizzata ad avere la supremazia nel diritto di
accoppiamento, ovviamente si trova anche negli animali che non
vivono in branco, ma evidentemente ha lo stesso scopo. È proprio
30
questo atteggiamento combattivo - riproduttivo che garantisce la
trasmissione filogenetica dell’aggressività.
Si trova, cioè, proprio nella trasmissione dell’informazione genetica
alla progenie la garanzia di conservare
nel tempo gli elementi
che attivano la tendenza a lottare per conquistarsi un posto nella
propria comunità, ma anche per mantenere le altre caratteristiche
di importanza vitale nei membri di una stessa specie nei rapporti
con altri conviventi .
Come vedremo nel prossimo capitolo, la filogenesi non è però sola
nel garantire il verificarsi di tali
comportamenti vitali. Prima di
riassumere a brevi tratti i concetti salienti del presente capitolo
voglio però fare cenno ad una componente che, se anche meno
attinente al tema centrale della mia tesi, costituisce anch’essa
elemento importantissimo, tendente forse più alla convivenza che
non alla sopravvivenza in senso stretto.
Mi riferisco alla pulsione aggressiva, che diviene fondamentale per
il vincolo di amicizia, per il crearsi dell’intima convivenza tra due
esseri. Gli studi condotti da Tinbergen sui ciclidi e quelli di Heinroth
sulle anatine, dimostrano come il vincolo tra il maschio e la
femmina delle rispettive specie, nasce sostanzialmente da un
tentativo di aggressione del maschio verso la femmina. Il maschio,
nell’aggredire il suo conspecifico, raggiunta una distanza che gli
consente di verificare che si tratta di una femmina (che costituisce
stimolo inibitorio), tende a sfogare l’atteggiamento combattivo
verso altri o ad effettuare, come avviene nelle anatine, una rapida
inversione del movimenti con il becco, con l’evidente intento di
evitare l’epilogo originario, facendo sfociare il tutto in una forma di
ritualizzazione dell’attacco. Ritualizzazione che porterà alle oggi
ben conosciute forme di corteggiamento. Quindi, mentre i ciclidi
31
creano un legame con la partner reindirizzando il loro istinto
aggressivo verso altri maschi della stessa specie, nelle anatre tale
istinto subisce una ritualizzazione.
Questo inciso voleva brevemente
puntare l’attenzione su come
persino il legame che noi spesso identifichiamo con la parola
“amore”,
nasce da una pulsione di tipo aggressivo e che,
in
questo contesto, potremmo individuare nell’aggressività la spinta
vitale fondamentale per tutti i tipi di rapporti che intervengono nella
convivenza.
In ogni caso, tornerò più avanti sul tema dell’aggressività
reindirizzata
presente
tesi
e ritualizzata, quando nel capitolo settimo della
parlerò
dell’aggressività
repressa
e
proiettata
nell’uomo.
Voglio ora riassumere le informazioni principali fornite da questo
capitolo.
Abbiamo visto che l’aggressività ha come funzione originaria quella
di coadiuvare nella sopravvivenza e conservazione delle specie. La
parola coadiuvare vuole indicare che vi sono anche altri fattori
che possono intervenire nella scomparsa o conservazione di una
specie, per esempio, particolari calamità naturali, cambiamenti
dell’ecosistema e, non per ultimo, gli interventi spesso sconsiderati
o disattenti dell’uomo.
Ma tornando alla pulsione aggressiva,
proprio a causa delle sue
funzioni diversificate secondo il dogma etologico, sottostà a
divisione basilare, distinta in inter- ed intraspecifica.
Quella interspecifica si riferisce agli atteggiamenti aggressivi tra
specie diverse e comprende l’aggressività predatoria , quella
difensiva (mobbing e reazione critica) e, a volte, quella riferita alla
32
difesa del territorio, quando per esempio specie diverse traggono
sussistenza dalle medesime risorse.
In alcuni casi si è osservata anche una aggressività territoriale tra
specie diverse senza una apparente ragione funzionale.
Lo si
potrebbe attribuire ad una reazione in sintonia con la teoria
idraulica dell’aggressività, sempre sostenuta da Lorenz e in qualche
modo confermata anche da CRAIG, nei suoi esperimenti sull’istinto
di corteggiamento nei maschi di tortore dal collare orientale.
In sintesi , si ipotizza che una forma di aggressività (ma anche di
altre pulsioni che comunque trovano la loro fonte nell’aggressività)
per troppo tempo inespressa necessita prima o poi di uno sfogo,
trovando spesso una espressione innaturale. Potrebbe darsi anche
che vi siano delle ragioni di natura diversa, non ancora rivelatesi ai
nostri occhi.
È comunque confortante sapere che atti di
apparentemente
ingiustificata
negli
animali
aggressività
costituiscono
l’eccezione, che per natura propria confermano la regola.
La forma “più pura” dell’aggressività sembra però risiedere in quella
intraspecifica, ovvero tra appartenenti alla stessa specie.
I ciclidi costituiscono un esempio formidabile per spiegarci la teoria
della mutua repulsione (spacing – out), che troviamo in tutti gli
esseri che non vivono in branco, comunità o schiere. Una
aggressività di difesa del territorio che ha la funzione di una
consona
distribuzione
sul
territorio
di
animali
che
trovano
sostentamento dalle medesime fonti nutritive.
L’aggressività ha anche la funzione di
stabilire i singoli ruoli
all’interno del branco e creare una gerarchia che garantisce la
necessaria coesione, sia per la pacifica convivenza che per le
strategie di caccia.
33
Abbiamo visto come nella riproduzione l’aggressività svolga un
ruolo fondamentale,
non solo per garantire la trasmissione
genetica delle informazioni di maggiore importanza per la
sopravvivenza, tra cui la predisposizione all’”aggressività vitale” (da
cui l’origine filogenetica), ma anche nella relazione tra gli stessi
individui di sesso diverso. È emerso che è proprio l’aggressività la
pulsione che spinge il maschio all’avvicinamento del partner ed
alla sua conquista e che anche i vincoli più saldi, fondati su basi
che noi umani identifichiamo con la parola amore, sono possibili
solo grazie alla pulsione aggressiva.
Possiamo dunque asserire che l’aggressività e gli atteggiamenti di
tipo aggressivo siano tutti geneticamente trasmessi? Sembra di no;
in base agli studi effettuati sulla parte acquisita, assimilata ed
imparata dell’aggressività, vi è un bagaglio individuale che non è
ricomprensibile in quella predisposizione atavica di cui il percorso
filogenetico di madre natura ci
ha forniti. Si tratta della parte
ontogenetica, che contraddistingue varie espressioni di aggressività
proprie di ogni singolo individuo. È questo l’argomento del prossimo
capitolo.
34
1.3
Le basi ontogenetiche dell’aggressività
“ L’incidenza dello sviluppo del carattere, i periodi sensibili ed il
rinforzo ”
Nel capitolo IV “ La spontaneità dell’aggressione”, del già citato
libro di Lorenz, si legge della corrente di pensiero di alcuni psicologi
americani che sostenevano che tutta l’aggressività fosse acquisita
e che, in assenza di esempi negativi, questa non si sarebbe potuta
sviluppare. Metodi educativi impostati su tali basi, usati
in quel
periodo nei confronti di una serie di bambini, i cosiddetti “nonfrustratio children”, non diedero però i risultati sperati. Lorenz non
esclude categoricamente che i rapporti sociali siano implicati nello
sviluppo e nella manifestazione dei comportamenti aggressivi, ma
ciò nonostante sembra non volersi addentrare più di tanto
nell’aspetto ontogenetico, che successivamente è stato studiato in
modo più ampio, ma pressoché in modo esclusivo, riguardo il
comportamento umano.
Vorrei accennare solamente un attimo, per parlarne in modo più
specifico ed esaustivo nel paragrafo 2.1 di questa tesi, quando
tratterò della “scelta e addestramento di cani da combattimento”,
alla possibilità di un comportamento aggressivo acquisito negli
animali, utilizzando l’esempio degli esperimenti di condizionamento
di PAVLOV[1928].
Lo stimolo incondizionato del cibo evocava nel cane la risposta
incondizionata della salivazione. Pavlov, abbinando il suono del
campanello (stimolo condizionato) alla presenza della carne, a
distanza di qualche prova, riuscì con il solo suono del campanello
ad evocare la risposta della salivazione, che così divenne una
35
risposta condizionata. Parliamo quindi di un istinto naturale che
diviene comportamento acquisito.
Allo stesso modo, abbinando ad uno stimolo naturale che evoca
un
comportamento
di
aggressività
difensiva
uno
stimolo
condizionato, si otterrà in breve tempo una risposta condizionata.
Ovvero un atteggiamento aggressivo difensivo in assenza d’un
naturale pericolo (stimolo incondizionato).
In modo molto
semplice, o forse un po’ semplicistico, possiamo già qui parlare di
una espressione di aggressività acquisita.
Certamente si tratta di un tema molto più complesso, ma a volte è
più facile comprendere gli assunti di base
di una teoria
con
esempi elementari.
Torno alle teorie dell’aggressività appresa, studiate dagli psicologi
comportamentisti. Bisogna addentrarsi in un campo che è quello
degli studi dell’età evolutiva dell’uomo e delle sue esternazioni
aggressive, che qui significano violenza e comportamento deviato.
Secondo le teorie degli psicologi dei primi del novecento, le
emozioni che precedono l’atto aggressivo violento sono
e/o la frustrazione.
l’ostilità
L’aggressività può avere come matrice
sentimenti opprimenti di noia o monotonia, che possono stare ad
indicare una richiesta di attenzione.
Vi è notevole differenza tra l’aggressività biologica innata, di cui
abbiamo parlato finora, e quella spinta derivante dal sentimento
d’ostilità attraverso i rapporti interpersonali, quindi di origine
ambientale.
Per
Freud,
gli
atti
violenti
e
criminali
erano
una
forma
d’autopunizione della colpa edipica.
KOHUT invece ipotizza la teoria narcisistica, dove
la genesi del
comportamento aggressivo può avvenire per un deficit di
36
maturazione psichica del bambino che non riesce a domare il suo
arcaico esibizionismo e non arriva quindi alla piena autostima.
Le varie teorie che parlano dell’età evolutiva dell’uomo
fanno
quasi tutte riferimento alle frustrazione che l’infante vive a causa di
una assenza totale o parziale della figura del genitore, come
anche a causa della scarsa capacità educativa da parte dello
stesso. Queste frustrazioni, inizialmente represse, sfocerebbero
successivamente in azioni di aggressività incontrollata. Anche
queste teorie riescono solo parzialmente a motivare le varie
espressioni di aggressività e, anche a livello statistico, l’influenza
della frustrazione infantile nei criminali violenti non fornisce delle
cifre sufficientemente rilevanti, come fa notare Gorge B. PALERMO ,
nel suo libro “ Aggressività e Violenza oggi”.
Tra gli anni 50’ e 60’
sono nate le
teorie sociologiche che
tendevano sempre più ad attribuire gli atteggiamenti violenti e
dunque criminali alla struttura sociale, ovvero ad una malsana
società che costituisce l’humus nel quale prospera l’atteggiamento
aggressivo. L’origine di tale atteggiamento non andava ricercata
nell’individuo
o
nella
famiglia,
ma
nella
società
ingiusta,
discriminatoria e repressiva. Quella linea di pensiero attribuiva,
inoltre, la scarsa salubrità della società al crescente capitalismo e,
quindi, al materialismo. Anche la politica, che accoglieva tale
teoria, iniziò
ad attuare politiche sociali volte all’istruzione
e
sostentamento economico degli strati sociali più disagiati.
Tra gli anni 60’e 70’ aumentò il disprezzo delle regole, della famiglia
e
di
ogni
autorità
che
era
vista
esclusivamente
come
manipolatrice, deprivante della libertà personale. Il rifiuto totale di
regole e la rabbia dovuta allo smarrimento incrementarono l’uso
delle droghe e gli atteggiamenti violenti e criminali. Persino la
37
nuova era tecnologica veniva avvertita come una minaccia.
Restò,
però, difficile attribuire una precisa colpa alla società in
modo così generico. La tendenza di misurare la rispettabilità di una
persona con i valori materiali da essa posseduti, e gli atteggiamenti
che ne conseguirono, da parte dei meno abbienti per superare le
frustrazioni, hanno di fatto creato un allargato substrato tendente
alla delinquenza, nonché alla violenza.
Ritengo ora opportuno tornare a parlare dello sviluppo psicologico
dell’età evolutiva in modo più specifico e dei periodi sensibili.
Lo sviluppo del bambino avviene all’interno dei confini del
microcosmo di una entità sociale detta “famiglia”, attraverso il
rapporto genitore
- figlio. È
all’interno del rapporto bivalente
“gemeinschafft” (gruppo inteso come nucleo di persone legati per
territorio , interessi o parentela) e “gesellschaft” (gruppo di persone
inteso come società, ovvero caratterizzato da un equilibrio di
rapporti interpersonali e regole che costituiscono il collante [termini
tedeschi
in “Aggressività e violenza, oggi” di G.B.Palermo]) che il
bambino forgia il suo “Io” sociale. È fondamentale per lo sviluppo
psicologico sano e relazionale del bambino la risposta ai suoi
bisogni affettivi, la coerenza nell’indirizzo educativo e la presenza di
modelli nei quali identificarsi. In assenza di ciò, emergono
incapacità relazionali e di empatia verso altri, che frequentemente
portano ad atteggiamenti impulsivi di aggressività.
Cresce di pari passo la coscienza personale con quella sociale. Il
bambino, una volta preso conoscenza del proprio io, inizia a
sviluppare una coscienza. Coscienza che è il frutto di un
condizionamento rafforzato durante le fasi evolutive dell’infanzia. Il
condizionamento deve basarsi su valori etici e morali ed è di tipo
interattivo, dove genitore e bambino mostrano, rispettivamente,
38
aspettative che desiderano vedere realizzate.
Un eccesso di
regole e condizionamenti rigidi portano invece alla formazione di
una personalità pavida ed insicura, incapace di reagire ad
eventuali aggressioni.
Anche in questo condizionamento la
coerenza ha un ruolo fondamentale in quanto, in assenza di
certezze, l’atteggiamento opportunistico ed insicuro tende a far
reagire con violenza ed aggressività alle situazioni di conflitto.
Oltre all’importanza dell’ambiente di vita nell’età dello sviluppo,
emergono anche altri fattori che contribuiscono alla tendenza
verso atteggiamenti aggressivi ed in particolare agli atti violenti.
Le numerosissime ricerche e gli studi effettuati dallo stesso Palermo
nella sua lunga carriera professionale hanno evidenziato l’influenza
dell’età (maggiormente sono soggette le persone tra i 16 e 34 anni
anche se la soglia inferiore tende ulteriormente a scendere), del
sesso (il maschio è nettamente più violento), della povertà, della
scarsa istruzione e dell’ambiente di crescita esterno dalla famiglia,
nelle persone che mostrano atteggiamenti aggressivi violenti con
maggiore frequenza.
Tutti gli studi longitudinali che hanno
attinenza all’argomento
trattato in questo capitolo,
indicano
come l’ambiente di crescita sia fondamentale per la tendenza alla
violenza e all’aggressione.
Già in età adolescenziale si evidenziano elementi attendibili, che
lasciano presagire un futuro con tendenze alla violenza e al
crimine.
Fondamentale, come già evidenziato nei passi precedenti, è la
famiglia.
Towbermann,
Potrhrow,
Stith
e
lo
stesso
Palermo
sottolineano come il rapporto “genitori – figli” interagisce sulla
formazione del carattere impulsivo che tende all’aggressione.
Palermo parla, sulla scorta della propria esperienza, della triade di
39
caratteristiche riscontrata nei soggetti sottoposti alla sua attenzione,
ovvero “ assenza del padre - scarsa frequenza scolastica – uso di
alcool o stupefacenti . In un’altra ricerca è emerso che i ragazzi a
scuola risultati non cooperativi e non interessati alle attività,
tendevano a finire in ospedali penitenziari,
mentre quelli
disprezzanti e distruttivi tendevano a finire in carcere.
È dunque evidente che l’ambiente e quanto da esso appreso
svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo della persona
e
nelle esternazioni delle diverse forme di aggressività.
La teoria dell’apprendimento sociale distingue l’aggressività in
primaria e reattiva. Ho già
accennato alla forma reattiva,
parlando delle frustrazioni, quindi
dei sentimenti di umiliazione e
degli abusi, come sostenuto anche da K. HORNEY.
P. SCHILDER propende invece per la forma primaria, ritenendo che
il bambino, crescendo nella definizione della propria immagine
corporea, tende ad una forma di autoaffermazione ostile a
carattere distruttivo per dominare il mondo che lo circonda.
Tornando invece alla teoria del rinforzo, R.BLACKBURN ci suggerisce
l’identificazione deviante come tipologia di acquisizione di un
comportamento
aggressivo,
nel
suo
caso
inteso
come
comportamento delinquenziale. Ne deriva quindi, come suffragato
anche da una serie di studi statistici nei primi anni novanta di BUSCH
e colleghi, che il comportamento delinquente di un figlio avente
un padre con un passato criminale è il riflesso della normale
identificazione con il padre, introiettandone gli attributi.
Sono state quindi individuate e studiate delle vere e proprie forme
di patologie comportamentali dell’età evolutiva.
Vengono
implicate
nell’evoluzione
di
un
comportamento
antisociale il DPO “Disturbo Provocatorio di Opposizione”, l’HIA
40
“l’iperattività Impulsiva e deficienza Attentava”, e il CD “Disturbo
nella Condotta”. Tutte le ricerche longitudinali danno una
indicazione
del
coinvolgimento
dei
presenti
fattori
in
una
deviazione delinquenziale, ma solo il CD sembra avere, come
anche sostenuto da Palermo, una vera incidenza verificabile.
MENNIGER ha, a seguito dei sui studi, coniato il termine “ dyscontrol
reaction”
(reazione
del
controllo
difettoso),
riferito
al
comportamento antisociale esplosivo che deriverebbe da un
sovraccarico di energia aggressiva e da un sistema di difesa
instabile dell’ego. Questa teoria sembrerebbe quasi voler tornare
a dare una spiegazione di tipo innatista, anche se verosimilmente
questa carica aggressiva e instabilità dell’io, sono a loro volta
riconducibili ad eventi che hanno formato il carattere della
persona e dunque di origine acquisita.
Abbiamo dunque visto che l’ambiente gioca anch’esso un ruolo
fondamentale nella creazione di atteggiamenti aggressivi. Così
emerge che, quanto appreso nell’età evolutiva, è di fondamentale
importanza nella formazione, sia della personalità dell’uomo come
anche di altri esseri viventi meno complessi.
Vi sono dei periodi particolarmente sensibili alle influenze ambientali
durante la crescita dei bambini e quanto appreso in quei periodi
temporali lascia dei segni indelebili nel carattere delle persona. Può
anche intervenire una sorta di emulazione di esempi negativi che
costituiscono un rinforzo all’atteggiamento antisociale. Basta
osservare l’attuale problema del bullismo. Molte statistiche attuali
mostrano come una gran parte di bambini interpellati vorrebbe
identificarsi nel bullo di turno mentre altri, pur non sembrando
propendere verso un tale atteggiamento, in caso della scelta
alternativa “bullo – secchione”, preferirebbero identificarsi con il
41
primo.
Possiamo inquadrare il bullismo nella forma aggressiva
definita primaria, la forma di autoaffermazione ostile e distruttiva,
tendente a dominare il mondo circostante. Una sorta di evoluzione
deviata dell’istinto di sopravvivenza. Sopravvivenza ovviamente
non in senso stretto, ma intesa come realizzazione dell’io nel proprio
contesto vitae. Tentativo di supremazia che però si manifesta con
esternazioni ben poco evolute, bensì pressoché arcaiche.
In aggiunta a questa considerazione, che tenta di trovare un
legame tra gli istinti primordiali e schemi comportamentali dell’età
evolutiva di ragazzi del terzo millennio, vorrei azzardare un altro
collegamento atavico - moderno, che di fatto vuole essere
solamente un simpatico spunto di riflessione.
Sono padre di due maschietti ed una femminuccia nell’età
compresa tra gli otto e dodici anni, e come è uso e costume nel
nostro contesto sociale spesso capitano inviti, da parte dei
compagni, a feste di compleanno organizzate in questi centri di
divertimento per bambini con nomi come “ Play Planet” e simili.
Sono dei capannoni nei quali si trovano allestiti scivoli, altalene,
similpertiche , e cosa più importante, grandi vasche colme di
palline colorate. Inoltre, altro fatto fondamentale, inevitabilmente si
celebrano più feste di compleanno contestualmente. Qual’è ora il
momento clou che ha fatto scattare in me una serie di riflessioni?
Quando vado a riprendere la mia progenie a termine della “festa”,
la
mia
domanda
di
rito
è:
“come
è
andata,
ragazzi?”
L’immancabile risposta è: “Benissimo! Abbiamo fatto la guerra di
palline contro un altro gruppo di bambini.” Tale affermazione viene
seguita da una serie di racconti e descrizioni in cui mio figlio dice di
avere dato uno schiaffo a tizio, mia figlia di essersi difesa con un
calcio da caio, l’altro maschio che racconta di aver difeso il suo
42
festeggiato dalle minacce di altri con degli spintoni. Tutto questo
accompagnato da
sorrisi serafici e molto entusiasmo. È quasi
superfluo dire che i miei raccontano puntualmente di avere avuto
la meglio e che sono stati gli altri ad iniziare. Fra me e me penso: “e
meno male che era andato tutto benissimo” .
Ma si tratta di una loro percezione, nel dire che sia andato tutto
benissimo, o possiamo sostenere che questa sorta di competizione
è
un fatto
“benissimo”?
Ingenuamente, mi chiedo ogni volta
perché debbano sempre accapigliarsi con altri bambini ed
imbarcarsi in delle battaglie per conquistare la vasca con le palline
colorate. Forse perché è la cosa più naturale di questo mondo.
Probabilmente
anche
l’era
supertecnologica,
“pacifista”
e
quant’altro, in cui oggi viviamo non riesce a fare a meno
dell’intervento degli istinti primordiali per uno sviluppo sano della
personalità
dell’essere umano.
I vari stuoli
di bambini che si
sentono coesi nel loro gruppo di appartenenza, coalizzati
nel
perseguire i propri fini, istintivamente tendono a far proprio il
territorio (la vasca) per assoggettarlo al proprio fabbisogno. Questo
istinto alla conquista e conservazione di un territorio proprio va ben
oltre la razionale considerazione del fatto che vi sarebbe sufficiente
spazio per contenere e soddisfare anche gli altri gruppi di bambini.
Ho voluto inserire questo piccolo scorcio di vita personale per
ribadire con quanta naturalezza certe espressioni di aggressività
vengono vissute anche dai ragazzi del nostro tempo.
Per concludere questa prima parte della tesi, vorrei riassumere i
concetti principali circa l’origine e la funzione dell’aggressività.
Questo allo scopo di
ricollocare il tutto in un unico contesto
comune, che ci consente di inquadrare meglio la complessità del
fenomeno, ma anche per gettare le basi che necessiteranno alla
43
comprensione e alla valutazione del prossimo capitolo che entra
nel cuore del tema di questa tesi.
Come ho già avuto modo di accennare nel primo capitolo sulla
parte fisiologica del comportamento aggressivo e le rispettive
regioni cerebrali direttamente interessate, non esiste relazione
determinata ed inequivocabilmente riferita a precipue forme di
atteggiamento aggressivo.
Se pur vero che sono implicate
nell’attivazione dei diversi comportamenti
aggressivi
centri
neuronali ben differenziati, e che per il loro verificarsi intervengono
in modo evidente ed efficace una serie di neuromediatori,
altrettanto bisogna ammettere che sono ancora molteplici le
inferenze
sconosciute.
Possiamo
però
asserire,
con
molta
tranquillità, che proprio la complessità dell’interscambio delle
informazioni tra le diverse regioni interessate, collegate attraverso
la rete neuronale, porta al risultato finale.
Il
medesimo
concetto
va
applicato
alle
implicazioni
nel
comportamento aggressivo di tipo filo e ontogenetico.
Anche qui troviamo un continuo intersecarsi di elementi filogenetici
con altri ontogenetici, che in modo complementare danno origine
alle esternazioni di tipo aggressivo. Del resto, anche a livello
somatico il genotipo trae linfa dal fenotipo e viceversa.
Che non sia già tutto scritto nel genoma di una essere ce lo ricorda
P.ROUBERTOUX [2003]. Egli, giustamente, asserisce che il rapporto
genotipo – fenotipo comportamentale è molto complesso, non
lineare, non deterministico, ma probabilistico. Non esiste un gene
che codifichi per un comportamento come non vi è isomorfismo tra
genoma, funzionamento cerebrale e comportamento.
Per
definire
in
due
parole
l’importanza
del
vicendevole
interscambio di informazioni scaturite dal connubio innato –
44
acquisto, vorrei citare una frase di Ida ZIPPO, pubblicata in un
saggio che ho trovato su internet sul tema “Il comportamento
aggressivo: una prospettiva psicobiologica”. Questa frase recita: “
[…] Sicché, ogni nostra fondamentale azione esistenziale trova la
sua
precisa
etimologia
biologica
nella
filogenesi
del
comportamento, personalizzata dalla colorazione ontogenetica
[…]”
Già nel 1971, GOTLIEB ha con intelligenza collegato il discusso
binomio elaborando due schemi che recitano:
-
1) Geni struttura Maturazione Comportamento innato.
-
2) Geni Struttura Apprendimento Esperienza Comportamento
Acquisito.
La tesi di Gotlieb è volta a dimostrare l’interdipendenza dei due
fattori
che tanto hanno scisso il mondo scientifico fino a tempi
piuttosto recenti.
L’aggressività
è
dunque
una
pulsione
vitale,
volta
alla
sopravvivenza e alla conservazione della specie, ma anche motore
primo per la costituzione di vincoli personali. Essa si forma e muta
attraverso il gioco dell’interscambio di informazioni di tipo filo e
ontogenetico e le sue manifestazioni possono essere modulate da
vari neurotrasmettitori, attivanti la rete neuronale di determinate
regioni cerebrali.
45
Capitolo 2
L’uso criminale dell’aggressività nei canidi
2.1 Scelta e addestramento dei cani da combattimento
“Le razze canine più utilizzate ed i sistemi di condizionamento e
addestramento per la preparazione alle gare”
Vorrei fare una premessa relativa allo svolgimento degli argomenti
che seguono.
Potrebbe sembrare forse più opportuno iniziare questa parte della
tesi con la storia e le origini
dei combattimenti organizzati tra
animali, che vedono coinvolti in particolare alcune razze di cani,
anziché passare subito al tema dell’addestramento dei cani da
combattimento. La mia scelta ha però ragioni precise.
In primo luogo, il presente capitolo, per la sua tematica, lega bene
con i precedenti, riportando come avviene in pratica quanto sin
qui
detto
sulle
origini
filogenetiche
ed
ontogenetiche
dell’aggressività. In secondo luogo, i riferimenti storici mi saranno
più utili nella terza parte della presente tesi, quando cercherò di
analizzare gli elementi etnici e culturali
che intervengono
nel
manifestarsi di questo tipo di competizioni.
Quali sono allora le razze di cani più utilizzati e per quali ragioni?
Troviamo in cima alla lista dei cani più utilizzati nei combattimenti il
Pit Bull Americano. Una razza proveniente dagli Stati Uiniti, ma che
ha
le sue origini
in Inghilterra. L’American Pit Bull Terrier, nome
originario, iscritto nell’albero genealogico delle razze canine
nel
1898 dal United Kennel Club, non ottenne però il riconoscimento
46
ufficiale della Federazione Cinofila Internazionale (F.C.I.). Solo nel
1936,
a
seguito
del
riconoscimento
della
razza
dall’American Kennel Club (affiliato alla F.C.I.), il
ottenuto
Pit Bull
venne
riconosciuto come razza propria anche della F.C.I.. Ricevette però
la denominazione più vicina alle sue origini, American Staffordshire
Terrier, secondo alcuni proprio per prendere le distanze dal binomio
Pitt Bull – cane da combattimento. L’attuale Pit Bull è pertanto solo
l’emblema della “cultura” del combattimento fra cani [vedi Fig.
2.1].
Fig. 2.1, “Bruke” splendido esemplare di Pit Bull, di proprietà
di Mario Ludovici, Paganica (AQ); ha 4 anni, 27 volte premiato,
non ha mai combattuto
Infatti, considerando la sua, relativamente recente, nascita in
confronto all’antica tradizione dei combattimenti tra cani ed altri
animali di grossa taglia, organizzati già durante l’impero romano,
emerge in modo ovvio che può essere considerato solo la punta
47
dell’iceberg e che molte altre “razze canine” prima di questa sono
state utilizzate a tali scopi.
Come approfondirò nella parte storica,
sappiamo che i combattimenti tra cani divennero una vera e
propria attrazione tra il XVI e XVII secolo, quindi un paio di secoli
prima della nascita del Pit Bull.
Nulla
togliendo a quella che sarà la ricostruzione
storica del
fenomeno, mi preme evidenziare il fatto che tutte le attuali razze
maggiormente
impegnate
nel
mondo
clandestino
dei
combattimenti,
come il Rottweiler, il Perro da Presa Canario, il
Dogo Argentino ed una serie di altre razze mastinoidi ( che
conservano nel nome il termine Mastino o Mastiff, dal latino
massatinus, ovvero di masseria), traggono le loro origini da cani del
tipo molosso importati in Europa, verosimilmente dai Fenici, verso il
VI secolo a.c.
È d’obbligo a questo punto fare una breve digressione, ed
accennare alle caratteristiche che la cinofilia attuale attribuisce ai
cani che sono considerati di tipo molossoide.
Nella cinognostica ufficiale, sia nazionale che internazionale, i cani
di tipo molosso si contraddistinguono intanto per una serie di
caratteristiche morfologiche di tipo proporzionale.
La seguente suddivisione anatomica del corpo del cane sarà utile
per comprendere meglio tali peculiarità strutturali.
L’anatomia generale del cane va divisa in tre grandi parti: testa,
tronco ed estremità. Queste parti vengono, a loro volta, suddivise
in regioni e sottoregioni. La testa reca la regione cranica e regione
facciale con una serie di
sottoregioni. Nel cranio, per esempio,
troviamo fronte, occipite, tempia, orecchie, zigomi, arcate orbitali,
depressione (o salto) naso-frontale, mentre nella regione facciale
troviamo le zone sott’orbitali, le arcate zigomatiche il muso, la
48
canna nasale. Poi abbiamo il tronco con le sue sottoregioni che
comprendono il collo,
zona toracica, garrese, dorso, costato,
petto e sterno. Il tronco comprende anche la regione addominale
con
reni o lombi, ipocondrio e
fianchi. Le
estremità sono
rappresentate dagli arti anteriori e posteriori e dalla coda.
tralasciato volutamente
Ho
una serie di sottoregioni e di altri
particolari, la cui menzione, anziché aiutarmi a chiarire il concetto
di fondo, finirebbero solo per ingenerare maggiore confusione. Ad
ogni modo, nella figura 2.2, sono riassunte tutte le regioni del corpo.
Le regioni del corpo
1. Tartufo - 2. Canna nasale - 3. Caduta naso frontale (o stop) - 4. Fronte - 5.
Collo (margine sup.) - 6. Garrese - 7. Dorso - 8. Rene - 9. Groppa - 10. Natica
- 11. Tarso - 12. Punta del garretto - 13. Metatarso - 14. Angolo del garretto 15. Gamba - 16. Ginocchio - 17. Coscia - 18. Ventre - 19. Sterno - 20. Gomito
- 21. Braccio - 22. Capo - 23. Piede - 24. Metacarpo - 25. Avambraccio - 26.
Petto - 27. Collo (margine inf.)
Fig. 2.2, tratta da www.39italia.it
49
In base a questa suddivisione, sono stati elaborati degli indici che,
appunto, distinguono le razze canine in tre diverse categorie:
brachimorfi , mesomorfi e dolicomorfi.
Gli indici di origine
proporzionale che vengono estrapolati attraverso delle formule
matematiche, in base alle misure che si ottengono dai rilievi
biometrici sono: l’indice cefalico, l’indice toracico e quello
corporale.
E’ evidente che il primo si riferisce alle proporzioni della testa, il
secondo a quelle del torace ed il terzo alle proporzioni tra
lunghezza del tronco e l’altezza da terra della linea dorsale.
I molossi rientrano nella tipologia dei
brachimorfi,
in quanto
posseggono una testa corta e larga con un muso altrettanto corto
e massiccio. Le proporzioni tra lunghezza ed altezza (spessore) del
muso conferiscono loro una notevole potenza di morso.
L’indice toracico di questi cani si colloca tra 90 e 100 e determina
una cassa toracica ampia ed un petto largo che dona potenza e
stabilità sul terreno. Per quanto riguarda il tronco, nella la maggior
parte delle razze comprese in questa tipologia, i cani risultano più
alti sulla groppa che non sul garrese (spalle), che deriva dalla
presenza di un posteriore molto potente dovuto alla necessità di
una elevata capacità di spinta.
In molti standard attuali di razze appartenenti ai molossi troviamo
della linee dorsali che,
tra garrese e groppa, mantengono la
medesima distanza da terra, ma credo di non sbilanciarmi
sostenendo che queste siano forzature di selezione cinofila di tipo
estetico. Essendo però anche questa linea dorsale salente verso la
groppa un elemento morfologico geneticamente molto fissato, in
quanto originario di queste razze come prodotto fenotipico, tende
a riemergere continuamente; per cui vediamo gli espositori, nelle
50
manifestazioni cinofile di bellezza, piazzare i loro beniamini in salita,
oppure divaricare e stiracchiare le zampe posteriori di questi poveri
cani per essere ben valutati dai giudici.
Credo emerga con solare evidenza che la struttura dei molossi si
presenta come una perfetta , perdonatemi il termine, “macchina
da combattimento” . E la struttura è ovviamente in sintonia con il
carattere di questi cani.
Premesso che nessun cane palesa
esternazioni aggressive immotivate, se non è portatore di gravi tare
caratteriali
o
consequenziale
affetto
da
patologie
della
psiche,
risulta
che, se avessero un carattere mite o pervaso da
indifferenza, una tale struttura fisica non troverebbe alcuna
razionale giustificazione.
Viene, infatti, comunemente descritto nelle note caratteriali degli
standard di queste razze, che si tratta di cani molto attaccati al
padrone ed alla proprietà (difesa territoriale) , mostrando notevole
determinazione ed instancabilità.
Mi permetto di portare un esempio che traggo dalla mia
ultradecennale
esperienza
nell’allevamento
di
cani
pastori
abruzzesi. Anche in questa razza di cani da guardia al gregge vi
sono elementi caratteriali specifici, derivanti dalla funzione che
svolgono. In particolare mostrano una notevole aggressività
intraspecifica per la gerarchia nel branco, di tipo sessuale e di tipo
difensivo, mentre palesano una scarsa attitudine nell’aggressività di
tipo predatorio.
selezione
Questo sicuramente a seguito di una accurata
umana,
che
ha
valorizzato
e
fissato
le
evidenti
predisposizioni caratteriali già insite nel genoma dell’animale.
L’istinto predatorio viene allenato ed incentivato nei cuccioli
attraverso il gioco, e guai se un cucciolo di pastore abruzzese inizia
a rincorre
un agnello, morsicandolo nelle natiche.
Potrebbe
51
portarlo a prenderci gusto e, con il tempo, anziché proteggere le
greggi iniziare a cibarsene.
riposto
molta
Per cui i pastori hanno da sempre
attenzione
riguardo
queste
manifestazioni,
perpetuando sistemi disincentivanti (per usare un eufemismo) nei
confronti di cuccioli con tali atteggiamenti. Inoltre, l’alimentazione
di questi cani era, e spesso lo è ancora oggi, costituita in
prevalenza da latte o siero di latte e farinacei (un tempo solo pane
secco mentre oggi anche pasta); una dieta a volte integrata con
interiora
di agnelli e ovini deceduti o macellati.
Dunque
un’alimentazione lontana da ataviche esigenze di caccia.
Ciò nonostante,
nutrendo i pastori spesso rivalità tra loro,
mettendosi in competizione, tra le altre cose, anche per la migliore
e più forte muta di cani, o ancora per il maschio più potente, alcuni
si sono improvvisati selezionatori cinofili. Per dirlo in parole povere,
hanno operato degli elementari incroci con dei molossi come il
cane Corso Italiano (di facile reperimento per la millenaria
tradizione della transumanza tra l’Abruzzo e la Puglia) e il Mastino
Napoletano, in entrambe i casi, per aumentare struttura, potenza e
“cattiveria” nei loro cani da guardia al gregge.
Giungo ora al fatto che ritengo, oltre che
interessante, molto
attinente al tema di tesi, e che da sempre ho avuto modo di notare
in alcuni esemplari di cani pastore abruzzese.
Se
pure
questi
pastori,
selezionatori
provetti,
abbiano
poi
“sapientemente” conservato dalle cucciolate di questi ibridi solo i
soggetti a pelo bianco, ho sempre riscontrato una maggiore
aggressività
in
quelli
che
morfologicamente
tendevano
a
presentare elementi di conformazione tipica dei molossi. Testa più
corta, salto fronte - naso molto accentuato, labbro abbondante e
52
via di seguito. Nelle due seguenti figure si vedono un cane pastore
abruzzese di tipo lupoide ed uno di tipo molossoide [fig. 2.3 e 2.4]
fig. 2.3 , cane del mio allevamento
fig. 2.4, immagine tratta dal sito di Marco Petrella
Ho voluto riportare questa mia esperienza a sostegno dell’assunto
che evidenzia
la trasmissione genetica delle caratteristiche
comportamentali e che mostra, in modo evidente,
informazioni
relative
alla
morfologia
e
quelle
come le
riferite
alla
predisposizione caratteriale viaggiano insieme.
Tornando ora a parlare delle razze usate per i combattimenti
credo di poter ribadire la evidente evoluzione filogenetica del
comportamento in questa tipologia di cani, che mostra una forte
predisposizione alla combattività. Nonostante in Europa il canide
più temuto è da sempre stato il lupo, nessuno ha mai pensato di
addomesticarlo per i combattimenti o di incrociarlo con qualche
53
cane di tipo molosso (escludendo il racconto di Zanna Bianca di
Jack
London).
Ovvero,
se
anche
qualcuno l’avesse
fatto,
dall’attuale situazione emerge che non ha evidentemente avuto
un gran successo. Molto probabilmente, proprio
perché la
predisposizione genetica delle attitudini al combattimento del lupo
sono assai diverse. Il lupo, molto più istintuale del cane domestico,
legato alla necessità della salvaguardia della propria incolumità,
preferisce abbandonare la lotta se percepisce che questa
potrebbe procuragli danni gravi o letali.
La maggior parte
delle razze appartenenti ai
molossi è invece
priva di questo tipo di stimolo inibitorio.
In tutti gli standard di razza dei cani appartenenti alla categoria
dei molossi emerge, nella parte concernente il carattere, quanto
questi cani siano determinati, impavidi e spesso bellicosi, e che
inoltre sono molto poco inclini al cedere di fronte all’avversario.
Anche questo
molto radicata.
dimostra che vi è una predisposizione
genetica
Una predisposizione spesso conservata con la
selezione umana, ma a volte anche incrementata ed arricchita,
come è avvenuto per il Pit Bull, e che ha portato ad una attitudine,
detta “gameness”, che spiegherò più avanti.
Ho già accennato che le sue origini si trovano in Inghilterra dove un
Lord della città di Stafford della Contea di Staffordrshire, osservo
due cani “da macellaio” (cani che i macellai tenevano a guardia
delle loro bestie, sempre di tipo molossoide, in quanto traenti le loro
origini dal Mastino del Tibet), che si avventarono contro un toro in
lotta contro un altro per la contesa di monta. Ingaggiarono un
combattimento furibondo che portò alla morte di quel toro. Il Lord
fu così impressionato che regalò il suo pascolo alla corporazione
dei macellai con la richiesta di organizzare annualmente un
54
combattimento di quel genere.
Da lì la nascita del “ Bulldog”
(cane da toro) [DE AGOSTINI Grande Enciclopedia dei Cani, 1988].
Gli inglesi ritennero utile incrociare questo Bulldog con i loro potenti
e tenaci cani da caccia, i Terrier. Prese così vita il Bull-Terrier, fino a
giungere all’attuale Pit-Bull.
Un fatto simile accadde sulle isole
Canarie con l’Old Blood Presa, l’attuale Perro de Presa Canario, le
cui origini risalgono al 1500 circa e che sarebbe il risultato di un
incrocio tra il Bardino Majorero con i Mastiff e Bulldog importati
dagli inglesi.
Questo per ribadire come vi era già allora la tendenza a fissare nel
materiale
genetico
di
certe
razze
determinate
peculiarità
attitudinali.
Troviamo in
questo un esempio lampante di quello che nei
precedenti capitoli abbiamo chiamato predisposizione innata
all’aggressività
e
di
come
questa
venga
trasmessa
filogeneticamente alle generazioni successive.
Anche queste forme di aggressività e di combattività accentuata
traggono origine dalle funzioni utili alla sopravvivenza delle specie,
più volte chiamate in causa.
Infatti, in tutte queste razze si evidenzia
un forte spirito di
dominanza sul proprio conspecifico.
Queste particolari attitudini sono poi state accentuate attraverso
mirati accoppiamenti con altre razze portatrici di attitudini simili o
complementari e, successivamente, come ogni allevatore cinofilo
di esperienza sa, consolidate ed incrementate attraverso oculati
accoppiamenti consanguinei.
In buona sostanza, non si è fatto
altro che assoggettare delle predisposizioni, di cui madre natura ha
fornito questi animali, alle “esigenze” dell’uomo.
55
Questa tendenza di assoggettare i cani alle esigenze dell’uomo,
ovviamente, è un processo che è nato diversi millenni fa, con
l’addomesticare
dei primi canidi. Una teoria di come possano
essere avvenute le prime forme di utilizzo dei canidi in favore delle
esigenze dell’uomo, la troviamo nel libro “ E il cane incontrò
l’uomo” di Konrad Lorenz.
Nel primo capitolo “Potrebbe essere
andata così” racconta in modo simpatico dei primi incontri e dei
fortuiti vicendevoli scambi di favore tra gli indigeni e gli sciacalli.
Come si è visto però nei precedenti capitoli, non ci si trova mai di
fronte ad un fenomeno solamente filogenetico. Vedremo, infatti,
quanto sia importante la parte ontogenetica, e
quanto questa
predisposizione all’aggressività ed alla combattività venga esaltata
ed indirizzata attraverso l’addestramento.
I soggetti che reagiscono in modo più proficuo a questi
condizionamenti
affinché,
con
saranno quelli privilegiati per la riproduzione,
il
tempo,
questa
all’apprendimento e questa
particolare
predisposizione
capacità reattiva a determinati
condizionamenti continui a trasmettersi e fissarsi nella progenie.
Ho
già
accennato,
nel
capitolo
sull’origine
ontogenetica
dell’aggressività, agli esperimenti di condizionamento di Pavlov. Mi
riferisco agli esperimenti di Pavlov non solo perché ha appunto
operato su dei cani, ma perché il condizionamento è di tipo
comportamentale ed interrelazionale; ossia l’evocazione di una
reazione istintuale in risposta ad una attività di stimolo percepita
dall’esterno
del
proprio
corpo.
Mentre
abbiamo
visto
nel
condizionamento operante dei ratti, effettuato da Skinner, che la
risposta viene evocata
attraverso la diretta stimolazione, con
scariche elettriche, in un determinato punto dei circuiti neuronali
delle regioni cerebrali rispettivamente interessate.
56
Negli ambienti della malavita troviamo una notevole conoscenza
dei metodi di condizionamento, a volte arricchiti di torture del tutto
inutili (le torture sono sempre inutili, o meglio riprovevoli, ma qui
intendo non utili ai loro fini) e a volte persino controproducenti.
È chiaro che qui non dispongo di materiale di matrice scientifica,
muovendomi tra le
attività clandestine, ma sono riuscito
comunque ad ottenere informazioni di tipo confidenziale, sia
attraverso la mia attività di ispettore di polizia, ma anche grazie alla
già citata attività di allevatore e addestratore cinofilo, che non è
sempre stata dedicata al cane pastore abruzzese, ma che è nata
agli inizi degli anni ’80 con i pastori tedeschi .
Queste informazioni,
in gran
parte, mi sono state
confermate
leggendo una intervista ad una addestratore clandestino di cani
da
combattimento,
pubblicata
sul
sito
internet
sardegnaanimalista.org, a sua volta tratto del sito bairo.biz .
Vorrei partire dalla trascrizione di questa intervista per approfondire
poi le tecniche di addestramento e condizionamento dei cani usati
per i combattimenti.
Dalla lettura di questa intervista emergerà anche un po’ l’ambiente
delinquenziale ed il contesto sociale
in cui questi fatti si
concretizzano.
Cito letteralmente le dichiarazioni di un “addestratore”, rilasciate
nel 1993 ad un giornalista dell' Europeo, per non togliere nulla a
quanto le sue parole trasmettono al lettore :
" All'inizio procuravo randagi ai circhi: servivano per nutrire le tigri.
Poi ho cominciato a rubare dobermann: li prendevo a Palermo e li
portavo a Catania. Questi cani servono ai contadini delle masserie
per ammazzare in modo rapido i maiali: un morso al collo e via. Sa,
questa è un'antica tradizione delle campagne siciliane. [...] Chiudo
57
il cane in una stanza buia. Lo lascio per tre giorni senza cibo. Poi lo
alimento solo con carne cruda. Lo tengo costantemente bendato.
Dopo due settimane, lo tolgo di prigionia e lo porto con me, al
guinzaglio, al parco Bellini. Libero il cane davanti alle papere che
popolano il laghetto: se il cane ne azzanna una e l'uccide, è pronto
per il combattimento. Allora incomincio a nutrirlo di galline vive.
Solo a questo punto passo alla seconda fase dell'addestramento e
abituo l'animale alla lotta sul ring. Di nuovo non gli do cibo e lo
lascio legato quasi completamente al buio dentro una stanza. Sulla
sua testa metto una lampada fortissima, da sala da biliardo. Poi gli
tiro addosso un gatto vivo, fissato per una zampa con una corda al
soffitto. Una volta sul ring, il cane troverà la stessa lampada
alogena, intorno il buio e davanti un cane ringhioso. E secondo il
noto
riflesso
di
Pavlov,
la
sua
aggressività
scatterà
automaticamente."
Analizzerò,
ora,
punto
per
punto,
questo
percorso
d’addestramento, oserei dire “artigianale”. Lasciare il cane nella
stanza buia e senza cibo non fa altro che creare uno stress fisico e
psicologico, che poco o nulla incide sulle capacità e la volontà di
combattimento del cane. Anche il nutrirlo con carne cruda e
aizzarlo contro le papere innocue di uno stagno inciderà
sull’aggressività predatoria, ma poco influisce in quella scaturita
dalla necessità di difesa (ricordiamo la reazione critica), o per la
dominanza su di un conspecifico, che invece nasce da motivi
territoriali o origina dall’aggressività sessuale.
Anche un giocoso ed innocuo Border Collie, dopo qualche giorno
di digiuno, non impiegherà molto ad accalappiarsi una succulenta
papera che gli passa davanti al naso. Il Border Collie, come anche
le altre razze di cani conduttori di gregge e mandrie, che da noi in
58
Abruzzo sono dei meticci chiamati “toccatori”, traggono le loro
attitudini finalizzate al
tenere uniti gli animali per condurli a
destinazione
dall’istinto
proprio
predatorio,
sapientemente
reindirizzato ed inibito nella parte estrema dell’atto aggressivo.
Mi
riferivo
proprio
a
queste
tecniche
del
tutto
ininfluenti
nell’incremento delle capacità combattive, quando
poc’anzi
parlavo di inutili torture.
Vediamo invece che il tenere legato l’animale, fatto che lo rende
più vulnerabile scaturendo in lui una aggressività da difesa, inizia ad
incidere in quelle manifestazioni di aggressività che intervengono
nei combattimenti. In particolare, la tecnica della lampada di forte
intensità, abbinata al panico e alla contestuale necessità di difesa
causati dallo scaraventargli contro il gatto legato ad una zampa,
che a sua volta riesce ad infierire notevole lacerazioni sul tartufo
(naso) del cane (considerata la parte più sensibile), interviene in
modo molto efficace ai fini degli scopi prefissi.
Troviamo qui la tecnica del condizionamento pavloviano. La
naturale
predisposizione
all’aggressività
difensiva
(
reazione
incondizionata ) viene sollecitata da uno stimolo condizionato (la
lampada), ottenendo così una aggressività condizionata.
Oggi, purtroppo, le tecniche di addestramento e condizionamento
si sono evolute come apprendiamo dal “Rapporto di Zoomafia”
che la Lega Antivivisezione inoltra annualmente ai Ministeri
dell’Interno e di Grazia e Giustizia, redatto a cura del Dr. TROIANO
Ciro dell’Osservatorio Nazionale di Zoomafia della LAV.
Questa evoluzione di tipo negativo si è concentrata non tanto sui
sistemi di condizionamento, se escludiamo l’elementare, ma
crudele
ed
ingiustificata,
attività
di
ingenerare
uno
stress
psicologico attraverso maltrattamenti e sevizie di ogni genere, che
59
dovrebbero
aumentare
addestramento,
ma
è
la
cattiveria
stata
negli
indirizzata
animali
sotto
soprattutto
verso
allenamenti estenuanti, per aumentare prestazioni e resistenza fisica
e l’uso di farmaci dopanti.
La malavita dedita alla cinomachia non è ancora giunta ad
utilizzare sistemi sofisticati come l’elettrostimolazione
intracranica
per aumentare l’aggressività, ma è sufficientemente preoccupante
sapere che sia giunta ad intervenire sui neuromediatori, dei quali
ho parlato nel primo capitolo, attraverso l’uso di anfetamine ed
altre sostanze eccitanti.
Vediamo allora i sistemi di allenamento più utilizzati e le sostanze
dopanti individuate con maggiore frequenza [ informazioni tratte
da “ Il Combarrimento tra cani” << Manuale tecnico – giuridico per
l’azione di contrasto >> LAV 2006].
Una delle pratiche più diffuse per allenare i cani è quella di far
correre il cane in modo estenuante per sviluppare la muscolatura o
per fargli “rafforzare il fiato”. I metodi possono essere vari: tenere il
cane per il guinzaglio stando su un motorino, oppure usare pedane
mobili elettriche, posatoi girevoli, tapis roulant sui quali i cani sono
costretti a correre. In alcuni casi i cani vengono costretti a superare
ostacoli portando una speciale imbracatura, alla quale sono stati
legati dei pesi. È indubbio che, oltre all’eccessiva fatica, si tratta di
una forma di grave costrizione fisica tale da concretare la sevizia.
Un altro metodo consiste nell’utilizzare un copertone di motorino
tenuto con una corda a diversi metri d’altezza. Tale tecnica è
finalizzata a rafforzare la presa e i muscoli del collo. Il cane deve
mordere il copertone e stringere i denti restando sollevato nel
vuoto, perché se cade rovina a terra. L’animale, ancorché stanco
e al limite delle forze, non lascia la presa per paura del vuoto ed è
60
costretto a restare in questa condizione straziante fino allo stremo
[vedi fig. 2.5].
Fig. 2.5, due uomini allenano i loro pitbull a non lasciare la presa di un
copertone. I due infatti tendono il copertone da un terrazzo e sollevano il
cane, aggrappato allo stesso tramite la mandibola - (c) Contrasto;
tratto da www.contrasto.it addestramento pit bull
Inoltre, per l’allenamento nella tecnica di combattimento, si fa uso
di “sparring partner” che vede come vittime cani o gatti randagi.
Sono stati accertati casi in cui venivano utilizzati anche galli, maiali
61
e
cinghiali.
In
questi
casi,
oltre
ai
“lottatori”,
a
subire
il
maltrattamento sono anche gli altri animali utilizzati.
Per tornare un attimo alle citate sevizie messe in opera per
“incattivire” l’animale nell’addestramento, si usano anche mezzi e
strumenti di tortura: fruste, bastoni, collari chiodati o elettrici, catene
ecc. .
Per quanto concerne invece il più recente uso delle sostanze
dopanti, vengono utilizzati stimolanti ed eccitanti come la cocaina
e le anfetamine, ma anche analgesici e narcotici come gli
oppioidi. Inoltre, vengono usati anabolizzanti (ormoni steroidei) per
aumentare la massa muscolare e diminuire i grassi.
completo
di
tali
sostanze
è
contenuto
L’elenco
nell’appendice.
Ricollegando tutte le informazioni sin qui elaborate emerge ancora
in modo maggiore come tutto sia concatenato. Come già detto
nella
parte
fisiologica,
alcune
regioni
cerebrali
ed
alcuni
neurotrasmettitori sono interessati direttamente nelle esternazioni
dei comportamenti aggressivi.
Nel rapporto della LAV si legge che l’utilizzo della cocaina e delle
anfetamine, oltre al generale
incremento di eccitazione, arriva
anche ad intensificare gli atteggiamenti aggressivi.
Come mostrato da numerosi studi,
microiniezioni di anfetamine
(agonisti della dopamina) nel nucleo accumbens, aumentano la
frequenza di autostimolazione
l’ipotalamo
laterale
risulta
manifestazioni aggressive.
dell’ipotalamo laterale.
coinvolto
a
vario
titolo
In più,
nelle
Per tali motivi l’utilizzo di farmaci
dopanti, da parte dei malfattori, non solo incide in modo generico
sulla forza, sulla resistenza e sulla percezione del dolore, ma
addirittura interviene in modo pressoché diretto sulla sollecitazione
62
delle manifestazioni aggressive.
Questa è senz’altro un’evidenza
da non sottovalutare.
Concludendo, quali sono allora
gli elementi che consentono il
verificarsi del reato di cinomachia?
Una naturale predisposizione alla lotta nelle razze dei cani utilizzati,
filogeneticamente
trasmessa
e
negli
anni
accuratamente
selezionata ed incrementata ad opera di sconsiderati cinofili di
dubbia moralità.
Il costante e mirato incremento di tali attitudini attraverso
condizionamenti ed allenamenti estenuanti, che intervengono
ontogeneticamente sugli individui e sulla loro psiche.
L’uso di sostanze farmacologiche coadiuvanti le prestanze fisiche,
nonché
una sollecitazione delle regioni cerebrali, attraverso
l’intervento sui neuromediatori, interessati nell’attivazione dei
comportamenti aggressivi.
Ritengo che, aldilà della mera repressione per il reato di
maltrattamenti di animali, necessiti un intervento legislativo, sia
repressivo che di prevenzione, molto forte per arginare il problema.
Non so quanto possiamo essere distanti da eventuali interventi di
elettrostimolazione a distanza (radiocomandata) e quanti folli ci
siano che in un “lontano” futuro possano immaginare qualcosa di
simile nei confronti di esseri umani.
Nel prossimo capitolo descriverò in che modo intervengono
giurisprudenza, forze dell’ordine ed associazioni specializzate,
nell’arginare il problema e nella prevenzione di eventi futuri.
63
2.2 Forme di prevenzione e repressione del fenomeno
illecito
“Normative volte alla prevenzione ed alla repressione; associazioni
e iniziative a tutela dei fenomeni di maltrattamento”
Ovviamente non ha senso fare un elenco cronologico delle
normative principali in materia di maltrattamenti di animali,
“scopiazzandone” i rispettivi testi.
Ritengo più utile cercare di
disquisire sull’incremento dei mezzi di repressione e prevenzione con
il passare degli anni ed il mutare della coscienza collettiva.
Darò però precisi riferimenti legislativi, limitandomi
qui
ad
estrapolare la ratio delle singole leggi che si sono susseguite,
comparando l’evoluzione legislativa con la maturazione culturale
di noi occidentali.
Menzionerò, come in parte ho già fatto, le associazioni e gli enti
che si prodigano per la salvaguardia degli animali e dei loro diritti,
spiegando come alcune di loro hanno fornito e forniscono tuttora
un contributo, non solo nella sensibilizzazione delle coscienze, ma
intervenendo in modo attivo all’elaborazione di leggi e normative
più efficaci, collaborando anche alla diretta individuazione dei
racket di cinomachia.
La prima vera legge italiana a protezione dei diritti degli animali
venne approvata da Senato e Camera di Re Vittorio Emanuele III
nel 1913 [ legge 12 giugno 1913 nr. 611 < G.U. nr. 153 del
02.07.1913>] .
Devo però fare un passo indietro, menzionando il Codice penale
Zanardelli (1889 entrato in vigore nel 1890), che fu il primo codice
64
dopo l’unità d’Italia. In esso venne abrogata la pena di morte,
venne eliminato il divieto allo sciopero e con l’articolo 491,
introdotta la prima norma contro il maltrattamento di animali:
“Chiunque si incrudelisce verso animali o, senza necessità li
maltratta ovvero li costringe a fatiche manifestamente eccessive è
punito con l’ammenda ….” [MANNUCCI e TALACCHINI 2001]
Bisogna ricordare che si proveniva da una epoca dove, per lungo
tempo, la vivisezione di animali veniva offerta come spettacolo.
L’Articolo 491 non nasce casualmente, ma in un periodo storico e in
un contesto sociale in cui si iniziava a discutere della difesa degli
animali e non solo in Italia.
Tornando alla legge 611 del 1913, per quanto oggi anche questa è
considerabile piuttosto blanda, comunque costituiva un primo
passo al miglioramento delle condizioni degli animali ed uno
strumento dissuasivo verso
ingiustificabili
crudeltà.
Il fatto di
ritenere che fosse necessaria una legge per garantire una migliore
vita agli animali, denota un cambiamento nella coscienza
collettiva
divenendo
un
fatto
culturale
importante,
se
consideriamo che, ancor oggi, in diversi paesi non vi è segno di
leggi con tale intento.
L’inadeguatezza di fondo, di quella legge,
rispettivamente
comminate
(si
trattava
sta nelle pene
evidentemente
di
ammende e revoche di licenze) e in quello che era l’allora
concetto di maltrattamento, cioè quando un atteggiamento
inopportuno verso un animale veniva considerato maltrattamento.
Cito integralmente l’articolo 1° per far meglio comprendere il livello
di consapevolezza di quei tempi: “ fermo il dispositivo dell’art 491
del Codice Penale sono specialmente proibiti gli atti crudeli su
animali, l’impiego di animali che per vecchiezza, ferite o malattie
65
non siano più idonei a lavorare, il loro abbandono, i giuochi che
importino strazio di animali, le sevizie nel trasporto del bestiame, (si
noti n.d.r.) l’accecamento degli uccelli ed in genere le inutili torture
(evidentemente erano lecite quelle utili n.d.r.) per lo sfruttamento
industriale di ogni specie animale.
I contravventori saranno puniti a termine del citato articolo 491 del
Codice Penale.”
Oggi questo articolo potrebbe sembrare un’offesa ai diritti degli
animali, ma bisogna considerare la cultura di allora nei rapporti
con gli animali e che questi erano considerati dei “mezzi” e non dei
compagni o conviventi.
Ciò nonostante l’impatto di questa legge è stato notevole
soprattutto per alcune innovazioni fondamentali che hanno
costituito la vera svolta dell’approccio al problema.
Nell’articolo 2° di questa legge si introduce il soggetto giuridico
delle società protettrici degli animali, sancendone la struttura, i
diritti e gli obblighi. Cosa ancor più importante è l’aver previsto dei
fondi ad hoc e che tali risorse venissero incrementate con parte
(per essere più precisi, in ragione del 50 %) del denaro derivato dai
pagamenti delle ammende conseguenti alle
condanne per
maltrattamenti di animali.
Alla luce dell’importanza che alcune associazioni hanno oggi
assunto nella lotta alla difesa dei diritti degli animali, emerge il
valore di questo nuovo aspetto.
Certo, le associazioni animaliste non sono nate con questa legge
ma sono sorte molto prima. Pensate che è proprio una lettera di
Giuseppe Garibaldi ad ispirare nel 1871 la fondazione della Società
per la protezione degli animali di Torino, che vede subito dopo
(1874) la nascita di una Società romana che si prefigge gli stessi
66
scopi. Quest’ultima raggiunge una sorta di ufficialità, divenendo nel
1906 Ente morale sotto il patrocinio del re e della reggina. Ciò non
toglie importanza a questa normativa che interviene appunto in
sostegno di questi nuovi enti, fornendo le necessarie garanzie e
risorse.
Con l’entrata in vigore del Codice Rocco (Codice penale del
1930), l’articolo 491 viene sostituito dall’ancora vigente articolo 727,
che trova collocazione tra i reati contro la moralità pubblica e del
buon costume. Il citato articolo ha subito delle lievi modifiche con
la legge 22 novembre 1993 nr. 437, ma oltre ad aumentare i limiti
minimi e massimi dell’ammenda (oggi fissati in € 1.032,00 e
5.164,00), non ha significato un grande cambiamento. Anzi, per
quanto inique le modifiche sostanziali, mi preme puntualizzare
come ancora si legge nel comma 1° : “[…] incrudelisce verso
animali senza necessità[…]” .
Siamo dunque rimasti sino ai giorni più recenti con una legislazione
che trae le sue origini nel 1890, assoggettata a modifiche minime,
se escludiamo la già citata innovazione sul riconoscimento delle
associazioni animaliste ed il relativo sostegno, presente nella legge
611 del 1913.
Ci sono voluti non pochi anni e sforzi per iniziare a trovare un
interlocutore nei poteri legislativi, che ritenesse il problema degno di
nota. Proprio a seguito di continue sollecitazioni da parte di Enti
Società e Associazioni animaliste, come l’Ente Nazionale per la
Protezione degli Animali, la Lega Antivivisezione, Lega per la difesa
del cane, WWF e quant’altro si trova ad operare
in tali settori,
finalmente nel 2000 vengono presentate proposte e disegni di
legge alla camera ed al Senato.
67
Il Disegno di legge nr. 4906, presentato al Senato il 04.12.2000 si
riferisce in modo particolare al problema dei combattimento tra
animali e non ai maltrattamenti in genere.
Purtroppo, anche
questa lodevole iniziativa resta però a dormire negli archivi
ministeriali.
La LAV, in particolare, dopo aver istituito nel 1997 l’osservatorio
nazionale sulla zoomafia, di cui ho già fatto menzione, a seguito di
molte
altre
iniziative,
nel
2002
ha
creato
un
“intergruppo
parlamentare per gli animali”, elaborando una legge per una
riforma dell’art. 727 del Codice Penale.
Fortunatamente
questa
volta
con
esiti
positivi,
dando
vita
all’attuale legge del 20 luglio 2004, nr. 189 che recita nel titolo:
“Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamenti degli animali,
nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o
competizioni non autorizzate”.
Ovviamente anch’essa non ha
appieno soddisfatto le pretese degli animalisti impegnati, ma credo
che si possa ritenere comunque un provvedimento estremamente
positivo.
Questa legge, oltre a comprendere modifiche anche all’art. 628
C.P. (uccisione di animali altrui), introducendo nel titolo IX del libro II
del Codice Penale gli articoli 544-bis e seguenti,
cerca di
comprendere un po’ tutto quello che interferisce nei diritti degli
animali.
Prima di entrare però nei particolari devo far notare che questa
legge contempla una novità fondamentale che concerne le pene
comminate per le diverse fattispecie di reato contro gli animali.
Per la prima volta si prevedono pene detentive che possono
raggiungere con le aggravanti specifiche anche quattro anni e
mezzo
di
reclusione,
mentre
la
pena
pecuniaria
massima,
68
aumentata
240.000,00
dell’aggravante
euro.
specifica,
può
raggiungere
i
L’inasprimento delle pene mette in chiara
evidenza il cambiamento di coscienza nella cultura animalista
generalizzata, che interviene
sulla sensazione di gravità dei fatti
connessi ai maltrattamenti.
La presente legge, dunque, comprende tutti i tipi di maltrattamento
di animali, con particolare attenzione verso i combattimenti
organizzati in clandestinità. Include poi tutte le varie ipotesi delle
aggravanti, sia dovute all’eventuale conseguenze mortali per gli
animali, che alla divulgazione ed incentivazione di tali attività
delittuose. Comprende e punisce, altresì, le forme associative ed
organizzative
ed
il
collegamento al
gioco d’azzardo
delle
scommesse clandestine. Appone poi modifiche a quelle che sono
le norme che regolano il trasporto di animali, caccia e pesca,
affidamento e custodia e via di seguito.
Non è mia intenzione
elencare tutti gli articoli perché, come detto all’inizio del presente
capitolo, tengo più a far notare alcuni particolari che si inseriscono
in modo più adeguato nel contesto della tematica di tesi.
Tuttavia, cosa troviamo in questa legge all’avanguardia? Niente
di meno che modifiche alla legge 611 del 1913 che emergono nel
3° comma dell’articolo 4, ovvero l’abrogazione dell’articolo primo e
modifiche alla lettera a dell’articolo 2° ed all’articolo 8°.
Cosa suggerisce questo fatto? Intanto che c’è stato un sostanziale
vuoto legislativo durato quasi un secolo. Poi, vedendo che,
dall’articolo 4° in poi, della nuova normativa, essa non fa altro che
ricalcare quanto già riportato nella legge 611 del 1913, le uniche
innovazioni di rilievo diventano due.
In buona sostanza troviamo un notevole inasprimento delle pene
ed una sostanziale
contestualizzazione
delle tipologie di reato,
69
mutate con i tempi, la cultura ed il progresso. Ecco, forse qui è
opportuno puntualizzare l’attuale
contemplazione del reato di
somministrazione di sostanze stupefacenti.
La contestualizzazione si riduce ad un aggiornamento in ordine alle
tematiche delinquenziali in materia di maltrattamenti di animali del
terzo secolo, mentre l’inasprimento delle pene è nient’altro che lo
specchio del mutamento nella coscienza umana della percezione
di gravità di questi maltrattamenti .
E abbiamo dovuto attendere un secolo per “cosi poco”?
Mi si perdoni la provocazione, ma non intendo affatto che quanto
finalmente ottenuto sia poco, ma che forse vi si poteva giungere
prima e con maggiore adeguamento ai tempi.
Forse oggi il
problema non sarebbe così diffuso e sottovalutato.
Prima però di passare all’argomento del prossimo capitolo, ritengo
indispensabile spendere qualche parola in più sull’opera meritoria
degli enti e delle associazioni maggiormente impegnate.
Tutte le associazioni dedite alla salvaguardia dei diritti ed in difesa
dell’incolumità degli animali sarebbero degne di nota, ma sarebbe
un dispendio di tempo e spazio che andrebbe oltre le mie
necessità di dare un’idea sull’entità del fenomeno e le attività di
prevenzione e repressione svolte.
Mi concentrerò pertanto sulle due associazioni più rappresentative
e maggiormente impegnate nell’attività di monitoraggio e negli
interventi diretti.
L’Ente Nazionale per la Protezione degli Animali (ente morale onlus)
è l’attuale rappresentanza della “Società per la Protezione degli
Animali, nata a Torino nel 1871, poco prima citata. L’ENPA, che da
allora si è sempre battuta per migliorare le condizioni di vita degli
animali e garantire maggiori interventi legislativi ai fini della
70
repressione, ha curato, nel tempo, il rilevamento statistico dei dati
rilevabili in ordine a tale fenomeno. A questi fini, ha creato l’ORCA
(Osservatorio Reati Contro gli Animali). Questo ente, in sintesi,
effettua un monitoraggio sui maltrattamenti degli animali in genere,
riservando una particolare attenzione verso i fatti costituenti reato.
Riporto di seguito sinteticamente alcuni dati forniti dall’Orca, riferiti
al 2005, per far comprendere la portata del problema:
Animal killer 2005
DATI DI SINTESI
Casi accertati 1.066
Animali vittime di reati 72.812
di cui cani 4.402 (6%)
di cui gatti 1.064 (1,5%)
Animali uccisi 40.810
di cui cani 691 (1,7%)
di cui gatti 623 (1,5%)
Regione col maggior numero di reati: La Lombardia, con 137 casi
accertati, seguita dall’Emilia Romagna con 125 casi e dalla
Toscana con 104 casi.
Chi commette i reati contro gli animali: I responsabili sono
sconosciuti nel 41,1% dei casi accertati, seguiti dai proprietari degli
animali nel 26% dei casi. Casi denunciati 762.
Chi presenta le denunce:Le Forze dell’ordine nel 34,4% dei casi.
Seguono i volontari o le Guardie Zoofile; Enpa nel 28,7% dei casi, i
testimoni o le altre associazioni animaliste o ambientaliste (20,3%) e i
proprietari (16,3%).
71
Dove avvengono i reati contro gli animali: In città (40,8% dei casi
accertati), nelle aree extraurbane, campagne o boschi (37,8%) e
nelle abitazioni o aree condominiali (21,4%).
Conseguenze, per gli animali: Gli animali sono morti nel 48% dei casi
accertati, hanno subito gravi ferite nel 9,4%, lievi ferite nel 12,2%,
non hanno subito alcuna conseguenza nel 30,4% dei casi accertati.
Casi di avvelenamento accertati 165
Casi di abbandono accertati 160
Reati venatori con morte di animali 183
Sul contatore digitale del sito internet dell’ENPA, in ordine al numero
dei maltrattamenti nell’anno 2006, aggiornato al 31.12.2006,
risultano segnalati
12207 animali maltrattati. Probabilmente il
dato è suscettibile di incremento dovuto a ritardi nelle segnalazioni,
ma è comunque rilevabile un forte decremento.
Come citato anche nei dati forniti dall’ORCA, le informazioni
giungono attraverso le segnalazioni delle Guardie Zoofile, dislocate
su territorio ma anche dalle Guardie Ecologiche, Guardie Parco,
Forestali, Polizia Provinciale e via di seguito, oltre a fonti costituite da
testate giornalistiche locali, ma spesso attraverso le segnalazioni da
parte di privati.
Sia nei rapporti dell’ENPA che in quelli della LAV, sui quali farò un
ulteriore piccolo approfondimento, emerge dalla lettura dei dati
statistici,
per quanto riguarda il maltrattamento di animali, un
incremento del fenomeno alla fine degli anni novanta e solo un
recente decrescere. Questo sembrerebbe dovuto al fatto che la
campagna di sensibilizzazione ha portato ad un aumento delle
segnalazioni e della conseguente persecuzione di tali reati. Per cui,
solamente il recente maggiore controllo e l’inasprimento delle
72
pene con la conseguente confisca degli animali, ha portato ad
una effettiva diminuzione del fenomeno.
Mentre l’ENPA sembra operare in un campo più generalizzato, la
Lega Antivivisezione, che inizia ad operare nel 1977, riconosciuta
associazione ONLUS nel 1998, ha negli ultimi anni focalizzato le
attenzioni verso il problema dell’organizzazione
clandestina di
combattimenti tra cani e le scommesse nelle corse clandestine di
cavalli. In questo modo è riuscita a
sviscerare
il contesto e la
struttura criminale che ruota intorno a tali eventi, evidenziando le
frequenti forme organizzative come vere e proprie associazioni
finalizzate alla realizzazione di tale tipologia di incontri. La LAV ha
così potuto evidenziare, attraverso l’aiuto degli organi di polizia
impegnati in tali settori, l’esistenza di questo tipo di attività anche
all’interno dei substrati di già conosciute organizzazioni criminali di
stampo mafioso, coniando per queste ragioni il termine di
“Zoomafia”. Il Dr. Ciro Troiano, che ho già menzionato, Direttore
dell’Osservatorio Nazionale di Zoomafia, istituito nel 1997,
così
definisce cosa si intende per zoomafia :
“ Con questa nuova parola, coniata da noi circa dieci anni fa,
intendiamo lo “sfruttamento degli animali per ragioni economiche,
di controllo sociale, di dominio territoriale, da parte di persone
singole o associate o appartenenti a cosche mafiose o a clan
camorristici”.
Con questo neologismo, però, indichiamo anche “la nascita e lo
sviluppo di un mondo delinquenziale diverso, ma parallelo e
contiguo a quello mafioso, di una nuova forma di criminalità, che
pur gravitando nell’universo mafioso e sviluppandosi dallo stesso
humus socio-culturale, trova come motivo di nascita, aggregazione
e crescita, l’uso di animali per attività economico-criminali”.
73
Sulla base dei dati raccolti nelle attività di monitoraggio, la LAV ha
iniziato una stretta collaborazione con gli organi di polizia anche
nella
individuazione
e
persecuzione
di
questi
reati
di
maltrattamento, in alcun casi, costituendosi parte civile.
Come ho prima accennato parlando dell’ENPA, anche la LAV,
avendo necessità di una rete informativa più ampia possibile, ha
istituito un numero “S.O.S. Combattimenti” . Quest’ultimo ente si è
specializzato al punto tale che ha redatto il “Manuale tecnicogiuridico per un’azione di contrasto per quanto concerne il
Combattimento tra Cani”. Dalla lettura dei rapporti di zoomafia,
emerge come questa struttura non ne fa un semplice discorso
statistico ma cerca di penetrare le radici del problema.
Troviamo per esempio nel rapporto 2006, prima di entrare nella
raccolta dei dati e dei risultati conseguiti, un accenno all’analisi del
problema che collima perfettamente con quanto ho cercato di
esplicitare in questa mia tesi.
Per citare solo alcuni brevi passaggi: … “Nel mondo animale, una
delle
manifestazioni
più
evidenti
dell’aggressività
è
il
combattimento tra membri della stessa o diversa specie con cui gli
animali,
attraverso
diversi
moduli
comportamentali
che
coinvolgono l’uso di armi di offesa e/o difesa, conquistano o
difendono risorse e territorio o proteggono sé stessi o la prole o,
ancora, la supremazia sociale al fine di garantirsi il partner sessuale.
Il combattimento intraspecifico è sempre “ritualizzato” e termina
quasi sempre prima che i duellanti si siano procurati ferite gravi e,
pertanto, gli esiti letali sono rari. Il “duello” si svolge di norma
secondo regole fisse, in cui i movimenti impiegati sono ordinati in
sequenze altamente stereotipate, finalizzate a “mostrare la propria
74
forza” e a “comunicare la propria superiorità”. La ritualizzazione
dell’aggressività permette agli animali di risolvere “pacificamente”
le dispute, con l’emissione di chiari segnali comunicativi che
indicano, ad esempio, l’accettazione della sconfitta, senza che si
debba arrivare allo scontro fisico vero e proprio. Ciò in natura.
Purtroppo gli uomini hanno da sempre “sfruttato” questa tendenza
alla dominanza, soprattutto di alcune specie, per organizzare a
proprio piacimento lotte e combattimenti tra animali lucrando sulle
relative scommesse. Il
lemma “combattimento” indica tutte le
forme di conflitto fisico che coinvolgono almeno due animali. Ciò è
da intendersi anche ai fini della legge. È chiaro che rientrano in
questa previsione solo i combattimenti organizzati e non le zuffe
spontanee o le lotte estemporanee, come sovente avviene tra i
cani o altri animali. Affinché possa intervenire la censura penale
occorre
che
l’evento
sia
provocato,
favorito,
organizzato
dall’uomo. Il combattimento può essere tra membri della stessa o di
diversa specie (esempio stessa specie: lotte tra cani, galli, pesci,
scimmie, ecc. Tra specie diverse: cani contro puma, cinghiali, tassi,
orsi. Orsi contro puma, ecc.).”
Questa sintesi è quasi un riepilogo, ma pregno di significato, di
quanto emerso dal mio studio riguardo questo fenomeno.
Nel rapporto della LAV non emerge solamente che vi sia uno studio
di fondo del fenomeno in ordine alla predisposizione animale, ma
troviamo anche tracce di studio degli elementi che spingono
l’uomo a cimentarsi in queste competizioni.
Riassumo anche qui solo brevemente a quanto viene accennato
nel rapporto in parola, per parlarne in modo più approfondito nel
prossimo capitolo.
75
Ci si pone il problema di quali siano le motivazioni psicologiche e le
condotte culturali che spingono un uomo a partecipare o assistere
a questi combattimenti. Facendo riferimento agli studi di psicologia,
si attribuisce la “febbre” dei combattimenti e delle scommesse con
la ricerca di un gesto “grande”, di un momento di gloria da parte di
quelle
persone che vivono in uno stato di costante umiliazione,
impotenza e degrado, che rincorrono un proprio atto eroico, che di
fatto non riescono a compiere, per incapacità, inettitudine oppure
ragioni di tipo sociali. Sembrerebbe che il possesso del cane da
combattimento divenga un’esperienza in sostituzione di ciò che
l’uomo non può ottenere.
Ho voluto accennare alla presenza di questo aspetto, inserito nel
contesto delle informazioni riportare nel rapporto di zoomafia,
proprio per trovare l’aggancio al capitolo successivo, e
per
suggerire che anche, o forse soprattutto, lo studio sulle origini di un
problema possa costituire le basi per una migliore prevenzione.
Tornando
dunque
alla
prevenzione
e
repressione
di
tipo
interventistico-normativo, prima di spendere qualche parola sul
conosciuto Decreto Sirchia ed il rispettivo elenco di razze di cani
considerati pericolosi, voglio inserire uno specchio riassuntivo delle
predette attività, così come monitorate e riportate dalla LAV.
Sarebbe interessante riportare alcune nozioni di interventi ed
operazioni di polizia giudiziaria, ma significherebbe scendere
in
particolari che toglierebbero tempo ed attenzione alla valutazione
globale
del
problema.
Troverete
una
delle
operazioni
più
emblematiche nell’appendice.
Di seguito, i dati forniti nel rapporto di zoomafia 2006 della LAV:
76
COMBATTIMENTI:
I NUMERI DELLA CINOMACHIA
- persone denunciate 2004/05 16
- cosche coinvolte 25
- quote minime scommesse euro 100,00
- quote massime scommesse euro 25000,00
- costo di un campione in euro da 25000,00 ai 50000,00
PERSONE DENUNCIATE PER ATTIVITA’
CONNESSE AI COMBATTIMENTI ANNI 1998-2005
0 nel 2005
16 nel 2004
27 nel 2003
43 nel 2002
25 nel 2001
79 nel 2000
154 nel 1999
76 nel 1988
CHI ORGANIZZA E GESTISCE I COMBATTIMENTI
Nella gestione e organizzazione dei combattimenti possiamo
individuare tre livelli:
1) - Il primo è il livello “popolare”, quello maggiormente diffuso e
che fa capo a gruppi locali, spesso formati da bulli di periferia,
sbandati, delinquenti di piccolo calibro, aspiranti “guappicelli”, che
hanno, in alcuni casi, contatti con la delinquenza organizzata,
soprattutto per il traffico dei cani. A tali gruppi si deve la diffusione
nel nostro Paese della cinomachia e degli atti di delinquenza
77
“predatoria” legati a tale attività, si pensi ai furti, alle rapine, alle
aggressioni.
2) - Il secondo è riconducibile a persone vicine o appartenenti ai
classici sodalizi criminali, quali la camorra, la ‘ndrangheta, la sacra
corona unita e, in misura ridotta, la mafia, oltre che ai nuovi gruppi
arrivati in Italia a seguito dei flussi migratori.
3) -
Il terzo è rappresentato dai “colletti bianchi”, professionisti,
dirigenti,
manager,
persone
della
società
borghese
apparentemente distinte e perbene, che animano un giro di
scommesse clandestine di non poco conto. E’ bene precisare che
non si tratta di una struttura unica o piramidale, né può proporsi tra
loro alcun rapporto di subordinazione o gerarchia; si tratta,
piuttosto, di livelli contigui che spesso si intersecano con una
dinamica dei gruppi basata su rapporti sinergici, tesi a realizzare gli
interessi comuni.
Come interviene invece il citato Decreto Sirchia nel tentativo di
arginare il fenomeno, ma anche nel cercare di
prevenire le
aggressioni di questi cani da combattimento nei confronti di
persone completamente al di fuori da questo contesto?
Nell’estate del 2003, a seguito di diverse aggressioni da parte di
cani contro persone, alcune con conseguenze gravi, si scatenò
una vera persecuzione in particolar modo nei confronti dei Pit Bull.
L’allora Ministro della salute, Girolamo Sirchia, anche a seguito di
forte
pressioni
scaturite
da
una
pressante
disinformazione
mediatica, che ha creato non poco panico, in parte sicuramente
infondato, il 9 settembre 2003 emanò un’ordinanza sulla “Tutela
dell’incolumità pubblica dal rischio di aggressioni da parte di cani
potenzialmente pericolosi”. L’ordinanza, elaborata in fretta e furia
in modo un po’ approssimativo, fu rinnovata, subendo una serie di
78
sostanziali modifiche, il 27 agosto 2004, restando in vigore per un
anno. Il Ministro seguente, Storace, è tornato ad
emanarla
nuovamente il 3 ottobre 2005.
Il Consiglio Superiore di Sanità, nelle sedute del 29 settembre e 17
ottobre 2003, si è trovato costretto a redigere un parere che ha
ridimensionato in modo incisivo e sostanziale la portata del primo
provvedimento
Sirchia
affermando,
inoltre,
“di
non
poter
identificare con certezza scientifica razze definibili potenzialmente
pericolose”.
Da cinofilo, sono perfettamente d’accordo sul fatto che non è
possibile dichiarare una razza di per sé pericolosa, tanto più che il
termine razza, come suggerisce il Professor Raymond Coppinger
[2001], Biologo e Cinognosta presso lo Humpshire College del
Massachussetts (USA), che inoltre ho avuto il piacere di conoscere
personalmente, indica null’atro che il risultato dell’adattamento a
un
particolare
ambiente
fisico,
sociale,
culturale.
Secondo
Coppinger, l’allevamento orientato non è affatto necessario per
ottenere animali in grado di svolgere compiti complessi. Quello che
in realtà succede è che gli animali meno efficienti sono sottoposti
ad
un
abbattimento
selettivo
(“culling”),
piuttosto
che
al
riconoscimento, da parte dell’uomo, di quali caratteri sono
selezionati, o di cosa costituisce una buona conformazione”.
Non solo, ma ricordo con perfezione il mio stupore quando nel
primo decreto si fece una distinzione per categorie, nelle quali
rientravano lo Zwergpincher, un cane che non arriva ad un paio di
chili di peso, oppure il Bobtail, che ha un carattere del tutto
innocuo, pressoché apatico, per fare solo un paio di esempi.
79
Ciò non significa che il decreto non abbia sortito effetti positivi,
anche
perché
in esso sono compresi
elementi
comunque
importanti e del tutto condivisibili.
Abbiamo p.e. il divieto di addestramento inteso ad esaltare il rischio
di maggiore aggressività nei cani, come il disposto che fa rientrare
in questo divieto ogni forma di addestramento finalizzata alla presa,
all’attacco, alla difesa, e quindi non solo ai combattimenti.
Mentre un altro limite dell’ordinanza sta anche nel aver aggiunto
alle
“razze
riconosciute”
i
loro
incroci.
Una
persona
non
sufficientemente esperta, poco conoscitore dei termini tecnici, fa
fatica a comprendere la differenza fra un “Pit Bull” e un “Pit Bull
Terrier”, significando
che il “Pit Bull” si identifica
nella versione
illegale dell’“American Pit Bull Terrier”, e quindi si tratterebbe dello
stesso cane; figuriamoci se riesce ad individuarne eventuali incroci.
Torna invece utile, a livello dissuasivo,
il divieto di selezionare o
incrociare razze di cani per svilupparne l’aggressività.
Un’altra cosa importante introdotta da questo decreto, e come
abbiamo visto inserito anche nella 189 del 2004, è il divieto di
somministrazione di sostanze dopanti ai cani.
Infine troviamo il divieto di acquistare, possedere o detenere i cani
inclusi nella lista, per i delinquenti abituali o per tendenza; per chi è
sottoposto a misura di prevenzione personale o a misura di
sicurezza personale; per chiunque abbia riportato condanna,
anche non definitiva, per delitto non colposo contro la persona o
contro il patrimonio, punibile con la reclusione superiore a due anni;
per chiunque abbia riportato condanna, anche non definitiva, per i
reati di cui all’art. 727, 544-bis, 544-ter, 544-quater, 544-quinquies del
codice penale e, per quelli previsti dall’art. 2 della legge 20 luglio
80
2004, n. 189; per i minori di 18 anni e agli interdetti e inabilitati per
infermità.”
Per quanto invece concerne l’obbligo dell’applicazione della
museruola o l’uso del guinzaglio, quando i cani si trovano nelle vie o
in altro luogo aperto al pubblico,
della
dell’utilizzo contemporaneo
museruola e del guinzaglio per i cani condotti nei locali
pubblici e nei pubblici mezzi di trasporto,
provvedimento già previsto dalla vigente
veterinaria,
approvato
con
decreto
si tratta di un
normativa di polizia
del
Presidente
della
Repubblica, 8 febbraio 1954, n°. 320.
Troviamo ribadito tale obbligo nella recentissima ordinanza del
Ministero della Salute del 12 dicembre 2006. In questa ordinanza si
obbliga i proprietari di cani, che rientrano tra le 17 razze elencate a
tergo della stessa, di portare i propri cani al guinzaglio, utilizzando
contemporaneamente anche la museruola. Nel citato elenco, la
quasi totalità delle razze riportate è appartenente alla tipologia dei
molossi. Nella stessa ordinanza, che ha validità di un anno, si vieta
anche il taglio degli orecchi e della coda a scopi estetici, nonché
la recisione delle corde vocali.
Un ultimo accenno voglio farlo ad un’altra legge veterinaria contro
il randagismo, la n° 281 del 1991, che testimonia, anch’essa, un
mutamento nella coscienza collettiva, in ordine alla sensibilità verso
gli animali. Vengono con essa banditi i “canili-mattatoi”, che si
trasformano in strutture di accoglienza e cure. La legge ha fissato
un importante principio, e cioè, che il controllo della popolazione
canina va fatta con la prevenzione, attraverso il controllo delle
nascite, e non con l’uccisione degli animali.
81
Credo che da questo capitolo sia emerso che qualcosa negli ultimi
anni è cambiato nel rapporto uomo-cane e dunque anche nel
rapporto uomo-animale più in generale.
Le normative volte alla prevenzione e repressione dei fenomeni di
maltrattamento di animali in senso ampio, quelle riferite più
precisamente
ai combattimenti tra cani, la frenetica attività di
sensibilizzazione, la collaborazione diretta con gli organi di polizia,
nonché la custodia ed il recupero degli animali coinvolti, da parte
delle associazioni animaliste, mostrano un mutamento nella presa
di coscienza su questi fatti da parte della popolazione.
Abbiamo anche visto che, finalmente, ci si inizia a chiedere cosa
spinge alcune persone a “godere” di queste forme di competizioni
crudeli.
Nel prossimo capitolo voglio
approfondire questa tematica,
cercando di attingere informazioni utili, da fonti diverse, che
possano aiutarmi a dipingere un quadro che raffiguri un immagine
piuttosto completa e verosimile e che possa dare indicazioni
precise sull’origine del fenomeno.
82
2.3 Un gioco d’azzardo o una forma di aggressività
repressa proiettata.
“L’incidenza
della
parte
economica
sulle
scommesse
e
l’appagamento psicologico del padrone dei cani”
Abbiamo visto, attraverso i dati pubblicati da chi sta monitorando
questo fenomeno delinquenziale, che spesso alle spalle vi si trovano
delle vere e proprie organizzazioni criminali e che emergono grossi
giri d’affari di svariate decine, a volte centinaia , di migliaia di euro.
Se consideriamo che le quote per le scommesse vanno da un
minimo di € 100,00 giungendo fino a € 25.000,00 e che un cane da
combattimento divenuto campione (clandestino) ha un costo tra i
25.000,00 e 50.000,00 euro, possiamo senza dubbio parlare di un
vero business (dati forniti dalla LAV).
Un giro d’affari che è persino sottoposto a delle “regole di
campionato”. Nel 2000, in una operazione di polizia a Siena, per la
prima volta è stato sequestrato un programma di preparazione
atletica per cani da combattimento e un regolamento per lo
svolgimento delle competizioni. Si è trattato di una traduzione di un
regolamento americano. Sarebbe il cosiddetto “Regolamento
Cajun”, composto da 19 regole che comprendono norme che
contemplano eventuali interventi della polizia ed il rapporto delle
quote scommettibili, in base alla quotazione del cane ed il suo
grado di allenamento.
83
IL GIRO D’AFFARI DELLA ZOOMAFIA ANNO 2002
In euro
Corse clandestine
di cavalli e truffa
nell’ippica
Combattimenti
fra animali
Traffico
animali
esotici
“Malandrinaggio”
di mare
“Cupola
del
bestiame”
Business canili
Mercati
fauna
selvatica
Appostamenti
bracconaggio
Iva evasa
Introito
complessivo
zoomafia
DATI : LAV 2003
1 miliardo
775 milioni
500 milioni
250 milioni
250 milioni
100 milioni
5 milioni
5 milioni
Circa 250 milioni
Circa 3 miliardi
Ora, il giro d’affari che ruota intorno all’organizzazione dei
combattimenti
clandestini
(commercio
di
cani
a
livello
internazionale e scommesse) e la presunzione di guadagni facili
esentasse possono senz’altro costituire una sorta di incentivo in
queste attività, ma dubito fortemente che siano queste le ragioni
motrici che spingano a cimentarsi in siffatte
competizioni.
Non
mancano certamente sistemi e forme di guadagni illeciti più
redditizi. Venticinque anni di servizio di polizia, di cui 17 trascorsi in
attività investigative, mi hanno insegnato che i delinquenti abituali
e di professione, e non mi riferisco alla sola classificazione giuridica,
84
nelle loro attività illegali valutano attentamente il rapporto tra
rischio, entità della condanna e l’utile preventivato. Per questo non
escludo che, se anche
in parte minima,
negli anni di forte
disattenzione legislativa verso questi reati,
tali considerazioni
possano aver avuto un ruolo incentivante.
Che l’organizzazione di queste competizioni, da parte di chi
delinque abitualmente, ha una valenza diversa rispetto al semplice
procurarsi del reddito in modo illegale, emerge dalle dichiarazioni
del
collaboratore
di
giustizia
Antonio
Alesci.
Durante
un
collegamento in videoconferenza, per un processo concernente i
reati di estorsione e spaccio di stupefacenti, dichiara che, oltre alle
attività appena citate, gli imputati avevano l’ “hobby” del
combattimento fra cani [ Rapporto Zoomafia LAV 2006]. Il termine
usato fa chiaramente comprendere che il fatto è considerato un
passatempo, un divertimento.
Sicuramente, chi mostra la tendenza di dedicarsi ai giochi
d’azzardo è persona particolarmente predisposta per cimentarsi in
queste attività clandestine.
L’uomo è portatore di un’atavica
predisposizione alla competizione, a sua volta collegata alla
ricompensa che ne costituisce il rinforzo positivo. Non per nulla, nel
suo
ultimo
capitolo
(Dichiarazione
di
speranza)
nel
libro
sull’aggressività, Konrad Lorenz parla di una forma di aggressività ridiretta nelle competizioni , inferendo che lo sport tragga le sue
origini dal combattimento altamente ritualizzato. La competizione
che fonda le sue radici nell’aggressività sessuale, a sua volta
strettamente legata alla dominanza gerarchica, come abbiamo
visto facente parte dell’aggressività intraspecifica, sembrerebbe
dunque fondamentale per uno sviluppo psicologico equilibrato.
85
Secondo ZILLMANN (1979), le attività competitive possono condurre
alla violenza, mentre l’aggressività andrebbe vista come la forza
che spinge alla conservazione dell’io e della specie.
Come nasce allora il desiderio di “accanirsi” in simili massacri
organizzati? Cosa spinge alcuni esseri umani ad aizzare uno contro
l’altro questi animali, “macchine da guerra” , appositamente
create?
Sembrerebbe
intervenire
psicopatologica.
l’espressione
di
una
personalità
Elementi che lasciano desumere uno sviluppo
deviato della personalità, ma presumibilmente anche elementi di
tipo fisiologico, come alcuni studi hanno dimostrato in altri campi.
Molti di questi studi, effettuati su criminali aggressivi e violenti,
hanno consentito di riscontrare danni nelle
interessate in tali manifestazioni.
regioni cerebrali
In particolare, è emerso che
generalmente le lesioni della corteccia orbitofrontale riducono le
inibizioni e l’autocontrollo delle persone, che diventano noncuranti
delle conseguenze delle proprie azioni. Queste persone mostrano
indifferenza verso le conseguenze delle proprie azioni, denotando
quindi una forte insensibilità verso gli accadimenti.
Gli studi,
effettuati tra gli anni 50’ e 70’ da LURIA (1969), JARRVIE (1954) e
BLUMER e
BENSON (1975),
hanno dato una connotazione
neurofisiologica a molti comportamenti criminali violenti.
Anche se è indubbio che la componente neurofisiologica può
essere
importante
per
il
verificarsi
di
qualsiasi
tipo
di
comportamento, mi sorge un problema relativo alla valutazione
dell’implicazione dei fattori qui analizzati e nel collegarli alla
predilezione per gli illeciti connessi ai combattimenti fra animali.
Perché, se è vero che lesioni del lobo frontale possono portare a
disinibizione, noncuranza ed indifferenza
verso gli eventi e le
86
conseguenze di atti violenti, mi viene a mancare
un elemento
fondamentale che incide nel verificarsi di queste competizioni
“parasportive”.
Ovvero
perpetuazione;
il
rinforzo
positivo
che
stimola
la
l’eccitazione e la gratificazione che spinge
all’organizzazione e all’assistere a nuovi eventi. Elementi generati,
probabilmente, da esperienze di tipo psicologico.
Può essere utile analizzare gli elementi psicologici dell’età evolutiva,
che intervengono nella formazione della personalità dell’essere
umano, al fine di capire quali fattori ed eventi possano creare
forme di personalità patologiche, e magari giungere a come
queste espressioni di personalità deviata si concretizzino nei
comportamenti affrontati in questa tesi.
Nella seguente parte del capitolo tornerò ad analizzare alcune
cose di cui ho già parlato nel precedente capitolo, concernenti la
parte ontogenetica dell’aggressività. Questo perché la formazione
della
psiche
di
una
persona
avviene
proprio
attraverso
l’apprendimento ed il condizionamento durante la crescita. Si
vedrà
come
teorie
differenziate
siano
fondamentale
complementari.
In particolare, analizzerò i rapporti di diretta intimità tra il bambino
e la persona di riferimento (di solito il genitore) e la sua influenza
nella crescita psichica.
Siegmund Freud individua nella psiche umana l’esistenza delle
pulsioni, la forza “istintiva” che “spinge verso”. Inizialmente individua
una sola pulsione, identificando questa
spinta come pulsione
sessuale. Nel saggio di FREUD del 1920 << Al di là del piacere>> egli
delinea una pulsione distruttiva che classifica come pulsione di
morte, una sorta di tendenza endopsichica all’entropia “Polvere
ero, polvere voglio tornare”. Secondo NEUMANN (1949) questa
87
pulsione di morte è da interpretarsi come un tornare al sentimento
di una sensazione d’infinito, il ritorno ad uno stato uroborico (il
serpente che si morde la coda, colui che si nutre di se stesso),
tornare all’abbraccio con la natura (FILIPPINI 1992).
Per Freud i
conflitti intrapsichici e le frustrazioni nascono dall’interazione delle
tre topiche, l’Es , l’Io ed il Super-Io. Spero mi si perdoni la sinteticità
con cui tratterò la teoria di Freud, ma vorrei soffermarmi su una più
approfondita analisi delle più recenti teorie dell’età evolutiva di
Kohut e Winnicot.
In sostanza, l’Es sarebbe l’Io profondo ed istintuale ( il cosiddetto
subconscio) che produce le pulsioni di vita e morte, mentre l’Io è
quello che si da a vedere di essere (l’Io esteriore). Il Super-Io è l’Io
nel quale ci si vorrebbe identificare (l’ideale di se).
I conflitti
nascono tra l’Es ed il Super-Io, creando frustrazioni ed esperienze
rimosse che tornano nell’Es.
Ma le frustrazioni e le esperienze
rimosse che sfuggono al conscio, comunque condizionano il
comportamento dell’Io reale.
Nelle teorie di Kohut e Kenberg si
parte dal
presupposto che
l’aggressività nasce dalla rabbia narcisistica per il fallimento della
propria idealizzazione. Vi è però una differenza fondamentale nello
sviluppo delle due teorie. Mentre per KOHUT (1978) i gravi disturbi
del narcisismo patologico nascono dalla mancanza di un valido
esempio speculare, che non consente la maturazione narcisistica
dell’infante, KERNBERG (1975,1984) sostiene che l’organizzazione
patologica narcisistica è insita nella personalità del maturando e
che una ulteriore stimolazione al completamento della maturità
attraverso
il
rispecchiamento
empatico
nella
figura
ideale,
finirebbe per esaltare ulteriormente la patologia. Troviamo qui un
88
po’ il solito dilemma tra acquisito ed innato. Quello che mi sta a
cuore far emergere è indipendente da questa diatriba.
Cerco di tradurre in parole più semplici quanto da questi sostenuto
per potermi ricollegare a quella che è la tematica principale di
questo capitolo,
ovvero la ragione
che
spinge
ad
avere
determinati comportamenti. Il bambino nasce con una sorta di
sensazione di onnipotenza. Vive nel suo “Io ideale” in quanto
inconsapevole dei propri limiti, con cui dovrà confrontarsi non
appena prenderà consapevolezza di un “io
limitato.
reale” fortemente
La semplice presa di coscienza, per esempio,
di non
riuscire a camminare da solo crea una sensazione d’impotenza che
cozza contro la convinzione di onnipotenza dell’Io-ideale. In quel
momento interviene la figura genitoriale che, aiutando il bimbo a
raggiungere il proprio scopo, colma questa sensazione
di
impotenza, consentendogli di proiettare la sua onnipotenza nel
genitore rendendolo figura speculare del proprio Io-ideale.
Man mano che il bambino cresce deve trovare nella persona di
riferimento colui che colma le proprie deficienze per consentirgli
uno sviluppo psicologico sano. Questa figura (genitore o tutore),
che costituisce l’ideale del proprio Io, diviene poi oggetto di
emulazione.
Per poter parlare di quanto sostiene
Winnicot devo tornare un
attimo agli inizi della psicologia dinamica di JUNG (1947/54). Jung
ritiene che il tessuto archetipico della psiche umana è una sorta di
disposizione ad agire. Esso si rifà sostanzialmente alle pulsioni di
Freud, ma aggiunge che a questa struttura di potenzialità vitale, l’Io
ha bisogno di dare delle immagini per potersi formare. È un po’
come se la nostra psiche all’origine fosse un supermercato con gli
scaffali vuoti, dove troviamo il reparto della bontà, quello
89
dell’avidità, quello dell’aggressività e via di seguito. Questi scaffali
vanno riempiti per dare forma e vita alle attività che ne
garantiranno il funzionamento. Jung, infatti, sostiene l’importanza di
raccontare ai bambini storie, favole e miti, in quanto sono essi che
creano l’alveo per il cui tramite il tessuto archetipico possa divenire
immagine e garantire la maturazione della struttura dell’Io.
WINNICOT (1968) compie una sorta di rivoluzione scindendo il
bisogno di soddisfare le pulsioni dai bisogni dell’Io.
Winnicot
sostiene che l’Io abbia necessità di avere confini, di sentirsi
considerato e di essere guidato, e che solo colmando queste
necessità impara a riconoscere e gestire le proprie pulsioni.
Soddisfare i bisogni dell’Io permette dunque anche la possibilità di
esperire l’aggressività nelle sue diverse forme.
Winnicot spiega
come l’esperienza dell’aggressività , il sentimento della possibilità di
usare l’altro, porta all’esperienza della colpa e allo stabilirsi della
sensazione dei limiti propri e di quelli altrui. Non sarebbe possibile,
senza l’esperienza diretta dell’aggressività, misurare la propria
distruttività e consentire di attivare le forme riparatorie. Interviene
qui il sostegno di una figura genitoriale che, a poco a poco,
diviene un sentimento di presenza interiore.
Diviene qualcosa
come l’interiorizzazine dell’Io freudiano che assolve alla funzione di
misura e sostegno.
Voglio citare una frase molto bella e significativa del Prof. Filippini in
“Aggressività: cenni per un modello complesso” << Una coscienza
morale è tessuta nella stessa rete di relazioni in cui si esprime e si
evidenzia l’aggressività >>
È una frase che racchiude molto bene tutto il concetto globale
che
ho
cercato
di
esprimere
attraverso
le
diverse,
ma
90
sostanzialmente complementari, teorie sulla formazione della
psiche nell’età evolutiva, in relazione all’aggressività.
Anche nel già citato libro di G.B. Palermo troviamo una serie di
considerazioni che si riferiscono al rapporto diretto genitore – figlio.
Emerge che è fondamentale per lo sviluppo sociale e relazionale
del bambino una risposta ai suoi bisogni affettivi, la coerenza
nell’indirizzo educativo, modelli nei quali identificarsi, il cui ruolo, in
assenza dei genitori, può essere assunto anche da altre persone
carismatiche. In assenza di ciò, emergono incapacità relazionali e
di empatia verso gli altri, che frequentemente portano ad
atteggiamenti impulsivi di aggressività.
Il bambino, una volta presa conoscenza del proprio io, inizia a
sviluppare una coscienza, che è il frutto di un condizionamento
rafforzato durante le fasi evolutive dell’infanzia. Il condizionamento
deve basarsi su valori etici e morali ed è di tipo interattivo, dove
genitore e bambino mostrano rispettivamente aspettative che
desiderano
vedere
realizzate.
Un
eccesso
di
regole
e
condizionamenti rigidi porta invece alla formazione di una
personalità pavida ed insicura, incapace di reagire ad eventuali
aggressioni.
Un legame psicosociale povero tra genitore e figlio può portare ad
un
comportamento
deviante,
caratterizzato
da
una
futura
incapacità di creare rapporti significativi e duraturi e all’incapacità
di rispettare le regole.
Prima di tentare l’individuazione di una devianza patologica della
psiche che possa essere collegata in modo diretto con gli
atteggiamenti dei criminali che organizzano i combattimenti fra
cani, voglio però fare una breve analisi riguardo alcune ricerche
91
che parlano del tasso di incidenza nei comportamenti criminali e
violenti di persone cresciute in determinati contesti familiari.
Da una analisi formulata da McCORD (1979), basata sullo studio
longitudinale di un gruppo di bambini dagli undici anni in su,
nell’arco di un periodo temporale di dodici anni, è emerso che gli
effetti derivanti dalla combinazione educativa “affetto - disciplina
coerente”, stimolavano decisamente i bambini ad assumere
comportamenti equilibrati.
WEST e FARRINGTON (1973),
a loro
volta, seguirono 411 ragazzi scelti a caso, dall’età di otto anni per
un periodo di diciassette anni. Le conclusioni furono che i ragazzi
che avevano commesso reati
provenivamo solitamente da
famiglie in cui i genitori risultavano crudeli, incuranti o passivi.
Ho voluto inserire questo breve inciso di statistiche di tipo
longitudinale per rimarcare come il rapporto interpersonale,
affettivo ed educativo, tra genitore e figlio, intervenga nella
formazione del della psiche, determinando la personalità del futuro
adulto.
Torniamo ora al tema della formazione e maturazione dell’Io reale,
ispirato all’Io ideale, riflesso nella persona guida (genitore). Quali
forme di patologia del narcisismo si sono evidenziate nel corso degli
studi e quali di queste potrebbero intervenire nei comportamenti
deviati di nostro interesse?
La patologia narcisistica, secondo le teorie più accreditate, nasce
sostanzialmente da due condizioni:
-
dall’interruzione dello sviluppo naturale del narcisismo infantile,
-
dall’incremento
nello
sviluppo di un narcisismo infantile
patologico.
92
Esistono numerose classificazioni di patologie narcisistiche con, a
loro volta, una serie di varianti e sfaccettature, che comunque
fondano le loro origini nei due assunti appena citati.
Dal momento che questa tesi non ha ragione di proporre
analisi compiuta della psicopatologia narcisistica,
una
mi limiterò ad
accennare alle diverse forme, abbozzando una sintesi delle loro
espressioni.
Mi soffermerò invece su quegli elementi che, a mio
avviso, sono correlabili alla personalità deviata dei soggetti qui
sotto esame.
Per poter analizzare il nucleo di una personalità è necessario avere
degli strumenti, che costituiscono degli indicatori e dei mezzi di
valutazione. Nei primi anni 50’ sono divenuti di uso
comune i
concetti di “identificazione proiettiva” e “ scissione”.
La scissione indica la presenza di due personalità distinte nella
medesima persona. Kernberg definisce la scissione come il
processo attivo che consiste nel tenere separati sistemi identificativi
di
qualità opposta. La scissione
esprime
una dissociazione
all’interno del proprio sentimento di identità e riguarda il modo di
una persona di percepire se stesso e il diverso modo di
rappresentarsi
agli
altri,
ovviamente
in
modo
del
tutto
inconsapevole. Si tratta di un meccanismo di difesa da gravi
tensioni, che nel bambino è da considerarsi normale, mentre
nell’età adulta viene considerato patologico.
Nell’identificazione proiettiva avviene un allontanamento di una
esperienza di sé, vivendola come una caratteristica appartenente
ad un’altra persona.
A differenza di quanto avviene nella
“rimozione” (sistema di difesa per eliminare la sensazione di disagio
a causa di una propria qualità psichica indesiderata), il soggetto
conserva le emozioni ed i significati di ciò che ha proiettato
93
sull’altro.
L’identificazione proiettiva è una forma di difesa
altamente patologica, ma è anche un sistema di comunicazione.
Quando ci troviamo di fronte ad un disturbo del narcisismo, la
persona tende a percepire gli altri in modo significativo per lui,
entrando con loro in una relazione in modo particolare. La persona
che soffre di questi disturbi deve trovare nell’altro lo specchio della
propria magnificenza ed a sua volta pretende di rappresentare
tutto per l’altro, cercando di rispecchiarne le aspettative
per
potersi sentire importante. Questa esperienza di relazione viene
vissuta nell’interiorità e dunque a totale insaputa dell’altro. L’altro
diviene importante quando vissuto come “oggetto-Sé”, termine
coniato da Kohut per indicare quando un’altra persona viene
esperita come parte del proprio Sé. Kohut ha anche individuato
due modalità per esperire l’altro come “oggetto Sé”: la traslazione
speculare e la traslazione idealizzante.
La traslazione speculare
consiste nel rispecchiamento nell’altro della grandiosità del Sé,
mentre la traslazione idealizzante indica il trasferimento dei propri
ideali nell’altro, dove possono essere ammirati e contemplati.
Questa teoria ha consentito a Kohut di analizzare il rapporto bimbo
- genitore , al quale ho accennato all’inizio di questa parte.
Il
bimbo che attraverso la traslazione speculare colloca l’immagine
della propria grandiosità nel genitore, che vede venir meno con la
graduale presa di coscienza dei propri limiti. Attraverso la
traslazione idealizzante,
fa divenire il genitore depositario delle
proprie perfezioni perdute. L’idealizzazione del genitore consente
al bimbo il recupero ed una vicinanza rassicurante, che lo aiuta
nella realizzazione e accettazione della propria imperfezione.
Il narcisismo infantile, come ho accennato, indica la fragilità di una
autostima carente, che nella normalità (nel bambino) viene
94
recuperata, o
meglio formata. Il narcisismo infantile nell’adulto,
invece, è sintomo di grave patologia, perché non consentirà un
recupero, ma attiverà una serie di forme di difesa, con le rispettive
conseguenze.
Nel
Narcisismo
patologico,
la
mancata
formazione
della
personalità e dell’autostima, attraverso i meccanismi su descritti,
crea la necessità di percepire se stessi come un’altra persona della
propria vita che si reputa importante. Allo stesso modo, queste
persone, amano solo chi in qualche modo può rappresentare loro
stessi. Cioè stimano e amano se stessi nella persona di un altro.
Freud
aveva
identificato
questa
patologia
con
il
nome
“identificazione narcisistica”.
La forma più grave e più frequente di personalità narcisistica è
incentrata sulla presenza di un “Sé grandioso patologico”.
Il Sé grandioso patologico di per se è una struttura abbastanza
coesa,
costituendo
sostanzialmente
una
difesa
verso
una
personalità che contempla aspetti dissociati. Riesce a contenere
percezioni scisse, che Kernberg individua in complessi edipici e
preedipici, e che impediscono la percezione di un’identità
coerente.
Il Sé grandioso patologico vive, o forse sarebbe meglio dire, si nutre
di relazioni speculari.
Oserei azzardare
sopravvive
attraverso le
sensazioni
di incapacità di inettitudine vengono proiettate
svalutate
identificazioni
che la sua psiche
proiettive. Le
proprie
e
nell’altro; di contro, l’altro può venire idealizzato
rendendolo immagine speculare di ciò che il Sé grandioso idealizza
in se stesso. Il Sé grandioso patologico nutre la propria autostima
attraverso l’oggetto-Sé idealizzato, attraverso quei processi
che
Kohut ha chiamato traslazione speculare e traslazione idealizzante.
95
L’idealizzazione viene dunque considerata una difesa del Sé
patologico, una modalità fondamentale di rapporto attraverso il
rispecchiamento del Sé grandioso nell’altro. << Io sono grandioso;
tu sei grandioso; risplendiamo della stessa grandiosità. >>
Come ho anticipato, esistono una moltitudine
forme
di
rapporti
interpersonali,
di sfaccettature,
comportamenti
e
reazioni
patologiche, forme di difesa e quant’altro, che comprendono lo
studio di un campo, pressoché infinito.
Credo di essermi dilungato sin troppo sull’argomento, sperando di
essere riuscito a dare un contributo alla comprensione riguardo le
problematiche della personalità deviata.
Inoltre ritengo che
quanto appreso in ordine alle teorie sull’identificazione proiettiva,
il rispecchiamento del Sé - ideale e le traslazioni idealizzanti e
speculari, ci diano sufficienti indizi per poter abbozzare delle ipotesi
su cosa può spingere una persona ad avvicinarsi al mondo dei
combattimenti clandestini.
In questa prospettiva, nel rapporto uomo-cane , l’animale diviene
l’oggetto-Sé speculare, colmando quelle che sono le necessità di
sensazione
di
dell’“inconscia
potere
di
una
consapevolezza”
psiche
della
frustrata
propria
a
causa
impotenza,
divenendo portatore allegorico di forza, autorità e potenza. Il cane
gladiatore diventa portatore di gloria, potenza e bellezza. Si tratta
di una traslazione dei “meriti” del cane sul padrone. A vincere non
è solo il combattente, ma entrambi, animale-uomo e animalecane. Chi possiede un cane vincitore si “nutre” della sua
grandezza, del potere che rappresenta. È il suo blasone animato.
In questo senso, anche la moda di possedere pit bull o altri molossi
in voga maggiormente nei ceti sociali più attigui alla criminalità,
trova una plausibile spiegazione. Il cane di un “uomo di rispetto”
96
deve essere forte, dominante, un animale che incute rispetto e che
lo proietta sul suo proprietario.
A questa forma di personalità deviata si aggiunge una devianza
dell’aggressività
repressa
mal
reindirizzata,
esperienze frustranti nell’età evolutiva.
manifestazione
nella
necessità
di
scaturita
dalle
Questa può trovare
“godere”,
di
“eccitarsi”
osservando eventi cruenti.
Le lotte crudeli tra animali si perpetrano anche grazie a questi
“estimatori” che le considerano un vero e proprio “spettacolo”
(basta pensare al vasto commercio videocassette, e alla mania
correlata di guardare gli incontri). Per queste persone, assistere o
partecipare a un combattimento costituisce un
“divertimento”,
una forma di “intrattenimento”. Emerge una sorta di estetica della
crudeltà, di attrazione per la sofferenza.
Credo di aver accennato al fatto che fino nel ‘700 si effettuavano
sevizie di animali in pubblico per dare spettacolo.
Voglio ricordarlo qui, per sottolineare che anche queste forme di
personalità, oggi considerate deviate, non normali, un tempo
hanno fatto parte della nostra e di altre culture, con notevole
“naturalezza”.
Evidentemente anche la psiche umana è in continua evoluzione e
con essa il metro della sua valutazione.
Sto in sostanza anticipando il tema del prossimo capitolo, che
andrà alla ricerca storica dei combattimenti fra animali, organizzati
dall’uomo.
Prima però di dedicarmi alla terza e conclusiva parte di questa tesi,
sarà utile riassumere in una sintesi, il messaggio di questo capitolo.
97
Ho descritto le ragioni per le quali vi è una particolare scelta di
razze canine per l’organizzazione di questi combattimenti. Essa
scaturisce dal fatto che alcune razze, come abbiamo visto,
appartenenti alla tipologia che in cinognostica viene indetificata
con la denominazione molossoide, sono portatrici di particolari
predisposizioni genetiche, sia di tipo morfologico che caratteriale.
Cani che, per una naturale predisposizione, successivamente
acuita ed incrementata dalla selezione umana, posseggono un
carattere combattivo e tendente alla dominanza, nonché una
particolare possenza e resistenza fisica. Troviamo tra i primi nella
classifica il famigerato Pit Bull, “fratello di sangue” della razza
riconosciuta dalla Federazione Cinofila Internazionale
come
American Stafforshire Terrier, che, a sua volta, è risultato essere una
alterazione, in particolare nelle dimensioni, dell’incrocio tra Bull-Dog
ed il Terrier inglese.
Ho spiegato come a
queste predisposizioni naturali vengano
aggiunti, da parte dei “trainer”, degli estenuanti allenamenti fisici,
cruenti sistemi di condizionamento della psiche dell’animale,
e
trattamenti con sostanze dopanti per esaltarne l’aggressività. In
questo contesto ho avuto modo di applicare (mostrare in pratica)
le
teorie
sulle
origini
filogenetiche
ed
ontogenetiche
dell’aggressività.
Al punto 2.2, invece, ho voluto far comprendere la complessità del
fenomeno delinquenziale, cercando di elaborare un quadro
completo della sua evoluzione, nonché dell’attuale situazione. In
quel
sottocapitolo
ho fatto riferimento all’evoluzione delle
normative volte alla prevenzione e repressione in materia di
maltrattamenti di animali e come, attraverso questa evoluzione, si
98
possa dedurre un cambiamento nella presa di coscienza collettiva,
rispetto ai diritti degli animali.
Voglio qui ricordare come sia emersa una latenza normativa di
quasi un secolo, inerte ed insensibile verso le continue crudeltà nei
confronti degli animali. Credo, inoltre, di avere ampiamente
valorizzato la meritoria opera delle associazioni animaliste, che con
dedizione e competenza, sono riuscite
a scuotere la sensibilità
politica legiferante.
Nel terzo paragrafo, ultimo della parte centrale di questa tesi, ho
tentato
di
attribuire
ad
alcune
manifestazioni
di
devianza
patologica della personalità la paternità dei comportamenti
sconsiderati dei nostri proprietari ed addestratori di cani-gladiatori.
Credo comunque sufficientemente plausibile che vi sia una sorta di
identificazione da parte dell’uomo nella potenza e nel coraggio
del animale, e che tanta crudeltà e tanto sadismo non possano
che sorgere da una innaturale ed incompleta evoluzione della
psiche dell’individuo, costellata da frustrazioni e traumi indelebili.
99
Capitolo 3
Le origini, il presente ed il futuro del fenomeno dei
combattimenti tra animali, organizzati dall’uomo
3.1“ Le prime conoscenze storiche e l’evoluzione dei combattimenti
tra e con animali”
Che le origini dei primi combattimenti tra animali, finalizzati
all’intrattenimento, siano antichissime è noto. Tuttavia, dalle mie
ricerche, è emerso che non vi è letteratura che tratti questo tema
in modo specifico.
Troviamo testi di antropologia, del rapporto
uomo – animale, che parlano dell’addomesticazione degli animali
o dell’evoluzione dei rapporti dall’antichità ad oggi, ma senza
trovare riferimenti specifici al mio tema. Sia negli studi etologici
che in quelli antropologici, non viene affrontato il problema delle
forme di combattimento organizzato, che possano aiutare a
comprendere l’evoluzione del fenomeno. Ho, invece, avuto modo
di verificare che è molto più frequente trovare dei riferimenti alla
nostra tematica in testi e scritti che parlano delle culture, dei
territori e della
indicazione
del
storia dei popoli.
fatto
che
il
Già questo ci da una prima
fenomeno
è,
evidentemente,
strettamente legato alla cultura dei popoli, e vedremo che, inoltre,
spesso
è
considerato
un
fatto
quasi
folcloristico,
più
che
antropologico - comportamentale.
Ci sono testimonianze di tipo archeologico che svelano l’esistenza
dell’antichissima
“tradizione” del combattimento fra galli. Nel
100
Museo Civico di Milano troviamo la “Collezione La goia”,
un insieme di vasi provenienti dall'antica Apulia; si tratta di una
serie di contenitori con varie decorazioni in colori, sovrapposti a
vernice nera che li copre completamente. Essi appartengono ad
una produzione detta di Ganthia (dalla cittadina pugliese dove si
riteneva ne fosse concentrata la produzione). La produzione risale
tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C. Tra i diversi reperti storici
sono state rinvenute delle “hydriae”, brocche per l’acqua, con
delle
decorazioni che raffigurano
una cetra ed un, molto
realistico, combattimento fra galli. Ovviamente, tale scoperta non
ci da indicazione sul fatto se tali combattimenti venissero
organizzati o solamente osservati, ma ci da la certezza che l’evento
godeva di notevole considerazione. Soprattutto, se pensiamo che
tali opere venivano seppellite in corredo ai defunti.
Il “divertimento” dei combattimenti, già in tempi lontani, è stato un
tipo di competizione che non implicava solo la lotta tra animali
della stessa specie, ma comprendeva la lotta tra specie diverse,
come anche quella tra animale e uomo.
Nella storia dell’impero romano troviamo la locuzione “panem et
circenses”, ovvero pane e giochi.
Erano
due elementi
indispensabili per tenere quieta la plebe romana. Il pane veniva
richiesto solo dai poveri, ma gli spettacoli del circo, i “ludi
circenses”, erano graditi da tutti.
Questi spettacoli prevedevano oltre alle gare di cocchi, una sorta
di caccia detta “venationes”. In queste venationes gli
uomini,
variamente armati, affrontavano belve come tigri, pantere, leoni,
orsi e tori. Avvenivano in quei luoghi (negli anfiteatri) anche le
esecuzioni “ad bestias” dei condannati, gettati in pasto alle belve.
101
In quell’epoca, i “giochi” preferiti erano però i combattimenti tra
uomini, i “ludi gladiatori”.
Come magistralmente ricostruito nel film di Ridley Scott “Il
Gladiatore”, la storia ci racconta che i gladiatori venivano
addestrati
fino
a
divenire
combattimento, che
vere
e
proprie
macchine
da
abbiamo visto avvenire oggi con i cani
“gladiatori”. Possiamo immaginare lo scarso rispetto che l’essere
umano a quel tempo poteva avere per gli animali, se consideriamo
che la vita di un uomo era appesa ad un “pollice” (segno di
"pollice verso"), a seconda dell’umore e delle simpatie degli
spettatori.
È importante rendersi conto che, sia nei munera,
combattimenti tra coppie di gladiatori, che nelle venationes, le
cacce ad
ogni sorta di animali, l'emozione principale dello
spettacolo era la morte.
Come ho già accennato al termine del precedente capitolo, le
lotte cruenti tra animali hanno, ancora oggi, degli estimatori che le
considerano un
“divertimento”, come lo consideravano già i
romani, un “gioco”. Vi è una sorta di estetica della crudeltà, di
attrazione per la sofferenza. Per Kierkegaard, l’uomo come
spettatore è spinto a disinteressarsi della sofferenza e persino della
vita dei suoi simili, pur di godere uno spettacolo. Secondo V.
ANDREOLI, in “Capire il dolore”,
interpretando il pensiero di
Kierkegard, anche il dolore si può spettacolarizzare, così pure la
morte, il dolore dei dolori, la madre di tutti i dolori. Nello spettacolo
la morte viene trasformata e rappresentata come gesto eroico che
sa di magnificenza. Nello spettacolo la morte diventa amica, anzi,
un’occasione per rappresentarsi e per esistere nella maniera più
completa. “Ecco la morte come una sorta di danza piacevole,
una condizione per esistere, esistendo al massimo [ANDREOLI
102
2003]”.
Questa
interpretazione
filosofica
della
psiche
della
personalità, proposta da Andreoli, si ricollega un po’ ai concetti
poc’anzi analizzati.
Per comprendere il fenomeno nell’epoca romana, basta osservare
le dimensioni devastanti che potevano assumere tali spettacoli. La
storia ci racconta che all’inaugurazione del Colosseo da parte
dell’Imperatore Tito, vennero sacrificati oltre 5000 animali in un solo
giorno. La cultura di quei tempi, il tipo di coscienza collettiva e la
mancanza di consapevolezza (forse percezione) della crudeltà,
consentiva il massacro di esseri umani a scopo ludico, ed in modo
ancor maggiore degli animali.
Un’altra crudeltà verso gli animali a scopo di intrattenimento con
radici piuttosto antiche è la corrida, dove i picadores seviziano tori
per puro divertimento ed i toreri competono contro altri tori, il cui
destino è quello di soccombere con una spada conficcata tra le
scapole. Anche qui, l’eventuale ferimento del torero o la sua morte,
fa parte dello spettacolo, facendone un eroe.
La Tauromachia sembra anch’essa avere radici molto remote, ma
a causa di mancanza di fonti attendibili prima dell’XI secolo, le
teorie spaziano dalle origini mussulmane (i mussulmani occuparono
la Spagna dal secolo VIII al XV) a quelle romane, fino a supporre
origini greche, tentando di collegare la corrida ai giochi minoici.
Si ha testimonianza dei primi giochi taurini verso il 1100-1200 in un
contesto ben preciso. La nobiltà che guerreggiava a cavallo,
l’usava come una sorta di allenamento. Questi allenamenti
divennero poi
“giochi”, perpetuati in
occasioni di feste per
celebrare l’arrivo di personaggi importanti, o per la canonizzazione
di santi e si svolgevano
sulla “plaza” (piazza), opportunamente
attrezzata.
103
Si distinguevano in particolare due forme di combattimenti :
- La “Lanzala”, dove il toro carica il cavaliere, mentre quest’ultimo
lo attende e lo uccide con un colpo netto, perforandogli il cervello
con il suo giavellotto.
- La “Rejon” che si basa sull’astuzia e la schivata del cavaliere.
Questo risultava essere un combattimento particolarmente mortale
per tutti i protagonisti, dove il sangue e gli intestini uscivano a fiotti.
Era l’aristocrazia che seguiva e si cimentava in queste abitudini,
mentre parallelamente a questa tauromachia coesisteva
una
forma pedestre e popolare. Essa era poco codificata e veniva
praticata durante le feste religiose. Il toro veniva tormentato da
una folla in delirio, che si scatenava facendolo oggetto di ogni tipo
di sevizie.
La corrida, che ha dato origine a quella oggi conosciuta, nasce
nel XVI secolo a Siviglia, dove alcuni dipendenti di macellai, nei
cortili,
si divertivano ad inseguire e schivare dei tori prima di
ucciderli. Questo “divertimento”, di cui si sparse la voce, divenne
presto un gradito spettacolo per i curiosi che si accalcavano sui
tetti limitrofi per assistervi. Con il tempo, questi giochi divennero una
professione e furono gli ex operai dei macellai a divenire i primi
toreri pagati.
Tra il 1730 e il 1750, la corrida si diede un regolamento. Nacquero le
prime arene e si iniziò con una selezione mirata per creare tori da
combattimento. Come abbiamo visto nei capitolo precedenti, la
stessa cosa è accaduta, e purtroppo accade ancora, nel
combattimento tra cani. Tema sul quale tornerò per fornire anche
in quel campo specifico una collocazione storica.
104
La tauromachia era sostenuta dalla chiesa ed i tori andalusi,
considerati più idonei per le corride, venivano allevati e selezionati
da religiosi (Dominicani e Certosini).
La Corrida si espanse in
America, Africa ed Europa. La nazione europea maggiormente
coinvolta è la Francia nella regione del Midi.
L’Italia venne
interessata dal fenomeno nel XVI secolo, introdotto da Papa
Cesare Borgia .
Queste manifestazioni, tuttora oggetto di attualità, ma legate
maggiormente alla tradizione ispanica, coinvolgono ancora parte
del sud della Francia e
vengono seguite da molti curiosi, ma
anche dagli “Aficionados”. Termine che noi, riferendoci ai seguaci
del calcio, potremmo accomunare all’appellativo di “tifosi”.
Josyane Querelle, Presidente della F.L.A.C. (Féderération de Liaisons
Anti-Corrida),
così
interpreta
l’attuale
problema
della
perpetuazione delle corride:
“ Il posto privilegiato che occupa oggi la corrida tra i media tende
a rendere non colpevoli tutti quelli che vanno ad assistervi. Ma noi
dobbiamo interrogarci sulle reali domande in materia di violenza
nelle nostre società. La corrida è l’espressione della legge del più
forte. E questi uccisori – “matadores” – di cui i media fanno degli
eroi dei tempi moderni, affascinano gli animi giovani e vulnerabili,
ancora
incapaci di discernimento. Così le loro incertezze
perdurano sino a che l’apprendimento del rispetto del mondo
vivente arrivi a far scuotere il loro edificio e speriamo che le nuove
generazioni, utilizzando un occhio diverso su questo anacronismo,
lo condannino senza appello. Noi dobbiamo dunque lavorare per
fornire una informazione seria, la più larga possibile al fine di
smascherare una impostura.”
105
Tornando al tema centrale di questa tesi, è opportuno dare una
connotazione
storica
al
fenomeno
dei
combattimenti
che
coinvolgono i cani.
La lotta tra cani ed altri grandi mammiferi, come l’orso, il cinghiale
e l’uro (progenitore del bue domestico estintosi nel secolo XVII),
viene praticata anch’essa sin dai tempi antichi nelle arene
dell’impero romano. Verso il 1200, la
crescita delle città e del
commercio provocò lo spostarsi dei combattimenti dalle arene
nelle piazze. I cani venivano aizzati contro orsi e tori legati per le
zampe, il collo o le corna. Questi crudeli combattimenti divennero il
passatempo preferito in Gran Bretagna, soprattutto a partire dal
periodo Elisabettiano (c.a. 1550). I cani maggiormente usati furono
i grandi cani da caccia, gli alani ed i
combattimento divenne sport popolare.
mastiff.
Verso il 1650 il
Nasce il bull - baiting,
combattimento nel quale il cane deve afferrare il toro per le
orecchie o il musello e non lasciare più la presa. Nella figura 3.1, si
vede un opera artistica, appunto di quell’epoca, che ritrae una
scena di “bull-baiting”, di cui non è menzionato l’autore,
pubblicata sul sito “workingpitbull.com”.
Figura 3.1
106
Gli inglesi preferirono ai pesanti mastini i più piccoli e agili cani dei
macellai, di aspetto simile a un piccolo mastiff, con il pelo raso, la
coda lunga, di colore spesso pezzato, detti bull dog ( cani da toro)
[HARRISON 1907 – ASH 1927]. Già nel 1689 l’Olanda vietò i
combattimenti, seguita nel 1834 dalla Francia e l’anno successivo
dall’Inghilterra.
In
Gran
Bretagna,
a
seguito
del
divieto
combattimenti, le lotte continuano lo stesso, ma
di
effettuare
mettendo a
confronto avversari più piccoli e facili da nascondere alla polizia.
Nascono così le lotte tra cani e la caccia al ratto. Questo, mentre
in altri paesi del vecchio continente continuano principalmente le
lotte tra i cani dei macellai e tori. Particolare è che sarà soprattutto
il “nuovo mondo” a mantenere e sviluppare l’ambiente del
combattimento tra cani, come abbiamo visto, attraverso la
selezione delle diverse
razze, dovuto ad
una fortissima
competizione [BRANDSHAW, GOODWIN, LEA e WHITEHEAD]. Nasce
nel nuovo mondo il termine “Gameness”, che nei cani da presa e
da combattimento implica la tendenza ad affrontare l’avversario
senza valutarne la pericolosità, la propensione ad attaccare e a
proseguire
lo scontro (persistenza), anche fino alla morte. La
gameness è una particolare caratteristica dei cani da presa, da
tana (per esempio bassotti e terrier) e dei cani da combattimento.
Sulle isole dell’Arcipelago delle Canarie, intorno al 1500, un tipo di
cane detto “presa” , per indicarne le particolari attitudini alla presa,
veniva utilizzato per la guardia al bestiame, alle case e come
cacciatore. Avevano un forte temperamento e disponevano di
una notevole aggressività, al punto tale che, per limitare i danni agli
allevatori,
nel 1516 venne emanata una direttiva che ne
prevedeva l’abbattimento ad esclusione dei cani da macellaio.
107
Furono proprio gli inglesi, tra il XVI e il XVII secolo, ad importare, nelle
isole, la cultura del combattimento tra cani. Essi furono affascinati
dalla potenza ed abilità dei cani locali che, per questo, iniziarono
ad incrociare con i loro Bull-Terrier e Bull-Mastiff. Ad essere utilizzato
per gli incroci fu, in particolare, un cane rustico e temperato
chiamato Bordino Majorero.
La prosecuzione nella selezione ha
portato, come ho già accennato nel paragrafo sulle razze da
combattimento, all’oggi conosciuto Perro da Presa Canario.
Le lotte tra cani divennero, su quelle isole, presto delle apprezzate
attrazioni e gli aborigeni le integrarono subito tra le loro usanze.
Come appena accennato, altrettanto avvenne in America. Agli
inizi del XVIII secolo, a causa di una profonda crisi economica, gli
inglesi si spinsero alla conquista di nuovi territori, tra cui l’America
centrale.
Le numerosi situazioni conflittuali con gli indigeni li
portarono ad importare anche i loro cani per la difesa. Ben presto
questi cani si diffusero anche in quel territorio e non ci volle molto
affinché s’instaurò anche lì lo “sport” dei combattimenti.
Questo, ovviamente, non significa che l’origine dei combattimenti
tra animali, ed in specifico tra cani, nasce ad opera degli inglesi. A
prescindere dalle prime testimonianze dell’epoca romana, ci sono
continenti e territori dove ancora oggi la cinomachia
è una
pratica facente parte delle abitudini locali e di fatto né vietata, né
perseguita.
Sia nelle regioni balcaniche che nelle regioni centro –occidentali
dell’Asia, troviamo testimonianze attuali di questo tipo di pratica.
Prima di portare esempi più specifici, riguardo questa asserzione,
che farò nel seguente paragrafo, voglio tornare un istante al
combattimento tra galli.
108
Ne ho fatto un solo breve cenno all’inizio del presente capitolo per
tornare sull’argomento ora, al termine. Questo ha una ragione ben
precisa. Attraverso dei reperti archeologici, abbiamo appreso che
il combattimento tra galli affonda le sue radici nella notte dei
tempi. Altrettanto, però, è un fenomeno tuttora attuale.
ragione,
La
di questa perpetuazione nei millenni, sta nel fatto che
spesso non suscita indignazione, ma viene accettato come una
forma di folclore. Nella migliore delle ipotesi suscita disagio, ma non
viene percepito con uguale gravità rispetto al combattimento tra
cani.
animali
Questo, nonostante
vengano
anche in questi combattimenti gli
incentivati
all’aggressività.
procedure usate per i cani, i galli
vengono
Parimenti
alle
allenati con dei
“sparrig partner” ed equipaggiati per le gare con lame taglienti
applicate agli speroni.
Sono dei massacri che vedono quasi
sempre la morte del soccombente.
Che questo problema venga vissuto in modo assai diverso rispetto
agli altri episodi di maltrattamenti di animali, emerge anche dalle
seguenti testimonianze di due antropologi che affrontano tale
tematica.
In una revisione di Francesco Censon, di un’intervista al Professor
Clifford Geerts,
sul tema dell’interpretazione delle culture,
pubblicata sul sito “emsf.rai.it” , gli si pone la seguente domanda:
“ Potrebbe, per concludere, darci un esempio del suo lavoro come
analisi dei combattimenti dei galli a Bali?”
Dall’interpretazione che ne da Geertz, emerge che il tutto sembra
sintetizzarsi in un gioco tra caste e classi sociali. Geertz riferisce che
i combattimenti siano interessanti proprio a causa della loro
apparente frivolezza, benché, agli inizi, egli non ci trovasse nulla
d’interessante. Si nota, nelle sue parole, in modo evidente la totale
109
indifferenza verso la sorte degli animali. Questo senza nulla togliere
al valore dell’analisi sociologica. Geertz ritiene che la ragione più
recondita, nell’organizzazione di questi combattimenti, si riesce ad
individuare attraverso l’analisi delle modalità nelle scommesse. La
sproporzione delle somme scommesse, rispetto alle probabilità di
vincita dei rispettivi galli, è
determinata da linee di condotta,
proprie della struttura dei gruppi sociali di appartenenza. Questo
ricondurrebbe ad una lotta tra diversi gruppi per lo status ed il
prestigio sociale. Le scommesse, dunque, acquisterebbero un senso
non in termini di probabilità o in base ad una teoria razionale, ma in
ordine al modo in cui, a Bali, i gruppi parentali, gli individui, le caste
e le classi privilegiate competono tra loro. Secondo Geertz, questo
è un fatto importantissimo, in quanto determinerebbe che i
combattimenti dei galli, anziché essere avvenimenti “frivoli”,
diverrebbero un interesse di principale importanza, molto vicino al
cuore dei balinesi.
Il Professor Alessandro Dal Lago, docente di “Sociologia dei processi
culturali”, presso l’Università di Genova, in una trasmissione sul tema
“Agonismo e competizione”, rispondendo alle domande di alcuni
studenti , tocca anch’egli il problema del combattimento fra galli.
Secondo una sua analisi, anche se gli animalisti giustamente lo
considerano sconvolgente, le società in cui si praticano non sono
delle più arcaiche; appartengono comunque a culture sviluppate,
anche se diverse dalle nostre. Quello che risulta veramente
interessante, dice Dal Lago, è tutto quello interno ai combattimenti
e
non
essi
stessi.
partecipazione
Bisogna
analizzare
l’organizzazione
e
la
che gli uomini costruiscono intorno a queste
competizioni, per poter dare un senso a questi fatti, e che, secondo
lui, sono l’unico modo per capire il rapporto tra elementi naturali e
110
culturali, anziché fossilizzarsi sui combattimenti stessi. Dal Lago dice
ancora che i combattimenti tra galli sono una forma “artistica” per
rendere
comprensibile
l’esperienza
comune,
quotidiana,
presentandola in termini ed azioni, le cui conseguenze pratiche
vengono rimosse, innalzate a livello di pure apparenze, dove il
significato può essere più fortemente articolato e più esattamente
percepito. In sintesi, il combattimento è veramente reale solo per i
galli. Il motivo per cui le persone, appartenenti a queste culture, si
divertono, è lo stesso che dona piacere a noi occidentali andando
allo stadio.
Emerge con evidenza come, di questi combattimenti, se ne da una
lettura esclusivamente sociologico-culturale. Ma questo rispecchia
un po’ l’atteggiamento di gran parte del mondo scientifico, che
sembra considerare questo fenomeno meramente
da
questo
punto di vista.
Nel prossimo paragrafo, voglio dare, per quanto possibile, un
quadro dell’attuale diffusione, concernete il fenomeno
dei
combattimenti tra e con animali, per poi trarre le mie conclusioni,
che si tradurranno in interrogativi e riflessioni.
111
3.2 “ La diffusione dei combattimenti nei vari territori e l’impatto
sulla società odierna.”
Resto ancora brevemente nel campo dei combattimenti tra galli.
Sono rimasto sorpreso di come questo sia un fenomeno ancora
oggi molto diffuso, e non solo in culture molto diverse e lontane
dalla nostra. Per esempio, troviamo che le competizioni tra galli
ancora vengono organizzati in alcune zone della Francia, della
Spagna, ma anche nel sud dell’Italia.
Si legge in un dispaccio
della LAV di Bari che il Codice Penale francese punisce, citando
testualmente “[…] il fatto, senza necessità, pubblicamente o non,
d’esercitare volontariamente dei maltrattamenti verso un animale
domestico con l’ ammenda […]” Sono però esclusi da questo
articolo proprio “i combattimenti fra polli, in quelle località dove si
è stabilita una tradizione ininterrotta”. Per questo motivo si possono
trovare tali combattimenti in Quebec, e nella stessa Francia, specie
nelle Fiandre, dove essi sono organizzati in maniera piuttosto
discreta,
essendo,
al
contrario,
proibite
tutte
le
forme
di
scommessa. La tradizione è talmente radicata che persino sui
giornalini scolastici si possono trovare interviste a ragazzi della
scuola che allevano polli da combattimento. In uno di essi, uno
studente parla dei suoi galli combattenti con una fierezza che sfiora
l’inverosimile. Si dice, comunque, preoccupato per la salute dei
suoi animali, e sebbene durante gli allenamenti li protegge con
“guantini
da boxe” calzati sulle zampe, precisa che durante i
combattimenti il becco e gli artigli vengono affilati affinché siano
più penetranti nella carne degli avversari. Non ha timore a
dichiarare che il suo “passatempo” procura molto denaro, ma lui
112
ammira i combattimenti solo perché in questo sport vige la legge
del più forte.
Ma, come detto, i combattimenti fra galli non sono estranei
nemmeno al “Bel Paese”. In alcune località del Sud Italia, infatti,
durante le sagre si ancora usa far combattere i galli.
Come si legge in articolo sul sito di “Sardegnanimalista”, dal titolo
“La Nuova Frontiera - Combattimenti tra Galli”, nel 2003, a Roma, è
stato scoperto e sequestrato un allevamento clandestino di galli da
combattimento. Sessantaquattro esemplari di razza bantam, una
razza molto aggressiva di origine orientale, portata in Italia per
alimentare il divertimento tradizionale della comunità filippina della
capitale. Nell’articolo viene ribadito che la lotta tra galli e' una
pratica particolarmente cruenta, applicando agli animali degli
uncini affilati come rasoi e infilando dei rostri nel becco. Nel
materiale rinvenuto dagli investigatori è stata trovata anche una
bottiglietta di sostanza dopante. Si legge ancora che l'operazione
ha sollevato un velo su un fenomeno che in passato era limitato a
pochi episodi. Risale al 1999 la scoperta, da parte delle forze di
polizia, di un'arena in cui era in corso un combattimento, alla
periferia di Mantova. Un altro episodio è datato febbraio 2002,
quando nel ragusano 15 giovani avevano organizzato una specie
di corrida tra galli.
Ho già accennato al fatto che in Indonesia, in particolare a Bali il
combattimento
dei
galli
è
fenomeno
molto
diffuso,
e,
sembrerebbe, anche di una certa importanza. Quello, però, che
mi ha sorpreso in modo ancor maggiore è il fatto che, per chi fosse
intenzionato a visitare luoghi di villeggiatura come Guadalupe o
Santo Domingo, e si vuole preventivamente informare sulle
attrazioni, trova , tra le altre, anche i tradizionali combattimenti dei
113
galli. In sostanza ne viene fatta pubblicità, come attrattiva,
indicando specificatamente le “galleras” di Santo Domingo ed i
giorni stabiliti per gli eventi.
Nella pubblicità per Guadalupe si
legge: “ [...] immergetevi nell’atmosfera di autentico foklore dei
“Pitts” o “gallodromi”, per assistere ai combattimenti dei galli, una
tradizione […]”.
È ovvio che, se tale informazione fosse percepita dalla pluralità dei
turisti
come
negativa
o
sconvolgente,
essa
risulterebbe
controproducente nell’incentivare il turismo, venendo, secondo
logica, eliminata dalla pubblicità. Il fatto che non sia così fa
riflettere. Non sarà che anche la nostra società, tanto sensibile al
benessere degli animali, faccia delle differenze tra animali e
animali (figli e figliastri). Potrebbe darsi che, avendo un diverso, a
volte nessun rapporto con questi volatili, viviamo il problema in
modo più distaccato. Questo è uno degli interrogativi che
approfondirò nelle conclusioni di questa tesi.
Passando dai bipedi ai quadrupedi, troviamo un’altra realtà
ancora presente e,
accettata
o
se non addirittura gradita, quantomeno
tollerata
dalla
maggioranza
della
comunità
occidentale. È la corrida di cui ho narrato in precedenza. Non
servono approfondimenti statistici per sostenere che molte persone
seguono questi eventi. C’è chi li denigra, ma senza riuscire a non
guardare, chi in modo “schifato”, almeno una volta, l’ha voluta
vedere, chi la segue sporadicamente, magari sperando che il toro
abbia le meglio (fatto che non cambia molto alla sostanza), e gli
“aficionados”, i tifosi della tauromachia.
Per questo tipo di maltrattamenti, ho potuto intuire non più di una
sorta di indignazione collettiva di circostanza, verificando l’esistenza
della meritoria opera di alcune associazioni, come la FLAC, che si
114
stanno impegnando nel farle abolire a livello legislativo. Se anche
venisse approvata una legge ad hoc, molto probabilmente non si
riuscirebbe
ad eliminare in modo definitivo questo problema, in
quanto anch’esso risulta alquanto radicato nella cultura di questi
popoli.
Abbandono questo fenomeno tutto europeo, per parlare
maltrattamento di
animali, tuttora attuali,
di
che riguardano i
combattimenti di cani contro altri grandi mammiferi in oriente. Da
una inchiesta della W.S.P.A. (World Society of Protecting Animal),
emerge che questa pratica è molto diffusa.
In un articolo di
Leonardo Gambatesa, sempre pubblicato sul sito LAV di Bari, si
legge che, nonostante le promesse dei vari governi, l’inchiesta
condotta dalla WSPA ha mostrato che queste barbarie perdurano.
In media, sono utilizzati dieci orsi durante gli 80-100 festival di
combattimenti che ogni anno si organizzano e ai quali partecipano
più di 2000 persone. Strappati dal proprio ambiente naturale, questi
orsi affrontano diversi cani per combattimenti che prevedono fino a
sei rounds. Gli orsi, però, sono incatenati, privati degli artigli e dei
denti, mentre i cani sono liberi di muoversi. Nonostante le ferite, gli
orsi devono continuare a “combattere” fino a tre volte al giorno,
potendo giungere a 300 combattimenti all’anno [vedi fig. 3.2].
Spesso i cani restano uccisi, colpiti dai potenti colpi di zampa degli
orsi. In alcuni stati, questi spettacoli crudeli sono proibiti dalla legge
ma la corruzione è talmente imperante che, a volte, sono gli stessi
poliziotti ad assicurare il servizio d’ordine e ad incassare il biglietto
d’entrata. Diverse
associazioni animaliste internazionali si battono
per far cessare questi spettacoli inutili e crudeli, ma non è facile
perché spesso costituiscono un grosso business.
115
Fig. 3.2, foto tratta dal sito www.sardegnanimalista.it
Torno ora al problema centrale, il combattimento tra cani. I numeri
sui casi di cinomachia accertati, forniti da ENPA e LAV, che
abbiamo consultato nel corso dello svolgimento di questa tesi,
fanno
comprendere che il fenomeno è ancora attuale e
soprattutto molto diffuso. Come gli stessi enti precisano, i numeri
sono da considerarsi in difetto, in quanto ci muoviamo nel campo
della clandestinità, e dunque una gran parte dei misfatti
avvengono nel totale anonimato, e quindi mai scoperti.
Se si considera, inoltre, che tale “hobby” è molto diffuso negli
ambienti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, è
facilmente immaginabile che questi
fenomeni si verifichino
restando per lo più sconosciuti, in quanto protetti dalla proverbiale
omertà.
116
Persino in una piccola città come la nostra, L’Aquila, nonostante si
fosse venuti a conoscenza, per via informale, di combattimenti
organizzati nelle zone limitrofe, non è stato possibile trovare
elementi sufficienti per arrivare ad una incriminazione. Nei rapporti
delle forze di polizia, che hanno indagato per circa un anno e
mezzo,
si
legge
dell’individuazione
di
alcuni
luoghi
dove
avvenivano i combattimenti, ma che i numerosi appostamenti non
avevano dato alcun esito.
Si trattava di containers,
rimorchi e
semirimorchi, chiusi, di trattori stradali dimessi e abbandonati nelle
campagne circostanti.
Essendo collocati in
qualsiasi movimento che potesse destare
zone scoperte,
sospetto faceva
desistere gli avventori dall’iniziare la competizione. Anche i controlli
presso gli allevamenti di cani delle razze maggiormente interessate,
per verificare negli animali eventuali danni o ferite riconducibili a
combattimenti, non hanno sortito alcun esito. Ho voluto portare
questo esempio, tratto da rapporti investigativi ai quali ho avuto
accesso, per dire che non è semplice individuare tali eventi e che,
anche per questa ragione, dobbiamo partire dal presupposto che
il fenomeno sia molto più diffuso di quanto non se ne sappia.
Questo per quanto concerne il fenomeno clandestino, ma basta
uscire poco fuori dai confini del nostro territorio nazionale per
trovare delle realtà dove tutto avviene ancora alla luce del giorno.
Michele Di Leva, Consigliere Nazionale dell’OIPA (Organizzazione
Internazionale per la Protezioni Animali), ha pubblicato un articolo
su quanto da lui accertato in Serbia. Dice che si tratta
di un
fenomeno ben radicato nel tessuto sociale e che da sempre
questa attività viene definita sportiva dagli”addetti ai lavori”.
Di Leva riferisce, che da sempre queste attività sono state presenti
in quella nazione e che gli incontri si svolgono in strutture di ogni
117
genere , persino negli stadi. Ha notato la
scarsa sensibilità nei
confronti di questi fenomeni sia in Serbia che in molti altri paesi
dell’est
europeo,
e
l’assenza
di
un
retaggio
culturale
di
protezionismo e tutela degli animali. Ancora oggi, in quei paesi, gli
animali sono considerati principalmente delle fonti di guadagno.
Nonostante in Serbia esista una legge che vieti i combattimenti,
punendo i trasgressori con pene detentive fino a sei mesi, il tutto si
svolge alla luce del giorno. Vista l’insensibilità diffusa verso le sorti
degli animali in genere, probabilmente la legge mira più
precisamente
ad
arginare
il
fenomeno
delle
scommesse
clandestine e le rappresaglie che ne potrebbero derivare. Un po’
come lo era il divieto di giocare alla “morra” nel nostro paese.
Di Leva, indica anche un sito internet, molto considerato
nell’ambiente, denominato “Yu Arena”, che fa spudoratamente
pubblicità
ai
cani
da
combattimento,
alla
selezione
ed
all’addestramento di essi. Lo stesso sito rende pubblico anche il
regolamento dei combattimenti, il “Cajun”, di cui abbiamo già
sentito parlare, consultando il Rapporto di Zoomafia della LAV.
Sembrerebbe che la legge serba non abbia elementi per poter
oscurare il sito. Anche in Serbia, come da noi, il fenomeno dei
combattimenti è spesso legato alla malavita, ulteriore elemento
che dissuade coloro che vorrebbero denunciare questi fatti .
Tornando all’Asia centro-occidentale, abbiamo testimonianze,
anche fotografiche, dei
Afghanistan [Fig. 3.3].
combattimenti
tra cani
a Kabul, in
Dalle immagini emerge chiaramente che
non si tratta affatto di combattimenti clandestini e che l’atmosfera
è la stessa che si percepisce nelle competizioni balinesi con i galli.
118
Fig.- 3.3., combattimento di cani a Kabul, tratto da una pubblicazione su internet
dell’articolo di A. Nicastro del 2002
Sembra un fatto radicato nella loro cultura, dove si nota una netta
dissociazione dalla sofferenza degli animali, come spiegava
il
Professor Dal Lago.
Andrea Nicastro, pubblica un articolo sul Corriere della Sera del 14
febbraio 2002, dal titolo “Kabul fa combattere i cani e tradisce il
Profeta”, riportando il pensiero del profeta Maometto: “ […] non
ha parlato dei combattimenti dei cani, ma nelle Profezie, però,
dice di non caricare troppo un cammello. Dice che essere crudeli
con gli animali va contro la volontà di Allah. Che le bestie al servizio
dell’uomo abbiano sempre da mangiare e che un bravo
mussulmano deve avere senno anche per loro. Se i suoi animali si
azzuffano, sia lui a dividerli. No, il Profeta non poteva proprio
approvare il sagjanghi , il combattimento dei cani.”
119
Il giornalista fa una minuta descrizione di come avvengono i fatti,
che io riporterò in modo molto più sintetico, ma sufficiente per farsi
una idea e trarre le conclusioni utili allo svolgimento di questa tesi.
Scrive Nicastro: <<Il comandante Janagha è il capo della piazza. È
lui a organizzare lo spettacolo. Stranieri che vogliono vedere?:
“Prego, siete miei ospiti. Sarà divertente, oggi si affrontano delle
buone fauci”. Janagha ha la passione del combattimento dei cani.
Li alleva, li addestra, li vende e li giudica. Nell’arena è un piccolo
Cesare, arbitro della vita e della morte degli animali. La folla ulula,
ride, tifa, rabbrividisce. Come in un colosseo, invoca pietà per un
combattente sconfitto ma coraggioso, oppure chiede sangue, la
battaglia sino al morso mortale. La decisione spetta a Janagha. Il
comandante non mostra il pollice ma agita uno sfollagente per
ordinare ai suoi uomini e ai proprietari dei combattenti di separarli o
di lasciarli azzannare ancora.
A Kabul viene usata una razza grossa, imponente, con esemplari
simili ai nostri molossi o ai maremmani. Sono bestie selezionate per
vivere al freddo delle montagne. Nell’arena di Company ( periferia
di Kabul, a mezz’ora dal centro della Capitale), i cani hanno nomi
come “Lanciarazzi”, “Tuono”, “Mitra” e servono a far divertire un
pubblico pieno di bambini, ma già assuefatto alla violenza e alla
morte. “Un buon esemplare - spiega Shafiq, uno degli aiutanti
armati del comandante,
- vale un manzo o due asini vecchi”,
l’equivalente di cento euro.>>
Dai termini usati dal giornalista e dalla descrizione del contesto
della manifestazione, emergono numerosissime similitudini tra quello
che avveniva ai tempi dei romani e tra quanto avviene ancor oggi
in alcune zone del nostro pianeta.
120
Salta, anche qui, all’occhio come la prospettiva antropologica di
una ragione
socio-culturale sia preponderante rispetto al fatto
crudele in sé.
Tornando, invece, “tra le mura di casa”, ritengo importante parlare
di un altro fenomeno che sfugge alla lettura e alla considerazione
dei mass media e delle associazioni animalisti. Un fenomeno più
nascosto, non facilmente individuabile,
che riguarda sempre il
rapporto di noi occidentali con i cani.
Solo chi vive in determinati contesti ne prende consapevolezza. Sto
parlando dei combattimenti
spontanei tra cani, ma fortemente
incentivati dall’uomo. Occupandomi da anni di allevamento ed
esposizioni cinofile, trascorrendo una gran parte del mio tempo in
questi ambienti, ho avuto modo di notare che spesso possessori di
cani particolarmente possenti o agguerriti, tendono a sollecitare
dei combattimenti spontanei. Si tratta di nulla di organizzato e non
c’entrano neanche questioni di scommesse. Il fatto nasce, come
abbiamo visto attraverso gli
studi sul narcisismo patologico, dal
desiderio di supremazia del proprio cane sull’altro, con l’evidente
esigenza, del padrone, di potersi rispecchiare nella potenza del
proprio animale, cadendo in quella forma di scissione della
personalità, individuata come identificazione proiettiva.
Il fatto di far finta di trattenere il proprio cane, che diviene invece
una forma “celata” per aizzarlo, facendoselo sfuggire al momento
opportuno, è una tecnica consolidata in molti dei possessori di cani
particolarmente combattivi.
Altre volte, invece, il combattimento viene deciso dai due
proprietari, in accordo tra loro, semplicemente sganciando ognuno
il proprio cane dal guinzaglio, per verificare quale sia il più forte.
121
Nell’ambiente della pastorizia, per esempio,
che frequento in
modo assiduo proprio a causa della mia passione per i cani da
pastore abruzzese, ho spesso potuto notare un fatto che, a suo
modo, rientra anch’esso nella sollecitazione di combattimenti
“spontanei”. Quando le greggi pascolano allo stato brado, seguite
e protette dal proprio branco di cani, spesso alcune pecore con i
loro cani si inoltrano in territori
già utilizzati da altro gregge.
In
questo modo non di rado si scontrano i diversi branchi di cani che
ingaggiano delle lotte. Ancor maggiore è la frequenza di questi
scontri quando le greggi la sera rientrano negli stazzi attigui, che si
possono scorgere sugli altopiani delle nostre montagne. Non mi è
mai capitato di vedere un pastore aizzare uno dei propri cani verso
quelli dell’altro pastore, ma altrettanto non li ho mai visti tentare di
separarli, tanto meno di preoccuparsi della loro incolumità. Al
contrario, spesso il fatto viene seguito con un certo interesse e solo
qualche rara volta, uno di loro fa qualche modesto tentativo di farli
desistere. Solitamente si tratta del pastore che teme che il proprio
cane possa soccombere. In sostanza, si nota nei pastori, con molta
evidenza, una certa rivalità anche nel possedere i cani migliori, non
solo le pecore più selezionate, più grasse e quant’altro. Ricordo che
due famiglie di pastori non si sono parlate per un ventennio a causa
delle liti riguardo chi possedesse la migliore muta di cani.
Questo ci fa comprendere quanta importanza un tale fatto può
rappresentare per persone che vivono in un determinato ambiente
e contesto culturale.
Ritengo
necessario
combattimenti
far
notare
“spontanei”
ma
che
nelle
varie
incentivati,
che
ipotesi
ho
di
qui
rappresentato, vengono meno le sevizie attraverso estenuanti
allenamenti, i sistemi di condizionamento e l’uso degli psicofarmaci.
122
Inoltre, non si verifica mai la morte di uno dei combattenti, e
solitamente le ferite non sono gravi. L’esito meno cruento di questi
combattimenti “naturali” è dovuto sia all’etologica predisposizione,
conservata nei cani non fatti oggetto della mirata selezione di
“Gameness”, a
comunicare la propria sconfitta con gesti di
sottomissione, sia al fatto che in mancanza di un epilogo secondo
natura, intervengono i proprietari comunque “affezionati” ai loro
cani.
Abbiamo dunque visto, nei due paragrafi di questo capitolo, che i
combattimenti organizzati con, e tra, animali sono una cosa molto
radicata nella cultura umana. Troviamo le prima tracce già nei
secoli precedenti all’anno zero. La loro evoluzione e le rispettive
varianti hanno tramandato questi “costumi” attraverso i millenni
successivi, sino ai nostri giorni.
Si è visto anche che le origini sono inscindibili
antropologico,
da un discorso
che lega questi fatti ad elementi sociologico-
culturali. Inoltre, il fenomeno perdura ancor oggi, esplicitandosi in
modo quasi naturale in alcune culture, mentre continua ad essere
perpetuato in forma clandestina in quei territori le cui culture si
professano più evolute.
Troviamo, inoltre, forme più evidenti e
forme più celate, sistemi e metodi più cruenti
ed altri meno
drammatici.
Prima di passare al capitolo successivo, per tentare una analisi del
fenomeno, voglio evidenziare una particolarità che ho notato
navigando su internet per trovare materiale inerente la mia tesi.
Si tratta del sito di una associazione denominata “Collegium
Gladatorium” . Si legge, tra le altre informazioni concernenti
la
storia dei gladiatori dell’antica Roma, in riferimento a degli
spettacoli organizzati da questa associazione: “… ricrea le antiche
123
tradizioni rispettando gli usi e costumi dell’epoca. Durante i nostri
spettacoli ricreiamo l’atmosfera magnifica e spietata ( da me
evidenziato) delle arene, gli spettatori possono dilettarsi a guardare
esperti guerrieri che combattono con forza immensa l’uno contro
l’altro [….] Naturalmente durante gli spettacoli non scorre sangue
poiché gli opponenti badano all’incolumità altrui…”
Questo, credo, sia un esempio lampante di come ci si riesca a
dissociare dal fatto in sé, che invece costituiva massacro, crudeltà
e indifferenza per la vita umana, per coglierne esclusivamente la
parte storico-culturale.
Nel prossimo capitolo, cercherò di individuare da cosa nasce
questa forma
di dissociazione
dall’evento come tale, che
consente di coglierne solo la parte appagante.
124
Conclusioni
“ Studiare ed interpretare la storia, cosa può suggerire
per migliorare il futuro?”
In quest’ultimo capitolo, traggo le conclusioni di quanto
si è
palesato alla mia comprensione. Sono riuscito, per intanto ad
individuare due elementi fondamentali.
Bisogna discernere tra la componente antropologica, che porta la
società e le diverse culture ad utilizzare i combattimenti fra animali
come mezzo di comunicazione sociale, e la componente della
personalità deviata a causa di una patologia della psiche, che
trova godimento nel creare ed osservare crudeltà sugli animali.
Ho, nella parte centrale della tesi, accennato ai problemi di
personalità che possono intervenire nelle persone che mostrano
particolare crudeltà verso gli animali. Al fatto che le frustrazioni ed
umiliazioni, accumulate nell’età evolutiva, collegate ad una forma
grave di personalità deviata, come per esempio il “Sé grandioso
patologico”, a sua volta, frutto di uno sviluppo incompleto della
personalità (oppure, secondo Kernberg, dello
sviluppo di una
personalità già patologia all’origine), possono generare dei veri
mostri.
Moltissimi sono gli studi contemporanei che si riferiscono alla
educazione e crescita del bambino in relazione all’emergere delle
diverse personalità patologiche. Troviamo uno studio approfondito
sui sintomi nei bambini che danno indicazione di una futura
predisposizione alla violenza,
nel capitolo della “gestione nel
dipartimento d’emergenza del paziente che ha subito violenza
125
fisica e/o psicologica”, nel libro di PALERMO G. B., PALERMO M. T.,
VILLANOVA
M.,
intitolato
“Psichiatria
d'emergenza”
Edizioni
Essebiemme Noceto (Pr), 2001.
Credo che sia giusto collocare le origini di certi fenomeni
particolarmente cruenti, riferendomi appunto anche quelli nei
confronti degli animali, nel medesimo contesto patologico degli
altri criminali violenti. Non a caso, è emerso che il fenomeno dei
combattimenti tra cani è particolarmente diffuso negli ambienti
criminali
e
nelle
organizzazioni
delinquenziali
di
notevole
spietatezza. Per cui, se consideriamo l’attitudine a cimentarsi in
queste competizioni, che prevedono sevizie ed infine
la morte
degli animali, frutto di una personalità patologica, una eventuale
forma di prevenzione si inserisce in un contesto particolarmente
ampio e complesso, che trova una collocazione al di fuori dalla
competenza di questa tesi, e più precisamente clinica.
Per
quanto,
invece,
riguarda
l’aspetto
interviene nel rapporto uomo – animale
antropologico,
che
e che abbiamo visto
mutare nei tempi e con le culture, ritengo possibile proporre una
riflessione che può tornare utile alla comprensione del fenomeno,
portando anche ad ipotizzare delle forme di prevenzione.
Prevenzione intesa come incremento di una predisposizione diversa
nel rapportarsi con gli animali.
Queste riflessioni scaturiscono da una lettura complessiva e dalla
concatenazione degli elementi emersi, durante l’elaborazione di
questa tesi.
Gli studi etologici ci hanno insegnato che l’aggressività è anche il
motore primo che conduce a vincoli più intimi tra gli esseri.
L’Amicizia e l’affetto traggono la loro origine da forme di
126
aggressività
ridiretta e ritualizzata.
La ritualizzazione degli
atteggiamenti aggressivi diviene così forma di comunicazione.
Come già descritto precedentemente,
Lorenz
spiega come la
cerimonia di pacificazione nelle anatine, chiamata da Heinroth
“Giubilo Trionfale”, non sia
altro che un attacco inibito,
successivamente
Questo
ritualizzato.
atteggiamento
viene
perpetuato proprio al fine di creare un rapporto stabile con la
compagna. In alcune specie di oche cenerine, la cerimonia del
“giubilo trionfale”, non riguarda solo le coppie ma diviene un
vincolo che tiene unito tutto il gruppo.
Lorenz suppone che la risata dell’uomo, nella sua forma originaria,
fosse una sorta di pacificazione nel saluto. Il sorriso di saluto, come
la cerimonia di pacificazione nel giubilo trionfale, trova diverse
analogie nella ritualizzazione di una minaccia ridiretta. Infatti,
deridere chi viene escluso dal proprio gruppo diviene una forma di
aggressività,
mentre
il
sorriso
di
saluto
è
una
forma
di
comunicazione che avvicina e crea un vincolo.
Ho voluto tornare su questo argomento perché ritengo che la
comunicazione sia fondamentale per creare un vincolo affettivo
anche tra uomo e animale. È proprio il
maggiore
considerazione
dell’altro,
per
vincolo che crea una
cui
una
maggiore
condivisione della sofferenza.
Vediamo, allora, che senza comunicazione non è possibile il crearsi
d’un vincolo affettivo e senza il vincolo non può sorgere
considerazione e condivisione.
Secondo la
percezione collettiva di noi occidentali, la crudeltà
verso un cane suscita maggiore sgomento della crudeltà verso un
pollo. Allo stesso modo, ci si scandalizza più per un maltrattamento
verso un coniglio che non verso un topo.
127
James Serpell, nel suo libro “in the company of animals”, inizia il
primo capitolo, che parla delle origini nell’addomesticazione degli
animali, con una citazione di George Orwell:
“All animals are
equal, but some animals are more equal than others” (Tutti gli
animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri), tratta dal
libro “The Animal Farm”.
Mentre Orwell, nel suo libro, fa una traslazione dei comportamenti
della società umana sugli animali, Serpell lo intende invece come
differenza percepita ed attuata dagli uomini verso gli animali. Fatto
che nasce da un rapporto diversificato in termini quantitativi e
qualitativi, tra l’uomo e le diverse specie.
Per comprendere meglio alcune differenze evidenti, mi sono posto
le seguenti domande. Che tipo di sgomento può creare l’uccisione
di una mosca o di una formica? Perché lo sport della pesca non è
biasimato come quello della caccia?
Questi sono alcuni degli interrogativi che mi sono posto,
e la
risposta che si è palesata alla mia evidenza si concretizza nella
differenza che vige nei rapporti tra l’uomo e i diversi animali.
Sia nel singolo, che a livello collettivo, il rapporto uomo-cane è
diverso dal rapporto uomo-topo o uomo- pesce. Questa diversità
di rapporto, dunque, da cosa nasce? È evidente che sono la
naturale conseguenza dei diversi livelli di comunicazione che
intercorrono tra l’uomo e le rispettive specie di animali.
Con i cani riusciamo a comunicare, riusciamo a comprenderli e ad
individuare il senso dei loro gesti e della loro mimica. Intuiamo il loro
stato d’animo, condividendo così la loro sofferenza. Altrettanto
non avviene, ahimè, con il pesciolino rosso del nostro acquario.
128
Esiste un centro studi, in America, che conferma l’esistenza di
questa differenziazione nel rapportarsi con le specie diverse,
operando delle classificazione.
Il centro per l'interazione degli animali e della società (CIAS) è un
centro di ricerca pluri-disciplinare, all'interno della scuola di
medicina veterinaria all'università de Pensylvania. L’obiettivo del
CIAS è di promuovere la comprensione delle interazioni e dei
rapporti “uomo-animale”, attraverso una vasta gamma di contesti,
che comprendono gli animali da compagnia, gli animali da
fattoria, gli animali da laboratorio, gli animali del giardino zoologico
e gli animali selvatici.
Anche nel citato libro di Serpell si affronta la contrapposizione tra
l’amore verso alcuni animali e lo sfruttamento di altri, attribuendolo
sempre all’istaurarsi di rapporti interspecifici differenziati, dovuti ai
diversi livelli di comunicazione.
Questa differenza, dovuta ai differenti livelli di comunicazione,
emerge anche nei rapporti individuali con animali appartenenti
alla stessa specie.
Il coniglietto che teniamo in casa, con il quale si instaura
comunque una forma di comunicazione, se anche limitata a
sguardi, carezze e gesti finalizzati alla nutrizione, avrà senz’altro
un’altra considerazione rispetto a quello portato in tavola al
ristorante.
La differenza non nasce dal semplice fatto di convivenza, perché
conviviamo anche con ragni, mosche, topi di campagna, animali
da cortile e d’allevamento, con i quali non si instaura lo stesso
legame affettivo, proprio a causa dell’assenza di una attività
comunicativa interspecifica.
129
Quando ci troviamo di fronte all’assenza di comunicazione
(interscambio di messaggi), non comprendendo l’altro, esso viene
tenuto a distanza, impedendo un rapporto affettivo.
Come suggerito da Serpell, questa forma di comunicazione tra
uomo e animale la troviamo a diversi livelli, sia per qualità che per
quantità.
Esiste una differenza nel rapporto comunicativo tra un animale di
una specie con cui si condivide lo spazio di vita (convivenza) ed un
altro della stessa specie allo stato selvatico.
Troviamo una
capacità intercomunicativa diversa tra specie diverse, come esiste
anche una evoluzione nel tempo della capacità comunicativa tra
l’animale e l’uomo. Alludo, per esempio, all’evoluzione che c’è
stata nel rapporto uomo-cane.
Anna Morandi, in un articolo pubblicato su “CiaoPet”, scrive: “ È
noto a tutti come agli albori dell’amicizia uomo-cane ci siano fattori
documentati dalle testimonianze fossili Il canide si avvicina agli
agglomerati umani alla ricerca di cibo e non è chiaro se fu l’uomo
ad accudire i cuccioli meno aggressivi, oppure i canidi stessi
adottarono il proprio “padrone” con la loro tenace vicinanza.
Certo è che la vicinanza all'uomo avvenne con il ruolo di spazzino
dei rifiuti umani da parte del lupo-canide. Da quell’inizio, forse poco
poetico, del resto comune alla storia della domesticazione degli
animali vicini all’uomo, si intrecciano infiniti legami che portano il
cane
a
condurre,
come
scrive
il
biologo
James
Serpell,
“un’esistenza precaria in quella terra di nessuno che sta fra l’umano
e il non umano… né persona né bestia”. Il cane è dunque divenuto
questo, un compagno cui l’uomo attribuisce infinite comunanze di
sentire e di manifestare.”
130
Nel testo di Zooantropologia di TONUTTI e MARCHESINI (1999), sul
rapporto uomo- animale nella prospettiva antropologica, emerge
come ci sia stata una evoluzione negli anni di questo rapporto.
L’evoluzione è evidentemente strettamente legata al crescente
uso
che
l’uomo
ha
fatto
degli
animali,
e
all’incremento
comunicativo consequenziale.
Per fare un esempio, prima gli sciacalli venivano scacciati in quanto
si aveva timore nei loro confronti. Dopo vennero tollerati fino ad
essere graditi, in quanto costituivano un campanello d’allarme per
eventuali pericoli. Successivamente vennero usati per collaborare
nella caccia. Divennero cani da guardia e infine hanno assunto lo
status di compagno di vita, sostituendo, in casi estremi, la presenza
di un partner o di un figlio. È evidente come il rapporto e quindi la
considerazione da parte dell’uomo per questo animale sia
cambiata e come questo sia cresciuta proporzionalmente alla
capacità comunicativa tra l’uomo e l’animale.
Troviamo un esempio, del mutare dei rapporti uomo-cane,
nell’articolo
di
Barbara
Gallicchio,
pubblicato
sul
sito
dell’Associazione di Studi Etologioci e Tutela della Relazione con gli
Animali (ASETRA), dove parla dei “Pastori Chiribaya”, una razza di
cani preincaici.
Gli scavi archeologici in alcune valli nel sud del Perù, nell’ambito
degli studi sulla popolazione di etnia Chiribaya, hanno permesso di
ritrovare un’ottantina di cani, risalenti al periodo a cavallo
dell’anno 1.000 d.c., sepolti nei cimiteri umani, in tombe proprie,
mummificati dal clima secco e
desertico. L’antropologa Sonia
Guillen, Direttore del Centro Mallqui - Fondazione Bioantropologica
del Perù, ha studiato il peculiare rapporto che si era creato fra i
131
Chiribaya e i loro cani. Si tratta di un fatto unico nell’America preColombiana, che
questi animali non venissero sacrificati, ma
ritrovati nelle tombe, avvolti in copertine lavorate e accompagnati
nel viaggio ultraterreno da cibo e regali. Secondo Guillen, i cani si
erano guadagnati rispetto e affetto, servendo come abili pastori
per la conduzione dei lama, fonte di sostentamento per quelle
piccole comunità. Ancora oggi vivono cani dello stesso tipo in
quelle regioni, che sembrerebbero essere discendenti di questa
antica razza autoctona del Perù.
È interessante notare che i cani vissuti in quell’epoca, nel resto
dell’America del Centro-Sud, non abbiano goduto affatto di simili
attenzioni. Per oltre duemila anni, i cani dei villaggi sono stati
considerati primariamente come fonte di un pasto proteico. Studi
sull’alimentazione di queste popolazioni dimostrano che almeno il
10% delle proteine proveniva da cani e, presumibilmente, erano
allevati a tale scopo. Un’altra funzione era quella religiosa, che ne
prevedeva il sacrificio in molte occasioni.
La giornalista Gallicchio termina il suo articolo, che ho qui
brevemente riassunto, con una frase importante che voglio citare
per intero: “ Alla luce di tali conoscenze antropologiche, le
scoperte sui Chiribaya e le testimonianze della nascita di una
relazione intima interspecifica nello stesso periodo storico, sono
ancora più affascinanti.”
Ritengo che questa affermazione calzi perfettamente riguardo la
teoria dell’incremento della capacità comunicativa interspecifica
ed il vincolo d’intimità che attraverso essa accresce.
Per avere, quel popolo, compreso che questi cani fossero idonei a
quel tipo di lavoro, dovevano averli osservati e compreso le loro
132
manifestazioni e attitudini, socializzando con loro ed istruendoli.
Questo incremento comunicativo e di reciproca comprensione ha
solidificato il vincolo tra loro che, a sua volta, ha innalzato la stima e
considerazione dei Chiribaya verso questo animale, al punto da
riservargli le onorificenze funebri su descritte.
Come ho inizialmente accennato, un’altra differenza di livello
comunicativo, emerge nei rapporti con animali di specie diversa.
È più facile comprendere le espressioni ed i gesti di un cane o di un
gatto, che non quelli di una gallina o addirittura di un pesce. Basti
che ognuno di noi faccia una breve e semplice introspezione per
accorgersi che, nella lettura di uno sguardo o di un gesto del nostro
animale domestico, rileviamo dei sentimenti umani che proiettiamo
nell’animali, percependoli come suoi. Una tipica affermazione nel
lasciare il cane in casa è: “è triste perché usciamo senza di lui”.
La stessa affermazione, invece, non viene spontanea nei confronti
del canarino che saltella nella sua gabbia.
Questa incapacità di comprendere le informazioni che possono
trasmette il comportamento del canarino, ci da la sensazione che
non provi sentimenti simili a quelli che ci sembra di riconoscere nel
cane. Ma indipendentemente dal fatto che l’uccello provi o meno
emozioni simili a quelli che scorgiamo nel cane, ovviamente
dipendenti esclusivamente dallo sviluppo evolutivo di quella razza
di uccelli, poco o nulla importa, in quanto è quello che
percepiamo ciò che determina di fatto il nostro rapporto con lui.
A questo proposito voglio portare una mia esperienza personale.
Ero un ragazzino e vivevo con i miei in Germania. I nostri ritmi di vita
e alcune considerazioni
di mio padre non mi consentivano di
placare il mio desiderio di avere un cane. Così mi sono dovuto
consolare
con
un
pappagallino
di
una
razza
chiamata
133
“Calopsitte”; si contraddistingue per la cresta gialla, due macchie
circolari di colore arancione sulle guance, ed è poco più grande
del più conosciuto Cocorita. Lo tenevo in una gabbia nella mia
stanza, ma quando ero in casa la porticina era sempre aperta ed
era libero di svolazzare in giro. Ricordo che mi faceva compagnia
quando facevo i compiti, girando per la scrivania e sottraendomi le
penne.
Quando mi sentiva rientrare da scuola gracchiava a
squarciagola.
Capitò che partii per una gita scolastica di una
decina di giorni, raccomandando a mia madre di farlo uscire dalla
gabbia, di tanto in tanto. Quando tornai dalla gita, non appena
varcai la porta di casa, sentii il solito gracchio di saluto del mio
pappagallino, ma esternato in modo esagerato. Mia madre mi riferì
che era la prima volta che si fosse fatto sentire dal giorno della mia
partenza e che non era più uscito dalla sua gabbia, con tutto che
la porticina fosse rimasta sempre aperta.
Ovviamente, quando
morì ne soffrii tantissimo, mentre invece la morte di uno dei tanti
uccelli di varia specie e razza, che mio padre teneva nelle sue
voliere in giardino, non mi hanno mai toccato più di tanto.
Credo che anche qui emerga come il rapporto si sia consolidato
attraverso una forma di comunicazione interspecifica, in questo
caso appunto con un uccello.
Per parlare di animali ancora meno “capiti”, negli interrogativi che
mi
sono
posto
poco
prima,
ho
accennato
alla
scarsa
considerazione che abbiamo per gli insetti, con cui condividiamo
quotidianamente lo spazio di vita.
La mancanza di capacità
comunicativa interspecifica non ci consente di percepire in loro
delle emozioni. Deducendo, quindi, che non ne abbiano, non vi è
nulla da condividere. Recenti studi di neuroscienza, valutati con le
cautele del caso, sembrano invece dimostrare il contrario.
134
In un articolo di Isabella Lattes Coifmann, pubblicato sul sito
oltrelaspecie.org, si legge che dei ricercatori americani sono riusciti
a fare l’elettroencefalogramma al moscerino, scoprendo che è
capace di attenzione e che ha reazioni emotive e memoria. Negli
ultimi decenni, sulla psiche degli animali sono caduti molti tabù,
anche nel caso degli insetti, ritenuti tradizionalmente poco più che
“automi naturali”. Per esempio Howard Nash, del National Institutes
of Health di Bethesda nel Maryland, che si occupa di anestesia,
studiando i moscerini della frutta, ha fatto tesoro del metodo di
indagine sulla psiche di questi piccoli insetti, messo a punto
recentemente da altri due ricercatori, Ralph Greenspan e Bruno
van Swinderen. Questi studiosi, lavorando al Neurosciences Institute
di San Diego in California,
Scientist», di essere
hanno pubblicato nella rivista «New
riusciti a fare l’elettroencefalogramma a un
moscerino della frutta,
con l’aiuto di un micromanipolatore,
piazzato su un minuscolo elettrodo nel cervello di uno di questi
insetti, proprio nel punto in cui arrivano le informazioni sensoriali e si
attiva la memoria. L’elettrodo utilizzato era grande quasi come la
testa del moscerino, ma l’EEG funzionava e dava un tracciato
incredibilmente simile a quello degli animali superiori, e dell’uomo. È
stato rilevato, ad esempio, lo stato di sonno. Ma i ricercatori si sono
spinti oltre. Essi hanno messo l’insetto in uno schermo a cristalli liquidi
di forma cilindrica, entro il quale ruotava una striscia di luce verde.
Ogni volta che la vedeva, l’insetto era attratto dalla striscia
luminosa, e il suo cervello emetteva particolari onde comprese fra i
20 e i 30 hertz, che gli studiosi, per non parlare di vera e propria
coscienza,
definiscono
“segnale
di rilevanza”. Il
segnale
si
attenuava via via che l’insetto si abituava alla presenza della luce,
ma tornava forte se si mostrava alla mosca una seconda striscia
135
luminosa insieme con la prima. Inoltre, se al segnale veniva
associato un evento sgradito, per esempio l’esposizione al calore,
l’attenzione ritornava. Del resto già si sapeva che i moscerini della
frutta imparano come il cane di Pavlov. Amano l’odore delle
pesche, ma se all’odore viene associato uno stimolo doloroso
imparano a stare alla larga dalle pesche. La tecnica di Greenspan
e van Swinderen ha però il pregio di “leggere” direttamente nel
cervello,
senza
doversi
affidare
all’interpretazione
dei
comportamenti, che potrebbe risultare ambigua. Si è visto così che
nelle situazioni di attenzione i segnali raccolti da tre diverse regioni
cerebrali, che normalmente sono diversi fra loro, diventano
perfettamente sincroni, proprio come avviene nel cervello umano
quando si instaura l’attenzione. Infatti, la scienza ha dimostrato
come la coscienza, diversamente da altre funzioni, non ha una
localizzazione definita nella massa cerebrale ma consista nella
connessione fra regioni diverse, anche lontane. I ricercatori,
nonostante
abbiano
trovato
molte
altre
analogie
con
il
funzionamenti dei cervelli di specie più evolute, si guardano bene
a non antropomorfizzare il risultato delle loro indagini, ed evitano il
termine coscienza nella sua accezione più completa. Non parlano
di
flusso
di
coscienza,
ma
di
flusso
di
attenzione.
Le somiglianze sono però inquietanti, se si pensa che il cervello di
una mosca della frutta contiene 250.000 neuroni, contro i 100
miliardi dell’uomo. È prematuro dire se, per esempio, offrendo due
stimoli diversi e vedendo quale scelgono, si possa intuire una scelta
consapevole, o se la mosca è in grado di imparare. Dei ricercatori
sono riusciti, però, ad insegnare alle api a scegliere i percorsi giusti,
marcandoli con odori o colori. Le api sembrano capaci di
apprendere i concetti di uguale e diverso. Nel caso del moscerino,
136
grazie alla rapidità con cui le generazioni si susseguono, gli
scienziati sperano di poter identificare i geni coinvolti nelle funzioni
cerebrali quali l’apprendimento e la memoria.
Queste ricerche ci dimostrano che la differenza nei rapporti
interspecifici non dipendono affatto dall’effettiva capacità del
singolo essere di produrre emozioni, ma esclusivamente dalla
reciproca capacità di decodificarli.
Altri fatti che dimostrano come cambi il rapporto uomo-animale,
attraverso una migliore conoscenza, l’uno dell’altro, si verificano
nelle realtà domestiche semi agresti. Ai bordi delle città troviamo
spesso dei nuclei familiari che, avendo a disposizione un po’ di
terreno, limitrofo alle loro abitazioni, condividono lo spazio di vita
con una serie di animali domestici (cani e gatti), ma anche animali
da cortile e qualche esemplare d’allevamento, come ovini, suini e
bovini. Gli adulti, provenendo spesso da famiglie agricole, allevano
puntualmente qualche agnello o vitello per la macellazione, come
era uso e costume nella loro infanzia. Capita di sovente che i loro
figli, invece, crescano instaurando un rapporto diverso con questi
“cuccioli”, giocandoci, nutrendoli e portandoli a spasso. Questo
porta solitamente al fatto che si oppongono fermamente
macellazione del loro compagno di gioco, o
alla
che si rifiutano di
mangiarlo, se non sono riusciti ad evitare il tragico epilogo. Altre
volte porta al rifiuto permanente di mangiare carne di quella
specie di animale, mentre invece continuano a mangiare carni di
altro genere.
In casi estremi, esperienze di questo genere possono anche portare
a diventare vegetariani.
137
Troviamo anche qui una dimostrazione di come la comunicazione
interspecifica
crei
un
vincolo
affettivo,
che
fa
mutare
la
considerazione verso un essere vivente di tutt’altra specie.
Abbiamo visto, anche attraverso questi esempi, che i livelli di
comunicazione possono essere diversi e spaziano da una forma di
tipo individuale a delle forme collettive,
generalizzate. Intendo,
per esempio, la considerazione che i cani si sono guadagnati in noi
occidentali in senso generale, il posto apicale che questo animale,
secondo una scala dei valori “zoologica”, si è conquistato nella
coscienza collettiva di noi occidentali. Oggi non necessita
possedere un cane per scandalizzarsi di maltrattamenti nei suoi
confronti.
Basti pensare che siamo giunti a cercare ogni tipo di soluzione per
evitare l’abbattimento sin’anche dei cani risultati accertatamente
pericolosi. Infatti, sono nati i primi centri di recupero per i cani
particolarmente aggressivi e pericolosi, come si legge in un
dispaccio dell’ENPA di Trieste che parla della “Missione Salvataggio
Argo”. Argo è uno Sarplaninac (cane pastore dei Balcani di taglia
grande), divenuto inavvicinabile e salvato dalla soppressione
attraverso l’inoltro in un centro specializzato nella riabilitazione
psicologica dei cani da combattimento, che si trova in Piemonte.
Che nella società si instauri un determinato sentimento collettivo di
solidarietà, più verso determinati animali che non verso altri,
emerge anche dagli interventi dei mass media e dalle associazioni
animaliste, che danno maggior risalto ed intervengono più
incisivamente per alcuni fatti, coinvolgenti determinati animali, che
non per altri.
138
Il sentimento, o la considerazione collettiva, è soggetta allo stadio
di evoluzione nel rapporto uomo-cane, che da noi ha raggiunto un
determinato livello, mentre nell’Asia centrale il cane viene tuttora
usato come animale-gladiatore; allo stesso tempo,
in alcune
regioni dell’oriente, esso è ancora considerato cibo.
Emerge
che, con l’evoluzione delle culture, evolve anche il
rapporto uomo – animale in generale
e che il tutto passa
attraverso una migliore reciproca conoscenza e comprensione,
che a sua volta è frutto di una maggiore capacità comunicativa
interspecifica.
Questa teoria trova sostegno nell’interpretazioni che l’antropologo
Roberto Marchesini
da nel suo libro “Il postumanesimo” [2002],
riguardo la necessità di una revisione nella considerazione del
rapporto uomo-animale.
Marchesini sostiene la teoria della zoomimesi, che considera una
vera e propria rivoluzione in grado di modificare, attraverso il
confronto e
l’ibridazione, i nostri apparati percettivi, operativi e
cognitivi. Secondo Marchesini, gli elementi della zoomimesi sono a)
il confronto: mettere in rapporto le proprie prestazioni con quelle
dell'alterità
animale;
b)
il
dialogo:
cercare
forme
di
complementarità fra le proprie performance e quelle dell'alterità
animale; c) la partnership: costruire sinergie tra il proprio repertorio
performativo e quello dell'alterità animale. Marchesini riporta anche
la tesi del già citato James Serpell, secondo il quale la zootropia si
spiega in virtù del fatto che «l'uomo risponde ai segnali giovanili
della propria specie attraverso un comportamento di cure
parentali; se altre specie presentano gli stessi o analoghi stimoli
chiave, ecco che nasce un comportamento leggibile come
zootropia». Da qui il termine di “adozione transpecifica” che, pur
139
presente anche presso altre specie, raggiunge nella specie umana
la sua massima espressione.
Marchesini, pur esprimendo un concetto di maggiore ampiezza
con un approccio di tipo filosofico, emerge con chiarezza che ciò
che fa mutare il rapporto uomo-animale è il dialogo e la
comunicazione interspecifica in senso più esteso.
Mi permetto, a questo punto, di azzardare una ipotesi utile ad
incrementare
interspecifica e
l’evoluzione
a migliorare
nella
capacità
comunicativa
le prospettive per un futuro più
rispettoso nei confronti degli animali.
L’essere
umano impara dal
giorno della nascita
a
dover
comunicare e sappiamo che l’apprendimento è fondamentale per
l’evoluzione di qualsiasi specie. Noi evidentemente lo riteniamo
importantissimo per la nostra, iniziando con la formazione dagli asilinido per giungere, attraverso scuola e università, fino ai master, al
fine di migliorarci ulteriormente.
Purtroppo questo concetto sembrerebbe avere delle finalità
espressamente egocentriche, volte all’accrescimento di noi stessi
come individui e non nel rapporto con gli altri. Tanto meno esiste
una vera consapevolezza di poter, o dover, crescere anche nei
rapporti interspecifici.
Oggi, molto si parla della Pet Teraphy, che è basata sempre sul
contatto con gli animali e quindi su una forma di comunicazione.
Ma il concetto di base è sempre quello di trarne un’utilità per
l’uomo e non quello di capire l’animale, interagendo nell’interesse
di ambedue.
Forse potrebbe essere utile inserire, già nei primi anni di scuola,
l’insegnamento
del
comportamento
animale,
incentivando
contatti diretti con specie diverse del mondo animale.
La
140
comprensione dei comportamenti negli animali diminuisce le paure
e aumenta
la capacità comunicativa, che a sua volta,
incrementa la considerazione nei confronti di quegli esseri, prima
estranei. L’inserimento di un approccio didattico di tipo etologico,
tornerebbe utile, in modo particolare,
nelle culture
meno o
diversamente evolute.
Magari, questa mia ipotesi lambisce solo minimamente
la
complessità del problema, ma sarebbe sufficiente se potesse
costituire un utile spunto di riflessione.
Uno momento di riflessione come quello che mi ha suscitato la
lettura della frase con cui voglio chiudere questa tesi, usando le
parole dell’Animalista Franco Libero Manco: “[…] è tempo di
superare la mentalità antropocentrica che inclina gli uomini alla
logica della sopraffazione del più debole. È tempo di superare la
distinzione tra sofferenza e sofferenza, tra vita e vita. L’innocenza di
un animale, la sua lealtà, la sua semplicità, la sua mitezza, il suo
spontaneo fuggire da ogni violenza gratuita, sono mete ancora da
raggiungere dalla maggior parte degli uomini” .
141
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148
APPENDICE
TRATTO DA: “ RAPPORTO ZOOMAFIA DELLA LAV 2006”
Operazione “Fox”
Cani acquistati in ogni parte del mondo e poi sottoposti ad atroci
allenamenti e al doping per aumentarne la forza e la ferocia, da
dimostrare nei combattimenti che venivano organizzati, anche via
internet, in varie parti d’Europa.A stroncare questo giro di incontri
clandestini tra cani e stata la DDA di Reggio Calabria insieme ai
Carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria che, il 17
dicembre 2004, hanno eseguito 13 ordinanze di custodia cautelare nei
confronti di altrettante persone, accusate di associazione per delinquere
finalizzata all’organizzazione e realizzazione di combattimenti clandestini
tra cani. L’operazione ha riguardato le province di Reggio Calabria,
Catanzaro, Napoli, Padova, Ascoli Piceno e Macerata. Per la prima volta
in Italia sono stati applicati gli articoli della nuova legge 27 luglio 2004 n.
189 relativi ai combattimenti clandestini. L’operazione, denominata “Fox”,
è nata quando, nel corso delle indagini coordinate dalla DDA reggina ed
iniziate dai Carabinieri della Compagnia di Taurianova nel luglio 2002 per
la cattura di un latitante, Ernesto Fazzalari di Taurianova , venne scoperto
un covo “protetto” da un pit bull. La circostanza non sfuggì ai militari
dell’Arma, i quali iniziarono apposite intercettazioni. Nel corso di tale
attività, oltre a sequestrare armi e droga, i Carabinieri hanno scoperto
un’attività clandestina diretta all’allevamento di cani da combattimento
ed un giro di compravendite e scommesse. “Non abbiamo elementi per
dire che ci sia di mezzo la ‘ndrangheta, anche se nell’operazione
149
troviamo qualche personaggio collaterale alla criminalità organizzata”,
ha detto il procuratore Antonino Catanese nel corso di una conferenza
stampa. Il fatto preoccupante, secondo il magistrato, è che nella
vicenda non sono coinvolte singole persone, ma un’organizzazione
“Pertanto sembra strano che la ‘ndrangheta sia assente, perché appare
improbabile che un sodalizio di questo tipo possa organizzare simili cose
senza perlomeno una ‘autorizzazione’ della criminalità organizzata
locale”. Le indagini si sono estese coinvolgendo anche personaggi
residenti in altre regioni, con collegamenti con allevatori-allenatori
presenti nel territorio della ex Jugoslavia, in Serbia, Croazia e Bosnia. Nel
corso delle intercettazioni, gli investigatori hanno accertato che gli
indagati comunicavano tra loro tramite posta elettronica. È stato così
deciso di sottoporre a controllo alcuni indirizzi e monitorare siti web
specializzati. In questo modo i Carabinieri hanno individuato due siti
internet dedicati all’ organizzazione dei combattimenti tra cani tra cui il
«Kalabra Kennel’s Zika 2 W (Western Europe)». In particolare, i criminali
curavano una rivista online denominata “Action” interamente dedicata
agli incontri, alle scommesse ad agli acquisti degli animali impiegati nei
combattimenti, di cui era redattore uno degli arrestati. A determinare il
prezzo degli animali erano parametri quali il curriculum, la discendenza,
l’allenatore oltre all’età ed alle caratteristiche fisiche. Le prestazioni degli
animali
venivano
garantite
per
mezzo
di
duri
allenamenti,
un’alimentazione severa e la somministrazione di sostanze dopanti e
anabolizzanti, come il desametasone e il nandrolone sotto forma di
Decadurabulin. L’obiettivo era quello di irrobustire i malcapitati animali e
di aumentarne il peso. I cani venivano sottoposti a vere e proprie torture
con l’impiego di macchinari che facevano aumentare le prestazioni
“atletiche”. E proprio dalla “campagna acquisti” degli animali derivava
un’altra fonte di reddito per l’organizzazione. I cani, infatti, dopo essere
stati acquistati
e sottoposti ad atroci allenamenti venivano utilizzati in
combattimenti combinati, al solo scopo di dimostrarne le qualità e fare
150
aumentare il prezzo di vendita. I Carabinieri hanno accertato lo
svolgimento di vari combattimenti tra i quali il “Montana show”, svoltosi in
Bosnia il 30 ottobre 2004, dove si sono disputati sette incontri tra vari
animali.
A conclusione delle indagini, il Gip di Reggio Calabria, Kate
Cassone, su richiesta del pm, Giuseppe Bianco, ha emesso 13 ordinanze
di custodia cautelare e quattro decreti di sequestro di altrettanti canili:
uno a Gioia Tauro, con sei animali, di cui tre staffordshire, uno al rione Cep
di Reggio con quattro pit bull, un altro a Civitanova Marche con cinque
pit bull, uno a Porto San Giorgio con undici pit bull ed uno a Taurianova,
che non aveva cani. Inoltre sono state sequestrate riviste, videocassette,
appunti e computer contenenti importanti elementi di prova. “Sono
immagini di inaudita crudeltà nei confronti degli animali, capaci di
destare un sentimento di profondo raccapriccio. Così i cani prendevano
parte ad un vero e proprio campionato”, ha avuto modo di dire nel corso
della conferenza stampa il dott. Giuseppe Bianco, che ha coordinato le
indagini. Alcune delle persone arrestate, in particolare quelle residenti nel
Napoletano e nelle Marche, erano già note all’Osservatorio Nazionale
Zoomafia della LAV, che nei mesi precedenti l’operazione ha inviato agli
organi investigativi una dettagliata relazione su questi personaggi. Le
tredici persone arrestate dai Carabinieri sono: Bruno Corica, di 41 anni;
Salvatore Alessi, 26 anni, entrambi di Taurianova; Aniello Parlato, 30 anni,
Sant’Antonio Abate (Napoli); Damiano Boccardo, 27 anni, Porto S.
Giorgio (Ascoli Piceno); Marcellino Esposito, 30 anni, Marigliano (Napoli);
Gennaro
Langella,
29
anni,
Somma
Vesuviana
(Napoli);Teodoro
Mazzaferro, 29 anni,Gioia Tauro; Felice De Sena, 26 anni, Brusciano
(Napoli); Mario Lo Sapio, 37 anni, S. Giuseppe Vesuviano (Napoli); Aniello
Petito, 27 anni, Padova; Luca Sorrentino, 36 anni, Napoli; Giuseppe
Ambrogio, 26 anni, Reggio Calabria; Luigi Orsili, 27 anni, Civitanova
Marche (Macerata). Costoro hanno il primato di essere le prime persone
a finire in galera nel nostro Paese, almeno dall’Unità d’Italia a questa
parte, per aver commesso un reato contro gli animali. Un primato che
151
certamente non fa loro onore. Per noi, invece, il loro arresto
ha
rappresentato una svolta, un mutamento radicale della politica criminale
nei riguardi della cinomachia, in poche parole, un evento storico.
Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Nazionale Zoomafia della LAV dati su scala nazionale che non hanno la presunzione di essere esaustivi e
che possono essere imprecisi per difetto – negli ultimi due anni, 2004-2005,
sono state denunciate di 16 persone (di cui 13 arrestate) per
organizzazione
di
combattimenti
tra
animali
o
allevamento-
addestramento di animali ai combattimenti. Difficile fare un raffronto,
sotto il profilo penale, con gli anni precedenti, poiché nel frattempo c’è
stata l’approvazione della legge 189/04 che ha individuato nuove e
precise fattispecie delittuose. Com’è noto, la vecchia normativa sul
maltrattamento degli animali contemplava un’unica contravvenzione
per tutte le varie forme di maltrattamento, incluse quelle connesse alla
cinomachia, ora invece abbiamo più casi puniti in modo diverso. Tanto
per fare un esempio, grazie alla nuova normativa abbiamo avuto per la
prima volta la contestazione del reato di associazione per delinquere
finalizzata all’organizzazione dei combattimenti tra cani con l’emissione di
13 ordinanze di custodia cautelare; reato e provvedimenti che con la
normativa previgente non potevano essere contestati e adottati, di
conseguenza non è possibile fare nessun raffronto con gli anni
precedenti.
152
TRATTO DA : “ COMBATTIMENTI TRA ANIMALI - Manuale tecnico-giuridico
per un’azione di contrasto”
Doping, farmaci e maltrattamento
Altro aspetto particolarmente deleterio è quello relativo al trattamento
dei cani combattenti con sostanze dopanti. È largamente accertato che
tali animali sono trattati con anabolizzanti, anfetaminici e vari cocktail
chimici. La legge 189/04, nel formulare l’articolo 544-ter c.p., ha
espressamente previsto una pena per “chiunque somministra agli animali
sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che
procurano un danno alla salute degli stessi”. Può sembrare strano ma,
prima di questa formulazione, dopare gli animali non era previsto dalla
legge come reato e ci poteva essere censura penale solo se se la
sostanza inoculata o la modalità di somministrazione producevano
dolore.
Riteniamo che tra le sostanze “vietate” si debbano annoverare anche
quelle capaci di provocare modificazioni più o meno temporanee e
dannose all’equilibrio psicofisico, oppure notevoli alterazioni psicofisiche e
dipendenza,
o
siano
idonee
a
compromettere
l’equilibrio
neurovegetativo (come nel caso di alcune sostanze atte a tenere
l’animale in uno stato di continua eccitazione ed esaltazione fisica) o,
ancora, siano stimolanti del sistema nervoso centrale (anfetamina). Lo
stesso riteniamo valga per quei composti atti alla riduzione o soppressione
della sensibilità al dolore o capaci di accrescere le energie psicofisiche e,
quindi,
il
rendimento
nell’organismo l’insieme
“agonistico”
dei
processi
o,
ancora,
costruttivi
che
che
favoriscono
portano
alla
formazione di nuovi tessuti e massa muscolare. La configurazione del
reato è palese se si tiene conto dell’evoluzione giurisprudenziale in
materia, che censura quelle condotte umane oggettivamente idonee a
determinare ingiustificati patimenti negli animali.Va da sé che “drogare”
un cane e provocargli così una condizione di complessivo disagio,
153
ancorché momentaneo, dovuto all’alterazione della sua integrità e
identità psico-fisica, è un comportamento che non rispetta “le leggi
naturali e biologiche, fisiche e psichiche, di cui ogni animale, nella sua
specificità, è portatore” (Cass. pen., Sez. III, Sent. n°. 06122 del 27/04/90).
Questo vale ancora di più se si considerano gli effetti collaterali di alcuni
prodotti
farmaceutici e/o dopanti. Ad esempio, è noto che l’anfetamina produce
come effetto collaterale insonnia, ansia, ipereccitabilità, tremori ecc.,
effetti che non possono essere ricondotti alla categoria del “dolore” ma
che indubbiamente rappresentano uno stato di patimento e di sofferenza
per l’animale sottoposto a tale (mal)trattamento. Bisogna tener presente
altri aspetti: la somministrazione illegale di tali sostanze è sempre
finalizzata alla partecipazione ai combattimenti clandestini.
Dopare i cani in determinati contesti funge da attività prodromica dei
combattimenti al pari dell’addestramento e dell’allevamento e ciò può
aprire nuovi scenari penali. In pratica, il doping potrebbe rientrare nelle
attività di addestramento e si potrebbe avere così il concorso del reato di
maltrattamento di animali con quello di addestramento di cani ai
combattimenti.
12.1 Doping
Si definisce “doping” (dall’inglese To dope = drogare), l’utilizzo di qualsiasi
intervento esogeno (farmacologico, endocrinologico, ematologico, ecc)
o
manipolazione
clinica
che,
in
assenza
di
precise
indicazioni
terapeutiche, sia finalizzato al miglioramento delle prestazioni, al di fuori
degli adattamenti indotti dall’allenamento.
Il doping, in pratica, è la somministrazione ad atleti (o ad animali da
competizione) di sostanze eccitanti o anabolizzanti in grado di
accrescerne in modo sleale le prestazioni psicofisiche. Il concetto di
modificazione si applica alla condizione tanto fisica che psichica. I danni
organici dovuti al doping sono diagnosticabili solamente a posteriori e
ricadono, ovviamente, in ambito penale. La Legge 14/12/2000 n°. 376,
154
“Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta al
doping”, prevede divieti e sanzioni per uso e traffico di sostanze dopanti
in ambito agonistico. Secondo la Legge 376/00,“Costituiscono doping la
somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o
farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche
mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a
modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di
alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”.
Le modificazioni a cui fa riferimento la legge non sono soltanto di tipo
fisico ma anche di tipo psichico. Nel caso dei cani combattenti vi è,
infatti, una ricerca non solo di sostanze in grado di aumentare la
resistenza allo sforzo e la potenza ma, tramite questo tipo di pratica, si
cerca di esasperare ulteriormente l’aggressività e la ferocia degli animali
per rendere ancora più cruente le lotte.
La performance dei combattenti può essere compromessa da diversi
fattori, quali:
– fatica e stanchezza, sensazioni che possono esser causate da una serie
di stati fisiopatologici quali, ad esempio, accumulo di acido lattico nei
muscoli, disturbi circolatori con deficit di apporto di ossigeno e substrati
energetici ai tessuti, insufficienza respiratoria, stati infiammatori locali o
generalizzati, problemi endocrini e insufficienza renale.
– dolore, che non solo diminuisce la tolleranza allo sforzo ma influisce
anche sulla coordinazione e sullo stato di vigilanza del soggetto.
– fattori psichici, che nel cane da combattimento possono derivare da
stimoli stressogeni di varia origine.
Le categorie di sostanze più comunemente utilizzate sono in grado di
agire sui fattori precedentemente citati, aumentando in questo modo la
resa atletica.
Qui di seguito riportiamo l’elenco delle sostanze dopanti solitamente
utilizzate. Si noti che tale lista non ha assolutamente la pretesa di
includere tutte le sostanze ritenute dopanti ma solo quelle comunemente
155
utilizzate, poiché è molto difficile essere aggiornati su tutti i tipi di farmaci
che trovano impiego come dopanti, dato che a un affinarsi dei metodi di
indagine e di rilievi corrisponde la ricerca di sostanze nuove che possano
eludere i controlli.
• Stimolanti
Anfetamina: l’anfetamina è un eccitante centrale. Possiede una potente
azione antifatica, aumenta la concentrazione, migliora la resistenza e la
tolleranza allo sforzo. Spegne l’appetito e quindi è anche assunta per il
controllo del peso corporeo. Caffeina: eccitante centrale con effetti sui
sistemi cardiocircolatorio e caffeina migliora sensibilmente la resistenza
alla fatica. Cocaina: è un potente psicostimolante, ma ha anche azione
anestetica locale. Sviluppa aggressività, può portare ad allucinazioni,
alterazione dei riflessi, ansia, anoressia, nausea, insonnia. Dà sindrome da
astinenza alla sospensione.
• Analgesici-narcotici
Fanno parte della classe degli oppioidi e derivati (morfina, eroina,
metadone). Svolgono un’azione analgesica centrale, calmante ed
euforizzante.Vengono utilizzati per spegnere la sensazione dolorifica. Per
contrastarne in parte l’effetto di spegnimento dell’attenzione, vengono
assunti in combinazione con sostanze stimolanti.
• Anabolizzanti
Steroidi Anabolizzanti: l’assunzione di ormoni steroidei induce un aumento
della massa muscolare e questo, a sua volta, consente di affrontare
allenamenti più pesanti e, di conseguenza, miglioramenti più marcati
derivanti dall’allenamento stesso nelle prove di scatto e potenza. Inoltre,
gli steroidi inducono riduzione della massa grassa. Anabolizzanti non
steroidei: includono sostanze con effetto anabolico, se somministrate
sistematicamente (salbutamolo, salmeterolo, terbutalina, beta-agonisti).
• Diuretici
Servono per perdere rapidamente liquidi e quindi peso; si tratta di una
forma di doping specificamente adottata negli sport ove esistono
156
categorie di peso come la lotta, il sollevamento pesi e il pugilato. Il
vantaggio che ne deriva è quello di gareggiare in una categoria inferiore
sfruttando la struttura fisica che competerebbe a una categoria
superiore.
• Ormoni peptidici
Ormone della crescita (GH): il GH (growth hormone) è l’ormone della
crescita. Attualmente il GH è sintetizzabile; tutto il GH di provenienza
animale è stato ritirato dal commercio per il rischio di contrarre il morbo
della
“mucca
pazza”.
Nell’ambiente
sportivo,
il
GH
pr
oviene
esclusivamente dal mercato nero, spesso in forma adulterata. Il suo uso
stimola la deposizione di massa muscolare e la riduzione della massa
grassa. ACTH (corticotropina): viene usato per fornire all’atleta una
maggior quota di ormone per fronteggiare lo stress.
• Eritropoietina (EPO)
L’uso dell’EPO nel mondo sportivo è finalizzato ad aumentare la massa
dei globuli rossi e quindi, il trasporto di ossigeno nel sangue, nelle discipline
di resistenza.
• Cannabinoidi
I sintomi variano con la dose: a basso dosaggio si ha euforia, a dosaggio
medio si ha disinibizione, a dosi elevate aggressività.
• Beta-bloccanti
Si tratta di farmaci che, tra gli effetti, hanno quello di ridurre la frequenza
cardiaca.
• Anestetici locali
Si tratta di farmaci che bloccano reversibilmente la trasmissione dello
stimolo dolorifico verso il sistema nervoso centrale.
• Manipolazioni farmacologiche
Con questo termine si intendono procedure atte ad alterare i risultati dei
test antidoping. Un esempio è rappresentato dall’assunzione del
probenecid, un farmaco antigotta che inibisce la secrezione renale di
ormoni steroidei e può quindi mascherare l’assunzione di anabolizzanti.
157
Ripetiamo, queste sono solo le sostanze più in uso nell’ambito delle attività
agonistiche
ufficiali
che
possono
essere
utilizzate
anche
per
la
preparazione dei cani “atleti”.A queste, oltre alle varie combinazioni e
miscugli, bisogna associare anche la continua affermazione di nuovi
farmaci,
tra
cui
i
cosiddetti
“trasformisti”
come
il
Clembuterolo
(antiasmatico) che, somministrato a dosi maggiori del normale, diventa
uno stimolante al pari delle anfetamine e somministrato a dosi alte
procura un effetto anabolizzante. Quest’ultimo effetto è testimoniato
dall’abuso del farmaco in zootecnia, dove il suo impiego non è certo
effettuato per curare l’asma dei vitelli ma per aumentarne la massa
muscolare magra. Ovviamente, tutte queste “tecniche di adulterazioni”,
oltre a essere vietate, sono anche altamente pericolose e dannose per
l’organismo, sia umano sia animale. L’operatore di p.g., nel corso di
controlli e perquisizioni, può rinvenire queste e altre sostanze sotto forma
di “farmaci” (fiale, pillole, pasticche, sciroppi, ecc.). Ad esempio, sono
stati sequestrati in un lager per pit bull diversi flaconi di Saizen, un prodotto
avente come principio attivo la somatropina, un ormone che stimola la
crescita. Alcuni anni fa, in Inghilterra, è stato accertato che in diversi
cinodromi i cani venivano dopati con cioccolatini contenenti caffeina e
teobromina. È bene farsi assistere nelle operazioni da personale
specializzato (medico, veterinario) e sottoporre tutto a sequestro per
ulteriori accertamenti, soprattutto quando si trova qualche “prodotto”
privo di etichettatura o custodito alla rinfusa. È più problematico, invece,
stabilire se un cane è stato sottoposto a trattamento farmacologico non
consentito. Solo esami e accertamenti su prelievi di sangue o urina
possono provare l’eventuale uso di sostanze dopanti. Si tratta di
operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, per le quali
la polizia giudiziaria può chiedere l’ausilio, ex art. 348 c.p.p., di persone
idonee (biologi, veterinari, analisti ecc).
158
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