Comments
Description
Transcript
Quando l`Italia diventò Nazione
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2005 LA REPUBBLICA 41 DIARIO DI DI NOVANT’ANNI FA IL PAESE ENTRAVA IN GUERRA Repubblica Nazionale 41 24/05/2005 N Sei milioni furono gli italiani chiamati alle armi Fu un evento per l’intera collettività 24MAGGIO Quandol’ItaliadiventòNazione ANTONIO GIBELLI comparsi ben presto nella più vasta campagna monumentale che mai si fosse conosciuta, nome per nome, comune per comune, meticolosi e inesorabili, erano e restano la prova che all’impresa e all’ecatombe tutti avevano preso parte e pagato un prezzo. Sul fronte interno, migliaia di operai furono militarizzati per ragioni di ordine pubblico e per assicurare la produzione nei settori vitali dell’economia di guerra. Donne e ragazzi furono impiegati nell’industria pesante per garantirne l’espansione, e nei lavori ausiliari come la fabbricazione di indumenti militari. Molte donne fu- rono chiamate a coprire i vuoti lasciati dagli arruolamenti, in lavori tradizionalmente maschili come la conduzione di tram o la nettezza urbana. Persino i bambini furono considerati essenziali alla nazione in armi, e divennero perciò destinatari e strumenti di mobilitazione, usati per suscitare sentimenti di protezione e di tenerezza, indicati come posta in gioco dello sforzo comune. La guerra a oltranza non poteva rinunciare a nessuna energia materiale, morale e immaginaria, e aveva bisogno di tutti, senza distinzione di professione, di genere, di età. ERNEST HEMINGWAY 24 MAGGIO IL FRONTE occidentale non pareva andasse altrettanto bene. Pareva che la guerra dovesse continuare un pezzo. Ora eravamo in guerra ma pensavo che ci volesse un anno per preparare un esercito numeroso e addestrarlo al combattimento. L’anno successivo sarebbe stata una cattiva annata, o forse una buona annata. Gli italiani stavano logorando una quantità incredibile di uomini. Non vedevo come potesse continuare. Anche se prendevano la Bainsizza e il monte San Gabriele, c’erano moltissime montagne al di là di queste per gli austriaci. Le avevo viste. Tutte le montagne più alte erano dall’altra parte. Sul Carso stavano avanzando, ma dalla parte del mare c’erano paludi e acquitrini. Napoleone avrebbe combattuto gli austriaci sulle pianure. Non li avrebbe mai combattuti sulle montagna. Li avrebbe lasciati scendere e li avrebbe battuti intorno a Verona. Per il momento nessuno stava battendo qualcuno sul fronte occidentale. Forse le guerre non si vincevano più. Forse continuavano sempre. Forse era un’altra guerra dei cento anni. “ “ ella guerra cominciata il 24 maggio del 1915, gli italiani chiamati alle armi furono quasi sei milioni, quelli che vestirono effettivamente l’uniforme circa cinque milioni, quelli che si avvicendarono al fronte oltre quattro milioni e duecentomila, provenienti per circa il 48 per cento dal Nord, il 23 dal Centro, il 17 dal Sud, il 10 dalle isole. Le classi mobilitate andavano dai nati nel 1874 ai nati nel 1900, ossia più o meno dai quarantenni ai diciassettenni. Durante i tre anni e mezzo di guerra, i morti furono complessivamente seicentocinquantamila (di cui centomila in prigionia), i prigionieri seicentomila, i feriti presuntivamente un milione, gli invalidi riconosciuti quasi mezzo milione. Tra i soli giovanissimi (17 e 18 anni) si contarono ben 7500 morti. Sul numero delle vedove come su quello degli orfani non si hanno dati certi, ma le prime dovettero aggirarsi intorno alle duecentomila, i secondi intorno ai quattrocentomila. Basterebbero queste cifre a misurare l’impatto dell’evento sulla collettività nazionale. Mai nulla di simile era accaduto nella storia precedente dell’Italia unita. Mai tanti abitanti del Regno provenienti da tutte le regioni del paese, dalla città e dalla campagna (qualcuno anche dall’estero), erano stati coinvolti tutti insieme, per amore o per forza, in un compito comune così drammatico, nel quale era messa in gioco, secondo la parola d’ordine ufficiale, la sopravvivenza nazionale, certo era messa a rischio (con un’incidenza percentuale intorno al 15 per cento di quelli che andarono al fronte) la sopravvivenza individuale. Se è vero – come ha scritto uno storico – che l’identità nazionale può consistere nella consapevolezza di grandi cose fatte insieme o patite insieme, si può ben dire che mai gli italiani avevano fatto e soprattutto patito insieme cose così grandi. Gli elenchi dei caduti La vastità del rimescolamento rese gli italiani più simili tra loro e più vicini agli altri europei. Contadini meridionali che non avevano mai messo piede al Nord (anche se potevano aver conosciuto l’America) si trovarono per la prima volta tra le montagne del Trentino. Montanari e pastori fecero conoscenza delle tecnologie e dell’organizzazione industriale incarnate nelle artiglierie, nei lavori del genio militare, nelle protesi che surrogavano gli arti mutilati, nelle applicazioni belliche dell’elettricità come i riflettori: i bagliori delle esplosioni e i fasci di luce che fendevano il buio trasforma- vano le notti in giorni, segnando il primato dell’elemento artificiale su quello naturale. I combattenti familiarizzavano per la prima volta col grammofono e col cinematografo nelle Case del soldato. Già immersi in contesti comunitari nei quali dominava la comunicazione orale, dovevano fare i conti con la scrittura per trasmettere a distanza segnali di vita: le loro lettere costituiscono oggi la più copiosa, formidabile testimonianza dell’esperienza collettiva allora compiuta. Partiti per la guerra semiletterati, imparavano a leggere giornali e comunicati dai quali potevano dipendere informazio- ni essenziali per la propria salvezza come quelle riguardanti licenze ed esoneri. Abituati per lo più a esprimersi in dialetto, per intendersi dovettero elaborare una sorta di lingua comune che i linguisti hanno chiamato “italiano popolare”. La popolazione nel suo insieme fu investita da un corso forzoso di italianizzazione destinato a lasciare un’impronta durevole anche per essere avvenuto in condizioni di eccezionale emergenza emotiva e con pesanti esiti luttuosi. Ampiezza dei processi di mobilitazione e profondità delle trasformazioni antropologiche e culturali non sfociarono però in un aumento della coesione nazionale né del sentimento di appartenenza. A differenza degli altri maggiori paesi europei, l’Italia affrontò la guerra in preda a profonde divisioni politiche e sociali che non si attenuarono, anzi crebbero nel corso del conflitto. La decisione dell’intervento fu il frutto di una forzatura, di una radicalizzazione senza ritorno della lotta politica e dell’imposizione di una minoranza agguerrita sulla maggioranza della popolazione. Fu un azzardo, non tanto in relazione alla consistenza dei mezzi economici e militari, che in definita ressero alla prova, quanto alla solidità delle istituzioni politiche e civili. Anche per questo la seduzione totalitaria presente nella guerra e i fenomeni di brutalizzazione che essa aveva innescato non furono contenuti e rielaborati ma sfociarono nel tracollo dello stato liberale e nella sovversione fascista: e questo benché l’Italia fosse uscita vincitrice dal conflitto, a differenza della Germania, traumatizzata da una sconfitta che agli occhi dei tedeschi appariva inspiegabile e quindi inaccettabile, e dell’impero russo, dove il disastroso esito dello scontro portò allo sfaldamento dell’antico regime prima che il conflitto avesse termine. Il conflitto sarebbe durato tre anni e mezzo e costato circa 650 mila vittime DIARIO 42 LA REPUBBLICA LE TAPPE DELLA GUERRA L’ATTENTATO, 28 GIUGNO 1914 Lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccide a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando. Il 28 luglio l’Austria dichiara guerra alla Serbia. L’Europa è trascinata nel conflitto. L’Italia sceglie la neutralità L’ITALIA, 24 MAGGIO 1915 Il 24 maggio l’Italia entra in guerra contro l’Austria. Il 26 aprile il governo Salandra aveva accettato, col solo avallo del re, le proposte dell’Intesa firmando il Patto di Londra con Francia, Inghilterra e Russia MARTEDÌ 24 MAGGIO 2005 LA GUERRA DI TRINCEA, 1915 L’esercito italiano, comandato dal generale Luigi Cadorna, si blocca in una logorante guerra di posizione lungo l’Isonzo e sul Carso. Alla fine dell’anno si contano 250 mila tra morti e feriti DELFINO BORRONI HA 106 ANNI, ERA UN BERSAGLIERE E OGGI RICORDA QUEI MALEDETTI GIORNI CHE VISSI A CAPORETTO PAOLO RUMIZ I LIBRI MARIO ISNENGHI GIORGIO ROCHAT La Grande Guerra 19141918 Sansoni 2004 JOHN KEEGAN La prima guerra mondiale Carocci 2004 MARIO ISNENGHI Il mito della Grande Guerra il Mulino 2002 ANTONIO GIBELLI L’officina della guerra Bollati Boringhieri 1998 La grande guerra degli italiani Sansoni 1998 D. LEONI, C. ZADRA La grande guerra il Mulino 1986 Repubblica Nazionale 42 24/05/2005 FABIO CAFFARENA Lettere della Grande Guerra. Unicopli 2005 ANGELO VENTRONE La seduzione totalitaria Donzelli 2003 ERIC J. LEED Terra di nessuno il Mulino 2002 MARIO SILVESTRI Caporetto Mondadori 1984 PIERO MELOGRANI Storia politica della grande guerra Laterza 1969 ERIK GOLDSTEIN Gli accordi di pace dopo la Grande Guerra Il Mulino 2005 l ventinove luglio quando c’era il grano / è nata una bambina con una rosa in mano /... le ragazzette l’amor non sanno fare / ma noi ragazzi glielo farem sentire / la sera dopo cena quando si va a dormire». Canta Delfino Borroni, classe 1898 da Turago Bordone (Pavia), bersagliere più vecchio d’Italia, uno dei trenta reduci rimasti della Grande Guerra. Canta a voce alta, cieco come Omero, sulla sedia a rotelle, la canzone del lungo treno che lo porta al confine, un giorno di fine maggio del ‘17. Fuori dalla casa di riposo “San Giuseppe” di Càstano Primo, tra Milano e Varese, piovono fiori di acacia, la giornata è limpida, le Alpi lombarde sono lì piene di neve, ma tu non vedi nulla perché il racconto del vecchio ti ha già portato via, lontano. «Dio che baccano su quella tradotta! “Canta canta, che domani non canti più”, ridevano quelli che erano già stati al fronte. Avevano ragione, il giorno dopo fu altra musica». Borroni, anni 106, non è solo uno che ricorda. Borroni “è” il ricordo. Lo sa Alessandro Vanni, che raccoglie con passione le ultime storie dei Cavalieri di Vittorio Veneto e considera quest’uomo, con un piede in tre secoli, «l’ultima, grande memoria vivente della Prima Guerra Mondiale». L’evento mitico lo abita, lo riempie, diventa metrica, odissea. Una macchina del tempo che ti rovescia addosso dettagli, nomi, date, odori, sapori, canzoni, rumori, maledizioni, pioggia, fango, fame, paura. Non fai a tempo ad annotare tutto, e lui è già oltre. Passa veloce dalla notte che pioveva sul Pasubio ai gas di Caporetto. «Sul Monte Maio la trincea degli austriaci era così vicina che sentivamo le voci. All’inizio, alcuni di loro uscivano di notte, si arrampicavano sugli alberi e ci sfottevano cantando chicchirichì. Ma il Borroni, che era un tipo fiero, non gliela lasciò correre, uscì con il Giagnola e altri due, ne acchiappò uno per i piedi e gli diede un bel cazzotto, poi lo portò di peso dietro le nostre linee. Si passavano le notti in piedi, e quando pioveva era dura, specie se ti mandavano di vedetta tra le due linee. Bisognava appiattirsi negli avvallamenti. Il sergente Mosconi Luigi, di Como, mandava sempre fuori me, perché ero come uno scoiattolo, diceva. Io protestavo: Mosconi, sempre a me mi tocca! Ma poi ubbidivo sempre. Erano turni di due ore. Ed era lunga, due ore». Cismòn, Pasubio, Campo Mulòn, Valsugana. Il film scorre senza sbavature. Poi, un giorno d’ottobre, il treno per un «I ‘‘ ,, LA MOSTRA POSIZIONI Sul Monte Maio la trincea degli austriaci era così vicina che sentivamo le voci. Loro ci sfottevano cantando chicchirichì luogo che si chiama Caporetto, da raggiungere in fretta, sull’Isonzo. Borroni ricorda tutto: il torrente, la collinetta davanti al paese, la Vallazza, la Val Polenta, il Monte Nero con la sua ombra immensa. Arrivano la notte del 23 a tappe forzate, ciascuno con quattro caricatori, due gallette e due scatole di carne «da Le immagini di questo Diario sono tratte dal catalogo della mostra Arte e Memoria a 90 anni dalla Grande Guerra, aperta alla Gate Termini Art gallery della Stazione Termini di Roma fino al 31 luglio. Oggi, in occasione della ricorrenza del 24 maggio, l’ingresso sarà gratuito tenere bene in conto, perché non è detto che i rifornimenti arrivino». Piove, tira vento gelato, il battaglione occupa due casette sulla collina. Sono piene di castagne, i soldati accendono un fuoco, le arrostiscono. «Io ne mangiai troppe, dovetti andare in mezzo alle frasche a scaricarmi. E proprio in quel EMILIO LUSSU momento sentii gridare il comandante: dov’è il quarto plotone? C’è il nemico!!! Fatevi sotto che gliela facciamo vedere». Invece, fino all’alba, fu il silenzio. Poi, nella bruma, «vedemmo un formicaio di truppe, una nuvola di uomini in grigio, i tedeschi che arrivano da Caporetto. Lì a 150 metri. Mo- LA GUERRA A sinistra, “Sulla strada di Giavera durante il bombardamen to” di Giulio Aristide Sartorio (1918) ERICH MARIA REMARQUE La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati La prima granata ci ha colpiti al cuore; esclusi ormai dall’attività, dal lavoro, dal progresso, non crediamo più a nulla. Crediamo alla guerra “Un anno sull’Altipiano” 1938 “Niente di nuovo sul fronte occidentale”, 1929 FEDERICO CHABOD VITTORIO FOA Quella guerra era la prima grande prova armata, il primo grande sforzo militare dell’Italia. L’Italia era allora uno Stato giovanissimo L’Italia entrò in guerra dopo un duro conflitto politico tra neutralisti e interventisti tra chi voleva stare fuori della guerra e chi voleva invece che vi entrasse “L’Italia contemporanea” 1961 “Questo Novecento” 1996 sconi capisce, loro non si sono accorti di nulla, sibila: “a l’è da metterli in tasca!”. Il capitano ordina: fateli avanzare, poi quando fischio scaricate la fucileria e li assalite dall’alto». Pochi attimi. Poi l’urlo: «Sottooo!». «Siamo partiti come leoni... Non ha un’idea il baccano che si è fatto... Abbiamo preso ottanta prigionieri... eravamo a cento metri dalle case di Caporetto. Abbiamo trovato una trincea italiana del 1915, ci siamo buttati dentro». Verso mezzogiorno del 24 il sergente di ferro manda nuovamente Borroni di vedetta. È una missione pericolosissima, la posizione è circondata. Delfino protesta: «Mosconi, mandi a morire proprio me? Almeno gli altri hanno vissuto vent’anni di più!», ma obbedisce. «Non mi sono mai rifiutato». Esce, si acquatta tra due tedeschi morti, intuisce ombre in movimento, vede due tedeschi anziani, con barba non fatta e il sottogola. «Mormoro ai miei: stanno arrivando! Ma dalla trincea mi rispondono: comeee? Glielo ripeto, stavolta senza risposta. In silenzio vedo i tedeschi che passano strisciando uno sull’altro. Fu lì che arrivò l’urlo del nostro comandante: si salvi chi può! Cominciò la fuga, sotto le mitragliatrici». Ormai la storia non è più film, è vita, tempo presente, ti scatena un jet lag, il mondo di ieri è lì di fronte. Continua Borroni: «Scappo sotto il fuoco incrociato, un proiettile mi becca al tallone destro, cado, e la caduta mi salva dalla scarica successiva, lo capirò solo dopo. Mi rialzo, corro zoppo tra due fuochi, mi DIARIO MARTEDÌ 24 MAGGIO 2005 CAPORETTO, 1917 Papa Benedetto XV si appella ai governi contro la “inutile strage”. Il 24 ottobre un’armata austro-tedesca sfonda le linee italiane nei pressi di Caporetto: 300 mila prigionieri LA REPUBBLICA 43 IL PIAVE, SETTEMBRE 1918 Gli italiani lanciano un’offensiva sul fronte del Piave. Gli austriaci sono sconfitti a Vittorio Veneto, gli italiani entrano a Trento e il 3 novembre a Villa Giusti l’Austria firma l’armistizio LA FINE DELLA GUERRA, 1918 La guerra termina con la vittoria dell’Intesa, favorita dalla dissoluzione dell’Austria-Ungheria e dalla rivoluzione in Germania. Conferenza di pace il 18 gennaio a Versailles PARLA GIAN ENRICO RUSCONI: “ERAVAMO IMPREPARATI” ALTRO CHE PIAVE FU UN AZZARDO SIMONETTA FIORI o l’impressione che ci sia molta distrazione intorno a questo anniversario», dice Gian Enrico Rusconi, professore di Scienza politica all’Università di Torino e autore di saggi su “nazione”, “resistenza e postfascismo”, “patria e repubblica” che hanno avuto il merito di anticipare alcuni temi incandescenti del dibattito pubblico. Neo direttore dell’Istituto storico italo-germanico di Trento, sta organizzando per il 30 maggio un convegno sulla Grande Guerra, «uno dei pochi dedicati all’evento», rimarca polemicamente. Anche l’ultimo suo lavoro, appena uscito dal Mulino, si misura con le ragioni del conflitto, non rinunciando fin dal titolo a una lettura provocatoria: L’azzardo del 1915 (sottotitolo, Come l’Italia decide la sua guerra, pagg. 200, euro 12). «Apparentemente la prima guerra mondiale rappresenta una pagina conciliata, nel senso che in Italia nessuno riapre il dibattito sulle reali colpe o sulla spericolatezza diplomatica che diede avvio al nostro intervento. E questo accade perché negli ultimi trent’anni la dimensione politica — che è poi quella che divide — è stata messa in ombra dall’immagine condivisa della gigantesca catastrofe in cui fu versato il sangue di tutti gli italiani: mito fondativo della nostra identità. Troppo spesso si dimentica che al principio ci fu un azzardo: politico, diplomatico e militare». Azzardo, lei dice. Non le pare un’espressione un po’ forte? «No, non mi viene nessun’altra parola. Per un precedente saggio, sull’origine della Grande Guerra, scelsi il titolo Rischio 1914. Ma l’intervento italiano va oltre un rischio calcolato: è una scelta azzardata da tutti i punti di vista. Il nostro governo manda all’aria un trentennale accordo con Austria e Germania, la Triplice Alleanza, per lanciarsi in una sfida militare alla quale non è assolutamente preparato: tutto questo dopo una finta trattativa per una neutralità compensata da ampi risarcimenti territoriali». E le ragioni ideali dell’irredentismo? Si combatté contro l’Austria per Trento e Trieste. «Così ce la siamo raccontata per troppi anni, riprendendo gli argomenti dell’interventismo democratico. È vero che novant’anni fa “il Piave mormorò”, ma è altrettanto innegabile che il gesto iniziale prese di contropiede tutti. Sono sicuro che, anche nelle attuali celebrazioni, le alte cariche non rinunceranno al politicamente corretto del patriottismo italiano. In realtà le motivazioni irredentiste ebbero un ruolo secondario rispetto a quello che era il progetto principale». Quale? «Volevamo diventare una grande potenza, specie nell’area adriatico-balcanica, e per raggiungere l’obiettivo approfittammo del conflitto esploso nell’agosto del 1914. Ciò che nella primavera del 1915 spinse alla guerra il governo nazional-liberale di Salandra e Sonnino non fu solo il desiderio di liberare le terre irreden- «H butto nel torrente, vedo il caporal maggiore Giagnola che mi fa gesti da un’altura, non ha ancora capito quanto vicini sono i nemici, io corro in salita sul colle, mi butto tra i miei. Mosconi non crede ai suoi occhi, dice: solo tu potevi salvarti in quell’inferno, ho ragione quando dico che sei tutto sale e pepe!». GLI AUTORI Il Sillabario di Ernest Hemingway è tratto da Addio alle armi (Mondadori, 1965). Antonio Gibelli insegna Storia contemporanea all’Università di Genova. Gian Enrico Rusconiè docente di Scienza politica a Torino. I DIARI ONLINE Tutti i numeri del “Diario” di Repubblica sono consultabili in Rete sul sito www.repubblica.it nella sezione “Spettacoli e cultura”. I lettori troveranno le pagine comprensive di tutte le illustrazioni. «La sera del ‘25 arriva il maggiore a cavallo, piove ancora, ci ordina di tenere l’ultimo crocevia prima di Cividale, ormai i tedeschi dilagano, c’è una tremenda sparatoria, i tedeschi non usano fucili né granata, ma solo mitragliatrici. È lì che il nostro capitano ci lascia la pelle, Rosana signor Umberto si chiamava, di Roma era. Un sardo, Cicolella, che mi aveva fatto una sgarberia e con cui non parlavo da settimane, viene ferito alle gambe. Mi tende una mano, mi dice perdonami, io lo carico in spalle, ma i tedeschi sono dappertutto, mi fatto prigioniero. Sono disarmato, uno urla, non sa se spararmi o infilzarmi, ma un altro, più calmo, lo calma e mi accompagna tra i platani, con altri italiani». Da allora, la fame. Non c’è da mangiare dietro alle vittoriose linee tedesche. «Cercavo sempre di scappare, era meglio morire di una fucilata e che di fame. Mi riprendevano e scappavo di nuovo. Finché trovai un contadino che passava per i campi con una carriola di letame, gli chiesi pane, lui disse non posso. Ma poi uscì la moglie, gidò: puteo! E mi diede un bel pezzo di polenta con un mezzo un buco pieno di sugo rosso con fagioli. Le dissi: con questa ci campo quindici giorni! E lei: povareto, iera el manco che se podeva. Ormai era l’ottobre del ‘18, il fronte era a pezzi, la cavalleria italiana sbucava in silenzio dappertutto. Urlai che ero italiano, che non sparassero. Intorno, le ultime sacche di resistenza sparavano poi alzavano bandiera bianca. Era finita. Sembrava impossibile». ‘‘ ,, FRATTURE Il nostro governo mandò all’aria un trentennale accordo con Austria e Germania. I motivi irredentisti furono secondari ‘‘ ,, OBIETTIVI Volevamo diventare una grande potenza e per questo approfittammo del conflitto che era esploso nell’agosto del 1914 te, completando l’opera risorgimentale, ma fu soprattutto la volontà di conquistare per l’Italia lo status di grande potenza. Possiamo tornare a usarla questa parola?». Avverto come un accenno polemico verso una storiografia che ha espunto questo termine. «No, nessuna polemica. Dico solo: ormai siamo adulti, possiamo riproporre una categoria — quella di potenza — che era stata sfigurata dal nazionalismo fascista. E, soprattutto, torniamo alla politica! Dopo un trentennio in cui abbiamo scritto storie dell’umanità offesa, storia delle identità traumatizzate, storia delle culture e delle memorie, vorrei tornare a parlare dello scacchiere diplomatico in cui si muovevano grandi e tragiche figure quali Son- PROPAGANDA Qui sopra, “Fate tutti il vostro dovere”, manifesto del 1917 di Achille Luciano Mauzan; al centro pagina, Gerardo Dottori, “Bombardamento aereo”, 1927 nino, San Giuliano, Salandra, anche Albertini. La storia ritorna nel Palazzo. E viene riconsegnata ai suoi protagonisti. È vero che Giolitti non si muove nel vuoto, ma è pur sempre Giolitti... «. Se fosse stato Giolitti a condurre la negoziazione con Austria e Germania — lei sostiene — avremmo potuto ottenere il Trentino e uno statuto particolare per Trieste: senza spargimento di sangue. «Sì, sono persuaso che Giolitti avrebbe avuto maggiori chances di successo. Il governo che gli succedette, l’asse Salandra-Sonnino, coltivava obiettivi ben più ambiziosi e dunque finì per minare i presupposti stessi della trattativa. D’altro canto la negoziazione portata avanti dall’Austria non era immune da simulazione: trattavano con la riserva mentale di riprendersi indietro tutto». A sostegno della sua tesi — ossia che di azzardo si trattò — lei dimostra che la storia poteva andare diversamente. Addirittura recupera un’ipotesi solitamente liquidata dalla storiografia, ossia la possibilità per l’Italia di marciare sul Reno a fianco di Germania e Austria. «Guardi che non fu un’eccentricità di alcuni frenetici nazionalisti. Anche un nazional-liberale come Sidney Sonnino — futuro ministro degli Esteri che avrebbe portato l’Italia alla guerra contro l’Austria — da principio era del parere che fosse meglio restare nella Triplice Alleanza. Perfino Cadorna, dopo il disastro di Caporetto, si sarebbe rammaricato di non aver combattuto dalla parte giusta». È uno scenario verosimile? «Sì, un’ipotesi non più tanto assurda. Ho trovato un nuovo documento, un verbale riservatissimo dello Stato maggiore, datato 18 dicembre 1913, dal quale risulta che il progetto di inviare le truppe italiane in Germania era in realtà molto più serio di quel che comunemente si crede: da Alberto Pollio a Cadorna, erano tutti convinti di marciare sul Reno». Ma non le pare questa del 1915 una vicenda ormai definitivamente chiusa: il minuetto diplomatico, le logiche di potenza... «Eppure l’azzardo della Grande Guerra rivela tratti della politica italiana che arrivano fino a noi: non sappiamo mai bene come collocarci. Non è questione di antropologia, ma è la nostra posizione geopolitica che produce una sorta di incertezza nelle alleanze. Vale ancora la battuta di un vecchio diplomatico: noi abbiamo alleati, ma anche molti amici». È rimasta nella memoria collettiva come “la nostra guerra”, quella che più intimamente ha toccato le coscienze. Eppure — lei dice — nacque da un azzardo. «Un tragico paradosso. Ed è forse anche per questo che la memoria collettiva ha cancellato la spericolatezza delle origini per concentrarsi sulle trincee da cui rinacque l’Italia». I FILM LA GRANDE GUERRA Due soldati che cercano di sottrarsi in ogni modo alla guerra e al combattimento finiscono loro malgrado per morire da eroi. Con Vittorio Gassman e Alberto Sordi, di Mario Monicelli, del 1959. UOMINI CONTRO La guerra sull’altipiano di Asiago, dove un generale manda a morire con una follia testarda centinaia di soldati. Di Francesco Rosi, con Gian Maria Volonté, tratto da “Un anno sull’ altipiano” di Emilio Lussu. 1970 ADDIO ALLE ARMI Sul fronte italiano si svolge la drammatica storia d’amore tra un soldato americano e un’infermiera inglese. Due versioni con Gary Cooper nel 1932, regia di Frank Borzage. Con Rock Hudson nel 1957, regia di Charles Vidor. LA LEGGENDA DEL PIAVE Una moglie patriota trasforma in un eroe il marito profittatore di guerra. Di Riccardo Freda, con Gianna Maria Canale. 1951