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L`abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising

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L`abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising
Dipartimento di Scienze giuridiche
CERADI – Centro di ricerca per il diritto d’impresa
L’abuso di dipendenza economica
nei
contratti di franchising
Fabrizio Cicchelli
Febbraio 2010
© Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o
come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la
riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e
sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione
L’abuso di dipendenza economica nei contratti
di franchising
1. INTRODUZIONE
3
2. LA NOZIONE DI ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: TRA
ECONOMIA E DIRITTO.
5
3. FORME DI ABUSO NEI CONTRATTI DI FRANCHISING
14
4. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 9, LEGGE N. 192
DEL 1998.
24
5. ANALISI DI SISTEMA: BUONA FEDE ESECUTIVA ED
EQUITÀ.
29
6. L’APPARATO RIMEDIALE.
35
BIBLIOGRAFIA
41
1. INTRODUZIONE
Il presente saggio intende esplorare alcune delle questioni concernenti il
fenomeno
dell’abuso
di dipendenza economica quando
sia riferito
all’operazione contrattuale denominata franchising.
In particolare, scopo precipuo della trattazione sarà, dapprima, quello di
evidenziare le ragioni che inducono a sollevare, rispetto al franchising, un
problema circa l’insorgenza di tale forma di illecito. Sono ragioni “strutturali” o
“fisiologiche”, attenenti, cioè, al modo tipico di essere del rapporto franchisorfranchisee, rapporto suscettibile, per sua intima natura e per vocazione
funzionale, di degenerare in manifestazioni abusive a danno della parte
contraente ritenuta debole.
Esiste, dunque, una sorta di contiguità logica tra il contratto di
franchising ed il tema dell’abuso di dipendenza economica; una relazione
concettuale che, peraltro, appartiene a tutti i rapporti tra imprese, nei quali
l’una parte si trovi ad essere, per disequilibrio economico e di mercato, in una
posizione di preminenza contrattuale rispetto all’altra: starà a chi scrive tentare
di illustrare in che termini la detta relazione si presenti in concreto nel
franchising.
Altro problema riguarda l’inquadramento giuridico e sistematico della
fattispecie. Invero, non è dato riscontrare nell’ordinamento giuridico una
normativa specificamente dedicata a tale forma di abuso nell’ambito dei
contratti di distribuzione. La normativa va pertanto individuata, anche in via di
interpretazione analogica, e quindi impiantata all’interno del sistema del codice
civile.
Precisamente, l’identificazione degli appropriati addentellati codicistici e
dei principi generali di riferimento, consentirà di meglio comprendere la logica
dell’istituto in un’ottica di visione complessiva. Si comprenderà allora come la
tematica in esame costituisca uno dei momenti più sensibili nei quali viene ad
esprimersi il delicato rapporto tra autonomia del volere (libertà negoziale) e
interesse generale (volontà della norma).
Infine, a chiusura del cerchio espositivo, si darà brevemente conto
dell’apparato rimediale a tutela della parte danneggiata.
2. LA NOZIONE DI ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA:
TRA ECONOMIA E DIRITTO.
Preliminare ad ogni discorso relativo all’abuso di dipendenza
economica nei contratti di franchising, è stabilire cosa debba intendersi, in
termini generali, per abuso di dipendenza economica.
Solo in un secondo momento sarà possibile stabilire se la figura in
esame possa davvero ricorrere, e secondo quali particolarità, nei rapporti
contrattuali in parola.
Conviene, anzitutto, scomporre la fattispecie nei suoi tre momenti
costitutivi: “la dipendenza economica”, il suo “abuso”, il “pregiudizio” che
ne deriva. Ognuno di tali elementi dovrà ricorrere perché l’illecito possa
dirsi integrato.
L’analisi della nozione non può non prendere le mosse dalla
definizione normativa. L’abuso di dipendenza economica è infatti
espressamente regolato dalla L. 192 del 1998, e segnatamente dall’art. 9.
Sebbene la legge citata si riferisca ai soli contratti di subfornitura, da essa è
comunque possibile trarre lo spunto per la ricostruzione della figura come
categoria generale eventualmente applicabile ai contratti di impresa.
Riportiamo il testo del primo comma della norma:
“È vietato l'abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza
economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice.
Si considera dipendenza economica la situazione in cui un'impresa sia in grado di
determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di
diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale
possibilità per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative
soddisfacenti.
In definitiva, la dipendenza economica costituisce la traduzione, in
termini giuridici, di una situazione di monopolio, o quasi monopolio, nella
quale una impresa viene a trovarsi nei confronti di un’altra. Essa si
manifesta in un minor potere contrattuale, cioè nella ridotta o annullata
capacità di ottenere condizioni contrattuali a sé favorevoli1. La minorata
libertà di contrattazione è determinata dalla difficoltà o impossibilità di
reperire alternative sul mercato di riferimento e ad essa corrisponde il
potere, della impresa contrattualmente forte, di determinare un eccessivo
squilibrio di diritti e di obblighi tra le parti.
È bene precisare che, nella prospettiva della norma, tale “squilibrio”
non costituisce un requisito “reale” dell’illecito, cioè il suo evento dannoso.
Esso vale, piuttosto, a qualificare il contenuto del potere dell’impresa
dominante e dunque ad esprimere i connotati della particolare situazione di
dipendenza economica rilevante ai fini dell’applicazione della disposizione
in esame. L’eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi assume, allora, una
portata meramente potenziale e come tale va apprezzata: sussiste una caso
di dipendenza economica quando un’impresa sia in grado di determinare il
contenuto di un (eventuale e futuro contratto) nei riguardi di un’impresa
cliente o fornitrice, in modo da creare un significativo squilibrio tra
prestazione e controprestazione2. Per contro, non occorre che l’esercizio
abusivo di tale potere sfoci necessariamente nella conclusione di un
contratto gravemente squilibrato, potendo, invece, dare luogo a pregiudizi
di diversa natura, quali il rifiuto di contrarre o l’interruzione del rapporto
commerciale. Sotto questo riguardo, la tutela apprestata in materia di
impresa è di contenuto più ampio ed eterogeneo rispetto alla disciplina c.d.
consumeristica (D. Lgs. 206/2005 – Codice del Consumo -).
La dipendenza economica rappresenta il primo requisito, per ordine
cronologico e logico, della fattispecie, ma non l’unico.
Allo stato di dipendenza, e dunque alla capacità dell’impresa
dominante di provocare l’eccessivo squilibrio di diritti e obblighi, deve far
seguito una condotta abusiva dell’impresa medesima, che costituisca
concreta attuazione della detta capacità.
Torniamo al dato normativo, e in particolare al comma secondo
dell’art. 9: “l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare,
nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie,
nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”.
1 L. Delli Priscoli, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di
buona fede e tutela del mercato, in Giur. merito, 2006, 10, p. 2153.
2 V. Pinto, L’abuso di dipendenza economica «fuori dal contratto» tra diritto civile e diritto
antitrust, in Riv. Dir. Civ., 2000, p. 400.
L’art. 9, mentre dà piena indicazione sulla nozione di dipendenza
economica, tace rispetto a quella di abuso, limitandosi a prospettare un
elenco di ipotesi tipiche nelle quali la condotta abusiva può concretarsi;
elenco, peraltro, puramente esemplificativo3. Cosa, dunque, deve intendersi
per abuso, e in cosa l’abusività si differenzia dalla semplice illiceità?
L’abuso implica l’esistenza di un diritto. La tutela accordata al
diritto soggettivo è potenzialmente senza limiti salvo il dovere di non
abusarne,
specificazione
del
più
generale
dovere
di
solidarietà,
costituzionalmente sancito (art. 2, Cost.)4. Più in particolare, l’abuso si
concretizza nella alterazione dell’elemento funzionale di un potere
normativamente riconosciuto5, il quale viene esercitato per la realizzazione
di interessi che la norma costitutiva non garantisce. È stato autorevolmente
notato che sebbene «tale principio non sia stato espressamente contemplato dal codice
del 1942, esso è presente nel nostro ordinamento come diretta emanazione della
concezione dei diritti soggettivi quali forme di tutela di interessi socialmente
apprezzabili»6. Una sua concreta applicazione è rappresentata dal divieto
degli atti emulativi ex art. 833 c.c..
3 S. Benucci, Le prime pronunce in tema di «abuso di dipendenza economica» , in G. Vettori
(a cura di), Concorrenza e Mercato, Milano, 2005, p. 491.
4 F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, pag. 57.
5 Salv. Romano, Abuso del diritto, in Enc. dir., Aggiornamento, I, pag. 167.
6 C. M. Bianca, La Proprietà, Milano, 1999, pag. 196.
In definitiva, il divieto di abuso si pone come norma generale che,
pur lasciando al soggetto la discrezionalità del suo diritto, viene a
condizionarne
la
tutela
alla
concreta
socialità,
reprimendone
e
condannandone l’esercizio quando sia rivolto a scopi che risultino contrari
a quelli per cui è stato riconosciuto al suo titolare7.
Alla medesima conclusione è giunta la più recente giurisprudenza
della Corte di Cassazione secondo cui «l'abuso del diritto (...) lungi dal
presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema
formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a
quelli indicati dal Legislatore»8.
È rilevante notare come tali obbiettivi vadano interpretati e ricercati
alla luce del principio della funzione sociale che presiede all’esercizio di
ogni diritto soggettivo, secondo una applicazione generalizzata dell’art. 42
della Costituzione.
Con riguardo al tema oggetto del presente saggio, il divieto trova un
suo più preciso riferimento nelle disposizioni codicistiche che impongono
obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede (artt. 1175,
7 Finzi, in Riv. Dir. Priv., 1936, I, pag. 24.
8 Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106. Secondo la Cassazione: «Gli elementi
costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti:
1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel
diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la
circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia
svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la
circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il
beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte».
1337 3 1375 c.c.) nell’esercizio della autonomia negoziale, come meglio si
vedrà più avanti (vedi infra, par. 2).
Si considerino ora le singole fattispecie abusive descritte dall’art. 9.
L’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose
o discriminatorie è tra le più significative forme di abuso. Essa viene
talvolta accostata, più per affinità terminologica che per reale analogia di
contenuti, alla disciplina consumeristica in materia di clausole vessatorie.
Invero, l’accostamento pare inappropriato a causa della diversità
delle funzioni svolte e dei differenti ambiti applicativi.
La normativa del Codice del Consumo tende a dare tutela alla parte
contrattualmente debole (il consumatore), per incapacità ed inesperienza di
quest’ultimo, a fronte dell’organizzazione e delle conoscenze del
professionista. La disciplina sul’abuso di dipendenza economica vuole,
invece, correggere il disequilibrio nel rapporto tra imprenditori, creato da
un patologico contesto di mercato9.
Inoltre, l’abuso di dipendenza economica può manifestarsi, e di
regola si manifesta, anziché nella fase puramente genetica del contratto, nel
momento successivo della rinegoziazione. Infatti, i tratti peculiari del
rapporto commerciale instaurato e le condizioni di mercato, di fatto
monopolistiche, nelle quali viene a trovarsi l’impresa cliente, permettono al
9 G. Agrifoglio, Abuso di dipendenza economica e l’asimmetria nei contratti di impresa (B2b),
in Contratto e impresa, 2008, 11, pag. 1335.
partner dominante, che voglia abusare del suo potere, di riappropriarsi delle
utilità a cui aveva rinunciato in sede di trattative.
Il giudizio sulla ingiustificata gravosità delle condizioni contrattuali
si impone sia in termini giuridici che
patrimoniali, alternativamente o
cumulativamente fra loro. Pertanto, il giudice potrà valutare, oltre
all’assetto giuridico predisposto dalle parti, anche l’adeguatezza del
corrispettivo10, giudizio da compiersi avuto riguardo alle condizioni del
mercato, i costi sostenuti dall’imprese, ed i margini di guadagno. Si
evidenzia così una ulteriore differenza fra la forma di abuso in esame e
quella corrispondente regolata nel Codice del consumo, laddove
apprezzamenti di tale natura sono espressamente esclusi (art. 34, comma 2,
Codice del Consumo).
Le clausole contrattuali si rivelano abusive anche quando
esprimono un trattamento discriminatorio. Viene, infatti, previsto il divieto
di applicare condizioni diverse e peggiori senza una giustificazione
economica, rispetto ad imprese concorrenti11. Si ritiene che la norma
sanzioni altresì le ipotesi di discriminazione passiva, le quali ricorrono quando
10 F. Prosperi, Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza economica.
Profili ricostruttivi e sistematici, Napoli, 2002, pag. 315.
11 D. Maffeis, Il contraente e la disparità di trattamento delle controparti, in Riv. dir. priv.,
2006, pag. 336.
l’impresa dominante operi in modo da ottenere dai propri clienti condizioni
diverse rispetto a quelle che sono praticate nei riguardi di altri soggetti12.
Riguardo al rifiuto di vendere e contrarre – particolarmente
frequente nei rapporti di distribuzione integrata – merita sottolineare la
diversità di fattispecie rispetto agli illeciti maturati in violazione degli
obblighi previsti dall’art. 2597 e 1679 del codice civile. Vi è una sostanziale
diversità di presupposti.
Gli articoli citati fanno riferimento a situazioni di controllo
dell’intero settore economico, per provvedimento della Pubblica Autorità o
per monopolio di fatto, e si pongono a salvaguardia della libertà negoziale e
della parità di trattamento, a tutela del consumatore13.
L’art. 9 prospetta una situazione di dipendenza economica inter
partes, che coinvolga esclusivamente imprese (c. d. monopolio posizionale o
dominanza relativa). Inoltre, l’obbligo a negoziare non è assoluto ma sorge
solo nel caso in cui un’eventuale rifiuto assuma i caratteri dell’abuso14.
Nell’ipotesi dell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in
atto, un problema di abusività può porsi, ovviamente, solo laddove il
rapporto venga interrotto per effetto dell’esercizio di una facoltà in sé
12 F. Prosperi, op. cit., pag. 317.
13 L. Nivarra, L’obbligo a contrarre e il mercato, Padova, 1989.
14G. Ceridono, Commento all’art. 9, in Disciplina della subfornitura nelle attività produttive (l.
18 giugno 1998, n. 192), Commentario a cura di N. Lipari, in Nuove leggi civ. comm., 2000., pag.
449.
legittima. Ragionando diversamente, non di condotta abusiva potrà parlarsi
ma di inadempimento contrattuale.
Ciò chiarito, l’ipotesi ricorre nell’esercizio di esercizio recesso e di
disdetta contrattuale15.
Indice dell’abusività del comportamento è prevalentemente la
concessione di un termine di preavviso non adeguato (salvo giusta causa)
alle esigenze dell’impresa dipendente, la quale viene a trovarsi nella
impossibilità di recuperare l’esposizione debitoria contratta in vista di un
ragionevole affidamento sulla durata dell’accordo.
A tale riguardo, la normativa speciale sul franchising (L. 6 maggio
2004, n. 129, art. 3, comma 3) detta esplicitamente una tutela a favore del
franchisee, imponendo all’affiliante, in ipotesi di contratti a tempo
determinato, la garanzia di una durata minima del rapporto, sufficiente
all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni.
Si ritiene che la norma sia estensivamente applicabile anche ai casi di
contratti a tempo indeterminato16.
15 G. Ceridono, op. cit., pag. 450.
16 M. Cian, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, in Nuove leg. civ. comm., 2004, pag.
1166
3. FORME DI ABUSO NEI CONTRATTI DI FRANCHISING
La nozione generale di abuso di dipendenza va ora applicata alla
fattispecie del franchising.
Il contratto di franchising, è disciplinato dalla Legge del 6 maggio
2004, n. 129, la quale, per la verità, utilizza il nomen iuris di “affiliazione
commerciale”.
Il contratto regola il rapporto di due parti, economicamente e
giuridicamente indipendenti, in base al quale l’una (l’affiliante o franchisor)
concede la disponibilità all’altra (l’affiliato o franchisee), verso un
corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale
relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità,
disegni, diritti d’autore, know-how, brevetti, fornendo, inoltre, assistenza o
consulenza tecnica e commerciale. Il franchisee viene, in tal modo, inserito in
un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo
scopo di commercializzare beni o servizi (art. 1, comma 1).
Non è chiaro se il package debba necessariamente comprendere tutti
gli elementi indicati; è essenziale, comunque, che vi risulti il know-how17.
Non occorrerà illustrare nel dettaglio l’articolato della legge, basti
solo tenere a mente l’art. 3, comma 3, sopra citato (vedi retro, par. 2). La
norma, nell’esprimere l’esigenza di salvaguardare gli investimenti compiuti
17 G. De Nova, La nuova legge sul franchising, in I Contratti, nn. 8-9, 2004, pag. 762.
dall’affiliato e consentirne l’ammortamento, esplicita le reali ragioni
dell’esistenza della dipendenza economica nei rapporti in parola.
Il franchising è un contratto di cooperazione18. L’affiliato deve
mantenere la propria attività nell’ambito delle direttive tracciate
dall’affiliante19.
Più precisamente, il piano di mercato viene elaborato dall’affiliante
e deve essere eseguito dall’affiliato anche per quanto riguarda i locali in cui
le vendite devono essere eseguite (ivi compreso l’arredamento) nonché il
tipo di pubblicità e altre rilevanti scelte20. Il franchisee è tenuto, inoltre, ad
utilizzare il marchio e le insegne dell’affiliante e gli viene imposta
tassativamente l’esclusiva. Tutto ciò risponde alla finalità del franchisor di
ottenere una rete omogenea di distribuzione21.
Il quadro sommariamente delineato permette di comprendere
l’intima connessione esistente tra affiliante e affiliato, il quale all’esterno
appare persino un preposto del primo, al punto che si utilizza l’espressione
“imprenditore satellite”22.
18 Sentenza della Corte di Appello di Bologna, 12/02/1994, in Giu 1994, pag. 150.
19 S. Monticelli, G. Porcelli, I Contratti dell’impresa, Torino 2006, pag. 53.
20 A. Frignani, Il Contratto di franchising, Milano, 1990, pag. 72.
21 S. Monticelli, G. Porcelli, op. cit., pag. 53.
22 Al riguardo, si è posto il problema della responsabilità del franchisor per le
obbligazioni contratte dal franchisee. Tribunale di Crema 23/11/1994, in I Contratti, 1996, pag.
52.
Le ragioni della sussistenza di una condizione di dipendenza
economica dell’affiliato rispetto all’impresa affiliante, dovrebbero, a questo
punto, essere chiare. Essa sorge quando si è dedicata la propria attività
imprenditoriale ad un unico produttore. Il franchisee, per adeguarsi al
particolare sistema di produzione e distribuzione, dell’impresa cliente e
fornitrice, effettua investimenti e acquisisce conoscenze non facilmente
reinvestibili o convertibili in un altro futuro ed eventuale rapporto. In altri
termini, viene a trovarsi nella situazione di non poter profittare di
soddisfacenti alternative sul mercato, esattamente come richiesto dall’art. 9
della legge sulla subfornitura. Tali alternative, pur presenti in astratto,
richiederebbero la perdita di quegli investimenti e di quelle conoscenze,
prospettiva questa che induce l’affiliato a sottostare al potere decisorio della
controparte. Si parla, al riguardo, di «investimenti idiosincratici», effettuati
in funzione di una determinata relazione d'affari, ed al tempo stesso
difficilmente recuperabili in usi alternativi23.
Strettamente legata al fenomeno dell’abuso di dipendenza
economica nei contratti di franchising di distribuzione è la clausola di
esclusiva.
In primo luogo, la clausola di esclusiva può essere posta a vantaggio
del franchisor, in modo che questi possa contare su uno sbocco per i propri
beni.
23 P. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, Milano, 2006, pagg. 270 e segg..
È evidente che la predetta clausola impedisce all’affiliato di reperire
sul mercato alternative al rapporto con la controparte, determinando o
rafforzando la posizione di dominanza relativa del franchisor. Ci si è
interrogati se questa situazione valga davvero ad identificare una situazione
di dipendenza economica, posto che la clausola è stata liberamente
accettata dal franchisee e assunta per contratto. Invero, non sembra che l’art.
9 della legge sulla subfornitura tuteli l’imprenditore dipendente soli in casi
di mancanza di alternative imprevedibili, derivante da una situazione che si
viene a creare a seguito di un lungo rapporto24, tanto più che l’elemento
della dipendenza è assolutamente fisiologico nei rapporti di franchising.
Il patto di esclusiva può venire previsto a favore dell’affiliato. Si
vuole in tal modo assicurare a quest’ultimo una fetta di mercato, al riparo
dalle ingerenze di distributori dello stesso bene. È fuor di dubbio che la
violazione di tale esclusiva dia luogo a inadempimento contrattuale.
La dottrina si è interrogata sulle soluzioni giuridiche da adottare
nelle ipotesi in cui la clausola in parola non sia stata prevista e il franchisor,
approfittando di tale lacuna, abbia inserito un nuovo franchisee nella stessa
zona in cui operava il primo. A tale riguardo, merita osservare che
24 L. Delli Priscoli , Il divieto di abuso di abuso di dipendenza economica nel Franchising, fra
principio di buona fede e tutela del mercato, cit., pagg. 2153 e segg..
l’esclusiva di vendita non è considerato elemento né essenziale, né naturale
del contratto di franchising25, ma rimesso alla esclusiva autonomia delle parti.
Nondimeno, il problema va considerato alla luce della normativa
sull’abuso di posizione dominante. L’affiliato stipula il contratto di
franchising, accettando limitazioni alla propria iniziativa imprenditoriale, in
vista del conseguimento di un profitto che assume “garantito” dal fatto di
poter commercializzare un prodotto che agli occhi del consumatore
costituisce un “unicum”26. Il franchisee che inserisce nella rete distributiva un
nuovo distributore, può allora compiere una condotta abusiva, perché
tradisce lo spirito del contratto, riducendo le potenzialità di profitto del
vecchio affiliato, e massimizzando le proprie aspettative di guadagno.
Naturalmente, l’abusività del comportamento dell’affiliante va
valutata avendo riguardo alle concrete circostanze del caso. Non è da
escludere, infatti, che detto comportamento possa ritenersi giustificato in
quanto diretto a sanzionare un affiliato inefficiente o che non abbia
adempiuto ad alcuni dei propri doveri.
Ai fini della verifica dell’abusività, deve anche valutarsi il grado di
affidamento che il vecchio affiliato poteva vantare sul mantenimento della
zona in cui, di fatto, agiva da solo, in relazione a comportamenti
25 G. De Nova, I nuovi contratti, Torino 1990, p. 159.
26 L. Delli Priscoli, Patto di esclusiva e rapporti tra franchisee, in Giuri. comm. 2001, 05,
pagg. 581 e segg.
precedentemente tenuti dall’affiliante e alla distanza degli altri franchisees fra
di loro27.
Pertanto, pur in assenza di una clausola di esclusiva, l’inserimento
di un nuovo distributore da parte del franchisor all’interno di una zona
nella quale operava un altro franchisee, costituisce abuso di dipendenza
economica ai sensi dell’art. 9 della legge 192 del 1998, quando non sia
motivato da un comportamento negligente dell’affiliato, non sia previsto
dal contratto o non sia prevedibile in base a circostanze già presenti al
momento della stipula del negozio28.
Ipotesi in parte analoga si verifica allorché sia lo steso affiliante ad
intromettersi nella zona operativa dell’affiliato. Il carattere abusivo della
vicenda si manifesta in maniera particolarmente evidente quando l’affiliante
abbia imposto un prezzo di vendita all’affiliato e venda, nel contempo, gli
stessi beni ad un prezzo più basso agli stessi clienti.
Nei rapporti di distribuzione integrata, fra i quali spiccano i
contratti di franchising, ricorrente è la situazione di conflitto originata dalla
interruzione della relazione commerciale.
La specificità degli investimenti assunti dal franchisee, e l’oggettiva
difficoltà di una loro riconversione, rende il recesso o la disdetta del
franchisor potenzialmente dannosa.
27 Ibidem, pagg. 581 e segg..
Si tratta di stabilire quando la decisione di porre fine al contratto o
di impedirne la tacita rinnovazione costituisca esercizio di facoltà legittima
e quando, invece, assuma i connotati dell’abuso.
A tale proposito, l’art. 3, comma 2, della Legge n. 129, del 6 maggio
2004 (Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale), dispone che
nei contratti a tempo determinato, l’affiliante dovrà comunque garantire
all’affiliato
una
durata
minima
sufficiente
all’ammortamento
dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni.
La norma offre lo spunto per dare soluzione al problema.
A ben guardare, nei contratti a tempo determinato, laddove il
termine pattuito si riveli insufficiente ad assicurare l’ammortamento degli
investimenti, la decisione di non proseguire la relazione commerciale si
pone in termini di rifiuto di contrarre (nuovamente), o, in altri termini, di
rifiuto di accordare una proroga sulla durata del contratto (rifiuto di
rinegoziare). Soltanto se è prevista una clausola di rinnovo tacito, salvo
disdetta, si rientra nell’ambito della interruzione di relazione commerciale.
Nelle ipotesi di contratti a tempo indeterminato, il problema è
chiaramente circoscritto all’esercizio del recesso ad nutum.
Ciò posto, l’abusività dell’affiliante va giudicata in concreto,
contemperando gli opposti interessi in gioco.
28 Ibidem, pagg. 581 e segg.
Ove la decisione di interrompere il rapporto di franchising non trovi
giustificazione nell’inadempienze dell’affiliato (nel qual caso un problema di
condotta opportunistica non si porrebbe neppure), essa deve comunque
corrispondere ad effettive necessità aziendali dell'impresa dominante29,
oppure deve consentire il rimborso, anche solo parziale o frazionario, degli
investimenti ai quali l'impresa dipendente è stata obbligata o quanto meno nelle ipotesi di recesso- deve prevedere un termine di preavviso che sia
congruo in relazione agli obblighi contrattuali assunti dalle parti e alle
possibilità di reperire alternative commerciali.
Ne deriva che la clausola di recesso ad nutum, se inserita in un
contratto che comporti obblighi di investimento a carico dell'impresa
dipendente, è valida solo se preveda un termine di preavviso tale da
permettere l'ammortamento degli investimenti compiuti, o comunque il
reperimento sul mercato di alternative commerciali atte a consentire il
reimpiego del capitale investito30.
Per contro, la reciprocità del patto non è sufficiente ad escludere
l’abusività del recesso. La reciprocità infatti solo apparentemente pone le
parti in una condizione di uguaglianza contrattuale, ma non vale ad
escludere un disequilibrio sostanziale, legato proprio alla diversità delle
29 Il Tribunale di Roma, con decisione del 5 novembre 2002, in Foro It., 2003, I, 3440,
ha disposto che qualora ricorra una situazione di oggettiva necessità aziendale, l’esercizio del
diritto di recesso con un preavviso di dodici mesi, anziché di ventiquattro, non costituisce
abuso di dipendenza economica in quanto non integra l’ipotesi di interruzione arbitraria delle
relazioni commerciali.
posizioni economiche in cui si trovano le parti del rapporto, ed anche alla
disparità di posizioni contrattuali determinata dalla combinazione della
clausola di recesso reciproca con altre clausole impositive di obblighi
unilaterali a carico dell'impresa dipendente31.
Erra, dunque, Tribunale di Torino laddove afferma che il contratto
che attribuisca ad entrambe le parti del rapporto la facoltà di recessoponendole su di un piano di pari dignità – non vale a configurare un’ipotesi
di abuso di dipendenza economica32. Infatti, se il contratto può anche
apparire equilibrato, non manifestando un eccessivo squilibrio di diritti e
obblighi, ciò non significa che sia altrettanto legittimo l’esercizio della, pur
reciproca, facoltà di recesso. Premessa l’esistenza di una situazione di
dipendenza economica, essa può concretizzarsi non solo in clausole
negoziali svantaggiose per una parte a beneficio dell’altra, ma altresì in
condotte che si pongono “fuori” dal contratto, quali il rifiuto di vendere o
comprare e l’interruzione del rapporto commerciale. La valutazione di tali
forme di abuso deve superare il dato puramente giuridico ed estendersi al
contesto economico e di mercato nel quale il franchisee opera.
Nelle fattispecie di franchising di distribuzione, particolarmente
avvertito è il problema del rifiuto a contrarre, e segnatamente di vendere,
opposto dal franchisor al franchisee. Più precisamente, la questione si pone
30 A. Boso Carretta, op. cit., pagg. 350 e segg..
31 Ibidem.
allorché il contratto lasci piena libertà all’impresa dominate di decidere se
fornire determinati prodotti all’affiliato, e in quale misura. La condotta di
diniego è da ritenersi illecita, ai sensi del citato art. 9, quando non sia
supportata da valide giustificazioni, celando un intento palesemente
emulativo.
D’altra parte, è suscettibile di integrare un abuso di dipendenza
economica, altresì il rifiuto di acquistare le scorte rimaste invendute, al
termine del rapporto contrattuale. In merito si è osservato che l’abusività
del rifiuto dipende da talune circostanze: dall’esistenza di una clausola che
vieti al franchisee di vendere i prodotti in concessione alla scadenza del
contratto; dalla durata del termine di preavviso per lo scioglimento del
rapporto, il quale termine non consente di collocare le rimanenze sul
mercato; dal fatto che il franchisee non abbia acquistato scorte in misura
anomala, durante il periodo di pendenza del termine di preavviso per lo
scioglimento del rapporto33.
32 Trib. Torino 18 marzo 2003, in Gius, 2003, 1502.
33 R. Natoli, L’abuso di dipendenza economica. Il contratto e il mercato,
Napoli, 2004, pagg. 128 e segg..
4. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 9, LEGGE N. 192 DEL
1998.
L’abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising non è
soggetto ad una disciplina specifica.
La legge n. 192 del 1998 è, infatti, esplicitamente dedicata alla
fattispecie del contratto di subfornitura. La legge che regola il franchising (L.
6 maggio 2004, n. 129) non affronta il problema. Invero, all’art. 6 si fa
esplicito riferimento ad obblighi di comportamento secondo lealtà,
correttezza e buona fede, gravanti sull’affiliante. Tuttavia, si tratta di doveri
che investono il solo momento delle trattative e tendono ad assicurare che
l’affiliato possa esprimere un consenso il più possibile consapevole. In altri
termini, la disciplina dettata dalla legge n. 129 del 2004 è dedicata
essenzialmente ai c.d. difetti genetici del sinallagma, tali da comportare la
declaratoria della nullità o della annullabilità del contratto34. Per contro,
viene trascurata la fase dell’esecuzione del contratto e delle eventuali
rinegoziazioni, quando la semplice informativa non sarà più sufficiente a
salvaguardare la libertà negoziale del franchisee in stato di debolezza
contrattuale.
Occorre, dunque, stabilire se la ricordata normativa in materia di
subfornitura possa applicarsi, in via estensiva o analogica, anche al
franchising.
34 F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 2004, pag. 446 e ss.
La questione non è nuova, avendo formato oggetto di ampia
discussione in dottrina e in giurisprudenza.
Può sin da ora anticiparsi che il divieto di abuso di posizione
dominante, pur essendo disciplinato all’interno della legge sulla
subfornitura, possiede un ambito di applicazione più esteso, che coinvolge i
rapporti tra imprese in generale.
Tale è la conclusione cui è giunta la dottrina quasi unanime, mentre
il quadro giurisprudenziale si presenta ancora incerto35.
A conforto della tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria sta,
anzitutto, il dato letterale: l’interpretazione di portata generale della norma
affiora, infatti, dall’utilizzo, certamente non casuale, delle espressioni
impresa “fornitrice” e impresa “cliente”, mentre nel restante articolato il
legislatore si avvale delle parole “committente” e “subfornitore”.
“L’utilizzo di questo binomio, e in particolare l’improvvisa apparizione di un termine
(cliente) che non trova altri riscontri nel testo della legge, lasciano intendere che si voglia
andare oltre la subfornitura. In altri termini, i subfornitori sono naturalmente candidati
35 Per la soluzione positiva citiamo: il Tribunale Trieste, 21 settembre 2006, in Resp. civ. e
prev. 2008, 10, 2109; il Tribunale di Isernia, 12 aprile 2006, in Giur. merito 2006, 10, 2149. Tra le
pronunce di segno opposto annoveriamo: il Tribunale di Bari, 2 luglio 2002, in Foro it. 2004, I,
262, e Danno e resp. 2004, 424; il Tribunale di Taranto 22 dicembre 2003, in Foro it. 2004, I,
262, Danno e resp. 2004, 424.
a fruire anche della protezione assicurata dall’art. 9, ma la platea dei beneficiari è di
gran lunga più estesa.36”
Inoltre, il carattere bi-direzionale del divieto (il quale si applica
tanto alle imprese clienti che a quelle fornitrici) non consente di limitare
alla sola subfornitura la disciplina in parola. Invero, il riferimento al “rifiuto
di vendere” e allo stesso tempo al “rifiuto di comprare”, come forme di
comportamento parimenti abusive, assume un senso solo se la norma sia
diretta a regolare i rapporti di imprese in generale e segnatamente i rapporti
di distribuzione37.
Si potrà, allora, avere dipendenza dal lato della
domanda, come nei rapporti di subfornitura, oppure dal lato dell’offerta,
come nel franchising38 .
I sostenitori dell’opposto orientamento attribuiscono rilievo
all’argomento storico e sistematico. Inizialmente, era intendimento del
legislatore inserire il divieto in questione nel corpo della legge in materia di
antitrust (L. n. 287/1990). Solo in un secondo tempo, si decise di
introdurla nell’articolato della normativa sulla subfornitura. Da tale
circostanza si è fatta discendere l’inequivoca volontà del legislatore di
36 A. Palmieri, Abuso di dipendenza economica: dal «caso limite» alla (drastica) limitazione dei
casi di applicazione del divieto?, in Il Foro Italiano 2002, parte prima, pag. 3209.
37 A. Boso Carretta, Interruzione del rapporto di distribuzione integrata e abuso di dipendenza
economica, in Giur. merito, 2, pag. 350.
38 In questi termini ma limitatamente ai soli rapporti tra imprese destinati a realizzare
relazioni di tipo verticale, v. O. Reale, Abuso di dipendenza economica tra diritto dei contratti e tutela
della concorrenza, in dspace.unitus.it, Archivio aperto dell’Università degli Studi della Tuscia, pag. 133.
circoscrivere l’applicazione delle norme sull’abuso di dipendenza
economica alla sola subfornitura 39.
Si è inoltre, ritenuto, che una lettura contraria a quelle testé riferita
sarebbe incompatibile con un sistema che valorizza l’autonomia negoziale
come regola generale, limitando le eccezioni ai casi espressamente previsti
dalla legge40.
I
rilievi
critici
all’interpretazione
estensiva,
sinteticamente
richiamati, non convincono appieno.
In realtà l’argomento “storico” non pare avere fondamento. Il
cambiamento di rotta rispetto al progetto iniziale di far confluire la norma
sull’abuso di dipendenza economica nella legge antitrust, è, infatti,
naufragato per le pressioni esercitate dall’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato la quale ha ritenuto la fattispecie estranea ai
profili disciplinatori della legge n. 287 del 1990.
Quanto al secondo rilievo, merita osservare l’evoluzione che il
sistema civilistico ha subito nel corso degli ultimi anni, specie sotto
l’energica spinta del legislatore comunitario. In particolare si consideri la
disciplina consumeristica, le norme a tutela del risparmiatore e
dell’investitore nei confronti delle banche e degli intermediari, nonché la
39 A. Boso Carretta, Interruzione del rapporto di distribuzione integrata e abuso di dipendenza
economica,cit., pag. 351.
già richiamata legge in tema di subfornitura. Il divieto di abuso di
dipendenza economica viene a collocarsi in tale quadro di insieme, dal
quale emerge una nuova nozione di ordine pubblico che assume, sulla
scorta dell’art. 2 della Costituzione, la tutela della parte contrattuale definita
debole come valore essenziale dell’ordinamento. In questi termini, il divieto
in parola non può ritenersi eccezionale rispetto ad una regola di assoluta
autonomia che non c’è.
A conforto della lettura “estensiva” dell’art. 9 della legge sulla
subfornitura, si pone, inoltre, il collegamento ripristinato con la disciplina
antimonopolistica, a mezzo del comma 3-bis. La configurabilità di un abuso
di dipendenza economica, pregiudizievole per il mercato e la concorrenza,
e tale da indurre a mettere in campo qualcosa in più rispetto ai meccanismi
di tutela di private enforcement, mal si concilia con una visione riduttiva della
norma, non essendo credibile che soltanto gli squilibri nei rapporti tra
committente e subfornitore siano in grado di costituire una minaccia
paragonabile all’abuso di posizione dominante41.
40 Ordinanza del Trib. Bari, 2 luglio 2002, in Foro It., 2002, I, pagg. 3208 ss.;
Ordinanza del Trib. Taranto, 22 dicembre 2003, in Foro It., 2004, I, pagg. 262 ss.; Ordinanza
del Tribunale di Roma, 29 luglio 2004, in Aida, 2005, pagg. 533 e ss..
41 A. Palmieri, Abuso di dipendenza economica, cit., pag. 3214.
5. ANALISI DI SISTEMA: BUONA FEDE ESECUTIVA ED
EQUITÀ.
A prescindere dal riferimento all’art. 9 della legge sulla subfornitura e
alle questioni sulla sua applicabilità “estesa”, la dottrina prevalente ritiene di
poter ricondurre il fenomeno dell’abuso di dipendenza economica nell’alveo
del principio di buona fede oggettiva. In particolare, esso viene utilizzato come
strumento per verificare l’effettiva abusività della condotta tenuta dall’impresa
dominante, nell’esercizio delle sue prerogative negoziali.
Come si ricorderà, l’abuso venne definito come alterazione funzionale
di un diritto o di una libertà, i quali vengono esercitati per la realizzazione di
interessi non riconosciuti dall’ordinamento (vedi supra, par. 1). In ambito
negoziale (concernente sia la fase precontrattuale, sia la fase esecutiva del
contratto), l’identificazioone degli interessi meritevoli di tutela - oltre i quali
matura l’abuso - viene compiuta attraverso i criteri valutativi riconducibili alla
buona fede.
La Corte di Cassazione è giunta alle medesime conclusioni, affermando
che criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è
quello dell'abuso del diritto. Come conseguenze di tale, eventuale abuso,
l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri,
diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti
in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva42.
Ricordiamo che per buona fede in senso oggettivo si intende la regola
di condotta che deve guidare le parti di un rapporto giuridico (obbligatorio o
contrattuale) al rispetto dei canoni della lealtà, della correttezza, della
trasparenza e della salvaguardia dell’interesse di controparte43.
Si tratta, con tutta evidenza, di una clausola generale che non impone
comportamenti a contenuto prestabilito. Detti comportamenti andranno di
volta in volta specificati alla luce delle concrete circostanze di attuazione del
rapporto44 .
Non vi è quindi dubbio che la condotta abusiva dell’impresa dominante
integri una violazione del generico dovere di operare secondo buona fede;
tuttavia, se ci sposta dal piano puramente concettuale a quello pratico, il rinvio
al criterio in parola potrebbe non risultare del tutto efficace, attesa la genericità
di esso.
In altri termini, è stato sostenuto che il principio di buona fede, qualora
non sia preceduto da una precisazione della sua portata prescrittiva, potrebbe
perfino divenire un limite all’applicazione della normativa in tema di abuso45.
42 Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, cit..
43 C. M. Bianca, Il Contratto, Milano, 2000, pag. 500.
44 Ibidem, pag. 502.
45 G. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei
contratti – Un’analisi economica e comparata, Torino, 2004, pag. 87.
La libertà nella quale viene trovarsi il giudice nella valutazione dei
comportamenti delle parti di un rapporto di dipendenza economica, nasconde
il rischio che vengano introdotti all’interno dell’ordinamento, disposizioni, di
pura ispirazione solidaristica, inconferenti rispetto alla fattispecie di abuso di
dipendenza economica e che rispondano unicamente a criteri di generica
giustizia sostanziale46.
In effetti, il problema che ora si pone è stabilire fin dove il giudice
possa spingersi nel sindacare il contenuto di un contratto, e segnatamente la
sua asserita “ingiustizia”, rimettendo in discussione ciò che le parti hanno
pattuito.
Il codice civile, eccezionalmente, consente, attraverso l’istituto della
rescissione (artt. 1447 e segg.), di invalidare il contratto per ragioni che
attengono al difetto di equivalenza economica tra le prestazioni, in presenza di
rigorosi e tassativi presupposti (lo stato di bisogno e di pericolo). L’operatività
della rescissione implica una situazione di menomata libertà contrattuale di una
delle parti, di cui l’altra approfitta (e di cui quindi abusa) a proprio vantaggio.
La situazione è assimilabile all’abuso di dipendenza economica, sennonché il
riferimento alla buona fede in senso oggettivo, come criterio valutativo unico
delle condotte illecite, rischia di ampliare (e forse svuotare) il contenuto del
divieto dell’art. 9, comprimendo eccessivamente l’autonomia delle parti.
46 A. Palmieri, Rifiuto (tardivo) di fornitura, in Foro It. 2002, I,c. 2187 e segg..
Peraltro, l’assenza di parametri certi a cui riferirsi, rischia paradossalmente di
rendere inutilizzabile lo strumento creando un vuoto di tutela non tollerabile.
A tale riguardo, secondo l’opinione di un Autore, sarebbe possibile fare
riferimento all’art. 3.10 dei principi UNIDROIT in materia di contratti
commerciali internazionali: il c.d. Gross Disparity47.
La norma consente di impugnare la validità di un contratto o di singole
clausole, quando l’uno o le altre attribuiscano ad una parte un vantaggio
ritenuto eccessivo (i.e. disparità di valore tra le prestazioni), e che sia privo di
giustificazione alla luce di circostanze di natura soggettiva (es: ignoranza,
inesperienza, inabilità a trattare) e oggettiva (scopo del contratto o sua natura).
Il giudizio andrà compiuto in termini obbiettivi, assumendo come termine di
paragone le relazioni d’affari che normalmente caratterizzano il settore di
riferimento.
L’articolo citato, ove applicato al fenomeno dell’abuso di dipendenza
economica, dovrebbe consentire una sufficiente concretizzazione del divieto e
un limite al controllo giudiziale sul contratto, scevro da discrezionalità
eccessiva48.
Come si vedrà meglio in seguito (infra, par. 6), le clausole contrattuali
con cui si realizza l’abuso di dipendenza economica sono nulle. La sanzione
47 F. Prosperi, Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza economica, cit., pagg. 311 e
segg.
48 Ibidem, pagg. 312-313.
civilistica della nullità viene normalmente spiegata ai sensi dell’ultimo comma
dell’art. 1418 c.c., trattasi infatti di nullità “testuale”, espressamente comminata
da una norma di legge.
Passando alle motivazioni giuridiche che sostengono la scelta del
legislatore, potrebbe farsi appello alla nozione di ordine pubblico di protezione, la
quale individua norme che non tutelano direttamente un interesse generale
della collettività ma alcuni soggetti giuridici in quanto appartenenti a ceti o a
gruppi sociali, caratterizzati da una situazione di particolare debolezza e
vulnerabilità e che necessitano di protezione da parte del legislatore. Tale è la
ratio individuata alla base della c.d. nullità di protezione49.
Una dottrina autorevole, sebbene isolata, offre una lettura diversa del
fenomeno. Le clausole abusive sarebbero nulle non perché illecite ma in
quanto “inique”50. La tesi in rilievo reputa che il giudice, ai sensi dell’art. 1374
c.c., possa comminare la nullità ogni qual volta la singola operazione
economica appaia, alla luce delle specifiche circostanze, contraria al principio
dell’equità.
La caducazione delle clausole è l’esito di un giudizio di iniquità che è
diverso rispetto a quello di illiceità, rappresentando una tecnica sanzionatoria
individualizzante.
49 F. Caringella, Manuale di diritto civile, Il Contratto, Milano, 2006, pag. 798.
50 F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, 1970, pag. 328.
L’illiceità opera in astratto e a priori poiché si pone come contrarietà a
norme imperative predeterminate. L’iniquità opera a posteriori e in concreto,
dipendendo da come il regolamento negoziale, di per sé lecito, è stato
costruito.
6. L’APPARATO RIMEDIALE.
In conclusione del presente lavoro, si vuole dare conto del sistema
di tutele che la legge sulla subfornitura appresta a difesa dell’imprenditore
dipendente.
Dispone l’art. 9, comma 3: “Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso
di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in
materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento
dei danni”.
In primo luogo, merita chiarire che il potere di sanzionare l’abuso
di dipendenza economica spetta, al ricorrere di determinate circostanze,
non solo al giudice civile, ma altresì all’Autorità Antitrust. È ben possibile,
infatti, che la fattispecie in esame assuma dimensioni tali da restringere o
falsare in maniera rilevante la concorrenza ed il mercato (art. 9, comma 3
bis). In tali casi, l’Autorità garante, d’ufficio o dietro segnalazioni di terzi,
potrà applicare all’impresa dominante le sanzioni e le diffide previste
dall’art. 15 Legge antitrust.
Si tratta, con piena evidenza, di una forma di tutela che ha ad
oggetto il mercato ed il suo regolare funzionamento. Per contro, l’autorità
giudiziaria ordinaria interviene a difesa della posizione soggettiva
dell’impresa dipendente. Sono, pertanto, piani di azioni non configgenti ma
fra loro complementari, e ciò basta a concludere per l’ammissibilità di un
cumulo di tutele, ciascuna da proporsi dinanzi all’organo statuale
competente (teoria dei procedimenti paralleli).
Per quanto concerne la tutela inibitoria (da far valere dinanzi al
giudice ordinario), tale possibilità è il frutto di una novella intervenuta nel
2001.
In termini generali, si ritiene che i provvedimenti che il giudice è
legittimato ad adottare possano concretizzarsi sia nell’obbligo di cessazione
di attività fino a quando l’abuso non avrà avuto fine (inibitoria negativa), sia
nell’obbligo di eliminare l’abuso stesso (inibitoria positiva).51
Si è discusso se dal carattere abusivo del rifiuto di vendere o
comprare
possa
discendere
un
obbligo
a
contrarre,
eseguibile
coattivamente ex art. 2932 cod. civ..
La soluzione deve essere negativa, sulla scorta delle seguenti
considerazioni.
Principalmente, dal divieto di rifiutare la conclusione del contratto
non può derivare l’obbligo a stipulare il contratto. Dedurre dal divieto di
un certo comportamento (rifiuto del contratto) l’esistenza di un obbligo
legale di tenere il comportamento contrario conforme alla norma
(conclusione del contratto), è un’argomentazione che prova troppo e,
51
R. Maugeri, Le modifiche alla disciplina dell’abuso di dipendenza economica,
in Modifiche alla disciplina dell’abuso di dipendenza economica e agli artt. 8 (imprese
quindi, non prova nulla: sarebbe come desumere dalla clausola generale di
cui all’art. 2043 c.c. l’obbligo specifico di ciascun consociato di non recare
danno ad altri, con la conseguenza di far passare per mancata esecuzione di
un rapporto obbligatorio una condotta che, per definizione, ne rimane
fuori52.
Inoltre, valga un’argomentazione di ordine teorico-pratico:
l’autonomia contrattuale può essere limitata mediante l’imposizione di un
obbligo a contrarre soltanto se la legge detta presupposti e contenuti del
contratto imposto, a meno che non si voglia attribuire al giudice il potere di
definirne arbitrariamente i termini53.
In dottrina è stata, tuttavia, proposta una diversa lettura che
attribuisce al giudice il potere di riconoscere l’avvenuta stipulazione
dell’accordo, come unica soluzione realmente in grado di perseguire le
finalità di tutela dell’impresa debole fatte proprie dal legislatore. Alla base di
tale teoria sta il principio per cui il requisito della determinabilità
dell’oggetto del contratto (art. 1346 c.c.) non deve necessariamente essere
endocontrattuale. L’elemento della relatio non dovrà essere sancito all’interno
del negozio. La volontà delle parti viene integrata con elementi estrinseci,
pubbliche e in monopolio legale) e 15 (diffide e sanzioni) dalla legge antitrust, Commentario
a cura di V. Meli, in Nuove leg. civ. comm., 2001, pag. 1078.
52 V. Pinto, op. cit., pag. 414.
53 D. Maffeis, Abuso di dipendenza economica, in G. De Nova (a cura di), La subfornitura,
Milano, 1998, pag. 81
desumibili dal complesso dei rapporti intercorrenti tra le stesse o
comunque, nell’ipotesi limite dell’assenza di relazioni commerciali
pregresse, dalle condizioni abitualmente praticate nel mercato di
riferimento,
con
conseguente
riconoscimento
di
un’ipotesi
di
determinazione ex lege, mediante l’intervento del giudice, del contenuto del
contratto54.
Con riferimento alla nullità, è pacifico che detta sanzione trovi
applicazione rispetto ai soli abusi “contrattuali” (le clausole gravose o
discriminatorie). Ne rimangono esclusi, quei comportamenti che si
pongono al di fuori del contratto, quali il rifiuto di vendere o comprare,
l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali. In ordine a tali
condotte, le tutele ammesse sono quella inibitoria e risarcitoria55.
La nullità ha carattere necessariamente parziale. Lo si evince dalla
lettera della norma in commento, la quale sanziona con la nullità il patto
abusivo. Ciò è vero, salvo non sia il contratto nel suo complesso ad
assumere carattere vessatorio. L’opinione dominante, che ricostruisce la
sanzione in termini di nullità parziale, esclude l’applicabilità dell’art. 1419
c.c.. La sopravvivenza del contratto viene infatti ritenuta coerente, sul
piano teleologico, con l’obbiettivo di «giustizia sostanziale» e di equilibrio
54 V. Roppo, Trattato del Contratto, vol. II, Regolamento, Milano, 2006, pagg. 58-59
55 C. Pilia, Circolazione giuridica e nullità, Milano, 2006, pag. 356.
del rapporto, perseguito dal legislatore anche nel quadro dei rapporti
business to business56.
Non mancano, tuttavia, voci dissonanti che fanno comunque
rientrare la fattispecie nell’art. 1419 cod. civ57. Laddove, infatti, la clausola
dichiarata nulla ― concernente il contenuto economico dello scambio e
non una semplice modalità di attuazione dell’assetto di interessi concordato
― non venisse sostituita da una norma imperativa, secondo il meccanismo
dettato dall’art. 1419, II comma, il contratto si troverebbe privato di un suo
elemento essenziale58.
Nel caso in cui venisse riconosciuta la nullità dell’intero contratto,
l’impresa in situazione di dipendenza economica potrebbe comunque
chiedere il risarcimento del danno nel caso di successivo rifiuto da parte
dell’impresa forte di stipulare un nuovo contratto, quando il rifiuto sia
basato esclusivamente sull’impossibilità di inserire nel contratto la clausola
eccessivamente onerosa dichiarata nulla.
La legittimazione attiva dovrebbe essere assoluta. L’art. 9, infatti,
non pone, infatti, alcuna deroga all’art. 1421 c.c.. Parte della dottrina,
tuttavia, ha ritenuto che solo all’imprenditore leso spetterebbe la decisione
sulle sorti del contratto. Seguendo la logica della tutela del contraente
56 V. Roppo, Trattato del Contratto, cit., pag. 54.
57 A. Mazziotti Di Celso, Abuso di dipendenza economica, in G. Alpa - A. Clarizia (a
cura di), La Subfornitura, Commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192, Milano, 1999, pag. 258.
debole, appare coerente escludere la legittimazione assoluta, attribuendo la
legittimazione a far valere la nullità al solo contraente in situazione di
dipendenza economica: “il carattere protettivo della norma fa poi propendere per la
relatività del rimedio, quando anche la norma parli di nullità per meglio garantire
l’opponibilità dell’invalidità al terzo, e l’imprescrittibilità dell’azione”59.
Infine, per quanto concerne il risarcimento del danno, è senz’altro
lecito affermare che esso sia destinato a trovare applicazione in qualsiasi
ipotesi di abuso e, pertanto, sia nel caso di danni eventualmente
conseguenti all’abuso di autonomia contrattuale all’interno del contratto,
già sanzionato mediante la nullità delle relative clausole, sia nel caso di
danni derivanti dalla condotte esterne al rapporto contrattuale, quali il
rifiuto di contrattare e l’arbitraria interruzione di relazioni commerciali60.
Riguardo alla natura della responsabilità da cui scaturisce l’obbligo
risarcitorio, si sostiene la sua natura ibrida: contrattuale laddove l’abuso si
manifesti nella violazione degli obblighi di buona fede; aquiliana, nei casi di
mancanza di un pregresso rapporto giuridico (rifiuto di contrarre)61.
58 Albanese, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in
Eur. dir. priv., 1999, I, pag. 1194.
59 T. Longu, Il divieto dell’abuso di dipendenza economica nei rapporti tra le
imprese, in Riv. dir. civ., 2000, pag. 375.
60 M. Treccani, Subfornitura e abuso di dipendenza economica: presupposti e rimedi, in Riv.
Dir. Civ., 2005, pag. 719.
61 R. Caso – R. Pardolesi, La nuova disciplina del contratto di subfornitura industriale:
scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori, in Riv. Dir. Priv., 1998, pag. 734 e s..
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