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Il limite di compatibilità dei simboli religiosi negli
FOCUS HUMAN RIGHTS – 3 APRILE 2015
Il limite di compatibilità dei simboli
religiosi negli spazi pubblici di una
democrazia aperta:
il caso del burqa e del niqab
di Umberto G. Zingales
Consigliere della Corte costituzionale
Il limite di compatibilità dei simboli
religiosi negli spazi pubblici di una
democrazia aperta:
il caso del burqa e del niqab
(Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, sentenza
1° luglio 2014, S.A.S. contro Francia, ricorso n. 43835/11)*
di Umberto G. Zingales
Consigliere della Corte Costituzionale**
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il fatto. – 3. La decisione della Corte di Strasburgo. – 4. La libertà religiosa
nella giurisprudenza di Strasburgo. – 5. Religioni e dialogo interculturale. – 6. Conclusioni: il velo islamico nello
spazio pubblico è incompatibile con il principio di fraternité (e con quello di solidarietà).
1. Premessa
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, del 1° luglio 2014 (S.A.S.
contro Francia, ricorso n. 43835/11), offre interessanti spunti di riflessione sulla dibattuta e sensibile
tematica dei rapporti tra diritto e religione, con particolare riguardo alla questione dei simboli religiosi
negli spazi pubblici. La pronuncia, al di là del caso deciso, induce ad interrogarsi sui limiti di
compatibilità di alcuni simboli religiosi, quali il burqa1 e il niqab2, con i principi fondamentali posti alla
base delle società democratiche libere ed aperte.
* Articolo sottoposto a referaggio.
** Le opinioni espresse sono a titolo personale e non impegnano in alcun modo l’Istituzione di
appartenenza.
1 Il burqa è un abito tipico delle donne afghane, normalmente di colore azzurro, la cui caratteristica è quella di
coprire integralmente sia la testa sia il corpo. All’altezza degli occhi, in genere, c’è una retina che permette di
vedere parzialmente senza scoprire, però, gli occhi della donna.
2 Il niqab è un velo nero che copre integralmente il corpo delle donne, compreso il viso, lasciando una fessura per
gli occhi.
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Come sottolineano gli stessi giudici di Strasburgo, la questione del velo islamico integrale è
diventata di attualità in Francia in tempi piuttosto recenti: secondo l’indagine condotta dalla
Commissione parlamentare francese istituita nel 2009 3 , nessuna donna indossava veli integrali fino
all’anno 2000, mentre nel 2009 si registravano in Francia (e nei territori francesi d’oltre mare) circa
1.900 donne che facevano uso di questi capi di abbigliamento4. Peraltro, secondo il report finale della
Commissione, la pratica di indossare il velo islamico risalirebbe ad un’epoca precedente l’avvento
dell’Islam e non avrebbe il carattere di un precetto religioso, trattandosi invece di un modo di
affermazione radicale della propria identità, a volte derivante anche dall’azione di movimenti integralisti
ed estremisti5. Il rapporto conclusivo ravvisava – oltre che una lesione al principio della laicità – il
contrasto del velo integrale con i valori repubblicani della liberté, égalité e fraternité, in quanto simbolo di
sottomissione della donna (violazione della libertà) e quindi di lesione della parità di genere e della pari
dignità umana (violazione dell’uguaglianza), nonché negazione dei principi del vivere comune
(violazione della fraternità).
Nel suggerire le linee d’azione per contrastare questa pratica, proteggere le donne e riflettere sui
processi di integrazione sempre più complicati dal fattore religioso, nel report si sottolineava – tuttavia –
la mancanza di unanimità sull’opportunità di approvare una legge generale che vietasse di indossare il
velo integrale negli spazi pubblici6. Sulla scorta dell’indagine condotta dalla Commissione parlamentare,
l’Assemblea nazionale, l’11 maggio 2010, approvava all’unanimità una risoluzione secondo cui – tra
l’altro – le pratiche religiose radicali (come l’uso del velo integrale), che possano mettere in condizione
di inferiorità (minore dignità, minore libertà, mancanza di uguaglianza) la donna rispetto all’uomo, sono
incompatibili con i valori della Repubblica e che l’esercizio della libertà di espressione, di opinione o di
fede religiosa non può essere rivendicata da nessuno al fine di sottrarsi al rispetto delle regole comuni
in contrasto con i valori, i diritti e i doveri che stanno alla base della società7.
La Commissione, composta da deputati dei diversi partiti politici, è stata incaricata di redigere un rapporto sur
la pratique du port du voile intégral sur le territoire national. Il report finale è stato depositato il 26 gennaio 2010.
4 Delle 1.900 donne facenti uso del velo integrale nel 2009, circa 270 risiedevano nei territori d’oltre mare, nove
su dieci avevano meno di 40 anni, due su tre erano di nazionalità francese e una su quattro si era convertita
all’Islam.
5 Cfr. R. ALUFFI BECK-PECCOZ, «Burqa» e Islam, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 13 e ss.
6 Nello stesso senso andava anche l’avis sur le port du voile intégral della Commission nationale consultative des droits de
l’homme del 21 gennaio 2010. Perplessità sulla praticabilità giuridica di un divieto assoluto e generalizzato di
indossare il velo integrale in pubblico furono espresse anche dal Conseil d’État (25 marzo 2010), nello studio
commissionato dal governo relativo alle possibilités juridiques d’interdiction du port du voile intégral.
7 Questi i punti della risoluzione: (l’Assemblée nationale) 1. Considère que les pratiques radicales attentatoires à la dignité et à
l’égalité entre les hommes et les femmes, parmi lesquelles le port d’un voile intégral, sont contraires aux valeurs de la République; 2.
Affirme que l’exercice de la liberté d’expression, d’opinion ou de croyance ne saurait être revendiquée par quiconque afin de
s’affranchir des règles communes au mépris des valeurs, des droits et des devoirs qui fondent la société; 3. Réaffirme solennellement son
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Successivamente il governo francese presentava il progetto di legge interdisant la dissimulation du visage
dans l’espace public, motivando tra l’altro che la dissimulation du visage dans l’espace public est porteuse d’une
violence symbolique et déshumanisante, qui heurte le corps social 8 . Dopo l’approvazione 9 , la legge veniva
promulgata l’11 ottobre 2010 (Loi n. 2010-1192) ed entrava in vigore l’11 aprile 201110.
2. Il fatto
È contro questa legge, che ha vietato di indossare il velo islamico in pubblico se ciò comporta
l’occultamento del viso, che una cittadina francese di fede musulmana si è rivolta alla Corte di
Strasburgo lamentando la violazione degli articoli 3 (proibizione della tortura)11, 8 (diritto al rispetto
attachement au respect des principes de dignité, de liberté, d’égalité et de fraternité entre les êtres humains; 4. Souhaite que la lutte
contre les discriminations et la promotion de l’égalité entre les hommes et les femmes soient une priorité des politiques publiques
menées en matière d’égalité des chances, en particulier au sein de l’éducation nationale; 5. Estime nécessaire que tous les moyens utiles
soient mis en œuvre pour assurer la protection effective des femmes qui subissent des violences ou des pressions, et notamment sont
contraintes de porter un voile intégral.
8 Inoltre, secondo il governo la dissimulation du visage è una pratica contraria alle esigenze fondamentali del vivre
ensemble nella società francese. Nelle motivazioni di accompagnamento al progetto di legge si afferma, ancora,
che la difesa dell’ordine pubblico non va intesa solo come tutela della tranquillità, della salute e della sicurezza
pubblica: al contrario, consente di vietare quei comportamenti che si pongono in contrasto con le regole
essenziali del contrat social républicain che fonda la società francese (concezione dell’ordine pubblico non solo in
senso materiale). In quest’ottica, il nascondere il viso nello spazio pubblico, per il governo, è contrario all’ideale
di fraternité e non soddisfa i requisiti minimi di civiltà necessari per le relazioni sociali.
9 La legge è stata approvata dall’Assemblea nazionale il 13 luglio 2010 con 335 voti a favore, un voto contrario e
tre astensioni; al Senato (14 settembre 2010) i voti favorevoli sono stati 246, con un’astensione. Il Conseil
Constitutionnel , con decisione 7 ottobre 2010, 2010-613 DC, ha ritenuto la legge conforme a Costituzione, con
una riserva: proibire l’occultamento del viso in luoghi pubblici non può comunque restringere – in contrasto con
l’art. 10 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 – l’esercizio della libertà di religione nei
luoghi di preghiera aperti al pubblico. In materia cfr. A. FORNEROD, Les «affaires de burqa» en France, in Quaderni
di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 63 e ss. In Francia è in vigore anche una legge, approvata nel 2004, che
proibisce l’ostentazione di simboli o abbigliamenti religiosi nelle scuole (Loi n. 2004-228, del 15 marzo 2004).
10 L’art. 1 della legge n. 2010-1192 stabilisce che «Nul ne peut, dans l’espace public, porter une tenue destinée à dissimuler
son visage». Per “spazio pubblico” si intendono le pubbliche vie e i luoghi aperti al pubblico o affidati ad un
servizio pubblico. Il divieto non opera se l’abbigliamento che nasconde il volto è prescritto o autorizzato da
disposizioni legislative o regolamentari, oppure se è giustificato da ragioni di salute o da motivi professionali
ovvero se si iscrive nel quadro di pratiche sportive, di feste o di manifestazioni artistiche o tradizionali (art. 2). Su
tali aspetti, si vedano anche le circolari del Primo Ministro del 2 marzo 2011 (pubblicata nel journal officiel del 3
marzo 2011) e del Ministro dell’interno del 31 marzo 2011. In caso di violazione del divieto imposto dalla legge è
prevista una sanzione (ammenda) massima di centocinquanta euro, oltre all’obbligo di seguire un corso di
educazione civica (art. 3); una sanzione è stabilita anche per coloro che costringono altri a nascondere il volto,
puniti con un anno di detenzione ed una ammenda di trentamila euro (le pene sono raddoppiate nel caso in cui i
fatti siano compiuti a danno di minori).
11 Art. 3 Cedu: Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.
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della vita privata e familiare) 12 , 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione) 13 , 10 (libertà di
espressione) 14 , 11 (libertà di riunione e di associazione) 15 e 14 (divieto di discriminazione) 16 della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu)17. La
ricorrente, infatti, per le sue convinzioni religiose e culturali18, indossa il burqa e il niqab (esplicitamente
affermando che non vi è costretta da nessuno, né dal marito né da alcun altro membro della sua
famiglia), anche se non sistematicamente: ad esempio, non indossa il niqab se deve farsi visitare da un
medico, o se deve incontrarsi con amici o altrimenti socializzare in luoghi pubblici. Tuttavia, sente
l’intima convinzione di indossarlo in occasione di particolari sentimenti spirituali che la attraversano o
di eventi religiosi (ad esempio, durante il Ramadan19) nei quali ritiene di dover esprimere in pubblico la
propria fede religiosa. La ricorrente, inoltre, precisa di non opporsi quando deve sollevare il velo per
Art. 8 Cedu: 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria
corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia
prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica
sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della
morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
13 Art. 9 Cedu: 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di
cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente,
in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria
religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure
necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla
protezione dei diritti e della libertà altrui.
14 Art. 10 Cedu: 1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di
ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di
frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione,
cinematografiche o televisive. 2. L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle
formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società
democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei
reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di
informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.
15 Art. 11 Cedu: 1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di
partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire a essi per la difesa dei propri interessi. 2. L’esercizio di questi diritti non può
essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società
democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione
della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime
siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato.
16 Art. 14 Cedu: Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna
discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro
genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.
17 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (o, più
brevemente, Convenzione europea dei diritti dell’uomo) è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed è stata
ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
18 La ricorrente è nata in Pakistan e proviene da una famiglia di tradizione culturale sunnita nella quale costituisce
usanza per le donne indossare il velo integrale in pubblico.
19 Il Ramadan è il mese nel quale, secondo il calendario musulmano, si pratica il digiuno dall’alba al tramonto.
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controlli di pubblica sicurezza o in luoghi pubblici quali banche e aeroporti ed acconsente di mostrare il
volto per essere identificata quando necessario.
In poche parole, la ricorrente è posta di fronte al dilemma se rispettare il divieto sancito dalla legge
francese, contravvenendo ai precetti religiosi che ha scelto di seguire, o se disobbedirvi rischiando di
essere sanzionata dallo Stato.
3. La decisione della Corte di Strasburgo
La Corte di Strasburgo – giudicando manifestamente infondate le doglianze relative alla violazione
degli articoli 3 (proibizione della tortura) e 11 (libertà di riunione e di associazione), anche in combinato
disposto con l’art. 14 (divieto di discriminazione) – osserva in linea di principio che il divieto di
indossare nello spazio pubblico un abbigliamento che nasconda il viso pone delle questioni di
compatibilità con il diritto al rispetto della vita privata (art. 8 Cedu) delle donne che desiderino portare
il velo integrale per motivi legati alle loro personali convinzioni – in questo caso di tipo religioso – e
con la conseguente libertà di manifestarle (art. 9 Cedu). Infatti, il divieto di indossare il velo integrale
costituisce all’evidenza una restrizione della libertà di manifestare il proprio credo religioso: se non
sussistono problemi sulla prima condizione di compatibilità richiesta dalla Cedu, vale a dire che tale
restrizione deve essere prevista dalla legge, più complessa appare la valutazione degli altri requisiti
indicati dalla Convenzione, secondo cui è possibile limitare i diritti in questione solo se «necessario in
una società democratica» e solo per perseguire determinati fini legittimi, quali la pubblica sicurezza e la
protezione dei diritti e della libertà altrui.
Con riferimento alla pubblica sicurezza, la Corte riconosce che lo Stato può ritenere essenziale
l’identificazione di individui al fine di prevenire pericoli per la sicurezza delle persone e delle cose e per
combattere i furti di identità: in questo senso, non costituisce violazione dell’art. 9 Cedu l’obbligo di
rimuovere vestiti con caratteristiche religiose nel contesto di controlli di sicurezza o di identità20. Ma,
tenuto conto dell’impatto sui diritti delle donne che desiderino indossarlo per motivi religiosi, il divieto
assoluto e generalizzato di indossare il velo islamico integrale nei luoghi pubblici non può essere
considerato proporzionato, se non in presenza di un contesto nel quale si ravvisi una minaccia per la
sicurezza pubblica: circostanza che, nel caso di specie, la Corte di Strasburgo non ritiene dimostrata dal
governo francese21.
Si vedano Phull c. Francia, 11 gennaio 2005 (n. 35753/03); El Morsli c. Francia, 4 marzo 2008 (n. 15585/06);
Mann Singh c. Francia, 11 giugno 2007 (n. 24479/07).
21 S.A.S. c. Francia, sent. 1° luglio 2014 (n. 43835/11), § 139. Si segnala anche il commento di S. ANGELETTI,
“Vivre ensamble” con il velo integrale? Religione e spazio pubblico di fronte ai giudici di Strasburgo,
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Con riguardo, poi, alla protezione dei diritti e della libertà altrui, la Corte Edu deve valutare se
rientri nell’ambito di questa finalità – come sostenuto dal governo francese – il rispetto del nucleo
minimo dei valori di una società democratica e aperta, con particolare riferimento all’uguaglianza tra
uomo e donna, alla dignità e alle esigenze minime della vita in società. Per i giudici di Strasburgo, nel
caso di specie non convincono né il riferimento all’uguaglianza dei sessi, dal momento che la ricorrente
ha dichiarato di voler liberamente esercitare il diritto di manifestare la propria religione, né quello
relativo alla dignità umana, poiché il velo integrale – pur se percepito come “strano” dalla maggior
parte delle persone – è comunque espressione di una identità culturale che contribuisce al pluralismo
presente in una democrazia22.
La Corte Edu, invece, riconosce che a certe condizioni il rispetto dei requisiti minimi della vita in
società (respect des exigences minimales de la vie en societé) o del vivere comune (vivre ensemble) può essere
legato al fine legittimo della protezione dei diritti e della libertà altrui: a questo riguardo, prende atto
che il viso – secondo quanto sostenuto dal governo francese – gioca un ruolo importante
nell’interazione sociale. Resta il fatto, tuttavia, che la nozione di vivre ensemble contiene elementi di
variabilità che richiedono alla Corte un attento scrutinio della necessità della misura contestata (divieto
del velo integrale negli spazi pubblici), per scongiurare il rischio di abusi.
La Corte di Strasburgo si sofferma, quindi, sui principi generali relativi all’art. 9 Cedu, ribadendo
che la libertà di pensiero, di coscienza e di religione costituisce uno dei fondamenti di una «società
democratica». Nella sua dimensione religiosa, questa libertà non riguarda solo l’identità dei credenti e la
loro concezione della vita, ma costituisce anche un bene prezioso per gli atei, gli agnostici, gli scettici e
gli indifferenti. Nell’ottica di un pluralismo indissociabile da una società democratica, la libertà di cui
all’art. 9 Cedu comprende quella di aderire o meno ad una religione nonché quella di praticarla o non
praticarla23. Se la libertà di religione rileva, innanzi tutto, sul piano del foro interno, essa implica allo
stesso tempo la libertà di manifestare la propria fede in diverse forme, come indicato dall’art. 9 Cedu
(individualmente o in gruppo, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e
l’osservanza dei riti).
file:///D:/Documenti/Downloads/ANGELETTI-SASvFrance.pdf, nell’ambito della Ricerca a cura
dell’Università di Perugia, Dipartimento di Diritto pubblico, su “L’effettività dei diritti alla luce della
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo”.
22 Cfr. § 118-120.
23 Si veda in questi termini Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993 (n. 14307/88), § 31.
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Tuttavia, l’art. 9 Cedu non protegge ogni atto motivato o ispirato da un credo religioso 24 e non
sempre garantisce la libertà di comportarsi, nella sfera pubblica, secondo i dettami propri di una
determinata religione 25 (dunque, la Convenzione accorda una tutela solo relativa del foro esterno).
Infatti, nelle società democratiche, nelle quali coesistono diverse religioni all’interno della stessa
popolazione, può essere necessario apporre limitazioni alla libertà di manifestare il proprio credo
religioso al fine di conciliare gli interessi dei vari gruppi e di assicurare il rispetto delle convinzioni di
ciascuno26.
La Corte ricorda che lo Stato svolge un ruolo di organizzatore neutrale e imparziale dell’esercizio
delle diverse religioni, al fine di perseguire l’obiettivo di una civile convivenza di più fedi religiose senza
eliminare il pluralismo ma, al contrario, favorendo la reciproca tolleranza dei gruppi di diversa
ispirazione
27
: pluralismo, tolleranza e spirito di apertura caratterizzano, infatti, una «società
democratica». Anche se talvolta l’interesse individuale deve essere subordinato a quello di un gruppo,
l’approccio “democratico” al tema in oggetto non può significare semplicemente la prevalenza assoluta
della volontà della maggioranza: è necessario un continuo bilanciamento tra diritti fondamentali che
assicuri un giusto trattamento delle minoranze e che scongiuri abusi di “posizione dominante”28. In altri
termini, il pluralismo e la democrazia devono fondarsi sul dialogo e sullo spirito di compromesso, che
implicano necessariamente da parte dei singoli alcune concessioni che si giustificano nell’ottica della
salvaguardia e della promozione degli ideali e dei valori di una società democratica29.
Tutto ciò premesso in linea di principio, la Corte europea ricorda di svolgere un ruolo sussidiario ai
fini della tutela dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione: le autorità nazionali, infatti, godono
di una legittimazione democratica diretta e si trovano nella better position rispetto al giudice
internazionale per valutare le esigenze e i contesti locali. Quando sono in discussione questioni di
politica generale, in ordine alle quali possono esistere profonde divergenze in uno Stato democratico,
come ad esempio nel caso dei rapporti tra lo Stato e le religioni, un’importanza particolare va
riconosciuta al domestic policy-maker. In altri termini, la Corte europea riconosce allo Stato, in
Inoltre, occorre che si tratti di convinzioni (anche religiose) meritevoli di tutela: vi rientrano solo quelle idee
che raggiungono un certo grado di cogenza, serietà, coesione ed importanza: Campbell and Cosans c. Regno Unito,
25 febbraio 1982 (n. 7511/76 e n. 7743/76), § 36.
25 § 125.
26 § 126. In senso analogo cfr. Kokkinakis c. Grecia, cit., § 33.
27 § 127.
28 § 128. Sul punto cfr. P. VOYATZIS, Pluralismo e libertà di religione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’uomo, in R. MAZZOLA (a cura di), Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, Il Mulino, Bologna, 2012, 104.
29 Cfr. ancora § 128.
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quest’ambito, un ampio margine di apprezzamento per decidere se ed in quale misura una restrizione al
diritto di manifestare la propria religione o le proprie convinzioni possa essere ritenuta «necessaria» 30,
fermo restando che spetta alla stessa Corte un controllo per verificare se le misure adottate a livello
nazionale trovino adeguata giustificazione e siano proporzionate31.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte osserva che la Francia, nell’approvare la legge
denunciata, ha attribuito un notevole peso ad uno dei legittimi scopi previsti dall’art. 9 Cedu, cioè
quello di rispondere alle esigenze minime del vivere in società, quale elemento della protezione dei
diritti e delle libertà altrui. Al riguardo, i giudici di Strasburgo affermano che rientra senz’altro tra le
funzioni dello Stato quella di garantire le condizioni che permettono agli individui di vivere insieme
nella loro diversità, interagendo tra loro, e che può comprendersi che uno Stato consideri una forma di
alterazione della propria concezione del vivre ensemble il fatto che taluni possano nascondere il volto
nello spazio pubblico32.
Ne consegue, per la Corte europea, che la restrizione di cui si tratta è giustificata in relazione alla
finalità per la quale è stata prevista e che, considerato l’ampio margine di apprezzamento che va
riconosciuto in questa materia alla Francia33, il divieto in questione è altresì proporzionato in relazione
allo scopo del vivre ensemble quale elemento della protection des droits et libertés d’autrui34, non violando sotto
questo aspetto, dunque, né gli artt. 8 e 9 né l’art. 14 Cedu.
4. La libertà religiosa nella giurisprudenza di Strasburgo
Dal 2001 si è aperta nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo 35 una stagione di conflitti
interpretativi sul velo islamico e sui simboli religiosi36. La sentenza in commento torna sulla tematica
della libertà religiosa e dei suoi limiti, soffermandosi in particolare sui profili individuali del relativo
§ 129.
§ 131.
32 § 141.
33 § 155.
34 § 143-157.
35 Per un’analisi generale della relativa giurisprudenza si veda S. FERRARI, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della
Convenzione europea. Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in Diritto e religione in Europa, cit., 27 e ss. Una lettura
critica di questa giurisprudenza è offerta da J. MARTÍNEZ-TORRÓN, La (non) protezione dell’identità religiosa
dell’individuo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in Diritto e religione in Europa, cit., 55 e ss.
36 M. VENTURA, La virtù della giurisdizione europea sui conflitti religiosi, in Diritto e religione in Europa, cit., 335; D.
TEGA, Cercando un significato europeo di laicità: la libertà religiosa nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti, in
Quaderni costituzionali, 4/2010, 799 e ss.
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diritto37. Come è stato osservato, la questione dell’ostensione dei simboli religiosi o dell’abbigliamento
religiosamente caratterizzato rappresenta la punta dell’iceberg di un difficile bilanciamento fra il quantum
di laicità richiesto ad uno Stato secolare38 e le domande sociali di inclusione delle forme di espressione
delle diversità culturali, religiose ed etniche nella sfera pubblica39. In sintesi, si tratta del rapporto tra la
neutralità statale e le appartenenze identitarie di tipo religioso nelle società democratiche pluraliste e
multiculturali40, nelle quali il problema giuridico principale consiste nel ricercare un punto di equilibrio
tra la tutela del “diritto alla diversità” e le esigenze della maggioranza41.
P. CONSORTI, Diritto e religione, Laterza, Roma-Bari, 2014, X, rileva che nella vita concreta il diritto si
incontra con la volontà di ciascuno di autodeterminarsi, di essere se stesso, e questo dà luogo ad un
insopprimibile incontro tra la dimensione etica che contrassegna la vita di tutti e le regole che il diritto impone.
38 Sul processo di secolarizzazione dello Stato si veda E.-W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. Dallo
Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. PRETEROSSI, Laterza, Roma-Bari, 2007; C. TAYLOR, A Secular Age,
Harvard University Press., Cambridge, MA, 2007, trad. it. L’età secolare, Feltrinelli, Milano, 2009; G.
MARRAMAO, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Bollati Boringhieri, Torino, 2005; A. BARBERA, Il
cammino della laicità, in Laicità e diritto, a cura di S. CANESTRARI, Bononia University Press, Bologna, 2007; e in
www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/nuovi%20pdf/Paper/0036_barbera.pdf.
Si
rinvia
anche
all’interessante dibattito tra J. HABERMAS e C. TAYLOR, Il posto della religione nella sfera pubblica, in Micromega,
1/2013, 41 e ss.
39 A. MADERA e N. MARCHEI, Simboli religiosi «sul corpo» e ordine pubblico nel sistema giuridico turco: la sentenza
«Ahmet Arslan e altri c. Turchia» e i confini del principio di laicità, in Diritto e religione in Europa, cit., 117. Ad esempio,
l’uso da parte di donne musulmane del foulard islamico ha dato origine, anche in Italia, a «frizioni con i datori di
lavoro e ad atteggiamenti di radicalizzazione identitaria da entrambe le parti»: A. DE OTO, L’osservanza di precetti
religiosi in ambito lavorativo, in S. DOMIANELLO (a cura di), Diritto e religione in Italia, Rapporto nazionale sulla
salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, Il Mulino, Bologna, 2012, 194. Al
riguardo M. MASSARI, Musulmane e «moderne». Spunti di riflessione su donne, islam e costruzioni sociali della modernità, in
Rassegna italiana di sociologia, 3/2014, 556, osserva che le donne musulmane, «con la loro evidenza corporea oltre
che simbolica, sembrano occupare un posto emblematico all’interno di narrazioni e pratiche dove la questione
dei simboli religiosi è divenuta il nodo politico cruciale delle tensioni tra islam e Occidente, musulmani e culture
politiche europee». Inoltre (564): «Sia che venga inteso come un marcatore di modestia e di devozione religiosa,
o un elemento dell’abbigliamento in grado di esprimere l’identità sociale, economica e culturale di chi lo indossa,
o ancora l’espressione di un moderno stile islamico transnazionale, il velo emerge come “uno dei più significativi
terreni simbolici delle tensioni legate al farsi spazio dell’islam in Europa”» (nell’ultimo virgolettato l’A. ult. cit.
riprende le parole di R. SALIH, Musulmane rivelate. Donne, islam, modernità, Carocci, Roma, 2008, 143). L.
MANCINI, Simboli religiosi e conflitti nelle società multiculturali, in E. DIENI, A. FERRARI, V. PACILLO (a cura di),
I simboli religiosi tra diritto e culture, Milano, Giuffrè, 2006, 3, rileva che i simboli religiosi rappresentano strumenti di
comunicazione che esplicitano non solo una appartenenza religiosa, ma anche una identità culturale.
40 Peraltro, come nota P. CONSORTI, Diritto e religione, cit., 51, anche le religioni si presentano oggi, al loro
interno, in maniera “plurale”, come accade per il Cristianesimo, l’Islam, l’Ebraismo o il Buddismo.
41 Cfr. ancora P. CONSORTI, Diritto e religione, cit., 251. Come è stato osservato, in un’Europa progressivamente
divenuta multiculturale i problemi di libertà assumono un taglio nuovo: A. BARBERA, Prefazione, in M.
CARTABIA (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Il Mulino,
Bologna, 2007, 9.
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L’art. 9 Cedu garantisce sia la libertà di religione42 (il c.d. “foro interno”: «Ogni persona ha diritto alla
libertà […] di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo»), sia le relative forme di
manifestazione (c.d. “foro esterno”: «tale diritto include […] la libertà di manifestare la propria religione o il
proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e
l’osservanza dei riti», incluso il diritto di fare proselitismo 43 e quello di portare un abbigliamento in
conformità a precetti religiosi44)45.
Se il foro interno si sostanzia in un diritto soggettivo assoluto e non suscettibile di alcuna
restrizione46, le forme di manifestazione della libertà di religione (foro esterno) possono invece subire
delle limitazioni, alle condizioni stabilite dall’art. 9, comma 2, Cedu47: «La libertà di manifestare la propria
religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che
costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute
o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui». Occorre quindi verificare come
conciliare la tutela assoluta del foro interno con la tutela (solo) relativa del foro esterno.
La soluzione non può essere univoca. Essa dipende, infatti, da come viene affrontata la questione
della compatibilità dei simboli religiosi48 negli spazi pubblici di una «società democratica» 49 e, più in
generale, dello spazio da riconoscere alla libertà religiosa in Europa50.
Nell’ordinamento italiano, come precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 334 del 1996, «Gli artt.
2, 3 e 19 della Costituzione garantiscono come diritto la libertà di coscienza in relazione all'esperienza religiosa.
Tale diritto, sotto il profilo giuridico-costituzionale, rappresenta un aspetto della dignità della persona umana,
riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2. Esso spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti,
siano essi atei o agnostici». Sul piano internazionale si richiamano l’art. 18 della Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo (1948); l’art. 18 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (1966), ratificato con
legge 25 ottobre 1977, n. 881; e l’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000).
43 Con il limite dei mezzi abusivi o fraudolenti utilizzati per raggiungere tale finalità: Kokkinakis c. Grecia, cit., ed
anche Larissis e altri c. Grecia, 24 febbraio 1998 (n. 23372/94, n. 26377/94 e n. 26378/94).
44 Cfr. F. MINUTOLI, L’abbigliamento indossato in conformità a precetti religiosi nei luoghi pubblici, in Diritto e religione in
Italia, cit., 233.
45 Sul rapporto tra la libertà di religione e la libertà di espressione cfr. C. SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà
di espressione e della libertà di religione: conflitti e sinergie attraverso il prisma del principio di laicità, in Quaderni di diritto e
politica ecclesiastica, 1/2008, 67 e ss.
46 Saniewsky c. Polonia, 26 giugno 2001 (n. 40319/98).
47 Cfr. J. MARTÍNEZ-TORRÓN, La (non) protezione dell’identità religiosa dell’individuo nella giurisprudenza della Corte di
Strasburgo, in Diritto e religione in Europa, cit., 58-59.
48 Su cui si veda, in generale, E. DIENI, A. FERRARI, V. PACILLO (a cura di), I simboli religiosi tra diritto e culture,
cit.; R. BIN – G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI, La laicità crocifissa. Il nodo costituzionale dei
simboli religiosi nei luoghi pubblici, Giappichelli, Torino, 2004; S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere.
Laicità e religione alla prova del pluralismo, Cedam, Padova, 2008; S. FERRARI, I simboli religiosi nello spazio pubblico, in
Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2/2012, 317 e ss. Oltre al niqab e al burqa, altre forme di velatura islamica
sono rappresentate dal chador (indica sia un velo sulla testa, che lascia scoperto il viso, sia un mantello su tutto il
corpo) e dal hijab (foulard che copre i capelli e il collo della donna, lasciando scoperto il viso). Tra i simboli
religiosi maschili si richiamano la shashia islamica, la kippah ebraica, il turbante ed il pugnale ricurvo (kirpan) sikh.
42
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In questa materia il margine di apprezzamento 51 riservato agli Stati gioca un ruolo fondamentale:
l’applicazione delle norme convenzionali, infatti, deve tener conto delle diversità sociali e culturali dei
vari paesi 52 , ai quali è riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo un grado di
discrezionalità sul modo in cui i diritti e le libertà garantiti dalla Cedu trovano applicazione a livello
nazionale, tenendo conto delle relative e particolari circostanze e condizioni53. Ciò vale soprattutto –
Come osservato da P. CONSORTI, Diritto e religione, cit., 36, i confini dello spazio religioso appaiono sempre
più mobili e seguono quelli di una società che, nel suo complesso, riprendendo la terminologia di un noto
sociologo, appare sempre più “liquida” (Z. BAUMAN, Liquid Modernity, Cambridge, 2000, trad. it. Modernità
liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002).
50 Peraltro, ai sensi dell’art. 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), non esiste un
modello comune europeo di relazioni tra poteri pubblici e confessioni religiose: L. DE GREGORIO e M.
RODRÍGUEZ BLANCO, Fede, identità religiosa e formazione universitaria nel caso «Leyla Şahin c.Turchia», in Diritto e
religione in Europa, cit., 285. Per una lettura critica dell’art. 17 TFUE cfr. M. VENTURA, L’articolo 17 TFUE come
fondamento del diritto e della politica ecclesiastica dell’Unione europea, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2/2014, 293
e ss. Sulle problematiche del diritto ecclesiastico europeo, con riguardo sia alla dimensione dei rapporti tra Stato
e confessioni religiose, sia alla libertà di religione, cfr. I.C. IBÁN, Europa, diritto, religione, Il Mulino, Bologna,
2010.
51 Il margine di apprezzamento «ha assunto gradualmente una portata più estesa, correlata all’esigenza dei singoli
Stati di mantenere una propria specificità nelle modalità di bilanciamento fra diritti individuali e interessi
pubblici»: così A. MADERA e N. MARCHEI, Simboli religiosi «sul corpo» e ordine pubblico nel sistema giuridico turco: la
sentenza «Ahmet Arslan e altri c. Turchia» e i confini del principio di laicità, in Diritto e religione in Europa, cit., 123. Sulla
dottrina del margine di apprezzamento si veda P. TANZARELLA, Il margine di apprezzamento, in M. CARTABIA
(a cura di), I diritti in azione: università e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, cit., 145 e ss., la quale
osserva (179) che la discrezionalità concessa agli Stati occupa un posto ben preciso nel sistema multilivello della
tutela dei diritti umani, tenuto conto del ruolo sussidiario che la Cedu ricopre sul piano sovranazionale. Sulla
tutela multilivello si veda M. CARTABIA, La tutela multilivello dei diritti fondamentali, 2014, in
www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/RI_Cartabia_santiago2014.pdf. Per un esempio di utilizzazione
del margine di apprezzamento da parte della Corte costituzionale italiana si veda la sentenza n. 264 del 2012 e
l’ordinanza n. 10 del 2014; in dottrina cfr., in senso critico, C. CINELLI, Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte
costituzionale italiana e margine di apprezzamento, in Riv. dir. int., 3/2014, 787 e ss. Sui rapporti tra ordinamento
interno e ordinamenti sovranazionali e internazionali cfr. E. LAMARQUE, Le relazioni tra l’ordinamento nazionale,
sovranazionale e internazionale nella tutela dei diritti, in Dir. pubb., 3/2013, 727 e ss. Per un’applicazione dei c.d.
“controlimiti” si veda Corte cost., sentenza n. 238/2014.
52 La “dottrina” del margine di apprezzamento, come osservano F. DONATI e P. MILAZZO, La dottrina del
margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, in
http://archivio.rivistaaic.it/materiali/convegni/copanello020531/donatimilazzo.html, «tende a conciliare aspetti
apparentemente contraddittori come l’uniforme applicazione della Convenzione ed il rispetto delle diversità
statali. Tali diversità possono essere di natura sociale e culturale (si pensi alle differenze tra paesi mediterranei e
paesi del nordeuropa, o fra paesi cattolici, protestanti, di confessione ortodossa, musulmani), di natura
economica (si pensi alle differenze tra i paesi occidentali, strettamente legati al modello capitalista di sviluppo, e
paesi dell’Europa centro-orientale, in fase di transizione da regimi ad economia pianificata), di natura politica (si
pensi ai paesi di tradizione democratica ed, ancora una volta, i paesi dell’Est europeo, recentemente fuoriusciti da
sistemi socialisti) ma anche - e forse soprattutto - di natura giuridica».
53 Cfr. Y. ARAI-TAKAHASHI, The defensibility of the margin of appreciation doctrine in the ECHR: value-pluralism in the
European integration, in Revue Européenne de Droit Public, 2001, 1162 ss.; secondo MACDONALD R. ST. J., The
margin of appreciation in the jurisprudence of the European Court of Human Rights, in Collected Courses Of the Academy Of
European Law, 1992, 95 ss., la dottrina del margine di apprezzamento individua l’approccio seguito dalla Corte
europea nel bilanciare la sovranità degli Stati con i loro obblighi discendenti dalla Cedu.
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come per la problematica in esame – quando si tratti di questioni particolarmente controverse o
complesse, in ordine alle quali non si riscontra una posizione condivisa tra tutti gli Stati aderenti alla
Cedu54. Come affermato dalla Corte di Strasburgo, infatti, quando si tratta di questioni che coinvolgono
i rapporti tra lo Stato e le religioni, sulle quali possono esistere forti divergenze in una società
democratica, occorre prendere atto che non è possibile avvalersi di una concezione uniforme in Europa
del significato della religione nella società e il senso o l’impatto di atti corrispondenti all’espressione
pubblica di una convinzione religiosa non sono gli stessi secondo le epoche e i contesti; per questi
motivi la regolamentazione in materia può variare da paese a paese in funzione delle tradizioni
nazionali e delle esigenze imposte dalla protezione dei diritti e delle libertà altrui e dall’ordine
pubblico55.
Si comprende, quindi, come sia possibile che la Corte europea, pur giudicando le controversie sulla
base dell’identico parametro offerto dall’art. 9 Cedu, abbia un approccio differente sulla materia dei
simboli religiosi, valutando caso per caso e ispirando le proprie decisioni ad un prudente pragmatismo,
nonché prendendo atto dei differenti modelli di laicità nell’esperienza contemporanea56. Si pensi a paesi
come la Francia 57 e la Turchia 58 , gli unici due Stati del Consiglio d’Europa le cui Costituzioni
Cfr. C. EVANS, Individual and Group Religious Freedom in the European Court of Human Rights: Cracks in the
Intellectual Architecture, in Journal of Law and Religion, 26, 2010-2011, 323-333, la quale osserva che il margine di
apprezzamento svolge un delicato ruolo nel contenzioso portato davanti ai giudici di Strasburgo ed è spesso
utilizzato per rinviare agli Stati le decisioni in materie particolarmente controverse o complesse, specie quando si
ravvisa un basso livello di consenso tra gli Stati stessi su una specifica questione. Tra le decisioni più note della
Corte Edu sul margine di apprezzamento si richiama quella relativa al caso Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre
1976, nella quale si evidenzia che non è possibile rinvenire nelle legislazioni nazionali degli Stati membri un
concetto uniforme (ed europeo) di morale; quest’ultima varia nel tempo ed è diversa da luogo a luogo. Pertanto,
in ragione del loro diretto e continuo contatto con le forze vitali della società, gli Stati si trovano in una better
position rispetto ai giudici internazionali quando si tratti di stabilire quali siano gli esatti contenuti della morale.
55 Leyla Şahin c. Turchia, Grande Camera, 10 novembre 2005, § 109.
56 Su cui v. P. CAVANA, Modelli di laicità nelle società pluraliste. La questione dei simboli religiosi nello spazio pubblico, in
www.olir.it/areetematiche/73/documents/cavana_campobasso.pdf, 2005.
57 M. CIRAVEGNA, Il velo islamico «sferra un nuovo attacco» alla laicità francese: i casi «Mme X c. Caisse primaire
d’assurance maladie de Seine-Saint-Denis» e «Mme Fatima X c. Association Baby Loup», in Quaderni di diritto e politica
ecclesiastica 2/2014, 361, osserva che in Francia l’abbigliamento religioso è letto come un attacco alla laicità dello
Stato; per questo sono stati introdotti una serie di divieti puntuali alla libertà religiosa dei cittadini, costringendoli
ad arrestare le manifestazioni di fede quando varcano la soglia della propria abitazione privata o del luogo di
culto. Nello stesso senso A. FORNEROD, Les «affaires de burqa» en France, cit., 69, per il quale l’ostentazione di
simboli religiosi è ritenuta una chiara aggressione ai valori che garantiscono la coesione della Nazione. Per A.
MORELLI, Simboli, religioni e valori negli ordinamenti democratici, in E. DIENI, A. FERRARI, V. PACILLO (a cura
di), I simboli religiosi tra diritto e culture, cit., 98, in Francia vige una sorta di «sacralizzazione laica» dello spazio
pubblico. Per un’analisi di un recente caso giurisprudenziale, oltre a M. CIRAVEGNA, op. ult. cit., cfr. P.
DELVOLVE, Entreprise privée, laïcité, liberté religieuse L’affaire Baby-Loup, in Revue française de droit administratif, 2014,
954 e ss.
58 In Turchia il principio di laicità, secondo la Corte costituzionale turca, 16 gennaio 1998, n. 1998/1, regola la
vita sociale, l’istruzione, la famiglia, l’economia, il diritto, le maniere, i codici di comportamento, assurgendo a
54
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proclamano il principio di laicità dello Stato: nei loro confronti la Corte Edu, tenendo conto della
particolarità istituzionale e del relativo contesto storico, culturale, politico e religioso, ha ritenuto
legittimi i divieti di indossare simboli religiosi a scuola o nelle istituzioni pubbliche59, accettando così
che il pluralismo possa essere subordinato al principio di laicità 60 . In altri termini, a seconda della
specificità del contesto, un simbolo religioso quale il velo islamico può essere considerato una semplice
manifestazione esteriore della propria fede religiosa61 oppure un simbolo dell’Islam politico, portatore di
una visione contraria alle libertà delle donne e ai principi fondamentali di uno Stato laico62.
Al contrario, il margine di apprezzamento applicato nel contesto italiano porta a valutare
diversamente la compatibilità dei simboli religiosi con il principio di laicità63. Il riferimento, in questo
ideologia e filosofia di vita e risultando propulsivo fattore di coesione sociale contro pericolosi influssi
destabilizzanti: così A. MADERA e N. MARCHEI, Simboli religiosi «sul corpo» e ordine pubblico nel sistema giuridico
turco: la sentenza «Ahmet Arslan e altri c. Turchia» e i confini del principio di laicità, in Diritto e religione in Europa, cit., 119.
Sulla laicità in Turchia si veda anche D. TEGA, La laicità turca alla prova di Strasburgo, in Diritto pubb. comp. ed eur.,
1/2005, 289.
59 Leyla Şahin c. Turchia, cit., secondo cui il divieto di indossare il velo islamico all’università non costituisce
misura discriminatoria nei confronti delle donne islamiche che desiderano indossarlo in ragione delle proprie
convinzioni religiose: come osservato da J. MARTÍNEZ-TORRÓN, La (non) protezione dell’identità religiosa
dell’individuo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, cit., 61, è una visione restrittiva del principio di non
discriminazione, giustificata dall’ampio margine di apprezzamento riconosciuto ai singoli Stati nel determinare il
contenuto dei diritti garantiti dalla Convenzione, così come la misura della loro limitazione. In altri termini, per
la Corte europea il divieto è giustificato dall’esigenza di proteggere il principio costituzionale di laicità, concepito
come garanzia della democrazia e salvaguardia contro ogni espansione del fondamentalismo islamico in Turchia.
Si veda anche il commento di D. TEGA, La Corte di Strasburgo torna a pronunciarsi sulla questione del velo islamico. Il
caso Şahin v. Turchia, in Quaderni costituzionali, 4/2004, 846. V. anche Dahlab c. Svizzera, 15 febbraio 2001 (n.
42393/98), su cui M. CIRAVEGNA, La nozione di «segno esteriore forte» tra problemi di definizione e presunzione di
lesività: la sentenza «Dahlab c. Svizzera», in Diritto e religione in Europa, cit., 141 e ss. Per la Francia: Dogru c. Francia (n.
27058/05) e Kervanci c. Francia (n. 31645/04), entrambe le decisioni (gemelle) del 4 dicembre 2008. In queste due
sentenze la Corte europea, sottolineando la portata del principio di laicità e l’esigenza di preservare il clima di
neutralità all’interno delle strutture scolastiche per tutelare i diritti di tutti coloro che vi operano, afferma che la
misura disciplinare (espulsione) adottata dalla scuola nei confronti di due alunne che si erano rifiutate di togliere
il velo durante l’ora di educazione fisica era giustificata alla luce del principio di proporzionalità. Successivamente
in termini pressoché identici v. Aktas c. Francia (n. 43563/08); Bayrak c. Francia (n. 14308/08); Gamaleddyn c.
Francia (n. 18527/08); Ghazal c. Francia (n. 29134/08); Jasvir Singh c. Francia (n. 25463/08); Ranjit Singh c. Francia
(n. 27561/08); tutte queste decisioni sono state emesse il 30 giugno 2009.
60 Cfr. P. VOYATZIS, Pluralismo e libertà di religione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto
e religione in Europa, cit., 111, il quale osserva che in questi paesi la messa in pericolo del principio di laicità può
pregiudicare il grado complessivo di pluralismo del sistema politico-sociale.
61 In tal senso, ad esempio, con riferimento al velo indossato a scuola da un’insegnante, si è di recente
pronunciato il Bundesverfassungsgericht: si veda la notizia riportata da D. TAINO nel Corriere della Sera del 14 marzo
2015, pag. 17, Germania, le insegnanti potranno indossare il velo a scuola, con breve commento di M. VENTURA, Islam
più visibile oltre il verdetto. E Francia più sola.
62 Si veda in tal senso il Consiglio di Stato turco, 13 dicembre 1984, richiamato al § 37 della sentenza Leyla Şahin
c. Turchia, cit.
63 La Corte costituzionale, nella sentenza 12 aprile 1989, n. 203, ha affermato che «il principio supremo della
laicità dello Stato […] è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica».
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caso, è al noto caso Lautsi64, relativo alla presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: se quindi la
tradizione laica della Francia o della Turchia giustifica il divieto dei simboli religiosi, la tradizione
cattolica dell’Italia65 giustifica l’obbligo di esposizione del crocifisso66 (a costo, tuttavia, di svuotarlo di
La Corte ha precisato che «Il principio di laicità […] implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma
garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e
culturale». Allo Stato, come successivamente precisato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 334 del 1996,
«spetta […] il compito di garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo
ambito, della libertà di religione». Il principio supremo di laicità caratterizza «in senso pluralistico la forma del
nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse» (Corte
cost., sentenza n. 508 del 2000). Si rinvia a L. MUSSELLI – C. BIANCA CEFFA, Libertà religiosa, obiezione di
coscienza e giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, Torino, 2014; V. PUGLIESE, Il principio di laicità nella
giurisprudenza costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2010. Tuttavia, anche per la presenza del Concordato e di una
normativa che, fino ad oggi, indubbiamente privilegia la Chiesa cattolica rispetto alle altre confessioni, laicità nel
nostro ordinamento non significa eguaglianza di trattamento delle confessioni religiose o, come in Francia,
irrilevanza della religione nella sfera giuridica e pubblica, ma solo chiara e leale distinzione tra ambito religioso e
ambito civile: cfr. in tal senso L. MUSSELLI, Diritto e religione in Italia ed in Europa. Dai Concordati alla problematica
islamica, Giappichelli, Torino, 2011, 151. Sulla laicità, tra i numerosissimi contributi, cfr. A. BARBERA, Il
cammino della laicità, cit.; nonché Id., La laicità come metodo, in www.pietroichino.it/?p=12926, 2011; S. PRISCO,
Laicità, in Dizionario di diritto pubblico diretto da S. CASSESE, Giuffrè, Milano, 2006, IV, ad vocem; F. RIMOLI,
Laicità (dir. cost.), in Enc. giur., 1995, vol. XVIII; S. FERRARI, Laicità dello Stato e pluralismo delle religioni, in Sociologia
dir., 2/2006, 5 e ss.; P. BELLINI, Il diritto d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità, Giappichelli, Torino, 2007;
B. RANDAZZO, Diversi ed eguali. Le confessioni religiose davanti alla legge, Giuffrè, Milano, 2008. Sul complesso dei
problemi pratici che comporta la laicità in Italia si veda S. DOMIANELLO (a cura di), Diritto e religione in Italia.
Rapporto nazionale sulla salvaguardia della libertà religiosa in regime di pluralismo confessionale e culturale, Il Mulino, Bologna,
2012. Sul rapporto tra laicità e simboli religiosi in Italia si vedano, inoltre, i contributi di J. PASQUALI
CERIOLI, Laicità dello Stato ed esposizione del crocifisso nelle strutture pubbliche; C. MARTINELLI, La questione del
crocifisso tra esperienza giurisprudenziale e intervento parlamentare; N. FIORITA, Il crocifisso: da simbolo confessionale a simbolo
neo-confessionista, in E. DIENI, A. FERRARI, V. PACILLO (a cura di), I simboli religiosi tra diritto e culture, cit., 179 e
ss.
64 Lautsi c. Italia, 3 novembre 2009 (n. 30814/2009); 18 marzo 2011 (Grande Camera). Al riguardo si vedano, ex
plurimis, P. ANNICCHINO, Tra margine di apprezzamento e neutralità: il caso «Lautsi» e i nuovi equilibri della tutela
europea della libertà religiosa, in Diritto e religione in Europa, cit., 179 e ss.; F. LA CAMERA, Il diritto ad esporre simboli
religiosi negli spazi pubblici, in Diritto e religione in Italia, cit., 215 e ss.; R. DICKMANN, Il giudice e il crocifisso, in
federalismi.it, n. 10/2010.
65 Secondo l’art. 9, comma 2, dell’accordo di modifica dei Patti Lateranensi, firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e
ratificato dalla legge 25 marzo 1985, n. 121, i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del
popolo italiano e la Repubblica riconosce il valore della cultura religiosa.
66 S. FERRARI, La Corte di Strasburgo e l’articolo 9 della Convenzione europea. Un’analisi quantitativa della giurisprudenza,
in Diritto e religione in Europa, cit., 52-53. Sul significato del crocifisso si richiamano alcune pronunce dei giudici
amministrativi: per il Consiglio di Stato, sez. II, parere 27 aprile 1988, n. 63, il crocifisso (o la croce) «a parte il
significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della cultura cristiana, nella sua radice storica,
come valore universale, indipendente da specifica confessione religiosa»; per il Tar Veneto, sentenza 17 marzo
2005, n. 1110, il crocifisso, oltre ad essere un simbolo religioso, è anche «un simbolo storico – culturale, e di
conseguenza dotato di una valenza identitaria riferita al nostro popolo; […] esso indubbiamente rappresenta in
qualche modo il percorso storico e culturale caratteristico del nostro Paese e in genere dell’Europa intera e ne
costituisce un’efficace sintesi»; per il Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 13 febbraio 2006, n. 556, «in Italia, il
crocifisso è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di
tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla
sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni
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contenuto significante dal punto di vista religioso, visto che per la Corte europea si tratta di un
“simbolo passivo”67).
Dunque, anche in un contesto normativo e di valori tendente all’omogeneità, quale quello
europeo68, il diritto – almeno nelle sue applicazioni concrete – si modella diversamente a seconda dei
luoghi69. Pur essendo sempre in presenza di «società democratiche» – nelle quali non possono non
essere presenti pluralismo, tolleranza e spirito di apertura 70 – le norme convenzionali sulla libertà
religiosa, nonostante la loro vocazione universalistica comune anche agli altri diritti umani
fondamentali71, sono adattate in relazione alle peculiarità culturali, sociali, politiche e giuridiche su cui
ciascun ordinamento costituzionale si fonda72: come è stato ben scritto, «[l]e questioni che riguardano la
convivenza fra culture diverse – ed in primis quelle legate alla laicità e alla libertà di religione –
riguardano ogni uomo e sorgono in ogni gruppo sociale, eppure hanno trovato risposte diverse nel
corso della storia e anche oggi sono affrontate secondo tradizioni peculiari in ciascuno degli
discriminazione, che connotano la civiltà italiana […] Il richiamo, attraverso il crocifisso, dell’origine religiosa di
tali valori e della loro piena e radicale consonanza con gli insegnamenti cristiani, serve dunque a porre in
evidenza la loro trascendente fondazione, senza mettere in discussione, anzi ribadendo, l’autonomia (non la
contrapposizione, sottesa a una interpretazione ideologica della laicità che non trova riscontro alcuno nella
nostra Carta fondamentale) dell’ordine temporale rispetto all’ordine spirituale, e senza sminuire la loro specifica
“laicità”, confacente al contesto culturale fatto proprio e manifestato dall’ordinamento fondamentale dello Stato
italiano […] [il crocifisso è] un simbolo idoneo ad esprimere l’elevato fondamento dei valori civili sopra
richiamati, che sono poi i valori che delineano la laicità nell’attuale ordinamento dello Stato».
67 Lautsi ed altri c. Italia, Grande Camera, 18 marzo 2011, § 72.
68 In generale, sul piano del processo di integrazione europea e sul rapporto tra tradizioni costituzionali comuni e
identità nazionali, cfr. da ultimo T. CERRUTI, Valori comuni e identità nazionali nell’Unione europea: continuità o
rottura? in federalismi.it, n. 24/2014, 24 dicembre 2014; G. CAPONI, V. CAPUOZZO, I. DEL VECCHIO, A.
SIMONETTI, Omogeneità costituzionale europea e identità nazionali: un processo di integrazione circolare tra valori
costituzionali europei e teoria dei controlimiti, ivi, 24 dicembre 2014; M. CONDINANZI, L’Unione europea tra integrazione
e differenziazione, in federalismi.it, 11 marzo 2015. Sul diritto dell’integrazione europea quale diritto di origine anche
giurisprudenziale v. N. ZANON (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte Costituzionale italiana.
Avvicinamenti, dialoghi, dissonanze, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2006.
69 Il diritto ha sempre bisogno del “dove”: N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari,
2001, 1.
70 Handyside c. Regno Unito, 7 dicembre 1976, § 49.
71 Sulla problematica dei diritti umani v. A. CASSESE, I diritti umani oggi, Laterza, Roma-Bari, 2005.
72 Si tratta, in altri e più sintetici termini, della ricerca del difficile equilibrio tra universalità e pluralismo dei diritti
fondamentali: cfr. M. CARTABIA, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione europea, in M. CARTABIA (a cura di), I
diritti in azione, cit., 63; nonché Id, L’universalità dei diritti umani nell’età dei “nuovi diritti”, in Quaderni costituzionali,
3/2009, 556, secondo cui i diritti fondamentali sono posti al crocevia tra universalità e storia: «Radicata nel
valore della dignità umana, l’idea dei diritti fondamentali contiene necessariamente una dimensione universale.
Radicata nelle specificità religiose, morali, linguistiche e politiche di ogni popolo, l’applicazione concreta di tali
diritti avviene all’insegna della particolarità e del pluralismo». Nel senso che i diritti fondamentali, riconosciuti
come universali, trovino la loro concreta promozione e protezione secondo le particolarità nazionali e regionali e
i diversi contesti storici, culturali, ed economici, cfr. anche il paragrafo 5 della dichiarazione Onu
A/Conf.157/23, adottata il 25 giugno 1993 dalle Nazioni Unite.
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ordinamenti europei» 73 . Resta comunque fermo che «[l]a sfida della Corte Edu […] è quella di
assicurare più di un contenuto minimo ai diritti, nel rispetto della diversità nazionale e della sua natura
sussidiaria»74, consolidando nel tempo le basi dello ius commune europeo dei diritti fondamentali75.
5. Religioni e dialogo interculturale
Il fenomeno religioso è causa di potenziali conflitti sociali 76, come del resto accade sempre più
spesso nelle società multiculturali e multireligiose di tipo “occidentale” interessate da una forte
immigrazione dai paesi più poveri77: in esse, infatti, si mescolano «individui e popoli, la cui identità è
largamente definita anche da fattori di ordine religioso» 78 . La strada migliore per superare questi
contrasti ed evitare uno “scontro di civiltà”79 – evento che probabilmente è auspicato dall’islamismo
radicale, la cui ideologia dà sostegno alle azioni terroristiche compiute contro i simboli di diverse
culture80 – sembra essere quella indicata anche dal Consiglio d’Europa: è necessario un fecondo dialogo
interculturale, per vivere insieme in pari dignità in un contesto di diversità culturale crescente
M. CARTABIA, L’ora dei diritti fondamentali nell’Unione europea, in M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione, cit., 60.
D. TEGA, I diritti in crisi. Tra Corti nazionali e Corte europea di Strasburgo, Giuffrè, Milano, 2012, 112.
75 G. SILVESTRI, Verso uno ius commune europeo dei diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali, 2006, 24.
76 Cfr. L. BOLLINGER, The Tolerant Society, Oxford University Press, New York-Oxford, 1986, trad. it. La società
tollerante, Giuffrè, Milano, 1992, 187, il quale – nell’osservare che la fede religiosa contiene una potenziale carica
di aggressività e addirittura di intolleranza – rileva che negli Stati Uniti la potenziale conflittualità del culto è stata
arginata allontanando la religione dal dibattito pubblico, trasformandola in una questione privata.
77 Sulla distinzione tra pluralismo e multiculturalismo cfr. G. SARTORI, Pluralismo, multiculturalismo e estranei.
Saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano 2000.
78 S. PRISCO, Laicità, cit., 3336.
79 Secondo quanto teorizzato da S.P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order,
Simon & Schuster, New York, 1996, trad. it. di E. Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti,
Milano, 2000.
80 Ci si riferisce, da ultimo, alle efferate azioni compiute da terroristi islamici a Parigi tra il 7 ed il 9 gennaio 2015
contro la sede del settimanale satirico Charlie Ebdo ed un supermercato kosher. In un colloquio telefonico con il
Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, il Presidente della Repubblica francese, François
Hollande, ha evidenziato «la stringente necessità di non cadere nell’insidioso tranello, sotteso nella retorica degli
stessi movimenti integralisti e costituito dalla semplicistica e del tutto erronea identificazione tra lotta al
terrorismo e scontro tra civiltà» (fonte: comunicato della Presidenza della Repubblica, 10 gennaio 2015, in
www.quirinale.it). A sua volta, il Presidente Napolitano ha sostenuto che occorre «far fallire il disegno dello
scontro di civiltà e di far invece avanzare la prospettiva del dialogo tra civiltà» (M. Breda, Napolitano: uniti per
battere chi vuole lo scontro di civiltà, in Corriere della Sera, 12 gennaio 2015, 5). Nel discorso pronunciato davanti al
Parlamento in seduta comune in occasione del giuramento quale Presidente della Repubblica (3 febbraio 2015),
Sergio Mattarella ha affermato che «La pratica della violenza in nome della religione sembrava un capitolo da
tempo chiuso dalla storia. Va condannato e combattuto chi strumentalizza a fini di dominio il proprio credo,
violando il diritto fondamentale alla libertà religiosa. Considerare la sfida terribile del terrorismo fondamentalista
nell’ottica dello scontro tra religioni o tra civiltà sarebbe un grave errore» (in www.quirinale.it). Cfr. anche G.
ZAGREBELSKY, Le risposte dell’Occidente oltre lo scontro di civiltà, in la Repubblica, 12 gennaio 2015, 14; nonché
l’intervista di F. Gambaro al filosofo e storico Tzvedan Todorov, in la Repubblica, 8 gennaio 2015, 15. Si veda
inoltre C. SBAILÒ, Dopo la strage di Parigi. Appunti per un dialogo tra giuristi, in federalismi.it, 28 gennaio 2015.
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rispettando al tempo stesso i diritti umani e le libertà fondamentali81. Del resto, è stato affermato quale
principio della politica estera dell’Unione europea «il rispetto della diversità culturale e la tolleranza nei
confronti delle diverse concezioni e credenze, unitamente alla lotta contro ogni forma di estremismo e
contro le disuguaglianze», nella prospettiva della «proficua costruzione di un nuovo ordine
internazionale fondato su valori democratici universalmente condivisi»82.
Il compito dello Stato, di fronte ai conflitti religiosi, non consiste nel rimuoverne le cause
eliminando il pluralismo, bensì nell’assicurare che i gruppi tra loro in competizione si tollerino
reciprocamente83. D’altra parte, non ci può essere (vera) democrazia senza pluralismo, come più volte
Libro bianco sul dialogo interculturale. «Vivere insieme in pari dignità», Strasburgo, 7 maggio 2008, in
www.coe.int/t/dg4/intercultural/Source/Pub_White_Paper/WhitePaper_ID_ItalianVersion.pdf .
Sul dialogo interculturale e interreligioso in sede di Consiglio d’Europa si veda G. BELLATTI CECCOLI,
Aspetti giuridici e politici degli «Incontri annuali del Consiglio d’Europa sulla dimensione religiosa del dialogo interculturale», in
Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2/2014, 563 e ss.
82 Parlamento europeo, Risoluzione sulla politica estera dell’Unione europea in un mondo di differenze culturali e religiose, 17
aprile 2014, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 3/2014, 558. Per parte sua, l’Assemblea parlamentare del
Consiglio d’Europa, il 23 giugno 2010 (Risoluzione 1743-2010 e Raccomandazione 1927-2010), ha tra l’altro
invitato le comunità musulmane ad abbandonare ogni tradizionale interpretazione dell’Islam che neghi
uguaglianza di genere e limiti i diritti delle donne, sia in ambito familiare che nella vita pubblica.
Un’interpretazione tradizionale dell’Islam, secondo l’Assemblea del Consiglio d’Europa, non è compatibile con la
dignità umana e gli standard democratici e – anche se fondata su motivi religiosi – sarebbe discriminatoria per le
donne, ponendosi quindi in contrasto con gli articoli 8, 9 e 14 della Cedu, con l’articolo 5 del Protocollo n. 7 e
con il Protocollo n. 12. Questa interpretazione, in altri termini, potrebbe rappresentare una minaccia per la
dignità e la libertà delle donne. Per questo ha esortato gli Stati membri a prendere tutte le misure necessarie per
combattere l’islamismo radicale e l’islamofobia, in quanto nessun relativismo religioso o culturale può essere
invocato per giustificare violazioni contro l’integrità della persona. Nello specifico, l’Assemblea del Consiglio
d’Europa ha rilevato come il velo islamico – soprattutto quello integrale (burqa o niqab) – è spesso percepito
come un simbolo di sottomissione delle donne nei confronti degli uomini, che restringe il ruolo delle prime nella
società, limita la loro vita professionale ed ostacola le loro attività sociali ed economiche. L’Assemblea del
Consiglio d’Europa ha anche osservato che non sarebbe ravvisabile per tutti i musulmani una obbligazione
religiosa di indossare il velo integrale (e neanche il semplice foulard); tuttavia, numerosi musulmani considerano
questa pratica come una tradizione sociale e culturale. Peraltro, il Consiglio d’Europa si è espresso contro un
divieto generalizzato di indossare il burqa e il niqab perché ciò – oltre ad essere potenzialmente controproducente
per le donne, quale fattore di ulteriore esclusione sociale per le eventuali pressioni dei familiari a non uscire di
casa (cfr. anche il point de vue del Commissaire aux droits de l’homme del Consiglio d’Europa: Droits de l’homme en
Europe: la complaisance n’a pas sa place. Points de vue de Thomas Hammerberg, Commissaire aux droits de l’homme du Conseil
de l’Europe, éditions du Conseil de l’Europe, 2011, 44). L’Assemblea ha invitato quindi gli Stati membri ad elaborare
delle politiche mirate a sensibilizzare le donne musulmane sui loro diritti, aiutandole a prendere parte alla vita
pubblica ed offrendo pari opportunità di percorsi lavorativi, al fine di poter conseguire una indipendenza sociale
ed economica. Al riguardo, ha sottolineato l’importanza dell’educazione – ad ogni livello del sistema educativo –
delle giovani musulmane, dei genitori e delle loro famiglie in materia di uguaglianza tra uomo e donna, al fine di
rimuovere ogni tipo di discriminazione.
83 Serif c. Grecia, 14 dicembre 1999 (n. 38178/97). Secondo la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione,
adottata con decreto del Ministero dell’interno 23 aprile 2007, in G.U. n. 137 del 15 giugno 2007, «L’Italia
favorisce il dialogo interreligioso e interculturale per far crescere il rispetto della dignità umana, e contribuire al
superamento di pregiudizi e intolleranza».
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hanno ricordato i giudici di Strasburgo84. Non è possibile (né utile) sterilizzare il pluralismo culturale
anche religioso oggi presente negli spazi pubblici delle società democratiche85.
E così, innanzi tutto, la scuola dovrebbe “lavorare sul conflitto” anziché “negarlo”86, favorendo
l’integrazione mediante un approccio interculturale87 condotto con metodo laico88. La laicità, in questo
senso, andrebbe intesa come tecnica procedurale di regolazione del pluralismo da utilizzare per la
migliore riuscita di un sistema democratico89, come regola per fare coesistere e dialogare fra loro tutte le
fedi e tutte le dottrine, presupposto per la loro comune presenza in una società democratica90.
Resta il fatto che tra democrazia e religione sussiste una relazione controversa, difficile e faticosa91.
In Italia, peraltro, dove sono presenti circa un milione e seicentomila musulmani e solo quattro
Cfr. P. VOYATZIS, Pluralismo e libertà di religione nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Diritto
e religione in Europa, cit., 104: i concetti di pluralismo e di diversità sostanziano la nozione di democrazia, intesa
come unico modello compatibile con la Convenzione.
85 Per A. BARBERA, Il cammino della laicità, cit., non avendo il principio di laicità un contenuto univoco nei vari
ordinamenti, deve convenirsi che la neutralità dello Stato non significa necessariamente neutralizzazione del
fenomeno religioso. Pertanto, come osserva S. MANCINI, La contesa sui simboli: laicità liquida e protezione della
Costituzione, in S. CANESTRARI (a cura di), Laicità e diritto, Il Mulino, Bologna, 2007, 157, se lo Stato deve essere
laico, esso non può però pretendere la laicità dai propri cittadini.
86 A. CARACCIO e A. GIANFREDA, Libertà di coscienza e diritto di dispensa dall’insegnamento religioso nel sistema
scolastico norvegese: il caso «Folgerø e altri c. Norvegia», in Diritto e religione in Europa, cit., 162.
87 P. CONSORTI, Diritto e religione, cit., 256 e ss., il quale ricorda che il termine “intercultura” «è stato
inizialmente utilizzato in ambito pedagogico negli anni Ottanta del secolo scorso per significare l’approccio
relazionale, e non solo multiculturale, che le istituzioni scolastiche avrebbero dovuto mettere in campo per
sostenere l’interazione fra alunni immigrati e nativi». Sulla scuola come istituzione che maggiormente può
incidere nel promuovere integrazione e accoglienza reciproca cfr. M. AMBROSINI, I come Integrazione, M come
Melting Pot. La prima esperienza multietnica è a scuola, in Il Mulino, 5/2014, 780 e ss. Più in generale, sulla necessità di
continuare a costruire l’Europa anche attraverso la dimensione pedagogica si veda A. CRISCENTI GRASSI (a
cura di), Educare alla democrazia europea. Storia e ragioni del progetto unitario, Edizioni della Fondazione Nazionale Vito
Fazio-Allmayer, Palermo, 2009.
88 Sostanzialmente in questi termini si è espresso il Consiglio d’Europa nel 1994, come ricordano A.
CARACCIO e A. GIANFREDA, Libertà di coscienza e diritto di dispensa dall’insegnamento religioso nel sistema scolastico
norvegese: il caso «Folgerø e altri c. Norvegia», cit., 175 (nota 69).
89 In questi termini S. DOMIANELLO, in Diritto e religione in Italia, cit., 8.
90 A. BARBERA, Il cammino della laicità, cit.
91 Così P. CONSORTI, Diritto e religione, cit., 279. Per un’analisi approfondita cfr. F. RIMOLI, Laicità,
postsecolarismo, integrazione dell’estraneo: una sfida per la democrazia pluralista, in Dir. pubb., 2/2006, 335 e ss.; si veda
inoltre S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere, cit., spec. 199 e ss., la quale osserva che «tra religione e
costituzionalismo esiste una tensione strutturale di difficile superamento. Il costituzionalismo rappresenta infatti
un ideale costruito, inter alia, sul ripudio della religione come fonte normativa per lo stato ed il suo apparato
istituzionale, da un lato, e sulla protezione dei diritti fondamentali, tra cui la libertà religiosa, dall’altro. Il
costituzionalismo, quindi, vieta la commistione tra chiesa e stato, ma impone a quest’ultimo di proteggere la
religione. Nessuna moderna democrazia sembra in grado di comporre in modo soddisfacente le tensioni che
scaturiscono da questi due imperativi potenzialmente configgenti» (199). In particolare, sulla relazione e sulla
compatibilità tra la tradizione giuridica occidentale e quella islamica si veda A. PIN, Diritti fondamentali e Islam, in
M. CARTABIA (a cura di), I diritti in azione, cit., 435 e ss.; R. Guolo, L’Islam è compatibile con la democrazia?, Laterza,
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moschee ufficiali 92 , il legislatore tende al disimpegno 93 , con la conseguenza che la gestione del
pluralismo religioso e culturale – in tema di simboli – è di fatto rimesso ai giudici94, le cui pronunce
spesso intervengono su determinazioni amministrative improvvisate95.
Roma-Bari, 2007. Si veda inoltre il numero speciale dedicato all’Islamic Law della rivista European Journal of Law
Reform, vol. 16/2014 (2).
92 Si vedano i dati contenuti nel dossier statistico Unar-Idos 2014, di cui dà notizia V. Polchi, Moschee, tanti cantieri
aperti ma solo 4 luoghi di preghiera ufficiali per un milione e 600 mila musulmani, in www.repubblica.it/solidarieta/dirittiumani/2014/12/09/news/moschee-102473423/?ref=HREC1-13, 9 dicembre 2014, il quale sottolinea l’assenza di
una legge sulla libertà religiosa e la mancanza di un’intesa con il mondo islamico presente nel nostro Paese.
Secondo l’ultimo censimento della polizia (2010) sarebbero presenti 164 moschee non ufficiali e 222 luoghi di
culto. Sull’argomento cfr. L. ZANNOTTI, I luoghi della convivenza religiosa e del pluralismo culturale, in Quaderni di
diritto e politica ecclesiastica, 2010, 1, 75 e ss.
93 Nell’attuale legislatura (XVII) risultano presentati tre disegni di legge che affrontano la problematica del velo
integrale: C 1571, di iniziativa dell’on. Molteni (Lega Nord e autonomie) ed altri, recante “Modifiche all’articolo 5
della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto dell’uso di indumenti o altri oggetti che impediscano
l’identificazione nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, nonché introduzione degli articoli 612-ter del codice
penale e 24-bis della legge 5 febbraio 1992, n. 91, concernenti il delitto di costrizione all’occultamento del volto”;
C 467, di iniziativa dell’on Vaccaro (Pd), recante “Modifica dell’articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152,
concernente il divieto dell’uso di indumenti o altri oggetti che impediscano l’identificazione nei luoghi pubblici o
aperti al pubblico”; C 87, di iniziativa dell’on. Binetti (SCpI) e altri, recante “Modifica dell’articolo 5 della legge
22 maggio 1975, n. 152, in materia di utilizzo di mezzi, anche aventi connotazione religiosa, atti a rendere
irriconoscibile la persona”. Tutti questi disegni di legge sono stati presentati nel 2013, ma ad oggi non ne è
iniziato l’esame. Sui disegni di legge della precedente legislatura (XVI) cfr. A. FERRARI, La lotta dei simboli e la
speranza del diritto (Parte seconda): la guerra «italiana» al «burqa» e al «niqab», in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,
1/2012, 39 e ss. Negli altri paesi europei, come ricorda la stessa Corte Edu, solo il Belgio ha adottato una legge
simile a quella francese: si tratta della legge 1° giugno 2011, entrata in vigore il 23 luglio 2011, visant à interdire le
port de tout vêtement cachant totalement ou de manière principale le visage, che la Cour constitutionnelle (6 dicembre 2012) ha
giudicato compatibile con l’art. 9 della Cedu; cfr. J. VRIELINK, E. BREMS, S. OUALD-CHAIB, Il divieto del
«burqa» nel sistema giuridico belga, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 161 e ss. In Spagna il Tribunale
supremo (6 febbraio 2013, n. 693/2013) si è pronunciato in senso sfavorevole sul divieto di accesso alle aree
municipali o nei luoghi utilizzati per i servizi pubblici disposto dai sindaci nei confronti di coloro che indossano
il velo integrale, il passamontagna, caschi integrali o altri tipi di indumenti o accessori che impediscano
l’identificazione e la comunicazione visiva. Per il Tribunale supremo spagnolo eventuali limitazioni ai diritti
fondamentali possono essere previste solo dalla legge per scopi legittimi e solo se «necessario in una società
democratica». Sulle problematiche del burqa in Spagna cfr. A. MOTILLA, El problema de la utilización de vestimentas
religiosas en el espacio público: el asunto del «burqa» islámico en Espaňa, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012,
133 e ss. In Olanda il Consiglio di Stato si è espresso negativamente su alcuni progetti di legge in materia di
divieto di indossare il velo integrale in pubblico (pareri resi il 21 settembre 2007, 6 maggio 2008, 2 dicembre
2009 e 28 novembre 2011); cfr. A. OVERBEEKE, Verso un divieto generale del «burqa» nei Paesi Bassi? in Quaderni di
diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 107 e ss. Per la Germania v. J. THIELMANN e K. VORHOLZER, Il «burqa»
in Germania: un problema minore, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 211 e ss. Per la Danimarca: L.
CHRISTOFFERSEN, A quest for open helmets. On the Danish «burqua»-affair, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,
1/2012, 193 e ss. Per la Gran Bretagna: M. HILL, Legal and social issues concerning the wearing of the «burqa» and other
head coverings in the United Kingdom, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 83 e ss. Un quadro d’insieme è
offerto da M. TIRABASSI, Alcuni paesi europei a confronto: burqa e spazio pubblico tra leggi e iniziative legislative, in
Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2/2011, 351 e ss.; e da A. IERMANO, Ordinamenti a confronto: casistica europea
in materia di velo islamico, in federalismi.it, 26 settembre 2012.
94 Cfr. A. GUAZZAROTTI, Giudici e Islam. La soluzione giurisprudenziale dei ‘‘conflitti culturali’’, in Studium Iuris, 2002,
871 e ss., il quale propende per la soluzione in via giurisprudenziale dei conflitti culturali anche di tipo religioso.
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6. Conclusioni: il velo islamico integrale nello spazio pubblico è incompatibile con il
principio di fraternité (e con quello di solidarietà)
Come si è visto, la Corte di Strasburgo, nella sentenza in commento, ha ritenuto non contrastante
con l’art. 9 Cedu la Loi n. 2010-1192, riconoscendo alla Francia un ampio margine di apprezzamento e
giustificando la limitazione della libertà di manifestare la religione96 – nel caso di specie esercitato con
l’uso di un particolare abbigliamento – non tanto con riferimento alla dignità o all’uguaglianza o alla
sicurezza pubblica, quanto alle esigenze del vivere insieme, discendenti dal principio di fraternité. La
Corte ha deciso la controversia non sulla base di un’astratta applicazione della norma di riferimento
(art. 9 Cedu) alla fattispecie oggetto di giudizio, ma – in linea con il suo ruolo di giudice del caso
concreto97 – sforzandosi di comprendere il complesso di valori, bisogni e interessi espressi dalla società
francese.
Ma le ragioni che giustificano il divieto del burqa (e del niqab) in Francia possono valere anche per gli
Stati (come l’Italia) caratterizzati non da una laïcité de combat, ma da una laicità aperta? Al di là di ogni
valutazione sull’opportunità di sanzionare penalmente il fatto98 e restando impregiudicate le esigenze di
ordine pubblico e di tutela della dignità delle donne, in tutte le società aperte si può ravvisare un
contrasto con principi quali la fraternità o la solidarietà nel comportamento di chi indossa il velo
Cfr. F. MINUTOLI, L’abbigliamento indossato in conformità a precetti religiosi nei luoghi pubblici, in Diritto e religione in
Italia, cit., 234-235. In giurisprudenza si veda Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 19 giugno 2008, n. 3076, che
ha escluso l’applicabilità dell’art. 85 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (sul divieto di comparire mascherato in luogo
pubblico), e dell’ art. 5 della legge 22 maggio 1975, n. 15 (che vieta l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro
mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza
giustificato motivo), nei confronti di chi indossi il burqa per motivi religiosi o culturali; nello stesso senso Tar
Friuli Venezia Giulia, Trieste, sentenza 16 ottobre 2006, n. 645, con commento di E. D’ARPE, Il sindaco non può
vietare l’uso di burqa e di chador, in Corriere del merito, 12, 2006, 1496; V. Greco, Il divieto di indossare il velo islamico: tutela
della sicurezza o strumento di lotta politica? Quando il sindaco eccede i suoi poteri, in Giurisprudenza di merito, 9, 2007, 2426.
Sui risvolti penali cfr. Tribunale di Cremona, 27 novembre 2008, con commento di N. FOLLA, L’uso del burqa
non integra reato, in assenza di una previsione normativa espressa, in Corriere del merito, 3/2009, 295; si veda anche A.
LORENZETTI, Il divieto di indossare «burqa» e «burquini». Che «genere» di ordinanze? In Le Regioni, 1-2/2010, 349 e ss.
Più in generale, sul pluralismo religioso e culturale nella prospettiva penalistica cfr. V. MASARONE, L’incidenza
del fattore culturale sul sistema penale tra scelte politico-criminali ed implicazioni dommatiche, in Diritto penale e processo,
10/2014, 1237 e ss.
96 Si tratta di una violazione “indiretta” della libertà religiosa, in quanto non è direttamente violata la libertà di
pensiero, coscienza e religione di cui all’art. 9.1.
97 Secondo M. VENTURA, La virtù della giurisdizione europea sui conflitti religiosi, in Diritto e religione in Europa, cit.,
332, l’approccio del giudice europeo oscilla tra l’attivismo giudiziario e il prudente pragmatismo: il primo tende
alle sentenze di principio, il secondo privilegia un approccio fondato sul caso di specie. Sulla Corte europea quale
giudice del caso concreto cfr. anche F. GALLO, Rapporti fra Corte costituzionale e Corte EDU, in
www.cortecostituzionale.it/documenti/relazioni_internazionali/RI_BRUXELLES_2012_GALLO.pdf, 24 maggio 2012.
98 Su cui si veda R. GRILLO e P. SHAH, Considerazioni conclusive. Il movimento anti-«burqa» in Europa occidentale, in
Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 236 e ss.
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integrale, che può guardare gli altri ma non essere visto99, annullando così la trasparenza e la reciprocità
nella relazione interpersonale: ciò integra per definizione un comportamento antisociale ed in quanto
tale non meritevole di tutela100. Il burqa rappresenta un caso limite nel quale la relazione con l’altro è per
definizione esclusa, e non per volontà della maggioranza a danno di una minoranza, ma per una sorta
di autoemarginazione (più o meno voluta) di chi lo indossa, manifestando un rifiuto di partecipare alla
società aperta e liberale dove si è insediato.
Ridurre la problematica sul burqa ad una mera questione di abbigliamento non sembra cogliere nel
segno. Il burqa è un simbolo religioso che tende ad esasperare le differenze esistenti in una società
multiculturale e aperta, erigendo una vera e propria barriera tra il “sé” di chi lo indossa e l’”altro”101, ed
a diffondere un messaggio estremamente antagonista (antisistema) nei confronti di una moderna
società democratica102. Tale messaggio di rottura è ancor più evidente se si considera che l’obbligo di
indossare il burqa non sembra derivare da un vero e proprio precetto religioso103: nell’attuale momento
storico, sorge pertanto il sospetto che l’esibizione del burqa costituisca un atto simbolico di natura
politica, teso ad esprimere il radicale dissenso rispetto ai valori essenziali di una società democratica
aperta e libera (analogamente allo sfoggio di altri simboli politici eversivi, quali ad esempio la svastica
nazista). Il burqa esprime allora una forma di chiusura estrema verso gli altri e verso la società (che può
E. BADINTER, Audizione presso la Commission Gerin, in www.assemblee-nationale.fr/13/cr-miburqa/0809/c0809004.asp, 9 settembre 2009: «Porter le voile intégral, c’est refuser absolument d’entrer en contact avec autrui ou, plus
exactement, refuser la réciprocité: la femme ainsi vêtue s’arroge le droit de me voir mais me refuse le droit de la voir […] je ne vois
pas dans le voile intégral un vêtement comme un autre et je considère que son port marque une rupture du pacte social, un refus
d’intégration et un refus du dialogue et de la démocratie».
100 Seguendo l’impostazione di S. COTTA, Primi orientamenti di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 1966, la
società non è altro che il nostro “essere in società”, è un noi che non può non essere costituito da tanti io.
Pertanto, così i diritti dell’io come i diritti della società non sono in realtà che i diritti dell’io in società, dell’io con
gli altri (129). La società, peraltro, non è un fatto privato ma pubblico, comunitario; cioè significa che siamo tutti
interessati al compimenti degli atti di socialità, tutti sono tenuti a compierli; sorge pertanto la comune pretesa che tutti e
ciascuno compiano o rispettino gli atti di socialità. Se io non soddisfo o soddisfo male il comune bisogno di socialità, se
non compio la mia parte, il danno ricade oltre che su di me anche su tutti gli altri (134-135; corsivo aggiunto).
101 Cfr. S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere, cit., 12.
102 Come ha osservato E. BADINTER, in Nouvel Observateur, 9 luglio 2009, chi porta il burqa utilizza les libertés
démocratiques pour les retourner contre la démocratie. Ma si vedano anche le diverse opinioni di M. NUSSBAUM, Veiled
Threats?, in New York Times, 11 luglio 2010, http://opinionator.blogs.nytimes.com/2010/07/11/veiled-threats/; e di L.
MANCINI, «Burqa», «niqab» e diritti della donna, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1/2012, 27 e ss.
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Ad es., il Comitato per l’Islam italiano, nel parere del 14 luglio 2010, in
www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/19/00036_Comitato_Islam__relazione_Burqa_07_10.pdf, ha affermato che «secondo la grande maggioranza delle opinioni giuridiche che
hanno corso nel mondo islamico, e pur senza escludere che, in assenza di un’autorità centrale che possa definire
la dottrina per tutti, gruppi minoritari possano rappresentare anche in modo mediaticamente vigoroso opinioni
diverse, portare il burqa o il niqab non è un obbligo religioso, né tale obbligo può trovare fondamento nella lettura del
testo sacro dell’islam». Sull’attività di questo Comitato v. G. MACRÌ, Brevi riflessioni sui pareri espressi dal Comitato
per l’Islam italiano, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 2/2012, 407 e ss.
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facilmente trascendere in fondamentalismo integralista o fanatismo), in contrasto – a ben vedere – con
l’atteggiamento laico che ogni individuo autenticamente religioso dovrebbe avere104. Se è vero che è
molto difficile stabilire quali siano i limiti di tolleranza di una società democratica105, è anche vero che la
società aperta deve potersi difendere 106 da minacce potenziali o da pericoli evidenti ed attuali 107. Le
differenze culturali possono ed anzi devono coesistere ed essere visibili in una moderna società
democratica, per salvaguardare l’unità nella diversità, tranne nel caso in cui esse tendano ad annichilire i
valori fondamentali di quella stessa società e non siano, quindi, espressione di un “pluralismo
ragionevole” 108 . È questo il limite posto ad una democrazia che vuole proteggere se stessa, senza
compromettere il suo spirito democratico: infatti, se, da un lato, «l’identità collettiva di una comunità
liberale non può non essere coinvolta dal fatto dell’interazione politica tra le parti religiose e non
religiose della popolazione, a patto che esse si riconoscano l’un l’altra come membri eguali della stessa
comunità democratica»109, dall’altro «[l]o spirito fondamentalista è inconciliabile con la mentalità che un
numero sufficiente di cittadini deve condividere se non si vuole che la comunità democratica abbia a
disgregarsi»110.
In conclusione, la fraternité, da principio “minore” e un po’ più trascurato rispetto alla liberté ed alla
egalité, acquista nuova vitalità in questa pronuncia della Corte di Strasburgo. Alla fraternité, infatti, non
Su tali aspetti, cfr. A. DE NITTO, Coscienza religiosa e virtù pubblica, in P.P. OTTONELLO (a cura di), La
coscienza laica. Fede, valori, democrazia, Atti del IX corso dei Simposi Rosminiani, Stresa, 27-30 agosto 2008,
Edizioni Rosminiane, Stresa, 2009.
105 L. BOLLINGER, The Tolerant Society, cit.; S. MENDUS, Toleration and the Limits of Liberalism, MacMillan
Education Ltd, Hampshire and London, 1989, trad. it. La tolleranza e i limiti del liberalismo, Giuffrè, Milano, 2002;
M. WALZER, On Toleration, Yale University Press, 1997, trad. it. Sulla tolleranza, Laterza, Roma-Bari, 1998; N.
BOBBIO, Le ragioni della tolleranza, in L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1997, 230 e ss.
106 Cfr. K. POPPER, The Open Society and its Enemies, Routledge & Kegan Paul, London, 1966, trad. it. La società
aperta e i suoi nemici, Armando Armando, Roma, 1973.
107 Se, da un lato, il velo integrale cancella efficacemente la presenza femminile negli spazi pubblici quando è
portato dalla maggioranza delle donne, dall’altro, quando invece è raro, attira drammaticamente l’attenzione
visiva degli altri consociati: cfr. R. ALUFFI BECK-PECCOZ, «Burqa» e Islam, cit., 22.
108 Il riferimento è all’opera di J. RAWLS, Political Liberalism, Columbia University Press, 1993, trad. it. Liberalismo
politico, Edizioni di Comunità, Milano, 1994 e alla sua tesi del “consenso per intersezione”: per Rawls, una
“dottrina comprensiva ragionevole”, anche religiosa, non respinge gli aspetti essenziali di un regime democratico
costituzionale. Cfr. anche S. MANCINI, Il potere dei simboli, i simboli del potere, cit., 203, secondo cui un
atteggiamento di radicale intolleranza nei confronti delle altre religioni o delle altre convinzioni non religiose non
può essere legittimato in una società pluralista; l’A. ult. cit. si sofferma sul modello di “pluralismo normativo”
proposto da M. ROSENFELD, A Pluralistic Critique of the Constitutional Treatment of Religion, in A. SAJO (cur.),
Censorial Sensitivities: Free Speech and Religion in a Fundamentalist World, The Hague, 2007, 41 e ss.
109 J. HABERMAS, Linguaggio religioso e uso pubblico della ragione, in MicroMega, 1/2013, 14, il quale osserva che «non
è da negare […] la grandiosa intuizione di John Rawls: la stessa Costituzione liberale non deve ignorare i
contributi che i gruppi religiosi possono apportare al processo democratico all’interno della società civile».
110 Così J. HABERMAS, Tra scienza e fede, Introduzione, Laterza, Roma-Bari, 2006, ove afferma anche che lo Stato
democratico si nutre di una solidarietà fra cittadini, religiosi e non religiosi, che si considerano reciprocamente membri liberi ed eguali
della loro comunità politica e che vivono per convinzione in un ordinamento democratico.
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possono che ricollegarsi quelle esigenze del vivre ensemble che giustificano il divieto di indossare il burqa
negli spazi pubblici. Le stesse esigenze si riscontrano nella nostra “solidarietà”, un principio
costituzionale volto a scardinare barriere, a congiungere, a esigere il riconoscimento reciproco111; un
principio posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico, base della
convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente 112 ; un principio costitutivo di una
società umana e democratica 113 . È anche sulla fraternité/solidarietà che si fonda l’ordine pubblico
ideale114, che deve salvaguardare quelle esigenze minime della vita sociale115 senza le quali non vi può
essere piena esplicazione della cittadinanza116 tra persone libere ed uguali.
S. RODOTÀ, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari, 2014, 4.
In questi termini Corte cost., 28 febbraio 1992, n. 75.
113 Ancora S. RODOTÀ, Solidarietà, cit., 138.
114 L’ordine pubblico inteso in senso normativo o ideale (o immateriale), secondo L. PALADIN, Ordine pubblico,
in Novissimo digesto italiano, XII, Torino, 1965, 130, individua «il sistema coerente ed unitario di valori e di
principi» su cui si basa l’ordinamento giuridico; in senso analogo V. CRISAFULLI, La scuola nella Costituzione, in
AA.VV., Studi in onore di G.M. De Francesco, Milano, 1957, 276 ss. Sulla nozione di ordine pubblico si rinvia, più di
recente, ad A. CERRI, Ordine pubblico (Diritto costituzionale), in Enciclopedia giuridica, XXV, Roma, 1991, e F.
ANGELINI, Ordine pubblico, in Dizionario di diritto pubblico diretto da S. CASSESE, Milano, 2006, IV, 3998. Nel
caso in commento, l’ordine pubblico ideale acquista una dimensione sociale, perché garantisce una base minima
di esigenze fondamentali per assicurare l’esercizio delle libertà in una società democratica e aperta.
115 Conseil Constitutionnel, décision n. 613 DC del 7 ottobre 2010; v. anche Conseil d’État, Section du rapport
et des études, Étude relative aux possibilités juridiques d’interdiction du port du voile intégral, Rapport adopté par
l’assemblée générale plénière du Conseil d’État le jeudi 25 mars 2010, p. 26, che ricomprende nell’ordine
pubblico immateriale la base minima di esigenze reciproche e garanzie essenziali della vita sociale (socle minimal
d’exigences réciproques et de garanties essentielles de la vie en société).
116 Cfr. F. SAINT-BONNET, La citoyenneté, fondement démocratique pour la loi anti-burqa. Réflexions sur la mort au monde
et l’incarcération volontarie, in Jus Politicum, 7/2012, www.juspoliticum.com/IMG/pdf/JP7_Saint-Bonnet.pdf, secondo cui
«la dissimulation du visage […] traduit un refus radical de l’altérité, de la reconnaissance de l’autre comme son con-citoyen, comme
son égal dans la communauté politique. La dissimulation n’empêche pas toute relation à l’autre, mais elle interdit la réunion des
conditions d’une relation recognitive de son alter ego dans la société» (29).
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