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INDICE INTRODUZIONE pag. 3 CAPITOLO 1 funzioni dell’aggressività Origine e I centri nervosi implicati nel comportamento aggressivo pag. 6 1.2 Le basi filogenentiche dell’aggressività pag. 21 1.3 Le basi ontogenetiche dell’aggressività pag. 35 CAPITOLO 2 L’uso criminale dell’aggressività nei canidi 2.1 Scelta e addestramento dei cani da Combattimento 2.2 46 pag. 64 pag. 83 Forme di prevenzione e repressione del fenomeno illecito 2.3 pag. Un gioco d’azzardo o una forma di aggressività repressa proiettata. CAPITOLO 3 Le origini, il presente ed il futuro del fenomeno dei combattimenti tra animali, organizzati dall’uomo 3.1 Le prime conoscenze storiche e l’evoluzione dei combattimenti tra e con animali pag. 100 1 3.2 La diffusione dei combattimenti nei vari territori e l’impatto sulla società odierna pag. 112 CONCLUSIONI pag. 125 BIBLIOGRAFIA pag. 142 SITOGRAFIA pag. 148 APPENDICE Operazione “Fox” pag. 149 Doping, farmaci e maltrattamento pag. 153 2 Introduzione L’argomento centrale di questa tesi è “il combattimento tra cani”, analizzato attraverso gli aspetti fisiologici ed etologici dell’aggressività e l’uso criminale dell’aggressività dei cani da parte dell’uomo”. Questa idea è nata coniugando le esperienze delle mie due principali attività, quella riferita al mio lavoro di Ispettore di Polizia e quella di appassionato allevatore cinofilo. Gli studi sull’aggressività e sulle sue origini, fisiologiche, filo- e ontogenetiche, mi hanno aiutato nel tentativo di giungere alla comprensione delle cause e concause che sono all’origine del fenomeno. Lo scopo di questo lavoro è di sviluppare tutti i singoli elementi sia di tipo scientifico che relativi alla giurisprudenza, collegati in qualche modo al verificarsi dei combattimenti clandestini, portando esempi di fatti accertati e censiti, ma anche di esperienze di tipo personale. Nutrendo da sempre un particolare interesse per le teorie evoluzionistiche di Darwin, mi è subito sembrato evidente uno stretto legame tra gli elementi che cooperano nella sopravvivenza delle specie ed i combattimenti tra cani, organizzati e non. Charles Darwin ebbe una grande intuizione quando realizzò, utilizzando i termini “lotta per la sopravvivenza”, che l’aggressività non era da considerarsi un atteggiamento necessariamente negativo. Si rese conto che tale comportamento aveva radici profonde e che pertanto doveva svolgere un ruolo importante nell’evoluzione delle specie. Infatti, nelle sue teorie evoluzionistiche della selezione naturale, emergono già accenni che parlano di 3 aggressività intra- e interspecifica. Elementi che, come vedremo più avanti, svolgono un ruolo fondamentale nella conservazione della specie. Seguendo queste orme, sviluppò le sue teorie evolutive l’etologo Konrad Lorenz, che andò ben oltre nei suoi studi e nei suoi esperimenti, fornendo elementi di valutazione importanti per la scienza psicobiologica. La Psicobiologia studia la biologia del comportamento, unendo la ricerca neurofisiologica con gli esperimenti relativi all’osservazione del comportamento (Dewsbury 1991). In questo elaborato cercherò di analizzare l’aggressività in maniera interdisciplinare, dall’approccio prettamente fisiologico sino a quello etologico-comportamentale. origini neuronali, attraverso Partendo dallo studio delle le derivazioni utili all’evoluzione, giungendo alle devianze fortuite o indotte, tenterò di dare una risposta a come la predisposizione aggressiva nei canidi possa venire dall’uomo utilizzata in modo criminale a scopi “ludico - economici”. Nel presente lavoro tenterò di dare un quadro attuale del fenomeno, anche dal punto di vista statistico, quindi descriverò le attività di prevenzione ed in che modo la legge interviene per arginare la proliferazione di questo tipo di attività illecite. Successivamente, racconterò delle origini ambientali che incidono nella tendenza al animali. Ciò servirà a comprendere storiche, culturali e maltrattamento degli se tale fenomeno è da ricondursi ad un fatto di mera esigenza di trasgressione, di interessi economici, oppure se di fondo vi sono cause scatenanti che trovano origine nell’evoluzione antropologica o, magari, in una sorta di devianza psicopatologica della personalità dei malfattori. 4 Infine, vorrei porre l’accento sul fatto se lo studio della storia di tali fenomeni e della loro diffusione territoriale possa dare delle indicazioni utili per porre in essere delle attività che consentono una maggiore prevenzione, al fine di ridurre sensibilmente il problema. 5 Capitolo 1 Origine e funzioni dell’aggressività 1.1 I centri nervosi implicati nel comportamento aggressivo Il controllo neuronale del comportamento aggressivo, effettuato da alcune regioni del nostro cervello in seguito meglio descritte, è organizzato in ordine gerarchico e programmato. I movimenti muscolari relativi all’attacco e alla difesa sono programmati da circuiti neuronali localizzati nel tronco dell’encefalo. Le attività dei circuiti troncoencefalici sono a loro volta controllate dall’ipotalamo e dall’amigdala [vedi fig. 1.1]. Fig. 1.1) il Sistema limbico comprende le aree cerebrali maggiormente coinvolte nelle varie forme di aggressività; tratto da www.crulygirl.naturlinl.pt 6 Negli esperimenti in vivo sui gatti comportamento predatorio che quello è emerso che sia il difensivo possono essere evocati dalla stimolazione della sostanza grigia periacquedottale (PAG) del mesencefalo. Già con la semplice stimolazione artificiale dei circuiti neuronali, emerge come le differenti tipologie di aggressività ed i comportamenti connessi abbiano origini diverse per far fronte ad esigenze appunto di tipo diverso. ROBERTS e KIESS (1964), impiantando degli elettrodi nel cervello di gatti, in un punto dove lo stimolo suscitava l’attacco predatorio, hanno dimostrato che la stimolazione dell’istinto predatorio non implicava la contestuale sollecitazione dell’esigenza di nutrimento. Infatti, gatti che non avevano mostrato una naturale propensione a sopprimere ratti, a seguito della stimolazione, uccidevano il ratto senza di fatto nutrirsene nonostante risultassero affamati. Pertanto, si è visto che l’attacco di tipo predatorio non è sinonimo di comportamento nutritivo. Inoltre, il sistema della elettrostimolazione ha consentito di rilevare che, per esempio, l’aggressività predatoria e quella difensiva suscitano sensazioni ben diverse. PANSKEPP (1971) osservò nei suoi esperimenti con i ratti che essi preferiscono la stimolazione delle aree cerebrali che evocano l’attacco, anziché quelle interessate nell’aggressività difensiva. Negli esperimenti di condizionamento operante emergeva in modo evidente come i ratti, pigiando una leva, interrompevano lo stimolo evocante l’attacco difensivo, facendo altrettanto per autostimolarsi l’attacco predatorio. Si è dunque evidenziato che la stimolazione delle aree cerebrali scatenanti l’attacco predatorio costituisce un rinforzo positivo per l’animale, mentre quella interessata nella difesa un rinforzo negativo. Vedremo più avanti, in 7 alcune citazioni riferite alle ricerche fatte dall’etologo Konrad Lorenz, come il comportamento aggressivo stimolato dalla predazione non crea sconforto o disagio, ma al contrario un senso di gratificazione, mentre l’aggressività difensiva, a salvaguardia della propria incolumità, di quella della prole come anche a difesa del territorio, è accompagnata da una percezione di panico e quindi implica sempre un forte senso di disagio. Altri esperimenti hanno aiutato a comprendere le implicazioni neuronali nel comportamento aggressivio. SHAIKH , SIEGEL e collaboratori [1999] hanno indagato i circuiti neuronali dei gatti per individuare i centri responsabili del comportamento aggressivo, sia di tipo predatorio che di difesa. Hanno utilizzato una tecnica particolare, che consentiva sia l’elettrostimolazione che l’infusione di sostanze chimiche in alcune aree del cervello. I dispositivi utilizzati a tal fine si chiamano elettrodi a cannula e sono costituiti da una cannula in acciaio inossidabile, rivestita da materiale isolante con la sola punta scoperta per consentire la trasmissione degli stimoli elettrici. Questi esperimento hanno consentito di evidenziare che il comportamento aggressivo, sia predatorio che difensivo, può essere attivato dalla stimolazione di diverse regioni della sostanza grigia periacquedottale (PAG). Anche le ricerche e gli esperimenti di Shaikh e Siegel hanno, come già accennato, evidenziato l’influenza dell’ipotalamo e dell’amigdala e della loro funzione eccitatoria ed inibitoria, attraverso le interconnessioni neuronali con la PAG [vedi fig. 1.2]. 8 Fig. 1.2 Il diagramma mostra le interconnessioni tra parti dell’amigdala, dell’ipotalamo e della sostanza grigia periacquedottale e i loro effetti sulla rabbia difensiva e sul comportamento predatorio dei gatti.. Diagramma tratto dal Carlson. Per dare una idea di cosa in concreto avveniva negli esperimenti anzidetti, ne descriverò uno al quale ha collaborato anche SCHUBERT [1996] . Fu collocato un elettrodo a cannula nella PAG dorsale ed un elettrodo tradizionale a filo metallico nell’ipotalamo mediale. La stimolazione della PAG dorsale sollecitò nel gatto una rabbia difensiva e la contestuale sollecitazione dell’ipotalamo mediale amplificò tale comportamento. Ciò conferma quanto già sperimentato in precedenza, ma la tecnica con la cannula ha consentito di ottenere altre informazionni. Infatti, l’infusione nella PAG dorsale di AP-7, bloccando i recettori NMDA (recettori ionotropici per il glutammato) inibiva gli effetti della stimolazione dell’ipotalamo mediale. Segno questo di un diretto collegamento e 9 di una interconnessione immediata tra PAG e ipotalamo. Tale scambio di informazioni tra le due strutture cerebrali è stato ulteriormente confermato iniettando del tracciante retrogrado (fluorogold) nella PAG, che è andato a marcare dei neuroni nell’ipotalamo. Attraverso l’autoradiografia di fettine di tessuto della PAG contenenti NMDA radioattivo, si è riscontrata una densa presenza di recettori NMDA in quell’area, mentre attraverso la procedura a doppia marcatura si è visto che gli assoni che l’ipotalamo mediale invia alla PAG sono glutamatergici. Questa metodologia e altre simili, hanno consentito di osservare che le tre principali regioni dell’amigdala e due regioni dell’ipotalamo controllano la rabbia difensiva e la predazione , entrambi evidentemente controllate dalla PAG. L’aver potuto determinare questa rilevante ed inconfutabile importanza delle citate regioni cerebrali nelle manifestazioni aggressive non significa che altre aree siano del tutto disinteressate da tale fenomeno comportamentale. Anzi, è senza dubbio il contrario ed è assunto ormai comunemente condiviso che molte altre regioni siano a vario titolo coinvolte ed interferiscano in questa rete di comunicazione neuronale. Vari nuerotrasmettitori aggressivo. sono coinvolti nel comportamento Per esempio, generalmente l’aumento dell’attività delle sinapsi serotoninergiche inibisce l’atteggiamento aggressivo. Nel Proencefalo la sezione degli assoni serotoninergici facilita l’attacco aggressivo, presumibilmente rimuovendo un effetto inibitorio [VERGNES et al. 1988]. Per tale ragione, alcuni medici hanno utilizzato farmaci serotoninercici per inibire l’aggressività e dunque l’atteggiamento violento nell’uomo. 10 Sono state effettuate ricerche su un gruppo di scimmie alle quali è stato prelevato un campione di liquido cerebrospinale per rilevarne la concentrazione di 5-HIAA ( un metabolica della serotonina “5HT” ). Al momento del rilascio della serotonina, la maggior parte del neurotrasmettitore viene riassorbito attraverso la ricaptazione, ma la restante parte, diffondendosi, si degrada in 5–HIAA che confluisce nel liquido cerebrospinale. Alti livelli di questo metabolita nel LCS sono pertanto indice d’un alto livello di attività serotoninergica. Dalle ricerche di vari studiosi [MEHLMAN et. al.1995; HIGLEY et al. 1996] è emerso che, ad esempio, le giovani scimmie con una minore concentrazione di 5-HIAA si esponevano con maggiore facilità a situazioni di rischio, rispetto a quelle con una concentrazione maggiore. Le scimmie contraddistinte da una minore concentrazine di 5-HIAA nel LCS avevano manifestazioni di aggressività anche verso animali gerarchicamente e fisicamente superiori. È dunque tacito che questo indice di ridotta attività serotoninergica evidenzia una minore inibizione dell’aggressività. Ovviamente bisogna essere cauti nell’interpretazione dei dati sperimentali, non dimenticando che la causa scatenante di una reazione comportamentale non sarà mai dovuta ad un solo fattore specifico, ma che nella vasta e complicata rete neuronale del nostro labirinto cerebrale intervengono sempre una serie di interconnessioni corroboranti o modulanti. Allo stesso modo, un neurotramettitore non ha mai una sola specifica funzione, ma interviene in molteplici altre elaborazioni di trasmissioni sinaptiche. Per tornare alla serotonina, essa non agisce solamente nell’inibizione dell’aggressività o dell’atteggiamento violento, ma più in generale sembra esercitare una funzione di controllo 11 generale in tutti quelli che possano considerarsi atteggiamenti pericolosi. In uno studio di COCCARO e KAVOUSSI [1997] è stato dimostrato come la fluoxetina, meglio conosciuta in commercio con il nome di “Prozac”, che è un agonista della serotonina, abbassa in modo evidente i livelli di irritabilità. Uno studio di [BRUNNER et. al. 1993] ha evidenziato uno stretto legame genetico tra la serotonina ed il comportamento antisociale nell’uomo ed in particolare nei maschi. La sindrome antisociale ereditaria verrebbe provocata e quindi trasmessa dalla mutazione del gene delle monoaminoossidasi di tipo A (MAO-A) . Questo gene è localizzato sul cromosoma “X” e poiché nei maschi è presente un solo cromosoma “X”, di frequente si evidenziano in loro delle alterazioni dovuti a tale cromosoma. Dal momento che la “MAO-A” è l’enzima responsabile della degradazione della serotonina, si comprende la ragione di una maggiore tendenza all’aggressività delle persone con la tara genetica di un disordine X-dipendente. Questa particolare problema, concernente il cromosoma maschile, ci introduce nel campo specifico dell’aggressività nei maschi. Tutti gli studi sinora svolti hanno evidenziato come il controllo ormonale intervenga nel comportamento aggressivo. L’attività ormonale finalizzati che stimola all’accoppiamento è gli atteggiamenti strettamente connessa con il comportamento aggressivo per la conquista della femmina. Persino nelle specie dove non è necessario combattere per motivi territoriali, si manifestano comportamenti aggressivi volti alla conquista del partner. Del resto, in senso più lato, anche le strategie del gentiluomo, messe in atto per conquistare la donna, sono una forma di 12 aggressività, interpretando la parola nel senso più puro della sua origine etimologica. La derivazione dal latino, della parola aggressività, si compone dalle parole “ad” (moto a luogo) e “gredior” dall’origine celtica “gradi” (procedere per passi). Dunque nell’accezione più comunemente condivisa “adgredior” viene tradotto con “andare verso”, ovvero raggiungere un obiettivo. Da ciò è facilmente deducibile che l’impegno di ottenere un risultato sia da considerarsi una forma di aggressività , che sotto questo punto di vista la scinde in modo netto da quella accumunata alla violenza. Per tornare all’esempio di cui sopra, le strategie di conquista di una donna, volte a sgombrare il campo da altri pretendenti, possono considerarsi una forma di aggressività, tra la sublimazione e la ritualizzazione. Ma questo è un argomento di cui parlerò più avanti. Torniamo al contesto fisiologico-ormonale, e a come i comportamenti aggressivi risentano degli effetti organizzativi ed attivanti degli ormoni. Negli esperimenti sui roditori di laboratorio si è evidenziato che la secrezione degli androgeni comincia in fase prenatale, diminuendo con la crescita per tornare ad aumentare nel periodo della pubertà. Il fatto che nella pubertà aumenti anche l’aggressività tra maschi lascia desumere che tale comportamento sia anch’esso controllato dai circuiti neuronali stimolati dagli androgeni. Già nel 1947 BEEMAN scoprì che la castrazione riduceva l’aggressività e che le iniezioni di testosterone la ripristinavano. La precoce androgenizzazione influisce sullo sviluppo del cervello, rendendo i circuiti neuronali di controllo del comportamento sessuale più reattivi al testosterone in età adulta. 13 Anche VOM SAAL nel 1983, nei suoi esperimenti, trova conferma del fatto che una precoce androgenizzazione sensibilizza i circuiti neuronali, abbassando la soglia di attivazione del comportamento aggressivo in età avanzata. Questo fenomeno ovviamente non riguarda solamente l’aggressività finalizzata alla copulazione, ma interviene anche in comportamenti diversi, come la difesa del territorio o del rango gerarchico. All’interno di questo capitolo ho accennato alla suddivisione delle aree cerebrali interessate a vario titolo nelle manifestazioni aggressive attraverso la loro attività neuronale. BEAN E CONNER [1978] hanno dimostrato, attraverso l’innesto di testosterone nell’Area Preottica Mediale (APM) di ratti maschi castrati, che tale stimolazione dei neuroni sensibili agli androgeni ripristinava l’atteggiamento aggressivo sia nel comportamento sessuale che tra maschi. Possiamo dedurne che l’area preottica mediale è coinvolta nei comportamenti di tipo aggressivo collegati all’attività della riproduzione. Inoltre è stato evidenziato che l’ipotalamo maschile e quello femminile sono funzionalmente diversi. Già nel 1971, RAISMAN E FIELD scoprirono, nei ratti, mediale dell’ipotalamo, un nucleo situato nell’area preottica poi chiamato nucleo sessualmente dimorfo, che nei maschi era più grande rispetto alle femmine. Mentre alla nascita detti nuclei sono di grandezza uguale, sia nelle femmine che nei maschi , già pochi giorni dopo si evidenzia una notevole differenza nella crescita. La crescita è scatenata dall’estradiolo che è stato aromatizzato a partire dal testosterone. Successivamente, questa differenza di grandezza dei nuclei sessualmente dimorfi nell’ipotalamo è stata verificata anche in altre 14 specie di animali e tali differenze sono riscontrabili anche tra l’uomo e la donna [SWAAB e FLIERS 1985]. E’ stato visto che l’aggressività nelle femmine e tra femmine di roditori può essere stimolata con l’innesto di testosterone. Abbiamo così una ulteriore conferma che gli androgeni producono un effetto organizzativo sull’aggressività delle femmine. L’aggressività più sviluppata nelle femmine materna, volta alla difesa della prole. abbiamo l’intervento di un ormone, è l’aggressività Anche in questo caso il progesterone, i cui livelli incidono su tale aggressività [MANN, KONEN e SVARE, 1984]. Si è però rilevato che, per verificarsi detto atteggiamento aggressivo materno, non è sufficiente la sola presenza di ormoni ovarici o ipofisari, ma che intervengono fattori tattili ed olfattivi. Ovvero, in assenza dei neonati o di possibilità di allattamento tale comportamento non si verifica [SVARE e GANDELMAN, 1976]. Esiste quindi una combinazione di elementi che includono paradigmi comportamentali trasmessi geneticamente, che esulano dalla mera attività neuronale modulata dagli ormoni. Vediamo ora gli effetti degli androgeni sul comportamento umano. Questo studio tornerà utile quando, più avanti, andrò a comparare l’aggressività animale e quella umana, in relazione al tema cardine di questa tesi, cioè lo stimolo nell’uomo ad incitare i cani nel combattimento. Anche nell’uomo troviamo una maggiore presenza di aggressività nel maschio che non nelle donne, e questo già in giovane età. prescindere dai comuni modelli A educativi occidentali, che accettano e pertanto stimolano una maggiore aggressività nei ragazzi piuttosto che nelle ragazze, non si può negare una 15 influenza di natura biologica in tale differente potenziale aggressivo. Come studiato nelle varie specie di animali, così anche nei primati l’esposizione prenatale comportamento agli aggressivo, androgeni per cui incrementa costituiremmo il l’unica eccezione se non fosse così anche per noi “umani”, o meglio noi “animali razionali”. Gli effetti degli androgeni si manifestano con la pubertà, quando iniziano ad aumentare i livelli di testosterone nei ragazzi, che in quel periodo dello sviluppo tendono in modo maggiore ai comportamenti aggressivi. Anche nell’uomo le lotte fra maschi e l’aggressività a scopo sessuale sono soggetti a questa interferenza ormonale. Ovviamente non esistono ricerche supportate in modo scientifico, che comprovino in modo inconfutabile tali teorie sugli esseri umani, non potendo per ovvie ragioni etiche riprodurre nell’uomo gli esperimenti effettuati sugli animali da laboratorio. Ciò nonostante, abbiamo qualche testimonianza storica significativa che, quantomeno, ci suggerire di non essere molto lontani dalla verità con le nostre deduzioni. Infatti, alcune autorità, in passato, hanno tentato di reprimere le aggressioni sessuali attraverso l’evirazione dei condannati per tali crimini. Effettivamente si è rilevato che, con il cessare della pulsione sessuale, venivano meno anche gli attacchi aggressivi sia eteroche omosessuali [ HAWKE, 1951; STURUP, 1961; LASCHET, 1973]. Ora abbiamo imparato, studiando i metodi nella ricerca scientifica, che ci vuole ben altro per cominciare a poter parlare di risultati inconfutabili che possano costituire dogma. Di contro, per quanto consapevoli dei limiti insiti in certi risultati, questi non possono essere del tutto disattesi. In casi particolari ci sono stati anche trattamenti 16 con steroidi di sintesi, che inibiscono la produzione di androgeni da parte dei testicoli e che hanno effettivamente ridotto l’aggressività a sfondo sessuale, ma come osservato anche da WALKER e MAYER [1981], l’efficacia dei farmaci antiandrogeni viene meno nelle altre forme di aggressività. Anche le misurazioni dei livelli di testosterone, paragonati al tasso di tendenza a comportamenti aggressivi, hanno stabilito una correlazione diretta. Bisogna però qui ribadire che correlazione non è sinonimo di causalità. Infatti, nessuno studio correlazionale è in grado di darci la certezza che alti livelli di testosterone inducano ad atteggiamenti aggressivi o alla dominanza su altri. Secondo gli esperimenti effettuati da MAYER-BAHLBURG [1981], i tentativi di dimostrare la causalità tra gli effetti organizzativi attivazionali del testosterone e l’aggressività durante e dopo il periodo della pubertà nei maschi umani si sono dimostrati vani. Mentre, anche se le ricerche di ALBERT , WALSH e JONIK [1993], hanno altrettanto dimostrato che l’aggressività non aumenta con i livelli di testosterone, castrazione e non che essa non viene eliminata con la viene testosterone, essi sono incrementata con le iniezioni di giunti a conclusioni diverse. Ovvero, asseriscono che la confusione venga ingenerata dalla mancanza di una opportuna distinzione tra aggressività sociale e difensiva nell’uomo e che gli eccessi di aggressività negli esseri umani siano solitamente reazioni esagerate a minacce, siano esse reali o solamente percepite tali. In questo modo il ricercatore può confondere gli attacchi difensivi con l’aggressività sociale. In conseguenza a tale riflessione, la mancanza dell’incremento di un attacco difensivo in relazione ai livelli di testosterone, sarebbe del tutto conforme a quanto osservato anche nelle diverse specie di 17 animali. Io qui mi vorrei spingere oltre nelle ipotesi che possano contribuire ad inficiare la giusta lettura dei risultati sperimentali nei confronti dell’uomo. Come abbiamo appreso dallo studio sulle metodologie relative alla sperimentazione e dei rispettivi limiti in ordine all’obiettività nei risultati, uno degli scogli più difficili da superare è proprio la soggettività nell’osservatore [BATTACCHI M.W., 1983] [BORGOGNO F. 1978]. Nel libro “L’aggressività” di Konrad Lorenz, Giorgio Celli, che ne scrisse l’introduzione, nel capitolo intitolato “Quasi trent’anni dopo.. c’era una volta Lorenz” ci rammenta come il mondo scientifico ancora in tempi piuttosto recenti stentava ad accettare l’origine animale alla base dei comportamenti dell’uomo. Siamo dunque certi che i risultati degli esperimenti sull’aggressività nell’uomo siano sempre stati valutati in assenza di qualsivoglia, magari anche inconscio, rifiuto di vedere la realtà? Non solo. L’aggressività nell’uomo, così come sublimata, ritualizzata, reindirizzata o inibita dall’educazione etico-morale, riesce ad essere manifestazione riconosciuta e comparata con la sua originaria? Ovviamente, bisogna porre molta attenzione alle interpretazioni delle manifestazioni aggressive nell’uomo. Un animale esprime l’istinto aggressivo in modo evidente mentre è ormai asserzione comunemente condivisa che l’uomo tende a reprimere molti degli istinti primordiali, quando persino a somatizzare anche le forme di aggressività, che in tal modo divengono meno manifeste, per cui meno individuabili e difficilmente valutabili. Dunque, riassumendo in breve quanto sin qui detto, si è evidenziato che alcune regioni cerebrali del Sistema Nervoso Centrale sono coinvolte in modo particolare nel sollecitare il comportamento aggressivo e che vi sono dei neurotrasmettitori che svolgono un 18 ruolo fondamentale nell’attivazioni o inibizione di tali comportamenti. Allo stesso modo, è emerso che le forme di aggressività si distinguono per la loro funzione e che quella collegata alla riproduzione è soggetta a variazioni di tipo ormonale. Più in particolare, abbiamo visto che la PAG risulta essere coinvolta nei comportamenti difensivi e nella predazione e che questi atteggiamenti sono modulati dall’ipotalamo e dall’amigdala. Mentre l’amigdala basolaterale evoca l’aggressività, il nucleo centrale l’inibisce. Abbiamo inoltre visto che l’ipotalamo mediale facilità l’aggressività difensiva e che le connessioni di tipo inibitorio con l’ipotalamo laterale riducono l’atteggiamento predatorio. Parlando dei neuromediatori, è emerso che i neuroni serotoninrgici riducono i comportamenti a rischio, per cui la resezione degli assoni serotoninergici del proencefalo li accresce. Troviamo ulteriore conferma di tale potere inibitorio della serotonina nel fatto che la somministrazione serotoninergica di farmaci che diminuiscono la facilitano tendenza la trasmissione all’aggressività. Ricordiamo ancora che anche la mutazione del gene responsabile delle monoamino – ossidasi di tipo A, l’enzima responsabile della degradazione della serotonina, porta a frequenti comportamenti antisociali. Come appena accennato, i comportamenti aggressivi collegati alla riproduzione, invece hanno un origine di tipo ormonale steroidea. In particolare, gli androgeni stimolano nei maschi l’attacco offensivo. Infatti, gli stessi effetti attivanti l’attacco offensivo si verificano anche nel comportamento sessuale maschile. 19 Nell’aggressività collegata all’inferenza degli androgeni, la regione cerebrale implicata sembra risultare l’area preottica mediale. Abbiamo invece osservato come l’aggressività materna nei ratti sia strettamente collegata alla secrezione di progesterone, ma che devono intervenire anche contestualmente elementi comportamentali, evidentemente appresi, sollecitati a livello tattile ed olfattivo, nella cui assenza l’aggressività viene meno. Nell’ultima parte di questo capitolo abbiano visto le difficoltà che emergono nel traslare i risultati ottenuti nello studio degli animali sull’uomo. Certo è che gli androgeni favoriscono anche nell’uomo il comportamento aggressivo e che alti livelli di testosterone sono concomitanti con la tendenza all’aggressività; ma l’elemento di più certa individuazione è che l’effetto degli androgeni aumenta la tendenza alla dominanza e che l’aggressività risulterebbe essere un atteggiamento conseguente. Possiamo dunque asserire che le regioni cerebrali comunicano tra loro attraverso la rete neuronale elaborando informazioni , azioni e reazioni, attraverso i neurotrasmettitori che intervengono nella trasmissione sinaptica. Così come possiamo sostenere che l’aggressività abbia anche un origine fisiologica, allo stesso modo è evidente già capitolo che esistono altri elementi di tipo in questo comportamentale, geneticamente trasmessi, corresponsabili nel verificarsi delle forme di aggressività, come emerge ad esempio in modo evidente nell’aggressività materna dei ratti. Nel prossimo capitolo descriverò i modelli comportamentali che le varie specie si tramandano geneticamente per garantirsi la sopravvivenza. 20 1.2 Le basi filogenentiche dell’aggressività “ La teoria dell’ aggressività inter- ed intraspecifica.” Nel campo etologico, il precursore è senza dubbio il naturalista Charles Darwin che, con le sue ricerche e le sue opere sull’evoluzionismo e sulla conservazione della specie, ha lasciato ai posteri degli assunti di base fondamentali. Come ci suggerisce il padre dell’etologia Konrad Lorenz, per cercare di comprendere le origini di un dato comportamento, perpetrando la filosofia di Darwin, chiedersi: “A che scopo?”. il ricercatore deve sempre Ogni comportamento osservato, dunque anche la manifestazione aggressiva, ha una origine ed una funzione che sono interdipendenti. Pertanto, se si riesce ad individuare la ragion d’essere di un determinato comportamento, immancabilmente si finirà per conoscerne l’origine. Partiamo dal fondamento che ha dato origine a tutte le successive ricerche, volte a conoscere e valutare in primis il comportamento animale e successivamente quello umano, cioè la naturale predisposizione all’autoconservazione , finalizzata di ogni essere vivente alla sopravvivenza della propria specie. Intervengono qui due elementi fondamentali per la sopravvivenza, che potrebbero sembrare quasi contrapposti come indirizzo comportamentale: l’aggressività da una parte e l’adattabilità dall’altra. Nell’immaginario collettivo la parola aggressività viene subito identificata come una forma di contrapposizione, mentre l’adattamento viene assimilato all’accondiscendenza, al “cedere a”. E’ stata proprio l’intuizione geniale di Darwin a percepire come 21 ambedue gli elementi, ognuno per il suo verso, contribuiscono in modo fondamentale alla conservazione delle diverse specie. DARWIN, nel suo libro “Origine della Specie” , selezione naturale e lotta per l’esistenza [1872 (edizione originale)-1967 (versione tradotta e pubblicata in italia) ] usa in modo intuitivo delle terminologie, formando delle asserzioni che, alla luce delle attuali conoscenze, già contenevano in modo evidente le future risultanze delle ricerche etologiche. spiega cosa Quando nel terzo capitolo s’intende per lotta per l’esistenza, inquadra il problema in modo molto ampio, ricomprendendo anche la semplice capacità di una pianta di resistere alle intemperie. Usava dunque la parola “lottare” senza poter presagire che, nel giro di “appena” un secolo, un termine di derivazione simile, “aggressività”, avrebbe assunto anch’esso un valore diverso e più importante che non la semplice indicazione di una forma di violenza. Nella sarebbe stata sostanza che accomuna individuata le due terminologie la spinta vitale necessaria alla conservazione delle specie. Kornrad Lorenz , appunto attribuendo questa nuova veste a tale terminologia, fu soggetto a non poche contestazioni quando intitolò il suo libro, “L’agrressivtià”, oggi conosciuto con “Das sogenannte Boese” (Il cosiddetto male). Darwin, quando accenna alla lotta per la sopravvivenza, punta maggiore attenzione sulle variazioni casuali negli animali e nelle piante, che favoriscono la nuova variante rispetto alla precedente, quindi parla sostanzialmente di adattamento, del cedere a condizioni imposte, in un’ottica quindi lontana rispetto alla nostra disquisizione sull’aggressività. Ciò nonostante pone l’attenzione su una differenziazione importante, che successivamente ha assunto notevole rilevanza negli studi che sono seguiti. Egli ha fatto una 22 prima distinzione tra lotta intraspecifica e quella interspecifica, asserendo che la lotta fosse più aspra tra individui di una varietà della stessa specie che tra individui di specie diverse. Inoltre, Darwin si avvicina in modo particolare alle evidenze emerse dalle analisi dei suoi successori, quando accenna a quella che lui definisce “selezione sessuale”, parlando in modo chiaro dell’aggressività tra maschi della stessa specie finalizzata alla riproduzione. Troviamo persino una sorta di input su quanto avrebbe detto molti anni dopo Lorenz, riferito alla ritualizzazione dell’aggressività, quando racconta delle danze degli uccelli per aggiudicarsi la partner. A questo punto ritengo necessario un approfondimento sulle varie forme di aggressività. Come già accennato, nell’atteggiamento aggressivo dell’animale, bisogna differenziare tra quello di tipo inter- e quello di matrice intraspecifica. Ambedue sono finalizzati alla conservazione delle specie, ma con funzioni differenti. L’Aggressività interspecifica, ovvero tra specie diverse, si riferisce quasi esclusivamente all’istinto della predazione. Parliamo dunque dell’istinto dell’aggressione fisica di un animale nei confronti di un altro, finalizzato al cibarsene. Null’altro della famosa catena alimentare dei carnivori [vedi fig 1.3]. 23 Fig 1.3; scena di predazione del cacciatore quadrupede più veloce in assoluto, tratta da www.arcadiaclub.com Meno frequente è l’aggressività finalizzata alla difesa del territorio tra specie diverse essendosi i carnivori, durante la loro evoluzione, specializzati al punto tale da essersi creati ognuno la propria nicchia ecologica. Verrebbe da supporre che tra gli erbivori non esista aggressività, mancando l’ esigenza di catturare e sopprimere altri animali per cibarsene. Così invece non è. Più avanti vedremo come anche negli animali non predatori l’aggressività intraspecifica svolga un ruolo fondamentale, ma quello che ora ci interessa è che persino nel contesto della convivenza di specie diverse, l’erbivoro o insettivoro ha necessità di sviluppare uno speciale tipo di aggressività. Nel III capitolo del libro di Lorenz , “ Quel che c’è di buono nel male”, l’etologo spiega come questa lotta fra chi mangia e chi viene mangiato conduce ad un forma di aggressività da parte delle prede, di tipo più puro che non quella che muove il predatore. È una forma di aggressività che si incontra maggiormente tra gli animali che vivono in gruppo e che, quantunque glie se ne presenti la possibilità, aggrediscono il loro potenziale predatore. Questa manovra di controffensiva è stata 24 identificata con il termine inglese “mobbing”, che in italiano si può tradurre con la parola “braccare”, per usare un termine venatorio [vedi fig. 1.4] Fig. 1.4, scena di braccaggio di un falco da parte di gabbiani, tratto da www.effewebdesigne.com 25 Una ulteriore e più agguerrita forma di aggressività è quella dettata dalla “disperazione”, cioè quella scaturita dal panico per non avere via di scampo, non potendo lasciare libero sfogo all’impulso della fuga. Hediger l’ha chiamata “reazione critica”. Ma perché si parla di aggressività più e meno pura? Come abbiamo già visto nel primo capitolo di questa tesi, attraverso l’esame degli studi di neurofisiologia del comportamento aggressivo, nell’istinto di predazione, che di fatto porta ad una vera aggressione fisica con la verosimile soppressione della preda, non si verifica una sensazione di disagio nel predatore. Anzi, negli esperimenti di condizionamento operante dei ratti di laboratorio, si è visto che lo stimolo alla predazione costituisce un rinforzo positivo e quindi porta all’autostimolazione; contrariamente a quanto avviene nello stimolare della sensazione di paura che porta a quelle altre forme di aggressività appena citate. Mentre le citate forme di aggressività sono appunto volte alla sopravvivenza della specie, quelle intraspecifiche sono più precipuamente finalizzate alla conservazione della specie. Infatti, la parola sopravvivenza contiene le condizioni intrinseche di vita o morte ed implica sia l’aggressività di attacco che uccide, che quella difensiva (braccaggio – reazione critica) che sottrae dalla morte. Nell’aggressività intraspecifica è invece più attinente il termine conservazione in quanto i combattimenti non portano, ad esclusione di rari casi spesso fortuiti, alla soppressione del conspecifico. Le lotte tra animali della stessa specie sono volte a garantire una consona dislocazione territoriale per garantire il cibo per tutti, alla conservazione della gerarchia nel branco ( sia per consentire la pacifica convivenza , che per una più funzionale strategia di 26 caccia) ed alla conquista della femmina per l’accoppiamento. Lorenz ha spiegato magistralmente nel capitolo “prologo in mare” come i piccoli pesci della barriera corallina dai colori sgargianti, si scagliano esclusivamente contro i propri conspecifici affinché non si possano insediare nello stesso territorio troppi pesci che usufruiscono della medesima nicchia ecologica per il nutrimento. Lorenz ha chiamato questo fenomeno lo “spacing out” che noi individuiamo con una sorta di mutua repulsione. Lorenz, in quel capitolo ha anche spiegato che l’aggressività di un soggetto aumenta o diminuisce proporzionalmente alla distanza che intercorre tra il territorio proprio e quello dell’intruso. Ovvero, più il soggetto che difende il proprio territorio si trova al centro dello stesso, più aumenta la sicurezza e quindi la determinazione, mentre più vi si allontana e minore diviene la determinazione dovuto alla crescente insicurezza. Questo rende quasi matematico il fatto che l’intruso da queste sfide ne esce sconfitto. Non molto tempo fa un mio amico mi ha chiesto di poter lasciare, per un tempo limitato alle esigenze di trasferimento, le sue galline ed il gallo presso il mio ricovero dove già detengo una mezza dozzina di galline ed un gallo di nome Anacardio. Ho acconsentito e, quando questo mio amico è arrivato e ha inserito i suoi animali nel recinto, ha osservato che forse lo spazio era troppo esiguo per la pacifica convivenza dei due galli. Ha però voluto aggiungere che il suo gallo grasso, grosso e forte era anche molto agguerrito e che avrebbe senz’altro annientato il mio. Abbiamo dunque collocato gli animali nel recinto e non c’è voluto molto che i due galli iniziassero a combattere. Forse la presenza di nuove galline non dispiaceva affatto al mio gallo, ma la presenza del rivale l’ha subito portato su tutte le furie. 27 Proprio la mia sete di conoscenza sul comportamento animale mi ha trattenuto dal separali immediatamente, ma non avrei ovviamente atteso un eventuale epilogo tragico. Invece proprio pensando alla mia tesi ho subito preso la mia macchina fotografica digitale per scattare qualche foto, che quindi avete il piacere di ammirare qui sotto. Ma la cosa più importante è che ho avuto conferma del fatto che l’animale che si trova nel proprio territorio ha la meglio sull’altro. Infatti, dopo alcuni brevi attacchi e contrattacchi, dove i due contendenti si beccavano rispettivamente sulla cresta, l’intruso si è sdraiato per terra sul fianco ed immobile. Ho voluto prima immortalare la scena e poi l’ho tolto dal recinto, chiedendo al mio amico di collocarlo da qualche altra parte. Se lo spazio fosse stato sufficiente, sicuramente avrebbero potuto convivere, instaurandosi un rapporto gerarchico, il cosiddetto “pecking order” di cui parlero più avanti. Nelle seguenti figure si vede la sequenza del “peching order” nel mio piccolo pollaio [Fig.re 1.5 e 1.6] Fig. 1.5, scena in cui il mio gallo combatte contro l’intruso 28 Fig. 1.6, il gallo intruso manifesta con questo gesto la sottomissione e l’altro lo ignora Tornando alle spiegazioni sullo “pacing out” di Lorenz, per dare una idea più chiara di quanto stava asserendo ha voluto portare un esempio elementare che riguarda l’essere umano. In sintesi, dice che in una piccola comunità trovano spazio non più di un professionista o artigiano di ogni specifico genere, per conservare una clientela sufficientemente numerosa che gli garantisca un guadagno idoneo alla sopravvivenza. Abbiamo oggi esempi che vanno ben oltre e che dimostrano come la condizione di una stretta convivenza di molte persone sul medesimo territorio crei elementi di stress e di maggiori esternazioni aggressive. Si è visto come, nelle città e nei ghetti con una maggiore densità di popolazione, emergano forme di aggressività che esulano da vere esigenze di sopravvivenza e che, a primo impatto, sembrerebbero essere ingiustificate. Questo potrebbe indicarci che, se pur ci basta uno spazio proprio alquanto 29 ridotto per il nutrimento del nostro corpo, forse per il nutrimento della nostra psiche necessitiamo di maggiori spazi e di maggiore libertà di movimento. Ho già accennato all’aggressività organizza le sviluppati. per principio gerarchico che comunità di animali intellettivamente già più Tale tipo di ordinamento, che si sviluppa attraverso reciproci atteggiamenti aggressivi, serve per stabilire e fornire consapevolezza nei soggetti di una stessa comunità del proprio ruolo detenuto. Questo per evitare superflue lotte cruente e dannose che porterebbero, oltre alla morte certa di qualche individuo, alla disgregazione del gruppo. Uno dei primi a scoprire questo tipo di ordinamento fu SCHJELDERUP – EBBE, studiando i polli domestici e coniando il termine “ pecking order” (ordine di beccata ), che ancora fino a tempi recenti è stato utilizzato anche in contesti diversi. L’ordine gerarchico è propedeutico a molteplici funzioni. Da una parte permette la pacifica convivenza dei componenti di una comunità e dall’altra consente una maggiore azione sinergica nelle tattiche di caccia, come avviene per esempio nei branchi di lupi. Ancora in modo maggiore, salta all’occhio come l’aggressività intraspecifica intervenga nella riproduzione. Sarà infatti il capo branco ad esercitare il diritto di monta, garantendo una progenie forte sia fisicamente che caratterialmente. Così si genera una prole tendenzialmente sana sotto tutti gli aspetti, fatto che è maggiormente conveniente per la conservazione di quella specie. Questa lotta, finalizzata ad avere la supremazia nel diritto di accoppiamento, ovviamente si trova anche negli animali che non vivono in branco, ma evidentemente ha lo stesso scopo. È proprio 30 questo atteggiamento combattivo - riproduttivo che garantisce la trasmissione filogenetica dell’aggressività. Si trova, cioè, proprio nella trasmissione dell’informazione genetica alla progenie la garanzia di conservare nel tempo gli elementi che attivano la tendenza a lottare per conquistarsi un posto nella propria comunità, ma anche per mantenere le altre caratteristiche di importanza vitale nei membri di una stessa specie nei rapporti con altri conviventi . Come vedremo nel prossimo capitolo, la filogenesi non è però sola nel garantire il verificarsi di tali comportamenti vitali. Prima di riassumere a brevi tratti i concetti salienti del presente capitolo voglio però fare cenno ad una componente che, se anche meno attinente al tema centrale della mia tesi, costituisce anch’essa elemento importantissimo, tendente forse più alla convivenza che non alla sopravvivenza in senso stretto. Mi riferisco alla pulsione aggressiva, che diviene fondamentale per il vincolo di amicizia, per il crearsi dell’intima convivenza tra due esseri. Gli studi condotti da Tinbergen sui ciclidi e quelli di Heinroth sulle anatine, dimostrano come il vincolo tra il maschio e la femmina delle rispettive specie, nasce sostanzialmente da un tentativo di aggressione del maschio verso la femmina. Il maschio, nell’aggredire il suo conspecifico, raggiunta una distanza che gli consente di verificare che si tratta di una femmina (che costituisce stimolo inibitorio), tende a sfogare l’atteggiamento combattivo verso altri o ad effettuare, come avviene nelle anatine, una rapida inversione del movimenti con il becco, con l’evidente intento di evitare l’epilogo originario, facendo sfociare il tutto in una forma di ritualizzazione dell’attacco. Ritualizzazione che porterà alle oggi ben conosciute forme di corteggiamento. Quindi, mentre i ciclidi 31 creano un legame con la partner reindirizzando il loro istinto aggressivo verso altri maschi della stessa specie, nelle anatre tale istinto subisce una ritualizzazione. Questo inciso voleva brevemente puntare l’attenzione su come persino il legame che noi spesso identifichiamo con la parola “amore”, nasce da una pulsione di tipo aggressivo e che, in questo contesto, potremmo individuare nell’aggressività la spinta vitale fondamentale per tutti i tipi di rapporti che intervengono nella convivenza. In ogni caso, tornerò più avanti sul tema dell’aggressività reindirizzata presente tesi e ritualizzata, quando nel capitolo settimo della parlerò dell’aggressività repressa e proiettata nell’uomo. Voglio ora riassumere le informazioni principali fornite da questo capitolo. Abbiamo visto che l’aggressività ha come funzione originaria quella di coadiuvare nella sopravvivenza e conservazione delle specie. La parola coadiuvare vuole indicare che vi sono anche altri fattori che possono intervenire nella scomparsa o conservazione di una specie, per esempio, particolari calamità naturali, cambiamenti dell’ecosistema e, non per ultimo, gli interventi spesso sconsiderati o disattenti dell’uomo. Ma tornando alla pulsione aggressiva, proprio a causa delle sue funzioni diversificate secondo il dogma etologico, sottostà a divisione basilare, distinta in inter- ed intraspecifica. Quella interspecifica si riferisce agli atteggiamenti aggressivi tra specie diverse e comprende l’aggressività predatoria , quella difensiva (mobbing e reazione critica) e, a volte, quella riferita alla 32 difesa del territorio, quando per esempio specie diverse traggono sussistenza dalle medesime risorse. In alcuni casi si è osservata anche una aggressività territoriale tra specie diverse senza una apparente ragione funzionale. Lo si potrebbe attribuire ad una reazione in sintonia con la teoria idraulica dell’aggressività, sempre sostenuta da Lorenz e in qualche modo confermata anche da CRAIG, nei suoi esperimenti sull’istinto di corteggiamento nei maschi di tortore dal collare orientale. In sintesi , si ipotizza che una forma di aggressività (ma anche di altre pulsioni che comunque trovano la loro fonte nell’aggressività) per troppo tempo inespressa necessita prima o poi di uno sfogo, trovando spesso una espressione innaturale. Potrebbe darsi anche che vi siano delle ragioni di natura diversa, non ancora rivelatesi ai nostri occhi. È comunque confortante sapere che atti di apparentemente ingiustificata negli animali aggressività costituiscono l’eccezione, che per natura propria confermano la regola. La forma “più pura” dell’aggressività sembra però risiedere in quella intraspecifica, ovvero tra appartenenti alla stessa specie. I ciclidi costituiscono un esempio formidabile per spiegarci la teoria della mutua repulsione (spacing – out), che troviamo in tutti gli esseri che non vivono in branco, comunità o schiere. Una aggressività di difesa del territorio che ha la funzione di una consona distribuzione sul territorio di animali che trovano sostentamento dalle medesime fonti nutritive. L’aggressività ha anche la funzione di stabilire i singoli ruoli all’interno del branco e creare una gerarchia che garantisce la necessaria coesione, sia per la pacifica convivenza che per le strategie di caccia. 33 Abbiamo visto come nella riproduzione l’aggressività svolga un ruolo fondamentale, non solo per garantire la trasmissione genetica delle informazioni di maggiore importanza per la sopravvivenza, tra cui la predisposizione all’”aggressività vitale” (da cui l’origine filogenetica), ma anche nella relazione tra gli stessi individui di sesso diverso. È emerso che è proprio l’aggressività la pulsione che spinge il maschio all’avvicinamento del partner ed alla sua conquista e che anche i vincoli più saldi, fondati su basi che noi umani identifichiamo con la parola amore, sono possibili solo grazie alla pulsione aggressiva. Possiamo dunque asserire che l’aggressività e gli atteggiamenti di tipo aggressivo siano tutti geneticamente trasmessi? Sembra di no; in base agli studi effettuati sulla parte acquisita, assimilata ed imparata dell’aggressività, vi è un bagaglio individuale che non è ricomprensibile in quella predisposizione atavica di cui il percorso filogenetico di madre natura ci ha forniti. Si tratta della parte ontogenetica, che contraddistingue varie espressioni di aggressività proprie di ogni singolo individuo. È questo l’argomento del prossimo capitolo. 34 1.3 Le basi ontogenetiche dell’aggressività “ L’incidenza dello sviluppo del carattere, i periodi sensibili ed il rinforzo ” Nel capitolo IV “ La spontaneità dell’aggressione”, del già citato libro di Lorenz, si legge della corrente di pensiero di alcuni psicologi americani che sostenevano che tutta l’aggressività fosse acquisita e che, in assenza di esempi negativi, questa non si sarebbe potuta sviluppare. Metodi educativi impostati su tali basi, usati in quel periodo nei confronti di una serie di bambini, i cosiddetti “nonfrustratio children”, non diedero però i risultati sperati. Lorenz non esclude categoricamente che i rapporti sociali siano implicati nello sviluppo e nella manifestazione dei comportamenti aggressivi, ma ciò nonostante sembra non volersi addentrare più di tanto nell’aspetto ontogenetico, che successivamente è stato studiato in modo più ampio, ma pressoché in modo esclusivo, riguardo il comportamento umano. Vorrei accennare solamente un attimo, per parlarne in modo più specifico ed esaustivo nel paragrafo 2.1 di questa tesi, quando tratterò della “scelta e addestramento di cani da combattimento”, alla possibilità di un comportamento aggressivo acquisito negli animali, utilizzando l’esempio degli esperimenti di condizionamento di PAVLOV[1928]. Lo stimolo incondizionato del cibo evocava nel cane la risposta incondizionata della salivazione. Pavlov, abbinando il suono del campanello (stimolo condizionato) alla presenza della carne, a distanza di qualche prova, riuscì con il solo suono del campanello ad evocare la risposta della salivazione, che così divenne una 35 risposta condizionata. Parliamo quindi di un istinto naturale che diviene comportamento acquisito. Allo stesso modo, abbinando ad uno stimolo naturale che evoca un comportamento di aggressività difensiva uno stimolo condizionato, si otterrà in breve tempo una risposta condizionata. Ovvero un atteggiamento aggressivo difensivo in assenza d’un naturale pericolo (stimolo incondizionato). In modo molto semplice, o forse un po’ semplicistico, possiamo già qui parlare di una espressione di aggressività acquisita. Certamente si tratta di un tema molto più complesso, ma a volte è più facile comprendere gli assunti di base di una teoria con esempi elementari. Torno alle teorie dell’aggressività appresa, studiate dagli psicologi comportamentisti. Bisogna addentrarsi in un campo che è quello degli studi dell’età evolutiva dell’uomo e delle sue esternazioni aggressive, che qui significano violenza e comportamento deviato. Secondo le teorie degli psicologi dei primi del novecento, le emozioni che precedono l’atto aggressivo violento sono e/o la frustrazione. l’ostilità L’aggressività può avere come matrice sentimenti opprimenti di noia o monotonia, che possono stare ad indicare una richiesta di attenzione. Vi è notevole differenza tra l’aggressività biologica innata, di cui abbiamo parlato finora, e quella spinta derivante dal sentimento d’ostilità attraverso i rapporti interpersonali, quindi di origine ambientale. Per Freud, gli atti violenti e criminali erano una forma d’autopunizione della colpa edipica. KOHUT invece ipotizza la teoria narcisistica, dove la genesi del comportamento aggressivo può avvenire per un deficit di 36 maturazione psichica del bambino che non riesce a domare il suo arcaico esibizionismo e non arriva quindi alla piena autostima. Le varie teorie che parlano dell’età evolutiva dell’uomo fanno quasi tutte riferimento alle frustrazione che l’infante vive a causa di una assenza totale o parziale della figura del genitore, come anche a causa della scarsa capacità educativa da parte dello stesso. Queste frustrazioni, inizialmente represse, sfocerebbero successivamente in azioni di aggressività incontrollata. Anche queste teorie riescono solo parzialmente a motivare le varie espressioni di aggressività e, anche a livello statistico, l’influenza della frustrazione infantile nei criminali violenti non fornisce delle cifre sufficientemente rilevanti, come fa notare Gorge B. PALERMO , nel suo libro “ Aggressività e Violenza oggi”. Tra gli anni 50’ e 60’ sono nate le teorie sociologiche che tendevano sempre più ad attribuire gli atteggiamenti violenti e dunque criminali alla struttura sociale, ovvero ad una malsana società che costituisce l’humus nel quale prospera l’atteggiamento aggressivo. L’origine di tale atteggiamento non andava ricercata nell’individuo o nella famiglia, ma nella società ingiusta, discriminatoria e repressiva. Quella linea di pensiero attribuiva, inoltre, la scarsa salubrità della società al crescente capitalismo e, quindi, al materialismo. Anche la politica, che accoglieva tale teoria, iniziò ad attuare politiche sociali volte all’istruzione e sostentamento economico degli strati sociali più disagiati. Tra gli anni 60’e 70’ aumentò il disprezzo delle regole, della famiglia e di ogni autorità che era vista esclusivamente come manipolatrice, deprivante della libertà personale. Il rifiuto totale di regole e la rabbia dovuta allo smarrimento incrementarono l’uso delle droghe e gli atteggiamenti violenti e criminali. Persino la 37 nuova era tecnologica veniva avvertita come una minaccia. Restò, però, difficile attribuire una precisa colpa alla società in modo così generico. La tendenza di misurare la rispettabilità di una persona con i valori materiali da essa posseduti, e gli atteggiamenti che ne conseguirono, da parte dei meno abbienti per superare le frustrazioni, hanno di fatto creato un allargato substrato tendente alla delinquenza, nonché alla violenza. Ritengo ora opportuno tornare a parlare dello sviluppo psicologico dell’età evolutiva in modo più specifico e dei periodi sensibili. Lo sviluppo del bambino avviene all’interno dei confini del microcosmo di una entità sociale detta “famiglia”, attraverso il rapporto genitore - figlio. È all’interno del rapporto bivalente “gemeinschafft” (gruppo inteso come nucleo di persone legati per territorio , interessi o parentela) e “gesellschaft” (gruppo di persone inteso come società, ovvero caratterizzato da un equilibrio di rapporti interpersonali e regole che costituiscono il collante [termini tedeschi in “Aggressività e violenza, oggi” di G.B.Palermo]) che il bambino forgia il suo “Io” sociale. È fondamentale per lo sviluppo psicologico sano e relazionale del bambino la risposta ai suoi bisogni affettivi, la coerenza nell’indirizzo educativo e la presenza di modelli nei quali identificarsi. In assenza di ciò, emergono incapacità relazionali e di empatia verso altri, che frequentemente portano ad atteggiamenti impulsivi di aggressività. Cresce di pari passo la coscienza personale con quella sociale. Il bambino, una volta preso conoscenza del proprio io, inizia a sviluppare una coscienza. Coscienza che è il frutto di un condizionamento rafforzato durante le fasi evolutive dell’infanzia. Il condizionamento deve basarsi su valori etici e morali ed è di tipo interattivo, dove genitore e bambino mostrano, rispettivamente, 38 aspettative che desiderano vedere realizzate. Un eccesso di regole e condizionamenti rigidi portano invece alla formazione di una personalità pavida ed insicura, incapace di reagire ad eventuali aggressioni. Anche in questo condizionamento la coerenza ha un ruolo fondamentale in quanto, in assenza di certezze, l’atteggiamento opportunistico ed insicuro tende a far reagire con violenza ed aggressività alle situazioni di conflitto. Oltre all’importanza dell’ambiente di vita nell’età dello sviluppo, emergono anche altri fattori che contribuiscono alla tendenza verso atteggiamenti aggressivi ed in particolare agli atti violenti. Le numerosissime ricerche e gli studi effettuati dallo stesso Palermo nella sua lunga carriera professionale hanno evidenziato l’influenza dell’età (maggiormente sono soggette le persone tra i 16 e 34 anni anche se la soglia inferiore tende ulteriormente a scendere), del sesso (il maschio è nettamente più violento), della povertà, della scarsa istruzione e dell’ambiente di crescita esterno dalla famiglia, nelle persone che mostrano atteggiamenti aggressivi violenti con maggiore frequenza. Tutti gli studi longitudinali che hanno attinenza all’argomento trattato in questo capitolo, indicano come l’ambiente di crescita sia fondamentale per la tendenza alla violenza e all’aggressione. Già in età adolescenziale si evidenziano elementi attendibili, che lasciano presagire un futuro con tendenze alla violenza e al crimine. Fondamentale, come già evidenziato nei passi precedenti, è la famiglia. Towbermann, Potrhrow, Stith e lo stesso Palermo sottolineano come il rapporto “genitori – figli” interagisce sulla formazione del carattere impulsivo che tende all’aggressione. Palermo parla, sulla scorta della propria esperienza, della triade di 39 caratteristiche riscontrata nei soggetti sottoposti alla sua attenzione, ovvero “ assenza del padre - scarsa frequenza scolastica – uso di alcool o stupefacenti . In un’altra ricerca è emerso che i ragazzi a scuola risultati non cooperativi e non interessati alle attività, tendevano a finire in ospedali penitenziari, mentre quelli disprezzanti e distruttivi tendevano a finire in carcere. È dunque evidente che l’ambiente e quanto da esso appreso svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo della persona e nelle esternazioni delle diverse forme di aggressività. La teoria dell’apprendimento sociale distingue l’aggressività in primaria e reattiva. Ho già accennato alla forma reattiva, parlando delle frustrazioni, quindi dei sentimenti di umiliazione e degli abusi, come sostenuto anche da K. HORNEY. P. SCHILDER propende invece per la forma primaria, ritenendo che il bambino, crescendo nella definizione della propria immagine corporea, tende ad una forma di autoaffermazione ostile a carattere distruttivo per dominare il mondo che lo circonda. Tornando invece alla teoria del rinforzo, R.BLACKBURN ci suggerisce l’identificazione deviante come tipologia di acquisizione di un comportamento aggressivo, nel suo caso inteso come comportamento delinquenziale. Ne deriva quindi, come suffragato anche da una serie di studi statistici nei primi anni novanta di BUSCH e colleghi, che il comportamento delinquente di un figlio avente un padre con un passato criminale è il riflesso della normale identificazione con il padre, introiettandone gli attributi. Sono state quindi individuate e studiate delle vere e proprie forme di patologie comportamentali dell’età evolutiva. Vengono implicate nell’evoluzione di un comportamento antisociale il DPO “Disturbo Provocatorio di Opposizione”, l’HIA 40 “l’iperattività Impulsiva e deficienza Attentava”, e il CD “Disturbo nella Condotta”. Tutte le ricerche longitudinali danno una indicazione del coinvolgimento dei presenti fattori in una deviazione delinquenziale, ma solo il CD sembra avere, come anche sostenuto da Palermo, una vera incidenza verificabile. MENNIGER ha, a seguito dei sui studi, coniato il termine “ dyscontrol reaction” (reazione del controllo difettoso), riferito al comportamento antisociale esplosivo che deriverebbe da un sovraccarico di energia aggressiva e da un sistema di difesa instabile dell’ego. Questa teoria sembrerebbe quasi voler tornare a dare una spiegazione di tipo innatista, anche se verosimilmente questa carica aggressiva e instabilità dell’io, sono a loro volta riconducibili ad eventi che hanno formato il carattere della persona e dunque di origine acquisita. Abbiamo dunque visto che l’ambiente gioca anch’esso un ruolo fondamentale nella creazione di atteggiamenti aggressivi. Così emerge che, quanto appreso nell’età evolutiva, è di fondamentale importanza nella formazione, sia della personalità dell’uomo come anche di altri esseri viventi meno complessi. Vi sono dei periodi particolarmente sensibili alle influenze ambientali durante la crescita dei bambini e quanto appreso in quei periodi temporali lascia dei segni indelebili nel carattere delle persona. Può anche intervenire una sorta di emulazione di esempi negativi che costituiscono un rinforzo all’atteggiamento antisociale. Basta osservare l’attuale problema del bullismo. Molte statistiche attuali mostrano come una gran parte di bambini interpellati vorrebbe identificarsi nel bullo di turno mentre altri, pur non sembrando propendere verso un tale atteggiamento, in caso della scelta alternativa “bullo – secchione”, preferirebbero identificarsi con il 41 primo. Possiamo inquadrare il bullismo nella forma aggressiva definita primaria, la forma di autoaffermazione ostile e distruttiva, tendente a dominare il mondo circostante. Una sorta di evoluzione deviata dell’istinto di sopravvivenza. Sopravvivenza ovviamente non in senso stretto, ma intesa come realizzazione dell’io nel proprio contesto vitae. Tentativo di supremazia che però si manifesta con esternazioni ben poco evolute, bensì pressoché arcaiche. In aggiunta a questa considerazione, che tenta di trovare un legame tra gli istinti primordiali e schemi comportamentali dell’età evolutiva di ragazzi del terzo millennio, vorrei azzardare un altro collegamento atavico - moderno, che di fatto vuole essere solamente un simpatico spunto di riflessione. Sono padre di due maschietti ed una femminuccia nell’età compresa tra gli otto e dodici anni, e come è uso e costume nel nostro contesto sociale spesso capitano inviti, da parte dei compagni, a feste di compleanno organizzate in questi centri di divertimento per bambini con nomi come “ Play Planet” e simili. Sono dei capannoni nei quali si trovano allestiti scivoli, altalene, similpertiche , e cosa più importante, grandi vasche colme di palline colorate. Inoltre, altro fatto fondamentale, inevitabilmente si celebrano più feste di compleanno contestualmente. Qual’è ora il momento clou che ha fatto scattare in me una serie di riflessioni? Quando vado a riprendere la mia progenie a termine della “festa”, la mia domanda di rito è: “come è andata, ragazzi?” L’immancabile risposta è: “Benissimo! Abbiamo fatto la guerra di palline contro un altro gruppo di bambini.” Tale affermazione viene seguita da una serie di racconti e descrizioni in cui mio figlio dice di avere dato uno schiaffo a tizio, mia figlia di essersi difesa con un calcio da caio, l’altro maschio che racconta di aver difeso il suo 42 festeggiato dalle minacce di altri con degli spintoni. Tutto questo accompagnato da sorrisi serafici e molto entusiasmo. È quasi superfluo dire che i miei raccontano puntualmente di avere avuto la meglio e che sono stati gli altri ad iniziare. Fra me e me penso: “e meno male che era andato tutto benissimo” . Ma si tratta di una loro percezione, nel dire che sia andato tutto benissimo, o possiamo sostenere che questa sorta di competizione è un fatto “benissimo”? Ingenuamente, mi chiedo ogni volta perché debbano sempre accapigliarsi con altri bambini ed imbarcarsi in delle battaglie per conquistare la vasca con le palline colorate. Forse perché è la cosa più naturale di questo mondo. Probabilmente anche l’era supertecnologica, “pacifista” e quant’altro, in cui oggi viviamo non riesce a fare a meno dell’intervento degli istinti primordiali per uno sviluppo sano della personalità dell’essere umano. I vari stuoli di bambini che si sentono coesi nel loro gruppo di appartenenza, coalizzati nel perseguire i propri fini, istintivamente tendono a far proprio il territorio (la vasca) per assoggettarlo al proprio fabbisogno. Questo istinto alla conquista e conservazione di un territorio proprio va ben oltre la razionale considerazione del fatto che vi sarebbe sufficiente spazio per contenere e soddisfare anche gli altri gruppi di bambini. Ho voluto inserire questo piccolo scorcio di vita personale per ribadire con quanta naturalezza certe espressioni di aggressività vengono vissute anche dai ragazzi del nostro tempo. Per concludere questa prima parte della tesi, vorrei riassumere i concetti principali circa l’origine e la funzione dell’aggressività. Questo allo scopo di ricollocare il tutto in un unico contesto comune, che ci consente di inquadrare meglio la complessità del fenomeno, ma anche per gettare le basi che necessiteranno alla 43 comprensione e alla valutazione del prossimo capitolo che entra nel cuore del tema di questa tesi. Come ho già avuto modo di accennare nel primo capitolo sulla parte fisiologica del comportamento aggressivo e le rispettive regioni cerebrali direttamente interessate, non esiste relazione determinata ed inequivocabilmente riferita a precipue forme di atteggiamento aggressivo. Se pur vero che sono implicate nell’attivazione dei diversi comportamenti aggressivi centri neuronali ben differenziati, e che per il loro verificarsi intervengono in modo evidente ed efficace una serie di neuromediatori, altrettanto bisogna ammettere che sono ancora molteplici le inferenze sconosciute. Possiamo però asserire, con molta tranquillità, che proprio la complessità dell’interscambio delle informazioni tra le diverse regioni interessate, collegate attraverso la rete neuronale, porta al risultato finale. Il medesimo concetto va applicato alle implicazioni nel comportamento aggressivo di tipo filo e ontogenetico. Anche qui troviamo un continuo intersecarsi di elementi filogenetici con altri ontogenetici, che in modo complementare danno origine alle esternazioni di tipo aggressivo. Del resto, anche a livello somatico il genotipo trae linfa dal fenotipo e viceversa. Che non sia già tutto scritto nel genoma di una essere ce lo ricorda P.ROUBERTOUX [2003]. Egli, giustamente, asserisce che il rapporto genotipo – fenotipo comportamentale è molto complesso, non lineare, non deterministico, ma probabilistico. Non esiste un gene che codifichi per un comportamento come non vi è isomorfismo tra genoma, funzionamento cerebrale e comportamento. Per definire in due parole l’importanza del vicendevole interscambio di informazioni scaturite dal connubio innato – 44 acquisto, vorrei citare una frase di Ida ZIPPO, pubblicata in un saggio che ho trovato su internet sul tema “Il comportamento aggressivo: una prospettiva psicobiologica”. Questa frase recita: “ […] Sicché, ogni nostra fondamentale azione esistenziale trova la sua precisa etimologia biologica nella filogenesi del comportamento, personalizzata dalla colorazione ontogenetica […]” Già nel 1971, GOTLIEB ha con intelligenza collegato il discusso binomio elaborando due schemi che recitano: - 1) Geni struttura Maturazione Comportamento innato. - 2) Geni Struttura Apprendimento Esperienza Comportamento Acquisito. La tesi di Gotlieb è volta a dimostrare l’interdipendenza dei due fattori che tanto hanno scisso il mondo scientifico fino a tempi piuttosto recenti. L’aggressività è dunque una pulsione vitale, volta alla sopravvivenza e alla conservazione della specie, ma anche motore primo per la costituzione di vincoli personali. Essa si forma e muta attraverso il gioco dell’interscambio di informazioni di tipo filo e ontogenetico e le sue manifestazioni possono essere modulate da vari neurotrasmettitori, attivanti la rete neuronale di determinate regioni cerebrali. 45 Capitolo 2 L’uso criminale dell’aggressività nei canidi 2.1 Scelta e addestramento dei cani da combattimento “Le razze canine più utilizzate ed i sistemi di condizionamento e addestramento per la preparazione alle gare” Vorrei fare una premessa relativa allo svolgimento degli argomenti che seguono. Potrebbe sembrare forse più opportuno iniziare questa parte della tesi con la storia e le origini dei combattimenti organizzati tra animali, che vedono coinvolti in particolare alcune razze di cani, anziché passare subito al tema dell’addestramento dei cani da combattimento. La mia scelta ha però ragioni precise. In primo luogo, il presente capitolo, per la sua tematica, lega bene con i precedenti, riportando come avviene in pratica quanto sin qui detto sulle origini filogenetiche ed ontogenetiche dell’aggressività. In secondo luogo, i riferimenti storici mi saranno più utili nella terza parte della presente tesi, quando cercherò di analizzare gli elementi etnici e culturali che intervengono nel manifestarsi di questo tipo di competizioni. Quali sono allora le razze di cani più utilizzati e per quali ragioni? Troviamo in cima alla lista dei cani più utilizzati nei combattimenti il Pit Bull Americano. Una razza proveniente dagli Stati Uiniti, ma che ha le sue origini in Inghilterra. L’American Pit Bull Terrier, nome originario, iscritto nell’albero genealogico delle razze canine nel 1898 dal United Kennel Club, non ottenne però il riconoscimento 46 ufficiale della Federazione Cinofila Internazionale (F.C.I.). Solo nel 1936, a seguito del riconoscimento della razza dall’American Kennel Club (affiliato alla F.C.I.), il ottenuto Pit Bull venne riconosciuto come razza propria anche della F.C.I.. Ricevette però la denominazione più vicina alle sue origini, American Staffordshire Terrier, secondo alcuni proprio per prendere le distanze dal binomio Pitt Bull – cane da combattimento. L’attuale Pit Bull è pertanto solo l’emblema della “cultura” del combattimento fra cani [vedi Fig. 2.1]. Fig. 2.1, “Bruke” splendido esemplare di Pit Bull, di proprietà di Mario Ludovici, Paganica (AQ); ha 4 anni, 27 volte premiato, non ha mai combattuto Infatti, considerando la sua, relativamente recente, nascita in confronto all’antica tradizione dei combattimenti tra cani ed altri animali di grossa taglia, organizzati già durante l’impero romano, emerge in modo ovvio che può essere considerato solo la punta 47 dell’iceberg e che molte altre “razze canine” prima di questa sono state utilizzate a tali scopi. Come approfondirò nella parte storica, sappiamo che i combattimenti tra cani divennero una vera e propria attrazione tra il XVI e XVII secolo, quindi un paio di secoli prima della nascita del Pit Bull. Nulla togliendo a quella che sarà la ricostruzione storica del fenomeno, mi preme evidenziare il fatto che tutte le attuali razze maggiormente impegnate nel mondo clandestino dei combattimenti, come il Rottweiler, il Perro da Presa Canario, il Dogo Argentino ed una serie di altre razze mastinoidi ( che conservano nel nome il termine Mastino o Mastiff, dal latino massatinus, ovvero di masseria), traggono le loro origini da cani del tipo molosso importati in Europa, verosimilmente dai Fenici, verso il VI secolo a.c. È d’obbligo a questo punto fare una breve digressione, ed accennare alle caratteristiche che la cinofilia attuale attribuisce ai cani che sono considerati di tipo molossoide. Nella cinognostica ufficiale, sia nazionale che internazionale, i cani di tipo molosso si contraddistinguono intanto per una serie di caratteristiche morfologiche di tipo proporzionale. La seguente suddivisione anatomica del corpo del cane sarà utile per comprendere meglio tali peculiarità strutturali. L’anatomia generale del cane va divisa in tre grandi parti: testa, tronco ed estremità. Queste parti vengono, a loro volta, suddivise in regioni e sottoregioni. La testa reca la regione cranica e regione facciale con una serie di sottoregioni. Nel cranio, per esempio, troviamo fronte, occipite, tempia, orecchie, zigomi, arcate orbitali, depressione (o salto) naso-frontale, mentre nella regione facciale troviamo le zone sott’orbitali, le arcate zigomatiche il muso, la 48 canna nasale. Poi abbiamo il tronco con le sue sottoregioni che comprendono il collo, zona toracica, garrese, dorso, costato, petto e sterno. Il tronco comprende anche la regione addominale con reni o lombi, ipocondrio e fianchi. Le estremità sono rappresentate dagli arti anteriori e posteriori e dalla coda. tralasciato volutamente Ho una serie di sottoregioni e di altri particolari, la cui menzione, anziché aiutarmi a chiarire il concetto di fondo, finirebbero solo per ingenerare maggiore confusione. Ad ogni modo, nella figura 2.2, sono riassunte tutte le regioni del corpo. Le regioni del corpo 1. Tartufo - 2. Canna nasale - 3. Caduta naso frontale (o stop) - 4. Fronte - 5. Collo (margine sup.) - 6. Garrese - 7. Dorso - 8. Rene - 9. Groppa - 10. Natica - 11. Tarso - 12. Punta del garretto - 13. Metatarso - 14. Angolo del garretto 15. Gamba - 16. Ginocchio - 17. Coscia - 18. Ventre - 19. Sterno - 20. Gomito - 21. Braccio - 22. Capo - 23. Piede - 24. Metacarpo - 25. Avambraccio - 26. Petto - 27. Collo (margine inf.) Fig. 2.2, tratta da www.39italia.it 49 In base a questa suddivisione, sono stati elaborati degli indici che, appunto, distinguono le razze canine in tre diverse categorie: brachimorfi , mesomorfi e dolicomorfi. Gli indici di origine proporzionale che vengono estrapolati attraverso delle formule matematiche, in base alle misure che si ottengono dai rilievi biometrici sono: l’indice cefalico, l’indice toracico e quello corporale. E’ evidente che il primo si riferisce alle proporzioni della testa, il secondo a quelle del torace ed il terzo alle proporzioni tra lunghezza del tronco e l’altezza da terra della linea dorsale. I molossi rientrano nella tipologia dei brachimorfi, in quanto posseggono una testa corta e larga con un muso altrettanto corto e massiccio. Le proporzioni tra lunghezza ed altezza (spessore) del muso conferiscono loro una notevole potenza di morso. L’indice toracico di questi cani si colloca tra 90 e 100 e determina una cassa toracica ampia ed un petto largo che dona potenza e stabilità sul terreno. Per quanto riguarda il tronco, nella la maggior parte delle razze comprese in questa tipologia, i cani risultano più alti sulla groppa che non sul garrese (spalle), che deriva dalla presenza di un posteriore molto potente dovuto alla necessità di una elevata capacità di spinta. In molti standard attuali di razze appartenenti ai molossi troviamo della linee dorsali che, tra garrese e groppa, mantengono la medesima distanza da terra, ma credo di non sbilanciarmi sostenendo che queste siano forzature di selezione cinofila di tipo estetico. Essendo però anche questa linea dorsale salente verso la groppa un elemento morfologico geneticamente molto fissato, in quanto originario di queste razze come prodotto fenotipico, tende a riemergere continuamente; per cui vediamo gli espositori, nelle 50 manifestazioni cinofile di bellezza, piazzare i loro beniamini in salita, oppure divaricare e stiracchiare le zampe posteriori di questi poveri cani per essere ben valutati dai giudici. Credo emerga con solare evidenza che la struttura dei molossi si presenta come una perfetta , perdonatemi il termine, “macchina da combattimento” . E la struttura è ovviamente in sintonia con il carattere di questi cani. Premesso che nessun cane palesa esternazioni aggressive immotivate, se non è portatore di gravi tare caratteriali o consequenziale affetto da patologie della psiche, risulta che, se avessero un carattere mite o pervaso da indifferenza, una tale struttura fisica non troverebbe alcuna razionale giustificazione. Viene, infatti, comunemente descritto nelle note caratteriali degli standard di queste razze, che si tratta di cani molto attaccati al padrone ed alla proprietà (difesa territoriale) , mostrando notevole determinazione ed instancabilità. Mi permetto di portare un esempio che traggo dalla mia ultradecennale esperienza nell’allevamento di cani pastori abruzzesi. Anche in questa razza di cani da guardia al gregge vi sono elementi caratteriali specifici, derivanti dalla funzione che svolgono. In particolare mostrano una notevole aggressività intraspecifica per la gerarchia nel branco, di tipo sessuale e di tipo difensivo, mentre palesano una scarsa attitudine nell’aggressività di tipo predatorio. selezione Questo sicuramente a seguito di una accurata umana, che ha valorizzato e fissato le evidenti predisposizioni caratteriali già insite nel genoma dell’animale. L’istinto predatorio viene allenato ed incentivato nei cuccioli attraverso il gioco, e guai se un cucciolo di pastore abruzzese inizia a rincorre un agnello, morsicandolo nelle natiche. Potrebbe 51 portarlo a prenderci gusto e, con il tempo, anziché proteggere le greggi iniziare a cibarsene. riposto molta Per cui i pastori hanno da sempre attenzione riguardo queste manifestazioni, perpetuando sistemi disincentivanti (per usare un eufemismo) nei confronti di cuccioli con tali atteggiamenti. Inoltre, l’alimentazione di questi cani era, e spesso lo è ancora oggi, costituita in prevalenza da latte o siero di latte e farinacei (un tempo solo pane secco mentre oggi anche pasta); una dieta a volte integrata con interiora di agnelli e ovini deceduti o macellati. Dunque un’alimentazione lontana da ataviche esigenze di caccia. Ciò nonostante, nutrendo i pastori spesso rivalità tra loro, mettendosi in competizione, tra le altre cose, anche per la migliore e più forte muta di cani, o ancora per il maschio più potente, alcuni si sono improvvisati selezionatori cinofili. Per dirlo in parole povere, hanno operato degli elementari incroci con dei molossi come il cane Corso Italiano (di facile reperimento per la millenaria tradizione della transumanza tra l’Abruzzo e la Puglia) e il Mastino Napoletano, in entrambe i casi, per aumentare struttura, potenza e “cattiveria” nei loro cani da guardia al gregge. Giungo ora al fatto che ritengo, oltre che interessante, molto attinente al tema di tesi, e che da sempre ho avuto modo di notare in alcuni esemplari di cani pastore abruzzese. Se pure questi pastori, selezionatori provetti, abbiano poi “sapientemente” conservato dalle cucciolate di questi ibridi solo i soggetti a pelo bianco, ho sempre riscontrato una maggiore aggressività in quelli che morfologicamente tendevano a presentare elementi di conformazione tipica dei molossi. Testa più corta, salto fronte - naso molto accentuato, labbro abbondante e 52 via di seguito. Nelle due seguenti figure si vedono un cane pastore abruzzese di tipo lupoide ed uno di tipo molossoide [fig. 2.3 e 2.4] fig. 2.3 , cane del mio allevamento fig. 2.4, immagine tratta dal sito di Marco Petrella Ho voluto riportare questa mia esperienza a sostegno dell’assunto che evidenzia la trasmissione genetica delle caratteristiche comportamentali e che mostra, in modo evidente, informazioni relative alla morfologia e quelle come le riferite alla predisposizione caratteriale viaggiano insieme. Tornando ora a parlare delle razze usate per i combattimenti credo di poter ribadire la evidente evoluzione filogenetica del comportamento in questa tipologia di cani, che mostra una forte predisposizione alla combattività. Nonostante in Europa il canide più temuto è da sempre stato il lupo, nessuno ha mai pensato di addomesticarlo per i combattimenti o di incrociarlo con qualche 53 cane di tipo molosso (escludendo il racconto di Zanna Bianca di Jack London). Ovvero, se anche qualcuno l’avesse fatto, dall’attuale situazione emerge che non ha evidentemente avuto un gran successo. Molto probabilmente, proprio perché la predisposizione genetica delle attitudini al combattimento del lupo sono assai diverse. Il lupo, molto più istintuale del cane domestico, legato alla necessità della salvaguardia della propria incolumità, preferisce abbandonare la lotta se percepisce che questa potrebbe procuragli danni gravi o letali. La maggior parte delle razze appartenenti ai molossi è invece priva di questo tipo di stimolo inibitorio. In tutti gli standard di razza dei cani appartenenti alla categoria dei molossi emerge, nella parte concernente il carattere, quanto questi cani siano determinati, impavidi e spesso bellicosi, e che inoltre sono molto poco inclini al cedere di fronte all’avversario. Anche questo molto radicata. dimostra che vi è una predisposizione genetica Una predisposizione spesso conservata con la selezione umana, ma a volte anche incrementata ed arricchita, come è avvenuto per il Pit Bull, e che ha portato ad una attitudine, detta “gameness”, che spiegherò più avanti. Ho già accennato che le sue origini si trovano in Inghilterra dove un Lord della città di Stafford della Contea di Staffordrshire, osservo due cani “da macellaio” (cani che i macellai tenevano a guardia delle loro bestie, sempre di tipo molossoide, in quanto traenti le loro origini dal Mastino del Tibet), che si avventarono contro un toro in lotta contro un altro per la contesa di monta. Ingaggiarono un combattimento furibondo che portò alla morte di quel toro. Il Lord fu così impressionato che regalò il suo pascolo alla corporazione dei macellai con la richiesta di organizzare annualmente un 54 combattimento di quel genere. Da lì la nascita del “ Bulldog” (cane da toro) [DE AGOSTINI Grande Enciclopedia dei Cani, 1988]. Gli inglesi ritennero utile incrociare questo Bulldog con i loro potenti e tenaci cani da caccia, i Terrier. Prese così vita il Bull-Terrier, fino a giungere all’attuale Pit-Bull. Un fatto simile accadde sulle isole Canarie con l’Old Blood Presa, l’attuale Perro de Presa Canario, le cui origini risalgono al 1500 circa e che sarebbe il risultato di un incrocio tra il Bardino Majorero con i Mastiff e Bulldog importati dagli inglesi. Questo per ribadire come vi era già allora la tendenza a fissare nel materiale genetico di certe razze determinate peculiarità attitudinali. Troviamo in questo un esempio lampante di quello che nei precedenti capitoli abbiamo chiamato predisposizione innata all’aggressività e di come questa venga trasmessa filogeneticamente alle generazioni successive. Anche queste forme di aggressività e di combattività accentuata traggono origine dalle funzioni utili alla sopravvivenza delle specie, più volte chiamate in causa. Infatti, in tutte queste razze si evidenzia un forte spirito di dominanza sul proprio conspecifico. Queste particolari attitudini sono poi state accentuate attraverso mirati accoppiamenti con altre razze portatrici di attitudini simili o complementari e, successivamente, come ogni allevatore cinofilo di esperienza sa, consolidate ed incrementate attraverso oculati accoppiamenti consanguinei. In buona sostanza, non si è fatto altro che assoggettare delle predisposizioni, di cui madre natura ha fornito questi animali, alle “esigenze” dell’uomo. 55 Questa tendenza di assoggettare i cani alle esigenze dell’uomo, ovviamente, è un processo che è nato diversi millenni fa, con l’addomesticare dei primi canidi. Una teoria di come possano essere avvenute le prime forme di utilizzo dei canidi in favore delle esigenze dell’uomo, la troviamo nel libro “ E il cane incontrò l’uomo” di Konrad Lorenz. Nel primo capitolo “Potrebbe essere andata così” racconta in modo simpatico dei primi incontri e dei fortuiti vicendevoli scambi di favore tra gli indigeni e gli sciacalli. Come si è visto però nei precedenti capitoli, non ci si trova mai di fronte ad un fenomeno solamente filogenetico. Vedremo, infatti, quanto sia importante la parte ontogenetica, e quanto questa predisposizione all’aggressività ed alla combattività venga esaltata ed indirizzata attraverso l’addestramento. I soggetti che reagiscono in modo più proficuo a questi condizionamenti affinché, con saranno quelli privilegiati per la riproduzione, il tempo, questa all’apprendimento e questa particolare predisposizione capacità reattiva a determinati condizionamenti continui a trasmettersi e fissarsi nella progenie. Ho già accennato, nel capitolo sull’origine ontogenetica dell’aggressività, agli esperimenti di condizionamento di Pavlov. Mi riferisco agli esperimenti di Pavlov non solo perché ha appunto operato su dei cani, ma perché il condizionamento è di tipo comportamentale ed interrelazionale; ossia l’evocazione di una reazione istintuale in risposta ad una attività di stimolo percepita dall’esterno del proprio corpo. Mentre abbiamo visto nel condizionamento operante dei ratti, effettuato da Skinner, che la risposta viene evocata attraverso la diretta stimolazione, con scariche elettriche, in un determinato punto dei circuiti neuronali delle regioni cerebrali rispettivamente interessate. 56 Negli ambienti della malavita troviamo una notevole conoscenza dei metodi di condizionamento, a volte arricchiti di torture del tutto inutili (le torture sono sempre inutili, o meglio riprovevoli, ma qui intendo non utili ai loro fini) e a volte persino controproducenti. È chiaro che qui non dispongo di materiale di matrice scientifica, muovendomi tra le attività clandestine, ma sono riuscito comunque ad ottenere informazioni di tipo confidenziale, sia attraverso la mia attività di ispettore di polizia, ma anche grazie alla già citata attività di allevatore e addestratore cinofilo, che non è sempre stata dedicata al cane pastore abruzzese, ma che è nata agli inizi degli anni ’80 con i pastori tedeschi . Queste informazioni, in gran parte, mi sono state confermate leggendo una intervista ad una addestratore clandestino di cani da combattimento, pubblicata sul sito internet sardegnaanimalista.org, a sua volta tratto del sito bairo.biz . Vorrei partire dalla trascrizione di questa intervista per approfondire poi le tecniche di addestramento e condizionamento dei cani usati per i combattimenti. Dalla lettura di questa intervista emergerà anche un po’ l’ambiente delinquenziale ed il contesto sociale in cui questi fatti si concretizzano. Cito letteralmente le dichiarazioni di un “addestratore”, rilasciate nel 1993 ad un giornalista dell' Europeo, per non togliere nulla a quanto le sue parole trasmettono al lettore : " All'inizio procuravo randagi ai circhi: servivano per nutrire le tigri. Poi ho cominciato a rubare dobermann: li prendevo a Palermo e li portavo a Catania. Questi cani servono ai contadini delle masserie per ammazzare in modo rapido i maiali: un morso al collo e via. Sa, questa è un'antica tradizione delle campagne siciliane. [...] Chiudo 57 il cane in una stanza buia. Lo lascio per tre giorni senza cibo. Poi lo alimento solo con carne cruda. Lo tengo costantemente bendato. Dopo due settimane, lo tolgo di prigionia e lo porto con me, al guinzaglio, al parco Bellini. Libero il cane davanti alle papere che popolano il laghetto: se il cane ne azzanna una e l'uccide, è pronto per il combattimento. Allora incomincio a nutrirlo di galline vive. Solo a questo punto passo alla seconda fase dell'addestramento e abituo l'animale alla lotta sul ring. Di nuovo non gli do cibo e lo lascio legato quasi completamente al buio dentro una stanza. Sulla sua testa metto una lampada fortissima, da sala da biliardo. Poi gli tiro addosso un gatto vivo, fissato per una zampa con una corda al soffitto. Una volta sul ring, il cane troverà la stessa lampada alogena, intorno il buio e davanti un cane ringhioso. E secondo il noto riflesso di Pavlov, la sua aggressività scatterà automaticamente." Analizzerò, ora, punto per punto, questo percorso d’addestramento, oserei dire “artigianale”. Lasciare il cane nella stanza buia e senza cibo non fa altro che creare uno stress fisico e psicologico, che poco o nulla incide sulle capacità e la volontà di combattimento del cane. Anche il nutrirlo con carne cruda e aizzarlo contro le papere innocue di uno stagno inciderà sull’aggressività predatoria, ma poco influisce in quella scaturita dalla necessità di difesa (ricordiamo la reazione critica), o per la dominanza su di un conspecifico, che invece nasce da motivi territoriali o origina dall’aggressività sessuale. Anche un giocoso ed innocuo Border Collie, dopo qualche giorno di digiuno, non impiegherà molto ad accalappiarsi una succulenta papera che gli passa davanti al naso. Il Border Collie, come anche le altre razze di cani conduttori di gregge e mandrie, che da noi in 58 Abruzzo sono dei meticci chiamati “toccatori”, traggono le loro attitudini finalizzate al tenere uniti gli animali per condurli a destinazione dall’istinto proprio predatorio, sapientemente reindirizzato ed inibito nella parte estrema dell’atto aggressivo. Mi riferivo proprio a queste tecniche del tutto ininfluenti nell’incremento delle capacità combattive, quando poc’anzi parlavo di inutili torture. Vediamo invece che il tenere legato l’animale, fatto che lo rende più vulnerabile scaturendo in lui una aggressività da difesa, inizia ad incidere in quelle manifestazioni di aggressività che intervengono nei combattimenti. In particolare, la tecnica della lampada di forte intensità, abbinata al panico e alla contestuale necessità di difesa causati dallo scaraventargli contro il gatto legato ad una zampa, che a sua volta riesce ad infierire notevole lacerazioni sul tartufo (naso) del cane (considerata la parte più sensibile), interviene in modo molto efficace ai fini degli scopi prefissi. Troviamo qui la tecnica del condizionamento pavloviano. La naturale predisposizione all’aggressività difensiva ( reazione incondizionata ) viene sollecitata da uno stimolo condizionato (la lampada), ottenendo così una aggressività condizionata. Oggi, purtroppo, le tecniche di addestramento e condizionamento si sono evolute come apprendiamo dal “Rapporto di Zoomafia” che la Lega Antivivisezione inoltra annualmente ai Ministeri dell’Interno e di Grazia e Giustizia, redatto a cura del Dr. TROIANO Ciro dell’Osservatorio Nazionale di Zoomafia della LAV. Questa evoluzione di tipo negativo si è concentrata non tanto sui sistemi di condizionamento, se escludiamo l’elementare, ma crudele ed ingiustificata, attività di ingenerare uno stress psicologico attraverso maltrattamenti e sevizie di ogni genere, che 59 dovrebbero aumentare addestramento, ma è la cattiveria stata negli indirizzata animali sotto soprattutto verso allenamenti estenuanti, per aumentare prestazioni e resistenza fisica e l’uso di farmaci dopanti. La malavita dedita alla cinomachia non è ancora giunta ad utilizzare sistemi sofisticati come l’elettrostimolazione intracranica per aumentare l’aggressività, ma è sufficientemente preoccupante sapere che sia giunta ad intervenire sui neuromediatori, dei quali ho parlato nel primo capitolo, attraverso l’uso di anfetamine ed altre sostanze eccitanti. Vediamo allora i sistemi di allenamento più utilizzati e le sostanze dopanti individuate con maggiore frequenza [ informazioni tratte da “ Il Combarrimento tra cani” << Manuale tecnico – giuridico per l’azione di contrasto >> LAV 2006]. Una delle pratiche più diffuse per allenare i cani è quella di far correre il cane in modo estenuante per sviluppare la muscolatura o per fargli “rafforzare il fiato”. I metodi possono essere vari: tenere il cane per il guinzaglio stando su un motorino, oppure usare pedane mobili elettriche, posatoi girevoli, tapis roulant sui quali i cani sono costretti a correre. In alcuni casi i cani vengono costretti a superare ostacoli portando una speciale imbracatura, alla quale sono stati legati dei pesi. È indubbio che, oltre all’eccessiva fatica, si tratta di una forma di grave costrizione fisica tale da concretare la sevizia. Un altro metodo consiste nell’utilizzare un copertone di motorino tenuto con una corda a diversi metri d’altezza. Tale tecnica è finalizzata a rafforzare la presa e i muscoli del collo. Il cane deve mordere il copertone e stringere i denti restando sollevato nel vuoto, perché se cade rovina a terra. L’animale, ancorché stanco e al limite delle forze, non lascia la presa per paura del vuoto ed è 60 costretto a restare in questa condizione straziante fino allo stremo [vedi fig. 2.5]. Fig. 2.5, due uomini allenano i loro pitbull a non lasciare la presa di un copertone. I due infatti tendono il copertone da un terrazzo e sollevano il cane, aggrappato allo stesso tramite la mandibola - (c) Contrasto; tratto da www.contrasto.it addestramento pit bull Inoltre, per l’allenamento nella tecnica di combattimento, si fa uso di “sparring partner” che vede come vittime cani o gatti randagi. Sono stati accertati casi in cui venivano utilizzati anche galli, maiali 61 e cinghiali. In questi casi, oltre ai “lottatori”, a subire il maltrattamento sono anche gli altri animali utilizzati. Per tornare un attimo alle citate sevizie messe in opera per “incattivire” l’animale nell’addestramento, si usano anche mezzi e strumenti di tortura: fruste, bastoni, collari chiodati o elettrici, catene ecc. . Per quanto concerne invece il più recente uso delle sostanze dopanti, vengono utilizzati stimolanti ed eccitanti come la cocaina e le anfetamine, ma anche analgesici e narcotici come gli oppioidi. Inoltre, vengono usati anabolizzanti (ormoni steroidei) per aumentare la massa muscolare e diminuire i grassi. completo di tali sostanze è contenuto L’elenco nell’appendice. Ricollegando tutte le informazioni sin qui elaborate emerge ancora in modo maggiore come tutto sia concatenato. Come già detto nella parte fisiologica, alcune regioni cerebrali ed alcuni neurotrasmettitori sono interessati direttamente nelle esternazioni dei comportamenti aggressivi. Nel rapporto della LAV si legge che l’utilizzo della cocaina e delle anfetamine, oltre al generale incremento di eccitazione, arriva anche ad intensificare gli atteggiamenti aggressivi. Come mostrato da numerosi studi, microiniezioni di anfetamine (agonisti della dopamina) nel nucleo accumbens, aumentano la frequenza di autostimolazione l’ipotalamo laterale risulta manifestazioni aggressive. dell’ipotalamo laterale. coinvolto a vario titolo In più, nelle Per tali motivi l’utilizzo di farmaci dopanti, da parte dei malfattori, non solo incide in modo generico sulla forza, sulla resistenza e sulla percezione del dolore, ma addirittura interviene in modo pressoché diretto sulla sollecitazione 62 delle manifestazioni aggressive. Questa è senz’altro un’evidenza da non sottovalutare. Concludendo, quali sono allora gli elementi che consentono il verificarsi del reato di cinomachia? Una naturale predisposizione alla lotta nelle razze dei cani utilizzati, filogeneticamente trasmessa e negli anni accuratamente selezionata ed incrementata ad opera di sconsiderati cinofili di dubbia moralità. Il costante e mirato incremento di tali attitudini attraverso condizionamenti ed allenamenti estenuanti, che intervengono ontogeneticamente sugli individui e sulla loro psiche. L’uso di sostanze farmacologiche coadiuvanti le prestanze fisiche, nonché una sollecitazione delle regioni cerebrali, attraverso l’intervento sui neuromediatori, interessati nell’attivazione dei comportamenti aggressivi. Ritengo che, aldilà della mera repressione per il reato di maltrattamenti di animali, necessiti un intervento legislativo, sia repressivo che di prevenzione, molto forte per arginare il problema. Non so quanto possiamo essere distanti da eventuali interventi di elettrostimolazione a distanza (radiocomandata) e quanti folli ci siano che in un “lontano” futuro possano immaginare qualcosa di simile nei confronti di esseri umani. Nel prossimo capitolo descriverò in che modo intervengono giurisprudenza, forze dell’ordine ed associazioni specializzate, nell’arginare il problema e nella prevenzione di eventi futuri. 63 2.2 Forme di prevenzione e repressione del fenomeno illecito “Normative volte alla prevenzione ed alla repressione; associazioni e iniziative a tutela dei fenomeni di maltrattamento” Ovviamente non ha senso fare un elenco cronologico delle normative principali in materia di maltrattamenti di animali, “scopiazzandone” i rispettivi testi. Ritengo più utile cercare di disquisire sull’incremento dei mezzi di repressione e prevenzione con il passare degli anni ed il mutare della coscienza collettiva. Darò però precisi riferimenti legislativi, limitandomi qui ad estrapolare la ratio delle singole leggi che si sono susseguite, comparando l’evoluzione legislativa con la maturazione culturale di noi occidentali. Menzionerò, come in parte ho già fatto, le associazioni e gli enti che si prodigano per la salvaguardia degli animali e dei loro diritti, spiegando come alcune di loro hanno fornito e forniscono tuttora un contributo, non solo nella sensibilizzazione delle coscienze, ma intervenendo in modo attivo all’elaborazione di leggi e normative più efficaci, collaborando anche alla diretta individuazione dei racket di cinomachia. La prima vera legge italiana a protezione dei diritti degli animali venne approvata da Senato e Camera di Re Vittorio Emanuele III nel 1913 [ legge 12 giugno 1913 nr. 611 < G.U. nr. 153 del 02.07.1913>] . Devo però fare un passo indietro, menzionando il Codice penale Zanardelli (1889 entrato in vigore nel 1890), che fu il primo codice 64 dopo l’unità d’Italia. In esso venne abrogata la pena di morte, venne eliminato il divieto allo sciopero e con l’articolo 491, introdotta la prima norma contro il maltrattamento di animali: “Chiunque si incrudelisce verso animali o, senza necessità li maltratta ovvero li costringe a fatiche manifestamente eccessive è punito con l’ammenda ….” [MANNUCCI e TALACCHINI 2001] Bisogna ricordare che si proveniva da una epoca dove, per lungo tempo, la vivisezione di animali veniva offerta come spettacolo. L’Articolo 491 non nasce casualmente, ma in un periodo storico e in un contesto sociale in cui si iniziava a discutere della difesa degli animali e non solo in Italia. Tornando alla legge 611 del 1913, per quanto oggi anche questa è considerabile piuttosto blanda, comunque costituiva un primo passo al miglioramento delle condizioni degli animali ed uno strumento dissuasivo verso ingiustificabili crudeltà. Il fatto di ritenere che fosse necessaria una legge per garantire una migliore vita agli animali, denota un cambiamento nella coscienza collettiva divenendo un fatto culturale importante, se consideriamo che, ancor oggi, in diversi paesi non vi è segno di leggi con tale intento. L’inadeguatezza di fondo, di quella legge, rispettivamente comminate (si trattava sta nelle pene evidentemente di ammende e revoche di licenze) e in quello che era l’allora concetto di maltrattamento, cioè quando un atteggiamento inopportuno verso un animale veniva considerato maltrattamento. Cito integralmente l’articolo 1° per far meglio comprendere il livello di consapevolezza di quei tempi: “ fermo il dispositivo dell’art 491 del Codice Penale sono specialmente proibiti gli atti crudeli su animali, l’impiego di animali che per vecchiezza, ferite o malattie 65 non siano più idonei a lavorare, il loro abbandono, i giuochi che importino strazio di animali, le sevizie nel trasporto del bestiame, (si noti n.d.r.) l’accecamento degli uccelli ed in genere le inutili torture (evidentemente erano lecite quelle utili n.d.r.) per lo sfruttamento industriale di ogni specie animale. I contravventori saranno puniti a termine del citato articolo 491 del Codice Penale.” Oggi questo articolo potrebbe sembrare un’offesa ai diritti degli animali, ma bisogna considerare la cultura di allora nei rapporti con gli animali e che questi erano considerati dei “mezzi” e non dei compagni o conviventi. Ciò nonostante l’impatto di questa legge è stato notevole soprattutto per alcune innovazioni fondamentali che hanno costituito la vera svolta dell’approccio al problema. Nell’articolo 2° di questa legge si introduce il soggetto giuridico delle società protettrici degli animali, sancendone la struttura, i diritti e gli obblighi. Cosa ancor più importante è l’aver previsto dei fondi ad hoc e che tali risorse venissero incrementate con parte (per essere più precisi, in ragione del 50 %) del denaro derivato dai pagamenti delle ammende conseguenti alle condanne per maltrattamenti di animali. Alla luce dell’importanza che alcune associazioni hanno oggi assunto nella lotta alla difesa dei diritti degli animali, emerge il valore di questo nuovo aspetto. Certo, le associazioni animaliste non sono nate con questa legge ma sono sorte molto prima. Pensate che è proprio una lettera di Giuseppe Garibaldi ad ispirare nel 1871 la fondazione della Società per la protezione degli animali di Torino, che vede subito dopo (1874) la nascita di una Società romana che si prefigge gli stessi 66 scopi. Quest’ultima raggiunge una sorta di ufficialità, divenendo nel 1906 Ente morale sotto il patrocinio del re e della reggina. Ciò non toglie importanza a questa normativa che interviene appunto in sostegno di questi nuovi enti, fornendo le necessarie garanzie e risorse. Con l’entrata in vigore del Codice Rocco (Codice penale del 1930), l’articolo 491 viene sostituito dall’ancora vigente articolo 727, che trova collocazione tra i reati contro la moralità pubblica e del buon costume. Il citato articolo ha subito delle lievi modifiche con la legge 22 novembre 1993 nr. 437, ma oltre ad aumentare i limiti minimi e massimi dell’ammenda (oggi fissati in € 1.032,00 e 5.164,00), non ha significato un grande cambiamento. Anzi, per quanto inique le modifiche sostanziali, mi preme puntualizzare come ancora si legge nel comma 1° : “[…] incrudelisce verso animali senza necessità[…]” . Siamo dunque rimasti sino ai giorni più recenti con una legislazione che trae le sue origini nel 1890, assoggettata a modifiche minime, se escludiamo la già citata innovazione sul riconoscimento delle associazioni animaliste ed il relativo sostegno, presente nella legge 611 del 1913. Ci sono voluti non pochi anni e sforzi per iniziare a trovare un interlocutore nei poteri legislativi, che ritenesse il problema degno di nota. Proprio a seguito di continue sollecitazioni da parte di Enti Società e Associazioni animaliste, come l’Ente Nazionale per la Protezione degli Animali, la Lega Antivivisezione, Lega per la difesa del cane, WWF e quant’altro si trova ad operare in tali settori, finalmente nel 2000 vengono presentate proposte e disegni di legge alla camera ed al Senato. 67 Il Disegno di legge nr. 4906, presentato al Senato il 04.12.2000 si riferisce in modo particolare al problema dei combattimento tra animali e non ai maltrattamenti in genere. Purtroppo, anche questa lodevole iniziativa resta però a dormire negli archivi ministeriali. La LAV, in particolare, dopo aver istituito nel 1997 l’osservatorio nazionale sulla zoomafia, di cui ho già fatto menzione, a seguito di molte altre iniziative, nel 2002 ha creato un “intergruppo parlamentare per gli animali”, elaborando una legge per una riforma dell’art. 727 del Codice Penale. Fortunatamente questa volta con esiti positivi, dando vita all’attuale legge del 20 luglio 2004, nr. 189 che recita nel titolo: “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamenti degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate”. Ovviamente anch’essa non ha appieno soddisfatto le pretese degli animalisti impegnati, ma credo che si possa ritenere comunque un provvedimento estremamente positivo. Questa legge, oltre a comprendere modifiche anche all’art. 628 C.P. (uccisione di animali altrui), introducendo nel titolo IX del libro II del Codice Penale gli articoli 544-bis e seguenti, cerca di comprendere un po’ tutto quello che interferisce nei diritti degli animali. Prima di entrare però nei particolari devo far notare che questa legge contempla una novità fondamentale che concerne le pene comminate per le diverse fattispecie di reato contro gli animali. Per la prima volta si prevedono pene detentive che possono raggiungere con le aggravanti specifiche anche quattro anni e mezzo di reclusione, mentre la pena pecuniaria massima, 68 aumentata 240.000,00 dell’aggravante euro. specifica, può raggiungere i L’inasprimento delle pene mette in chiara evidenza il cambiamento di coscienza nella cultura animalista generalizzata, che interviene sulla sensazione di gravità dei fatti connessi ai maltrattamenti. La presente legge, dunque, comprende tutti i tipi di maltrattamento di animali, con particolare attenzione verso i combattimenti organizzati in clandestinità. Include poi tutte le varie ipotesi delle aggravanti, sia dovute all’eventuale conseguenze mortali per gli animali, che alla divulgazione ed incentivazione di tali attività delittuose. Comprende e punisce, altresì, le forme associative ed organizzative ed il collegamento al gioco d’azzardo delle scommesse clandestine. Appone poi modifiche a quelle che sono le norme che regolano il trasporto di animali, caccia e pesca, affidamento e custodia e via di seguito. Non è mia intenzione elencare tutti gli articoli perché, come detto all’inizio del presente capitolo, tengo più a far notare alcuni particolari che si inseriscono in modo più adeguato nel contesto della tematica di tesi. Tuttavia, cosa troviamo in questa legge all’avanguardia? Niente di meno che modifiche alla legge 611 del 1913 che emergono nel 3° comma dell’articolo 4, ovvero l’abrogazione dell’articolo primo e modifiche alla lettera a dell’articolo 2° ed all’articolo 8°. Cosa suggerisce questo fatto? Intanto che c’è stato un sostanziale vuoto legislativo durato quasi un secolo. Poi, vedendo che, dall’articolo 4° in poi, della nuova normativa, essa non fa altro che ricalcare quanto già riportato nella legge 611 del 1913, le uniche innovazioni di rilievo diventano due. In buona sostanza troviamo un notevole inasprimento delle pene ed una sostanziale contestualizzazione delle tipologie di reato, 69 mutate con i tempi, la cultura ed il progresso. Ecco, forse qui è opportuno puntualizzare l’attuale contemplazione del reato di somministrazione di sostanze stupefacenti. La contestualizzazione si riduce ad un aggiornamento in ordine alle tematiche delinquenziali in materia di maltrattamenti di animali del terzo secolo, mentre l’inasprimento delle pene è nient’altro che lo specchio del mutamento nella coscienza umana della percezione di gravità di questi maltrattamenti . E abbiamo dovuto attendere un secolo per “cosi poco”? Mi si perdoni la provocazione, ma non intendo affatto che quanto finalmente ottenuto sia poco, ma che forse vi si poteva giungere prima e con maggiore adeguamento ai tempi. Forse oggi il problema non sarebbe così diffuso e sottovalutato. Prima però di passare all’argomento del prossimo capitolo, ritengo indispensabile spendere qualche parola in più sull’opera meritoria degli enti e delle associazioni maggiormente impegnate. Tutte le associazioni dedite alla salvaguardia dei diritti ed in difesa dell’incolumità degli animali sarebbero degne di nota, ma sarebbe un dispendio di tempo e spazio che andrebbe oltre le mie necessità di dare un’idea sull’entità del fenomeno e le attività di prevenzione e repressione svolte. Mi concentrerò pertanto sulle due associazioni più rappresentative e maggiormente impegnate nell’attività di monitoraggio e negli interventi diretti. L’Ente Nazionale per la Protezione degli Animali (ente morale onlus) è l’attuale rappresentanza della “Società per la Protezione degli Animali, nata a Torino nel 1871, poco prima citata. L’ENPA, che da allora si è sempre battuta per migliorare le condizioni di vita degli animali e garantire maggiori interventi legislativi ai fini della 70 repressione, ha curato, nel tempo, il rilevamento statistico dei dati rilevabili in ordine a tale fenomeno. A questi fini, ha creato l’ORCA (Osservatorio Reati Contro gli Animali). Questo ente, in sintesi, effettua un monitoraggio sui maltrattamenti degli animali in genere, riservando una particolare attenzione verso i fatti costituenti reato. Riporto di seguito sinteticamente alcuni dati forniti dall’Orca, riferiti al 2005, per far comprendere la portata del problema: Animal killer 2005 DATI DI SINTESI Casi accertati 1.066 Animali vittime di reati 72.812 di cui cani 4.402 (6%) di cui gatti 1.064 (1,5%) Animali uccisi 40.810 di cui cani 691 (1,7%) di cui gatti 623 (1,5%) Regione col maggior numero di reati: La Lombardia, con 137 casi accertati, seguita dall’Emilia Romagna con 125 casi e dalla Toscana con 104 casi. Chi commette i reati contro gli animali: I responsabili sono sconosciuti nel 41,1% dei casi accertati, seguiti dai proprietari degli animali nel 26% dei casi. Casi denunciati 762. Chi presenta le denunce:Le Forze dell’ordine nel 34,4% dei casi. Seguono i volontari o le Guardie Zoofile; Enpa nel 28,7% dei casi, i testimoni o le altre associazioni animaliste o ambientaliste (20,3%) e i proprietari (16,3%). 71 Dove avvengono i reati contro gli animali: In città (40,8% dei casi accertati), nelle aree extraurbane, campagne o boschi (37,8%) e nelle abitazioni o aree condominiali (21,4%). Conseguenze, per gli animali: Gli animali sono morti nel 48% dei casi accertati, hanno subito gravi ferite nel 9,4%, lievi ferite nel 12,2%, non hanno subito alcuna conseguenza nel 30,4% dei casi accertati. Casi di avvelenamento accertati 165 Casi di abbandono accertati 160 Reati venatori con morte di animali 183 Sul contatore digitale del sito internet dell’ENPA, in ordine al numero dei maltrattamenti nell’anno 2006, aggiornato al 31.12.2006, risultano segnalati 12207 animali maltrattati. Probabilmente il dato è suscettibile di incremento dovuto a ritardi nelle segnalazioni, ma è comunque rilevabile un forte decremento. Come citato anche nei dati forniti dall’ORCA, le informazioni giungono attraverso le segnalazioni delle Guardie Zoofile, dislocate su territorio ma anche dalle Guardie Ecologiche, Guardie Parco, Forestali, Polizia Provinciale e via di seguito, oltre a fonti costituite da testate giornalistiche locali, ma spesso attraverso le segnalazioni da parte di privati. Sia nei rapporti dell’ENPA che in quelli della LAV, sui quali farò un ulteriore piccolo approfondimento, emerge dalla lettura dei dati statistici, per quanto riguarda il maltrattamento di animali, un incremento del fenomeno alla fine degli anni novanta e solo un recente decrescere. Questo sembrerebbe dovuto al fatto che la campagna di sensibilizzazione ha portato ad un aumento delle segnalazioni e della conseguente persecuzione di tali reati. Per cui, solamente il recente maggiore controllo e l’inasprimento delle 72 pene con la conseguente confisca degli animali, ha portato ad una effettiva diminuzione del fenomeno. Mentre l’ENPA sembra operare in un campo più generalizzato, la Lega Antivivisezione, che inizia ad operare nel 1977, riconosciuta associazione ONLUS nel 1998, ha negli ultimi anni focalizzato le attenzioni verso il problema dell’organizzazione clandestina di combattimenti tra cani e le scommesse nelle corse clandestine di cavalli. In questo modo è riuscita a sviscerare il contesto e la struttura criminale che ruota intorno a tali eventi, evidenziando le frequenti forme organizzative come vere e proprie associazioni finalizzate alla realizzazione di tale tipologia di incontri. La LAV ha così potuto evidenziare, attraverso l’aiuto degli organi di polizia impegnati in tali settori, l’esistenza di questo tipo di attività anche all’interno dei substrati di già conosciute organizzazioni criminali di stampo mafioso, coniando per queste ragioni il termine di “Zoomafia”. Il Dr. Ciro Troiano, che ho già menzionato, Direttore dell’Osservatorio Nazionale di Zoomafia, istituito nel 1997, così definisce cosa si intende per zoomafia : “ Con questa nuova parola, coniata da noi circa dieci anni fa, intendiamo lo “sfruttamento degli animali per ragioni economiche, di controllo sociale, di dominio territoriale, da parte di persone singole o associate o appartenenti a cosche mafiose o a clan camorristici”. Con questo neologismo, però, indichiamo anche “la nascita e lo sviluppo di un mondo delinquenziale diverso, ma parallelo e contiguo a quello mafioso, di una nuova forma di criminalità, che pur gravitando nell’universo mafioso e sviluppandosi dallo stesso humus socio-culturale, trova come motivo di nascita, aggregazione e crescita, l’uso di animali per attività economico-criminali”. 73 Sulla base dei dati raccolti nelle attività di monitoraggio, la LAV ha iniziato una stretta collaborazione con gli organi di polizia anche nella individuazione e persecuzione di questi reati di maltrattamento, in alcun casi, costituendosi parte civile. Come ho prima accennato parlando dell’ENPA, anche la LAV, avendo necessità di una rete informativa più ampia possibile, ha istituito un numero “S.O.S. Combattimenti” . Quest’ultimo ente si è specializzato al punto tale che ha redatto il “Manuale tecnicogiuridico per un’azione di contrasto per quanto concerne il Combattimento tra Cani”. Dalla lettura dei rapporti di zoomafia, emerge come questa struttura non ne fa un semplice discorso statistico ma cerca di penetrare le radici del problema. Troviamo per esempio nel rapporto 2006, prima di entrare nella raccolta dei dati e dei risultati conseguiti, un accenno all’analisi del problema che collima perfettamente con quanto ho cercato di esplicitare in questa mia tesi. Per citare solo alcuni brevi passaggi: … “Nel mondo animale, una delle manifestazioni più evidenti dell’aggressività è il combattimento tra membri della stessa o diversa specie con cui gli animali, attraverso diversi moduli comportamentali che coinvolgono l’uso di armi di offesa e/o difesa, conquistano o difendono risorse e territorio o proteggono sé stessi o la prole o, ancora, la supremazia sociale al fine di garantirsi il partner sessuale. Il combattimento intraspecifico è sempre “ritualizzato” e termina quasi sempre prima che i duellanti si siano procurati ferite gravi e, pertanto, gli esiti letali sono rari. Il “duello” si svolge di norma secondo regole fisse, in cui i movimenti impiegati sono ordinati in sequenze altamente stereotipate, finalizzate a “mostrare la propria 74 forza” e a “comunicare la propria superiorità”. La ritualizzazione dell’aggressività permette agli animali di risolvere “pacificamente” le dispute, con l’emissione di chiari segnali comunicativi che indicano, ad esempio, l’accettazione della sconfitta, senza che si debba arrivare allo scontro fisico vero e proprio. Ciò in natura. Purtroppo gli uomini hanno da sempre “sfruttato” questa tendenza alla dominanza, soprattutto di alcune specie, per organizzare a proprio piacimento lotte e combattimenti tra animali lucrando sulle relative scommesse. Il lemma “combattimento” indica tutte le forme di conflitto fisico che coinvolgono almeno due animali. Ciò è da intendersi anche ai fini della legge. È chiaro che rientrano in questa previsione solo i combattimenti organizzati e non le zuffe spontanee o le lotte estemporanee, come sovente avviene tra i cani o altri animali. Affinché possa intervenire la censura penale occorre che l’evento sia provocato, favorito, organizzato dall’uomo. Il combattimento può essere tra membri della stessa o di diversa specie (esempio stessa specie: lotte tra cani, galli, pesci, scimmie, ecc. Tra specie diverse: cani contro puma, cinghiali, tassi, orsi. Orsi contro puma, ecc.).” Questa sintesi è quasi un riepilogo, ma pregno di significato, di quanto emerso dal mio studio riguardo questo fenomeno. Nel rapporto della LAV non emerge solamente che vi sia uno studio di fondo del fenomeno in ordine alla predisposizione animale, ma troviamo anche tracce di studio degli elementi che spingono l’uomo a cimentarsi in queste competizioni. Riassumo anche qui solo brevemente a quanto viene accennato nel rapporto in parola, per parlarne in modo più approfondito nel prossimo capitolo. 75 Ci si pone il problema di quali siano le motivazioni psicologiche e le condotte culturali che spingono un uomo a partecipare o assistere a questi combattimenti. Facendo riferimento agli studi di psicologia, si attribuisce la “febbre” dei combattimenti e delle scommesse con la ricerca di un gesto “grande”, di un momento di gloria da parte di quelle persone che vivono in uno stato di costante umiliazione, impotenza e degrado, che rincorrono un proprio atto eroico, che di fatto non riescono a compiere, per incapacità, inettitudine oppure ragioni di tipo sociali. Sembrerebbe che il possesso del cane da combattimento divenga un’esperienza in sostituzione di ciò che l’uomo non può ottenere. Ho voluto accennare alla presenza di questo aspetto, inserito nel contesto delle informazioni riportare nel rapporto di zoomafia, proprio per trovare l’aggancio al capitolo successivo, e per suggerire che anche, o forse soprattutto, lo studio sulle origini di un problema possa costituire le basi per una migliore prevenzione. Tornando dunque alla prevenzione e repressione di tipo interventistico-normativo, prima di spendere qualche parola sul conosciuto Decreto Sirchia ed il rispettivo elenco di razze di cani considerati pericolosi, voglio inserire uno specchio riassuntivo delle predette attività, così come monitorate e riportate dalla LAV. Sarebbe interessante riportare alcune nozioni di interventi ed operazioni di polizia giudiziaria, ma significherebbe scendere in particolari che toglierebbero tempo ed attenzione alla valutazione globale del problema. Troverete una delle operazioni più emblematiche nell’appendice. Di seguito, i dati forniti nel rapporto di zoomafia 2006 della LAV: 76 COMBATTIMENTI: I NUMERI DELLA CINOMACHIA - persone denunciate 2004/05 16 - cosche coinvolte 25 - quote minime scommesse euro 100,00 - quote massime scommesse euro 25000,00 - costo di un campione in euro da 25000,00 ai 50000,00 PERSONE DENUNCIATE PER ATTIVITA’ CONNESSE AI COMBATTIMENTI ANNI 1998-2005 0 nel 2005 16 nel 2004 27 nel 2003 43 nel 2002 25 nel 2001 79 nel 2000 154 nel 1999 76 nel 1988 CHI ORGANIZZA E GESTISCE I COMBATTIMENTI Nella gestione e organizzazione dei combattimenti possiamo individuare tre livelli: 1) - Il primo è il livello “popolare”, quello maggiormente diffuso e che fa capo a gruppi locali, spesso formati da bulli di periferia, sbandati, delinquenti di piccolo calibro, aspiranti “guappicelli”, che hanno, in alcuni casi, contatti con la delinquenza organizzata, soprattutto per il traffico dei cani. A tali gruppi si deve la diffusione nel nostro Paese della cinomachia e degli atti di delinquenza 77 “predatoria” legati a tale attività, si pensi ai furti, alle rapine, alle aggressioni. 2) - Il secondo è riconducibile a persone vicine o appartenenti ai classici sodalizi criminali, quali la camorra, la ‘ndrangheta, la sacra corona unita e, in misura ridotta, la mafia, oltre che ai nuovi gruppi arrivati in Italia a seguito dei flussi migratori. 3) - Il terzo è rappresentato dai “colletti bianchi”, professionisti, dirigenti, manager, persone della società borghese apparentemente distinte e perbene, che animano un giro di scommesse clandestine di non poco conto. E’ bene precisare che non si tratta di una struttura unica o piramidale, né può proporsi tra loro alcun rapporto di subordinazione o gerarchia; si tratta, piuttosto, di livelli contigui che spesso si intersecano con una dinamica dei gruppi basata su rapporti sinergici, tesi a realizzare gli interessi comuni. Come interviene invece il citato Decreto Sirchia nel tentativo di arginare il fenomeno, ma anche nel cercare di prevenire le aggressioni di questi cani da combattimento nei confronti di persone completamente al di fuori da questo contesto? Nell’estate del 2003, a seguito di diverse aggressioni da parte di cani contro persone, alcune con conseguenze gravi, si scatenò una vera persecuzione in particolar modo nei confronti dei Pit Bull. L’allora Ministro della salute, Girolamo Sirchia, anche a seguito di forte pressioni scaturite da una pressante disinformazione mediatica, che ha creato non poco panico, in parte sicuramente infondato, il 9 settembre 2003 emanò un’ordinanza sulla “Tutela dell’incolumità pubblica dal rischio di aggressioni da parte di cani potenzialmente pericolosi”. L’ordinanza, elaborata in fretta e furia in modo un po’ approssimativo, fu rinnovata, subendo una serie di 78 sostanziali modifiche, il 27 agosto 2004, restando in vigore per un anno. Il Ministro seguente, Storace, è tornato ad emanarla nuovamente il 3 ottobre 2005. Il Consiglio Superiore di Sanità, nelle sedute del 29 settembre e 17 ottobre 2003, si è trovato costretto a redigere un parere che ha ridimensionato in modo incisivo e sostanziale la portata del primo provvedimento Sirchia affermando, inoltre, “di non poter identificare con certezza scientifica razze definibili potenzialmente pericolose”. Da cinofilo, sono perfettamente d’accordo sul fatto che non è possibile dichiarare una razza di per sé pericolosa, tanto più che il termine razza, come suggerisce il Professor Raymond Coppinger [2001], Biologo e Cinognosta presso lo Humpshire College del Massachussetts (USA), che inoltre ho avuto il piacere di conoscere personalmente, indica null’atro che il risultato dell’adattamento a un particolare ambiente fisico, sociale, culturale. Secondo Coppinger, l’allevamento orientato non è affatto necessario per ottenere animali in grado di svolgere compiti complessi. Quello che in realtà succede è che gli animali meno efficienti sono sottoposti ad un abbattimento selettivo (“culling”), piuttosto che al riconoscimento, da parte dell’uomo, di quali caratteri sono selezionati, o di cosa costituisce una buona conformazione”. Non solo, ma ricordo con perfezione il mio stupore quando nel primo decreto si fece una distinzione per categorie, nelle quali rientravano lo Zwergpincher, un cane che non arriva ad un paio di chili di peso, oppure il Bobtail, che ha un carattere del tutto innocuo, pressoché apatico, per fare solo un paio di esempi. 79 Ciò non significa che il decreto non abbia sortito effetti positivi, anche perché in esso sono compresi elementi comunque importanti e del tutto condivisibili. Abbiamo p.e. il divieto di addestramento inteso ad esaltare il rischio di maggiore aggressività nei cani, come il disposto che fa rientrare in questo divieto ogni forma di addestramento finalizzata alla presa, all’attacco, alla difesa, e quindi non solo ai combattimenti. Mentre un altro limite dell’ordinanza sta anche nel aver aggiunto alle “razze riconosciute” i loro incroci. Una persona non sufficientemente esperta, poco conoscitore dei termini tecnici, fa fatica a comprendere la differenza fra un “Pit Bull” e un “Pit Bull Terrier”, significando che il “Pit Bull” si identifica nella versione illegale dell’“American Pit Bull Terrier”, e quindi si tratterebbe dello stesso cane; figuriamoci se riesce ad individuarne eventuali incroci. Torna invece utile, a livello dissuasivo, il divieto di selezionare o incrociare razze di cani per svilupparne l’aggressività. Un’altra cosa importante introdotta da questo decreto, e come abbiamo visto inserito anche nella 189 del 2004, è il divieto di somministrazione di sostanze dopanti ai cani. Infine troviamo il divieto di acquistare, possedere o detenere i cani inclusi nella lista, per i delinquenti abituali o per tendenza; per chi è sottoposto a misura di prevenzione personale o a misura di sicurezza personale; per chiunque abbia riportato condanna, anche non definitiva, per delitto non colposo contro la persona o contro il patrimonio, punibile con la reclusione superiore a due anni; per chiunque abbia riportato condanna, anche non definitiva, per i reati di cui all’art. 727, 544-bis, 544-ter, 544-quater, 544-quinquies del codice penale e, per quelli previsti dall’art. 2 della legge 20 luglio 80 2004, n. 189; per i minori di 18 anni e agli interdetti e inabilitati per infermità.” Per quanto invece concerne l’obbligo dell’applicazione della museruola o l’uso del guinzaglio, quando i cani si trovano nelle vie o in altro luogo aperto al pubblico, della dell’utilizzo contemporaneo museruola e del guinzaglio per i cani condotti nei locali pubblici e nei pubblici mezzi di trasporto, provvedimento già previsto dalla vigente veterinaria, approvato con decreto si tratta di un normativa di polizia del Presidente della Repubblica, 8 febbraio 1954, n°. 320. Troviamo ribadito tale obbligo nella recentissima ordinanza del Ministero della Salute del 12 dicembre 2006. In questa ordinanza si obbliga i proprietari di cani, che rientrano tra le 17 razze elencate a tergo della stessa, di portare i propri cani al guinzaglio, utilizzando contemporaneamente anche la museruola. Nel citato elenco, la quasi totalità delle razze riportate è appartenente alla tipologia dei molossi. Nella stessa ordinanza, che ha validità di un anno, si vieta anche il taglio degli orecchi e della coda a scopi estetici, nonché la recisione delle corde vocali. Un ultimo accenno voglio farlo ad un’altra legge veterinaria contro il randagismo, la n° 281 del 1991, che testimonia, anch’essa, un mutamento nella coscienza collettiva, in ordine alla sensibilità verso gli animali. Vengono con essa banditi i “canili-mattatoi”, che si trasformano in strutture di accoglienza e cure. La legge ha fissato un importante principio, e cioè, che il controllo della popolazione canina va fatta con la prevenzione, attraverso il controllo delle nascite, e non con l’uccisione degli animali. 81 Credo che da questo capitolo sia emerso che qualcosa negli ultimi anni è cambiato nel rapporto uomo-cane e dunque anche nel rapporto uomo-animale più in generale. Le normative volte alla prevenzione e repressione dei fenomeni di maltrattamento di animali in senso ampio, quelle riferite più precisamente ai combattimenti tra cani, la frenetica attività di sensibilizzazione, la collaborazione diretta con gli organi di polizia, nonché la custodia ed il recupero degli animali coinvolti, da parte delle associazioni animaliste, mostrano un mutamento nella presa di coscienza su questi fatti da parte della popolazione. Abbiamo anche visto che, finalmente, ci si inizia a chiedere cosa spinge alcune persone a “godere” di queste forme di competizioni crudeli. Nel prossimo capitolo voglio approfondire questa tematica, cercando di attingere informazioni utili, da fonti diverse, che possano aiutarmi a dipingere un quadro che raffiguri un immagine piuttosto completa e verosimile e che possa dare indicazioni precise sull’origine del fenomeno. 82 2.3 Un gioco d’azzardo o una forma di aggressività repressa proiettata. “L’incidenza della parte economica sulle scommesse e l’appagamento psicologico del padrone dei cani” Abbiamo visto, attraverso i dati pubblicati da chi sta monitorando questo fenomeno delinquenziale, che spesso alle spalle vi si trovano delle vere e proprie organizzazioni criminali e che emergono grossi giri d’affari di svariate decine, a volte centinaia , di migliaia di euro. Se consideriamo che le quote per le scommesse vanno da un minimo di € 100,00 giungendo fino a € 25.000,00 e che un cane da combattimento divenuto campione (clandestino) ha un costo tra i 25.000,00 e 50.000,00 euro, possiamo senza dubbio parlare di un vero business (dati forniti dalla LAV). Un giro d’affari che è persino sottoposto a delle “regole di campionato”. Nel 2000, in una operazione di polizia a Siena, per la prima volta è stato sequestrato un programma di preparazione atletica per cani da combattimento e un regolamento per lo svolgimento delle competizioni. Si è trattato di una traduzione di un regolamento americano. Sarebbe il cosiddetto “Regolamento Cajun”, composto da 19 regole che comprendono norme che contemplano eventuali interventi della polizia ed il rapporto delle quote scommettibili, in base alla quotazione del cane ed il suo grado di allenamento. 83 IL GIRO D’AFFARI DELLA ZOOMAFIA ANNO 2002 In euro Corse clandestine di cavalli e truffa nell’ippica Combattimenti fra animali Traffico animali esotici “Malandrinaggio” di mare “Cupola del bestiame” Business canili Mercati fauna selvatica Appostamenti bracconaggio Iva evasa Introito complessivo zoomafia DATI : LAV 2003 1 miliardo 775 milioni 500 milioni 250 milioni 250 milioni 100 milioni 5 milioni 5 milioni Circa 250 milioni Circa 3 miliardi Ora, il giro d’affari che ruota intorno all’organizzazione dei combattimenti clandestini (commercio di cani a livello internazionale e scommesse) e la presunzione di guadagni facili esentasse possono senz’altro costituire una sorta di incentivo in queste attività, ma dubito fortemente che siano queste le ragioni motrici che spingano a cimentarsi in siffatte competizioni. Non mancano certamente sistemi e forme di guadagni illeciti più redditizi. Venticinque anni di servizio di polizia, di cui 17 trascorsi in attività investigative, mi hanno insegnato che i delinquenti abituali e di professione, e non mi riferisco alla sola classificazione giuridica, 84 nelle loro attività illegali valutano attentamente il rapporto tra rischio, entità della condanna e l’utile preventivato. Per questo non escludo che, se anche in parte minima, negli anni di forte disattenzione legislativa verso questi reati, tali considerazioni possano aver avuto un ruolo incentivante. Che l’organizzazione di queste competizioni, da parte di chi delinque abitualmente, ha una valenza diversa rispetto al semplice procurarsi del reddito in modo illegale, emerge dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonio Alesci. Durante un collegamento in videoconferenza, per un processo concernente i reati di estorsione e spaccio di stupefacenti, dichiara che, oltre alle attività appena citate, gli imputati avevano l’ “hobby” del combattimento fra cani [ Rapporto Zoomafia LAV 2006]. Il termine usato fa chiaramente comprendere che il fatto è considerato un passatempo, un divertimento. Sicuramente, chi mostra la tendenza di dedicarsi ai giochi d’azzardo è persona particolarmente predisposta per cimentarsi in queste attività clandestine. L’uomo è portatore di un’atavica predisposizione alla competizione, a sua volta collegata alla ricompensa che ne costituisce il rinforzo positivo. Non per nulla, nel suo ultimo capitolo (Dichiarazione di speranza) nel libro sull’aggressività, Konrad Lorenz parla di una forma di aggressività ridiretta nelle competizioni , inferendo che lo sport tragga le sue origini dal combattimento altamente ritualizzato. La competizione che fonda le sue radici nell’aggressività sessuale, a sua volta strettamente legata alla dominanza gerarchica, come abbiamo visto facente parte dell’aggressività intraspecifica, sembrerebbe dunque fondamentale per uno sviluppo psicologico equilibrato. 85 Secondo ZILLMANN (1979), le attività competitive possono condurre alla violenza, mentre l’aggressività andrebbe vista come la forza che spinge alla conservazione dell’io e della specie. Come nasce allora il desiderio di “accanirsi” in simili massacri organizzati? Cosa spinge alcuni esseri umani ad aizzare uno contro l’altro questi animali, “macchine da guerra” , appositamente create? Sembrerebbe intervenire psicopatologica. l’espressione di una personalità Elementi che lasciano desumere uno sviluppo deviato della personalità, ma presumibilmente anche elementi di tipo fisiologico, come alcuni studi hanno dimostrato in altri campi. Molti di questi studi, effettuati su criminali aggressivi e violenti, hanno consentito di riscontrare danni nelle interessate in tali manifestazioni. regioni cerebrali In particolare, è emerso che generalmente le lesioni della corteccia orbitofrontale riducono le inibizioni e l’autocontrollo delle persone, che diventano noncuranti delle conseguenze delle proprie azioni. Queste persone mostrano indifferenza verso le conseguenze delle proprie azioni, denotando quindi una forte insensibilità verso gli accadimenti. Gli studi, effettuati tra gli anni 50’ e 70’ da LURIA (1969), JARRVIE (1954) e BLUMER e BENSON (1975), hanno dato una connotazione neurofisiologica a molti comportamenti criminali violenti. Anche se è indubbio che la componente neurofisiologica può essere importante per il verificarsi di qualsiasi tipo di comportamento, mi sorge un problema relativo alla valutazione dell’implicazione dei fattori qui analizzati e nel collegarli alla predilezione per gli illeciti connessi ai combattimenti fra animali. Perché, se è vero che lesioni del lobo frontale possono portare a disinibizione, noncuranza ed indifferenza verso gli eventi e le 86 conseguenze di atti violenti, mi viene a mancare un elemento fondamentale che incide nel verificarsi di queste competizioni “parasportive”. Ovvero perpetuazione; il rinforzo positivo che stimola la l’eccitazione e la gratificazione che spinge all’organizzazione e all’assistere a nuovi eventi. Elementi generati, probabilmente, da esperienze di tipo psicologico. Può essere utile analizzare gli elementi psicologici dell’età evolutiva, che intervengono nella formazione della personalità dell’essere umano, al fine di capire quali fattori ed eventi possano creare forme di personalità patologiche, e magari giungere a come queste espressioni di personalità deviata si concretizzino nei comportamenti affrontati in questa tesi. Nella seguente parte del capitolo tornerò ad analizzare alcune cose di cui ho già parlato nel precedente capitolo, concernenti la parte ontogenetica dell’aggressività. Questo perché la formazione della psiche di una persona avviene proprio attraverso l’apprendimento ed il condizionamento durante la crescita. Si vedrà come teorie differenziate siano fondamentale complementari. In particolare, analizzerò i rapporti di diretta intimità tra il bambino e la persona di riferimento (di solito il genitore) e la sua influenza nella crescita psichica. Siegmund Freud individua nella psiche umana l’esistenza delle pulsioni, la forza “istintiva” che “spinge verso”. Inizialmente individua una sola pulsione, identificando questa spinta come pulsione sessuale. Nel saggio di FREUD del 1920 << Al di là del piacere>> egli delinea una pulsione distruttiva che classifica come pulsione di morte, una sorta di tendenza endopsichica all’entropia “Polvere ero, polvere voglio tornare”. Secondo NEUMANN (1949) questa 87 pulsione di morte è da interpretarsi come un tornare al sentimento di una sensazione d’infinito, il ritorno ad uno stato uroborico (il serpente che si morde la coda, colui che si nutre di se stesso), tornare all’abbraccio con la natura (FILIPPINI 1992). Per Freud i conflitti intrapsichici e le frustrazioni nascono dall’interazione delle tre topiche, l’Es , l’Io ed il Super-Io. Spero mi si perdoni la sinteticità con cui tratterò la teoria di Freud, ma vorrei soffermarmi su una più approfondita analisi delle più recenti teorie dell’età evolutiva di Kohut e Winnicot. In sostanza, l’Es sarebbe l’Io profondo ed istintuale ( il cosiddetto subconscio) che produce le pulsioni di vita e morte, mentre l’Io è quello che si da a vedere di essere (l’Io esteriore). Il Super-Io è l’Io nel quale ci si vorrebbe identificare (l’ideale di se). I conflitti nascono tra l’Es ed il Super-Io, creando frustrazioni ed esperienze rimosse che tornano nell’Es. Ma le frustrazioni e le esperienze rimosse che sfuggono al conscio, comunque condizionano il comportamento dell’Io reale. Nelle teorie di Kohut e Kenberg si parte dal presupposto che l’aggressività nasce dalla rabbia narcisistica per il fallimento della propria idealizzazione. Vi è però una differenza fondamentale nello sviluppo delle due teorie. Mentre per KOHUT (1978) i gravi disturbi del narcisismo patologico nascono dalla mancanza di un valido esempio speculare, che non consente la maturazione narcisistica dell’infante, KERNBERG (1975,1984) sostiene che l’organizzazione patologica narcisistica è insita nella personalità del maturando e che una ulteriore stimolazione al completamento della maturità attraverso il rispecchiamento empatico nella figura ideale, finirebbe per esaltare ulteriormente la patologia. Troviamo qui un 88 po’ il solito dilemma tra acquisito ed innato. Quello che mi sta a cuore far emergere è indipendente da questa diatriba. Cerco di tradurre in parole più semplici quanto da questi sostenuto per potermi ricollegare a quella che è la tematica principale di questo capitolo, ovvero la ragione che spinge ad avere determinati comportamenti. Il bambino nasce con una sorta di sensazione di onnipotenza. Vive nel suo “Io ideale” in quanto inconsapevole dei propri limiti, con cui dovrà confrontarsi non appena prenderà consapevolezza di un “io limitato. reale” fortemente La semplice presa di coscienza, per esempio, di non riuscire a camminare da solo crea una sensazione d’impotenza che cozza contro la convinzione di onnipotenza dell’Io-ideale. In quel momento interviene la figura genitoriale che, aiutando il bimbo a raggiungere il proprio scopo, colma questa sensazione di impotenza, consentendogli di proiettare la sua onnipotenza nel genitore rendendolo figura speculare del proprio Io-ideale. Man mano che il bambino cresce deve trovare nella persona di riferimento colui che colma le proprie deficienze per consentirgli uno sviluppo psicologico sano. Questa figura (genitore o tutore), che costituisce l’ideale del proprio Io, diviene poi oggetto di emulazione. Per poter parlare di quanto sostiene Winnicot devo tornare un attimo agli inizi della psicologia dinamica di JUNG (1947/54). Jung ritiene che il tessuto archetipico della psiche umana è una sorta di disposizione ad agire. Esso si rifà sostanzialmente alle pulsioni di Freud, ma aggiunge che a questa struttura di potenzialità vitale, l’Io ha bisogno di dare delle immagini per potersi formare. È un po’ come se la nostra psiche all’origine fosse un supermercato con gli scaffali vuoti, dove troviamo il reparto della bontà, quello 89 dell’avidità, quello dell’aggressività e via di seguito. Questi scaffali vanno riempiti per dare forma e vita alle attività che ne garantiranno il funzionamento. Jung, infatti, sostiene l’importanza di raccontare ai bambini storie, favole e miti, in quanto sono essi che creano l’alveo per il cui tramite il tessuto archetipico possa divenire immagine e garantire la maturazione della struttura dell’Io. WINNICOT (1968) compie una sorta di rivoluzione scindendo il bisogno di soddisfare le pulsioni dai bisogni dell’Io. Winnicot sostiene che l’Io abbia necessità di avere confini, di sentirsi considerato e di essere guidato, e che solo colmando queste necessità impara a riconoscere e gestire le proprie pulsioni. Soddisfare i bisogni dell’Io permette dunque anche la possibilità di esperire l’aggressività nelle sue diverse forme. Winnicot spiega come l’esperienza dell’aggressività , il sentimento della possibilità di usare l’altro, porta all’esperienza della colpa e allo stabilirsi della sensazione dei limiti propri e di quelli altrui. Non sarebbe possibile, senza l’esperienza diretta dell’aggressività, misurare la propria distruttività e consentire di attivare le forme riparatorie. Interviene qui il sostegno di una figura genitoriale che, a poco a poco, diviene un sentimento di presenza interiore. Diviene qualcosa come l’interiorizzazine dell’Io freudiano che assolve alla funzione di misura e sostegno. Voglio citare una frase molto bella e significativa del Prof. Filippini in “Aggressività: cenni per un modello complesso” << Una coscienza morale è tessuta nella stessa rete di relazioni in cui si esprime e si evidenzia l’aggressività >> È una frase che racchiude molto bene tutto il concetto globale che ho cercato di esprimere attraverso le diverse, ma 90 sostanzialmente complementari, teorie sulla formazione della psiche nell’età evolutiva, in relazione all’aggressività. Anche nel già citato libro di G.B. Palermo troviamo una serie di considerazioni che si riferiscono al rapporto diretto genitore – figlio. Emerge che è fondamentale per lo sviluppo sociale e relazionale del bambino una risposta ai suoi bisogni affettivi, la coerenza nell’indirizzo educativo, modelli nei quali identificarsi, il cui ruolo, in assenza dei genitori, può essere assunto anche da altre persone carismatiche. In assenza di ciò, emergono incapacità relazionali e di empatia verso gli altri, che frequentemente portano ad atteggiamenti impulsivi di aggressività. Il bambino, una volta presa conoscenza del proprio io, inizia a sviluppare una coscienza, che è il frutto di un condizionamento rafforzato durante le fasi evolutive dell’infanzia. Il condizionamento deve basarsi su valori etici e morali ed è di tipo interattivo, dove genitore e bambino mostrano rispettivamente aspettative che desiderano vedere realizzate. Un eccesso di regole e condizionamenti rigidi porta invece alla formazione di una personalità pavida ed insicura, incapace di reagire ad eventuali aggressioni. Un legame psicosociale povero tra genitore e figlio può portare ad un comportamento deviante, caratterizzato da una futura incapacità di creare rapporti significativi e duraturi e all’incapacità di rispettare le regole. Prima di tentare l’individuazione di una devianza patologica della psiche che possa essere collegata in modo diretto con gli atteggiamenti dei criminali che organizzano i combattimenti fra cani, voglio però fare una breve analisi riguardo alcune ricerche 91 che parlano del tasso di incidenza nei comportamenti criminali e violenti di persone cresciute in determinati contesti familiari. Da una analisi formulata da McCORD (1979), basata sullo studio longitudinale di un gruppo di bambini dagli undici anni in su, nell’arco di un periodo temporale di dodici anni, è emerso che gli effetti derivanti dalla combinazione educativa “affetto - disciplina coerente”, stimolavano decisamente i bambini ad assumere comportamenti equilibrati. WEST e FARRINGTON (1973), a loro volta, seguirono 411 ragazzi scelti a caso, dall’età di otto anni per un periodo di diciassette anni. Le conclusioni furono che i ragazzi che avevano commesso reati provenivamo solitamente da famiglie in cui i genitori risultavano crudeli, incuranti o passivi. Ho voluto inserire questo breve inciso di statistiche di tipo longitudinale per rimarcare come il rapporto interpersonale, affettivo ed educativo, tra genitore e figlio, intervenga nella formazione del della psiche, determinando la personalità del futuro adulto. Torniamo ora al tema della formazione e maturazione dell’Io reale, ispirato all’Io ideale, riflesso nella persona guida (genitore). Quali forme di patologia del narcisismo si sono evidenziate nel corso degli studi e quali di queste potrebbero intervenire nei comportamenti deviati di nostro interesse? La patologia narcisistica, secondo le teorie più accreditate, nasce sostanzialmente da due condizioni: - dall’interruzione dello sviluppo naturale del narcisismo infantile, - dall’incremento nello sviluppo di un narcisismo infantile patologico. 92 Esistono numerose classificazioni di patologie narcisistiche con, a loro volta, una serie di varianti e sfaccettature, che comunque fondano le loro origini nei due assunti appena citati. Dal momento che questa tesi non ha ragione di proporre analisi compiuta della psicopatologia narcisistica, una mi limiterò ad accennare alle diverse forme, abbozzando una sintesi delle loro espressioni. Mi soffermerò invece su quegli elementi che, a mio avviso, sono correlabili alla personalità deviata dei soggetti qui sotto esame. Per poter analizzare il nucleo di una personalità è necessario avere degli strumenti, che costituiscono degli indicatori e dei mezzi di valutazione. Nei primi anni 50’ sono divenuti di uso comune i concetti di “identificazione proiettiva” e “ scissione”. La scissione indica la presenza di due personalità distinte nella medesima persona. Kernberg definisce la scissione come il processo attivo che consiste nel tenere separati sistemi identificativi di qualità opposta. La scissione esprime una dissociazione all’interno del proprio sentimento di identità e riguarda il modo di una persona di percepire se stesso e il diverso modo di rappresentarsi agli altri, ovviamente in modo del tutto inconsapevole. Si tratta di un meccanismo di difesa da gravi tensioni, che nel bambino è da considerarsi normale, mentre nell’età adulta viene considerato patologico. Nell’identificazione proiettiva avviene un allontanamento di una esperienza di sé, vivendola come una caratteristica appartenente ad un’altra persona. A differenza di quanto avviene nella “rimozione” (sistema di difesa per eliminare la sensazione di disagio a causa di una propria qualità psichica indesiderata), il soggetto conserva le emozioni ed i significati di ciò che ha proiettato 93 sull’altro. L’identificazione proiettiva è una forma di difesa altamente patologica, ma è anche un sistema di comunicazione. Quando ci troviamo di fronte ad un disturbo del narcisismo, la persona tende a percepire gli altri in modo significativo per lui, entrando con loro in una relazione in modo particolare. La persona che soffre di questi disturbi deve trovare nell’altro lo specchio della propria magnificenza ed a sua volta pretende di rappresentare tutto per l’altro, cercando di rispecchiarne le aspettative per potersi sentire importante. Questa esperienza di relazione viene vissuta nell’interiorità e dunque a totale insaputa dell’altro. L’altro diviene importante quando vissuto come “oggetto-Sé”, termine coniato da Kohut per indicare quando un’altra persona viene esperita come parte del proprio Sé. Kohut ha anche individuato due modalità per esperire l’altro come “oggetto Sé”: la traslazione speculare e la traslazione idealizzante. La traslazione speculare consiste nel rispecchiamento nell’altro della grandiosità del Sé, mentre la traslazione idealizzante indica il trasferimento dei propri ideali nell’altro, dove possono essere ammirati e contemplati. Questa teoria ha consentito a Kohut di analizzare il rapporto bimbo - genitore , al quale ho accennato all’inizio di questa parte. Il bimbo che attraverso la traslazione speculare colloca l’immagine della propria grandiosità nel genitore, che vede venir meno con la graduale presa di coscienza dei propri limiti. Attraverso la traslazione idealizzante, fa divenire il genitore depositario delle proprie perfezioni perdute. L’idealizzazione del genitore consente al bimbo il recupero ed una vicinanza rassicurante, che lo aiuta nella realizzazione e accettazione della propria imperfezione. Il narcisismo infantile, come ho accennato, indica la fragilità di una autostima carente, che nella normalità (nel bambino) viene 94 recuperata, o meglio formata. Il narcisismo infantile nell’adulto, invece, è sintomo di grave patologia, perché non consentirà un recupero, ma attiverà una serie di forme di difesa, con le rispettive conseguenze. Nel Narcisismo patologico, la mancata formazione della personalità e dell’autostima, attraverso i meccanismi su descritti, crea la necessità di percepire se stessi come un’altra persona della propria vita che si reputa importante. Allo stesso modo, queste persone, amano solo chi in qualche modo può rappresentare loro stessi. Cioè stimano e amano se stessi nella persona di un altro. Freud aveva identificato questa patologia con il nome “identificazione narcisistica”. La forma più grave e più frequente di personalità narcisistica è incentrata sulla presenza di un “Sé grandioso patologico”. Il Sé grandioso patologico di per se è una struttura abbastanza coesa, costituendo sostanzialmente una difesa verso una personalità che contempla aspetti dissociati. Riesce a contenere percezioni scisse, che Kernberg individua in complessi edipici e preedipici, e che impediscono la percezione di un’identità coerente. Il Sé grandioso patologico vive, o forse sarebbe meglio dire, si nutre di relazioni speculari. Oserei azzardare sopravvive attraverso le sensazioni di incapacità di inettitudine vengono proiettate svalutate identificazioni che la sua psiche proiettive. Le proprie e nell’altro; di contro, l’altro può venire idealizzato rendendolo immagine speculare di ciò che il Sé grandioso idealizza in se stesso. Il Sé grandioso patologico nutre la propria autostima attraverso l’oggetto-Sé idealizzato, attraverso quei processi che Kohut ha chiamato traslazione speculare e traslazione idealizzante. 95 L’idealizzazione viene dunque considerata una difesa del Sé patologico, una modalità fondamentale di rapporto attraverso il rispecchiamento del Sé grandioso nell’altro. << Io sono grandioso; tu sei grandioso; risplendiamo della stessa grandiosità. >> Come ho anticipato, esistono una moltitudine forme di rapporti interpersonali, di sfaccettature, comportamenti e reazioni patologiche, forme di difesa e quant’altro, che comprendono lo studio di un campo, pressoché infinito. Credo di essermi dilungato sin troppo sull’argomento, sperando di essere riuscito a dare un contributo alla comprensione riguardo le problematiche della personalità deviata. Inoltre ritengo che quanto appreso in ordine alle teorie sull’identificazione proiettiva, il rispecchiamento del Sé - ideale e le traslazioni idealizzanti e speculari, ci diano sufficienti indizi per poter abbozzare delle ipotesi su cosa può spingere una persona ad avvicinarsi al mondo dei combattimenti clandestini. In questa prospettiva, nel rapporto uomo-cane , l’animale diviene l’oggetto-Sé speculare, colmando quelle che sono le necessità di sensazione di dell’“inconscia potere di una consapevolezza” psiche della frustrata propria a causa impotenza, divenendo portatore allegorico di forza, autorità e potenza. Il cane gladiatore diventa portatore di gloria, potenza e bellezza. Si tratta di una traslazione dei “meriti” del cane sul padrone. A vincere non è solo il combattente, ma entrambi, animale-uomo e animalecane. Chi possiede un cane vincitore si “nutre” della sua grandezza, del potere che rappresenta. È il suo blasone animato. In questo senso, anche la moda di possedere pit bull o altri molossi in voga maggiormente nei ceti sociali più attigui alla criminalità, trova una plausibile spiegazione. Il cane di un “uomo di rispetto” 96 deve essere forte, dominante, un animale che incute rispetto e che lo proietta sul suo proprietario. A questa forma di personalità deviata si aggiunge una devianza dell’aggressività repressa mal reindirizzata, esperienze frustranti nell’età evolutiva. manifestazione nella necessità di scaturita dalle Questa può trovare “godere”, di “eccitarsi” osservando eventi cruenti. Le lotte crudeli tra animali si perpetrano anche grazie a questi “estimatori” che le considerano un vero e proprio “spettacolo” (basta pensare al vasto commercio videocassette, e alla mania correlata di guardare gli incontri). Per queste persone, assistere o partecipare a un combattimento costituisce un “divertimento”, una forma di “intrattenimento”. Emerge una sorta di estetica della crudeltà, di attrazione per la sofferenza. Credo di aver accennato al fatto che fino nel ‘700 si effettuavano sevizie di animali in pubblico per dare spettacolo. Voglio ricordarlo qui, per sottolineare che anche queste forme di personalità, oggi considerate deviate, non normali, un tempo hanno fatto parte della nostra e di altre culture, con notevole “naturalezza”. Evidentemente anche la psiche umana è in continua evoluzione e con essa il metro della sua valutazione. Sto in sostanza anticipando il tema del prossimo capitolo, che andrà alla ricerca storica dei combattimenti fra animali, organizzati dall’uomo. Prima però di dedicarmi alla terza e conclusiva parte di questa tesi, sarà utile riassumere in una sintesi, il messaggio di questo capitolo. 97 Ho descritto le ragioni per le quali vi è una particolare scelta di razze canine per l’organizzazione di questi combattimenti. Essa scaturisce dal fatto che alcune razze, come abbiamo visto, appartenenti alla tipologia che in cinognostica viene indetificata con la denominazione molossoide, sono portatrici di particolari predisposizioni genetiche, sia di tipo morfologico che caratteriale. Cani che, per una naturale predisposizione, successivamente acuita ed incrementata dalla selezione umana, posseggono un carattere combattivo e tendente alla dominanza, nonché una particolare possenza e resistenza fisica. Troviamo tra i primi nella classifica il famigerato Pit Bull, “fratello di sangue” della razza riconosciuta dalla Federazione Cinofila Internazionale come American Stafforshire Terrier, che, a sua volta, è risultato essere una alterazione, in particolare nelle dimensioni, dell’incrocio tra Bull-Dog ed il Terrier inglese. Ho spiegato come a queste predisposizioni naturali vengano aggiunti, da parte dei “trainer”, degli estenuanti allenamenti fisici, cruenti sistemi di condizionamento della psiche dell’animale, e trattamenti con sostanze dopanti per esaltarne l’aggressività. In questo contesto ho avuto modo di applicare (mostrare in pratica) le teorie sulle origini filogenetiche ed ontogenetiche dell’aggressività. Al punto 2.2, invece, ho voluto far comprendere la complessità del fenomeno delinquenziale, cercando di elaborare un quadro completo della sua evoluzione, nonché dell’attuale situazione. In quel sottocapitolo ho fatto riferimento all’evoluzione delle normative volte alla prevenzione e repressione in materia di maltrattamenti di animali e come, attraverso questa evoluzione, si 98 possa dedurre un cambiamento nella presa di coscienza collettiva, rispetto ai diritti degli animali. Voglio qui ricordare come sia emersa una latenza normativa di quasi un secolo, inerte ed insensibile verso le continue crudeltà nei confronti degli animali. Credo, inoltre, di avere ampiamente valorizzato la meritoria opera delle associazioni animaliste, che con dedizione e competenza, sono riuscite a scuotere la sensibilità politica legiferante. Nel terzo paragrafo, ultimo della parte centrale di questa tesi, ho tentato di attribuire ad alcune manifestazioni di devianza patologica della personalità la paternità dei comportamenti sconsiderati dei nostri proprietari ed addestratori di cani-gladiatori. Credo comunque sufficientemente plausibile che vi sia una sorta di identificazione da parte dell’uomo nella potenza e nel coraggio del animale, e che tanta crudeltà e tanto sadismo non possano che sorgere da una innaturale ed incompleta evoluzione della psiche dell’individuo, costellata da frustrazioni e traumi indelebili. 99 Capitolo 3 Le origini, il presente ed il futuro del fenomeno dei combattimenti tra animali, organizzati dall’uomo 3.1“ Le prime conoscenze storiche e l’evoluzione dei combattimenti tra e con animali” Che le origini dei primi combattimenti tra animali, finalizzati all’intrattenimento, siano antichissime è noto. Tuttavia, dalle mie ricerche, è emerso che non vi è letteratura che tratti questo tema in modo specifico. Troviamo testi di antropologia, del rapporto uomo – animale, che parlano dell’addomesticazione degli animali o dell’evoluzione dei rapporti dall’antichità ad oggi, ma senza trovare riferimenti specifici al mio tema. Sia negli studi etologici che in quelli antropologici, non viene affrontato il problema delle forme di combattimento organizzato, che possano aiutare a comprendere l’evoluzione del fenomeno. Ho, invece, avuto modo di verificare che è molto più frequente trovare dei riferimenti alla nostra tematica in testi e scritti che parlano delle culture, dei territori e della indicazione del storia dei popoli. fatto che il Già questo ci da una prima fenomeno è, evidentemente, strettamente legato alla cultura dei popoli, e vedremo che, inoltre, spesso è considerato un fatto quasi folcloristico, più che antropologico - comportamentale. Ci sono testimonianze di tipo archeologico che svelano l’esistenza dell’antichissima “tradizione” del combattimento fra galli. Nel 100 Museo Civico di Milano troviamo la “Collezione La goia”, un insieme di vasi provenienti dall'antica Apulia; si tratta di una serie di contenitori con varie decorazioni in colori, sovrapposti a vernice nera che li copre completamente. Essi appartengono ad una produzione detta di Ganthia (dalla cittadina pugliese dove si riteneva ne fosse concentrata la produzione). La produzione risale tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C. Tra i diversi reperti storici sono state rinvenute delle “hydriae”, brocche per l’acqua, con delle decorazioni che raffigurano una cetra ed un, molto realistico, combattimento fra galli. Ovviamente, tale scoperta non ci da indicazione sul fatto se tali combattimenti venissero organizzati o solamente osservati, ma ci da la certezza che l’evento godeva di notevole considerazione. Soprattutto, se pensiamo che tali opere venivano seppellite in corredo ai defunti. Il “divertimento” dei combattimenti, già in tempi lontani, è stato un tipo di competizione che non implicava solo la lotta tra animali della stessa specie, ma comprendeva la lotta tra specie diverse, come anche quella tra animale e uomo. Nella storia dell’impero romano troviamo la locuzione “panem et circenses”, ovvero pane e giochi. Erano due elementi indispensabili per tenere quieta la plebe romana. Il pane veniva richiesto solo dai poveri, ma gli spettacoli del circo, i “ludi circenses”, erano graditi da tutti. Questi spettacoli prevedevano oltre alle gare di cocchi, una sorta di caccia detta “venationes”. In queste venationes gli uomini, variamente armati, affrontavano belve come tigri, pantere, leoni, orsi e tori. Avvenivano in quei luoghi (negli anfiteatri) anche le esecuzioni “ad bestias” dei condannati, gettati in pasto alle belve. 101 In quell’epoca, i “giochi” preferiti erano però i combattimenti tra uomini, i “ludi gladiatori”. Come magistralmente ricostruito nel film di Ridley Scott “Il Gladiatore”, la storia ci racconta che i gladiatori venivano addestrati fino a divenire combattimento, che vere e proprie macchine da abbiamo visto avvenire oggi con i cani “gladiatori”. Possiamo immaginare lo scarso rispetto che l’essere umano a quel tempo poteva avere per gli animali, se consideriamo che la vita di un uomo era appesa ad un “pollice” (segno di "pollice verso"), a seconda dell’umore e delle simpatie degli spettatori. È importante rendersi conto che, sia nei munera, combattimenti tra coppie di gladiatori, che nelle venationes, le cacce ad ogni sorta di animali, l'emozione principale dello spettacolo era la morte. Come ho già accennato al termine del precedente capitolo, le lotte cruenti tra animali hanno, ancora oggi, degli estimatori che le considerano un “divertimento”, come lo consideravano già i romani, un “gioco”. Vi è una sorta di estetica della crudeltà, di attrazione per la sofferenza. Per Kierkegaard, l’uomo come spettatore è spinto a disinteressarsi della sofferenza e persino della vita dei suoi simili, pur di godere uno spettacolo. Secondo V. ANDREOLI, in “Capire il dolore”, interpretando il pensiero di Kierkegard, anche il dolore si può spettacolarizzare, così pure la morte, il dolore dei dolori, la madre di tutti i dolori. Nello spettacolo la morte viene trasformata e rappresentata come gesto eroico che sa di magnificenza. Nello spettacolo la morte diventa amica, anzi, un’occasione per rappresentarsi e per esistere nella maniera più completa. “Ecco la morte come una sorta di danza piacevole, una condizione per esistere, esistendo al massimo [ANDREOLI 102 2003]”. Questa interpretazione filosofica della psiche della personalità, proposta da Andreoli, si ricollega un po’ ai concetti poc’anzi analizzati. Per comprendere il fenomeno nell’epoca romana, basta osservare le dimensioni devastanti che potevano assumere tali spettacoli. La storia ci racconta che all’inaugurazione del Colosseo da parte dell’Imperatore Tito, vennero sacrificati oltre 5000 animali in un solo giorno. La cultura di quei tempi, il tipo di coscienza collettiva e la mancanza di consapevolezza (forse percezione) della crudeltà, consentiva il massacro di esseri umani a scopo ludico, ed in modo ancor maggiore degli animali. Un’altra crudeltà verso gli animali a scopo di intrattenimento con radici piuttosto antiche è la corrida, dove i picadores seviziano tori per puro divertimento ed i toreri competono contro altri tori, il cui destino è quello di soccombere con una spada conficcata tra le scapole. Anche qui, l’eventuale ferimento del torero o la sua morte, fa parte dello spettacolo, facendone un eroe. La Tauromachia sembra anch’essa avere radici molto remote, ma a causa di mancanza di fonti attendibili prima dell’XI secolo, le teorie spaziano dalle origini mussulmane (i mussulmani occuparono la Spagna dal secolo VIII al XV) a quelle romane, fino a supporre origini greche, tentando di collegare la corrida ai giochi minoici. Si ha testimonianza dei primi giochi taurini verso il 1100-1200 in un contesto ben preciso. La nobiltà che guerreggiava a cavallo, l’usava come una sorta di allenamento. Questi allenamenti divennero poi “giochi”, perpetuati in occasioni di feste per celebrare l’arrivo di personaggi importanti, o per la canonizzazione di santi e si svolgevano sulla “plaza” (piazza), opportunamente attrezzata. 103 Si distinguevano in particolare due forme di combattimenti : - La “Lanzala”, dove il toro carica il cavaliere, mentre quest’ultimo lo attende e lo uccide con un colpo netto, perforandogli il cervello con il suo giavellotto. - La “Rejon” che si basa sull’astuzia e la schivata del cavaliere. Questo risultava essere un combattimento particolarmente mortale per tutti i protagonisti, dove il sangue e gli intestini uscivano a fiotti. Era l’aristocrazia che seguiva e si cimentava in queste abitudini, mentre parallelamente a questa tauromachia coesisteva una forma pedestre e popolare. Essa era poco codificata e veniva praticata durante le feste religiose. Il toro veniva tormentato da una folla in delirio, che si scatenava facendolo oggetto di ogni tipo di sevizie. La corrida, che ha dato origine a quella oggi conosciuta, nasce nel XVI secolo a Siviglia, dove alcuni dipendenti di macellai, nei cortili, si divertivano ad inseguire e schivare dei tori prima di ucciderli. Questo “divertimento”, di cui si sparse la voce, divenne presto un gradito spettacolo per i curiosi che si accalcavano sui tetti limitrofi per assistervi. Con il tempo, questi giochi divennero una professione e furono gli ex operai dei macellai a divenire i primi toreri pagati. Tra il 1730 e il 1750, la corrida si diede un regolamento. Nacquero le prime arene e si iniziò con una selezione mirata per creare tori da combattimento. Come abbiamo visto nei capitolo precedenti, la stessa cosa è accaduta, e purtroppo accade ancora, nel combattimento tra cani. Tema sul quale tornerò per fornire anche in quel campo specifico una collocazione storica. 104 La tauromachia era sostenuta dalla chiesa ed i tori andalusi, considerati più idonei per le corride, venivano allevati e selezionati da religiosi (Dominicani e Certosini). La Corrida si espanse in America, Africa ed Europa. La nazione europea maggiormente coinvolta è la Francia nella regione del Midi. L’Italia venne interessata dal fenomeno nel XVI secolo, introdotto da Papa Cesare Borgia . Queste manifestazioni, tuttora oggetto di attualità, ma legate maggiormente alla tradizione ispanica, coinvolgono ancora parte del sud della Francia e vengono seguite da molti curiosi, ma anche dagli “Aficionados”. Termine che noi, riferendoci ai seguaci del calcio, potremmo accomunare all’appellativo di “tifosi”. Josyane Querelle, Presidente della F.L.A.C. (Féderération de Liaisons Anti-Corrida), così interpreta l’attuale problema della perpetuazione delle corride: “ Il posto privilegiato che occupa oggi la corrida tra i media tende a rendere non colpevoli tutti quelli che vanno ad assistervi. Ma noi dobbiamo interrogarci sulle reali domande in materia di violenza nelle nostre società. La corrida è l’espressione della legge del più forte. E questi uccisori – “matadores” – di cui i media fanno degli eroi dei tempi moderni, affascinano gli animi giovani e vulnerabili, ancora incapaci di discernimento. Così le loro incertezze perdurano sino a che l’apprendimento del rispetto del mondo vivente arrivi a far scuotere il loro edificio e speriamo che le nuove generazioni, utilizzando un occhio diverso su questo anacronismo, lo condannino senza appello. Noi dobbiamo dunque lavorare per fornire una informazione seria, la più larga possibile al fine di smascherare una impostura.” 105 Tornando al tema centrale di questa tesi, è opportuno dare una connotazione storica al fenomeno dei combattimenti che coinvolgono i cani. La lotta tra cani ed altri grandi mammiferi, come l’orso, il cinghiale e l’uro (progenitore del bue domestico estintosi nel secolo XVII), viene praticata anch’essa sin dai tempi antichi nelle arene dell’impero romano. Verso il 1200, la crescita delle città e del commercio provocò lo spostarsi dei combattimenti dalle arene nelle piazze. I cani venivano aizzati contro orsi e tori legati per le zampe, il collo o le corna. Questi crudeli combattimenti divennero il passatempo preferito in Gran Bretagna, soprattutto a partire dal periodo Elisabettiano (c.a. 1550). I cani maggiormente usati furono i grandi cani da caccia, gli alani ed i combattimento divenne sport popolare. mastiff. Verso il 1650 il Nasce il bull - baiting, combattimento nel quale il cane deve afferrare il toro per le orecchie o il musello e non lasciare più la presa. Nella figura 3.1, si vede un opera artistica, appunto di quell’epoca, che ritrae una scena di “bull-baiting”, di cui non è menzionato l’autore, pubblicata sul sito “workingpitbull.com”. Figura 3.1 106 Gli inglesi preferirono ai pesanti mastini i più piccoli e agili cani dei macellai, di aspetto simile a un piccolo mastiff, con il pelo raso, la coda lunga, di colore spesso pezzato, detti bull dog ( cani da toro) [HARRISON 1907 – ASH 1927]. Già nel 1689 l’Olanda vietò i combattimenti, seguita nel 1834 dalla Francia e l’anno successivo dall’Inghilterra. In Gran Bretagna, a seguito del divieto combattimenti, le lotte continuano lo stesso, ma di effettuare mettendo a confronto avversari più piccoli e facili da nascondere alla polizia. Nascono così le lotte tra cani e la caccia al ratto. Questo, mentre in altri paesi del vecchio continente continuano principalmente le lotte tra i cani dei macellai e tori. Particolare è che sarà soprattutto il “nuovo mondo” a mantenere e sviluppare l’ambiente del combattimento tra cani, come abbiamo visto, attraverso la selezione delle diverse razze, dovuto ad una fortissima competizione [BRANDSHAW, GOODWIN, LEA e WHITEHEAD]. Nasce nel nuovo mondo il termine “Gameness”, che nei cani da presa e da combattimento implica la tendenza ad affrontare l’avversario senza valutarne la pericolosità, la propensione ad attaccare e a proseguire lo scontro (persistenza), anche fino alla morte. La gameness è una particolare caratteristica dei cani da presa, da tana (per esempio bassotti e terrier) e dei cani da combattimento. Sulle isole dell’Arcipelago delle Canarie, intorno al 1500, un tipo di cane detto “presa” , per indicarne le particolari attitudini alla presa, veniva utilizzato per la guardia al bestiame, alle case e come cacciatore. Avevano un forte temperamento e disponevano di una notevole aggressività, al punto tale che, per limitare i danni agli allevatori, nel 1516 venne emanata una direttiva che ne prevedeva l’abbattimento ad esclusione dei cani da macellaio. 107 Furono proprio gli inglesi, tra il XVI e il XVII secolo, ad importare, nelle isole, la cultura del combattimento tra cani. Essi furono affascinati dalla potenza ed abilità dei cani locali che, per questo, iniziarono ad incrociare con i loro Bull-Terrier e Bull-Mastiff. Ad essere utilizzato per gli incroci fu, in particolare, un cane rustico e temperato chiamato Bordino Majorero. La prosecuzione nella selezione ha portato, come ho già accennato nel paragrafo sulle razze da combattimento, all’oggi conosciuto Perro da Presa Canario. Le lotte tra cani divennero, su quelle isole, presto delle apprezzate attrazioni e gli aborigeni le integrarono subito tra le loro usanze. Come appena accennato, altrettanto avvenne in America. Agli inizi del XVIII secolo, a causa di una profonda crisi economica, gli inglesi si spinsero alla conquista di nuovi territori, tra cui l’America centrale. Le numerosi situazioni conflittuali con gli indigeni li portarono ad importare anche i loro cani per la difesa. Ben presto questi cani si diffusero anche in quel territorio e non ci volle molto affinché s’instaurò anche lì lo “sport” dei combattimenti. Questo, ovviamente, non significa che l’origine dei combattimenti tra animali, ed in specifico tra cani, nasce ad opera degli inglesi. A prescindere dalle prime testimonianze dell’epoca romana, ci sono continenti e territori dove ancora oggi la cinomachia è una pratica facente parte delle abitudini locali e di fatto né vietata, né perseguita. Sia nelle regioni balcaniche che nelle regioni centro –occidentali dell’Asia, troviamo testimonianze attuali di questo tipo di pratica. Prima di portare esempi più specifici, riguardo questa asserzione, che farò nel seguente paragrafo, voglio tornare un istante al combattimento tra galli. 108 Ne ho fatto un solo breve cenno all’inizio del presente capitolo per tornare sull’argomento ora, al termine. Questo ha una ragione ben precisa. Attraverso dei reperti archeologici, abbiamo appreso che il combattimento tra galli affonda le sue radici nella notte dei tempi. Altrettanto, però, è un fenomeno tuttora attuale. ragione, La di questa perpetuazione nei millenni, sta nel fatto che spesso non suscita indignazione, ma viene accettato come una forma di folclore. Nella migliore delle ipotesi suscita disagio, ma non viene percepito con uguale gravità rispetto al combattimento tra cani. animali Questo, nonostante vengano anche in questi combattimenti gli incentivati all’aggressività. procedure usate per i cani, i galli vengono Parimenti alle allenati con dei “sparrig partner” ed equipaggiati per le gare con lame taglienti applicate agli speroni. Sono dei massacri che vedono quasi sempre la morte del soccombente. Che questo problema venga vissuto in modo assai diverso rispetto agli altri episodi di maltrattamenti di animali, emerge anche dalle seguenti testimonianze di due antropologi che affrontano tale tematica. In una revisione di Francesco Censon, di un’intervista al Professor Clifford Geerts, sul tema dell’interpretazione delle culture, pubblicata sul sito “emsf.rai.it” , gli si pone la seguente domanda: “ Potrebbe, per concludere, darci un esempio del suo lavoro come analisi dei combattimenti dei galli a Bali?” Dall’interpretazione che ne da Geertz, emerge che il tutto sembra sintetizzarsi in un gioco tra caste e classi sociali. Geertz riferisce che i combattimenti siano interessanti proprio a causa della loro apparente frivolezza, benché, agli inizi, egli non ci trovasse nulla d’interessante. Si nota, nelle sue parole, in modo evidente la totale 109 indifferenza verso la sorte degli animali. Questo senza nulla togliere al valore dell’analisi sociologica. Geertz ritiene che la ragione più recondita, nell’organizzazione di questi combattimenti, si riesce ad individuare attraverso l’analisi delle modalità nelle scommesse. La sproporzione delle somme scommesse, rispetto alle probabilità di vincita dei rispettivi galli, è determinata da linee di condotta, proprie della struttura dei gruppi sociali di appartenenza. Questo ricondurrebbe ad una lotta tra diversi gruppi per lo status ed il prestigio sociale. Le scommesse, dunque, acquisterebbero un senso non in termini di probabilità o in base ad una teoria razionale, ma in ordine al modo in cui, a Bali, i gruppi parentali, gli individui, le caste e le classi privilegiate competono tra loro. Secondo Geertz, questo è un fatto importantissimo, in quanto determinerebbe che i combattimenti dei galli, anziché essere avvenimenti “frivoli”, diverrebbero un interesse di principale importanza, molto vicino al cuore dei balinesi. Il Professor Alessandro Dal Lago, docente di “Sociologia dei processi culturali”, presso l’Università di Genova, in una trasmissione sul tema “Agonismo e competizione”, rispondendo alle domande di alcuni studenti , tocca anch’egli il problema del combattimento fra galli. Secondo una sua analisi, anche se gli animalisti giustamente lo considerano sconvolgente, le società in cui si praticano non sono delle più arcaiche; appartengono comunque a culture sviluppate, anche se diverse dalle nostre. Quello che risulta veramente interessante, dice Dal Lago, è tutto quello interno ai combattimenti e non essi stessi. partecipazione Bisogna analizzare l’organizzazione e la che gli uomini costruiscono intorno a queste competizioni, per poter dare un senso a questi fatti, e che, secondo lui, sono l’unico modo per capire il rapporto tra elementi naturali e 110 culturali, anziché fossilizzarsi sui combattimenti stessi. Dal Lago dice ancora che i combattimenti tra galli sono una forma “artistica” per rendere comprensibile l’esperienza comune, quotidiana, presentandola in termini ed azioni, le cui conseguenze pratiche vengono rimosse, innalzate a livello di pure apparenze, dove il significato può essere più fortemente articolato e più esattamente percepito. In sintesi, il combattimento è veramente reale solo per i galli. Il motivo per cui le persone, appartenenti a queste culture, si divertono, è lo stesso che dona piacere a noi occidentali andando allo stadio. Emerge con evidenza come, di questi combattimenti, se ne da una lettura esclusivamente sociologico-culturale. Ma questo rispecchia un po’ l’atteggiamento di gran parte del mondo scientifico, che sembra considerare questo fenomeno meramente da questo punto di vista. Nel prossimo paragrafo, voglio dare, per quanto possibile, un quadro dell’attuale diffusione, concernete il fenomeno dei combattimenti tra e con animali, per poi trarre le mie conclusioni, che si tradurranno in interrogativi e riflessioni. 111 3.2 “ La diffusione dei combattimenti nei vari territori e l’impatto sulla società odierna.” Resto ancora brevemente nel campo dei combattimenti tra galli. Sono rimasto sorpreso di come questo sia un fenomeno ancora oggi molto diffuso, e non solo in culture molto diverse e lontane dalla nostra. Per esempio, troviamo che le competizioni tra galli ancora vengono organizzati in alcune zone della Francia, della Spagna, ma anche nel sud dell’Italia. Si legge in un dispaccio della LAV di Bari che il Codice Penale francese punisce, citando testualmente “[…] il fatto, senza necessità, pubblicamente o non, d’esercitare volontariamente dei maltrattamenti verso un animale domestico con l’ ammenda […]” Sono però esclusi da questo articolo proprio “i combattimenti fra polli, in quelle località dove si è stabilita una tradizione ininterrotta”. Per questo motivo si possono trovare tali combattimenti in Quebec, e nella stessa Francia, specie nelle Fiandre, dove essi sono organizzati in maniera piuttosto discreta, essendo, al contrario, proibite tutte le forme di scommessa. La tradizione è talmente radicata che persino sui giornalini scolastici si possono trovare interviste a ragazzi della scuola che allevano polli da combattimento. In uno di essi, uno studente parla dei suoi galli combattenti con una fierezza che sfiora l’inverosimile. Si dice, comunque, preoccupato per la salute dei suoi animali, e sebbene durante gli allenamenti li protegge con “guantini da boxe” calzati sulle zampe, precisa che durante i combattimenti il becco e gli artigli vengono affilati affinché siano più penetranti nella carne degli avversari. Non ha timore a dichiarare che il suo “passatempo” procura molto denaro, ma lui 112 ammira i combattimenti solo perché in questo sport vige la legge del più forte. Ma, come detto, i combattimenti fra galli non sono estranei nemmeno al “Bel Paese”. In alcune località del Sud Italia, infatti, durante le sagre si ancora usa far combattere i galli. Come si legge in articolo sul sito di “Sardegnanimalista”, dal titolo “La Nuova Frontiera - Combattimenti tra Galli”, nel 2003, a Roma, è stato scoperto e sequestrato un allevamento clandestino di galli da combattimento. Sessantaquattro esemplari di razza bantam, una razza molto aggressiva di origine orientale, portata in Italia per alimentare il divertimento tradizionale della comunità filippina della capitale. Nell’articolo viene ribadito che la lotta tra galli e' una pratica particolarmente cruenta, applicando agli animali degli uncini affilati come rasoi e infilando dei rostri nel becco. Nel materiale rinvenuto dagli investigatori è stata trovata anche una bottiglietta di sostanza dopante. Si legge ancora che l'operazione ha sollevato un velo su un fenomeno che in passato era limitato a pochi episodi. Risale al 1999 la scoperta, da parte delle forze di polizia, di un'arena in cui era in corso un combattimento, alla periferia di Mantova. Un altro episodio è datato febbraio 2002, quando nel ragusano 15 giovani avevano organizzato una specie di corrida tra galli. Ho già accennato al fatto che in Indonesia, in particolare a Bali il combattimento dei galli è fenomeno molto diffuso, e, sembrerebbe, anche di una certa importanza. Quello, però, che mi ha sorpreso in modo ancor maggiore è il fatto che, per chi fosse intenzionato a visitare luoghi di villeggiatura come Guadalupe o Santo Domingo, e si vuole preventivamente informare sulle attrazioni, trova , tra le altre, anche i tradizionali combattimenti dei 113 galli. In sostanza ne viene fatta pubblicità, come attrattiva, indicando specificatamente le “galleras” di Santo Domingo ed i giorni stabiliti per gli eventi. Nella pubblicità per Guadalupe si legge: “ [...] immergetevi nell’atmosfera di autentico foklore dei “Pitts” o “gallodromi”, per assistere ai combattimenti dei galli, una tradizione […]”. È ovvio che, se tale informazione fosse percepita dalla pluralità dei turisti come negativa o sconvolgente, essa risulterebbe controproducente nell’incentivare il turismo, venendo, secondo logica, eliminata dalla pubblicità. Il fatto che non sia così fa riflettere. Non sarà che anche la nostra società, tanto sensibile al benessere degli animali, faccia delle differenze tra animali e animali (figli e figliastri). Potrebbe darsi che, avendo un diverso, a volte nessun rapporto con questi volatili, viviamo il problema in modo più distaccato. Questo è uno degli interrogativi che approfondirò nelle conclusioni di questa tesi. Passando dai bipedi ai quadrupedi, troviamo un’altra realtà ancora presente e, accettata o se non addirittura gradita, quantomeno tollerata dalla maggioranza della comunità occidentale. È la corrida di cui ho narrato in precedenza. Non servono approfondimenti statistici per sostenere che molte persone seguono questi eventi. C’è chi li denigra, ma senza riuscire a non guardare, chi in modo “schifato”, almeno una volta, l’ha voluta vedere, chi la segue sporadicamente, magari sperando che il toro abbia le meglio (fatto che non cambia molto alla sostanza), e gli “aficionados”, i tifosi della tauromachia. Per questo tipo di maltrattamenti, ho potuto intuire non più di una sorta di indignazione collettiva di circostanza, verificando l’esistenza della meritoria opera di alcune associazioni, come la FLAC, che si 114 stanno impegnando nel farle abolire a livello legislativo. Se anche venisse approvata una legge ad hoc, molto probabilmente non si riuscirebbe ad eliminare in modo definitivo questo problema, in quanto anch’esso risulta alquanto radicato nella cultura di questi popoli. Abbandono questo fenomeno tutto europeo, per parlare maltrattamento di animali, tuttora attuali, di che riguardano i combattimenti di cani contro altri grandi mammiferi in oriente. Da una inchiesta della W.S.P.A. (World Society of Protecting Animal), emerge che questa pratica è molto diffusa. In un articolo di Leonardo Gambatesa, sempre pubblicato sul sito LAV di Bari, si legge che, nonostante le promesse dei vari governi, l’inchiesta condotta dalla WSPA ha mostrato che queste barbarie perdurano. In media, sono utilizzati dieci orsi durante gli 80-100 festival di combattimenti che ogni anno si organizzano e ai quali partecipano più di 2000 persone. Strappati dal proprio ambiente naturale, questi orsi affrontano diversi cani per combattimenti che prevedono fino a sei rounds. Gli orsi, però, sono incatenati, privati degli artigli e dei denti, mentre i cani sono liberi di muoversi. Nonostante le ferite, gli orsi devono continuare a “combattere” fino a tre volte al giorno, potendo giungere a 300 combattimenti all’anno [vedi fig. 3.2]. Spesso i cani restano uccisi, colpiti dai potenti colpi di zampa degli orsi. In alcuni stati, questi spettacoli crudeli sono proibiti dalla legge ma la corruzione è talmente imperante che, a volte, sono gli stessi poliziotti ad assicurare il servizio d’ordine e ad incassare il biglietto d’entrata. Diverse associazioni animaliste internazionali si battono per far cessare questi spettacoli inutili e crudeli, ma non è facile perché spesso costituiscono un grosso business. 115 Fig. 3.2, foto tratta dal sito www.sardegnanimalista.it Torno ora al problema centrale, il combattimento tra cani. I numeri sui casi di cinomachia accertati, forniti da ENPA e LAV, che abbiamo consultato nel corso dello svolgimento di questa tesi, fanno comprendere che il fenomeno è ancora attuale e soprattutto molto diffuso. Come gli stessi enti precisano, i numeri sono da considerarsi in difetto, in quanto ci muoviamo nel campo della clandestinità, e dunque una gran parte dei misfatti avvengono nel totale anonimato, e quindi mai scoperti. Se si considera, inoltre, che tale “hobby” è molto diffuso negli ambienti delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, è facilmente immaginabile che questi fenomeni si verifichino restando per lo più sconosciuti, in quanto protetti dalla proverbiale omertà. 116 Persino in una piccola città come la nostra, L’Aquila, nonostante si fosse venuti a conoscenza, per via informale, di combattimenti organizzati nelle zone limitrofe, non è stato possibile trovare elementi sufficienti per arrivare ad una incriminazione. Nei rapporti delle forze di polizia, che hanno indagato per circa un anno e mezzo, si legge dell’individuazione di alcuni luoghi dove avvenivano i combattimenti, ma che i numerosi appostamenti non avevano dato alcun esito. Si trattava di containers, rimorchi e semirimorchi, chiusi, di trattori stradali dimessi e abbandonati nelle campagne circostanti. Essendo collocati in qualsiasi movimento che potesse destare zone scoperte, sospetto faceva desistere gli avventori dall’iniziare la competizione. Anche i controlli presso gli allevamenti di cani delle razze maggiormente interessate, per verificare negli animali eventuali danni o ferite riconducibili a combattimenti, non hanno sortito alcun esito. Ho voluto portare questo esempio, tratto da rapporti investigativi ai quali ho avuto accesso, per dire che non è semplice individuare tali eventi e che, anche per questa ragione, dobbiamo partire dal presupposto che il fenomeno sia molto più diffuso di quanto non se ne sappia. Questo per quanto concerne il fenomeno clandestino, ma basta uscire poco fuori dai confini del nostro territorio nazionale per trovare delle realtà dove tutto avviene ancora alla luce del giorno. Michele Di Leva, Consigliere Nazionale dell’OIPA (Organizzazione Internazionale per la Protezioni Animali), ha pubblicato un articolo su quanto da lui accertato in Serbia. Dice che si tratta di un fenomeno ben radicato nel tessuto sociale e che da sempre questa attività viene definita sportiva dagli”addetti ai lavori”. Di Leva riferisce, che da sempre queste attività sono state presenti in quella nazione e che gli incontri si svolgono in strutture di ogni 117 genere , persino negli stadi. Ha notato la scarsa sensibilità nei confronti di questi fenomeni sia in Serbia che in molti altri paesi dell’est europeo, e l’assenza di un retaggio culturale di protezionismo e tutela degli animali. Ancora oggi, in quei paesi, gli animali sono considerati principalmente delle fonti di guadagno. Nonostante in Serbia esista una legge che vieti i combattimenti, punendo i trasgressori con pene detentive fino a sei mesi, il tutto si svolge alla luce del giorno. Vista l’insensibilità diffusa verso le sorti degli animali in genere, probabilmente la legge mira più precisamente ad arginare il fenomeno delle scommesse clandestine e le rappresaglie che ne potrebbero derivare. Un po’ come lo era il divieto di giocare alla “morra” nel nostro paese. Di Leva, indica anche un sito internet, molto considerato nell’ambiente, denominato “Yu Arena”, che fa spudoratamente pubblicità ai cani da combattimento, alla selezione ed all’addestramento di essi. Lo stesso sito rende pubblico anche il regolamento dei combattimenti, il “Cajun”, di cui abbiamo già sentito parlare, consultando il Rapporto di Zoomafia della LAV. Sembrerebbe che la legge serba non abbia elementi per poter oscurare il sito. Anche in Serbia, come da noi, il fenomeno dei combattimenti è spesso legato alla malavita, ulteriore elemento che dissuade coloro che vorrebbero denunciare questi fatti . Tornando all’Asia centro-occidentale, abbiamo testimonianze, anche fotografiche, dei Afghanistan [Fig. 3.3]. combattimenti tra cani a Kabul, in Dalle immagini emerge chiaramente che non si tratta affatto di combattimenti clandestini e che l’atmosfera è la stessa che si percepisce nelle competizioni balinesi con i galli. 118 Fig.- 3.3., combattimento di cani a Kabul, tratto da una pubblicazione su internet dell’articolo di A. Nicastro del 2002 Sembra un fatto radicato nella loro cultura, dove si nota una netta dissociazione dalla sofferenza degli animali, come spiegava il Professor Dal Lago. Andrea Nicastro, pubblica un articolo sul Corriere della Sera del 14 febbraio 2002, dal titolo “Kabul fa combattere i cani e tradisce il Profeta”, riportando il pensiero del profeta Maometto: “ […] non ha parlato dei combattimenti dei cani, ma nelle Profezie, però, dice di non caricare troppo un cammello. Dice che essere crudeli con gli animali va contro la volontà di Allah. Che le bestie al servizio dell’uomo abbiano sempre da mangiare e che un bravo mussulmano deve avere senno anche per loro. Se i suoi animali si azzuffano, sia lui a dividerli. No, il Profeta non poteva proprio approvare il sagjanghi , il combattimento dei cani.” 119 Il giornalista fa una minuta descrizione di come avvengono i fatti, che io riporterò in modo molto più sintetico, ma sufficiente per farsi una idea e trarre le conclusioni utili allo svolgimento di questa tesi. Scrive Nicastro: <<Il comandante Janagha è il capo della piazza. È lui a organizzare lo spettacolo. Stranieri che vogliono vedere?: “Prego, siete miei ospiti. Sarà divertente, oggi si affrontano delle buone fauci”. Janagha ha la passione del combattimento dei cani. Li alleva, li addestra, li vende e li giudica. Nell’arena è un piccolo Cesare, arbitro della vita e della morte degli animali. La folla ulula, ride, tifa, rabbrividisce. Come in un colosseo, invoca pietà per un combattente sconfitto ma coraggioso, oppure chiede sangue, la battaglia sino al morso mortale. La decisione spetta a Janagha. Il comandante non mostra il pollice ma agita uno sfollagente per ordinare ai suoi uomini e ai proprietari dei combattenti di separarli o di lasciarli azzannare ancora. A Kabul viene usata una razza grossa, imponente, con esemplari simili ai nostri molossi o ai maremmani. Sono bestie selezionate per vivere al freddo delle montagne. Nell’arena di Company ( periferia di Kabul, a mezz’ora dal centro della Capitale), i cani hanno nomi come “Lanciarazzi”, “Tuono”, “Mitra” e servono a far divertire un pubblico pieno di bambini, ma già assuefatto alla violenza e alla morte. “Un buon esemplare - spiega Shafiq, uno degli aiutanti armati del comandante, - vale un manzo o due asini vecchi”, l’equivalente di cento euro.>> Dai termini usati dal giornalista e dalla descrizione del contesto della manifestazione, emergono numerosissime similitudini tra quello che avveniva ai tempi dei romani e tra quanto avviene ancor oggi in alcune zone del nostro pianeta. 120 Salta, anche qui, all’occhio come la prospettiva antropologica di una ragione socio-culturale sia preponderante rispetto al fatto crudele in sé. Tornando, invece, “tra le mura di casa”, ritengo importante parlare di un altro fenomeno che sfugge alla lettura e alla considerazione dei mass media e delle associazioni animalisti. Un fenomeno più nascosto, non facilmente individuabile, che riguarda sempre il rapporto di noi occidentali con i cani. Solo chi vive in determinati contesti ne prende consapevolezza. Sto parlando dei combattimenti spontanei tra cani, ma fortemente incentivati dall’uomo. Occupandomi da anni di allevamento ed esposizioni cinofile, trascorrendo una gran parte del mio tempo in questi ambienti, ho avuto modo di notare che spesso possessori di cani particolarmente possenti o agguerriti, tendono a sollecitare dei combattimenti spontanei. Si tratta di nulla di organizzato e non c’entrano neanche questioni di scommesse. Il fatto nasce, come abbiamo visto attraverso gli studi sul narcisismo patologico, dal desiderio di supremazia del proprio cane sull’altro, con l’evidente esigenza, del padrone, di potersi rispecchiare nella potenza del proprio animale, cadendo in quella forma di scissione della personalità, individuata come identificazione proiettiva. Il fatto di far finta di trattenere il proprio cane, che diviene invece una forma “celata” per aizzarlo, facendoselo sfuggire al momento opportuno, è una tecnica consolidata in molti dei possessori di cani particolarmente combattivi. Altre volte, invece, il combattimento viene deciso dai due proprietari, in accordo tra loro, semplicemente sganciando ognuno il proprio cane dal guinzaglio, per verificare quale sia il più forte. 121 Nell’ambiente della pastorizia, per esempio, che frequento in modo assiduo proprio a causa della mia passione per i cani da pastore abruzzese, ho spesso potuto notare un fatto che, a suo modo, rientra anch’esso nella sollecitazione di combattimenti “spontanei”. Quando le greggi pascolano allo stato brado, seguite e protette dal proprio branco di cani, spesso alcune pecore con i loro cani si inoltrano in territori già utilizzati da altro gregge. In questo modo non di rado si scontrano i diversi branchi di cani che ingaggiano delle lotte. Ancor maggiore è la frequenza di questi scontri quando le greggi la sera rientrano negli stazzi attigui, che si possono scorgere sugli altopiani delle nostre montagne. Non mi è mai capitato di vedere un pastore aizzare uno dei propri cani verso quelli dell’altro pastore, ma altrettanto non li ho mai visti tentare di separarli, tanto meno di preoccuparsi della loro incolumità. Al contrario, spesso il fatto viene seguito con un certo interesse e solo qualche rara volta, uno di loro fa qualche modesto tentativo di farli desistere. Solitamente si tratta del pastore che teme che il proprio cane possa soccombere. In sostanza, si nota nei pastori, con molta evidenza, una certa rivalità anche nel possedere i cani migliori, non solo le pecore più selezionate, più grasse e quant’altro. Ricordo che due famiglie di pastori non si sono parlate per un ventennio a causa delle liti riguardo chi possedesse la migliore muta di cani. Questo ci fa comprendere quanta importanza un tale fatto può rappresentare per persone che vivono in un determinato ambiente e contesto culturale. Ritengo necessario combattimenti far notare “spontanei” ma che nelle varie incentivati, che ipotesi ho di qui rappresentato, vengono meno le sevizie attraverso estenuanti allenamenti, i sistemi di condizionamento e l’uso degli psicofarmaci. 122 Inoltre, non si verifica mai la morte di uno dei combattenti, e solitamente le ferite non sono gravi. L’esito meno cruento di questi combattimenti “naturali” è dovuto sia all’etologica predisposizione, conservata nei cani non fatti oggetto della mirata selezione di “Gameness”, a comunicare la propria sconfitta con gesti di sottomissione, sia al fatto che in mancanza di un epilogo secondo natura, intervengono i proprietari comunque “affezionati” ai loro cani. Abbiamo dunque visto, nei due paragrafi di questo capitolo, che i combattimenti organizzati con, e tra, animali sono una cosa molto radicata nella cultura umana. Troviamo le prima tracce già nei secoli precedenti all’anno zero. La loro evoluzione e le rispettive varianti hanno tramandato questi “costumi” attraverso i millenni successivi, sino ai nostri giorni. Si è visto anche che le origini sono inscindibili antropologico, da un discorso che lega questi fatti ad elementi sociologico- culturali. Inoltre, il fenomeno perdura ancor oggi, esplicitandosi in modo quasi naturale in alcune culture, mentre continua ad essere perpetuato in forma clandestina in quei territori le cui culture si professano più evolute. Troviamo, inoltre, forme più evidenti e forme più celate, sistemi e metodi più cruenti ed altri meno drammatici. Prima di passare al capitolo successivo, per tentare una analisi del fenomeno, voglio evidenziare una particolarità che ho notato navigando su internet per trovare materiale inerente la mia tesi. Si tratta del sito di una associazione denominata “Collegium Gladatorium” . Si legge, tra le altre informazioni concernenti la storia dei gladiatori dell’antica Roma, in riferimento a degli spettacoli organizzati da questa associazione: “… ricrea le antiche 123 tradizioni rispettando gli usi e costumi dell’epoca. Durante i nostri spettacoli ricreiamo l’atmosfera magnifica e spietata ( da me evidenziato) delle arene, gli spettatori possono dilettarsi a guardare esperti guerrieri che combattono con forza immensa l’uno contro l’altro [….] Naturalmente durante gli spettacoli non scorre sangue poiché gli opponenti badano all’incolumità altrui…” Questo, credo, sia un esempio lampante di come ci si riesca a dissociare dal fatto in sé, che invece costituiva massacro, crudeltà e indifferenza per la vita umana, per coglierne esclusivamente la parte storico-culturale. Nel prossimo capitolo, cercherò di individuare da cosa nasce questa forma di dissociazione dall’evento come tale, che consente di coglierne solo la parte appagante. 124 Conclusioni “ Studiare ed interpretare la storia, cosa può suggerire per migliorare il futuro?” In quest’ultimo capitolo, traggo le conclusioni di quanto si è palesato alla mia comprensione. Sono riuscito, per intanto ad individuare due elementi fondamentali. Bisogna discernere tra la componente antropologica, che porta la società e le diverse culture ad utilizzare i combattimenti fra animali come mezzo di comunicazione sociale, e la componente della personalità deviata a causa di una patologia della psiche, che trova godimento nel creare ed osservare crudeltà sugli animali. Ho, nella parte centrale della tesi, accennato ai problemi di personalità che possono intervenire nelle persone che mostrano particolare crudeltà verso gli animali. Al fatto che le frustrazioni ed umiliazioni, accumulate nell’età evolutiva, collegate ad una forma grave di personalità deviata, come per esempio il “Sé grandioso patologico”, a sua volta, frutto di uno sviluppo incompleto della personalità (oppure, secondo Kernberg, dello sviluppo di una personalità già patologia all’origine), possono generare dei veri mostri. Moltissimi sono gli studi contemporanei che si riferiscono alla educazione e crescita del bambino in relazione all’emergere delle diverse personalità patologiche. Troviamo uno studio approfondito sui sintomi nei bambini che danno indicazione di una futura predisposizione alla violenza, nel capitolo della “gestione nel dipartimento d’emergenza del paziente che ha subito violenza 125 fisica e/o psicologica”, nel libro di PALERMO G. B., PALERMO M. T., VILLANOVA M., intitolato “Psichiatria d'emergenza” Edizioni Essebiemme Noceto (Pr), 2001. Credo che sia giusto collocare le origini di certi fenomeni particolarmente cruenti, riferendomi appunto anche quelli nei confronti degli animali, nel medesimo contesto patologico degli altri criminali violenti. Non a caso, è emerso che il fenomeno dei combattimenti tra cani è particolarmente diffuso negli ambienti criminali e nelle organizzazioni delinquenziali di notevole spietatezza. Per cui, se consideriamo l’attitudine a cimentarsi in queste competizioni, che prevedono sevizie ed infine la morte degli animali, frutto di una personalità patologica, una eventuale forma di prevenzione si inserisce in un contesto particolarmente ampio e complesso, che trova una collocazione al di fuori dalla competenza di questa tesi, e più precisamente clinica. Per quanto, invece, riguarda l’aspetto interviene nel rapporto uomo – animale antropologico, che e che abbiamo visto mutare nei tempi e con le culture, ritengo possibile proporre una riflessione che può tornare utile alla comprensione del fenomeno, portando anche ad ipotizzare delle forme di prevenzione. Prevenzione intesa come incremento di una predisposizione diversa nel rapportarsi con gli animali. Queste riflessioni scaturiscono da una lettura complessiva e dalla concatenazione degli elementi emersi, durante l’elaborazione di questa tesi. Gli studi etologici ci hanno insegnato che l’aggressività è anche il motore primo che conduce a vincoli più intimi tra gli esseri. L’Amicizia e l’affetto traggono la loro origine da forme di 126 aggressività ridiretta e ritualizzata. La ritualizzazione degli atteggiamenti aggressivi diviene così forma di comunicazione. Come già descritto precedentemente, Lorenz spiega come la cerimonia di pacificazione nelle anatine, chiamata da Heinroth “Giubilo Trionfale”, non sia altro che un attacco inibito, successivamente Questo ritualizzato. atteggiamento viene perpetuato proprio al fine di creare un rapporto stabile con la compagna. In alcune specie di oche cenerine, la cerimonia del “giubilo trionfale”, non riguarda solo le coppie ma diviene un vincolo che tiene unito tutto il gruppo. Lorenz suppone che la risata dell’uomo, nella sua forma originaria, fosse una sorta di pacificazione nel saluto. Il sorriso di saluto, come la cerimonia di pacificazione nel giubilo trionfale, trova diverse analogie nella ritualizzazione di una minaccia ridiretta. Infatti, deridere chi viene escluso dal proprio gruppo diviene una forma di aggressività, mentre il sorriso di saluto è una forma di comunicazione che avvicina e crea un vincolo. Ho voluto tornare su questo argomento perché ritengo che la comunicazione sia fondamentale per creare un vincolo affettivo anche tra uomo e animale. È proprio il maggiore considerazione dell’altro, per vincolo che crea una cui una maggiore condivisione della sofferenza. Vediamo, allora, che senza comunicazione non è possibile il crearsi d’un vincolo affettivo e senza il vincolo non può sorgere considerazione e condivisione. Secondo la percezione collettiva di noi occidentali, la crudeltà verso un cane suscita maggiore sgomento della crudeltà verso un pollo. Allo stesso modo, ci si scandalizza più per un maltrattamento verso un coniglio che non verso un topo. 127 James Serpell, nel suo libro “in the company of animals”, inizia il primo capitolo, che parla delle origini nell’addomesticazione degli animali, con una citazione di George Orwell: “All animals are equal, but some animals are more equal than others” (Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri), tratta dal libro “The Animal Farm”. Mentre Orwell, nel suo libro, fa una traslazione dei comportamenti della società umana sugli animali, Serpell lo intende invece come differenza percepita ed attuata dagli uomini verso gli animali. Fatto che nasce da un rapporto diversificato in termini quantitativi e qualitativi, tra l’uomo e le diverse specie. Per comprendere meglio alcune differenze evidenti, mi sono posto le seguenti domande. Che tipo di sgomento può creare l’uccisione di una mosca o di una formica? Perché lo sport della pesca non è biasimato come quello della caccia? Questi sono alcuni degli interrogativi che mi sono posto, e la risposta che si è palesata alla mia evidenza si concretizza nella differenza che vige nei rapporti tra l’uomo e i diversi animali. Sia nel singolo, che a livello collettivo, il rapporto uomo-cane è diverso dal rapporto uomo-topo o uomo- pesce. Questa diversità di rapporto, dunque, da cosa nasce? È evidente che sono la naturale conseguenza dei diversi livelli di comunicazione che intercorrono tra l’uomo e le rispettive specie di animali. Con i cani riusciamo a comunicare, riusciamo a comprenderli e ad individuare il senso dei loro gesti e della loro mimica. Intuiamo il loro stato d’animo, condividendo così la loro sofferenza. Altrettanto non avviene, ahimè, con il pesciolino rosso del nostro acquario. 128 Esiste un centro studi, in America, che conferma l’esistenza di questa differenziazione nel rapportarsi con le specie diverse, operando delle classificazione. Il centro per l'interazione degli animali e della società (CIAS) è un centro di ricerca pluri-disciplinare, all'interno della scuola di medicina veterinaria all'università de Pensylvania. L’obiettivo del CIAS è di promuovere la comprensione delle interazioni e dei rapporti “uomo-animale”, attraverso una vasta gamma di contesti, che comprendono gli animali da compagnia, gli animali da fattoria, gli animali da laboratorio, gli animali del giardino zoologico e gli animali selvatici. Anche nel citato libro di Serpell si affronta la contrapposizione tra l’amore verso alcuni animali e lo sfruttamento di altri, attribuendolo sempre all’istaurarsi di rapporti interspecifici differenziati, dovuti ai diversi livelli di comunicazione. Questa differenza, dovuta ai differenti livelli di comunicazione, emerge anche nei rapporti individuali con animali appartenenti alla stessa specie. Il coniglietto che teniamo in casa, con il quale si instaura comunque una forma di comunicazione, se anche limitata a sguardi, carezze e gesti finalizzati alla nutrizione, avrà senz’altro un’altra considerazione rispetto a quello portato in tavola al ristorante. La differenza non nasce dal semplice fatto di convivenza, perché conviviamo anche con ragni, mosche, topi di campagna, animali da cortile e d’allevamento, con i quali non si instaura lo stesso legame affettivo, proprio a causa dell’assenza di una attività comunicativa interspecifica. 129 Quando ci troviamo di fronte all’assenza di comunicazione (interscambio di messaggi), non comprendendo l’altro, esso viene tenuto a distanza, impedendo un rapporto affettivo. Come suggerito da Serpell, questa forma di comunicazione tra uomo e animale la troviamo a diversi livelli, sia per qualità che per quantità. Esiste una differenza nel rapporto comunicativo tra un animale di una specie con cui si condivide lo spazio di vita (convivenza) ed un altro della stessa specie allo stato selvatico. Troviamo una capacità intercomunicativa diversa tra specie diverse, come esiste anche una evoluzione nel tempo della capacità comunicativa tra l’animale e l’uomo. Alludo, per esempio, all’evoluzione che c’è stata nel rapporto uomo-cane. Anna Morandi, in un articolo pubblicato su “CiaoPet”, scrive: “ È noto a tutti come agli albori dell’amicizia uomo-cane ci siano fattori documentati dalle testimonianze fossili Il canide si avvicina agli agglomerati umani alla ricerca di cibo e non è chiaro se fu l’uomo ad accudire i cuccioli meno aggressivi, oppure i canidi stessi adottarono il proprio “padrone” con la loro tenace vicinanza. Certo è che la vicinanza all'uomo avvenne con il ruolo di spazzino dei rifiuti umani da parte del lupo-canide. Da quell’inizio, forse poco poetico, del resto comune alla storia della domesticazione degli animali vicini all’uomo, si intrecciano infiniti legami che portano il cane a condurre, come scrive il biologo James Serpell, “un’esistenza precaria in quella terra di nessuno che sta fra l’umano e il non umano… né persona né bestia”. Il cane è dunque divenuto questo, un compagno cui l’uomo attribuisce infinite comunanze di sentire e di manifestare.” 130 Nel testo di Zooantropologia di TONUTTI e MARCHESINI (1999), sul rapporto uomo- animale nella prospettiva antropologica, emerge come ci sia stata una evoluzione negli anni di questo rapporto. L’evoluzione è evidentemente strettamente legata al crescente uso che l’uomo ha fatto degli animali, e all’incremento comunicativo consequenziale. Per fare un esempio, prima gli sciacalli venivano scacciati in quanto si aveva timore nei loro confronti. Dopo vennero tollerati fino ad essere graditi, in quanto costituivano un campanello d’allarme per eventuali pericoli. Successivamente vennero usati per collaborare nella caccia. Divennero cani da guardia e infine hanno assunto lo status di compagno di vita, sostituendo, in casi estremi, la presenza di un partner o di un figlio. È evidente come il rapporto e quindi la considerazione da parte dell’uomo per questo animale sia cambiata e come questo sia cresciuta proporzionalmente alla capacità comunicativa tra l’uomo e l’animale. Troviamo un esempio, del mutare dei rapporti uomo-cane, nell’articolo di Barbara Gallicchio, pubblicato sul sito dell’Associazione di Studi Etologioci e Tutela della Relazione con gli Animali (ASETRA), dove parla dei “Pastori Chiribaya”, una razza di cani preincaici. Gli scavi archeologici in alcune valli nel sud del Perù, nell’ambito degli studi sulla popolazione di etnia Chiribaya, hanno permesso di ritrovare un’ottantina di cani, risalenti al periodo a cavallo dell’anno 1.000 d.c., sepolti nei cimiteri umani, in tombe proprie, mummificati dal clima secco e desertico. L’antropologa Sonia Guillen, Direttore del Centro Mallqui - Fondazione Bioantropologica del Perù, ha studiato il peculiare rapporto che si era creato fra i 131 Chiribaya e i loro cani. Si tratta di un fatto unico nell’America preColombiana, che questi animali non venissero sacrificati, ma ritrovati nelle tombe, avvolti in copertine lavorate e accompagnati nel viaggio ultraterreno da cibo e regali. Secondo Guillen, i cani si erano guadagnati rispetto e affetto, servendo come abili pastori per la conduzione dei lama, fonte di sostentamento per quelle piccole comunità. Ancora oggi vivono cani dello stesso tipo in quelle regioni, che sembrerebbero essere discendenti di questa antica razza autoctona del Perù. È interessante notare che i cani vissuti in quell’epoca, nel resto dell’America del Centro-Sud, non abbiano goduto affatto di simili attenzioni. Per oltre duemila anni, i cani dei villaggi sono stati considerati primariamente come fonte di un pasto proteico. Studi sull’alimentazione di queste popolazioni dimostrano che almeno il 10% delle proteine proveniva da cani e, presumibilmente, erano allevati a tale scopo. Un’altra funzione era quella religiosa, che ne prevedeva il sacrificio in molte occasioni. La giornalista Gallicchio termina il suo articolo, che ho qui brevemente riassunto, con una frase importante che voglio citare per intero: “ Alla luce di tali conoscenze antropologiche, le scoperte sui Chiribaya e le testimonianze della nascita di una relazione intima interspecifica nello stesso periodo storico, sono ancora più affascinanti.” Ritengo che questa affermazione calzi perfettamente riguardo la teoria dell’incremento della capacità comunicativa interspecifica ed il vincolo d’intimità che attraverso essa accresce. Per avere, quel popolo, compreso che questi cani fossero idonei a quel tipo di lavoro, dovevano averli osservati e compreso le loro 132 manifestazioni e attitudini, socializzando con loro ed istruendoli. Questo incremento comunicativo e di reciproca comprensione ha solidificato il vincolo tra loro che, a sua volta, ha innalzato la stima e considerazione dei Chiribaya verso questo animale, al punto da riservargli le onorificenze funebri su descritte. Come ho inizialmente accennato, un’altra differenza di livello comunicativo, emerge nei rapporti con animali di specie diversa. È più facile comprendere le espressioni ed i gesti di un cane o di un gatto, che non quelli di una gallina o addirittura di un pesce. Basti che ognuno di noi faccia una breve e semplice introspezione per accorgersi che, nella lettura di uno sguardo o di un gesto del nostro animale domestico, rileviamo dei sentimenti umani che proiettiamo nell’animali, percependoli come suoi. Una tipica affermazione nel lasciare il cane in casa è: “è triste perché usciamo senza di lui”. La stessa affermazione, invece, non viene spontanea nei confronti del canarino che saltella nella sua gabbia. Questa incapacità di comprendere le informazioni che possono trasmette il comportamento del canarino, ci da la sensazione che non provi sentimenti simili a quelli che ci sembra di riconoscere nel cane. Ma indipendentemente dal fatto che l’uccello provi o meno emozioni simili a quelli che scorgiamo nel cane, ovviamente dipendenti esclusivamente dallo sviluppo evolutivo di quella razza di uccelli, poco o nulla importa, in quanto è quello che percepiamo ciò che determina di fatto il nostro rapporto con lui. A questo proposito voglio portare una mia esperienza personale. Ero un ragazzino e vivevo con i miei in Germania. I nostri ritmi di vita e alcune considerazioni di mio padre non mi consentivano di placare il mio desiderio di avere un cane. Così mi sono dovuto consolare con un pappagallino di una razza chiamata 133 “Calopsitte”; si contraddistingue per la cresta gialla, due macchie circolari di colore arancione sulle guance, ed è poco più grande del più conosciuto Cocorita. Lo tenevo in una gabbia nella mia stanza, ma quando ero in casa la porticina era sempre aperta ed era libero di svolazzare in giro. Ricordo che mi faceva compagnia quando facevo i compiti, girando per la scrivania e sottraendomi le penne. Quando mi sentiva rientrare da scuola gracchiava a squarciagola. Capitò che partii per una gita scolastica di una decina di giorni, raccomandando a mia madre di farlo uscire dalla gabbia, di tanto in tanto. Quando tornai dalla gita, non appena varcai la porta di casa, sentii il solito gracchio di saluto del mio pappagallino, ma esternato in modo esagerato. Mia madre mi riferì che era la prima volta che si fosse fatto sentire dal giorno della mia partenza e che non era più uscito dalla sua gabbia, con tutto che la porticina fosse rimasta sempre aperta. Ovviamente, quando morì ne soffrii tantissimo, mentre invece la morte di uno dei tanti uccelli di varia specie e razza, che mio padre teneva nelle sue voliere in giardino, non mi hanno mai toccato più di tanto. Credo che anche qui emerga come il rapporto si sia consolidato attraverso una forma di comunicazione interspecifica, in questo caso appunto con un uccello. Per parlare di animali ancora meno “capiti”, negli interrogativi che mi sono posto poco prima, ho accennato alla scarsa considerazione che abbiamo per gli insetti, con cui condividiamo quotidianamente lo spazio di vita. La mancanza di capacità comunicativa interspecifica non ci consente di percepire in loro delle emozioni. Deducendo, quindi, che non ne abbiano, non vi è nulla da condividere. Recenti studi di neuroscienza, valutati con le cautele del caso, sembrano invece dimostrare il contrario. 134 In un articolo di Isabella Lattes Coifmann, pubblicato sul sito oltrelaspecie.org, si legge che dei ricercatori americani sono riusciti a fare l’elettroencefalogramma al moscerino, scoprendo che è capace di attenzione e che ha reazioni emotive e memoria. Negli ultimi decenni, sulla psiche degli animali sono caduti molti tabù, anche nel caso degli insetti, ritenuti tradizionalmente poco più che “automi naturali”. Per esempio Howard Nash, del National Institutes of Health di Bethesda nel Maryland, che si occupa di anestesia, studiando i moscerini della frutta, ha fatto tesoro del metodo di indagine sulla psiche di questi piccoli insetti, messo a punto recentemente da altri due ricercatori, Ralph Greenspan e Bruno van Swinderen. Questi studiosi, lavorando al Neurosciences Institute di San Diego in California, Scientist», di essere hanno pubblicato nella rivista «New riusciti a fare l’elettroencefalogramma a un moscerino della frutta, con l’aiuto di un micromanipolatore, piazzato su un minuscolo elettrodo nel cervello di uno di questi insetti, proprio nel punto in cui arrivano le informazioni sensoriali e si attiva la memoria. L’elettrodo utilizzato era grande quasi come la testa del moscerino, ma l’EEG funzionava e dava un tracciato incredibilmente simile a quello degli animali superiori, e dell’uomo. È stato rilevato, ad esempio, lo stato di sonno. Ma i ricercatori si sono spinti oltre. Essi hanno messo l’insetto in uno schermo a cristalli liquidi di forma cilindrica, entro il quale ruotava una striscia di luce verde. Ogni volta che la vedeva, l’insetto era attratto dalla striscia luminosa, e il suo cervello emetteva particolari onde comprese fra i 20 e i 30 hertz, che gli studiosi, per non parlare di vera e propria coscienza, definiscono “segnale di rilevanza”. Il segnale si attenuava via via che l’insetto si abituava alla presenza della luce, ma tornava forte se si mostrava alla mosca una seconda striscia 135 luminosa insieme con la prima. Inoltre, se al segnale veniva associato un evento sgradito, per esempio l’esposizione al calore, l’attenzione ritornava. Del resto già si sapeva che i moscerini della frutta imparano come il cane di Pavlov. Amano l’odore delle pesche, ma se all’odore viene associato uno stimolo doloroso imparano a stare alla larga dalle pesche. La tecnica di Greenspan e van Swinderen ha però il pregio di “leggere” direttamente nel cervello, senza doversi affidare all’interpretazione dei comportamenti, che potrebbe risultare ambigua. Si è visto così che nelle situazioni di attenzione i segnali raccolti da tre diverse regioni cerebrali, che normalmente sono diversi fra loro, diventano perfettamente sincroni, proprio come avviene nel cervello umano quando si instaura l’attenzione. Infatti, la scienza ha dimostrato come la coscienza, diversamente da altre funzioni, non ha una localizzazione definita nella massa cerebrale ma consista nella connessione fra regioni diverse, anche lontane. I ricercatori, nonostante abbiano trovato molte altre analogie con il funzionamenti dei cervelli di specie più evolute, si guardano bene a non antropomorfizzare il risultato delle loro indagini, ed evitano il termine coscienza nella sua accezione più completa. Non parlano di flusso di coscienza, ma di flusso di attenzione. Le somiglianze sono però inquietanti, se si pensa che il cervello di una mosca della frutta contiene 250.000 neuroni, contro i 100 miliardi dell’uomo. È prematuro dire se, per esempio, offrendo due stimoli diversi e vedendo quale scelgono, si possa intuire una scelta consapevole, o se la mosca è in grado di imparare. Dei ricercatori sono riusciti, però, ad insegnare alle api a scegliere i percorsi giusti, marcandoli con odori o colori. Le api sembrano capaci di apprendere i concetti di uguale e diverso. Nel caso del moscerino, 136 grazie alla rapidità con cui le generazioni si susseguono, gli scienziati sperano di poter identificare i geni coinvolti nelle funzioni cerebrali quali l’apprendimento e la memoria. Queste ricerche ci dimostrano che la differenza nei rapporti interspecifici non dipendono affatto dall’effettiva capacità del singolo essere di produrre emozioni, ma esclusivamente dalla reciproca capacità di decodificarli. Altri fatti che dimostrano come cambi il rapporto uomo-animale, attraverso una migliore conoscenza, l’uno dell’altro, si verificano nelle realtà domestiche semi agresti. Ai bordi delle città troviamo spesso dei nuclei familiari che, avendo a disposizione un po’ di terreno, limitrofo alle loro abitazioni, condividono lo spazio di vita con una serie di animali domestici (cani e gatti), ma anche animali da cortile e qualche esemplare d’allevamento, come ovini, suini e bovini. Gli adulti, provenendo spesso da famiglie agricole, allevano puntualmente qualche agnello o vitello per la macellazione, come era uso e costume nella loro infanzia. Capita di sovente che i loro figli, invece, crescano instaurando un rapporto diverso con questi “cuccioli”, giocandoci, nutrendoli e portandoli a spasso. Questo porta solitamente al fatto che si oppongono fermamente macellazione del loro compagno di gioco, o alla che si rifiutano di mangiarlo, se non sono riusciti ad evitare il tragico epilogo. Altre volte porta al rifiuto permanente di mangiare carne di quella specie di animale, mentre invece continuano a mangiare carni di altro genere. In casi estremi, esperienze di questo genere possono anche portare a diventare vegetariani. 137 Troviamo anche qui una dimostrazione di come la comunicazione interspecifica crei un vincolo affettivo, che fa mutare la considerazione verso un essere vivente di tutt’altra specie. Abbiamo visto, anche attraverso questi esempi, che i livelli di comunicazione possono essere diversi e spaziano da una forma di tipo individuale a delle forme collettive, generalizzate. Intendo, per esempio, la considerazione che i cani si sono guadagnati in noi occidentali in senso generale, il posto apicale che questo animale, secondo una scala dei valori “zoologica”, si è conquistato nella coscienza collettiva di noi occidentali. Oggi non necessita possedere un cane per scandalizzarsi di maltrattamenti nei suoi confronti. Basti pensare che siamo giunti a cercare ogni tipo di soluzione per evitare l’abbattimento sin’anche dei cani risultati accertatamente pericolosi. Infatti, sono nati i primi centri di recupero per i cani particolarmente aggressivi e pericolosi, come si legge in un dispaccio dell’ENPA di Trieste che parla della “Missione Salvataggio Argo”. Argo è uno Sarplaninac (cane pastore dei Balcani di taglia grande), divenuto inavvicinabile e salvato dalla soppressione attraverso l’inoltro in un centro specializzato nella riabilitazione psicologica dei cani da combattimento, che si trova in Piemonte. Che nella società si instauri un determinato sentimento collettivo di solidarietà, più verso determinati animali che non verso altri, emerge anche dagli interventi dei mass media e dalle associazioni animaliste, che danno maggior risalto ed intervengono più incisivamente per alcuni fatti, coinvolgenti determinati animali, che non per altri. 138 Il sentimento, o la considerazione collettiva, è soggetta allo stadio di evoluzione nel rapporto uomo-cane, che da noi ha raggiunto un determinato livello, mentre nell’Asia centrale il cane viene tuttora usato come animale-gladiatore; allo stesso tempo, in alcune regioni dell’oriente, esso è ancora considerato cibo. Emerge che, con l’evoluzione delle culture, evolve anche il rapporto uomo – animale in generale e che il tutto passa attraverso una migliore reciproca conoscenza e comprensione, che a sua volta è frutto di una maggiore capacità comunicativa interspecifica. Questa teoria trova sostegno nell’interpretazioni che l’antropologo Roberto Marchesini da nel suo libro “Il postumanesimo” [2002], riguardo la necessità di una revisione nella considerazione del rapporto uomo-animale. Marchesini sostiene la teoria della zoomimesi, che considera una vera e propria rivoluzione in grado di modificare, attraverso il confronto e l’ibridazione, i nostri apparati percettivi, operativi e cognitivi. Secondo Marchesini, gli elementi della zoomimesi sono a) il confronto: mettere in rapporto le proprie prestazioni con quelle dell'alterità animale; b) il dialogo: cercare forme di complementarità fra le proprie performance e quelle dell'alterità animale; c) la partnership: costruire sinergie tra il proprio repertorio performativo e quello dell'alterità animale. Marchesini riporta anche la tesi del già citato James Serpell, secondo il quale la zootropia si spiega in virtù del fatto che «l'uomo risponde ai segnali giovanili della propria specie attraverso un comportamento di cure parentali; se altre specie presentano gli stessi o analoghi stimoli chiave, ecco che nasce un comportamento leggibile come zootropia». Da qui il termine di “adozione transpecifica” che, pur 139 presente anche presso altre specie, raggiunge nella specie umana la sua massima espressione. Marchesini, pur esprimendo un concetto di maggiore ampiezza con un approccio di tipo filosofico, emerge con chiarezza che ciò che fa mutare il rapporto uomo-animale è il dialogo e la comunicazione interspecifica in senso più esteso. Mi permetto, a questo punto, di azzardare una ipotesi utile ad incrementare interspecifica e l’evoluzione a migliorare nella capacità comunicativa le prospettive per un futuro più rispettoso nei confronti degli animali. L’essere umano impara dal giorno della nascita a dover comunicare e sappiamo che l’apprendimento è fondamentale per l’evoluzione di qualsiasi specie. Noi evidentemente lo riteniamo importantissimo per la nostra, iniziando con la formazione dagli asilinido per giungere, attraverso scuola e università, fino ai master, al fine di migliorarci ulteriormente. Purtroppo questo concetto sembrerebbe avere delle finalità espressamente egocentriche, volte all’accrescimento di noi stessi come individui e non nel rapporto con gli altri. Tanto meno esiste una vera consapevolezza di poter, o dover, crescere anche nei rapporti interspecifici. Oggi, molto si parla della Pet Teraphy, che è basata sempre sul contatto con gli animali e quindi su una forma di comunicazione. Ma il concetto di base è sempre quello di trarne un’utilità per l’uomo e non quello di capire l’animale, interagendo nell’interesse di ambedue. Forse potrebbe essere utile inserire, già nei primi anni di scuola, l’insegnamento del comportamento animale, incentivando contatti diretti con specie diverse del mondo animale. La 140 comprensione dei comportamenti negli animali diminuisce le paure e aumenta la capacità comunicativa, che a sua volta, incrementa la considerazione nei confronti di quegli esseri, prima estranei. L’inserimento di un approccio didattico di tipo etologico, tornerebbe utile, in modo particolare, nelle culture meno o diversamente evolute. Magari, questa mia ipotesi lambisce solo minimamente la complessità del problema, ma sarebbe sufficiente se potesse costituire un utile spunto di riflessione. Uno momento di riflessione come quello che mi ha suscitato la lettura della frase con cui voglio chiudere questa tesi, usando le parole dell’Animalista Franco Libero Manco: “[…] è tempo di superare la mentalità antropocentrica che inclina gli uomini alla logica della sopraffazione del più debole. È tempo di superare la distinzione tra sofferenza e sofferenza, tra vita e vita. L’innocenza di un animale, la sua lealtà, la sua semplicità, la sua mitezza, il suo spontaneo fuggire da ogni violenza gratuita, sono mete ancora da raggiungere dalla maggior parte degli uomini” . 141 BIBLIOGRAFIA ALBERT , D.J., WALSH M.L. e JONIK R.H., Agression in humans: What is its biological foudation?, in << Neuroscience and Biobihavioral Reviews>>, 17 , 405-425 , 1993; ANDREOLI, V. , Capire il dolore, pag. 210-211, Milano, 2003; ASH E.G. 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L’operazione ha riguardato le province di Reggio Calabria, Catanzaro, Napoli, Padova, Ascoli Piceno e Macerata. Per la prima volta in Italia sono stati applicati gli articoli della nuova legge 27 luglio 2004 n. 189 relativi ai combattimenti clandestini. L’operazione, denominata “Fox”, è nata quando, nel corso delle indagini coordinate dalla DDA reggina ed iniziate dai Carabinieri della Compagnia di Taurianova nel luglio 2002 per la cattura di un latitante, Ernesto Fazzalari di Taurianova , venne scoperto un covo “protetto” da un pit bull. La circostanza non sfuggì ai militari dell’Arma, i quali iniziarono apposite intercettazioni. Nel corso di tale attività, oltre a sequestrare armi e droga, i Carabinieri hanno scoperto un’attività clandestina diretta all’allevamento di cani da combattimento ed un giro di compravendite e scommesse. “Non abbiamo elementi per dire che ci sia di mezzo la ‘ndrangheta, anche se nell’operazione 149 troviamo qualche personaggio collaterale alla criminalità organizzata”, ha detto il procuratore Antonino Catanese nel corso di una conferenza stampa. Il fatto preoccupante, secondo il magistrato, è che nella vicenda non sono coinvolte singole persone, ma un’organizzazione “Pertanto sembra strano che la ‘ndrangheta sia assente, perché appare improbabile che un sodalizio di questo tipo possa organizzare simili cose senza perlomeno una ‘autorizzazione’ della criminalità organizzata locale”. Le indagini si sono estese coinvolgendo anche personaggi residenti in altre regioni, con collegamenti con allevatori-allenatori presenti nel territorio della ex Jugoslavia, in Serbia, Croazia e Bosnia. Nel corso delle intercettazioni, gli investigatori hanno accertato che gli indagati comunicavano tra loro tramite posta elettronica. È stato così deciso di sottoporre a controllo alcuni indirizzi e monitorare siti web specializzati. In questo modo i Carabinieri hanno individuato due siti internet dedicati all’ organizzazione dei combattimenti tra cani tra cui il «Kalabra Kennel’s Zika 2 W (Western Europe)». In particolare, i criminali curavano una rivista online denominata “Action” interamente dedicata agli incontri, alle scommesse ad agli acquisti degli animali impiegati nei combattimenti, di cui era redattore uno degli arrestati. A determinare il prezzo degli animali erano parametri quali il curriculum, la discendenza, l’allenatore oltre all’età ed alle caratteristiche fisiche. Le prestazioni degli animali venivano garantite per mezzo di duri allenamenti, un’alimentazione severa e la somministrazione di sostanze dopanti e anabolizzanti, come il desametasone e il nandrolone sotto forma di Decadurabulin. L’obiettivo era quello di irrobustire i malcapitati animali e di aumentarne il peso. I cani venivano sottoposti a vere e proprie torture con l’impiego di macchinari che facevano aumentare le prestazioni “atletiche”. E proprio dalla “campagna acquisti” degli animali derivava un’altra fonte di reddito per l’organizzazione. I cani, infatti, dopo essere stati acquistati e sottoposti ad atroci allenamenti venivano utilizzati in combattimenti combinati, al solo scopo di dimostrarne le qualità e fare 150 aumentare il prezzo di vendita. I Carabinieri hanno accertato lo svolgimento di vari combattimenti tra i quali il “Montana show”, svoltosi in Bosnia il 30 ottobre 2004, dove si sono disputati sette incontri tra vari animali. A conclusione delle indagini, il Gip di Reggio Calabria, Kate Cassone, su richiesta del pm, Giuseppe Bianco, ha emesso 13 ordinanze di custodia cautelare e quattro decreti di sequestro di altrettanti canili: uno a Gioia Tauro, con sei animali, di cui tre staffordshire, uno al rione Cep di Reggio con quattro pit bull, un altro a Civitanova Marche con cinque pit bull, uno a Porto San Giorgio con undici pit bull ed uno a Taurianova, che non aveva cani. Inoltre sono state sequestrate riviste, videocassette, appunti e computer contenenti importanti elementi di prova. “Sono immagini di inaudita crudeltà nei confronti degli animali, capaci di destare un sentimento di profondo raccapriccio. Così i cani prendevano parte ad un vero e proprio campionato”, ha avuto modo di dire nel corso della conferenza stampa il dott. Giuseppe Bianco, che ha coordinato le indagini. Alcune delle persone arrestate, in particolare quelle residenti nel Napoletano e nelle Marche, erano già note all’Osservatorio Nazionale Zoomafia della LAV, che nei mesi precedenti l’operazione ha inviato agli organi investigativi una dettagliata relazione su questi personaggi. Le tredici persone arrestate dai Carabinieri sono: Bruno Corica, di 41 anni; Salvatore Alessi, 26 anni, entrambi di Taurianova; Aniello Parlato, 30 anni, Sant’Antonio Abate (Napoli); Damiano Boccardo, 27 anni, Porto S. Giorgio (Ascoli Piceno); Marcellino Esposito, 30 anni, Marigliano (Napoli); Gennaro Langella, 29 anni, Somma Vesuviana (Napoli);Teodoro Mazzaferro, 29 anni,Gioia Tauro; Felice De Sena, 26 anni, Brusciano (Napoli); Mario Lo Sapio, 37 anni, S. Giuseppe Vesuviano (Napoli); Aniello Petito, 27 anni, Padova; Luca Sorrentino, 36 anni, Napoli; Giuseppe Ambrogio, 26 anni, Reggio Calabria; Luigi Orsili, 27 anni, Civitanova Marche (Macerata). Costoro hanno il primato di essere le prime persone a finire in galera nel nostro Paese, almeno dall’Unità d’Italia a questa parte, per aver commesso un reato contro gli animali. Un primato che 151 certamente non fa loro onore. Per noi, invece, il loro arresto ha rappresentato una svolta, un mutamento radicale della politica criminale nei riguardi della cinomachia, in poche parole, un evento storico. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Nazionale Zoomafia della LAV dati su scala nazionale che non hanno la presunzione di essere esaustivi e che possono essere imprecisi per difetto – negli ultimi due anni, 2004-2005, sono state denunciate di 16 persone (di cui 13 arrestate) per organizzazione di combattimenti tra animali o allevamento- addestramento di animali ai combattimenti. Difficile fare un raffronto, sotto il profilo penale, con gli anni precedenti, poiché nel frattempo c’è stata l’approvazione della legge 189/04 che ha individuato nuove e precise fattispecie delittuose. Com’è noto, la vecchia normativa sul maltrattamento degli animali contemplava un’unica contravvenzione per tutte le varie forme di maltrattamento, incluse quelle connesse alla cinomachia, ora invece abbiamo più casi puniti in modo diverso. Tanto per fare un esempio, grazie alla nuova normativa abbiamo avuto per la prima volta la contestazione del reato di associazione per delinquere finalizzata all’organizzazione dei combattimenti tra cani con l’emissione di 13 ordinanze di custodia cautelare; reato e provvedimenti che con la normativa previgente non potevano essere contestati e adottati, di conseguenza non è possibile fare nessun raffronto con gli anni precedenti. 152 TRATTO DA : “ COMBATTIMENTI TRA ANIMALI - Manuale tecnico-giuridico per un’azione di contrasto” Doping, farmaci e maltrattamento Altro aspetto particolarmente deleterio è quello relativo al trattamento dei cani combattenti con sostanze dopanti. È largamente accertato che tali animali sono trattati con anabolizzanti, anfetaminici e vari cocktail chimici. La legge 189/04, nel formulare l’articolo 544-ter c.p., ha espressamente previsto una pena per “chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi”. Può sembrare strano ma, prima di questa formulazione, dopare gli animali non era previsto dalla legge come reato e ci poteva essere censura penale solo se se la sostanza inoculata o la modalità di somministrazione producevano dolore. Riteniamo che tra le sostanze “vietate” si debbano annoverare anche quelle capaci di provocare modificazioni più o meno temporanee e dannose all’equilibrio psicofisico, oppure notevoli alterazioni psicofisiche e dipendenza, o siano idonee a compromettere l’equilibrio neurovegetativo (come nel caso di alcune sostanze atte a tenere l’animale in uno stato di continua eccitazione ed esaltazione fisica) o, ancora, siano stimolanti del sistema nervoso centrale (anfetamina). Lo stesso riteniamo valga per quei composti atti alla riduzione o soppressione della sensibilità al dolore o capaci di accrescere le energie psicofisiche e, quindi, il rendimento nell’organismo l’insieme “agonistico” dei processi o, ancora, costruttivi che che favoriscono portano alla formazione di nuovi tessuti e massa muscolare. La configurazione del reato è palese se si tiene conto dell’evoluzione giurisprudenziale in materia, che censura quelle condotte umane oggettivamente idonee a determinare ingiustificati patimenti negli animali.Va da sé che “drogare” un cane e provocargli così una condizione di complessivo disagio, 153 ancorché momentaneo, dovuto all’alterazione della sua integrità e identità psico-fisica, è un comportamento che non rispetta “le leggi naturali e biologiche, fisiche e psichiche, di cui ogni animale, nella sua specificità, è portatore” (Cass. pen., Sez. III, Sent. n°. 06122 del 27/04/90). Questo vale ancora di più se si considerano gli effetti collaterali di alcuni prodotti farmaceutici e/o dopanti. Ad esempio, è noto che l’anfetamina produce come effetto collaterale insonnia, ansia, ipereccitabilità, tremori ecc., effetti che non possono essere ricondotti alla categoria del “dolore” ma che indubbiamente rappresentano uno stato di patimento e di sofferenza per l’animale sottoposto a tale (mal)trattamento. Bisogna tener presente altri aspetti: la somministrazione illegale di tali sostanze è sempre finalizzata alla partecipazione ai combattimenti clandestini. Dopare i cani in determinati contesti funge da attività prodromica dei combattimenti al pari dell’addestramento e dell’allevamento e ciò può aprire nuovi scenari penali. In pratica, il doping potrebbe rientrare nelle attività di addestramento e si potrebbe avere così il concorso del reato di maltrattamento di animali con quello di addestramento di cani ai combattimenti. 12.1 Doping Si definisce “doping” (dall’inglese To dope = drogare), l’utilizzo di qualsiasi intervento esogeno (farmacologico, endocrinologico, ematologico, ecc) o manipolazione clinica che, in assenza di precise indicazioni terapeutiche, sia finalizzato al miglioramento delle prestazioni, al di fuori degli adattamenti indotti dall’allenamento. Il doping, in pratica, è la somministrazione ad atleti (o ad animali da competizione) di sostanze eccitanti o anabolizzanti in grado di accrescerne in modo sleale le prestazioni psicofisiche. Il concetto di modificazione si applica alla condizione tanto fisica che psichica. I danni organici dovuti al doping sono diagnosticabili solamente a posteriori e ricadono, ovviamente, in ambito penale. La Legge 14/12/2000 n°. 376, 154 “Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta al doping”, prevede divieti e sanzioni per uso e traffico di sostanze dopanti in ambito agonistico. Secondo la Legge 376/00,“Costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti”. Le modificazioni a cui fa riferimento la legge non sono soltanto di tipo fisico ma anche di tipo psichico. Nel caso dei cani combattenti vi è, infatti, una ricerca non solo di sostanze in grado di aumentare la resistenza allo sforzo e la potenza ma, tramite questo tipo di pratica, si cerca di esasperare ulteriormente l’aggressività e la ferocia degli animali per rendere ancora più cruente le lotte. La performance dei combattenti può essere compromessa da diversi fattori, quali: – fatica e stanchezza, sensazioni che possono esser causate da una serie di stati fisiopatologici quali, ad esempio, accumulo di acido lattico nei muscoli, disturbi circolatori con deficit di apporto di ossigeno e substrati energetici ai tessuti, insufficienza respiratoria, stati infiammatori locali o generalizzati, problemi endocrini e insufficienza renale. – dolore, che non solo diminuisce la tolleranza allo sforzo ma influisce anche sulla coordinazione e sullo stato di vigilanza del soggetto. – fattori psichici, che nel cane da combattimento possono derivare da stimoli stressogeni di varia origine. Le categorie di sostanze più comunemente utilizzate sono in grado di agire sui fattori precedentemente citati, aumentando in questo modo la resa atletica. Qui di seguito riportiamo l’elenco delle sostanze dopanti solitamente utilizzate. Si noti che tale lista non ha assolutamente la pretesa di includere tutte le sostanze ritenute dopanti ma solo quelle comunemente 155 utilizzate, poiché è molto difficile essere aggiornati su tutti i tipi di farmaci che trovano impiego come dopanti, dato che a un affinarsi dei metodi di indagine e di rilievi corrisponde la ricerca di sostanze nuove che possano eludere i controlli. • Stimolanti Anfetamina: l’anfetamina è un eccitante centrale. Possiede una potente azione antifatica, aumenta la concentrazione, migliora la resistenza e la tolleranza allo sforzo. Spegne l’appetito e quindi è anche assunta per il controllo del peso corporeo. Caffeina: eccitante centrale con effetti sui sistemi cardiocircolatorio e caffeina migliora sensibilmente la resistenza alla fatica. Cocaina: è un potente psicostimolante, ma ha anche azione anestetica locale. Sviluppa aggressività, può portare ad allucinazioni, alterazione dei riflessi, ansia, anoressia, nausea, insonnia. Dà sindrome da astinenza alla sospensione. • Analgesici-narcotici Fanno parte della classe degli oppioidi e derivati (morfina, eroina, metadone). Svolgono un’azione analgesica centrale, calmante ed euforizzante.Vengono utilizzati per spegnere la sensazione dolorifica. Per contrastarne in parte l’effetto di spegnimento dell’attenzione, vengono assunti in combinazione con sostanze stimolanti. • Anabolizzanti Steroidi Anabolizzanti: l’assunzione di ormoni steroidei induce un aumento della massa muscolare e questo, a sua volta, consente di affrontare allenamenti più pesanti e, di conseguenza, miglioramenti più marcati derivanti dall’allenamento stesso nelle prove di scatto e potenza. Inoltre, gli steroidi inducono riduzione della massa grassa. Anabolizzanti non steroidei: includono sostanze con effetto anabolico, se somministrate sistematicamente (salbutamolo, salmeterolo, terbutalina, beta-agonisti). • Diuretici Servono per perdere rapidamente liquidi e quindi peso; si tratta di una forma di doping specificamente adottata negli sport ove esistono 156 categorie di peso come la lotta, il sollevamento pesi e il pugilato. Il vantaggio che ne deriva è quello di gareggiare in una categoria inferiore sfruttando la struttura fisica che competerebbe a una categoria superiore. • Ormoni peptidici Ormone della crescita (GH): il GH (growth hormone) è l’ormone della crescita. Attualmente il GH è sintetizzabile; tutto il GH di provenienza animale è stato ritirato dal commercio per il rischio di contrarre il morbo della “mucca pazza”. Nell’ambiente sportivo, il GH pr oviene esclusivamente dal mercato nero, spesso in forma adulterata. Il suo uso stimola la deposizione di massa muscolare e la riduzione della massa grassa. ACTH (corticotropina): viene usato per fornire all’atleta una maggior quota di ormone per fronteggiare lo stress. • Eritropoietina (EPO) L’uso dell’EPO nel mondo sportivo è finalizzato ad aumentare la massa dei globuli rossi e quindi, il trasporto di ossigeno nel sangue, nelle discipline di resistenza. • Cannabinoidi I sintomi variano con la dose: a basso dosaggio si ha euforia, a dosaggio medio si ha disinibizione, a dosi elevate aggressività. • Beta-bloccanti Si tratta di farmaci che, tra gli effetti, hanno quello di ridurre la frequenza cardiaca. • Anestetici locali Si tratta di farmaci che bloccano reversibilmente la trasmissione dello stimolo dolorifico verso il sistema nervoso centrale. • Manipolazioni farmacologiche Con questo termine si intendono procedure atte ad alterare i risultati dei test antidoping. Un esempio è rappresentato dall’assunzione del probenecid, un farmaco antigotta che inibisce la secrezione renale di ormoni steroidei e può quindi mascherare l’assunzione di anabolizzanti. 157 Ripetiamo, queste sono solo le sostanze più in uso nell’ambito delle attività agonistiche ufficiali che possono essere utilizzate anche per la preparazione dei cani “atleti”.A queste, oltre alle varie combinazioni e miscugli, bisogna associare anche la continua affermazione di nuovi farmaci, tra cui i cosiddetti “trasformisti” come il Clembuterolo (antiasmatico) che, somministrato a dosi maggiori del normale, diventa uno stimolante al pari delle anfetamine e somministrato a dosi alte procura un effetto anabolizzante. Quest’ultimo effetto è testimoniato dall’abuso del farmaco in zootecnia, dove il suo impiego non è certo effettuato per curare l’asma dei vitelli ma per aumentarne la massa muscolare magra. Ovviamente, tutte queste “tecniche di adulterazioni”, oltre a essere vietate, sono anche altamente pericolose e dannose per l’organismo, sia umano sia animale. L’operatore di p.g., nel corso di controlli e perquisizioni, può rinvenire queste e altre sostanze sotto forma di “farmaci” (fiale, pillole, pasticche, sciroppi, ecc.). Ad esempio, sono stati sequestrati in un lager per pit bull diversi flaconi di Saizen, un prodotto avente come principio attivo la somatropina, un ormone che stimola la crescita. Alcuni anni fa, in Inghilterra, è stato accertato che in diversi cinodromi i cani venivano dopati con cioccolatini contenenti caffeina e teobromina. È bene farsi assistere nelle operazioni da personale specializzato (medico, veterinario) e sottoporre tutto a sequestro per ulteriori accertamenti, soprattutto quando si trova qualche “prodotto” privo di etichettatura o custodito alla rinfusa. È più problematico, invece, stabilire se un cane è stato sottoposto a trattamento farmacologico non consentito. Solo esami e accertamenti su prelievi di sangue o urina possono provare l’eventuale uso di sostanze dopanti. Si tratta di operazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, per le quali la polizia giudiziaria può chiedere l’ausilio, ex art. 348 c.p.p., di persone idonee (biologi, veterinari, analisti ecc). 158