L`abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising
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L`abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising
Dipartimento di Scienze giuridiche CERADI – Centro di ricerca per il diritto d’impresa L’abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising Fabrizio Cicchelli Febbraio 2010 © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione L’abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising 1. INTRODUZIONE 3 2. LA NOZIONE DI ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: TRA ECONOMIA E DIRITTO. 5 3. FORME DI ABUSO NEI CONTRATTI DI FRANCHISING 14 4. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 9, LEGGE N. 192 DEL 1998. 24 5. ANALISI DI SISTEMA: BUONA FEDE ESECUTIVA ED EQUITÀ. 29 6. L’APPARATO RIMEDIALE. 35 BIBLIOGRAFIA 41 1. INTRODUZIONE Il presente saggio intende esplorare alcune delle questioni concernenti il fenomeno dell’abuso di dipendenza economica quando sia riferito all’operazione contrattuale denominata franchising. In particolare, scopo precipuo della trattazione sarà, dapprima, quello di evidenziare le ragioni che inducono a sollevare, rispetto al franchising, un problema circa l’insorgenza di tale forma di illecito. Sono ragioni “strutturali” o “fisiologiche”, attenenti, cioè, al modo tipico di essere del rapporto franchisorfranchisee, rapporto suscettibile, per sua intima natura e per vocazione funzionale, di degenerare in manifestazioni abusive a danno della parte contraente ritenuta debole. Esiste, dunque, una sorta di contiguità logica tra il contratto di franchising ed il tema dell’abuso di dipendenza economica; una relazione concettuale che, peraltro, appartiene a tutti i rapporti tra imprese, nei quali l’una parte si trovi ad essere, per disequilibrio economico e di mercato, in una posizione di preminenza contrattuale rispetto all’altra: starà a chi scrive tentare di illustrare in che termini la detta relazione si presenti in concreto nel franchising. Altro problema riguarda l’inquadramento giuridico e sistematico della fattispecie. Invero, non è dato riscontrare nell’ordinamento giuridico una normativa specificamente dedicata a tale forma di abuso nell’ambito dei contratti di distribuzione. La normativa va pertanto individuata, anche in via di interpretazione analogica, e quindi impiantata all’interno del sistema del codice civile. Precisamente, l’identificazione degli appropriati addentellati codicistici e dei principi generali di riferimento, consentirà di meglio comprendere la logica dell’istituto in un’ottica di visione complessiva. Si comprenderà allora come la tematica in esame costituisca uno dei momenti più sensibili nei quali viene ad esprimersi il delicato rapporto tra autonomia del volere (libertà negoziale) e interesse generale (volontà della norma). Infine, a chiusura del cerchio espositivo, si darà brevemente conto dell’apparato rimediale a tutela della parte danneggiata. 2. LA NOZIONE DI ABUSO DI DIPENDENZA ECONOMICA: TRA ECONOMIA E DIRITTO. Preliminare ad ogni discorso relativo all’abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising, è stabilire cosa debba intendersi, in termini generali, per abuso di dipendenza economica. Solo in un secondo momento sarà possibile stabilire se la figura in esame possa davvero ricorrere, e secondo quali particolarità, nei rapporti contrattuali in parola. Conviene, anzitutto, scomporre la fattispecie nei suoi tre momenti costitutivi: “la dipendenza economica”, il suo “abuso”, il “pregiudizio” che ne deriva. Ognuno di tali elementi dovrà ricorrere perché l’illecito possa dirsi integrato. L’analisi della nozione non può non prendere le mosse dalla definizione normativa. L’abuso di dipendenza economica è infatti espressamente regolato dalla L. 192 del 1998, e segnatamente dall’art. 9. Sebbene la legge citata si riferisca ai soli contratti di subfornitura, da essa è comunque possibile trarre lo spunto per la ricostruzione della figura come categoria generale eventualmente applicabile ai contratti di impresa. Riportiamo il testo del primo comma della norma: “È vietato l'abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, una impresa cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un'impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un'altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. In definitiva, la dipendenza economica costituisce la traduzione, in termini giuridici, di una situazione di monopolio, o quasi monopolio, nella quale una impresa viene a trovarsi nei confronti di un’altra. Essa si manifesta in un minor potere contrattuale, cioè nella ridotta o annullata capacità di ottenere condizioni contrattuali a sé favorevoli1. La minorata libertà di contrattazione è determinata dalla difficoltà o impossibilità di reperire alternative sul mercato di riferimento e ad essa corrisponde il potere, della impresa contrattualmente forte, di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi tra le parti. È bene precisare che, nella prospettiva della norma, tale “squilibrio” non costituisce un requisito “reale” dell’illecito, cioè il suo evento dannoso. Esso vale, piuttosto, a qualificare il contenuto del potere dell’impresa dominante e dunque ad esprimere i connotati della particolare situazione di dipendenza economica rilevante ai fini dell’applicazione della disposizione in esame. L’eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi assume, allora, una portata meramente potenziale e come tale va apprezzata: sussiste una caso di dipendenza economica quando un’impresa sia in grado di determinare il contenuto di un (eventuale e futuro contratto) nei riguardi di un’impresa cliente o fornitrice, in modo da creare un significativo squilibrio tra prestazione e controprestazione2. Per contro, non occorre che l’esercizio abusivo di tale potere sfoci necessariamente nella conclusione di un contratto gravemente squilibrato, potendo, invece, dare luogo a pregiudizi di diversa natura, quali il rifiuto di contrarre o l’interruzione del rapporto commerciale. Sotto questo riguardo, la tutela apprestata in materia di impresa è di contenuto più ampio ed eterogeneo rispetto alla disciplina c.d. consumeristica (D. Lgs. 206/2005 – Codice del Consumo -). La dipendenza economica rappresenta il primo requisito, per ordine cronologico e logico, della fattispecie, ma non l’unico. Allo stato di dipendenza, e dunque alla capacità dell’impresa dominante di provocare l’eccessivo squilibrio di diritti e obblighi, deve far seguito una condotta abusiva dell’impresa medesima, che costituisca concreta attuazione della detta capacità. Torniamo al dato normativo, e in particolare al comma secondo dell’art. 9: “l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto”. 1 L. Delli Priscoli, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, in Giur. merito, 2006, 10, p. 2153. 2 V. Pinto, L’abuso di dipendenza economica «fuori dal contratto» tra diritto civile e diritto antitrust, in Riv. Dir. Civ., 2000, p. 400. L’art. 9, mentre dà piena indicazione sulla nozione di dipendenza economica, tace rispetto a quella di abuso, limitandosi a prospettare un elenco di ipotesi tipiche nelle quali la condotta abusiva può concretarsi; elenco, peraltro, puramente esemplificativo3. Cosa, dunque, deve intendersi per abuso, e in cosa l’abusività si differenzia dalla semplice illiceità? L’abuso implica l’esistenza di un diritto. La tutela accordata al diritto soggettivo è potenzialmente senza limiti salvo il dovere di non abusarne, specificazione del più generale dovere di solidarietà, costituzionalmente sancito (art. 2, Cost.)4. Più in particolare, l’abuso si concretizza nella alterazione dell’elemento funzionale di un potere normativamente riconosciuto5, il quale viene esercitato per la realizzazione di interessi che la norma costitutiva non garantisce. È stato autorevolmente notato che sebbene «tale principio non sia stato espressamente contemplato dal codice del 1942, esso è presente nel nostro ordinamento come diretta emanazione della concezione dei diritti soggettivi quali forme di tutela di interessi socialmente apprezzabili»6. Una sua concreta applicazione è rappresentata dal divieto degli atti emulativi ex art. 833 c.c.. 3 S. Benucci, Le prime pronunce in tema di «abuso di dipendenza economica» , in G. Vettori (a cura di), Concorrenza e Mercato, Milano, 2005, p. 491. 4 F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2004, pag. 57. 5 Salv. Romano, Abuso del diritto, in Enc. dir., Aggiornamento, I, pag. 167. 6 C. M. Bianca, La Proprietà, Milano, 1999, pag. 196. In definitiva, il divieto di abuso si pone come norma generale che, pur lasciando al soggetto la discrezionalità del suo diritto, viene a condizionarne la tutela alla concreta socialità, reprimendone e condannandone l’esercizio quando sia rivolto a scopi che risultino contrari a quelli per cui è stato riconosciuto al suo titolare7. Alla medesima conclusione è giunta la più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui «l'abuso del diritto (...) lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore»8. È rilevante notare come tali obbiettivi vadano interpretati e ricercati alla luce del principio della funzione sociale che presiede all’esercizio di ogni diritto soggettivo, secondo una applicazione generalizzata dell’art. 42 della Costituzione. Con riguardo al tema oggetto del presente saggio, il divieto trova un suo più preciso riferimento nelle disposizioni codicistiche che impongono obblighi di comportamento secondo correttezza e buona fede (artt. 1175, 7 Finzi, in Riv. Dir. Priv., 1936, I, pag. 24. 8 Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106. Secondo la Cassazione: «Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte». 1337 3 1375 c.c.) nell’esercizio della autonomia negoziale, come meglio si vedrà più avanti (vedi infra, par. 2). Si considerino ora le singole fattispecie abusive descritte dall’art. 9. L’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie è tra le più significative forme di abuso. Essa viene talvolta accostata, più per affinità terminologica che per reale analogia di contenuti, alla disciplina consumeristica in materia di clausole vessatorie. Invero, l’accostamento pare inappropriato a causa della diversità delle funzioni svolte e dei differenti ambiti applicativi. La normativa del Codice del Consumo tende a dare tutela alla parte contrattualmente debole (il consumatore), per incapacità ed inesperienza di quest’ultimo, a fronte dell’organizzazione e delle conoscenze del professionista. La disciplina sul’abuso di dipendenza economica vuole, invece, correggere il disequilibrio nel rapporto tra imprenditori, creato da un patologico contesto di mercato9. Inoltre, l’abuso di dipendenza economica può manifestarsi, e di regola si manifesta, anziché nella fase puramente genetica del contratto, nel momento successivo della rinegoziazione. Infatti, i tratti peculiari del rapporto commerciale instaurato e le condizioni di mercato, di fatto monopolistiche, nelle quali viene a trovarsi l’impresa cliente, permettono al 9 G. Agrifoglio, Abuso di dipendenza economica e l’asimmetria nei contratti di impresa (B2b), in Contratto e impresa, 2008, 11, pag. 1335. partner dominante, che voglia abusare del suo potere, di riappropriarsi delle utilità a cui aveva rinunciato in sede di trattative. Il giudizio sulla ingiustificata gravosità delle condizioni contrattuali si impone sia in termini giuridici che patrimoniali, alternativamente o cumulativamente fra loro. Pertanto, il giudice potrà valutare, oltre all’assetto giuridico predisposto dalle parti, anche l’adeguatezza del corrispettivo10, giudizio da compiersi avuto riguardo alle condizioni del mercato, i costi sostenuti dall’imprese, ed i margini di guadagno. Si evidenzia così una ulteriore differenza fra la forma di abuso in esame e quella corrispondente regolata nel Codice del consumo, laddove apprezzamenti di tale natura sono espressamente esclusi (art. 34, comma 2, Codice del Consumo). Le clausole contrattuali si rivelano abusive anche quando esprimono un trattamento discriminatorio. Viene, infatti, previsto il divieto di applicare condizioni diverse e peggiori senza una giustificazione economica, rispetto ad imprese concorrenti11. Si ritiene che la norma sanzioni altresì le ipotesi di discriminazione passiva, le quali ricorrono quando 10 F. Prosperi, Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza economica. Profili ricostruttivi e sistematici, Napoli, 2002, pag. 315. 11 D. Maffeis, Il contraente e la disparità di trattamento delle controparti, in Riv. dir. priv., 2006, pag. 336. l’impresa dominante operi in modo da ottenere dai propri clienti condizioni diverse rispetto a quelle che sono praticate nei riguardi di altri soggetti12. Riguardo al rifiuto di vendere e contrarre – particolarmente frequente nei rapporti di distribuzione integrata – merita sottolineare la diversità di fattispecie rispetto agli illeciti maturati in violazione degli obblighi previsti dall’art. 2597 e 1679 del codice civile. Vi è una sostanziale diversità di presupposti. Gli articoli citati fanno riferimento a situazioni di controllo dell’intero settore economico, per provvedimento della Pubblica Autorità o per monopolio di fatto, e si pongono a salvaguardia della libertà negoziale e della parità di trattamento, a tutela del consumatore13. L’art. 9 prospetta una situazione di dipendenza economica inter partes, che coinvolga esclusivamente imprese (c. d. monopolio posizionale o dominanza relativa). Inoltre, l’obbligo a negoziare non è assoluto ma sorge solo nel caso in cui un’eventuale rifiuto assuma i caratteri dell’abuso14. Nell’ipotesi dell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, un problema di abusività può porsi, ovviamente, solo laddove il rapporto venga interrotto per effetto dell’esercizio di una facoltà in sé 12 F. Prosperi, op. cit., pag. 317. 13 L. Nivarra, L’obbligo a contrarre e il mercato, Padova, 1989. 14G. Ceridono, Commento all’art. 9, in Disciplina della subfornitura nelle attività produttive (l. 18 giugno 1998, n. 192), Commentario a cura di N. Lipari, in Nuove leggi civ. comm., 2000., pag. 449. legittima. Ragionando diversamente, non di condotta abusiva potrà parlarsi ma di inadempimento contrattuale. Ciò chiarito, l’ipotesi ricorre nell’esercizio di esercizio recesso e di disdetta contrattuale15. Indice dell’abusività del comportamento è prevalentemente la concessione di un termine di preavviso non adeguato (salvo giusta causa) alle esigenze dell’impresa dipendente, la quale viene a trovarsi nella impossibilità di recuperare l’esposizione debitoria contratta in vista di un ragionevole affidamento sulla durata dell’accordo. A tale riguardo, la normativa speciale sul franchising (L. 6 maggio 2004, n. 129, art. 3, comma 3) detta esplicitamente una tutela a favore del franchisee, imponendo all’affiliante, in ipotesi di contratti a tempo determinato, la garanzia di una durata minima del rapporto, sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni. Si ritiene che la norma sia estensivamente applicabile anche ai casi di contratti a tempo indeterminato16. 15 G. Ceridono, op. cit., pag. 450. 16 M. Cian, La nuova legge sull’affiliazione commerciale, in Nuove leg. civ. comm., 2004, pag. 1166 3. FORME DI ABUSO NEI CONTRATTI DI FRANCHISING La nozione generale di abuso di dipendenza va ora applicata alla fattispecie del franchising. Il contratto di franchising, è disciplinato dalla Legge del 6 maggio 2004, n. 129, la quale, per la verità, utilizza il nomen iuris di “affiliazione commerciale”. Il contratto regola il rapporto di due parti, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale l’una (l’affiliante o franchisor) concede la disponibilità all’altra (l’affiliato o franchisee), verso un corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti d’autore, know-how, brevetti, fornendo, inoltre, assistenza o consulenza tecnica e commerciale. Il franchisee viene, in tal modo, inserito in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare beni o servizi (art. 1, comma 1). Non è chiaro se il package debba necessariamente comprendere tutti gli elementi indicati; è essenziale, comunque, che vi risulti il know-how17. Non occorrerà illustrare nel dettaglio l’articolato della legge, basti solo tenere a mente l’art. 3, comma 3, sopra citato (vedi retro, par. 2). La norma, nell’esprimere l’esigenza di salvaguardare gli investimenti compiuti 17 G. De Nova, La nuova legge sul franchising, in I Contratti, nn. 8-9, 2004, pag. 762. dall’affiliato e consentirne l’ammortamento, esplicita le reali ragioni dell’esistenza della dipendenza economica nei rapporti in parola. Il franchising è un contratto di cooperazione18. L’affiliato deve mantenere la propria attività nell’ambito delle direttive tracciate dall’affiliante19. Più precisamente, il piano di mercato viene elaborato dall’affiliante e deve essere eseguito dall’affiliato anche per quanto riguarda i locali in cui le vendite devono essere eseguite (ivi compreso l’arredamento) nonché il tipo di pubblicità e altre rilevanti scelte20. Il franchisee è tenuto, inoltre, ad utilizzare il marchio e le insegne dell’affiliante e gli viene imposta tassativamente l’esclusiva. Tutto ciò risponde alla finalità del franchisor di ottenere una rete omogenea di distribuzione21. Il quadro sommariamente delineato permette di comprendere l’intima connessione esistente tra affiliante e affiliato, il quale all’esterno appare persino un preposto del primo, al punto che si utilizza l’espressione “imprenditore satellite”22. 18 Sentenza della Corte di Appello di Bologna, 12/02/1994, in Giu 1994, pag. 150. 19 S. Monticelli, G. Porcelli, I Contratti dell’impresa, Torino 2006, pag. 53. 20 A. Frignani, Il Contratto di franchising, Milano, 1990, pag. 72. 21 S. Monticelli, G. Porcelli, op. cit., pag. 53. 22 Al riguardo, si è posto il problema della responsabilità del franchisor per le obbligazioni contratte dal franchisee. Tribunale di Crema 23/11/1994, in I Contratti, 1996, pag. 52. Le ragioni della sussistenza di una condizione di dipendenza economica dell’affiliato rispetto all’impresa affiliante, dovrebbero, a questo punto, essere chiare. Essa sorge quando si è dedicata la propria attività imprenditoriale ad un unico produttore. Il franchisee, per adeguarsi al particolare sistema di produzione e distribuzione, dell’impresa cliente e fornitrice, effettua investimenti e acquisisce conoscenze non facilmente reinvestibili o convertibili in un altro futuro ed eventuale rapporto. In altri termini, viene a trovarsi nella situazione di non poter profittare di soddisfacenti alternative sul mercato, esattamente come richiesto dall’art. 9 della legge sulla subfornitura. Tali alternative, pur presenti in astratto, richiederebbero la perdita di quegli investimenti e di quelle conoscenze, prospettiva questa che induce l’affiliato a sottostare al potere decisorio della controparte. Si parla, al riguardo, di «investimenti idiosincratici», effettuati in funzione di una determinata relazione d'affari, ed al tempo stesso difficilmente recuperabili in usi alternativi23. Strettamente legata al fenomeno dell’abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising di distribuzione è la clausola di esclusiva. In primo luogo, la clausola di esclusiva può essere posta a vantaggio del franchisor, in modo che questi possa contare su uno sbocco per i propri beni. 23 P. Fabbio, L’abuso di dipendenza economica, Milano, 2006, pagg. 270 e segg.. È evidente che la predetta clausola impedisce all’affiliato di reperire sul mercato alternative al rapporto con la controparte, determinando o rafforzando la posizione di dominanza relativa del franchisor. Ci si è interrogati se questa situazione valga davvero ad identificare una situazione di dipendenza economica, posto che la clausola è stata liberamente accettata dal franchisee e assunta per contratto. Invero, non sembra che l’art. 9 della legge sulla subfornitura tuteli l’imprenditore dipendente soli in casi di mancanza di alternative imprevedibili, derivante da una situazione che si viene a creare a seguito di un lungo rapporto24, tanto più che l’elemento della dipendenza è assolutamente fisiologico nei rapporti di franchising. Il patto di esclusiva può venire previsto a favore dell’affiliato. Si vuole in tal modo assicurare a quest’ultimo una fetta di mercato, al riparo dalle ingerenze di distributori dello stesso bene. È fuor di dubbio che la violazione di tale esclusiva dia luogo a inadempimento contrattuale. La dottrina si è interrogata sulle soluzioni giuridiche da adottare nelle ipotesi in cui la clausola in parola non sia stata prevista e il franchisor, approfittando di tale lacuna, abbia inserito un nuovo franchisee nella stessa zona in cui operava il primo. A tale riguardo, merita osservare che 24 L. Delli Priscoli , Il divieto di abuso di abuso di dipendenza economica nel Franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, cit., pagg. 2153 e segg.. l’esclusiva di vendita non è considerato elemento né essenziale, né naturale del contratto di franchising25, ma rimesso alla esclusiva autonomia delle parti. Nondimeno, il problema va considerato alla luce della normativa sull’abuso di posizione dominante. L’affiliato stipula il contratto di franchising, accettando limitazioni alla propria iniziativa imprenditoriale, in vista del conseguimento di un profitto che assume “garantito” dal fatto di poter commercializzare un prodotto che agli occhi del consumatore costituisce un “unicum”26. Il franchisee che inserisce nella rete distributiva un nuovo distributore, può allora compiere una condotta abusiva, perché tradisce lo spirito del contratto, riducendo le potenzialità di profitto del vecchio affiliato, e massimizzando le proprie aspettative di guadagno. Naturalmente, l’abusività del comportamento dell’affiliante va valutata avendo riguardo alle concrete circostanze del caso. Non è da escludere, infatti, che detto comportamento possa ritenersi giustificato in quanto diretto a sanzionare un affiliato inefficiente o che non abbia adempiuto ad alcuni dei propri doveri. Ai fini della verifica dell’abusività, deve anche valutarsi il grado di affidamento che il vecchio affiliato poteva vantare sul mantenimento della zona in cui, di fatto, agiva da solo, in relazione a comportamenti 25 G. De Nova, I nuovi contratti, Torino 1990, p. 159. 26 L. Delli Priscoli, Patto di esclusiva e rapporti tra franchisee, in Giuri. comm. 2001, 05, pagg. 581 e segg. precedentemente tenuti dall’affiliante e alla distanza degli altri franchisees fra di loro27. Pertanto, pur in assenza di una clausola di esclusiva, l’inserimento di un nuovo distributore da parte del franchisor all’interno di una zona nella quale operava un altro franchisee, costituisce abuso di dipendenza economica ai sensi dell’art. 9 della legge 192 del 1998, quando non sia motivato da un comportamento negligente dell’affiliato, non sia previsto dal contratto o non sia prevedibile in base a circostanze già presenti al momento della stipula del negozio28. Ipotesi in parte analoga si verifica allorché sia lo steso affiliante ad intromettersi nella zona operativa dell’affiliato. Il carattere abusivo della vicenda si manifesta in maniera particolarmente evidente quando l’affiliante abbia imposto un prezzo di vendita all’affiliato e venda, nel contempo, gli stessi beni ad un prezzo più basso agli stessi clienti. Nei rapporti di distribuzione integrata, fra i quali spiccano i contratti di franchising, ricorrente è la situazione di conflitto originata dalla interruzione della relazione commerciale. La specificità degli investimenti assunti dal franchisee, e l’oggettiva difficoltà di una loro riconversione, rende il recesso o la disdetta del franchisor potenzialmente dannosa. 27 Ibidem, pagg. 581 e segg.. Si tratta di stabilire quando la decisione di porre fine al contratto o di impedirne la tacita rinnovazione costituisca esercizio di facoltà legittima e quando, invece, assuma i connotati dell’abuso. A tale proposito, l’art. 3, comma 2, della Legge n. 129, del 6 maggio 2004 (Norme per la disciplina dell’affiliazione commerciale), dispone che nei contratti a tempo determinato, l’affiliante dovrà comunque garantire all’affiliato una durata minima sufficiente all’ammortamento dell’investimento e comunque non inferiore a tre anni. La norma offre lo spunto per dare soluzione al problema. A ben guardare, nei contratti a tempo determinato, laddove il termine pattuito si riveli insufficiente ad assicurare l’ammortamento degli investimenti, la decisione di non proseguire la relazione commerciale si pone in termini di rifiuto di contrarre (nuovamente), o, in altri termini, di rifiuto di accordare una proroga sulla durata del contratto (rifiuto di rinegoziare). Soltanto se è prevista una clausola di rinnovo tacito, salvo disdetta, si rientra nell’ambito della interruzione di relazione commerciale. Nelle ipotesi di contratti a tempo indeterminato, il problema è chiaramente circoscritto all’esercizio del recesso ad nutum. Ciò posto, l’abusività dell’affiliante va giudicata in concreto, contemperando gli opposti interessi in gioco. 28 Ibidem, pagg. 581 e segg. Ove la decisione di interrompere il rapporto di franchising non trovi giustificazione nell’inadempienze dell’affiliato (nel qual caso un problema di condotta opportunistica non si porrebbe neppure), essa deve comunque corrispondere ad effettive necessità aziendali dell'impresa dominante29, oppure deve consentire il rimborso, anche solo parziale o frazionario, degli investimenti ai quali l'impresa dipendente è stata obbligata o quanto meno nelle ipotesi di recesso- deve prevedere un termine di preavviso che sia congruo in relazione agli obblighi contrattuali assunti dalle parti e alle possibilità di reperire alternative commerciali. Ne deriva che la clausola di recesso ad nutum, se inserita in un contratto che comporti obblighi di investimento a carico dell'impresa dipendente, è valida solo se preveda un termine di preavviso tale da permettere l'ammortamento degli investimenti compiuti, o comunque il reperimento sul mercato di alternative commerciali atte a consentire il reimpiego del capitale investito30. Per contro, la reciprocità del patto non è sufficiente ad escludere l’abusività del recesso. La reciprocità infatti solo apparentemente pone le parti in una condizione di uguaglianza contrattuale, ma non vale ad escludere un disequilibrio sostanziale, legato proprio alla diversità delle 29 Il Tribunale di Roma, con decisione del 5 novembre 2002, in Foro It., 2003, I, 3440, ha disposto che qualora ricorra una situazione di oggettiva necessità aziendale, l’esercizio del diritto di recesso con un preavviso di dodici mesi, anziché di ventiquattro, non costituisce abuso di dipendenza economica in quanto non integra l’ipotesi di interruzione arbitraria delle relazioni commerciali. posizioni economiche in cui si trovano le parti del rapporto, ed anche alla disparità di posizioni contrattuali determinata dalla combinazione della clausola di recesso reciproca con altre clausole impositive di obblighi unilaterali a carico dell'impresa dipendente31. Erra, dunque, Tribunale di Torino laddove afferma che il contratto che attribuisca ad entrambe le parti del rapporto la facoltà di recessoponendole su di un piano di pari dignità – non vale a configurare un’ipotesi di abuso di dipendenza economica32. Infatti, se il contratto può anche apparire equilibrato, non manifestando un eccessivo squilibrio di diritti e obblighi, ciò non significa che sia altrettanto legittimo l’esercizio della, pur reciproca, facoltà di recesso. Premessa l’esistenza di una situazione di dipendenza economica, essa può concretizzarsi non solo in clausole negoziali svantaggiose per una parte a beneficio dell’altra, ma altresì in condotte che si pongono “fuori” dal contratto, quali il rifiuto di vendere o comprare e l’interruzione del rapporto commerciale. La valutazione di tali forme di abuso deve superare il dato puramente giuridico ed estendersi al contesto economico e di mercato nel quale il franchisee opera. Nelle fattispecie di franchising di distribuzione, particolarmente avvertito è il problema del rifiuto a contrarre, e segnatamente di vendere, opposto dal franchisor al franchisee. Più precisamente, la questione si pone 30 A. Boso Carretta, op. cit., pagg. 350 e segg.. 31 Ibidem. allorché il contratto lasci piena libertà all’impresa dominate di decidere se fornire determinati prodotti all’affiliato, e in quale misura. La condotta di diniego è da ritenersi illecita, ai sensi del citato art. 9, quando non sia supportata da valide giustificazioni, celando un intento palesemente emulativo. D’altra parte, è suscettibile di integrare un abuso di dipendenza economica, altresì il rifiuto di acquistare le scorte rimaste invendute, al termine del rapporto contrattuale. In merito si è osservato che l’abusività del rifiuto dipende da talune circostanze: dall’esistenza di una clausola che vieti al franchisee di vendere i prodotti in concessione alla scadenza del contratto; dalla durata del termine di preavviso per lo scioglimento del rapporto, il quale termine non consente di collocare le rimanenze sul mercato; dal fatto che il franchisee non abbia acquistato scorte in misura anomala, durante il periodo di pendenza del termine di preavviso per lo scioglimento del rapporto33. 32 Trib. Torino 18 marzo 2003, in Gius, 2003, 1502. 33 R. Natoli, L’abuso di dipendenza economica. Il contratto e il mercato, Napoli, 2004, pagg. 128 e segg.. 4. L’AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 9, LEGGE N. 192 DEL 1998. L’abuso di dipendenza economica nei contratti di franchising non è soggetto ad una disciplina specifica. La legge n. 192 del 1998 è, infatti, esplicitamente dedicata alla fattispecie del contratto di subfornitura. La legge che regola il franchising (L. 6 maggio 2004, n. 129) non affronta il problema. Invero, all’art. 6 si fa esplicito riferimento ad obblighi di comportamento secondo lealtà, correttezza e buona fede, gravanti sull’affiliante. Tuttavia, si tratta di doveri che investono il solo momento delle trattative e tendono ad assicurare che l’affiliato possa esprimere un consenso il più possibile consapevole. In altri termini, la disciplina dettata dalla legge n. 129 del 2004 è dedicata essenzialmente ai c.d. difetti genetici del sinallagma, tali da comportare la declaratoria della nullità o della annullabilità del contratto34. Per contro, viene trascurata la fase dell’esecuzione del contratto e delle eventuali rinegoziazioni, quando la semplice informativa non sarà più sufficiente a salvaguardare la libertà negoziale del franchisee in stato di debolezza contrattuale. Occorre, dunque, stabilire se la ricordata normativa in materia di subfornitura possa applicarsi, in via estensiva o analogica, anche al franchising. 34 F. Galgano, Diritto civile e commerciale, II, 1, Padova, 2004, pag. 446 e ss. La questione non è nuova, avendo formato oggetto di ampia discussione in dottrina e in giurisprudenza. Può sin da ora anticiparsi che il divieto di abuso di posizione dominante, pur essendo disciplinato all’interno della legge sulla subfornitura, possiede un ambito di applicazione più esteso, che coinvolge i rapporti tra imprese in generale. Tale è la conclusione cui è giunta la dottrina quasi unanime, mentre il quadro giurisprudenziale si presenta ancora incerto35. A conforto della tesi sostenuta dalla dottrina maggioritaria sta, anzitutto, il dato letterale: l’interpretazione di portata generale della norma affiora, infatti, dall’utilizzo, certamente non casuale, delle espressioni impresa “fornitrice” e impresa “cliente”, mentre nel restante articolato il legislatore si avvale delle parole “committente” e “subfornitore”. “L’utilizzo di questo binomio, e in particolare l’improvvisa apparizione di un termine (cliente) che non trova altri riscontri nel testo della legge, lasciano intendere che si voglia andare oltre la subfornitura. In altri termini, i subfornitori sono naturalmente candidati 35 Per la soluzione positiva citiamo: il Tribunale Trieste, 21 settembre 2006, in Resp. civ. e prev. 2008, 10, 2109; il Tribunale di Isernia, 12 aprile 2006, in Giur. merito 2006, 10, 2149. Tra le pronunce di segno opposto annoveriamo: il Tribunale di Bari, 2 luglio 2002, in Foro it. 2004, I, 262, e Danno e resp. 2004, 424; il Tribunale di Taranto 22 dicembre 2003, in Foro it. 2004, I, 262, Danno e resp. 2004, 424. a fruire anche della protezione assicurata dall’art. 9, ma la platea dei beneficiari è di gran lunga più estesa.36” Inoltre, il carattere bi-direzionale del divieto (il quale si applica tanto alle imprese clienti che a quelle fornitrici) non consente di limitare alla sola subfornitura la disciplina in parola. Invero, il riferimento al “rifiuto di vendere” e allo stesso tempo al “rifiuto di comprare”, come forme di comportamento parimenti abusive, assume un senso solo se la norma sia diretta a regolare i rapporti di imprese in generale e segnatamente i rapporti di distribuzione37. Si potrà, allora, avere dipendenza dal lato della domanda, come nei rapporti di subfornitura, oppure dal lato dell’offerta, come nel franchising38 . I sostenitori dell’opposto orientamento attribuiscono rilievo all’argomento storico e sistematico. Inizialmente, era intendimento del legislatore inserire il divieto in questione nel corpo della legge in materia di antitrust (L. n. 287/1990). Solo in un secondo tempo, si decise di introdurla nell’articolato della normativa sulla subfornitura. Da tale circostanza si è fatta discendere l’inequivoca volontà del legislatore di 36 A. Palmieri, Abuso di dipendenza economica: dal «caso limite» alla (drastica) limitazione dei casi di applicazione del divieto?, in Il Foro Italiano 2002, parte prima, pag. 3209. 37 A. Boso Carretta, Interruzione del rapporto di distribuzione integrata e abuso di dipendenza economica, in Giur. merito, 2, pag. 350. 38 In questi termini ma limitatamente ai soli rapporti tra imprese destinati a realizzare relazioni di tipo verticale, v. O. Reale, Abuso di dipendenza economica tra diritto dei contratti e tutela della concorrenza, in dspace.unitus.it, Archivio aperto dell’Università degli Studi della Tuscia, pag. 133. circoscrivere l’applicazione delle norme sull’abuso di dipendenza economica alla sola subfornitura 39. Si è inoltre, ritenuto, che una lettura contraria a quelle testé riferita sarebbe incompatibile con un sistema che valorizza l’autonomia negoziale come regola generale, limitando le eccezioni ai casi espressamente previsti dalla legge40. I rilievi critici all’interpretazione estensiva, sinteticamente richiamati, non convincono appieno. In realtà l’argomento “storico” non pare avere fondamento. Il cambiamento di rotta rispetto al progetto iniziale di far confluire la norma sull’abuso di dipendenza economica nella legge antitrust, è, infatti, naufragato per le pressioni esercitate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato la quale ha ritenuto la fattispecie estranea ai profili disciplinatori della legge n. 287 del 1990. Quanto al secondo rilievo, merita osservare l’evoluzione che il sistema civilistico ha subito nel corso degli ultimi anni, specie sotto l’energica spinta del legislatore comunitario. In particolare si consideri la disciplina consumeristica, le norme a tutela del risparmiatore e dell’investitore nei confronti delle banche e degli intermediari, nonché la 39 A. Boso Carretta, Interruzione del rapporto di distribuzione integrata e abuso di dipendenza economica,cit., pag. 351. già richiamata legge in tema di subfornitura. Il divieto di abuso di dipendenza economica viene a collocarsi in tale quadro di insieme, dal quale emerge una nuova nozione di ordine pubblico che assume, sulla scorta dell’art. 2 della Costituzione, la tutela della parte contrattuale definita debole come valore essenziale dell’ordinamento. In questi termini, il divieto in parola non può ritenersi eccezionale rispetto ad una regola di assoluta autonomia che non c’è. A conforto della lettura “estensiva” dell’art. 9 della legge sulla subfornitura, si pone, inoltre, il collegamento ripristinato con la disciplina antimonopolistica, a mezzo del comma 3-bis. La configurabilità di un abuso di dipendenza economica, pregiudizievole per il mercato e la concorrenza, e tale da indurre a mettere in campo qualcosa in più rispetto ai meccanismi di tutela di private enforcement, mal si concilia con una visione riduttiva della norma, non essendo credibile che soltanto gli squilibri nei rapporti tra committente e subfornitore siano in grado di costituire una minaccia paragonabile all’abuso di posizione dominante41. 40 Ordinanza del Trib. Bari, 2 luglio 2002, in Foro It., 2002, I, pagg. 3208 ss.; Ordinanza del Trib. Taranto, 22 dicembre 2003, in Foro It., 2004, I, pagg. 262 ss.; Ordinanza del Tribunale di Roma, 29 luglio 2004, in Aida, 2005, pagg. 533 e ss.. 41 A. Palmieri, Abuso di dipendenza economica, cit., pag. 3214. 5. ANALISI DI SISTEMA: BUONA FEDE ESECUTIVA ED EQUITÀ. A prescindere dal riferimento all’art. 9 della legge sulla subfornitura e alle questioni sulla sua applicabilità “estesa”, la dottrina prevalente ritiene di poter ricondurre il fenomeno dell’abuso di dipendenza economica nell’alveo del principio di buona fede oggettiva. In particolare, esso viene utilizzato come strumento per verificare l’effettiva abusività della condotta tenuta dall’impresa dominante, nell’esercizio delle sue prerogative negoziali. Come si ricorderà, l’abuso venne definito come alterazione funzionale di un diritto o di una libertà, i quali vengono esercitati per la realizzazione di interessi non riconosciuti dall’ordinamento (vedi supra, par. 1). In ambito negoziale (concernente sia la fase precontrattuale, sia la fase esecutiva del contratto), l’identificazioone degli interessi meritevoli di tutela - oltre i quali matura l’abuso - viene compiuta attraverso i criteri valutativi riconducibili alla buona fede. La Corte di Cassazione è giunta alle medesime conclusioni, affermando che criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva è quello dell'abuso del diritto. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva42. Ricordiamo che per buona fede in senso oggettivo si intende la regola di condotta che deve guidare le parti di un rapporto giuridico (obbligatorio o contrattuale) al rispetto dei canoni della lealtà, della correttezza, della trasparenza e della salvaguardia dell’interesse di controparte43. Si tratta, con tutta evidenza, di una clausola generale che non impone comportamenti a contenuto prestabilito. Detti comportamenti andranno di volta in volta specificati alla luce delle concrete circostanze di attuazione del rapporto44 . Non vi è quindi dubbio che la condotta abusiva dell’impresa dominante integri una violazione del generico dovere di operare secondo buona fede; tuttavia, se ci sposta dal piano puramente concettuale a quello pratico, il rinvio al criterio in parola potrebbe non risultare del tutto efficace, attesa la genericità di esso. In altri termini, è stato sostenuto che il principio di buona fede, qualora non sia preceduto da una precisazione della sua portata prescrittiva, potrebbe perfino divenire un limite all’applicazione della normativa in tema di abuso45. 42 Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, cit.. 43 C. M. Bianca, Il Contratto, Milano, 2000, pag. 500. 44 Ibidem, pag. 502. 45 G. Colangelo, L’abuso di dipendenza economica tra disciplina della concorrenza e diritto dei contratti – Un’analisi economica e comparata, Torino, 2004, pag. 87. La libertà nella quale viene trovarsi il giudice nella valutazione dei comportamenti delle parti di un rapporto di dipendenza economica, nasconde il rischio che vengano introdotti all’interno dell’ordinamento, disposizioni, di pura ispirazione solidaristica, inconferenti rispetto alla fattispecie di abuso di dipendenza economica e che rispondano unicamente a criteri di generica giustizia sostanziale46. In effetti, il problema che ora si pone è stabilire fin dove il giudice possa spingersi nel sindacare il contenuto di un contratto, e segnatamente la sua asserita “ingiustizia”, rimettendo in discussione ciò che le parti hanno pattuito. Il codice civile, eccezionalmente, consente, attraverso l’istituto della rescissione (artt. 1447 e segg.), di invalidare il contratto per ragioni che attengono al difetto di equivalenza economica tra le prestazioni, in presenza di rigorosi e tassativi presupposti (lo stato di bisogno e di pericolo). L’operatività della rescissione implica una situazione di menomata libertà contrattuale di una delle parti, di cui l’altra approfitta (e di cui quindi abusa) a proprio vantaggio. La situazione è assimilabile all’abuso di dipendenza economica, sennonché il riferimento alla buona fede in senso oggettivo, come criterio valutativo unico delle condotte illecite, rischia di ampliare (e forse svuotare) il contenuto del divieto dell’art. 9, comprimendo eccessivamente l’autonomia delle parti. 46 A. Palmieri, Rifiuto (tardivo) di fornitura, in Foro It. 2002, I,c. 2187 e segg.. Peraltro, l’assenza di parametri certi a cui riferirsi, rischia paradossalmente di rendere inutilizzabile lo strumento creando un vuoto di tutela non tollerabile. A tale riguardo, secondo l’opinione di un Autore, sarebbe possibile fare riferimento all’art. 3.10 dei principi UNIDROIT in materia di contratti commerciali internazionali: il c.d. Gross Disparity47. La norma consente di impugnare la validità di un contratto o di singole clausole, quando l’uno o le altre attribuiscano ad una parte un vantaggio ritenuto eccessivo (i.e. disparità di valore tra le prestazioni), e che sia privo di giustificazione alla luce di circostanze di natura soggettiva (es: ignoranza, inesperienza, inabilità a trattare) e oggettiva (scopo del contratto o sua natura). Il giudizio andrà compiuto in termini obbiettivi, assumendo come termine di paragone le relazioni d’affari che normalmente caratterizzano il settore di riferimento. L’articolo citato, ove applicato al fenomeno dell’abuso di dipendenza economica, dovrebbe consentire una sufficiente concretizzazione del divieto e un limite al controllo giudiziale sul contratto, scevro da discrezionalità eccessiva48. Come si vedrà meglio in seguito (infra, par. 6), le clausole contrattuali con cui si realizza l’abuso di dipendenza economica sono nulle. La sanzione 47 F. Prosperi, Il contratto di subfornitura e l’abuso di dipendenza economica, cit., pagg. 311 e segg. 48 Ibidem, pagg. 312-313. civilistica della nullità viene normalmente spiegata ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1418 c.c., trattasi infatti di nullità “testuale”, espressamente comminata da una norma di legge. Passando alle motivazioni giuridiche che sostengono la scelta del legislatore, potrebbe farsi appello alla nozione di ordine pubblico di protezione, la quale individua norme che non tutelano direttamente un interesse generale della collettività ma alcuni soggetti giuridici in quanto appartenenti a ceti o a gruppi sociali, caratterizzati da una situazione di particolare debolezza e vulnerabilità e che necessitano di protezione da parte del legislatore. Tale è la ratio individuata alla base della c.d. nullità di protezione49. Una dottrina autorevole, sebbene isolata, offre una lettura diversa del fenomeno. Le clausole abusive sarebbero nulle non perché illecite ma in quanto “inique”50. La tesi in rilievo reputa che il giudice, ai sensi dell’art. 1374 c.c., possa comminare la nullità ogni qual volta la singola operazione economica appaia, alla luce delle specifiche circostanze, contraria al principio dell’equità. La caducazione delle clausole è l’esito di un giudizio di iniquità che è diverso rispetto a quello di illiceità, rappresentando una tecnica sanzionatoria individualizzante. 49 F. Caringella, Manuale di diritto civile, Il Contratto, Milano, 2006, pag. 798. 50 F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, 1970, pag. 328. L’illiceità opera in astratto e a priori poiché si pone come contrarietà a norme imperative predeterminate. L’iniquità opera a posteriori e in concreto, dipendendo da come il regolamento negoziale, di per sé lecito, è stato costruito. 6. L’APPARATO RIMEDIALE. In conclusione del presente lavoro, si vuole dare conto del sistema di tutele che la legge sulla subfornitura appresta a difesa dell’imprenditore dipendente. Dispone l’art. 9, comma 3: “Il patto attraverso il quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo. Il giudice ordinario competente conosce delle azioni in materia di abuso di dipendenza economica, comprese quelle inibitorie e per il risarcimento dei danni”. In primo luogo, merita chiarire che il potere di sanzionare l’abuso di dipendenza economica spetta, al ricorrere di determinate circostanze, non solo al giudice civile, ma altresì all’Autorità Antitrust. È ben possibile, infatti, che la fattispecie in esame assuma dimensioni tali da restringere o falsare in maniera rilevante la concorrenza ed il mercato (art. 9, comma 3 bis). In tali casi, l’Autorità garante, d’ufficio o dietro segnalazioni di terzi, potrà applicare all’impresa dominante le sanzioni e le diffide previste dall’art. 15 Legge antitrust. Si tratta, con piena evidenza, di una forma di tutela che ha ad oggetto il mercato ed il suo regolare funzionamento. Per contro, l’autorità giudiziaria ordinaria interviene a difesa della posizione soggettiva dell’impresa dipendente. Sono, pertanto, piani di azioni non configgenti ma fra loro complementari, e ciò basta a concludere per l’ammissibilità di un cumulo di tutele, ciascuna da proporsi dinanzi all’organo statuale competente (teoria dei procedimenti paralleli). Per quanto concerne la tutela inibitoria (da far valere dinanzi al giudice ordinario), tale possibilità è il frutto di una novella intervenuta nel 2001. In termini generali, si ritiene che i provvedimenti che il giudice è legittimato ad adottare possano concretizzarsi sia nell’obbligo di cessazione di attività fino a quando l’abuso non avrà avuto fine (inibitoria negativa), sia nell’obbligo di eliminare l’abuso stesso (inibitoria positiva).51 Si è discusso se dal carattere abusivo del rifiuto di vendere o comprare possa discendere un obbligo a contrarre, eseguibile coattivamente ex art. 2932 cod. civ.. La soluzione deve essere negativa, sulla scorta delle seguenti considerazioni. Principalmente, dal divieto di rifiutare la conclusione del contratto non può derivare l’obbligo a stipulare il contratto. Dedurre dal divieto di un certo comportamento (rifiuto del contratto) l’esistenza di un obbligo legale di tenere il comportamento contrario conforme alla norma (conclusione del contratto), è un’argomentazione che prova troppo e, 51 R. Maugeri, Le modifiche alla disciplina dell’abuso di dipendenza economica, in Modifiche alla disciplina dell’abuso di dipendenza economica e agli artt. 8 (imprese quindi, non prova nulla: sarebbe come desumere dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c. l’obbligo specifico di ciascun consociato di non recare danno ad altri, con la conseguenza di far passare per mancata esecuzione di un rapporto obbligatorio una condotta che, per definizione, ne rimane fuori52. Inoltre, valga un’argomentazione di ordine teorico-pratico: l’autonomia contrattuale può essere limitata mediante l’imposizione di un obbligo a contrarre soltanto se la legge detta presupposti e contenuti del contratto imposto, a meno che non si voglia attribuire al giudice il potere di definirne arbitrariamente i termini53. In dottrina è stata, tuttavia, proposta una diversa lettura che attribuisce al giudice il potere di riconoscere l’avvenuta stipulazione dell’accordo, come unica soluzione realmente in grado di perseguire le finalità di tutela dell’impresa debole fatte proprie dal legislatore. Alla base di tale teoria sta il principio per cui il requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto (art. 1346 c.c.) non deve necessariamente essere endocontrattuale. L’elemento della relatio non dovrà essere sancito all’interno del negozio. La volontà delle parti viene integrata con elementi estrinseci, pubbliche e in monopolio legale) e 15 (diffide e sanzioni) dalla legge antitrust, Commentario a cura di V. Meli, in Nuove leg. civ. comm., 2001, pag. 1078. 52 V. Pinto, op. cit., pag. 414. 53 D. Maffeis, Abuso di dipendenza economica, in G. De Nova (a cura di), La subfornitura, Milano, 1998, pag. 81 desumibili dal complesso dei rapporti intercorrenti tra le stesse o comunque, nell’ipotesi limite dell’assenza di relazioni commerciali pregresse, dalle condizioni abitualmente praticate nel mercato di riferimento, con conseguente riconoscimento di un’ipotesi di determinazione ex lege, mediante l’intervento del giudice, del contenuto del contratto54. Con riferimento alla nullità, è pacifico che detta sanzione trovi applicazione rispetto ai soli abusi “contrattuali” (le clausole gravose o discriminatorie). Ne rimangono esclusi, quei comportamenti che si pongono al di fuori del contratto, quali il rifiuto di vendere o comprare, l’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali. In ordine a tali condotte, le tutele ammesse sono quella inibitoria e risarcitoria55. La nullità ha carattere necessariamente parziale. Lo si evince dalla lettera della norma in commento, la quale sanziona con la nullità il patto abusivo. Ciò è vero, salvo non sia il contratto nel suo complesso ad assumere carattere vessatorio. L’opinione dominante, che ricostruisce la sanzione in termini di nullità parziale, esclude l’applicabilità dell’art. 1419 c.c.. La sopravvivenza del contratto viene infatti ritenuta coerente, sul piano teleologico, con l’obbiettivo di «giustizia sostanziale» e di equilibrio 54 V. Roppo, Trattato del Contratto, vol. II, Regolamento, Milano, 2006, pagg. 58-59 55 C. Pilia, Circolazione giuridica e nullità, Milano, 2006, pag. 356. del rapporto, perseguito dal legislatore anche nel quadro dei rapporti business to business56. Non mancano, tuttavia, voci dissonanti che fanno comunque rientrare la fattispecie nell’art. 1419 cod. civ57. Laddove, infatti, la clausola dichiarata nulla ― concernente il contenuto economico dello scambio e non una semplice modalità di attuazione dell’assetto di interessi concordato ― non venisse sostituita da una norma imperativa, secondo il meccanismo dettato dall’art. 1419, II comma, il contratto si troverebbe privato di un suo elemento essenziale58. Nel caso in cui venisse riconosciuta la nullità dell’intero contratto, l’impresa in situazione di dipendenza economica potrebbe comunque chiedere il risarcimento del danno nel caso di successivo rifiuto da parte dell’impresa forte di stipulare un nuovo contratto, quando il rifiuto sia basato esclusivamente sull’impossibilità di inserire nel contratto la clausola eccessivamente onerosa dichiarata nulla. La legittimazione attiva dovrebbe essere assoluta. L’art. 9, infatti, non pone, infatti, alcuna deroga all’art. 1421 c.c.. Parte della dottrina, tuttavia, ha ritenuto che solo all’imprenditore leso spetterebbe la decisione sulle sorti del contratto. Seguendo la logica della tutela del contraente 56 V. Roppo, Trattato del Contratto, cit., pag. 54. 57 A. Mazziotti Di Celso, Abuso di dipendenza economica, in G. Alpa - A. Clarizia (a cura di), La Subfornitura, Commento alla legge 18 giugno 1998, n. 192, Milano, 1999, pag. 258. debole, appare coerente escludere la legittimazione assoluta, attribuendo la legittimazione a far valere la nullità al solo contraente in situazione di dipendenza economica: “il carattere protettivo della norma fa poi propendere per la relatività del rimedio, quando anche la norma parli di nullità per meglio garantire l’opponibilità dell’invalidità al terzo, e l’imprescrittibilità dell’azione”59. Infine, per quanto concerne il risarcimento del danno, è senz’altro lecito affermare che esso sia destinato a trovare applicazione in qualsiasi ipotesi di abuso e, pertanto, sia nel caso di danni eventualmente conseguenti all’abuso di autonomia contrattuale all’interno del contratto, già sanzionato mediante la nullità delle relative clausole, sia nel caso di danni derivanti dalla condotte esterne al rapporto contrattuale, quali il rifiuto di contrattare e l’arbitraria interruzione di relazioni commerciali60. Riguardo alla natura della responsabilità da cui scaturisce l’obbligo risarcitorio, si sostiene la sua natura ibrida: contrattuale laddove l’abuso si manifesti nella violazione degli obblighi di buona fede; aquiliana, nei casi di mancanza di un pregresso rapporto giuridico (rifiuto di contrarre)61. 58 Albanese, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in Eur. dir. priv., 1999, I, pag. 1194. 59 T. Longu, Il divieto dell’abuso di dipendenza economica nei rapporti tra le imprese, in Riv. dir. civ., 2000, pag. 375. 60 M. Treccani, Subfornitura e abuso di dipendenza economica: presupposti e rimedi, in Riv. Dir. Civ., 2005, pag. 719. 61 R. Caso – R. Pardolesi, La nuova disciplina del contratto di subfornitura industriale: scampolo di fine millennio o prodromo di tempi migliori, in Riv. Dir. Priv., 1998, pag. 734 e s.. BIBLIOGRAFIA - G. Agrifoglio, Abuso di dipendenza economica e l’asimmetria nei contratti di impresa (B2b), in Contratto e impresa, 2008; - Albanese, Abuso di dipendenza economica: nullità del contratto e riequilibrio del rapporto, in Eur. dir. priv., 1999, I; - S. Benucci, Le prime pronunce in tema di «abuso di dipendenza economica» , in G. Vettori (a cura di), Concorrenza e Mercato, Milano, 2005; - C. M. Bianca, Il Contratto, Milano, 2000; - C. M. Bianca, La Proprietà, Milano, 1999; - A. 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