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Memorie di Guerra [1940-1946]

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Memorie di Guerra [1940-1946]
La memoria della
Seconda Guerra Mondiale
sia di monito
a non ripetere tali barbarie.
Papa Benedetto XVI
Roma, 6 settembre 2009
Stampato con il contributo della Regione del Veneto
L.R. n 35 del 14-12-2007, Norme per il sostegno delle
Associazioni Combattentistiche, d’Arma e delle Forze dell’Ordine
D.G.R. N. 1266 del 5 maggio 2009
Stampato in proprio nel mese di novembre 2010
Associazione Nazionale Combattenti e Reduci
sezione di Monselice - Padova via Buggiani 2/B
35043, Monselice
Stampa www.futuramaonline.com - Monselice
a cura di Giuseppe Trevisan
Memorie di guerra
1940-1946
Testimonianze di Combattenti e Reduci
Associazione Nazionale Combattenti e Reduci
Sezione di Monselice - Padova
Indice
8
Introduzione
Giuseppe Trevisan
10
Premessa
Antonio Bettin e Giovanni Veronese
33
La lunga prigionia di un marinaio
Tarcisio Bertazzo
75
Ricordi di un carabiniere
combattente per la libertà
Attilio Bizzotto
161
Memorie di guerra di un soldato
del Genio, 1942-45
Lino Belluco
167
Un sopravissuto del campo di morte
di Zeithain
Carlo Frizzarin
193
Appendice. Lettere alla moglie
di un prigioniero in Germania
Giovanni Gazzea
Monselice, 4 novembre 2010
La Presidenza dell’Associazione Nazionale Combattenti e
Reduci, sezione di Monselice - Padova, ringrazia coloro che
hanno contribuito a raccogliere e stampare queste memorie.
Si ritiene necessario e utile produrre tali ricordi affinché non
vengano dimenticati i tanti sacrifici sofferti da molti Italiani
in questa ultima guerra 1940-45.
Il Presidente
Comm. Giuseppe Barbirato
Ai soldati italiani che hanno
combattuto per la libertà
Introduzione
Da qualche tempo sono impegnato a raccogliere ancora nuove
testimonianze di monselicensi che hanno partecipato alle vicende
della Seconda Guerra Mondiale (1940-1945).
Intendo in questo modo dare la possibilità alla ANCR
(Associazione Nazionale Combattenti e Reduci) della nostra città
di pubblicare un terzo libro di memorie che possa contribuire
a far conoscere quali e quante ingiustizie e sofferenze abbia
prodotto quella guerra.
È giusto siano ricordate le frustrazioni e le malvagità subite dai
nostri soldati italiani. Esse infatti debbono essere un deterrente
che contribuisca a convincere tutti della necessità di rifiutare non
solo la guerra, ma anche tutti gli atti di violenza che ancor oggi,
purtroppo, vengono perpetrati a danno dei diritti degli altri.
Ed è giusto altresì che noi, ex combattenti, rendiamo testimonianza
delle esperienze negative subite in quegli anni affinché i nostri
ricordi restino un monito a futura memoria.
Per questa nuova indagine ho avuto modo di avvicinare vari ex
combattenti. Il mio intento era quello di riuscire a convincerli
a ricordare e a raccontare episodi significativi della loro vita
militare. Purtroppo quasi tutti hanno mostrato di non ricordare
quasi nulla perché certamente non intendevano tornare a rivivere
esperienze traumatiche che dovevano essere risultate per loro
troppo dolorose.
Pochi si sono dimostrati disponibili a collaborare e a raccontarsi.
Ho fatto indagini anche presso parenti di ex combattenti, ma tutti
hanno dimostrato di non essere a conoscenza o di non ricordare
fatti significativi della vita militare dei loro congiunti, ora defunti,
in quanto questi ultimi non avevano lasciato alcun documento
scritto. Tutti, tranne i parenti di Carlo Frizzarin, deceduto nel
2001. Essi infatti mi hanno consegnato una testimonianza scritta
sulle sue esperienze di guerra.
Introduzione
9
Da sempre conoscevo Carlo e sapevo che era stato uno degli IMI
(Internati Militari Italiani) e che era un reduce dal lazzaretto
tedesco di Zeithain. Nel 1994 lo sentii commemorare un
compagno la cui salma era stata fatta riportare a Monselice da
quel lazzaretto. Fu così che raccolsi le interviste che gli erano poi
state fatte dai giornalisti locali per l’occasione e unii quegli articoli
alle mie documentazioni riguardanti gli IMI.
Nel 2000, andato in pensione come geometra, ho iniziato a
riordinare le mie memorie e i molti documenti, raccolti qua e
là, relativi ai combattenti monselicensi. Così un po’ alla volta
mi convinsi che sarebbe stato utile far conoscere le tribolazioni
di noi soldati che avevamo partecipato ad una guerra voluta
da pochissimi ma cha aveva fatto soffrire e morire milioni di
persone.
Allora decisi di coinvolgere l’ANCR di Monselice per far
stampare nel 2005 il libro Soldati che si raccontano, 1941-45.
Questi racconti sono sei, scritti in prima persona.
Nel 2006 pubblicai i miei ricordi di guerra. Il volume si intitola
Stammlager XVII A - 733 giorni da prigioniero in Germania.
Ora arriva questa terza opera, edita dalla nostra sezione ANCR,
nella quale si parla di altri monselicensi e dei loro ricordi di
guerra. I soldati combattenti sono:
- Tarcisio Bertazzo, nato il 23 - XII - 1921, prigioniero in Africa,
- Attilio Bizzotto, nato il 19 - XII - 1922, partigiano combattente,
- Lino Belluco, nato il 14 - IV - 1923, in guerra con gli Alleati,
- Carlo Frizzarin, nato il 14 - XI - 1923, prigioniero in Germania.
Viene riportato poi, in appendice, il testo originale delle lettere
spedite dal professor Giovanni Gazzea alla moglie Fernanda,
quando era prigioniero in Germania.
Giuseppe Trevisan
Premessa
Un ginnasiale e un bambino tra l’asilo e le elementari ricordano
episodi della seconda guerra mondiale tra Monselice centro e la
frazione di Monticelli
Dottor ingegnere Veronese Giovanni nato a Monselice in via F. Crispi,
ora 28 Aprile, attualmente abitante a Padova.
Martedì 28-12-1943, cielo azzurro e limpido
Quella mattina, saranno state le 10-10.30, mi trovavo a casa dello zio
Mario con mio fratello Ruggero e mia sorella Anna (nata nel febbraio
1942).
Stavamo parlando con mia cugina Ruggerina e c’era anche mia cugina
Maria quando venne suonato l’allarme aereo.
Presi in braccio mia sorella, dissi a Ruggero di prendere il passeggino
a casa nostra (era adiacente a quella dello zio), e scendemmo in strada
per andare, come eravamo soliti fare quando c’era l’allarme aereo, in
campagna a casa dei Turrin sulla strada per Pernumia.
Ma in strada c’erano persone che fuggivano verso la campagna in
quanto in cielo era in atto un duello aereo fra bombardieri americani
e caccia tedeschi; alzati gli occhi al cielo vidi alcuni aerei spaccarsi
(si staccavano le ali), precipitare e attorno tanti palloncini bianchi
(paracadutisti che si erano gettati o stavano scendendo); non saprei
dire a che altezza stesse succedendo tutto questo, certo che le palline
erano molto piccole e gli aerei avevano le dimensioni da giocattoli.
Io con mia sorella in braccio mi misi a correre verso la Casa del Fascio
seguito da mio fratello che trainava il passeggino (passeggino del
tempo di guerra, tutto di legno bordato di duralluminio ma con le
ruote di legno e cigolanti).
Premessa
11
Alla deviazione per la strada per Pernumia mi trovai vicino Carlino
Masetti, che abitava là vicino, e proprio allora a un metro di distanza
da noi cadde un pezzo di pallottola.
Ci mettemmo a correre finché arrivammo a casa dei Turrin dove ci
raggiunse anche mia zia Pina (era in centro a fare la spesa).
Nel frattempo la battaglia aerea era terminata, non era ancora
mezzogiorno; mia cugina Maria era andata a cercare mio zio che, pur
cieco, era andato presto al caffè del Beduin, e l’avevo trovato rifugiato
nel negozio della Marcella Ziron; a metà strada fra caffè e casa.
Si seppe che alcuni militari della GNR (le Brigate nere) avevano
sparato ai paracadutisti prima che toccassero terra nelle zone a sud di
Monselice.
Alcuni giorni dopo nel laboratorio personale di mio cugino Mario vidi
parecchi pezzi relativi al sistema di ossigenazione per la respirazione
dell’equipaggio (raccordi in alluminio, manometri, valvole ed altro);
anzi mio cugino mi regalò qualche manometro che mi divertii a
smontare per vedere come funzionasse.
Ebbi anche l’opportunità di vedere, tempo dopo, uno dei motori di
un bombardiere abbattuto che era stato portato all’Istituto Tecnico
Morini Pedrina (reparto meccanica) di Este.
Dimenticavo di dire che io vidi solo una parte del duello aereo, quella
che si vedeva sopra Monselice, in effetti la battaglia aerea si svolse sul
cielo di alcuni comuni dei colli Euganei.
La caccia tedesca (l’aviazione della RSI divenne attiva solo nei primi
mesi del 1944) era partita da Vicenza e sembra sia stato abbattuto
anche uno di questi caccia.
Nel Gazzettino del giorno dopo furono dedicate poche righe e senza
commenti a quanto era accaduto.
Bombardamento del Cinema Sociale di Monselice
Quel giorno, mercoledì 7 febbraio 1945, ero ritornato da scuola e
dopo aver mangiato avevo preparato quanto serviva per il giorno
dopo.
Verso le 18.30, dalla mia abitazione, situata a porta Sant’Antonio
12
Premessa
(oggi via 28 Aprile), mi ero recato al Caffè Centrale “dal Beduin”, così
era chiamato, in piazza V. Emanuele II (oggi piazza Mazzini).
Dovevo riportare a casa lo zio Mario che, essendo quasi cieco,
veniva accompagnato al caffè per chiacchierare con i vecchi amici e
seguire qualche gioco delle carte ascoltando quanto veniva detto dai
giocatori.
Poiché quella sera lo zio doveva vedere un contadino, il “cinese”, che
curava il suo “brolo”, ci incamminammo verso il ponte della Pescheria
proseguendo per Riviera Belzoni e dirigendoci verso il ponte di
Ferro. A metà strada trovammo il “cinese” e mio zio combinò per
un intervento, quindi ci avviammo verso casa. Accompagnato lo zio,
entrai nella mia abitazione, adiacente a quella dello zio; erano circa le
19.15.
Alcuni minuti dopo arrivò, in bicicletta da Este, mio padre.
In attesa della cena avevamo accesa la radio, mio padre si era seduto
in poltrona e aveva preso in braccio mia sorella Anna (tre anni);
dopo poco, circa alle 19.30, sentimmo il caratteristico rumore di
un aereo, sicuramente Pippo. Passarono pochi secondi e ci fu un
fortissimo botto.
La luce venne a mancare, la radio tacque, mia sorella finì sotto la
poltrona, io e mio fratello aprimmo la porta verso il cortile e, pur
essendo buio, vedemmo a sud ovest del fumo che si stagliava alto verso
il cielo.
Ad occhio e croce le bombe dovevano essere cadute oltre la pescheria.
Mentre la zia con mia sorella e mio fratello rimanevano a casa, uscito
in strada con mio padre, sentendo qualcuno dire che Pippo doveva
aver colpito proprio verso il ponte della Pescheria, decidemmo di
andar a vedere se era successo qualcosa anche in via Dante n° 1 dove
c’era la macelleria e dove abitava mia nonna materna e la famiglia di
mio zio Giacomo Pietrogiovanna.
Con mio padre ci avviammo verso il ponte di Ferro e poi per
Riviera Belzoni rifacendo la strada che avevo fatto una mezz’ora
prima con lo zio.
Era più buio di prima e in prossimità dell’albergo Cavallino dovemmo
districarci per passare tra i fili dell’illuminazione caduti a terra.
Premessa
13
C’erano alcune persone che sembravano ombre, una mi sembra fosse
il cav. Simone; disse a mio padre che era stata colpita la Banca vicina
alla Torre e alla sua abitazione e anche il cinema.
Sul ponte io urtai qualcosa con un piede e la spinsi in avanti, la cosa
rotolò più in là: era una testa. Un po’ più giù dal ponte c’erano ancora
fili a terra, la porta della macelleria dello zio era sconnessa e non si
apriva per cui entrammo dalle finestre che, basse sul marciapiede,
erano state divelte.
Trovammo lo zio, la nonna, la zia e i cugini assai spaventati ma sani
e salvi.
Dopo poco, sempre al buio, mentre erano già iniziati i soccorsi alle
tante persone ferite, rientrammo a casa.
Il giorno dopo s’incominciarono a conoscere i dettagli sul
bombardamento: circa alle 19.30 nella piazzetta antistante il cinema
Sociale e nella adiacente piazza Isola (oggi, rispettivamente piazzetta
Teatro e piazza XX Settembre) c’era un notevole numero di soldati
tedeschi, in attesa che finisse lo spettacolo del pomeriggio, per entrare
e vedere il programma a loro destinato, una volta che fossero usciti gli
Italiani.
Proprio mentre si aprivano le porte del cinema, lasciando così filtrare
della luce, arrivò “Pippo”, presumibilmente proveniente da sud est,
che vedendo la luce sganciò una serie di bombe che colpirono la Banca
Popolare, la piazzetta davanti al cinema e un angolo del cinema. Verso
la strada delle valli una bomba, senza scoppiare, forò il pavimento
esterno della Pescheria vicino al ponte e si trova ancora là sotto.
Mio cugino, Mario Trevisan, si trovava in strada poco lontano dal
cinema, forse 50 metri, dato che era andato a trovare un’amica che
abitava in via Moraro. Sentendo Pippo e il fischio delle bombe si gettò
a terra mentre sopra il suo capo volavano schegge, tegole e altro.
All’inizio di via Moraro abitava con i suoi Leo Liviero, un amico
nonché futuro cognato della zia Rita. A quell’ora erano tutti a tavola
nella sala da pranzo che aveva una vetrata sul canale Bisato.
Lo spostamento d’aria sventrò la vetrata e fece volare tovaglia piatti e
cena in canale; quella sera i Liviero saltarono il pasto.
Leo sceso in strada trovò, nei pressi dei gradini che portano al
14
Premessa
ponte della Pescheria, alcuni soldati morti e altri feriti che soccorse
portandoli dentro la vicina casa di suo zio.
Ci furono parecchi morti anche tra i civili: la moglie del direttore
della Banca schiacciata dalle macerie e il figlio Nico (carissimo amico)
deceduto dopo alcuni giorni, il droghiere Goldin, alcuni altri, di cui
non ricordo il nome dentro il cinema, i coniugi Bodon che abitavano
nei pressi e altri ancora, più di una decina.
Per i soldati tedeschi andò molto peggio, furono riempite 70 casse
e ancor oggi, sul muro perimetrale del cimitero di Monselice, si
possono vedere tutte le croci di marmo bianco (76) con i nomi dei
caduti; alcuni corpi sono stati portati in Germania, ma tutti gli altri,
la maggior parte, vennero trasferiti, in tempo di pace, nel cimitero di
guerra di Costermano sul Garda.
Per qualche tempo, in alto sul muro della casa sul ponte dove poi venne
trasferito l’albergo Stella d’Italia, rimase l’impronta di un corpo.
Per più di un mese nei pressi del cinema, del ponte e direi per il centro
di Monselice ci fu odore di morte; si racconta che i gatti sui tetti
trovarono e mangiarono brandelli di carne.
Questa era la guerra!
La mia famiglia, come molte altre, escluso mio padre che rimase a
casa, andò sfollata in campagna a casa dello zio Toni (fratello della
nonna), e lì restò fino a pochi giorni prima della fine della guerra.
Tempo fa venni a sapere, come già a quel tempo si sussurrava, che
il bombardamento fosse stato pilotato da informazioni o indicazioni
provenienti da terra.
Personalmente, nel caso specifico, ritengo la cosa poco probabile
visto il comportamento di Pippo nei bombardamenti precedenti e
successivi avvenuti in zona.
Peraltro posso confermare per averle viste, seppure da lontano mentre
ero sfollato, segnalazioni luminose fatte durante le ore notturne, ma
Pippo non era nei dintorni; certamente Monselice si prestava bene,
con i due colli Rocca e Montericco nonché il Lago della Costa di
Arquà Petrarca, a fornire un punto di riferimento sicuro, di giorno
e di notte, sia per l’orientamento degli aerei sia per eventuali lanci di
materiale o persone.
Premessa
15
Bombardamento 21 febbraio 1945
A causa del bombardamento del cinema da parte di Pippo (7 febbraio
1945) eravamo da poco sfollati alla Costa di Arquà Petrarca, presso lo
zio Toni Lunardi, fratello della nonna materna Emma.
Quel giorno, di pomeriggio, mi trovavo sul Calbarina presso la casa
dove era sfollato anche mio zio Giacomo con la sua famiglia. Era
una giornata splendida e pur essendo il 21 febbraio sembrava fosse
primavera.
Erano circa le 16.15 quando si sentì il rumore caratteristico di una
formazione di aerei da bombardamento, in arrivo da sud-est.
Le formazioni erano due, una di seguito all’altra, ciascuna formata
da non molti aerei. Superata la verticale sul lago si stavano dirigendo
verso nord-ovest; pensai che fossero dirette verso Vicenza.
Dopo un po’ di tempo, però, invertirono la rotta di 180° ritornando
da dove erano venute.
Quando il primo aereo ebbe appena oltrepassato la perpendicolare
sul lago vidi staccarsi dal disotto un razzo luminoso e subito dopo
udii uno strano rumore e su Monselice, che era davanti ai miei
occhi, precisamente nella zona della Casa del Fascio, meglio ancora
all’ingresso da Padova nella zona dove dal Canale Bisato, parallelo alla
statale per Padova, si diparte il canale del Bagnarolo verso Pernumia,
vidi salire dei getti altissimi di polvere fin quasi a metà Rocca.
Erano le bombe che scoppiavano, ne furono contate circa quaranta.
Alcune di queste, essendo a scoppio ritardato, entrarono in funzione
successivamente uccidendo anche qualche curioso e altri durante la
notte o il giorno dopo.
A quanto mi risulta - a parte i morti, i feriti e i danni materiali di
qualche casa e del Macello distrutti, che peraltro mio padre aveva in
precedenza immortalato in alcuni suoi quadri in mio possesso -, i
danni furono a mio avviso modesti poiché l’obbiettivo era forse quello
di distruggere la strada per Padova e la derivazione dei due canali.
Mio fratello Ruggero che si trovava in casa, a Monselice a circa 200
metri dalla zona bombardata, rientrando alla Costa vide sull’argine
della Canaletta che costeggiava la ferrovia il foro di una di quelle
16
Premessa
bombe e si allontanò in fretta. Il giorno dopo un pezzo di argine
mancava; la bomba era scoppiata.
Un po’ più avanti, sempre sulla strada per la Costa e precisamente
all’incrocio con la salita dal passaggio a livello vi era una casa che
durante la notte fu ridotta macerie.
Marzo 1945, bomba in via F. Crispi
Quella mattina di una domenica del marzo 1945 stavo arrivando in
bicicletta a Monselice dalla Costa di Arquà Petrarca dove, salvo mio
padre, eravamo sfollati; il programma era di passare per casa, andare a
Messa, acquistare il pane e quindi con mio padre ritornare alla Costa
per il pranzo.
Avevo appena girato l’angolo tra Via XI febbraio e Via Crispi quando
vidi, all’altezza di casa mia sull’altro lato della strada, un grosso cilindro
bianco, sembrava uno di quei grossi paracarri che si trovavano a lato
del campo della fiera e pensai l’avesse trascinato là qualche camion
tedesco; ma come mi avvicinai un poco mi accorsi che sul fronte aveva
una specie di ruota di ottone: era una bomba d’aereo inesplosa e tutta
sporca di bianco. Sì! Era proprio una bomba da 500 libbre, sganciata
da Pippo e stava di fronte tra il cancello di casa Dal Din e casa mia, sul
lato opposto della strada.
Alle ore 23 del sabato precedente Pippo, proveniente da Este,
vedendo qualche luce aveva sganciato due bombe, la prima era
caduta in un cortile interno dell’Albergo alla Rocca di proprietà delle
sorelle Canoso, e non era esplosa, la seconda era invece esplosa sulla
cosiddetta Rocchetta venti o trenta metri più in su.
Da questo cortile con una strada in discesa, chiusa al termine da un
cancello in ferro, si arrivava in strada ed era la via di accesso al cortile
per il parcheggio di carrozze o auto.
La prima bomba, caduta sul ripiano dell’orto a terrazza che contornava
il cortile, aveva fatto franare il muricciolo di sostegno; rotolando e
sporcandosi sul terreno calcareo, aveva poi imboccato la discesa e,
divelta la parte inferiore del cancello, si era presentata in strada.
Mi fermai sulla porta di casa e suonai, ma mio padre era a casa
Premessa
17
di mio zio adiacente alla nostra. Mio padre mi raccontò cosa era
successo: verso le 23 stava riportando a casa mio zio dal rifugio, che
era fuori porta sant’Antonio, allorché sentendo il rumore dell’aereo
si era fermato con lo zio addossandosi alle mura della cinta muraria.
Avevano sentito il sibilo delle bombe, lo scoppio e inoltre erano stati
colpiti da piccoli frammenti di pietra che, a seguito dello spostamento
d’aria, erano caduti dalla cima delle mura.
Passato l’aereo si erano avviati verso casa, ma alcune persone uscite
dalle abitazioni per andare in rifugio avevano visto la bomba, anzi
Enzo Zodio era andato proprio a inciampare su di essa.
Gli abitanti di Via Crispi passarono tutta la notte in rifugio.
Il giorno dopo un giovane di Arquà Petrarca, milite delle Brigate
Nere che io ben conoscevo poiché aveva studiato a Este nello stesso
ginnasio che avevo frequentato, legò con una corda molto lunga la
bomba; con l’aiuto di altri la bomba fu trainata nel campo della fiera,
nei pressi di una torre delle mura di cinta e qui, assieme a venti chili
di tritolo, venne fatta scoppiare.
Nei dintorni saltarono tutti i vetri, si scardinarono finestre, ecc. ma
non ci furono feriti. A casa mia, la zia prese alcuni quadri di mio
padre, che era un pittore dilettante, e li appiccicò con chiodi al posto
dei vetri; alcuni di quei quadri sono ora in cornice, ma mostrano
ancora i buchi di quella volta.
Quel giovane, coraggioso e sprezzante del pericolo, morì qualche
settimana più tardi, una domenica, mentre cercava di bonificare la
zona, attorno al ponte delle Grole, dalle bombe a farfalla che erano
state sganciate da Pippo durante la notte.
Assieme ad altre persone prendeva in mano, delicatamente, questi
ordigni per gettarli nel canale, dove scoppiavano, ma una delle bombe
gli scoppiò in mano squarciandogli il ventre.
Calbarina: marzo 1945
Quanto accaduto si è svolto fra il febbraio e il marzo del 1945,
sicuramente si sentiva già la primavera ed era un pomeriggio pieno
di sole. Mi trovavo sul monte Calbarina sul cortile della casa dove
18
Premessa
era sfollato mio zio Giacomo con la famiglia e anche la mia nonna
materna.
Vicino a me c’era mia cugina Annarosa presso alle due finestre molto
basse della cucina, e un po’ più in là, vicino alla porta d’ingresso, mia
nonna e mio cugino Toni.
Tutto a un tratto sentimmo un rumore d’aerei e alla nostra sinistra
vedemmo due Mustang assai bassi filare verso Monselice.
Essendo a conoscenza che nei campi di Belluco, a fianco della strada
per Padova, erano state messe delle mitragliere antiaeree (distavano dal
Calbarina due buoni chilometri e mezzo) e pensando che anche che
i tedeschi avessero visto gli aerei e che gli avrebbero sparato contro,
in direzione del Calbarina, gridai a mia nonna di entrare e presi mia
cugina in braccio (aveva sette anni) ed entrai con lei in cucina da una
delle finestre gettandoci poi distesi sul pavimento.
Uno degli aerei, arrivato sopra Monselice, forse perché colpito già
prima, e forse per questo i due volavano bassi, o dalle mitragliere
antiaeree, sganciò i serbatoi supplementari, che caddero in paese
incendiando case e bruciando persone, una rimasta ferita e morì circa
otto mesi dopo a guerra finita.
Gli aerei si allontanarono verso sud-est; il giorno dopo sul terreno del
Calbarina trovai pezzi dei colpi sparati dalle mitragliere antiaeree.
Ultimi giorni di guerra
A Este, come scuola superiore, c’era solo il Liceo Scientifico cui
si poteva accedere dall’ultimo anno di Istituto Tecnico o dalla IV
Ginnasio, previo esame.
Per l’anno 1944-45 presso il Collegio Manfredini, Rettore allora il
Prof. Don Ernesto Tomba, venne aperta per interni ed esterni la prima
classe del Liceo Classico; il liceo era stato istituito con il benestare del
governo di allora, la RSI.
Mio padre, che lavorava a Este, tenendo conto del periodo bellico e
analogamente a quanto fatto dai genitori di alcuni miei compagni di
ginnasio, mi iscrisse alla I liceo del Manfredini.
Già dall’ottobre 1943 chi andava da Monselice a Este, per studio o
Premessa
19
lavoro, doveva usare la bicicletta e quindi avrei pedalato per qualche
chilometro in più.
Durante i primi mesi di liceo c’erano stati due bombardamenti nei
pressi del collegio e qualche mitragliamento; era anche caduto un
caccia americano; non si deve poi dimenticare il “Pippo” che di notte
buttava bombe dove vedeva luce.
Nei primi giorni di aprile si incominciò a intravedere che la guerra
stava per finire.
La settimana precedente l’arrivo degli Alleati, nei pressi e prima del
ponte della Torre, sul lato sinistro della strada per chi proviene da
Este, i Tedeschi avevano sistemato alcune sagome colorate di legno
e cartone rappresentanti dei camion e sulla destra, giù dalla scarpata
nel campo adiacente e a distanza strategica, due batterie antiaeree di
mitragliatrici.
Il lunedì mattina, 23 aprile, arrivato in collegio per le lezioni trovai
molti genitori che erano venuti a prendere i figli per portarli a casa.
Molti erano partiti il giorno prima, in quanto proprio alla domenica,
c’era stata una incursione sul ponte della Torre da parte dei caccia
americani con mitragliamento dei camion di cartone, senza peraltro
alcun abbattimento di aerei da parte della contraerea tedesca.
Il vice rettore don Zanella, riuniti gli studenti e i genitori presenti,
lasciando capire che ormai la guerra era prossima alla fine, ci
comunicò che le lezioni venivano sospese e sarebbero state riprese a
fine guerra; che comunque notizie più dettagliate si sarebbero potute
avere il giorno dopo, invitando quindi chi abitava non troppo lontano
a ritornare.
Il mattino del 24 aprile (martedì); partito da casa e passando per
Arquà e Baone, arrivai a Este a casa di Franco Polato per vedere se
veniva in collegio.
Qui c’era una novità: fermo in strada sulla mia bicicletta, appresi
che nella notte Pippo aveva bombardato il collegio distruggendo la
portineria.
Franco mi disse che non sarebbe venuto, ma sul marciapiede c’era
una signora che, sentendo i nostri discorsi, si avvicinò dicendoci che
aveva il figlio in collegio e voleva andare al Manfredini per vedere dove
20
Premessa
era stato portato. Nel pomeriggio del 23 alle ore 15 c’era stato un
bombardamento al ponte ferroviario vicino al collegio e una bomba
era caduta in collegio senza però esplodere.
Allarmati da ciò gli studenti rimasti erano stati evacuati con parte dei
salesiani e portati, a quanto mi risulta, al Tresto.
Così assieme a questa signora mi avviai a piedi, in quanto io solo
avevo la bicicletta, prendendo lo stradone che dal cimitero porta al
ponte della Torre e quindi al collegio.
Giunti nei pressi della salita, ma prima del raccordo con la statale,
con ancora qualche casa sulla sinistra e l’antiaerea tedesca nei campi a
destra, la signora, forse pensando che mi faceva perdere del tempo, mi
consigliò di montare in bicicletta e di andare avanti, ma non l’ascoltai.
Trascorsero due minuti, non di più, quando udimmo il rumore di
aerei; alti altissimi in cielo vedemmo due caccia o cacciabombardieri
che stavano gettandosi in picchiata; io gridai alla signora di correre
verso la prima casa, gettai la bicicletta nel fossato e corsi verso la
casa; entrammo da una porta e ci gettammo distesi sul pavimento,
contemporaneamente l’antiaerea incominciò a sparare.
Gli aerei sganciarono alcune bombe e poi se ne andarono. Dopo un
po’ uscimmo dalla casa, dove non c’era nessuno, e feci per avviarmi
verso il collegio, ma la signora affermò che preferiva tornare indietro.
Salii allora in bicicletta e mi avviai verso il ponte; sul lato destro della
scarpata c’erano le buche delle bombe appena gettate dagli aerei.
A tutta velocità arrivai davanti alla portineria del collegio, ma qui
dovetti fermarmi e prendere in spalla la bicicletta, c’erano vetri
dappertutto e macerie; con la bicicletta in spalla mi avviai verso il
cortile sul retro dove allora si trovavano le cucine; saliti i pochi gradini
trovai don Zanella che stava prendendo un caffè.
Mi chiese cosa stessi facendo in quel luogo e io gli ricordai quanto
aveva detto il giorno precedente; mi offrì un caffè, mi disse che ci
saremmo rivisti alla fine della guerra e prima di accomiatarci mi
benedì, credo fosse per buon augurio.
Ripresi in spalla la bicicletta, ma non avevo fatto dieci metri che sentii
un rumore d’aereo e vidi dalla parte di Ospedaletto venire avanti verso
il collegio un Lightning in leggera picchiata.
Premessa
21
Buttata la bicicletta entrai in uno dei due ingressi dei gabinetti e mi
misi al riparo del grosso muro che divideva gli ingressi, ma non era
ancora finita.
Ero ancora al riparo quando entrò a precipizio, tremando, un soldato
tedesco (in collegio c’erano soldati e ufficiali tedeschi) che mi abbracciò
sempre tremando; con cenni gli feci segno che conveniva stare calmi e
quando non sentii più l’aereo, che nel frattempo aveva mitragliato le
sagome dei camion con relativa risposta antiaerea, ripresi in spalla la
bicicletta e mi avviai alla portineria.
Da qui, prestando attenzione a tutti i possibili rumori, saltai in sella
alla bicicletta e di volata passai il ponte e mi avviai verso Monselice.
Ma non era ancora finita: dopo il passaggio a livello della ferrovia nei
pressi del ponte dei Buffi, dato il posto in cui mi trovavo vicino a due
ponti ferroviari, fui costretto a ripararmi nel profondo fossato a lato
della strada in quanto era iniziato il passaggio di un notevole numero
di bombardieri, per fortuna in transito.
Nel fossato c’era un bel gruppo di tedeschi, pure loro in transito.
Passati gli aerei, ripresi il viaggio verso casa.
Erano circa le 10.30 del mattino.
22
Premessa
Antonio Bettin, nato nell’allora frazione e ora via Monticelli e
residente a Monselice, via San Vio 9
Prolusione
Da qualche anno non c’è più il servizio militare obbligatorio per i
maschi italiani, ma l’esercito c’è ancora: di volontari, con la novità
che anche le donne possono arruolarsi. In compenso rimangono le
associazioni: ex alpini, ex artiglieri, ex marinai, eccetera, i quali si
ritrovano soprattutto nelle adunate annuali. Ma la vera associazione
militare è quella degli ex combattenti di tutte le armi, sempre meno
numerosi, perché la guerra è finita da sessantacinque anni, ma
veri maestri di vita per l’esperienza vissuta al fronte, in prigionia,
alla macchia… e poi per l’esempio dato nella vita civile. E molti
hanno fatto conoscere i loro diari o i ricordi di guerra e/o prigionia
stampandoli.
Anche a Monselice Giuseppe Trevisan, il mio maestro di quinta
elementare, non solo ha dato alle stampe i suoi ricordi di guerra, ma
soprattutto dopo ha continuato a stimolare i soci dell’associazione
perché facessero conoscere le loro esperienze.
A me, coinvolto come correttore di bozze, il maestro ha chiesto: “e tu
perché non scrivi quello che ricordi della guerra?” Pare una domanda,
ma era un ordine. Così mi scuso di questa intrusione, e riferirò nel
modo più rapido i ricordi, dai quattro ai sette anni, del fanciullo che
viveva a Monticelli, la frazione di Monselice incastrata tra i comuni di
Arquà Petrarca, Galzignano, Battaglia Terme e Pernumia.
Tranne il primo, questi ricordi sono tutti successivi al triste giorno
dell’autunno 1942 in cui la mamma morì di peritonite post-partum
nell’ospedale di Monselice, verso il quale la vidi partire nell’ambulanza
sotto una pioggia torrenziale.
Il papà a Chiesanuova
Il papà tornava a casa il sabato pomeriggio perché, pur essendo stato
riformato per una pleurite giovanile e non avendo fatto il servizio
militare, fu richiamato e messo in un ufficio a Chiesanuova, dove si
Premessa
23
teneva la contabilità dei lavori per le caserme che si stavano costruendo
nella zona. Dopo la disgrazia, essendo i due fratelli di papà uno in
Croazia e l’altro in Somalia, il papà fu definitivamente congedato.
Prima tornava il sabato pomeriggio in bicicletta; mamma, nonna
e zia lo facevano sedere e parlare e intanto gli portavano qualcosa
perché si rifocillasse. Il nonno andava su e giù, teneva d’occhio se
arrivava qualcuno in “botega” come era detto allora il negozio di
generi alimentari (ma non solo, perché anche il laboratorio dello zio
Giovanni era la “botega da falegname”). In disparte aspettavo che i
grandi riprendessero i loro lavori perché il papà si dedicasse solo a me:
mi prendeva sulle ginocchia, si parlottava e poi accavallava le gambe:
io mi accomodavo sul piede alto, solo col papà che mi faceva trottare.
Passavamo assieme la domenica; al lunedì mi svegliavo e il papà non
c’era più, credo partisse il mattino presto, e sempre in bicicletta che
considerava il mezzo di trasporto più sicuro.
Il saluto dei partenti
Dopo l’ottobre 1942 ricordo tre o quattro mattine nelle quali il
giovanotto che aveva ricevuto la “cartolina di precetto” passò a salutare
tutte le famiglie della borgata – una trentina – parenti e non parenti.
Stava partendo “per il fronte”, ma non si sapeva quale e dove.
Riceveva qualcosa, ringraziava ripetutamente col sorriso inframmezzato
da qualche lacrima o anche da uno scoppio di pianto; e non capivo
perché insieme sorrideva e piangeva.
Il ritorno di zia Olga e cugini
All’inizio del 1943 la nostra famiglia crebbe di quattro unità perché
da Mogadiscio tornò la zia Olga con i tre figli Maria Teresa, Rosetta e
Giovanni di tre, due e un anno. Alla fine del servizio militare in Somalia,
allo zio era stata fatta la proposta di stabilirsi là come insegnante di
falegnameria nella scuola di arti e mestieri della Missione cattolica.
Era tornato per sposarsi a Gallio ed era ripartito quasi subito portando
in Africa la zia Olga, come sentivo dire, e nelle foto del matrimonio ci
sono anch’io in primo piano appena in grado di stare in piedi.
24
Premessa
Quando fu richiamato nell’esercito, nella prima nave della Croce
Rossa che tornava in Italia lo zio Giuseppe caricò moglie e figli per
allontanarli dai pericoli. Il viaggio fu un’odissea, perché, si diceva, il
canale di Suez non era sicuro; peggio ancora era la marina inglese che,
soprattutto coi sottomarini, infestava quella zona e anche gran parte del
Mediterraneo. La nave circumnavigò l’Africa, entrò nel Mediterraneo
da Gibilterra, scaricò i passeggeri in vari porti da Genova a Venezia,
dove scesero gli ultimi con la zia e i figli alla fine di un viaggio di oltre
quaranta giorni che aveva messo tutti alla prova.
La prima Comunione
La primavera del 1943 papà e nonni mi avevano permesso di andare al
catechismo con gli amici che compivano i sei anni i quali, nella festa
della SS. Trinità, ricevettero la prima Comunione. A ottobre entrai alle
elementari con loro. Con loro ero nella classe di catechismo, ma senza
la prima Comunione alla quale il parroco decise di ammettermi nella
prima messa di una domenica di fine novembre. Dopo la cerimonia,
come è consuetudine, c’è la colazione in canonica per il festeggiato,
che non riesce a prendere nulla. Alle mie spalle lo zio Nino deve avere
un magone più grosso del mio. Era sul fronte greco quando è morta
la mamma, ed è stato congedato da pochi giorni per l’aggravarsi della
sua miopia. “Torniamo subito” dice e mi prende in braccio fino al
cimitero. Davanti alla tomba della mamma e sorella ci stringiamo,
piangiamo, sorridiamo e poi ritorniamo verso la chiesa da dove, con
tutti i parenti, si va a casa.
Un pomeriggio della settimana successiva zia Teresina mi preparò
e mi fece sedere sul sellino per bambini della sua bicicletta. Passò a
prendere zia Francesca e insieme mi portarono a Monselice. Prima
andammo dal fotografo. Là mi fecero indossare il vestito bianco
della prima Comunione e furono fatte le fotografie rituali. Dopo mi
portarono dal barbiere il quale mi tagliò i capelli lunghi (mio cruccio
e vergogna) che le zie avevano voluto lasciar crescere dopo la morte
della mamma. Non ricordo se eravamo partiti tardi o se andò per le
lunghe dal barbiere. Uscimmo dal fotografo che scendeva il buio. Così
le zie presero la strada alta (così veniva chiamata la statale 16) che era
Premessa
25
pressoché deserta. Accesero le pile che una certa luce la facevano, ma a
un certo punto ammutolirono. Sulla nostra destra, sopra Pernumia, si
vedevano le luci di un aereo che volava verso nord. Smisero di parlare e
si fermarono. Dopo un po’ ripartimmo in silenzio e con le pile spente,
anche se dell’aereo non si sentiva più il rumore né si vedevano le luci,
finché arrivammo a casa della zia Francesca che ci fece accompagnare
negli ultimi cinquecento metri dallo zio Nino.
La prima elementare
Autunno 1943. Anche se l’età non c’era tutta, papà ottiene la mia
iscrizione alla prima elementare nella scuola costruita da pochi anni,
come tante altre in località lontane dai centri. Ci sono due aule ampie,
con i banchi di legno ancora nuovi, che possono accogliere fino a
una cinquantina di alunni ciascuna, perché ci sono le pluriclassi: la
prima con la terza e la seconda con la quarta. Chi vuole il diploma
della scuola elementare deve fare la quinta, secondo la comodità, a
Monselice o Arquà Petrarca o Pernumia o Battaglia Terme.
I rifugi
Di quell’anno ho un altro ricordo molto vivo. Sopra le nostre teste
fin dall’estate erano passate sempre più spesso squadriglie di aerei da
bombardamento, come le chiamavano i grandi: potrebbero bombardare
anche da noi. Sento una parola nuova: rifugi; ci vorrebbero dei rifugi.
E siccome la trentina di case di Monticelli è sul pianoro dell’antica
cava di trachite che si è fermata lungo una parete di volgare pietra da
annegamento alta al più una dozzina di metri e lunga poco più di un
centinaio, verso la fine dell’estate devono aver deciso di scavarli i rifugi.
Infatti lo zio Nando, invalido della prima guerra mondiale, un po’ in
piedi un po’ seduto comincia a improntare l’apertura del rifugio alla
fine del suo cortile sul lato ovest della nostra casa. Si sente martellare
anche dietro le case dei Ferrato e dei Giuliani. Ma verso la primavera
del 1944 la situazione deve essersi aggravata: arrivano gli operai delle
cave a fine lavoro e, finché c’è luce, senti il battere dei martelli che
preparano i fori per la polvere delle mine, poi lo scoppio delle mine,
26
Premessa
lo scricchiolio delle carriole che portano fuori pietre e ghiaia e grida
che allontanano noi piccoli curiosi perché : “Ghe xe pericolo”. Ma,
diremmo adesso, sono stati dei draghi: in tre o quattro settimane i rifugi
ci sono. La porta di ingresso viene ristretta con pietre squadrate tenute
insieme da tavole, travi e, dove occorre, un po’ di malta per ridurre
lo spostamento d’aria, sentivo dire, nel caso fosse scoppiata lì vicino
qualche bomba. L’ingresso diventa così un corridoio non più largo di
mezzo metro per un paio di metri di lunghezza. La parte interna si
allarga oltre i tre metri, è alta come il pianterreno delle nostre case ed
è lunga una quindicina di metri fin dove comincia a restringersi per
uscire all’esterno con un’apertura circolare, “di emergenza” dicevano,
del diametro che non raggiungeva il metro: anche noi bambini per
uscire dovevamo metterci sulle ginocchia. Fin da subito in uno scanso
si è visto un lettuccio dove dormì fino alla Liberazione Carlo Garzon
detto Zamara. Era proprietario dell’abitazione dove vivevano i prozii
Nando e Amabile e del cortile nel quale c’era l’entrata del rifugio.
Pensionato delle officine Galileo di Battaglia Terme dove risiedeva, si
era trasferito a Monticelli prima ancora che su Battaglia iniziassero i
bombardamenti per interrompere la statale 16 all’altezza dei mulini,
dove ci sono le porte che scaricano l’acqua del Bisatto nel sottostante
Vigenzone.
Vacanze 1944
Le vacanze del 1944 cominciarono con una bella villeggiatura, ma
per me triste (eh… allontanare un bambino dagli amici quando
finalmente può stare con loro tutto il giorno senza impegni!). Vero è
che ci ho messo decenni per riconciliarmi con l’altopiano di Asiago da
dove viene la mia ascendenza materna. Le zie Teresina Olga e Francesca
portarono a Gallio nella gran casa dei Pertile, dove erano rimasti solo
i prozii Rosa e Giovanni, genitori di zia Olga, con Domenico (che
chiamavano Mèno), noi cinque bambini di casa Bettin col fratello
rimasto orfano a tre giorni che continuava a crescere bene con nonna
e zia materne. Fu comunque una vacanza benefica e tranquilla, senza
aerei che sorvolassero l’altopiano. Sarebbe parso di essere fuori dalla
guerra se non ci fosse stato lassù un distaccamento di varie centinaia
Premessa
27
di soldati accampati con le tende tra i pini del Gastah e che quasi ogni
giorno finivano le marce passando davanti alla casa dei Pertile, che
allora era la penultima del paese a poche centinaia di metri dalle tende
dei soldati. Tra questi trovammo Dorino, da Monticelli, uomo giusto
e carissimo come pochi. In libera uscita non mancava mai di passare
da noi e, dalla terza volta, sempre con la gavetta piena di baccalà in
umido che non riusciva più a mangiare, perché era ogni giorno quella
minestra, e che noi bambini invece apprezzavamo. In cambio Dorino
mangiava di gusto la pasta, le verdure e, quando c’era, la carne che le
zie stentavano a farci mandar giù.
L’arrivo dei Tedeschi
Verso la fine delle vacanze arrivarono, nella loro ritirata, anche a
Monticelli i Tedeschi. Doveva essere una compagnia. La maggior
parte degli uomini fu alloggiata in uno stabile tra Rivella e la chiesa
di Monticelli e nelle dipendenze di villa Italia a Lispida. Gli ufficiali
alloggiarono nella canonica; gruppetti di soldati in case di campagna
che dovevano sembrare adatte per gli scopi degli occupanti e una
cinquantina di uomini si sistemò a Monticelli, la maggior parte nell’ex
chiesa di san Carlo che dal 1930, quando fu benedetta la nuova chiesa,
era stata trasformata in un piccolo teatro. A casa nostra un maresciallo
e tre sergenti requisirono due stanze: la cucina e il soggiorno che erano
indipendenti e quindi non fummo disturbati molto, ma dovemmo
entrare e uscire per la cantina o la bottega e poi spostare la cucina con
stufa, tavola, credenza eccetera. Dovemmo dunque restringerci; ma
c’era la guerra… e, a un certo punto dell’inverno, tornò congedato dal
fronte dalmata l’aviere zio Giovanni.
Non so se era nonno il maresciallo tedesco, ma era dolce con noi
bambini e veniva quasi ogni giorno a passare un po’ di tempo da noi,
dove si rivelò un ginnasta coi fiocchi: i talloni sull’orlo di una sedia, la
nuca appoggiata sul sedile di un’altra e restava così sospeso, parallelo
alla terra, che non ricordo fino a dove mi faceva contare.
Una volta volle a tutti i costi caricarsi sulle spalle il nonno; noi
bambini lo guardavamo a bocca aperta, finché non la chiudemmo
per non ridere quando sistemò il peso proprio sotto una trave contro
28
Premessa
la quale andò a battere la testa del nonno. Non so cosa sapessero di
lui i grandi, ma più crescevo e più mi parve che avesse una terribile
nostalgia di casa, dei figli, di bene…
L’anno meraviglioso
Lo stabile occupato da un bel numero di soldati tra Rivella e la chiesa
di Monticelli era proprio la nostra scuola. Ve lo immaginate un anno
intero senza maestri e lezioni? Le vacanze che non finivano? In realtà
c’era ben poco da godere e noi bambini non sapevamo né potevamo
capire cosa stesse capitando. Le giornate si accorciavano, ma avevamo
ancora modo di vedere, come d’estate, formazioni di decine di aerei
– le fortezze volanti dicevano – che andavano verso nord. Con
frequenza sempre maggiore arrivavano anche i caccia che si calavano
in picchiata lasciando partire due cosine, parevano due ghiande, le
quali, nonostante sparissero dietro il monte Lispida, ci inviavano
dopo un po’ il boato dello scoppio. Qualche volta tentarono di
bombardare il ponte della ferrovia sul canaletto che fiancheggia la
strada Costa – Rivella. Rimanevano enormi buchi dietro il casello tra
la ferrovia e la Canaletta. Una bomba portò via al casello l’angolino
nord – est del tetto, ma gli Zanasi continuarono il loro servizio.
Una domenica mattina di quell’inverno uscimmo dalla prima messa
e trovammo la giornata rigida ma luminosissima, col sole non
molto alto sull’orizzonte. Papà entrò con altri in canonica davanti
alla quale si formò un capannello di donne con qualche bambino.
All’improvviso una pattuglia di caccia spuntò dai colli di Arquà
Petrarca e passò sopra le nostre teste verso Battaglia Terme.
Da Lispida partirono alcune raffiche della contraerea. Subito
sentimmo che dal cielo limpidissimo qualcosa cadeva a terra.
Una donna vide e prese in mano un pezzetto rotondo di ferro
che scottava. “Sono pezzi di contraerea” gridò e corremmo tutti
dentro la sala della canonica dove i parenti stavano o comperando il
giornale oppure ordinando – come si diceva – delle messe. La cosa
finì là. Ma tornammo a casa in silenzio e, dentro, non dovevano
essere tranquilli i grandi.
Premessa
29
Pippo e altro
Pippo veniva chiamato l’aereo, ma dovevano essere tanti, che di
notte a bassa quota perlustrava il territorio e, dove vedeva luci o
movimento, bombardava. In casa si parlava poco di questo per
non spaventare i piccoli; ma io dormivo col papà proprio sopra lo
stanzone adibito a osteria che ogni sera si riempiva di uomini i quali,
giocando a carte, si rimproveravano o gridavano quando vincevano,
ma sempre più spesso parlavano seriamente di quello che capitava
e sentii di bombardamenti, di rifugi, di alleati di qua del Po. Ma il
sonno, per fortuna, la vinceva presto e allora non seppi mai neppure
della strage di Pippo nel cinema Roma a Monselice.
Invece ho avuto nelle pagine precedenti alle mie la risposta a una
domanda che ho fatto tante e tante volte a persone di Monselice.
Un pomeriggio di quell’inverno molto chiaro nonostante le nuvole
stavo tornando a casa, quando il rumore di aerei mi fece girare.
Erano solo quattro, non erano caccia e, ancora abbastanza lontani da
Monticelli, piegarono alla loro sinistra facendo due o tre giri attorno
a Monselice, sembrava, finché presero la direzione verso di noi e
sganciarono decine e decine di bombe. Poi si girarono e sparirono
verso Sud.
Sarà stato per il vento che tirava verso Monselice, ma a Monticelli
non si è sentito uno scoppio. Dalle pagine dell’ingegner Giovanni
Veronese ho finalmente saputo che anche quel giorno, 28 febbraio
1945, Monselice era stata colpita, anche se molte di quelle bombe
non erano esplose subito.
Erano giorni strani durante i quali bisognava scappare, almeno una
volta, nei rifugi. I ragazzi più grandi spesso scappavano fuori, facevano
quei pochi metri di sentiero fin sopra la parete che, per quanto bassa,
sovrastava tutte le case del paese e là guardavano i bombardamenti
dei caccia su Rivella o Battaglia Terme oppure giocavano. Una volta
sono scappato fuori anch’io, ma poco dopo arrivò zio Giovanni che
disse solo: “Se veniva tuo papà era almeno uno sculaccione”.
Non uscii più per quanto noioso fosse il rifugio.
30
Premessa
Un mattino non c’erano più i Tedeschi a casa nostra (il maresciallo
se n’era andato senza salutare), e non ce n’erano più neppure nella
chiesetta vecchia né in canonica. “Riva i aleati” dicevano i grandi, ma
non li abbiamo visti finché un paio di giorni dopo, il pomeriggio del
28 aprile, scappammo ancora nel rifugio perché in cielo si erano viste
strane giravolte di aerei e si erano sentite scariche di mitraglia. A un
certo punto “l’antifona – come diceva il nonno – era cambiata”.
“I aleati xe passà; i xe drio passare; i go visti a Rivea; no i finise
pì”. Così gridavano dei giovanotti, mentre si erano formati alcuni
capannelli di grandi. Ogni tanto qualcuno si staccava e andava verso
la chiesa. Sì, il campanile era stato cannoneggiato! Appena sotto le
campane c’erano due orribili fori rotondi di un paio di metri di
diametro. “Sì, parché no ghe gera la bandiera bianca” giustificava
qualcuno. Erano quelle frasi senza senso che qualcuno trovava, non
si sa come, il modo di dire.
Come qualche settimana prima quando Aldo Ferrato aveva dovuto
andare al distretto militare per delle visite come richiamato.
Il pomeriggio lo mandarono a casa anche col biglietto del treno per
la località nella quale doveva presentarsi. Ma non obbedì all’ordine.
Aspettava il treno per tornare a casa in stazione a Padova “nel
posto sbagliato”. In uno dei numerosi e terribili bombardamenti
sulla stazione padovana fu tra i tanti colpiti e uccisi, mentre due
compagni, che erano a una decina di metri da lui, tornarono: “se el
fuse sta visin ai amisi…” dissero molti.
“La guerra - dicevano - è finita”; ma a noi piccoli pareva di esserci
ancora dentro. Solo due esempi: nei primi mesi del 1946 lo zio Bepi
scrisse che stava per arrivare dalla Somalia e indicò anche la data
dell’arrivo. La zia Olga lo aspettava rileggendo la lettera e facendo i
conti dei giorni del viaggio: giorni che passarono invano, lo zio non
tornava. Zia Olga entrò in una crisi che si dovettero allontanare i
cugini. Ma, grazie a Dio, con un ritardo di un paio di settimane zio
Giuseppe arrivò e la famiglia si ricompose finché, morti nel giro di
pochi mesi i genitori di zia Olga, gli zii decisero di iniziare le pratiche
per emigrare in Australia, dove dagli anni Venti c’erano i quattro
Premessa
31
fratelli maschi della zia che erano scappati dall’altopiano di Asiago
dopo la prima guerra mondiale che lo aveva distrutto.
Quel 28 aprile avevamo visto uscire del fumo anche dalla nostra
scuola. I tedeschi avevano ringraziato dell’ospitalità appiccando il
fuoco all’edificio.
Ma noi non continuammo la vacanza. Durante l’estate la parrocchia
offrì alle maestre Belluco e Vergani una delle due sacrestie dove quasi
tutti gli alunni si recavano, alcuni al mattino e altri al pomeriggio, e
per fortuna ci si alternava, perché quelli a cui toccava il pomeriggio
uscivano da quella sacrestia in pieno sole, nonostante porta e finestre
aperte, boccheggianti. A ottobre poi riprendemmo la scuola in due
stanze di villa Italia a Lispida. La scuola fu pronta per l’ottobre 1946.
Molti di noi osservavano come stava Marianna. La bidella sempre
impeccabile, col grembiule nero lavato e stirato ogni giorno, stava al
suo posto gentile e severa, premurosa ed esigente.
Dario non era arrivato neanche quella notte… Dario che, quando era
passato a salutarci già con la divisa militare pochi giorni prima che
la mamma ci lasciasse, mi aveva alzato sulle braccia giocando come
sempre.
Non ritornò né si seppe mai dove e come era finito.
La lunga prigionia
di un marinaio
Estate 1942, imbarcato sull’incrociatore Taranto
TARCISIO BERTAZZO
Classe 1921
Monselice – PD – Via Arzerdimezzo
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Memorie di guerra dal 1941 al 1946
raccolte da Anna Scricco di Monselice,
ricercatrice di storia italiana contemporanea
La mia famiglia
Sono nato a Monselice, il 23 dicembre 1921, in una famiglia
numerosa con profonde radici cattoliche. Eravamo in dieci figli,
cinque maschi e cinque femmine, io ero l’ottavo; dopo di me altri
due fratelli maschi, Damiano e Camillo. Mia madre, Giuseppina
Montesso, morì quando io avevo nove anni. La sorella di diciassette
anni fece da mamma, oltre che a me, anche ai due miei fratelli più
piccoli. Le mie tre sorelle maggiori avevano già preso i voti per essere
suore e perciò vivevano in convento. Mio padre Federico, nato nel
1867 fu castaldo per le proprietà agricole che il conte Nani aveva a
Monselice e nei dintorni. Mio padre, una volta andato in pensione,
ricevette come compenso l’affitto privilegiato di undici campi, così
tutti noi imparammo a lavorarli.
Quando scoppiò la Grande Guerra, a nostro padre fu assegnato il
ruolo di “territoriale”, cioè operaio nelle officine Galileo di Battaglia
Terme, che funzionavano allo scopo di fornire armi ai nostri soldati
al fronte. Con la ritirata di Caporetto quelle officine furono trasferite
a Prato, così nostro padre dovette lavorare lontano dalla sua famiglia
per oltre un anno. Papà Federico fu sempre per tutti noi un grande
esempio di laboriosità, rettitudine e di forte senso della giustizia.
Riusciva sempre a trovare il modo di incrementare il reddito
familiare dei campi, siti in via Arzerdimezzo a Monselice, con una
piccola attività commerciale di compravendita di prodotti agricoli.
Tutti noi figli abbiamo frequentato, oltre le elementari, anche le tre
classi dette “complementari”, che erano le sole scuole medie qui a
Monselice. Mio fratello Espedito, del 1911, riuscì invece a diplomarsi
insegnante elementare, andando a scuola in città. Espedito fu in
seguito richiamato alle armi per andare a combattere, come soldato
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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della sanità, nella Guerra d’Etiopia scoppiata nel 1935. Finita la
guerra, non ritornò a casa, ma rimase in Africa.
Un Monselicense che viveva in Kenya con la famiglia lo ingaggiò per
l’educazione dei figli. Costui aveva una grande concessione inglese
di circa 10 km quadrati di terreno ed era molto ricco; Espedito dopo
due anni si stancò e ritornò a casa in famiglia. A Monselice trovò
subito un altro posto di insegnante. Quando scoppiò il secondo
conflitto mondiale, fu nuovamente richiamato e aggregato ad un
gruppo militare che lavorava in un consolato italiano in Germania.
Dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio, se ne ritornò in patria
dal consolato con una motocicletta. Era una nuova moto Triumph,
modello allora prestigioso, che era fornita di bandierina e documenti
consolari: tutto questo gli tornò molto utile poiché, presentando la
documentazione alle varie pattuglie tedesche che incontrò durante
il viaggio di rientro, poté passare indisturbato ai controlli. Poi, fino
alla fine della guerra, rimase sempre nascosto.
Al termine delle ostilità, riebbe la possibilità di proseguire nel suo
impiego di maestro.
Per quanto riguarda gli altri miei fratelli, il più vecchio, Ottaviano,
nato nel 1905, non fu richiamato e lo stesso avvenne per il più giovane,
classe 1925; ma le cose andarono diversamente per il fratello Damiano.
L’otto settembre del 1943 era soldato a Grado e qui trovò una famiglia
che fu molto gentile con lui aiutandolo in modo determinante a
raggiungere Monselice, dove visse nascosto per tutto il periodo della
repubblica di Salò. Io invece, avendo intrapreso la vita del marinaio,
rimasi assente da casa mia per ben quattro anni e mezzo.
In famiglia tutti noi ragazzi avevamo assorbito in modo
determinante l’orientamento politico di nostro padre: egli oltre
che essere fervente cattolico, era anche un attento e convinto
sostenitore del pensiero politico di Don Luigi Sturzo. Da sempre
io avevo avvertito in casa che la dittatura fascista, con le sue manie
smisurate di grandezza, avrebbe portato il nostro Paese alla rovina.
In questo contesto familiare, noi figli siamo sempre rimasti estranei
a qualsiasi organizzazione giovanile fascista. A nostro parere erano
nate non per sviluppare i valori delle persone, ma solo allo scopo
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
di mettere in luce esclusivamente le prerogative del capo, il Duce,
come Mussolini si definiva. Era questo che papà ci aveva insegnato.
Il Duce era sì un istrione dalle grandi doti di demagogo, ma non si
rivelò saggio, come amministratore, per non aver saputo prevedere
e provvedere alle future sorti dell’Italia.
Quando venne il 10 giugno 1940, Mussolini dichiarò guerra
alla Francia e ai suoi alleati. Ricordo chiaramente che mio padre,
mestamente, disse allora: “Ormai tutto è finito!”
Marinaio
Ai miei tempi i ragazzi che avevano compiuto diciotto anni, ed
erano in buone condizioni fisiche, dovevano partecipare per alcuni
mesi all’anno fino al momento della loro chiamata alle armi, a dei
corsi preparatori, per affrontare la vita militare. Erano i corsi del
“premilitare” che si svolgevano al sabato, il cosiddetto sabato fascista.
Queste esercitazioni consistevano in esercizi ginnici e lezioni sulla
conoscenza e l’uso delle armi. Tutti i partecipanti venivano divisi
in squadre comandate da militanti fascisti sempre in divisa, il cui
unico intento era, alla fin fine, dimostrare ai vari gerarchi di essere
perfettamente in grado di organizzare i giovani come i soldati delle
caserme. Ai miei occhi quell’inutile perdita di tempo non piaceva,
così cercai un modo per evitare questi allenamenti e riuscii a trovare
una scappatoia: tutti coloro, che volontariamente chiedevano per
iscritto di poter diventare marinai, non erano obbligati a partecipare
alle marce premilitari, ma venivano invece addestrati nella conoscenza
della vita in marina. Fu così che per tre anni frequentai, assieme ad
una decina di miei coetanei, le lezioni di un marinaio, un sottufficiale
in pensione. Ci raggruppavamo in una stanza della casa del fascio
(ora trasformata in abitazioni) che sorgeva alla confluenza del Viale
della Repubblica e via Galilei. Quel simpatico “capo” - così si definiva
il suo grado - mi trasmise l’amore per la marina, le prime conoscenze
delle navi e l’orientamento con le stelle. Passai la visita militare presso
la Capitaneria di porto di Venezia e fui dichiarato abile.
In marina vigeva la regola di chiamare alle armi il 15 dicembre
dell’anno in cui il neo marinaio compiva vent’anni.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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Fu per questo che io partii per La Spezia il 15 dicembre del 1941:
considerai questa regola la mia fortuna, poiché gli altri miei coetanei,
che invece avevano scelto il “premilitare”, erano già partiti per la
guerra e, destinati ai vari fronti, purtroppo, alcuni di loro erano già
deceduti in battaglia.
Io fui imbarcato sull’incrociatore “Taranto”, appena nominato nave
ammiraglia della Forza Navale Speciale, comandata dall’Ammiraglio
Tur. Con tale incarico il Taranto assunse il ruolo di incrociatore
guardiacoste.
Il Taranto, come seppi più tardi, costruito in Germania nel 1911, era
stato ceduto all’Italia come preda bellica nel 1920. L’incrociatore fu
subito sottoposto a un primo restauro nell’arsenale di Taranto, da cui
il suo nome. Subì successivamente altre revisioni; in quella del 1936
le ciminiere, da quattro, furono portate a tre. Furono poi rafforzati
gli armamenti tanto che nel 1940, all’inizio della guerra, il Taranto
era una nave solida e ben armata. Aveva sette cannoni da 149/43 e
due da 88/45 (il primo numero indica il calibro in millimetri, cioè
il diametro della bocca da fuoco; il secondo è il coefficiente che,
moltiplicato per il diametro, dà la lunghezza della canna: nel nostro
caso, per esempio, la lunghezza della canna, in mm 149x43=6407,
era pari a 6,407 metri). La nave aveva anche quattro lanciasiluri
da 500, mitragliere antiaeree leggere e le sistemazioni per la posa
di campi minati con una dotazione di 120 mine. Venni anche a
conoscenza che il Taranto, prima del mio imbarco, aveva partecipato
all’inizio del 1941 al bombardamento delle coste jugoslave, quando
Mussolini aveva dichiarato guerra ai paesi balcanici, e che poi aveva
anche collocato delle cortine di mine.
Nei primi due mesi affrontai un intenso addestramento che mi
garantì maggiore conoscenza della nave in cui ero imbarcato.
L’equipaggio era di circa 500 marinai dei quali 15 erano ufficiali.
Oltre all’Ammiraglio Tur, vi erano un Capitano di Vascello, che
era il comandante dell’incrociatore, dei Capitani di corvetta e dei
vari Guardiamarina. I graduati di truppa erano i nostromi, i capi, i
sottocapi e i marinai scelti.
La vita era disciplinata e stabilita da regole precise, ma tutto
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
sommato non c’era niente di cui noi marinai potessimo lamentarci.
Ogni cosa era di buona qualità a cominciare dal rancio.
Divenni ben presto “marinaio scelto” e passai sotto le dirette
dipendenze del comandante Tur, un incarico che svolsi per 8 mesi
con altri sette compagni. A turni di quattro, espletavamo tutte le
richieste del comando, per cui le nostre giornate non erano mai
piatte e monotone. I nostri impegni erano vari: il più simpatico era
quello di recarci nelle varie capitanerie di porto, dove arrivavamo
durante le nostre perlustrazioni costiere, per consegnare o
prelevare plichi, così si approfittava di questi incarichi per
scendere a terra oltre ai permessi di libera uscita. Noi otto avevamo
talvolta anche l’incarico di recarci nei locali più importanti della
nave per portare dispacci, sia nella plancia – che era il centro
direzionale dell’incrociatore –, sia sottocoperta, dove si trovavano
le santebarbare delle munizioni.
Talvolta nella nave venivano imbarcati i marinai della divisione San
Marco per le esercitazioni, erano i marines dell’esercito italiano.
Il nostro compito era di guardacoste e navigavamo dal mar Ligure
a quello Adriatico, ad una velocità di crociera di 20 nodi e talvolta
fino a 27.
Una volta, sullo stretto di Messina, fummo attaccati da aerei
angloamericani: subito entrarono in azione le mitragliere e
riuscimmo così a non subire avarie. Nel nostro girovagare vedemmo
anche i risultati della battaglia avvenuta nel Canale di Sicilia. Fu
un combattimento feroce tra Inglesi e Italiani. Per la nostra marina
fu uno sfacelo, centinaia di cadaveri venivano sospinti verso la
costa, erano come pesci morti. Un altro momento di trepidazione
fu quando costeggiammo la Grecia ed entrammo nel Canale di
Corinto, perché la popolazione ci era da sempre fortemente ostile,
ma fortunatamente non ci fu nessun incidente.
Il 1942 fu per me, in complesso, un periodo abbastanza sereno
perché vidi e toccai tutte le coste della nostra penisola. Come soldo
ricevevo una decade di centodieci lire che provvedevo a inviare alla
mia famiglia: io non avevo bisogno di niente perché ero fornito di
tutto a sufficienza (Per i giovani preciso che la “decade” era il soldo
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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militare distribuito ogni dieci giorni e che, per avere un ragguaglio
col valore odierno, bisogna moltiplicare per mille).
Anche la posta era regolare e, non appena facevamo tappa in qualche
città, ricevevo sempre notizie dai miei cari e questo mi aiutava, mi
sosteneva moltissimo. Io avevo instaurato con i miei commilitoni
buoni rapporti. Talvolta i miei compagni mi prendevano
affettuosamente in giro perché ero l’unico a possedere un orologio
Roamer, una marca a quei tempi molto prestigiosae per questo mi
veniva sempre chiesta l’ora esatta, tanto che poi andava trascritta
nei vari diari di bordo. Ricordo con simpatia il capitano di corvetta
Antonio Leonardi e un nostromo che continuamente ci suggeriva
i vari metodi per evitare scottature di sole, o colpi di freddo che
avrebbero potuto causarci dolori cervicali.
Verso la fine del 1942, il Taranto, mentre mi trovavo a La Spezia, fu
messo in disarmo e portato in un arsenale, la ciurma fu ridistribuita
qua e là e io ricevetti l’ordine di raggiungere Lampedusa.
Lampedusa
Partimmo in treno in una quindicina di uomini, tra i quali c’erano
due ufficiali guardiamarine e giungemmo a Trapani, in Sicilia. Da
là, con il traghetto postale, passando per Pantelleria, sbarcammo
a Lampedusa. Oggi è un nome noto per via degli sbarchi di extra
comunitari, ma al tempo del mio racconto era una sperduta isola
del Mediterraneo con pochi abitanti. Arrivammo quando il genio
militare stava terminando le piazzole per i cannoni 149/43 e i
depositi delle munizioni, il tutto costruito in cemento armato.
Trovammo tanti altri soldati di varie armi. Tutti insieme eravamo
qualche migliaio.
La difesa, dislocata nei vari punti ritenuti strategici, era formata da
due dozzine di cannoni prolungati, da mitragliere antiaeree e dalle
armi individuali dei soldati presenti.
Noi marinai per esempio avevamo solo delle pistole. Io fui addetto
a una batteria costituita da quattro cannoni, completa di telemetri
per il tiro, comandata da un capitano di artiglieria.
Di tanto in tanto dovevo partecipare alle ronde di controllo.
40
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Ormeggiati nel porto c’erano solamente tre motosiluranti MAS
e alcuni piccoli natanti; mancavano aerei e ogni sistema di
avvistamento del naviglio nemico. La vita trascorreva calma e
tranquilla, data la mancanza di ogni distrazione per la piccolezza
della roccaforte. Il rancio era discreto, la corrispondenza arrivava
e tutti noi ascoltavamo le notizie radiofoniche con la speranza
che la guerra cessasse presto, considerando anche la scarsità delle
forniture belliche di cui noi disponevamo.
Verso il 10 giugno 1943 cominciammo a sentire rumori molto
lontani, e di notte vedemmo fiammate all’orizzonte: gli Alleati
stavano bombardando Pantelleria, isola a nord di Lampedusa. Pur
essendo lontana da noi molti chilometri, noi sentivamo la terra
tremare sotto i nostri piedi; fu un bombardamento tremendo,
seppur durato poco più di un giorno. Alla fine Pantelleria si arrese.
All’alba del 13 giugno 1943, noi di Lampedusa fummo destati
dagli aerei angloamericani che stavano bombardando il porto
e distruggendo ogni cosa. Subito dopo fummo letteralmente
circondati da un gran numero di navi e di natanti da sbarco
avversari. Il mare era punteggiato ovunque dalle sagome di navi di
ogni misura con le loro potenti armi pronte per il tiro e lo si vedeva
chiaramente guardando con i cannocchiali. Eseguendo gli ordini,
iniziammo a sparare qualche bordata con i nostri cannoni, la mia
batteria sparò per tre volte. Malgrado tutti insieme ci stessimo
impegnando per la difesa, fin dall’inizio capimmo che tutto era
inutile, una difesa vana, eravamo… un moscerino che cerca di
affrontare un elefante: cessammo di sparare. Anche gli aerei nemici
cessarono il fuoco, pur continuando a volteggiare sopra le nostre
teste mentre i cannoni alleati tacevano; questo rappresentò per noi
una fortuna, la nostra salvezza.
I nostri nemici avrebbero potuto radere tutto al suolo facendo un
vero e proprio massacro con pochissimo sforzo perché la nostra
reazione poteva essere solo misera. Il comandante della nostra piazza,
approfittando della sospensione dell’attacco, fece issare bandiera bianca
in segno di resa e ordinò che noi gettassimo le nostre armi in mare.
Assistemmo allo sbarco degli Inglesi. Costoro, dopo aver provveduto
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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ai controlli, ci inquadrarono per poi farci salire cento per volta sui
loro mezzi navali. Io fui fra i primi, dando ascolto al consiglio del
mio capitano di partire subito, senza perdere tempo: forse pensava al
detto chi primo arriva meglio alloggia. Ubbidimmo senza discutere,
visto che i vincitori si dimostrarono rispettosi nei nostri confronti.
Il nemico non ci bombardò,dopo aver riscontrata la nostra pochezza,
vedendo in noi dei poveri diavoli gettati allo sbaraglio da Mussolini,
privi di ogni via di scampo né per mare né in cielo e, soprattutto,
sforniti di ogni mezzo adeguato di difesa.
Prigioniero degli Inglesi in Tunisia
Gli Inglesi iniziarono l’evacuazione di noi Italiani, servendosi delle
motozattere da sbarco che avevano approntato per l’invasione
dell’isola, se avessero trovato resistenza. Dopo qualche giorno,
infatti, parecchi di quei natanti furono riempiti di prigionieri che
partirono per varie destinazioni: io arrivai a Susa in Tunisia, gli altri
in Marocco. Partimmo di sera e alla mattina seguente arrivammo.
Subito ci misero in fila per fare il censimento: ci chiesero i dati
anagrafici e il reparto nel quale eravamo inquadrati e ci dettero il
numero di matricola che, se ben ricordo, era 73.467. Ci rifocillarono
e poi, divisi in squadre, ci fecero salire sui camion trasportandoci in
località Majaz-al-Bab.
Era un campo di smistamento posto all’inizio del deserto: aveva
tende, baracche di legno e tanto filo spinato. I soldati inglesi che
facevano la guardia erano rispettosi verso di noi e ci trattavano in
modo corretto, anche se distaccato.
Il cibo era buono, solo che c’era tanto silenzio e tanto sole; l’unico
svago era, oltre al tempo del rancio e del sonno, quello di chiacchierare
o giocare. Per tenere vive le discussioni c’erano le notizie di radio
Londra, che noi ascoltavamo con delle piccole radioline a galena,
fornite di cuffie: anch’io me ne ero portata una da Lampedusa.
Nessuno tentò di scappare. I motivi erano vari: le notizie erano
discretamente rassicuranti sulla fine della guerra, ci trovavamo in prigionia
nel deserto con tutte le sue incognite e gli Arabi del villaggio vicino, che di
tanto in tanto vedevamo, si dimostravano ostili nei nostri confronti.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Prigioniero dei Francesi a Ouina
Dopo qualche settimana di dolce far niente, gli Inglesi ci caricarono su
camion portandoci a Ouina, poco distante da Tunisi, consegnandoci
ai soldati francesi. Qui cominciarono i nostri guai.
Il campo di concentramento, pur essendo ben delimitato da alti
cavalli di frisia e posto entro un uliveto, era assolutamente privo di
attrezzature. Era gestito da soldati veterani francesi, comandati da un
graduato di truppa, e costoro, a ogni piè sospinto, ci rinfacciavano
la pugnalata che Benito Mussolini aveva dato alla Francia il 10
giugno del 1940. Appena entrati cominciarono col dirci: Guardate
bene questa porta, perché può darsi che non la vediate al ritorno,
evidentemente volevano farci capire che potevamo morire prima
di ritornare in patria. Eravamo circa 2500. Ci spogliarono di tutto
quello che ritenevano utile per loro e, in cambio, ci diedero misere
vesti vecchie e rattoppate che, sia sul dorso sia sul petto, avevano
dipinte le lettere P.G., prisonniér de guerre, prigioniero di guerra.
Tutti noi che provenivamo da Lampedusa eravamo pieni di ottimo
vestiario poiché l’avevamo tolto dai depositi militari immediatamente
dopo la nostra resa. Perdemmo tutto, ci lasciarono solo un telo da
tenda ogni quattro che usammo per ripararci. Nel campo trovammo
solo un rubinetto d’acqua e una lunga fossa che serviva da servizi
igienici e che poi risultò troppo vicina alle nostre tende. Si viveva, si
mangiava e si dormiva immersi in un odore nauseabondo.
Il cibo che ci davano era tanto scarso che, in poche settimane, gli
ulivi rimasero quasi senza foglie! Ci davano una pagnotta da dividere
in otto, un pugno di riso, una cucchiaiata di grasso, un pomodoro
da dividere in due e alcuni grani di fave. La razione d’acqua che ci
concedevano era di solo mezzo litro al giorno, che dovevamo usare
per bere e lavarci. Fummo sottoposti a un supplizio non degno della
civilissima Francia.
Cominciarono a regnare la sporcizia, il degrado fisico e le malattie.
Fu un periodo infernale. Che i Francesi volessero punire gli Italiani,
che apostrofavano sempre come fascisti, lo dimostrava anche la
diversa situazione in cui si trovavano i cinquecento soldati tedeschi
che erano in un campo di prigionia vicino al nostro: essi avevano
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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a disposizione tre rubinetti d’acqua, e i loro servizi igienici erano
lontani dalle tende dove dormivano. Fortunatamente per qualche
centinaio di persone c’era la possibilità di andare a pulire la città di
Tunisi, dove si subivano parecchie invettive giornaliere, ma avendo
nel contempo la possibilità di elemosinare pane e acqua.
I generosi erano gli Italiani che si erano stanziati in Tunisia prima
della guerra fascista. Costoro cercavano, di nascosto dalle guardie
arabe, di offrirci pane e acqua. Io non andai mai a fare lo spazzino
perché il mio unico intento era uscire in modo definitivo da
quell’inferno; per questo ero sempre attento e vigile a controllare se
vi era una via d’uscita.
Intanto, prima lentamente poi a frotte, parecchi di noi deperirono
e si ammalarono; costoro venivano inviati, di volta in volta,
all’ospedale militare di Tunisi gestito dagli Americani. I medici di
quell’ospedale vollero capire il perché di tutti quei ricoveri, così
arrivò una loro commissione nel nostro campo.
Era il fatidico 25 luglio 1943, giorno della caduta di Mussolini.
Certamente quei medici americani rimasero sbalorditi perché, il
giorno dopo, arrivarono camion con attrezzature ed operai. Il 29
luglio 1943 il campo era trasformato con baracche, cucine, acqua
e servizi igienici: proprio in quel giorno io partii per lavorare in
un’azienda agricola.
Era successo che, quando i Francesi ci avevano tolto il nostro
equipaggiamento, io riuscii a non farmi requisire il mio orologio
Roamer, fu così che pensai di scambiarlo per un aiuto. Nel nostro
campo, comandato da un maresciallo francese, vi erano anche
sottufficiali italiani, responsabili dell’ordine interno e della redazione
dei vari elenchi dei prigionieri che volevano lavorare come spazzini
in qualche luogo. Arrivò anche la richiesta di quaranta lavoratori
da una grossa azienda agricola sita a Potainville, distante circa venti
chilometri: erano stati richiesti un imbianchino e contadini esperti
nella coltivazione di vigneti e uliveti.
Io, che avevo già contattato il nostro preposto, subito mi offrii come
imbianchino. Fu così che barattai l’orologio, che mi ero tenuto caro,
per essere inviato in campagna assieme ad altri due grandi amici.
44
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Fui accontentato in parte perché il responsabile riuscì ad includere solo
un amico friulano; l’altro, che era piemontese, se l’ebbe a male, anche
se non fu colpa mia la sua mancata inclusione nell’elenco di uscita.
Potainville
Arrivammo in camion al villaggio. Io mi ambientai subito, soprattutto
grazie alla buona qualità di cibo, ma anche perché finalmente avevamo
la possibilità di dormire in case pulite, su dei letti a castello a due piani.
La tenuta agricola era grande e ben fornita di ogni servizio e ben tenuta.
Aveva un’ampiezza di dieci chilometri quadrati, cioè mille ettari: aveva
stalle, magazzini e case. Laggiù vivevano la famiglia del proprietario
Carl Potain, il capo guardia francese, parecchi inservienti arabi, addetti
alla sorveglianza degli animali, noi italiani appena assunti, e infine
qualche nostro connazionale ivi residente da prima della guerra.
Nella tenuta venivano prodotti oltre mille ettolitri di vino, parecchi
altri di olio d’oliva. Pascolavano greggi di pecore e capre, cavalli per i
guardiani, e oltre duecento muli, destinati al lavoro nei campi.
Il territorio di quella fattoria terminava verso il mar Mediterraneo, la
cui spiaggia sabbiosa era separata da noi dalla linea ferroviaria e dalla
strada che collegavano Tunisi a Susa.
Su quei confini, in riva al mare, vi erano cumuli lunghi chilometri, dove
erano state ammassate enormi cataste di attrezzature americane, non
molto custodite. Vi si poteva trovare tanta utensileria e ricambi d’ogni
genere: non avevo mai visto un’ammucchiata di materiali così enorme.
Subito Radio Scarpa, il nostro passaparola, sentenziò: L’America è così
ben fornita di tutto, che è praticamente impossibile sopraffarla: solo i
megalomani di Hitler e Mussolini potevano sperare di vincerla!
Non molto distante dal luogo dove eravamo noi, verso ovest, sorgeva
la cittadina di Amamelift che, in seguito, sarebbe divenuta una tappa
importante nei nostri andirivieni. Questa località era ricca di bazar,
generalmente gestiti da Ebrei che vivevano in buoni rapporti con la
popolazione araba, circolavano anche parecchi Francesi, Tunisini e
vari civili italiani quivi emigrati già nel periodo precedente la prima
guerra mondiale.
Sulle prime noi prigionieri italiani, trovammo difficoltà nell’instaurare
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
45
relazioni sociali, sempre a causa della pugnalata mussoliniana, ma con
l’andar del tempo la maggior parte dei residenti capì che tutti noi non
eravamo fascisti convinti, cioè militari pronti a tutto per Mussolini, ma
solo dei poveri diavoli mandati allo sbaraglio sui vari fronti di guerra.
A Potainville ho fatto molti lavori tra cui, come detto prima,
l’imbianchino. Per un certo tempo fui impiegato come muratore,
poi come metallurgico e anche come infermiere: mi adattavo a fare
qualsiasi mestiere per tirare avanti, per poter sbarcare il lunario il
meglio possibile. L’unico cruccio era la posta: non ho mai ricevuto
nessuna risposta da casa, ma è vero che io non ho usato tutte le lettere di
franchigia che ci venivano distribuite, forse perché ero più impegnato
nel trovare lavori allo scopo di poter raggranellare del denaro e usarlo
anche per le necessità giornaliere.
Fra tutte quelle persone che abitavano nel villaggio di Potainville e
nella cittadina vicina ne ricordo diverse che, per un verso o per l’altro,
hanno influenzato certi episodi della mia prigionia.
Rammento con piacere un muratore di origine siciliana, forse nato
laggiù, col quale io ho lavorato, che mi trattava con umanità e
simpatia. Ogni mattina mi portava latte e caffè con pane, dicendomi
sempre: Bertaccio, (storpiando il mio cognome) è un brava e buona
persona e un gran lavoratore. Ho conosciuto anche due autisti civili,
nostri compatrioti che lavoravano in Africa i quali dopo la sconfitta
dell’Asse, furono internati nel 1943. Costoro in Italia erano autisti
della ditta veneta Domenichelli che, con altre società dedite ai trasporti
su gomma, avevano subita la militarizzazione assieme agli automezzi,
visto che mancavano i camion dell’esercito, onde mantenere i contatti
fra le retrovie e i vari fronti di battaglia.
Uno di questi autisti era un Padovano che lavorò come conducente
per un po’ di tempo; in seguito fu mandato a lavorare in una fabbrica
meccanica, lontana dalla sua residenza, da dove rientrava solo il sabato.
Ad attenderlo c’era una ragazza siciliana, la cui famiglia era giunta
colà nel 1800. Costoro alla fine si sposarono, ebbero un bambino e
dopo il rimpatrio, a guerra finita, si trasferirono a Montegrotto Terme.
Attualmente la signora, ora vedova e quasi novantenne, sta bene e ci
manteniamo di tanto in tanto in contatto telefonico.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Per quanto riguarda il secondo autista che io conobbi, era di
provenienza piemontese e divenne inserviente presso una famiglia
dell’alta borghesia francese, formata dalla madre con due figli piccoli.
Il padre ufficiale era prigioniero in Germania. Siccome la signora era
priva di notizie del marito, aveva preso l’abitudine di farsi portare dal
suo autista presso il comando generale americano, che si trovava nel
campo d’aviazione di Cartagine, città famosa per la sua storia, situata
ad una trentina di chilometri di distanza dal golfo di Tunisi.
Questa donna si era autoconvinta che i servizi aerei americani e la loro
intelligence avrebbero potuto darle qualche notizia del marito.
Nel campo di Cartagine erano rinchiusi anche centoventi militari miei
connazionali, ai quali era stata affidata la mansione di tenere pulito il
sito. Erano trattati molto bene, avevano a loro disposizione cibi e vestiti
ed era stato loro concesso di poter utilizzare, anche per mezza giornata,
gli automezzi degli Americani per spostarsi nelle vicinanze in caso di
bisogno o per svago. Nacque un forte collegamento fra i prigionieri del
campo d’aviazione e noi internati presso i Francesi.
Ben presto iniziammo a scambiarci merci: noi davamo prodotti freschi
della terra, loro ci portavano scatoloni ricolmi di cibarie e di vestiario.
Quello che noi offrivamo era frutto di piccoli furti, fatti un po’ alla
volta per non farci scoprire; al contrario gli altri prelevano le merci col
consenso degli addetti ai magazzini.
La merce che loro ci chiedevano con maggior frequenza era il vino e
così io e i miei amici, non appena potevamo, preparavamo delle taniche
piene di vino che poi nascondevamo fino al momento dello scambio.
Ormai tra noi di Potainville avevamo creato un piccolo gruppo solidale,
per cui ci scambiavamo e dividevamo tutto. Aiutandoci tutti insieme,
contribuimmo a gestirci delle piccole scorte di cibo.
Ricordo che io, imbianchino, ero stato incaricato di tinteggiare le
cantine ove si trovavano le botti di vino. Vi salivo sopra per imbiancare il
soffitto e, contemporaneamente, introducevo nello sportello superiore
di una delle botti, una lunga canna facendola poi passare all’esterno del
locale attraverso la finestrella di ventilazione. La canna così giungeva a
un mio compagno il quale, con il vino prelevato, riempiva le taniche.
Faccio una piccola digressione per ricordare che alcune persone
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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fondamentali per quegli scambi, come l’autista della signora francese
e un sergente maggiore che coordinava il mio campo, furono poi gli
organizzatori di una fuga rocambolesca che coinvolse sedici di noi di
Potainville, ma di questo parlerò meglio più avanti. Ora ho ancora
tanto da raccontare della mia vita nella fattoria.
A Potainville era stata adibita a chiesetta cattolica una saletta, così
coloro che si sentivano urgere in seno i principi religiosi, quasi ogni
domenica, potevano assistere alla messa, celebrata da un sacerdote
francese. Noi Italiani abbiamo anche cominciato a confessarci da quel
religioso, ma non sempre lui ci capiva, così finiva per dirci: Parlate pure
l’italiano, perché Dio conosce tutte le lingue.
Là erano parlati prevalentemente francese e arabo. Noi imparavamo
abbastanza bene la lingua francese sia perché leggevamo i quotidiani
sia perché ascoltavamo trasmissioni radiofoniche in lingua.
Algeria, Tunisia e parte del Marocco erano colonie appartenenti alla
Francia e pertanto si parlava francese e la moneta usata era quella
francese anche se, accanto a queste, gli Arabi avevano mantenute una
propria lingua e una propria valuta.
Un giorno, lavorando la terra col piccone, mi infortunai un piede:
sbadatamente mi ferii con la punta. Il responsabile di Potainville mi
mandò all’ospedale della vicina città su di un calesse guidato da un
Arabo. Mi disinfettarono, applicarono un cerotto sulla ferita e mi
fecero una puntura antitetanica sul ventre. Mi dimisero subito, ma
appena fuori dall’ospedale svenni. Il mio accompagnatore fu pronto a
trasportarmi in una farmacia vicina.
Mi dettero da bere una pozione che mi fece sentire subito meglio, in
poco tempo mi ristabilii.
Il farmacista mi trattenne là per un po’ di tempo, per controllarmi
il polso e nel frattempo parlandomi, scoprendo che ero un Italiano,
iniziò anche lui a parlare nella mia stessa lingua. Raccontò che durante
il fascismo era arrivato in quella città per dirigere la farmacia che
aveva acquistato. Iniziata la guerra gli confiscarono la farmacia e lo
internarono. Fu sostituito da un farmacista francese e lui divenne
inserviente. Quest’incontro fortuito mi portò giovamento perché col
farmacista ben presto fraternizzammo.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Un giorno, mentre rientravamo in gruppo dal lavoro, dal campo militare
francese vedemmo uscire una delegazione di autorità. Fummo invitati
a disporci in fila sull’attenti dal caposquadra che ci indicò, fra loro, il
generale De Gaulle. Il generale si fermò, ci rivolse alcune domande
sulla nostra provenienza e sulla nostra situazione; ci esortò a lavorare
e a essere disciplinati, in questo modo avremmo avuto garantito un
buon trattamento da parte delle autorità francesi; infine ci chiese cosa
pensassimo di Mussolini, ovviamente nessuno di noi espresse giudizi
positivi, io feci un gesto a indicare che meritava di essere eliminato. Il
generale sorrise e ci disse che ormai la guerra volgeva al termine e che
presto saremmo tornati a casa. Era il maggio del 1944.
La mia vita nel villaggio dell’azienda agricola durò fino al marzo 1945,
e posso dire che fu tutto sommato soddisfacente, vivendo però sempre
alla giornata senza scopi prefissati. Seguivo l’andamento del conflitto
ma senza forte interesse.
Passarono i giorni, venne l’armistizio dell’8 settembre, seguito da varie
altre battaglie, ma niente di tutto questo mi risvegliò l’entusiasmo: mi
ero appiattito, pensavo solo a rimanere sano di corpo e di mente e alle
mie iniziative lavorative, fatte per distrarmi un po’ e per procurarmi
quello che ritenevo necessario per me.
L’industriosità italiana a Potainville
Anche se noi reclusi a Potainville venivamo remunerati per il nostro
lavoro esclusivamente con vitto e alloggio, ben presto riuscimmo ad
avere dei soldi. Tutti noi facevamo qualche attività secondaria che
ci dava la soddisfazione di ottenere del denaro per poterci comprare
quello che volevamo. Io ne sviluppai principalmente due: una
imparata da commilitoni bergamaschi, l’altra nata per caso, che riuscii
a sviluppare in modo autonomo e segreto.
In Tunisia, allora colonia francese, circolavano le monete metalliche
da un franco, coniate negli anni 1920-22. Erano dei dischetti fatti
con una lega un po’ malleabile, che rimaneva sempre lucente senza
ossidarsi; si diceva che oltre al rame ci fosse anche un po’ d’oro. Il fatto
era che quelle monete si prestavano molto bene ad essere trasformate
in anelli, che erano ben ricercati dagli Arabi. Alcuni Bergamaschi, che
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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da civili lavoravano come operai metallurgici, trovarono il metodo per
ricavarne anelli, lavoro che io subito imparai alla perfezione.
Questo singolare lavoretto era tuttavia lungo e necessitava di tanta
pazienza: svolto con pochi e semplici utensili, si sviluppava in tre
fasi successive. La prima era praticare un foro centrale sulla moneta,
creato con l’ausilio di un dado che serviva da incudine: sopra si
poneva la moneta, si procedeva poi col martello battendo piccoli colpi
su un punzone con la testa piatta posto al centro della moneta e in
corrispondenza del foro del dado, girando e rigirando la moneta, si
riusciva così a forarla. La seconda fase prevedeva di fare in modo che
l’anello potesse infilarsi nelle dita del committente.
Per ottenere questo dapprima si prendeva la misura del dito con dei
cerchietti, poi si infilavano le corone metalliche ottenute nella canna
di un vecchio moschetto tunisino che era troncoconica. Battendo ogni
corona e girandola ininterrottamente, questa si abbassava lungo la
canna e si poteva ottenere il foro desiderato.
La terza fase consisteva nell’eliminare le piccole sbavature usando
tela smerigliata, e infine nel lucidare per bene l’anello, utilizzando
uno straccio imbevuto di polvere di carbone vegetale. I vari utensili
adoperati li avevamo presi dai mucchi di provviste che gli Americani
avevano accatastato ai confini dell’azienda agricola.
Questa piccola attività si rivelò assai proficua, nonché un piacevole
passatempo per tutti noi, poiché ricevevamo da 10 a 15 franchi per
ogni anello.
Capitò un giorno che venne da me un ragazzino dandomi una moneta
e chiedendo in cambio l’anello. Gli misurai il dito e lo informai di
tornare alla sera con 10 franchi. Non appena guardai la moneta mi
accorsi che era un marengo d’oro di Napoleone.
Che fare? Ormai mi ero abituato a pensare e a fare solo in modo
egoistico, così presi un franco francese e mi misi di gran lena al lavoro;
la sera dopo l’anello era pronto; il ragazzetto venne a prenderselo, mi
diede dieci franchi e a me rimase il marengo!
Andai dal mio amico farmacista, che me lo fece vendere per 15
franchi.
Un noto proverbio dice l’occasione fa l’uomo ladro, anche se io,
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
intimamente, mi sentivo giustificato, considerate le ristrettezze
in cui vivevo.
Il secondo affare nacque per caso. Chiaccherando con gli Arabi,
uno di loro mi parlò di un suo giovane figlio che si era ammalato.
Io che avevo vissuto in una famiglia numerosa, dove di tanto in
tanto qualcuno si doveva curare per qualche malessere, avevo
finito per imparare tanti metodi empirici tradizionali che davano
risultati positivi per piccoli malanni. Quella volta mi informai bene
dei sintomi e gli diedi dei consigli pratici, semplici da applicare.
In poco tempo il ragazzo guarì del tutto, fu così che per il padre
divenni un infermiere provetto. Quell’Arabo fece evidentemente il
passaparola visto che altri Arabi cominciarono a chiedermi consigli
per i malanni dei loro figli. Senza volerlo ero diventato un infermiere
che gratuitamente dava suggerimenti di spicciola medicina. Venni
chiamato anche a consulto. Mi comprai dall’amico farmacista un
termometro. Cominciai ad usarlo al capezzale di qualche giovane.
Fu così che con questa trovata alla fine divenni un quasi medico…
ricompensato con grandi abbuffate di cibi prelibati.
A noi internati veniva distribuito gratuitamente, ogni mese, un
tubetto di vetro con quindici pastiglie di chinino, poiché la zona era
considerata malarica. Noi Italiani non ne facevamo grande uso, così
avvenne che avevamo accumulato in deposito del chinino. Queste
pastiglie non avevano sempre lo stesso colore, ce n’erano di gialle,
rosse, viola, arancione, così pensai di sfruttare la colorazione diversa
per fare delle medicine. Scioglievo il chinino con poca acqua e tanto
zucchero, in modo da creare pastiglie di colori diversi.
Poi facevo delle piccole sfoglie dello spessore di quattro cinque
millimetri che incidevo con il tubetto di vetro, contenitore del
chinino, realizzando dei dischetti che lasciavo indurire: questi
erano i miei piccoli rimedi per curare modesti malanni. Ogni volta
che venivo chiamato, partivo con un piccola custodia, ove ponevo
il termometro e delle scatolette con dentro le pastiglie di diverso
colore. Per prima cosa davo dei consigli, poi distribuivo le pastiglie,
scegliendole fra i vari colori, a seconda delle persone che avevo
davanti. Sono stato davvero fortunato: la popolazione era contenta
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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e mai nessuno si è lamentato dei miei metodi a base di chinino e
zucchero!
Io però facevo tutto gratuitamente e con circospezione, allo scopo di
evitare noie con le autorità, tanto che non ne parlai neanche con gli
amici commilitoni, anche se proprio da loro compravo il chinino.
Se mi chiedevano spiegazioni, dicevo che poi l’avrei regalato ai
poveri. Per gli Arabi ero in pratica diventato uno specialista e spesso,
a guarigione giunta, per ringraziarmi mi invitavano a pranzo.
Per queste occasioni mi ero attrezzato col mio cucchiaio della
gavetta, che tenevo sempre infilato nel taschino della camicia, e che
io usavo, mentre gli Arabi per mangiare adoperavano semplicemente
le mani.
La fuga
Anche se a Potainville si stava abbastanza bene, il pensiero principale
di tutti era quello di riuscire a tornare a casa. Era così importante
che, per almeno sedici di noi, fece l’effetto di una molla propulsiva,
dandoci il coraggio per tentare di scappare, costasse quel che
costasse, per raggiungere i nostri cari il più presto possibile.
Come già detto, noi che eravamo rinchiusi nella tenuta agricola,
avevamo instaurato un proficuo rapporto con gli Italiani inservienti
nel campo d’aviazione di Cartagine. Coloro che tenevano i maggiori
contatti, tessendo una profonda amicizia, erano l’autista della
signora francese unitamente al sergente maggiore che coordinava
il nostro gruppo di Potainville. Erano in continua relazione con
quei prigionieri di Cartagine che andavano a fare delle pescate
notturne nel Mediterraneo per rifornire di pesce fresco la mensa
degli Americani. Quei pescatori, per uscire in mare aperto, avevano
a disposizione un veloce natante fornito di un motore di novanta
cavalli e accessoriato di grandi serbatoi contenenti carburante
sufficiente per compiere più uscite in mare.
Arrivò metà marzo del 1945 e gli Americani iniziarono ad
approntare tutti gli armamenti, per partire al più presto verso
l’Italia. Quella partenza era necessaria per presidiare l’Italia liberata,
mentre continuava la lotta per cacciare i Tedeschi dal nord Italia.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Tutti noi di Potainville eravamo impazienti di raggiungere il sud
della Patria ormai libera. Fu così che nacque un accordo fra i
pescatori e il nostro gruppo: loro ci avrebbero lasciato la barca
arenata sulla spiaggia, ai confini dell’azienda agricola, noi di notte
saremmo partiti verso l’Italia. La sera prestabilita per la nostra fuga
ci muovemmo in sedici, tra cui l’autista e il sergente maggiore che
erano gli artefici principali degli accordi, riunendoci sul natante. Per
disincagliarlo avevamo portato due binde (martinetti a cremagliera,
ora completamente oleodinamici) e del legname. Dopo qualche
sforzo riuscimmo a partire, era notte fonda. Noi sedici ci eravamo
portati dietro uno zaino per essere forniti dell’essenziale per scappare,
mentre avevamo lasciato sui nostri letti la parte più pesante delle cose
di nostra proprietà.
Io poi avevo raccolto e messo in un sacchetto i franchi che erano
in via di essere trasformati in anelli e i piccoli attrezzi che avevo
usato per lavorare; gettai tutto sul tetto di un capannone: era meglio
disfarsi del materiale che scottava, perché, se fosse stato trovato, le
autorità avrebbero inflitto gravi punizioni al colpevole. Infatti, quei
lavori che facevo erano paragonabili a quelli di un falsario.
Salimmo sull’imbarcazione con i serbatoi pieni, con la speranza di
anticipare il rientro in Italia. Purtroppo il diavolo ci mise lo zampino.
Dopo un po’ di navigazione, il natante cominciò a girare su se stesso
perché si era rotto il timone: il guasto era senz’altro successo durante
il disincaglio e fu un danneggiamento involontario.
Ci assalì la disperazione, poi piano piano accettammo il malanno
e ci demmo daffare per il ritorno alla spiaggia di partenza. Ci aiutò
la risacca, ma alla mattina approdammo distanti una quarantina
di chilometri da Potainville. Fummo, purtroppo per noi, subito
avvistati da un Maltese che risiedeva proprio là dove ci eravamo
arenati. Costui mostrandosi amichevole, ci fece molte domande,
mentre noi imbufaliti ci mettemmo in cammino. Tornammo ai
nostri letti ormai che era sera, tuttavia nessuno ci rivolse qualche
osservazione. Mangiammo e andammo a riposare.
La mattina dopo fu un amaro risveglio. Vennero i soldati francesi
del corpo di guardia della cittadina: malauguratamente sapevano
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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molte cose su di noi poiché erano stati avvisati dal Maltese. Il primo
a essere preso fu l’autista della signora francese, forse perché aveva
detto troppo a quel Maltese; da lui vollero sapere tutti i nostri nomi.
Al suo rifiuto lo picchiarono e solo allora li rivelò, tranne quello del
sergente maggiore, per evitargli una sicura e pesante incriminazione,
molto più di quella destinata a noi, essendo lui l’unico graduato del
gruppo.
L’autista riuscì ad avvisarci sull’accaduto e su cosa aveva confessato:
noi ci accordammo di ripetere tutti la stessa cosa, qualora ci avessero
interrogati per evitare di tradirci a vicenda.
Il ritorno ad Ouina
I soldati ci portarono al campo base di Ouina, da dove eravamo
partiti un anno prima. Là ci tolsero le cose migliori del nostro
equipaggiamento, lasciandoci solo l’indispensabile: noi mogi
mogi fummo subito portati in prigione: era iniziato l’aprile 1945,
proprio il mese fatidico della liberazione totale dell’Italia. Fu in
quell’occasione che scoprirono e mi sequestrarono il diario che io
avevo redatto con cura, giorno dopo giorno. Il campo aveva ormai
una buona organizzazione, anche se per noi sedici era diventato una
prigione.
Il carcere era formato da varie tende, circondate da cavalli di frisia e
contenute in un riquadro ricavato entro il grande campo base.
Il bello di quella faccenda era che noi vi eravamo entrati
immediatamente dopo che le prigioni erano state svuotate per un
indulto in occasione della Santa Pasqua avvenuta il 1° aprile.
Il responsabile francese, un anziano maresciallo dell’esercito, ci
interrogò ancora, intenzionato com’era a scoprire chi fra noi fosse
stato l’ispiratore ed avesse organizzato il tutto. Noi mantenemmo
la stessa linea come d’accordo: era stata un’idea collettiva, volevamo
solo tornare a casa.
Dapprima incolpò il sergente maggiore, poiché era l’unico graduato,
poi me e un altro marinaio, perché diceva che eravamo i soli ad avere
cognizioni di orientamento marittimo; tutti però ripetemmo ciò che
avevamo dichiarato fin dall’inizio.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Questo nostro atteggiamento forse fece diminuire la gravità e la
durezza del nostro castigo, che tuttavia si mutò in una maggior durata
della prigionia, mentre diversi nostri compagni venivano rimpatriati.
Durante lo svolgimento degli interrogatori mi capitò un evento
emozionante che riuscì a consolarmi malgrado la sventura capitatami.
Un giorno guardavo fuori dalla tenda coloro che passavano per
dirigersi alla vicina biblioteca. A un tratto vidi di spalle un prigioniero
italiano che stava leggendo dei manifesti, fissati all’esterno della
biblioteca, scritti in lingua italiana. Lo apostrofai, dicendo: Capo,
cosa c’è scritto? Il soldato si voltò, si avvicinò, ci riconoscemmo
subito: era l’amico Giuseppe Mascotto che abitava a Monselice in
via Valli. Fu per entrambi un grande lampo di gioia! Subito feci
chiamare il capo campo italiano, a cui ci rivolgevamo per le nostre
richieste, e chiesi di farmi uscire per abbracciare l’amico ritrovato. Il
capo campo, che era un maresciallo dell’esercito, mi rispose che non
era possibile ma che tuttavia avrebbe consentito che fosse Giuseppe
a venire da me, almeno per un po’ di tempo. Subito Giuseppe
accettò senza pensarci: facemmo una lunghissima chiacchierata
abbandonandoci ai ricordi e scambiandoci notizie sulle rispettive
disavventure. Giuseppe era uno di quelli che avevano fatta la ritirata
in Libia ed era stato fatto prigioniero dagli Inglesi. Mi raccontò che
poi furono consegnati alle forze francesi che, servendosi di soldati
arabi, li fecero marciare a piedi per ben cinquecento chilometri
fino ad Orano. Raccontò che fu una marcia infernale sotto il sole
cocente, spesso senza acqua. Parecchi morirono sfiniti o uccisi per
strada, poiché l’autorità francese fu ferocemente inflessibile con
quei poveri Italiani, sempre per il solito motivo, la già ricordata
pugnalata.
A posteriori mi viene ancora da dire che le ritorsioni francesi su noi
soldati ormai vinti furono del tutto inutili protervie verso chi, a sua
volta, aveva subito l’arroganza di Mussolini dittatore. Il Mascotto
non riuscì mai a riprendersi fisicamente in modo completo da
quella micidiale marcia e, alla fine, il comando francese acconsentì a
rimpatriarlo per malattia: per questo era stato portato nel campo di
concentramento vicino a Tunisi per l’imbarco.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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Mentre eravamo in prigione giunsero altri prigionieri, pure loro
rinchiusi in campi di punizione francesi. Era evidente che Ouina
era un punto di concentramento per un successivo trasferimento.
Infatti fu così che ci caricarono, quaranta alla volta, su otto vagoni
merci e ci spedirono a Marrakech, in Marocco, ove arrivammo
dopo un viaggio estenuante, durato una settimana. Fu un percorso
faticoso, dovendo stare sempre chiusi nei vagoni, senza finestre, ma
solo con piccoli fori in alto. Ci davano sì da mangiare e da bere, però
in tutto il viaggio ci permisero di scendere solamente due volte, per
sgranchirci le gambe.
Quei vagoni diventarono ben presto puzzolenti e sudici, come
del resto accadde anche a noi. Ricordo bene quando sostammo a
Casablanca: era il 25 aprile 1945. Il treno era stato fatto deviare
temporaneamente verso il deposito del Campo di Marte.
Ci sdraiammo sui binari per distendere gli arti ormai un poco
intorpiditi. Dopo un po’, passò di là un venditore di giornali; ne
comprai uno, spendendo soldi tunisini, e lessi che gli Alleati avevano
oltrepassato il Po, ed erano entrati nel Veneto. Subito alzammo
grida di gioia: che felicità, che bellezza nel sapere finalmente libera la
nostra Patria! Si va a casa! Non sapevamo ancora cosa ci aspettava!
Il giorno seguente giungemmo a Marrakech.
A Marrakech
Era il 26 aprile del 1945. L’ufficiale dell’esercito francese, che
comandava la nostra scorta di soldati arabi, consegnò tutti i
documenti di viaggio al responsabile del nuovo campo che era
un maresciallo francese, coadiuvato a sua volta da un altro suo
pari appartenente all’esercito italiano.
Nel nuovo sito trovammo altri Italiani e tanti stranieri, così da
raggiungere il numero di circa seicento prigionieri. Eravamo
accampati al seminterrato di un ospedale costruito fino al grezzo,
perché i lavori erano stati sospesi a causa della guerra.
Anche lo scantinato non era completo, mancavano diverse cose,
come il pavimento, ma almeno eravamo riparati dal sole e dalle
intemperie. Purtroppo però lo trovammo pieno zeppo di parassiti:
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
il calore e la mancanza di accurate pulizie davano come risultato, in
questi posti assolati, il proliferare delle cimici.
Il trattamento verso di noi tuttavia era discreto e la sorveglianza
non rigorosa. Chi voleva lavorare poteva farlo tranquillamente,
bastava farsi iscrivere negli elenchi giornalieri redatti dal
responsabile italiano. Mi iscrissi anch’io per poter lavorare e
ricevere qualche aiuto dalla popolazione.
Si usciva a gruppetti, scortati da soldati arabi e si andava a cercare
impiego ai mercati locali, oppure al cimitero francese (gli arabi
ne avevano uno per conto proprio).
Al mercato si facevano le pulizie e si provvedeva al trasporto delle
derrate, così sempre si riusciva ad avere in cambio qualche cibaria
per completare il rancio.
Al cimitero si pulivano le tombe, si annaffiavano i fiori e per questo
lavoro c’era sempre qualche buona persona che ci ricompensava
con delle monete che poi usavamo per le compere.
Dal trattamento che noi fuggiaschi ricevemmo, capimmo che alla
fin fine non avevamo ricevuto nessuna pena specifica: e questo ci
rallegrò. Eravamo considerati solamente prigionieri di guerra.
Fra di noi vi erano anche dei laureati che da civili erano
insegnanti di lingua inglese. Costoro cominciarono a far corsi
per farci conoscere quella lingua. Io mi iscrissi e cominciai le
lezioni dalle quali in fondo mi sentivo gratificato, perché così
aumentavo le mie conoscenze. Dopo aver imparato per necessità
la lingua francese, potevo apprendere anche quella inglese.
Passati circa due mesi ci fu la richiesta, fatta al capo campo,
di otto operai meccanici e contadini: sette subito risposero di
sì, mancava l’ottavo. Dato che io mi ero fatta la fama di abile
meccanico, quei sette vennero a propormi con insistenza il
lavoro.
Sulle prime fui reticente, poi indeciso e alla fine cedetti; mi
convinsero che nei campi, all’aria aperta, la vita sarebbe stata
migliore. Per di più non era che a me piacesse la vita del campo
di Marrakech, tuttavia trovavo interessanti le lezioni di inglese.
Fu così che anch’io mi recai a Teroudant.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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Taroudant
Eravamo stati ingaggiati da una famiglia belga che aveva una decina
di ettari coltivati a orti e frutteti. Quella zona era sotto la giurisdizione
di Agadir, città posta al di là della catena montuosa dell’Atlas.
Venne a prelevarci una signora di mezza età, perché il marito era
agli arresti domiciliari, punito come collaborazionista con i tedeschi.
Venne con una corriera postale e ci portò via con altra corriera che
faceva il cammino inverso. Da quel momento la responsabilità di tutti
noi otto fu di quella signora che, da subito, si mostrò dura nei nostri
confronti. Ci fece salire non dentro la corriera, ma sopra dove c’era
una piattaforma per legare i bagagli: era la fine di luglio del 1945.
Partimmo di mattina presto e arrivammo a destinazione verso sera.
Attraversammo la catena montuosa dell’Atlas, punteggiata di neve,
fermandoci di tanto in tanto in miseri villaggi. Noi mangiammo e
bevemmo quel poco che ci eravamo portati dietro. Ad attenderci
c’era il marito, il sig. Fritz e due bambini. Ci assegnarono un ricovero
discreto e il cibo si dimostrò fin da subito buono ma di quantità
ridotta, tanto che poi si doveva rubacchiare qualche prodotto
agricolo per completare la dieta.
Il lavoro più importante e faticoso era l’irrigazione. Un’abbondante
quantità d’acqua e il molto sole che splendeva davano ottimi
risultati. Io e il toscano Giuseppe Magazzini, aiutati saltuariamente
da un altro, eravamo gli addetti ai motori di pompaggio. Il più
potente era a vapore, l’altro a scoppio.
Il motore a vapore era vecchio e aveva bisogno di una continua
manutenzione. I serbatoi del vapor acqueo erano lesionati qua e là e
noi, per turare le falle, dovevamo arrangiarci a tamponarle con della
terra argillosa, che trovavamo scavando in profondità.
Quei lavori agricoli dopotutto, si dimostrarono pesanti perché occorreva,
essere costantemente presenti e attenti che i motori funzionassero, che
l’acqua scorresse e che tutto il terreno venisse irrigato. Solo così i frutti
della terra crescevano e maturavano in fretta.
Tutti insieme eravamo assidui, una vera squadra, ma talvolta non
riuscivamo ad essere sempre pronti poiché le forze ci mancavano,
data la scarsità di cibo. Chiedemmo un pasto più sostanzioso, ma
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
ci fu risposto di no. Chi in effetti gestiva quella fattoria era proprio
la signora, donna energica, decisa e dispotica, ci considerava e ci
trattava solamente come prigionieri di guerra, anche se ormai il
conflitto era finito.
Non mostrava verso di noi alcun gesto di umana comprensione.
Fu così che tutti decidemmo di fare uno sciopero, sospendendo
il pompaggio dell’acqua e quindi l’irrigazione. La reazione fu
immediata: la nostra padrona chiamò la polizia francese locale.
Fummo trattati da criminali: purtroppo il responsabile di quel
distaccamento accettò soltanto la dichiarazione della donna e così
il suo verbale risultò del tutto sfavorevole per noi, addirittura noi
due meccanici italiani: fummo dichiarati sabotatori, poiché non
avevamo fatto funzionare i motori per un giorno e mezzo, visto che
eravamo in sciopero.
Noi meccanici, assieme al nostro saltuario assistente che aveva
marcato visita, fummo spediti al campo di smistamento di Agadir
dove c’erano le prigioni e l’ospedale, accompagnati da due soldati
arabi come scorta. Andammo a piedi, percorrendo una trentina di
chilometri: era la fine di febbraio 1946.
Durante la faticosa marcia sostammo per riposare e rifocillarci in
due villaggi con il cibo che avevamo di scorta. In uno di questi
trovammo un piccolo presidio militare. Il comandante era un
Italiano naturalizzato Francese, scappato in Francia durante la salita
al potere di Mussolini. Fu veramente cattivo con noi, sbeffeggiandoci
e insultandoci e ci trattò da nemici fascisti con grida e urla.
Agadir
Quel campo si trovava in un luogo che non dimenticherò mai:
laggiù ho trascorso giorni terribili, per fortuna fu per poco più di
una settimana.
Arrivati, io e l’altro meccanico fummo messi in prigione; il terzo invece
fu mandato all’ospedale francese per un controllo. Poco dopo però
fu spedito pure lui in prigione perché non fu dichiarato ammalato,
ma solamente uno scansafatiche e un bugiardo. Le prigioni erano
stanzette di circa un metro e mezzo per tre, costruite in muratura.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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Il letto era un rialzo di circa cinquanta centimetri, formato da mattoni,
con sopra una soletta di calcestruzzo. La porta era nel mezzo del lato
più corto e, a fianco, c’era il bugliolo per gli escrementi. Questo non
era altro che un buco sul pavimento, che si prolungava nel corridoio
in una canaletta, dove scorrevano i liquami spinti da un po’ d’acqua.
Subito sopra a questo scolo c’era un foro sul muro, sufficientemente
grande per far passare le gamelle dei cibi ed il passaggio a carponi
di una persona. Riscontrai che in quelle condizioni eravamo in una
decina di soldati, fra Italiani, Francesi e Inglesi.
Al pomeriggio, verso sera uscivamo strisciando attraverso la bassa
apertura vicina alla porta e andavamo in cortile, per sgranchirci
le gambe e chiacchierare. Mi capitò anche di fare una baruffa: un
soldato francese, improvvisamente, forse perché esasperato da quella
assurda situazione in cui si trovava anche lui, cominciò ad insultare
noi Italiani con la classica parola dispregiativa francese Macaronì,
macaronì! Mi stancai nel sentirmi gridare queste offese, gli urlai di
smettere. Per tutta risposta mi sferrò un pugno che cercai di scansare,
ma mi colpì sul collo. Reagii istintivamente con un potente pugno,
colpendolo all’occhio che subito iniziò a gonfiarsi. Rimasi scosso
dal mio gesto ed entro di me mi pentii, sia perché la mia azione era
stata troppo violenta, sia perché, se quel tale mi denunciava, per
me sarebbero stati guai ancora più seri. L’indomani quell’uomo fu
ricoverato all’ospedale ove dichiarò, fortuna mia, che quel malanno
se l’era procurato cadendo dalle scale.
Rimanemmo in quel tugurio di prigione per una settimana.
Nel frattempo il nostro amico, quello che era stato dichiarato
bugiardo, marcò visita e questa volta rimase in ospedale.
Noi due a nostra volta, vedendo come funzionava l’ingranaggio,
marcammo visita e fummo condotti in ospedale. Qui finalmente
trovammo comprensione, assistenza e anche, meraviglia, un medico
che ci aiutò. Costui per prima cosa ci chiese il perché fossimo
ancora internati, dato che i nostri altri connazionali avevano già da
tempo iniziato a rimpatriare. Gli raccontammo ogni cosa; mosso a
compassione ci tenne là, sotto le sue cure, raccomandandoci di far
finta di dormire ogni volta che passava la ronda medica giornaliera.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Non finirò mai di ringraziare quel capitano medico francese che
ascoltò con pazienza ed umanità le nostre traversie e che ci ospitò
per sette giorni; così potemmo mangiare e dormire senza limiti,
rimettendoci bene in forze.
Finché poté quel medico ci aiutò, poi fu costretto a dimetterci.
Il comando francese anche questa volta, leggendo il vecchio
verbale che riportava solo le parole della signora belga, invece di
mandarci nel campo di smistamento, da dove eravamo partiti, ci
inviò in un’altra prigione, addirittura fra una trentina di soldati
di varie nazionalità, quasi tutti appartenenti alla legione straniera
e accusati di fatti orribili. Eravamo tutti rinchiusi in un unico
stanzone, facente parte di un centro speciale adiacente al campo di
smistamento. Passammo colà solamente una giornata e mezza, ma
fu per noi l’inferno. Là esplodevano di continuo, senza inibizioni,
eros e violenza fuori misura. Era una bolgia talmente orgiastica che,
al solo pensiero, mi vengono ancora le lacrime agli occhi. Io mi
misi in un angolo e pregai con gran fervore e a lungo i miei genitori
morti prima che partissi per la guerra, perché mi salvassero da quella
dannata situazione.
Quello che mi successe nel pomeriggio del secondo giorno fu
miracoloso: non ho mai trovato una spiegazione logica, sono
convinto dell’aiuto dei miei genitori.
Venne a fare le pulizie un gruppo di arabi forniti di un carretto
trainato a mano. Io e i miei due amici ci mettemmo ad aiutarli di
buona lena: spingemmo il carretto fino al portone d’uscita, che era
di collegamento col campo di smistamento. Il portone fu aperto e
rinchiuso con lucchetto, noi tre passammo assieme agli inservienti,
nessuno ci fece osservazioni. In aggiunta a questa fortunata uscita da
quell’inferno, ne avemmo anche un’altra. Trovammo il maresciallo
francese che gestiva il campo in compagnia di quello Italiano che
lo aiutava, che erano gli stessi sottufficiali dell’altra volta, i quali
finalmente ci dettero ascolto e si impietosirono per la nostra cattiva
sorte: fu un secondo miracolo! Noi chiedemmo di rimanere là, ma di
non voler ritornare mai più in quella prigione e facemmo richiesta di
essere inclusi negli elenchi dei rientri per il rimpatrio.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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Il maresciallo italiano si assunse la responsabilità che noi non
saremmo fuggiti e che non avremmo causato problemi, il Francese
accettò e fu così che fummo inseriti nella lista dei rientri verso l’Italia.
Dormimmo nel corridoio dei servizi, poiché non c’era altro posto,
essendo tutte le baracche ormai piene. Il giorno dopo ci svegliarono
e ci inquadrarono, per la tanto sospirata partenza, in due scaglioni
di circa 250 soldati. Fummo stipati nei cassoni dei camion militari.
Mentre salivamo sugli automezzi, ebbi occasione di vedere una parte
di quelli ancora rinchiusi nell’inferno che montavano faticosamente,
con le catene ai piedi, su un camion che partì prima di noi.
Se rimanevamo là in quello stanzone molto probabilmente saremmo
dovuti partire anche noi con i piedi incatenati, costretti a camminare
in quel modo. Non ho mai finito di pensare a un altro miracolo.
Lasciavo alle spalle un luogo di cattivi ricordi e me ne andavo verso
la libertà! Si andava verso un nuovo raggruppamento a Marrakech,
in attesa di partire per Casablanca dove avvenivano gli imbarchi.
Ritorno a Marrakech
Giungemmo a Marrakech, non attraversando la catena montuosa
dell’Atlas come la prima volta, ma aggirandola e passando per una
carovaniera del deserto. Che giornata meravigliosa! Lasciavo alle
spalle un luogo di cattivi ricordi e mi avviavo verso la liberazione.
Mentre percorrevamo quelle strade, piene di sole, noi tutti stavamo
in silenzio, per la sconfinata felicità del prossimo ritorno in Patria: si
sentivano solamente i monotoni rombi dei motori dei camion.
Ritornati, ritrovammo il solito ambiente: questa volta però il mio
animo era più sereno, ormai ero certo della partenza.
Tornai a mettermi in nota per i lavori al mercato o al cimitero.
Riuscivo a ricevere, in contropartita del lavoro, qualche franco ma
soprattutto datteri, banane, noci, fichi e patate, che poi alla sera
spartivo con gli amici. Fortunatamente il mio corpo si rinvigorì, sia
per il cibo abbondante, sia per il pensiero del prossimo ritorno.
Durante questa forzata permanenza a Marrakech ricevetti una
cartolina in franchigia da casa. Finalmente alle mie lettere ottenni
una risposta scritta da mio fratello Damiano: fu l’unica di tutta
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
la mia prigionia. M’informava che tutta la famiglia era in buona
salute, e che le grosse preoccupazioni erano ormai passate. Se ben
ricordo, la cartolina doveva essere datata fine novembre 1945,
dato che riportava anche la notizia della morte del nostro arciprete
avvenuta, come ho saputo dopo, il 10 settembre 1945. Quanto ha
girato quella cartolina!
Intanto alcuni scaglioni già stavano partendo per Casablanca, per
essere poi imbarcati, mentre venivano subito rimpiazzati da altri
gruppi provenienti da diverse località dell’entroterra del Marocco.
Giunse l’aprile 1946 e io ero in attesa, ma finalmente sentii il grido
fatidico: si parte. In treno fummo portati a Casablanca.
In attesa dell’imbarco aspettavo il mio turno di partenza. Intanto
continuavano ad arrivare altri scaglioni di Italiani che sovraffollarono
il campo, dato che le partenze erano di parecchio inferiori agli
arrivi. Successe allora che gli ultimi arrivati furono smistati con dei
camion nel vicino campo di concentramento di Mediouna, che era
vuoto. Purtroppo io fui tra questi. Colà passai un lungo mese con
addosso un gran senso di ansiosa attesa. I camion ritornarono e ci
riportarono a Casablanca in una caserma per i controlli. Capii che
finalmente era arrivato il mio turno di partenza per l’Italia.
Là, vivendo in tranquillità, cominciai ad andare nella baracca adibita
a cappella, avendo notato che il cappellano era un mio conterraneo.
Ritornai chierichetto come quando ero bambino. Il cappellano di
tanto in tanto mi ringraziava donandomi generi di confort, come
le sigarette.
Io non fumavo e così ebbi l’idea di venderle o regalarle ai compagni.
Una volta, di ritorno dalla funzione, notai una fila di Italiani seduti
davanti ad una porta. Meraviglia! Fra questi riconobbi un vecchio
amico, Arsenio Filippi, il gelataio del mio paese, che poi d’inverno
cambiava mestiere lavorando in una pasticceria. Che bellezza!
Quante chiacchiere facemmo quel giorno e in quelli successivi!
Dopo la guerra il Filippi si rese noto a Monselice per il suo negozio
di dolciumi e di piccoli giocattoli; tutti i ragazzetti andavano da lui,
quando cercavano qualche cosa di nuovo, giacché era all’avanguardia
in fatto di prodotti per i giovincelli. Morì alcuni anni fa.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
63
Il ritorno
L’amico Arsenio Filippi partì prima di me, però io lo seguii poco
dopo assieme a tanti nuovi amici che mi ero fatto in quel mio
girovagare.
Espletate le varie formalità di verifica, ci avviammo a piedi verso
il sospirato porto distante appena un paio di chilometri. Là vidi
subito la nave che ci avrebbe portati a casa, era la “Leonardo da
Vinci” noleggiata appositamente dalla Pontificia Commissione che,
come subito seppi, si adoperava per accelerare il rientro degli ex
prigionieri. La stanchezza e l’ansia scomparvero.
Alla fine mettemmo i piedi sulla tolda: ormai ero sicuro che non
sarebbero sorti altri imprevisti e giunte altre disavventure.
Trovammo ad attenderci alcuni medici incaricati di farci un
controllo sul nostro stato di salute per evitare contagi. Ci fecero
un’accurata visita compilando nel frattempo una scheda. Vidi
anche che selezionavano alcuni, facendone un gruppetto a parte;
erano coloro che erano affetti da malattie. La maggioranza di noi fu
comunque dichiarata sana e pronta alla traversata. Partimmo. Dopo
qualche giorno di navigazione approdammo a Napoli: era il 27
maggio 1946. Erano passati tre lunghi anni di prigionia in Africa!
Per arrivare ai moli dovemmo percorrere ben 250 metri di passerella
che appoggiava sui relitti di navi affondate. Una volta sbarcati ci
portarono alla Capitaneria del porto ove fummo mandati alla
disinfestazione e ai bagni, poi ci vennero date vesti usate ma pulite.
In noi sentivamo rinascere la vita! Ci schedarono con i dati anagrafici,
in aggiunta a quelli relativi alla vita militare e alla lunga prigionia,
allegando i risultati della visita medica fatta prima. Infine a ognuno
fu consegnato il foglio di via per tornare al proprio distretto militare
e a casa. Io dovevo presentarmi prima alla Capitaneria di porto di
Venezia e poi ritornare a Monselice.
Fra noi amici, prima di dividerci, ci riunimmo insieme, ci
abbracciammo, salutandoci fragorosamente, poi ci congedammo gli
uni dagli altri per intraprendere ognuno la propria strada. Io, arrivato
a Bologna, dovetti fare una piccola deviazione ed allungare il tragitto
verso Ostiglia, Mantova, Padova, a causa dei bombardamenti che
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
avevano danneggiato gravemente i binari ferroviari per cui c’erano
linee ancora interrotte. Giunto a Padova avrei dovuto proseguire
verso Venezia, invece presi subito il treno che andava a Rovigo
passando per Monselice.
Durante il viaggio un bigliettaio pignolo voleva farmi pagare il
biglietto, ma io non avevo soldi! Gli altri viaggiatori presenti mi
difesero e dissero all’unisono che era un’assurdità, ormai raggiunta
Padova, dover prima andare alla Capitaneria a Venezia, quando
la casa era vicina e ci mancavo da quasi cinque anni. Alla fine il
controllore lì per lì si arrese, non cercò più di farmi scendere, ma in
cambio mi tormentò altre varie volte, affinché pagassi il biglietto.
Fu una richiesta che mi urtò, ma in fondo non me ne preoccupai
minimamente: ne avevo superate tante di situazioni ben più
complicate!
Sceso alla stazione di Monselice mi incamminai verso casa: era
il 29 maggio 1946. Per primo incontrai, lungo l’attuale via 28
aprile 1945, il sig. Massimiliano Andolfo, allora cinquantenne,
che abitava nella mia stessa via di Arzerdimezzo. Mi salutò con
grande effusione e subito mi rassicurò, quando chiesi notizie sui
miei familiari, che godevano tutti di ottima salute: avevo incontrato
un nuovo assessore comunale. Mi disse anche che il 2 giugno vi
sarebbero state le votazioni con cui avremmo scelto se mantenere la
Monarchia o scegliere la Repubblica; nel contempo poi mi informò
che mio fratello maggiore Ottaviano era in piazza a fare propaganda
per spronare la gente al voto.
Per un po’ lo cercammo poi, non trovandolo, io proseguii verso
casa. Mentre ero in piazza per cercar mio fratello Ottaviano, uno mi
riconobbe e subito corse via in bici per avvisare gli altri miei parenti.
Fu così che, arrivato nella mia via, sentii un vociare festoso: erano tutti
i parenti che mi venivano incontro! Fu uno scoppio generale di felicità
e allegria. Si aggiunsero conoscenti e amici, ero il centro di tutte le
attenzioni. A casa poi vi fu un continuo bombardamento di domande
e risposte: ognuno aveva qualcosa da domandare o da dire.
A poco a poco fui aggiornato delle varie vicissitudini vissute in
paese e dintorni, seppi dei vari morti in Germania, tra i quali anche
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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il figlio di Massimiliano, proprio il primo Monselicense che avevo
incontrato.
Dopo qualche giorno, presi il treno usando il foglio di via che
possedevo, per recarmi alla Capitaneria del porto di Venezia, ove
raccolsero tutti i miei dati, che aggiunsero poi al mio curriculum
militare.
Il due giungo 1946 andai anch’io a votare.
Nel giro di poco tempo dovetti ritornare alla Capitaneria per
ricontrollare la mia posizione: incredibile, avevano già preparato il
rimborso di quanto mi spettava. Percepii oltre trecento mila lire di
indennità, fra quelle che non avevo ricevuto a Lampedusa e quelle per
gli anni di prigionia. A quei tempi quella somma era una fortuna.
Ripresi comunque al più presto il mio lavoro di coltivatore diretto e
quello di commerciante di alcuni prodotti agricoli, come mi aveva
insegnato mio padre e potei sviluppare la mia attività con tranquilla
sicurezza utilizzando i soldi che avevo percepito.
Mi sposai con Angelina, formammo una famiglia che crebbe
assieme all’aumentare delle nostre possibilità economiche. Adesso,
trascorsi tanti anni, io e la mia Angelina viviamo una vita tranquilla,
distesa e anche fortunatamente operosa nonostante gli acciacchi.
Siamo sempre circondati dall’amore dei nostri quattro figli e da
tanti nipoti tutti affettuosi e per questo siamo appagati di quanto
abbiamo costruito!
Il racconto della prigionia l’avevo ormai rinchiuso nel dimenticatoio:
era troppo doloroso per me rivivere quei lunghi e terribili anni di
guerra. Capitò però che l’amico di lunga data Giuseppe Trevisan,
anche lui combattente e prigioniero in altri fronti, mi spronò a
riesumare quei lontani ricordi pieni di dolori e pericoli: mi ripeté
tante volte che era necessario spiegare ai nostri giovani “cosa è la
guerra”: essa è stata la terribile mistificazione di ogni giustizia! Per
questo motivo pure lui aveva deciso, alcuni anni prima, di scrivere le
memorie sofferte dei suoi anni di soldato e prigioniero nella seconda
guerra mondiale.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Autunno 1942. Sono in visita sull’incrociatore Pompeo Magno.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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Estate 1942. Sono imbarcato nell’incrociatore Taranto. Era comandato
dall’ammiraglio Tur, poiché era nave ammiraglia della Forza Navale Speciale.
Fig 6:
Fig 7:
L’incrociatore
Taranto in
navigazione visto
nella fiancata.
Il suo motto era
Ovunque un raggio
di sole della gloria
d’Italia.
Fig 14:
Fig 15:
L’incrociatore
Taranto in
navigazione visto
di prua.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
L’Italia dal 1918 al 1943. Percorso che io come marinaio feci negli anni dicembre
1941 – giugno 1943. Da Venezia a La Spezia poi a Lampedusa passando per
Trapani. Si noti che l’Istria era italiana e che la Jugoslavia era un unico stato
comprendente gli attuali Slovenia, Serbia, Croazia, Kossovo, Montenegro.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
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Lampedusa, mattina del
13 giugno 1943: uno
stuolo di navi da guerra e
aerei inglesi si apprestano
a invadere l’isola. Io mi
trovavo marinaio dislocato
là addetto ai cannoni
140/43 prolungati.
La nostra debole
difesa cessò presto e il
comandante fece issare
bandiera bianca.
Disegno di B. Mardegan.
Tunisia colonia francese.
Gli Inglesi ci portarono a
Susa dandoci poco dopo
in consegna ai Francesi.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
La zona della Tunisia dove ho trascorso la prigionia dal giugno 1943 all’aprile
1945. A – Cartagine, B – Potainville (Body Cedria), C - Majaz Al Bab,
D – Ouina.
I francesi ci rinserrarono nel campo di concentramento di Ouina, che però era
mancante di tutto, c’erano solamente i cavalli di frisia perimetrali.
Disegno di B. Mardegan.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
La fattoria di Potainville (Bordj Cedria). Io dovevo tinteggiarla, così approfittai
per spillare del vino che davo in cambio agli italiani prigionieri degli americani
nella base di Cartagine.
Marzo 1945. Potainville: tentativo di fuga per arrivare a Lampedusa perché
sapevamo che quasi tutta l’Italia era liberata. In sedici spingemmo in mare una
motozattera americana. Disegni di B. Mardegan.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Africa del Nord prima del 1945, da Est: Libia colonia italiana, Tunisia,Algeria,
Marocco colonie francesi.
Marocco ove sono stato prigioniero dall’aprile 1945 al maggio 1946. Marrakech,
Taroudant, Agadir, Casablanca.
Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Il mio foglio matricolare con i dati anagrafici.
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Tarcisio Bertazzo - La lunga prigionia di un marinaio
Documentazione del mio periodo militare.
Ricordi di un carabiniere
combattente per la libertà
ATTILIO BIZZOTTO
Classe 1922
Monselice – PD – Via Celio
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Memorie raccolte da Giuseppe Trevisan
Prigioniero nello Stalag XVII A di Kaisersteinbruk, Germania
Premessa
Fino a qualche anno fa, non ho mai voluto far conoscere agli altri
i miei ricordi di soldato e combattente per la libertà. Era perché
sentivo che le mie traversie erano meno pesanti di quelle sofferte
da coloro che hanno patita la prigionia. Ho avuto, e ancora ho, un
rispetto reverenziale per tutti quelli che hanno penato per anni nei
campi di concentramento.
L’essere lontani da ogni affetto familiare, l’essere sperduti fra una
moltitudine di afflitti, costretti a vivere in luoghi stranieri e ostili,
ho sempre ritenuto che quella vita fosse il supplizio peggiore per
ogni essere umano. Noi soldati, che durante la lunga guerra siamo
invece rimasti in Patria, abbiamo avuta la possibilità di lenire i nostri
affanni e le nostre paure con l’amore di parenti e amici e col vivere
nelle nostre terre. Per questo enorme divario ho sempre pensato
che i miei ricordi di guerra fossero meno significativi di quelli dei
miei commilitoni dispersi nei deserti africani o rinchiusi nei lager
nazisti. Ritenevo che scrivere o dettare le mie memorie di carabiniere
e partigiano, vissute solo in Italia, fosse la pretesa vanagloriosa di
essere equiparato a coloro che hanno patita la guerra in modo molto
pesante.
In questo ultimo torno di tempo però l’amico Giuseppe Trevisan
mi convinse della utilità di far conoscere tutto quanto di male ha
portato la guerra, perché possa essere di insegnamento per il futuro.
Ho accettato sia perché l’amico che mi ha esortato è lui stesso
un reduce dai lager, sia perché ormai c’è un rifiorire continuo di
memorie di soldati combattenti. Così ho pensato che i ricordi della
mia vita militare possano anch’essi servire per formare un quadro
sempre più completo di quanto abbiamo sofferto nella disastrosa
seconda guerra mondiale.
Mi auguro che questa fatica di dettare e scrivere le mie memorie
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
77
possa dare un ulteriore contributo per la conoscenza dei disastri
subiti da tutti noi Italiani per colpa del dittatore Mussolini.
Vorrei infine ringraziare sentitamente l’amico Giuseppe Trevisan
che mi ha dato l’idea di far conoscere le mie memorie. È grazie a lui,
al suo grande entusiasmo, alla sua pazienza e dedizione che siamo
riusciti a portare a termine questo lavoro.
Io e la mia famiglia
Sono Attilio Bizzotto, nato il 19 dicembre 1922 a Cittadella e dal
1952 residente a Monselice, in via Celio, entrambi grossi comuni in
provincia di Padova.
Provengo da una famiglia numerosa di coltivatori diretti.
Ho imparato fin da piccolo a lavorare i campi e ad essere sempre
pronto a obbedire ai miei genitori.
All’inizio del 1941 quando avevo poco più di diciotto anni, mia
madre, vedendo spesso due carabinieri passare a piedi davanti a casa
nostra, che per servizio di controllo andavano dalla loro caserma
di Cittadella al confine tra le province di Padova e Vicenza, si
convinse che per me, prossimo a partire per il servizio militare, il
corpo migliore fosse quello dei carabinieri. Così quando vedeva i
carabinieri passare, mi chiamava e mi invitava a scegliere quell’arma
perché pensava che i carabinieri fossero solo addetti alla sicurezza
entro i confini patri. Questa considerazione poi si consolidò in
lei perché mio fratello Giuseppe, nato nel 1920 e chiamato alle
armi come artigliere di montagna, fu inviato in Jugoslavia poiché
Mussolini, l’11 aprile 1941, aveva dichiarato guerra a quello Stato.
Ben presto fu fatto prigioniero dai partigiani di Tito, non dando
più notizie di sé. Questo fatto traumatizzò tutti noi e fu così che,
lentamente, le parole della mamma penetrarono in me, arrivando
a convincermi che l’arma dei carabinieri mi permetteva con più
facilità di stare in Italia, anche perché il mio carattere si confaceva
al comportamento ordinato che vedevo in quei militari. Per questi
motivi, durante la guerra fui carabiniere a Roma, ove imparai a
vivere in modo austero, direi patriottico, perché poi per amore di
una Italia libera fui partigiano nel mio Veneto.
78
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Nella capitale fui addetto alla guardia del palazzo reale, il Quirinale,
ed ebbi così modo di vedere da vicino e vivere passo passo i fastigi
e la caduta di Mussolini e, nel contempo, di partecipare alla prima
battaglia in Roma contro i Tedeschi. Da partigiano ho poi potuto
sperimentare la folle pretesa dei due dittatori, Hitler e Mussolini,
che pur di vincere spargevano ovunque terrore e morte. Conobbi nel
contempo l’eroismo di tanti giovani che, pur non avendo nessuna
preparazione militare, lottarono con entusiasmo e abnegazione
contro il nazifascismo, talvolta fino al sacrificio della vita.
Nell’inverno del 1941-42, quando ormai in famiglia si temeva per
la morte del fratello, arrivò fortunatamente a casa nostra, da fonti
ufficiali, la notizia che Giuseppe era ricoverato in un ospedale italiano
per un congelamento agli arti.
Più tardi si vennero a conoscere le sue peripezie.
Quando i partigiani slavi facevano dei prigionieri italiani,
controllavano subito il colore delle mostrine sul bavero della giubba
e quello della cravatta. Chi le aveva nere o cremisi veniva subito
ucciso, mentre gli altri erano risparmiati. I colori delle mostrine e
della cravatta indicavano l’appartenenza dei soldati italiani ai vari
reggimenti. Il colore nero era dei battaglioni fascisti, detti Emme da
Mussolini, quello cremisi dei bersaglieri.
Questi due corpi militari erano notoriamente reparti che usavano
tattiche distruttive con incendi, saccheggi e fucilazioni. Gli altri
corpi, come fanteria e artiglieria, formati anche da soldati anziani
con famiglia, si astenevano da qualsiasi libera ribalderia. Per questo
mio fratello Giuseppe che portava il colore ocra delle mostrine, era
artigliere, e rosso della cravatta, perché apparteneva alla divisione Re,
fu salvo. Dopo lunghe peripezie invernali vivendo fra i boschi assieme
ai titini si ammalò. Purtroppo non avendo adeguati vestiti e scarpe
gli si congelarono le gambe e i piedi e nel contempo ebbe altri guai
prodotti dal gran freddo. I partigiani, forse impietositi, lo portarono
di notte davanti a un ospedale da campo italiano.
Là lo salvarono e mio fratello molto lentamente si riprese. Ebbe poi
varie licenze di convalescenza, tanto che l’8 settembre 1943 egli si
trovava a casa, ove poi rimase.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Allievo carabiniere
A metà del 1941, fatta la visita militare, fui dichiarato abile per
l’artiglieria da montagna. Intanto però mi ero convinto di arruolarmi
volontario nei carabinieri, così mi informai presso la caserma di
Cittadella, ove trovai un maresciallo molto gentile il quale mi spiegò
che avevo la possibilità di diventare carabiniere ausiliario, anziché
soldato di leva, facendo una semplice domanda. Me la compilò e io
la sottoscrissi.
Dopo poco tempo mi arrivò l’invito di presentarmi all’ospedale
militare di Padova per ulteriori controlli di salute e di comportamento.
Fui dichiarato idoneo.
A metà settembre 1941 mi arrivò la cartolina di precetto che
mi convocava a Roma per il primo ottobre nella caserma allievi
carabinieri sita vicino al Vaticano, tra il viale delle Milizie e quello di
Giulio Cesare.
Subito fui assegnato alla seconda compagnia. Dopo breve tempo
capii come si articolavano i vari gruppi. Vi erano sei compagnie,
delle quali cinque per gli allievi carabinieri e una di carabinieri; la
quarta, che era la compagnia d’onore, addetta ai servizi speciali
per le alte cariche dello Stato italiano e degli altri Stati. Là vi erano
anche le sedi del comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, che
allora era il generale Azzolino Hazon, e del comandante di tutte le
compagnie, che era il colonnello Dino Tabellini. Durante i tre mesi
del corso di addestramento si facevano alla mattina esercizi ginnici,
al pomeriggio lezioni sui codici civili, penali e militari.
Fra noi vi erano anche allievi provenienti dalla Croazia e
dall’Albania assieme ai loro ufficiali che facevano da interpreti.
Con costoro fraternizzavamo e ci mescolavamo specie durante
il rancio e gli esercizi fisici. C’erano stranieri nel nostro corpo
perché alcuni stati della penisola balcanica erano nostri alleati. La
Jugoslavia, immediatamente con l’inizio delle ostilità nel 1941,
si sfasciò in varie zone tra cui la Croazia di Ante Pavelic che
divenne alleata dell’Italia. Nell’ottobre del 1940 Mussolini aveva
dichiarato guerra alla Grecia, partendo dalla alleata Albania, che
fu dichiarata parte integrante dell’Italia, come poi successe per
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
la Dalmazia, dell’ex Jugoslavia. Da queste nazioni partirono gli
allievi per diventare carabinieri e ritornare poi nelle loro patrie per
la sicurezza pubblica.
Di quel tempo ricordo qualche impressione e dei fatterelli. Subito
fui colpito dal fatto che quasi tutti gli stranieri prima di consumare
il rancio, che ci veniva servito a tavola, si facevano il segno della
croce; io, anche se di famiglia religiosa, non ero abituato. Di buon
grado mi adeguai. Vi fu poi un’occasione di fare una sonora risata
generale. Durante l’esercizio per scivolare su un telo, partendo dal
terzo piano di un caseggiato e arrivare a terra, un allievo albanese
chiese al suo ufficiale come doveva fare.
Costui che in quel momento non vestiva la tuta sportiva, ma la
divisa nera con gambali e speroni, si accinse a mostrare come si
doveva scivolare a terra. Si mise in posizione, fece un salto sul telo
e scivolò… Tuttavia, col salto, gli speroni si erano conficcati nel
telo, tagliandolo fino in fondo. Visto che l’ufficiale non aveva subito
alcun danno, tutti noi presenti facemmo una grande risata.
In quei tre mesi noi allievi dovemmo imparare in modo preciso
molte formalità comportamentali dei carabinieri. In pubblico
usare costantemente i guanti bianchi, che dovevano essere sempre
candidi, avere la divisa sempre in ordine, assumere un atteggiamento
controllato in ogni situazione e infine mantenere sempre una corretta
riservatezza in qualsiasi momento della vita militare e civile.
Talvolta questa ferrea e meticolosa disciplina metteva paura a qualche
allievo e anche a chi era già diventato carabiniere, perciò chi non se
la sentiva di osservarla appieno poteva chiedere il trasferimento in
altri reparti militari, purché in zone di guerra.
Personalmente io ho sempre accettato con serenità e attenzione
quanto mi era richiesto, soprattutto perché il mio abito mentale
era già abituato alle norme ferree della mia vita familiare per cui
gli ordini dovevano essere eseguiti e non discussi coi distinguo.
Verso la fine del dicembre 1941, prima di finire il corso, venne
da noi allievi il capitano Orlando De Tommaso, comandante la
quarta compagnia, quella appunto che faceva i servizi d’onore. Quel
capitano camminò lentamente davanti a noi schierati per scegliere
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
81
alcuni carabinieri per rimpinguare la sua compagnia, che aveva dei
vuoti. Di tanto in tanto si fermava davanti a qualcuno chiedendogli
solamente le generalità di cui prendeva nota: certamente si fidava
del suo intuito nell’individuare coloro che avevano disponibilità e
passione di esercitare tutte le regole richieste per rendere gli onori
alle alte autorità. Si fermò anche davanti a me, forse perché allora
avevo i capelli biondi e gli occhi sorridenti. Infatti poi, quando lo
ebbi come comandante, sempre mi apostrofava col nomignolo di
“biondino”. Chiesto il mio nome proseguì dicendomi: “Sei contento
di venire con me nella IV compagnia?”. Risposi prontamente di sì,
perché era nota anche a me la sua fama di persona corretta, giusta e
di comandante preparato e disponibile al dialogo.
Il 31 dicembre 1941, alla fine del corso, furono radunati tutti i
promossi fra i quali c’ero anch’io. A noi furono distribuite delle
lettere di destinazione: io ricevetti una busta indirizzata al capitano
De Tommaso Orlando, Comandante della quarta compagnia
carabinieri a Roma. Era per me una destinazione prestigiosa perché
facevo parte della compagnia che era scelta per i servizi d’onore e
anche per quelli della massima fiducia.
Carabiniere
All’inizio del gennaio 1942 mi presentai al capitano De Tommaso,
che mi assegnò al secondo plotone sotto il comando del tenente Di
Lorenzo. Per altri due mesi continuarono ad addestrarci: al mattino
ancora attività ginniche, al pomeriggio lezioni di comportamento
nelle varie attività di guardia, di scorta e nel coordinare l’ordine
pubblico. Dopo cominciammo a prestar servizio presso il palazzo
reale, le ambasciate estere e l’Altare della Patria, che custodisce le
spoglie del Milite Ignoto. Fu così che intervenni a vari picchetti
d’onore e di controllo per i Reali, Ministri italiani e personalità
straniere. In quel tempo ho partecipato a varie parate; vivevo una vita
interessante, facevo esperienze suggestive e particolari. Mi trovavo in
un ambiente ove tutti erano pieni di attenzioni e dove tutti avevano
mansioni precise. Là c’erano sempre, sia pur di passaggio, persone
prestigiose che ispiravano un tocco di signorilità anche a noi semplici
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
carabinieri. Ho imparato ad essere sempre pronto, preciso, a non
discutere gli ordini e a non parlare di quanto mi era stato ordinato o
di quello che avevo visto fare da altri: così, come me, anche tutti gli
altri commilitoni.
Il trattamento era buono, le varie divise sempre in ordine, potevo
godermi la libera uscita con vedute davvero piacevoli ed esclusive.
Per le diverse mansioni avevo a disposizione tre tipi di divise. Quella
nera normale, che usano anche oggi i carabinieri, per andare in libera
uscita o per svolgere mansioni tra il pubblico; quella alla cavallerizza
con gambali, pure tutta nera, per i picchetti di guardia o d’onore;
infine quella grigio-verde con pantaloni alla cavallerizza, la bandoliera
grigia e i gambali neri, usata per servizi di fatica o di ordine pubblico.
A questo punto, per i giovani ormai non più abituati all’ordinamento
militare, penso opportuno precisare cosa è il picchetto militare.
È questo formato da un gruppo, più o meno grande, di soldati
comandati da un ufficiale, che porta a tracolla la fascia azzurra; costui,
in quelle occasioni, gode di una autorità assoluta su persone e cose, sia
per i controlli di sicurezza, sia per rendere gli onori militari.
I soldati dei picchetti facevano e fanno ancora, a turno, da guardia
cioè da sentinella. Per le armi noi generalmente avevamo una
rivoltella Berretta calibro nove a canna corta con due caricatori: uno
nel serbatoio dell’arma, pronto per lo sparo, e un altro in un taschino
della fondina che tenevamo sotto la giubba. Quando si andava di
picchetto prelevavamo il moschetto con la baionetta incernierata per
fare il presentat-arm. Dentro la caserma c’era un’armeria dove erano
custodite le armi per quando si andava ai picchetti e poi ancora tante
altre armi e munizioni per le grosse operazioni con i pattuglioni.
Il 1942 lo trascorsi senza particolari difficoltà, però cominciai a
percepire nella popolazione incertezza e sgomento per le cattive
notizie provenienti dai vari fronti di guerra.
Il bombardamento di Roma
Il 1943 fu l’anno decisivo per le sorti della Patria e per me quello delle
grosse emozioni. Drammatico fu il bombardamento pomeridiano di
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
83
Roma del 19 luglio 1943. Proprio in quel pomeriggio ero di guardia
al Quirinale assieme a un altro commilitone.
Eravamo impettiti davanti alle due garitte, poste ai fianchi dell’ingresso,
sulla posizione di riposo col moschetto fra le braccia, quando sentimmo
un cupo rumore che aumentava velocemente: intuivamo che erano
gli Alleati che si apprestavano a bombardare la città. Meravigliati e
sgomenti, perché ci avevano detto più volte che Roma era dichiarata
città aperta e che certamente gli Alleati non l’avrebbero bombardata,
vedemmo gli aerei dirigersi verso il Quirinale, proprio dove eravamo
noi. Sentimmo i primi sibili e scoppi: il commilitone della garitta
accanto svenne per l’emozione.
Io suonai l’allarme, vennero alcuni carabinieri del picchetto di guardia,
portarono il compagno all’interno e subito lo sostituirono con un’altra
sentinella. Le bombe caddero nel quartiere di San Lorenzo fuori le
mura, proprio poco lontano da noi.
Subito dopo sentii un parlottio vivace nell’andito del palazzo, guardai:
era il re Vittorio Emanuele III che insisteva col suo aiutante militare
perché voleva andare sul posto bombardato, mentre l’aiutante lo
sconsigliava perché non era ancora suonata la sirena di fine pericolo.
Il re volle partire, sentimmo il rumore di un’auto e noi guardie ci
irrigidimmo sul presentat-arm.
Dopo poco notai un’auto con la targa della Città del Vaticano
che, salendo per via IV Novembre, si dirigeva verso il luogo del
bombardamento: anche il il papa Pio XII si recava a dare una parola
di conforto alla popolazione colpita.
Ritornato in caserma seppi che il nostro generale comandante Azolino
Hazon, assieme al capo di stato maggiore colonnello Barengo, durante
il bombardamento erano partiti per andare a organizzare i primi
soccorsi; essi però furono colpiti a morte dalle bombe.
A loro fu concessa poi la medaglia d’argento al valor militare per
il loro immediato intervento, nonostante le bombe non avessero
cessato di cadere. Venni a sapere anche che, in quel frangente, il
papa benedicente fu acclamato, mentre il re fu accolto con qualche
protesta. Quella uscita di Pio XII dal Vaticano fu la prima fatta da un
papa dopo la presa di porta Pia.
84
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Arresto di Mussolini
Il fatto importante che io vissi con trepidazione, e che desidero
raccontare passo passo, fu la caduta del governo di Benito Mussolini,
sfiduciato dal Gran Consiglio Fascista, avvenuta nelle prime ore del
25 luglio 1943. Questi eventi successero proprio quando io e il mio
plotone prestavamo servizio al Quirinale.
Il mio secondo plotone della IV compagnia montò in servizio di
guardia al palazzo reale alle ore 18 del 24 luglio 1943, da dove
smontò alla stessa ora del 25. Noi carabinieri di guardia vedemmo
un continuo andirvieni, un gran trambusto senza capirne la portata.
D’altra parte la nostra specifica preparazione di come i carabinieri
dovevano comportarsi nei casi di interesse pubblico e privato, che
era di tacere e non riferire nemmeno coi commilitoni, ci portò a non
chiedere spiegazioni. Infatti, il motto dei carabinieri era, e ritengo lo
sia ancora: “Usi obbedir tacendo e tacendo morir”.
E così tutti ci comportammo.
A cose fatte si venne a sapere del colloquio del Re con Mussolini
nel palazzo reale, durante il quale il duce fu destituito, sostituito
e posto sotto la custodia dei tre plotoni di carabinieri della quarta
compagnia.
Il primo fatto fuori del consueto e che ci sorprese fu che in quella
giornata il picchetto era stato raddoppiato, tanto che una parte di
noi, io compreso, fummo costretti a riposare e a dormire sdraiati
per terra, sopra i giornali per non insudiciare la divisa, perché i
letti disponibili erano solo per un plotone. Finito il nostro turno di
guardia, rientrammo in caserma sostituiti da altri reparti di soldati.
Partimmo con la banda in testa e marciammo verso la nostra
caserma. Arrivati in piazza Venezia successe, come accadeva di tanto
in tanto, che la folla inneggiasse a noi carabinieri. Quella volta vi fu
anche la richiesta che la fanfara suonasse più volte la marcia reale: il
numero dei presenti e i battimani furono di gran lunga superiori al
solito. Ci meravigliammo, ma non capimmo cosa ci fosse nell’aria.
Altro fatto strano fu che la porta della caserma era chiusa.
Battemmo, ci aprirono ed entrammo nel grande cortile ove si
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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facevano le esercitazioni. Là trovammo parecchi borghesi, perché era
giorno di visita dei familiari, ma essi erano trattenuti da un cordone
di carabinieri armati. Noi salimmo nelle nostre camerate, ancora
ignari delle conseguenze di quegli strani movimenti che avevamo
visto. Subito un maresciallo ci disse: “Stasera niente libera uscita ed
ora andate in fureria dove riceverete l’ordine di servizio”.
Mi si avvicinò e disse: “Tu, Bizzotto, metti la divisa nera, prendi la
pistola e vieni con me nell’Ufficio Comando della IV compagnia”.
Cosa che prontamente feci. Arrivato al Comando trovai un altro
carabiniere. Attendemmo davanti alla porta. Poco dopo uscì il
nostro capitano Orlando De Tommaso che ci disse: “Voi state qui,
riceverete ordini solo da me”. Eravamo a custodia in un corridoio
dove c’erano tre porte: una conduceva in un salotto e due negli uffici
del Comando. Nel salotto vidi di spalle due persone, una sdraiata su
un divano e l’altra pareva fargli assistenza. Dall’ufficio comandopiù
volte un ufficiale superiore entrò e uscì dal salotto.
Alle undici della sera ci fu dato il cambio e andammo nella nostra
camerata. Subito notai dei letti vuoti e qualcuno mi disse che vari
carabinieri erano andati di sentinella nella terrazza. Era questa una
grande copertura piana dalla quale si dominava tutta la zona vicina.
Verso le nove del 26 luglio venne nella camerata un altro maresciallo
che mi ingiunse di vestire ancora la divisa nera e di ritornare nel
corridoio presso l’Ufficio Comando. Là, anche questa volta, vi
era un altro carabiniere: ricevemmo l’ordine di fare una stretta
sorveglianza. Quella mattina vi fu un maggior andirivieni di ufficiali
superiori; talvolta la porta del salotto rimaneva un po’ aperta. Fu
così che vidi di spalle una persona vestita in borghese che osservava
gli allievi carabinieri che nel cortile facevano esercitazioni.
Ad un tratto un ufficiale che stava scrivendo, con la porta socchiusa,
mi fece cenno di entrare: mi consegnò una lettera per il colonnello
Dino Tabellini, capo della caserma. Fu allora che la persona che
osservava il cortile si voltò: era Mussolini che subito uscì col dire:
“Se gli Italiani fossero stati tutti come voi carabinieri, avremmo vinto
la guerra!”. In quel momento capii che tutti quei silenzi e quelle
precauzioni erano dovuti al fatto che il duce deposto era stato dato
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
in consegna dal re alla nostra compagnia, forse perché il capitano
era il più stimato dal nuovo Generale Comandante l’Arma. Infatti
io, in precedenza, avevo visto il generale dialogare amichevolmente
col nostro capitano. A mezzogiorno, ottenuto il cambio, ritornai in
camerata per riposare. Alla sera, verso le venti, tutti noi carabinieri
della IV compagnia fummo mandati in armeria a prelevare armi e
munizioni, tra cui fucili mitragliatori e mitragliatrici, e ci mandarono
a presidiare le terrazze ove rimanemmo fino alle otto del 27 luglio.
Andati a riposare restammo liberi fino alle diciotto, quando ci fecero
ritornare a presidiare le terrazze, dove restammo fino a mezzanotte.
Mi domandai, tra me e me, se erano state prese quelle precauzioni
nel timore che i fascisti si organizzassero per liberare Mussolini,
aiutati magari dai soldati tedeschi presenti in città. Il giorno dopo,
il 28 luglio 1943, la vita di caserma ritornò normale. Fu perché
nelle ultime ore antelucane Mussolini fu spostato segretamente in
altra zona, scortato da quattro carabinieri, uno dei quali era Alfredo
Lazzaro, mio grande amico. Allora non seppi altro.
Molti anni dopo venni a conoscenza di come Mussolini fu scortato
e dove fu portato. Il 27 settembre 1997, in un raduno di carabinieri
in congedo a Bassano del Grappa, mi incontrai con sei commilitoni
della quarta compagnia, tra cui il Lazzaro. Fu in quell’occasione che
a pranzo ci confidammo le storie di quei lontani giorni. Mi disse
che nella tarda serata del 27 luglio 1943, lui e altri tre carabinieri
provenienti da plotoni diversi, furono mandati nell’ufficio del capo
della Polizia di Roma. Quell’alta autorità disse loro: “Un grande
servizio vi attende: a voi è affidata la sorte della Patria”. Fu loro
ordinato di fare la scorta a un’auto da Roma a Gaeta. Fu là che i
carabinieri videro scendere Mussolini dall’auto. Allora i carabinieri
si accorsero di aver scortato il duce. Mentre scendeva guardandosi
attorno, Mussolini riconobbe Lazzaro e gli disse: “Ricordo la tua
faccia perché mi hai già fatto scorta d’onore”. Era vero, Lazzaro si
ricordava pure lui! A Gaeta erano attesi da una motovedetta che li
trasportò a Ponza, ove trovarono una persona che li portò in una
villetta poco lontana dal mare.
Quei quattro carabinieri rimasero là per tre giorni. Mussolini fu
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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guardato a vista dai quattro che fecero anche da inservienti e cuochi,
cuocendo soprattutto pesce.
L’amico mi disse che il duce era stanco, sfiduciato e avvilito, parlava
poco e passava il tempo seduto a pensare. Per mascherare un po’ la
sua depressione teneva sempre addosso gli occhiali da sole.
I quattro furono sostituiti da altri carabinieri mandati espressamente
dal comandante dei carabinieri Cerica. Il Lazzaro ritornò a Roma
ove ricevette un encomio solenne. In una lettera che ho ricevuto da
Pasquale Baldi, altro mio commilitone, datata Bari 10.IV.1998, mi
precisa che pure lui fece parte del gruppo di carabinieri quando il
duce fu portato alla Maddalena, in Sardegna. Nel contempo venni
a sapere con certezza che i Tedeschi, da subito, avevano cercato di
liberare Mussolini e che l’autorità italiana fece quegli spostamenti
accennati, e poi altri ancora, per depistare i nazisti, i quali però alla
fine riuscirono nel loro intento liberando Mussolini sul Gran Sasso.
Agli spostamenti successivi di Mussolini provvidero altri reparti di
soldati, mentre noi carabinieri della IV compagnia ritornammo a
fare i soliti servizi fino all’otto settembre 1943.
L’armistizio
Verso le ore venti di quel famoso otto settembre 1943 io mi trovavo
in libera uscita nel parco divertimenti del rione Prati assieme agli
amici commilitoni Alfredo Lazzaro ed Erice Tonazzo.
La radio improvvisamente cessò di trasmettere musica, le giostre
si fermarono, una voce stentorea, cominciò a leggere il famoso
bollettino dell’armistizio.
Ricordo ancora la grandissima emozione che provai mentre lo ascoltavo:
“Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari
lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare
ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al
generale Eisenhower, comandante in capo delle Forze alleate angloamericane. La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane
deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse, però, reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Ricordo che il cronista ripeté anche con grande entusiasmo: “È stato
firmato l’armistizio, la guerra è finita!”. Subito noi tre ritornammo
in caserma: eravamo pieni di gioia perché convinti che la guerra
fosse finita davvero e che saremmo ritornati a casa ben presto.
Non sapevamo, invece, cosa ci aspettava!
Arrivati tutti in caserma, il nostro capitano ci riunì subito e ci fece
un discorsetto che ci raggelò.
Senza giri di parole ci disse che era arrivato il momento non di
gioire, ma di piangere perché subito si sarebbe accesa una tormentata
guerra che anche noi avremmo dovuto combattere. Poi ci ordinò di
andare nell’armeria per ritirare armi e munizioni: cosa che subito
noi facemmo, come altre compagnie di quella caserma.
La battaglia di Cecchignola
L’eco della lettura dell’armistizio risuonava ancora in tutta Roma,
che già i Tedeschi tentarono di prendere il comando della città.
Nella tarda sera dell’otto settembre 1943 un forte gruppo di soldati
tedeschi con armi pesanti occuparono con un colpo di mano alcuni
capisaldi in quel di Cecchignola sulle vie Ostiense e Laurentina.
Per di più reparti mobili di Tedeschi si spinsero in avanti. Furono
fermati nella zona della Basilica di San Paolo da reparti della divisione
Granatieri di Sardegna che ricacciarono i Tedeschi nelle loro basi
ove si erano insediati precedentemente. Era necessario riconquistare
quegli sbarramenti per salvare Roma. Bisognava però rafforzare le
truppe italiane per sferrare un forte attacco contro i Tedeschi che
si erano già schierati per una difesa a oltranza di quanto avevano
conquistato poche ore prima.
A mezzanotte dell’8 settembre fu mobilitato precipitosamente il
secondo battaglione carabinieri formato dalla mia quarta compagnia
di carabinieri e da due di allievi. Fummo equipaggiati per il
combattimento d’assalto. Il capitano De Tommaso, comandante
la nostra quarta compagnia, chiese ed ottenne che la compagnia,
formata da carabinieri addestrati, fosse posta in avanguardia,
perché le altre due erano formate da allievi che non avevano ancora
completato la loro preparazione.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Volle anche che la vecchia e gloriosa bandiera dell’Arma dei
Carabinieri, custodita gelosamente in una teca del Comando
Generale sito come già precisato nella nostra caserma, venisse
portata in battaglia. Era una bandiera vecchia e logora; era il
simbolo di tante gloriose battaglie vinte nei tempi passati. Ritengo
che l’abbia voluta con sé, sia per infondere coraggio a noi che ci
disponevamo alla battaglia, sia perché intuiva che quella sortita era
la prima cruenta lotta della nuova Italia, e che perciò si doveva dare
un forte segnale di riscossa. Fummo trasportati in camion attorno
alla Basilica di San Paolo. Ci mettemmo accovacciati a terra in attesa
di ordini. Intanto si sentivano lontani brontolii di spari.
Dopo qualche tempo, forse due ore, ci fu dato l’ordine di partire
verso il ponte della Magliana. Ci infilammo con grande attenzione
in una vicina trincea, costruita per la difesa della città, che affiancava
una strada secondaria. Ci accorgemmo subito dove era avvenuto il
primo scontro perché vedemmo corpi riversi pieni di sangue.
Un giovane allievo, vedendo quei morti stesi un po’ ovunque, si
mise a piangere. Subito gli si avvicinò un maresciallo con la pistola
in pugno che con tono perentorio lo apostrofò dicendo forte: “Non
fare il vigliacco perché in guerra i vigliacchi sono i primi a morire”.
Forse si comportò così duramente per ammonire tutti noi presenti.
L’allievo carabiniere si riprese, poi più nessuno mostrò esitazioni.
Mentre camminavamo il fuoco tedesco si faceva via via più intenso.
Per nostra fortuna il fuoco delle armi pesanti tedesche veniva
rintuzzato dall’artiglieria del reggimento Lancieri di Montebello,
mentre gli alti argini della trincea ci riparavano dai tiri della fucileria
e anche dagli eventuali cecchini. In un momento di pausa il capitano
De Tommaso salì sulla strada per controllare meglio quale fosse la
tattica da prendere per snidare i soldati tedeschi.
In quel momento io mi trovavo poco lontano da lui ed ero riparato
dietro un mucchio di legna secca. Vedendomi mi disse: “Biondino
vieni con me!”. Io sarei partito subito, perché quel comandante era
per me un esempio di capacità e onestà, ma avevo con me un fucile
mitragliatore ed ero assieme a un altro compagno che portava le
munizioni. Mi venne da dirgli: “Signor capitano non posso venire
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
perché dovrei lasciare il mitragliatore senza un sostituto”. (Il fucile
mitragliatore, modello 38, era un’arma pesante, tanto che per sparare
si usavano due piedi retrattili di appoggio sul terreno e, per di più,
aveva bisogno di un operatore per portare e infilare le munizioni
nel serbatoio). Il capitano capì e chiamò un altro carabiniere che
era un amico romano facente parte della mia stessa terziglia quando
facevamo esercitazioni ginniche. Fu l’ultima volta che li vidi vivi.
Intanto il capitano, esaminati a vista i dispiegamenti delle forze in
campo, chiamò a raccolta i carabinieri per organizzare un attacco.
Fu così che gli uomini radunati cominciarono a risalire gli argini:
la maggioranza su quello verso la strada, io e il servente sull’altro
perché dovevamo operare tiri di copertura col mitragliatore. Ci
nascondemmo dietro un po’ di paglia. Mentre veniva preparata
la manovra, sulla strada fiancheggiante l’argine, dove erano saliti
i carabinieri col capitano, si profilò una colonna di una decina di
autoambulanze tedesche.
Si fermarono vedendo i soldati italiani, improvvisamente uscirono
allo scoperto soldati tedeschi con armi spianate facendo una sparatoria
infernale anche se breve. Noi rispondemmo subitamente, però dei
carabinieri furono uccisi o feriti e nel fossato ci fu confusione perché
tutti scesero. Con l’aiuto generale dei presenti subito la riorganizzazione
dello schieramento fu risolta, mentre le autoambulanze tedesche
ripartirono a tutta velocità. La battaglia continuò e noi continuammo
ad avanzare verso il ponte della Magliana.
Camminammo sparando per ogni temuto pericolo, incuranti della
fame e delle difficoltà. Fu certo per la determinazione del nostro
battaglione di carabinieri, con l’appoggio dei Granatieri di Sardegna
e dei Lancieri del Montebello, che si riuscì a riprendere i capisaldi e
il ponte della Magliana.
Fu una vittoria importante sia perché avevamo riconquistato uno
snodo viario, sia perché dimostrammo che se all’esercito italiano
fossero stati impartiti ordini precisi e chiari, avremmo dato molto filo
da torcere ai Tedeschi e, forse, la guerra sarebbe terminata prima.
Quella battaglia, durata per noi carabinieri ben diciotto ore e mezza,
la vissi con fermo impegno e forte volontà, ma anche in modo
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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trasognato. Da subito non riuscii a ricordare le sequenze dell’andare,
degli spari, delle grida di incitamento o di dolore dei feriti: fu per
me, pur andando avanti e sparando senza paura, un tempo doloroso
della mia vita senza riuscire a fissarlo ben bene nella memoria.
Ancora oggi ricordo infatti solo alcuni particolari, parzialmente già
raccontati e, per ultimo, uno che mi accadde verso la fine.
Lo racconto solo come testimonianza di come mi sono trovato
durante il combattimento. Arrivati sotto il ponte della Magliana
in una pausa prima di sferrare l’attacco vittorioso, mi trovai vicino
all’amico carabiniere Pietro Tosato. Mi chiese una sigaretta, certo
per distendere un po’ l’ansia. Tirai fuori il portasigarette che
ricordavo quasi pieno, lo trovai invece vuoto, evidentemente
durante le pause della battaglia avevo fumato tutte le sigarette
senza rendermene conto! Fu così che con la punta della baionetta
segnai sul portasigarette d’ottone, che conservo ancora, le parole:
“ 9-9-1943 – sotto il ponte di Cecchignola in guerra. Attilio
Bizzotto, Pietro Tosato senza sigarette”. Finita la battaglia venni a
conoscenza che diversi carabinieri erano morti e che il mio capitano
De Tommaso era caduto da eroe mentre conduceva i carabinieri
all’assalto, assieme a lui morì anche quel commilitone che mi aveva
sostituito poco prima dei combattimenti. Fu per me una notizia
straziante, vuoi perché il capitano era un mio superiore che stimavo
moltissimo, vuoi perché fu colpito anche il suo accompagnatore
che mi sostituì: fortunosamente io mi salvai! Al capitano poi fu
concessa la medaglia d’oro della Resistenza per le sue virtù di
trascinatore: egli fu la prima medaglia d’oro della Resistenza italiana
contro i nazifascisti. Alle 18.30 di quel fatidico nove settembre
1943, quando ormai tutto si era risolto, ricevemmo il cambio da
un reparto dei carabinieri della divisione Pastrengo.
Dopo una sosta di qualche ora per far sbollire l’ansia di quelle terribili
ore di combattimento, partimmo scarpinando per varie ore per
ritornare in caserma. Dovemmo fare oltre dieci chilometri portando
con noi le armi e la bandiera. Eravamo molto stanchi: erano quasi
venti ore che avevamo passate senza riposare né mangiare.
Ci fermavamo di frequente anche perché alla spossatezza fisica si
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
aggiungeva il peso dell’equipaggiamento e la responsabilità della
custodia della nostra storica bandiera. Fortunatamente, almeno per
me che avevo sulle spalle il pesante fucile mitragliatore, il tenente
che ci comandava in quel rientro, dette l’ordine che venissero
scambiati i portatori dei pesi maggiori: fu per questo che io ebbi
il cambio di portare anche il nostro vetusto stendardo sfilacciato
ma vincente. Arrivammo in caserma alle cinque del mattino del
10 settembre 1943. Subito provammo una grande sorpresa, invece
di trovare i nostri commilitoni festanti per la vittoria, trovammo
solo il picchetto mentre le camerate erano vuote: tutti erano
spariti! Rimettemmo la gloriosa bandiera nella teca del Comando,
depositammo le armi nel magazzino, ci rifocillammo con quanto
trovammo in cucina, attendemmo ordini dal nostro tenente il quale,
constatata la mancanza assoluta di qualsiasi ufficiale superiore che
desse disposizioni di servizio, sulla scorta di quanto venne a sapere
dall’ufficiale di picchetto, ci disse che eravamo liberi di fare quello
che credevamo: uscire o rimanere in caserma.
Subito venimmo a sapere che il nostro Comando, dopo aver deciso
in modo autonomo il cambio di noi carabinieri per Cecchignola,
non avendo avuto riposte dall’Alto Comando Militare alle richieste
di delucidazioni, decise di lasciar liberi i carabinieri se scegliere di
andarsene o rimanere in caserma. La stessa cosa successe a tutti i
reparti che erano a difesa di Roma e che in quel momento formavano
tre Corpi d’Armata e tre divisioni: la Centauro, i Granatieri di
Sardegna e la Piave, per un totale di settantamila uomini che
disponevano di 400 carri armati e 500 pezzi di artiglieria.
Fu così che i Tedeschi, pur avendo in sito solamente due divisioni
per un totale di circa ventottomila soldati, poterono senza colpo
ferire occupare la città di Roma. Ciò fu dovuto al Maresciallo
Badoglio, comandante di Stato Maggiore Militare, e al generale
Carboni, capo del Servizio Informazioni Militari, SIM, che
comandava anche il Corpo d’Armata Motorizzato, CAM, dislocato
a Roma, i quali si comportarono in modo a dir poco equivoco:
invece di dare informazioni e direttive si eclissarono in abiti civili
e partirono via mare assieme al re per rifugiarsi presso gli Alleati.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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I milioni di soldati sparsi nei vari fronti, lasciati senza ordini, si
comportarono in modo diverso gli uni dagli altri: chi scappò a casa,
chi combatté contro i Tedeschi, chi abbandonò le armi. Purtroppo
il risultato fu devastante perché vi furono molti morti e prigionieri
nei lager tedeschi.
Giorni d’attesa
Riposatomi per alcune ore, decisi poi di prendere alcuni effetti
personali e di uscire. Mi recai in via San Giacomo Venezian ove
abitava un amico di Cittadella, mio paese d’origine, che era alle
dipendenze del Vaticano. Egli mi ospitò per alcuni giorni così che
potei girare presso caserme e amici carabinieri, onde regolarmi sul
da farsi. Perché potessi confondermi nel via vai delle persone l’amico
mi aveva regalato un suo vestito che purtroppo era di taglia piccola
rispetto al mio corpo. Fu forse per questo abito fuori misura che
fui guardato attentamente da un gruppo di ragazzi sui quindici
anni, armati di fucili, pistole e bombe a mano. Li sentii consultarsi
chiedendosi fra loro se ero un italiano o un tedesco. Fu così che uno
mi si avvicinò con circospezione chiedendomi l’ora ed ebbi modo di
dire l’ora e anche che ero un italiano.
Ho citato questo piccolo fatto per significare quale era lo stato
di confusione e di tensione che serpeggiava in tutta Roma. Il 12
settembre andai alla caserma di San Lorenzo per avere notizie
dall’amico carabiniere Lorenzo Vico, attendente della vedova del
generale Hazon ucciso nel bombardamento.
Questi mi consigliò di non ritornare nel Veneto perché tutti gli
uomini che viaggiavano venivano controllati e quelli in età di fare
il soldato, mandati nei campi di concentramento in Germania.
Fu così che il 13 settembre rientrai in caserma.
Ritrovai vari amici e un nuovo capitano. Egli mi chiese solo il nome
e mi disse che potevo andare nella mia camerata: non mi fu chiesta
nessuna spiegazione per l’assenza. Nel mio letto trovai tutto quello che
avevo lasciato, non mancava proprio nulla. Ripresi la vita di caserma,
però con alcune varianti; si andava in libera uscita senza armi, solo
se c’erano motivi plausibili, come portare biancheria a lavare. Per
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
uscire però bisognava mettere sul braccio una fascia bianco-gialla:
non mi fu detto il significato, ma ho pensato volesse dire che
Roma era città aperta per le sue numerose opere d’arte, per le sue
imponenti testimonianze storiche e infine perché sede dello stato
extraterritoriale del Vaticano, la cui bandiera è appunto bianco–
gialla. In quei giorni il mio secondo plotone della quarta compagnia
fu mandato di mattina come picchetto d’onore ai funerali del
capitano De Tommaso. Accettai di buon grado di partecipare a
quella solenne celebrazione perché quel capitano mi era restato nel
cuore e, ancora oggi, lo ricordo con affettuosa riverenza.
Fatti di prepotenza
Il 14 settembre 1943 il mio plotone, assieme ad un altro della quarta
compagnia, fu inviato quale picchetto di servizio pubblico alla stazione
Ostiense di Roma: erano arrivati venti vagoni di derrate alimentari da
distribuire alla popolazione.
A Roma in quel momento vi era carestia e i cibi scarseggiavano.
Trovammo molta folla, autorità civili e parecchi ufficiali tedeschi
accompagnati da soldati. Noi dovevamo fare dei cordoni a difesa dei
vagoni perché la gente non li saccheggiasse. Il lavoro di distribuzione
fu lento e difficoltoso. Non ne avevano ancora distribuita una
metà, quando l’ufficiale tedesco che comandava, salì su un vagone
e disse in italiano: “Abbiamo finito, i restanti vagoni spettano ai
soldati tedeschi”. La folla cominciò a gridare e spingere cercando
di rompere i nostri cordoni. Quell’ufficiale diede a noi l’ordine di
sparare, i nostri ufficiali invece non ci impartirono nessun ordine,
noi stemmo fermi. I nostri ufficiali, pur sapendo che disobbedivano
a degli ordini, non aprirono bocca dimostrando così a tutti quanto
fosse alto il loro equilibrio umano, legato al senso di comprensione
verso i bisognosi.
Capii anche molto bene, come la disciplina tedesca fosse profondamente
arrogante e che in definitiva fosse una obbedienza spesso irrazionale
che andava al di là di ogni giustizia. Quell’ufficiale tedesco, arrabbiato,
strappò al carabiniere che gli era vicino il mitragliatore e sparò una
raffica in aria e una a terra, là dove non c’era folla.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Tutti tacquero e cominciarono a sfollare. Allontanandosi però,
tutti inveirono contro i tedeschi e le autorità comunali che non
avevano perorato con forza la giusta richiesta dei cittadini che ad
alta voce chiedevano fossero dispensate le derrate dei venti vagoni.
Tutto si svolse fortunatamente senza spargimenti di sangue. Quel
fatto mi portò a considerazioni amare: noi Italiani avevamo trovato
dei padroni pronti a qualsiasi azione pur di continuare la guerra,
convinti di vincerla. Il 15 settembre verso sera successe a un mio
commilitone un fatto che dimostrò in modo chiaro e netto che
la presenza delle forze tedesche in Roma aveva fatto sorgere dei
rigurgiti di arroganza fascista.
Quel carabiniere che era in libera uscita, era entrato in un bar per
prendere un caffè. Mentre stava sorbendolo sentì dietro di sé una
voce stentorea che diceva: “Voi carabinieri della quarta compagnia
siete tutti dei traditori perché avete arrestato Mussolini”. Si volse e
vide davanti a sé uno in divisa fascista e con una rivoltella in pugno
che, continuando a gridare, sparò un colpo che fortunatamente andò
a vuoto. Il collega preferì andarsene senza far parola, anche perché era
disarmato come era stato prescritto in quei giorni di confusione.
Denunciò il fatto al superiore, all’indomani a noi carabinieri fu
concesso di portare in libera uscita la pistola, però senza munizioni!
Questi due esempi, anche se modesti, furono per me dei segni che
alla fine mi portarono a considerare il ritorno a casa come la cosa
più opportuna.
Intermezzo
Nonostante nel mese di settembre 1943 vi fossero anche in Roma
episodi che dimostravano la volontà nazifascista di prendere il
comando in ogni settore politico-militare, nella nostra caserma si
era diffusa la convinzione, specie fra gli ufficiali, che noi carabinieri
non saremmo stati oggetto di retate e di invio in Germania nei campi
di concentramento. Infatti nella nostra caserma, dove quasi tutti
eravamo ritornati ai nostri posti, continuavamo a svolgere i vari servizi
che ci erano abituali prima dell’armistizio. Il 18 settembre 1943 io,
col mio plotone della quarta compagnia, ero di picchetto d’onore
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
all’Altare della Patria, Sacrario dei Caduti, quando fui partecipe di un
fatto importante per me, perché segnò una svolta della mia vita.
L’amico Antonio Franchetto, di Castelfranco Veneto, era di sentinella
proprio in quei momenti quando sua madre arrivò dal Veneto. Subito
senza preamboli dichiarò all’ufficiale, che comandava il picchetto,
che era arrivata fin là per portare a casa il suo Toni, perché nel Veneto
i Tedeschi avevano rastrellato soldati di ogni arma e anche giovani
civili, e che lo voleva nascondere nei propri luoghi natii dato che
conosceva alla perfezione boschi e caverne nei monti, piuttosto che
lasciarlo a Roma in balia dei Tedeschi e dei fascisti. L’ufficiale incaricò
un brigadiere di sostituire la sentinella con un altro, perché potesse
parlare con sua madre: io fui scelto per la sostituzione. Durante le
operazioni per il cambio della guardia, sussurrai all’amico: “Se decidi
di andare a casa, avvisami perché io parto con te”. Dopo l’ufficiale
diede a madre e figlio due giorni di tempo per decidere.
Passate quarantotto ore l’amico carabiniere venne a dirmi di aver
deciso di ritornare a casa il 22 settembre 1943, partendo dalla
stazione Termini col treno delle 21,15. In quel momento vicino a
me c’era anche l’altro amico Alfredo Lazzaro da Treviso, che subito
dichiarò di associarsi.
Verso sera del giorno stabilito, vestito in borghese, uscii dalla caserma
con la valigia d’ordinanza piena e un altro pacco, dichiarando al
capoposto del picchetto di guardia che mi recavo in lavanderia per la
pulizia del mio guardaroba. Invece mi avviai verso la stazione. Nella
valigia avevo messo tutto il mio vestiario personale, nel pacco avevo
dei libri fra i quali avevo nascosta la fondina con la mia pistola in
dotazione e due caricatori, avvolti in un pezzo di stoffa. Arrivai alla
stazione, comprai il biglietto, non vidi gli amici, arrivò l’ora della
partenza del treno e salii da solo.
Verso casa
Una volta i vagoni passeggeri avevano un lungo corridoio laterale
che univa parecchi scompartimenti dove in ognuno potevano sedere
otto persone: scrutai un po’ ed entrai dove vidi dei giovani. Due
erano infagottati in abiti civili, di taglia diversa dalla loro, poi vi
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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erano tre ragazze: capii subito che quei giovani erano soldati in fuga,
come lo ero anch’io. Cominciammo a parlare facendoci piccole
confidenze reciproche. Prima di Firenze il treno fece due soste fuori
programma perché un bombardamento aveva danneggiato un tratto
di binari. Fu a questo punto che uno dei giovani disse: “Siamo stati
fortunati finora, speriamo di non incappare ora in qualche pattuglia
di Tedeschi, quelli ti perquisiscono e se ti trovano un’arma, ti fanno
scendere e ti uccidono sul posto senza alcuna altra indagine. Se tu
hai un’arma, rivoltosi verso di me, consegnala alle donne, come
abbiamo fatto noi, perché esse non vengono perquisite”. Io senza
pronunciare parola diedi la mia pistola con la fondina e i caricatori
alla signorina che mi era vicina e che subito se la mise in seno.
Non vi furono controlli. Arrivati a Bologna quei giovani scesero e,
dopo calorosi saluti, la giovane mi restituì l’arma che subito nascosi
nel soffietto che univa il mio vagone con quello precedente.
Arrivai a Padova senza intoppi. Ripresi la rivoltella, scesi con i miei
due fagotti nascondendo l’arma ancora fra i libri. Era l’una di notte
del 24 settembre 1943. Consultai l’orario e vidi che la littorina per
Cittadella e Bassano partiva alle sette. (La littorina era un vagone
mosso da un motore diesel che serviva per i piccoli tragitti. Fu in
funzione durante il fascismo e fu così chiamata dalla parola romana
“Littorio” che indicava un fascio di verghe con una scure centrale:
era il simbolo che portavano le guardie a protezione dell’autorità;
divenne il simbolo fascista).
Dovevo attendere varie ore prima di partire, così studiai dove
mettermi per restare in attesa senza ricevere visite indesiderate.
Tutto era discretamente illuminato, così vidi che in una sala
d’aspetto c’erano due porte: una d’entrata dal marciapiede e un’altra
per andare nei locali di biglietteria la quale aveva anche un’altra
porta di uscita.
Entrai, trovai una signora un po’ anziana, mi sedetti in un posto
in penombra, vicino alla porta che menava alla biglietteria. Da
quel posto potevo osservare quello che succedeva nella banchina
esterna. Vidi due militi fascisti che si stavano avvicinando, scappai
lasciando là la valigia e il pacco. La signora aveva visto la mia fuga
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
e l’arrivo della milizia ferroviaria: capì certamente subito che io ero
uno sbandato. Intanto mi ero nascosto nei coni d’ombra fra i binari,
così potevo controllare, senza essere visto, chi entrava e chi usciva
dai vari locali della stazione. Vidi i militi fascisti che si recarono
altre due volte nella sala d’aspetto. Finalmente, dopo una paziente
attesa m’accorsi che i due si erano vestiti in borghese, evidentemente
avevano finito il loro turno di guardia. Aspettai un po’ e non vedendo
altri movimenti ritornai nella sala d’aspetto. La signora mi fece un
sorriso che io contraccambiai. Mi disse che la ronda aveva chiesto di
chi erano i fagotti e che lei aveva risposto che erano di una persona
anziana che era uscita a prendere aria: certamente la sua risposta
tranquilla e precisa non insospettì i fascisti. Capii che noi sbandati
ricevevamo aiuti da tutta la popolazione. Rimasi sempre nella sala
d’aspetto con i nervi tesi per l’attenzione e per non appisolarmi: fui
sempre vigile.
Aprirono la biglietteria, comperai il biglietto e partii verso casa.
Arrivato a Cittadella, nonostante dovessi fare quattro chilometri per
arrivare in famiglia con valigia e pacco pesanti, mi avviai a piedi col
cuore gonfio di gioia per ritrovare i familiari. Fatto un chilometro
arrivai davanti al duomo che ben conoscevo, mentre uscivano i fedeli
dalla Messa. Ero fermo davanti un incrocio da attraversare, quando
iniziò a passare una colonna tedesca di camion porta truppe, con
tanti soldati armati. Rimasi là a guardare impalato e inebetito dalla
paura mentre vidi i fedeli che precipitosamente se ne ritornavano in
chiesa o si nascondevano dietro le colonne del pronao.
Fortunatamente nessun camion si fermò, era evidente che quei
soldati avevano una loro missione da compiere, così anche questa
volta la passai liscia. Quel fatto improvviso e imprevisto mi
impressionò specie perché la popolazione scappava quando vedeva i
Tedeschi. Continuai il mio cammino. Fatta poca strada vidi che un
mio parente stava per aprire la sua osteria. Mi fermai per salutarlo e
chiedere aiuto per il trasporto dei miei pesanti colli.
Mentre stavamo parlando si fermò un furgone, l’autista voleva bere il
“grappino” mattutino. Era un conoscente dell’oste; subito gli chiese
se mi poteva portare fino a casa. Arrivai inaspettato; tutti furono felici
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
99
di vedermi anche perché era circa un mese che non davo notizie.
Festeggiato da parenti e amici me ne stetti per qualche tempo
rintanato in casa, pronto a nascondermi nel caso si fossero viste
ronde tedesche o fasciste. Io in quei giorni ero contento di essere
con i miei e di aver superato indenne tanti pericoli, però nel
contempo mi rimproveravo nel mio più profondo intimo, di non
aver rispettata la regola fondamentale dei carabinieri che è quella
dell’obbedienza, perché io me ne ero andato via insalutato ospite.
Amici carabinieri di Roma
Quando il capitano De Tommaso fece le scelte fra gli allievi promossi
carabinieri per la sua quarta compagnia del Comando Generale,
oltre una quindicina eravamo Veneti. Poco a poco nella compagnia
si formarono vari gruppi composti da amici corregionali, soprattutto
per le stesse frequentazioni degli usi e costumi tradizionali.
Di questi amici ne ricordo principalmente tre, due dei quali ho già
cominciato a parlare, e un altro che dirò più avanti. Lo faccio perché
li ho rivisti dopo la guerra. In aggiunta a questi, a Roma feci amicizia
con un carabiniere che abitava a Belvedere, vicino a Cittadella, ma
che apparteneva allora alla stazione provinciale carabinieri di San
Lorenzo. Proprio costui nella prima decade di ottobre mi raccontò
fatti dolorosi che mi tolsero ogni rammarico di essermi allontanato
dal mio reparto.
L’amico Vico che era, come ho già detto, l’attendente della vedova
del generale comandante l’Arma dei Carabinieri, morto nel
bombardamento di Roma, ritornò a casa. Venne da me vestito di
tutto punto con la divisa dei carabinieri. Mi disse che era ritornato
ai primi d’ottobre nella sua terra per raccogliere derrate fresche da
portare alla vedova che lui aiutava per il disbrigo delle faccende
extracasalinghe. Mi spiegò che, prima di partire da Roma, era andato
a cercarmi nella mia caserma per vedere se avevo qualcosa da mandare
o da ricevere dalla famiglia. Gli dissero che ero assente da una decina
di giorni, così lui dedusse che dovevo essere arrivato a casa.
Parlammo degli amici rimasti in servizio e restammo d’accordo che
mi avrebbe informato di ogni sviluppo della situazione a Roma.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Dopo quattro giorni lo rividi a casa mia vestito in borghese.
Meraviglia! Quando la sera dell’otto ottobre era arrivato in treno
a Roma, vide un pattuglione di soldati tedeschi che rastrellavano
carabinieri e soldati in divisa. Fortunatamente per lui nello stesso
scompartimento c’era una coppia di sposi romani: lui gli diede il
soprabito per nascondere la divisa, lei gli tolse il berretto che nascose
nella borsetta. Così a braccetto scesero e attraversarono il cordone
tedesco. La coppia, che abitava poco lontano, gli diede un letto per
dormire e un abito civile per vestirsi.
Alla mattina lasciò là le varie derrate che aveva acquistato nel Veneto
e, con estrema precauzione, se ne tornò a casa. Mi disse anche di
essere stato informato che poco prima i Tedeschi avevano fatti
prigionieri tutti i carabinieri del Comando Generale e che furono
mandati direttamente in Germania. Argomentò che forse erano stati
mandati nei lager per punirli perché furono i custodi di Mussolini
quando fu deposto: fra costoro vi erano anche i due che dovevano
ritornare con me! A guerra finita mi fu detto anche che quelle retate
di carabinieri, che prestavano servizio d’ordine pubblico senza
ancora aver giurato fedeltà a Mussolini, erano dovute al timore che
i carabinieri fossero sempre pronti ad aiutare qualsiasi sbandato
e, soprattutto, gli ebrei. Infatti prima mandarono i carabinieri in
Germania, poi rastrellarono gli ebrei italiani.
Questi fatti segnarono in me una forte decisione: il passato non
esisteva più, ora dovevo guardare solo al futuro. Ero pronto
ad aiutare chi aveva bisogno di essere protetto dai nazifascisti.
Nel dopoguerra ritrovai alcuni vecchi amici e seppi così che
Franchetto e Lazzaro, coloro che dovevano accompagnarmi nel
ritorno, ritornarono dalla Germania nel 1945.
L’amico Vico invece non l’ho più rivisto, mi dissero che era ancora
nell’arma dei carabinieri e che aveva il grado di maresciallo.
Quello che più mi ha colpito è stata la situazione in cui si è trovato
un carabiniere originario di Schio. Dopo aver passato parecchi mesi
nella mia compagnia, fu inviato in Jugoslavia, ormai occupata dagli
eserciti italiano e tedesco, per il servizio d’ordine pubblico.
Arrivato l’otto settembre 1943 scappò e fece la vita dello sbandato
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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fra i boschi marciando verso l’Italia. Arrivato nella Venezia Giulia
– ora Istria -, incappò in una pattuglia di carabinieri italiani
collaborazionisti coi Tedeschi. Costoro lo convinsero di aggregarsi al
loro gruppo che godeva di tranquilla quotidianità. Conoscendolo,
certamente accettò solo perché i Tedeschi in quei momenti avevano
la feroce determinazione di punire tutti i soldati italiani della
Jugoslavia perché avevano fatto resistenza armata.
Poco tempo dopo invece fu mandato a scovare partigiani titini e
soldati italiani renitenti. Disertò e fra monti e boschi si avviò verso
casa. I Tedeschi, saputa la sua diserzione, mandarono una pattuglia
fascista per ricercarlo a casa. Non trovandolo prelevarono il padre,
lasciando detto che, se non si presentava entro un certo periodo di
tempo, suo padre sarebbe stato mandato nei lager tedeschi a lavorare.
Informato, l’amico si trovò ad affrontare un dilemma immane.
Presentarsi voleva dire subire un processo ed essere condannato
e mandato in Germania, senza avere la garanzia che suo padre
sarebbe stato liberato. Era allora noto che i Tedeschi consideravano
i carabinieri acerrimi nemici di Mussolini e quindi dovevano essere
puniti nel peggiore dei modi. Chiese consiglio a varie persone, anche
al suo Vescovo. Tutti gli risposero di attendere un po’ per vedere se si
chiariva la situazione, perché di sicuro c’era una punizione per lui e
poi anche per il padre che aveva protetto il figlio disertore.
Non si presentò: il padre fu mandato in Germania ove morì. L’amico
riuscì a cavarsela e a sopravvivere, però dentro gli rimase sempre un
grandissimo e profondo dolore perché il padre era morto per gli
stenti patiti in Germania per colpa sua.
In famiglia
Per alcuni mesi vissi nella quiete e nel lavoro presso i miei familiari.
Aiutai mio padre a coltivare i campi nel periodo autunnale: arai la
terra e seminai il frumento. Mio fratello Giuseppe, ritornato dalla
prigionia jugoslava, come già detto, ancora un po’ acciaccato, si
mise a lavorare da falegname assieme al nostro fratello Gaspare
che, pur essendo solo diciottenne, aveva imparato il mestiere come
apprendista. Costoro crearono il loro laboratorio nel portico della
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
nostra stalla. Cullato dalla quiete degli affetti familiari, mi misi
a riordinare nomi e date della mia vita militare, facendo brevi
appunti. Lo stesso poi feci nei momenti di quiete del periodo della
mia attività di partigiano.
Erano note modeste che ho conservato, assieme ad altre cose di quei
periodi, e che ora mi sono state utili per dettare le mie memorie.
Intanto avevo ripreso anche la mia solita vita sociale, seppur con
molta precauzione per evitare ogni controllo nazifascista. Ritornai a
frequentare i circoli cattolici, allora molto fiorenti dalle nostre parti.
Il mio Arciprete, quando mi rivide, mi abbracciò sussurrandomi:
“Ogni giorno ho pregato e prego per voi giovani parrocchiani”.
Trovai anche don Lino Girardi il quale, pur essendo cappellano
militare dei carabinieri a Padova, ogni giovedì riuniva noi giovani di
Cittadella: e i partecipanti erano tanti!
Quel sacerdote non solo ci spiegava il Vangelo, ma anche ci
informava di tutto ciò che raccoglieva relativamente all’andamento
della guerra e di come i nazifascisti trattavano gli sbandati.
Fra i presenti vi erano anche dei giovani che avevano visto di persona
i rastrellamenti nelle stazioni ferroviarie di Treviso e Castelfranco
Veneto. Dissero anche che agli sbandati veniva subito chiesto se
aderivano alla repubblica fascista di Mussolini: chi non accettava
veniva caricato nei vagoni merce per la deportazione in Germania.
Sentendo più volte questi soprusi, tutti cominciammo a chiederci
come si poteva aiutare quelli che non volevano collaborare coi
fascisti. Da parte mia avevo già operato dei soccorsi agli sbandati,
prima ancora di essere partigiano a tutti gli effetti. Nei primi giorni
del dicembre 1943 ebbi modo, assieme ad altri, di aiutare dei soldati
prigionieri che riuscirono a fuggire dai campi tedeschi.
Il 6 dicembre furono tre soldati inglesi che rifornimmo di cibi e
vestiario e che poi conducemmo verso le montagne; il 20 dicembre
furono altri quattro Inglesi che aiutammo allo stesso modo.
Fu anche per questi motivi che sorse in me imperiosa la volontà di
mettermi dalla parte della giustizia e diventare partigiano.
Già da qualche mese sentivo parlare sottovoce negli ambienti cattolici
che frequentavo della formazione di gruppi di patrioti che facevano
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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colpi di mano per procurarsi armi e munizioni onde poi organizzare
attività di disturbo ai soldati tedeschi e a quelli di Mussolini. Fu così
che cercai e trovai un contatto per unirmi a quelle formazioni.
Aprile 1944
Il dieci aprile 1944 per me, mio fratello Giuseppe e il cugino
Angelo Sgarbossa è stata una data fatidica. Assieme a qualche
altro divenimmo partigiani aggregati ad un plotone comandato
dal concittadino professor Erminio Sgarbossa, che aveva il nome
di battaglia di Fricco. Egli era cugino sia di noi Bizzotto, per via di
nostra madre che era una Sgarbossa, sia di Angelo Sgarbossa. Dopo
aver consegnato i nostri dati anagrafici, io presi il nome di battaglia
di Ercole (scelsi quel nome perché stavo leggendo un libro su quel
mitico eroe forzuto), mio fratello Giuseppe il nome di battaglia di
Leo e Angelo quello di Sacripante.
Subito Fricco precisò che noi facevamo parte della brigata “Italia
libera”, poi parlò dei nostri doveri e dei nostri impegni. Dovevamo
tacere il più possibile e non fare confidenze a nessuno; eseguire
con accortezza e decisione solamente quello che stabilivano i
comandanti; aiutare comunque e ovunque ebrei, sbandati italiani,
soldati stranieri fuggiti dai campi di concentramento tedeschi, in
pratica aiutare tutti coloro che rifiutavano il nazifascismo o che da
questa forza erano ricercati.
Insistette molto sul silenzio, sulla volontà e sull’attenzione per non
incappare in fraintendimenti, negligenze e stratagemmi messi in atto
dai nemici. Frequentando gli ambienti partigiani a poco a poco mi
resi conto di come la Resistenza si andava formando e strutturando
nella mia zona, da Cittadella a Bassano del Grappa.
I gruppi di partigiani nascevano per la volontà di qualcuno che
di norma poi veniva eletto comandante. Le piccole formazioni
raggruppavano generalmente persone dello stesso paese, quelle
medie di paesi contermini, quelle grandi di province.
I comandanti erano di solito ex ufficiali dell’esercito o professionisti
che si distinguevano per le loro doti. Tutti noi partigiani avevamo un
nome di battaglia e si conoscevano i veri nomi solo di pochi, onde
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
evitare il pericolo, nel caso di essere fatti prigionieri e messi sotto
tortura, di rivelare da chi era formato il reparto di appartenenza.
Il nostro organigramma era quello dell’esercito italiano.
Si partiva dalla squadra e, a multipli di tre, si saliva al plotone,
compagnia, battaglione, brigata, per finire poi alla divisione.
Ogni nostro reparto si distingueva non da numeri, ma da nomi
di eroi, di luoghi o di persone celebri.
Il comandante di ogni gruppo era coadiuvato da una o più
persone a seconda del numero dei combattenti sottoposti. La
quantità dei facenti parte di ogni singolo reparto era variabile a
seconda degli aderenti. Talvolta le formazioni si differenziavano
per impostazioni politiche o strategiche diverse, creando qua e là
dei duplicati.
Così pure, per i gruppi che formavano i reparti più grandi, non
sempre l’organigramma si sviluppava con lo stesso ordine prima
accennato. A me toccò anche di vedere cambiato il nome del
reparto nel quale ero stato incardinato. Alla fine capii anche che la
mia brigata “Italia libera” era formata da apolitici che erano però
quasi tutti di formazione cattolica, come lo ero io. Nonostante
queste variabili i nostri reparti però furono sempre concordi nella
lotta contro i nazifascisti, aiutandosi spesso a vicenda.
Noi partigiani di pianura dividevamo il nostro tempo fra i lavori
in famiglia e i compiti che di volta in volta ci venivano assegnati
dal nostro comandante o dai responsabili politici dei vari CNL
(Comitato Nazionale di Liberazione) sorti nelle città e in molti
paesi. Quello di Cittadella fu molto importante ed era retto
dall’avvocato Gavino Sabadin che lavorò in modo fattivo non
solo nella mia città, ma anche in tutto il Veneto.
Mentre le nostre formazioni divenivano sempre più numerose,
entrarono nei nostri reparti anche alcuni disertori dell’esercito
di Mussolini. Erano persone motivate perché avevano fatto una
doppia scelta coraggiosa: diserzione dai nazifascisti e lotta contro
di essi. Costoro portarono con sé tutto ciò che avevano di armi
ed equipaggiamenti.
Durante il periodo della lotta partigiana io e mio fratello
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
105
partecipammo alle stesse azioni, perché eravamo dello stesso
plotone, però ci avevano assegnati a squadre diverse e in pratica
quasi sempre distanti fra noi: evidentemente il comandante non
voleva coinvolgere entrambi nei medesimi momenti e luoghi di
pericolo.
Staffetta
Poco dopo essere stato accolto fra i partigiani, mi fu assegnato il
compito di staffetta portaordini. Assieme a un altro giovane fui
incaricato di prelevare dall’ufficio di collocamento di Cittadella
un pacco per poi scambiarlo con un altro lungo il percorso che si
doveva fare. Il pacco ricevuto doveva essere poi fatto recapitare al
nostro comandante di battaglione.
Bisognava percorrere la strada Castelfranco Veneto – Vedelago
ove avremmo trovato il contatto con due ragazze. Partimmo
in bicicletta con gli zaini ove avevamo messo il pacco e degli
indumenti usati per dimostrare, se fermati da pattuglie
nazifasciste, che noi andavamo a portare assistenza a famiglie
bisognose.
Raggiunto un tratto di strada ove non c’erano case e occhi indiscreti
che ci scrutassero, ci fermammo e ci mettemmo a trafficare su
una bicicletta come se si fosse bucato un pneumatico.
Come si faceva una volta, rovesciammo la bici sul ciglio stradale e
levammo dalla sede dei cerchioni, usando le levette di dotazione,
copertone e pneumatico. Lavorammo lentamente scrutando
i radi passanti. Arrivarono due ragazze pure loro in bici, si
fermarono e ci chiesero se avevamo bisogno di aiuto, dissero nel
contempo la parola d’ordine; capimmo e rispondemmo a tono.
Scambiammo i plichi. Le ragazze ripartirono, noi riassettammo le
bici e gli zaini e ritornammo. Arrivati, con attenta circospezione,
consegnammo il plico a chi di dovere.
Eravamo contenti perché avevamo fatta la nostra prima azione,
con attenzione e con il risultato che era andata a buon fine:
personalmente pensavo di aver vinto il mio primo approccio con
la lotta contro i nazifascisti.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Preso di mira da due soldati tedeschi armati
Verso la fine dell’aprile 1944 ero sul cancello di casa dove abitavamo
e stavo andandomene da un amico, quando vidi due soldati tedeschi
di ronda armata in bicicletta, fermi a parlare con un anziano del
paese. Era costui una persona che io conoscevo appena, ma che era
noto per le sue sbronze e perché sapeva un po’ di lingua tedesca in
quanto aveva lavorato, da giovane, in miniera in Germania.
Io mi fermai e rimasi indeciso sulla strada Valsugana se continuare o
ritornare sui miei passi. Ad un tratto quelle tre persone si voltarono
verso di me. Sentii allora l’anziano esclamare a gran voce: “Quello
potrà essere un partigiano!”. I due soldati appoggiata la bici si
avviarono a piedi verso di me. Io, sapendo di non essere fornito di
una documentazione specifica per i controlli militari nazifascisti,
scappai a gambe levate.
Rientrai in cortile e uscii dal cancello opposto che menava in un
sentiero campestre parallelo alla roggia Munara, e presi la direzione
verso i campi aperti. I soldati mi corsero dietro, ma io li distanziai.
I soldati cominciarono a spararmi contro, io allora zigzagai fra gli
alberi, l’erba e una roggia. Costoro vedendo che ero troppo lontano
per colpirmi, ritornarono sui loro passi, ripresero le biciclette e mi
corsero dietro. Io ero sparito alla loro vista. Passando però vicino alla
casa di Fricco e temendo anche per lui, volli allertarlo. Saltai sulla
strada, la attraversai e riuscii a parlare con il mio capo plotone.
I soldati cominciarono di nuovo a sparare: tutt’e due ci infilammo
nei canaletti di irrigazione dei campi coltivati a erbaio: riuscimmo
a salvarci correndo a perdifiato e saltando qua e là. Arrivati presso
alcune case entrammo in quella a destra. Trovammo una signora che
al volo capì la nostra situazione. Ci prese per mano ci condusse dietro
una tettoia agricola, vedemmo un pollaio ove c’erano pulcini che
pigolavano entro una cassetta. Sollevò la cassetta, tolse un asse; sotto
c’era un piccolo rifugio ove ci nascondemmo. La signora risistemò
tutto e se ne tornò alle proprie faccende casalinghe. Non sentimmo
alcun rumore, restammo nascosti per alcune ore e alla fine la signora
venne a liberarci. Ci raccontò che i due soldati col fucile spianato
volevano sapere da lei dove erano andati i due partigiani.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
107
Lei, forse spaventata o forse ad arte, negò solamente scrollando la
testa. I Tedeschi con le baionette innestate infilzarono numerose
volte un mucchio di fieno colà raccolto nella barchessa. Alla fine le
chiesero per dove erano fuggiti i due partigiani, la signora indicò una
strada che portava a Laghi, una frazione opposta al luogo dove io
abitavo; i Tedeschi andarono velocemente in quella direzione.
Dovemmo molto a quella donna che si mostrò una vera patriota pronta
a rischiare di persona. Seppi poi dall’anziano zio Ernesto, residente
nel nostro caseggiato, che i due soldati, mentre nell’inseguimento si
trovavano ancora nel cortile di casa, vedendolo gli chiesero chi era
quello che scappava, lo zio rispose: “Non lo conosco”.
Tornato a casa sul tardi trovai i miei in apprensione, sia perché lo zio
aveva avvisato che io ero stato inseguito da soldati tedeschi, sia perché
una loro pattuglia era arrivata a casa nostra nel pomeriggio chiedendo
dove era una camicia celeste: rovistarono, ma non trovarono niente.
Avevano visto la mia camicia celeste mentre scappavo e avevano
cercato di ritrovarla: per fortuna ne avevo una sola di quel colore
e l’avevo addosso. Mia madre volle subito bruciare quella camicia,
tutti ne fummo contenti!
Maggio – giugno 1944
Nel mese di maggio mi fu assegnato un compito rischioso: custodire
per qualche tempo la ricetrasmittente del mio comandante Fricco.
Costui era un professore di matematica che aveva abitato a
Chicago, negli Stati Uniti, ove aveva frequentato le scuole primarie
e secondarie, e quindi conosceva molto bene l’inglese, tanto che il
suo nome di battaglia “Fricco”, come ho saputo più tardi, l’aveva
derivato da una parola inglese che vuol dire “capellone”.
Ritornata la famiglia in Italia si laureò a Padova.
Data questa sua particolare peculiarità egli era anche addetto a
tenere i contatti telefonici con gli anglo-americani, cosa che fece in
modo costante e ammirevole. Teneva la scatola delle apparecchiature
in una valigia vecchia che di soppiatto spostava qua e là, per non
farsi scoprire dai Tedeschi durante le trasmissioni, perché essi erano
forniti di macchinari speciali per localizzare i ricetrasmettitori.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
In quel periodo io facevo il custode notturno di una casa colonica fra
i campi che serviva saltuariamente da rifugio alla numerosa famiglia
dell’ing. Brunetta di Padova, proprietario della terra lavorata dalla
mia famiglia che l’aveva in affitto. Fricco venne a notte fonda e
armeggiò: trasmise e ricevette informazioni.
Fu così che fece per tre volte distanziate fra loro. L’ultima volta si portò
via la ricetrasmittente per nasconderla in un altro luogo. Io, anche
se ero presente e attento controllore per evitare sorprese inaspettate,
non capivo certamente la conversazione in lingua inglese, però
mi rimaneva la soddisfazione di partecipare direttamente a quelle
trasmissioni tanto necessarie sia per i rifornimenti d’armi fatti dagli
Americani, sia per dare indicazioni logistiche sugli spostamenti di
truppe tedesche. Mentre si infittivano le azioni di disturbo contro i
Tedeschi e repubblichini, si sviluppava anche la raccolta di armi, fatta
con colpi di mano soprattutto contro i fascisti, e venivano infoltiti i
reparti con nuove adesioni di volontari, sbandati e renitenti alle leve
mussoliniane fatte dal generale Graziani.
Nella nostra zona tra Cittadella e Bassano si erano formati anche
gruppi disarticolati dal resto: questo portò a sentire la necessità di
un nuovo coordinamento. Il 7 giugno sei responsabili dei nostri
reparti si riunirono a Cassola per studiare il da farsi. Il risultato fu di
raggruppare tutti i partigiani che operavano da noi nel battaglione
Silvio Pellico, a ricordo dell’eroe del nostro Risorgimento.
Ho saputo poi che fra quei sei comandanti c’erano due mie
conoscenze che risalivano all’anteguerra e che adesso ho il piacere
di ricordare: l’insegnante Albino Rebellato, detto Bino, prezioso
collaboratore dell’avvocato Gavino Sabadin capo del nostro CLN
(Comitato di Liberazione Nazionale), e Sante Bernardi, detto
Buonconsiglio, che era il comandante della mia compagnia e che
abitava poco lontano da me.
Comandante del nuovo battaglione fu nominato l’ufficiale chiamato
Negri, che si dimostrò un valido e capace organizzatore.
Fu stabilito anche che il battaglione Pellico si dedicasse principalmente
a eseguire sabotaggi, provvedendo nel contempo di avere come
collaboratore un esperto artificiere.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Luglio 1944: armi paracadutate
Nella notte dell’8 luglio partecipai, per la prima volta, alla raccolta
di numerosi colli, pieni di armi, lanciati dagli aerei Alleati. Lo
feci con entusiasmo perché molto motivato e perché ritenevo che
quel lancio fosse stato concordato in una trasmissione che il mio
comandante Fricco fece in mia presenza.
Il lancio notturno doveva essere fatto in un luogo isolato, sito a
cinque chilometri da Bassano del Grappa e a mezzo chilometro da
Cassola. Era stato scelto quel luogo, lontano da Bassano, soprattutto
perché in quella città erano dislocati soldati tedeschi e militi fascisti.
Sul punto precisato furono sparpagliati vari partigiani armati
perché i colli lanciati col paracadute dovevano essere parecchi e
bisognava recuperarli e se il caso difenderli. Purtroppo, a causa
di un forte vento e forse anche per la scura notte, i colli caddero
nell’abitato di Cassola.
Noi partigiani dovemmo correre il rischio di entrare
nell’agglomerato cittadino per raccoglierli. Fortunatamente in
quel paese non c’erano soldati nazifascisti di guardia e gli abitanti
che ci videro collaborarono.
I nostri comandanti, onde evitare sgradite sorprese, avevano
dislocate alcune pattuglie lungo le strade di accesso, perché dessero
l’allarme se vedevano pattuglie nazifasciste e per contrastarle. Io
e la maggioranza degli uomini raccogliemmo le pesanti sacche
e le trasportammo in un casolare disabitato sito in mezzo alla
campagna; naturalmente previo assenso del proprietario in modo
potesse destreggiarsi in caso di controlli dei nazifascisti. Finito il
lavoro quando albeggiava, fummo congedati. Restituimmo le armi
avute ai nostri capi plotone, come era ormai d’uso, e andammo
a riprenderci le biciclette, che avevamo nascoste qua e là, e che
avevamo usate per arrivare al punto designato per la raccolta. Io
avevo ricevuto una mitraglietta e una bomba a mano: diedi indietro
la mitraglietta e dimenticai la bomba. L’avevo messa nella tasca
dove tenevo la rivoltella da carabiniere, parecchio più pesante della
bomba; per cui lì per lì non percepii la differenza di peso derivante
dalla bomba a mano. Infatti questa era di alluminio e nell’esercito
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
veniva usata solo negli assalti quando si correva e se ne dovevano
lanciare parecchie per produrre scoppi, fumo e disorientamento. Per
informazione preciso che quelle di difesa, da lanciare nascosti da un
riparo, erano invece pesanti e producevano tante schegge di ferro per
ferire e uccidere. Proprio in quella mattinata arrivai verso le sette in
un crocevia della Valsugana, proprio dove c’era un raggruppamento
di case in quel di Cittadella, quando incappai in una ronda di due
soldati tedeschi.
Mi fermarono sul ciglio stradale, cominciarono a farmi domande
e a chiedere i documenti. Io non capivo ma intuivo, così tra gesti
e poche parole tirai per le lunghe. I soldati si spazientirono, diedi
allora a loro la carta d’identità. Proprio mentre uno di loro la
riceveva, sentii una forte voce che diceva: “Attilio, Attilio, cosa fai
qui?”. Era mia cugina Elia Marsan che apriva la finestra della sua
camera da letto e che dava una sbirciata sulla strada.
Subito la cugina capì le mie difficoltà, cominciò a parlare ad alta voce,
chiamando uno di quei due col nome di Jacob perché lo conosceva
giacché era alloggiato in quel rione e lei gli lavava la biancheria e
faceva lavori di cucito. Così si mise a dialogare con quei due soldati
un po’ in lingua tedesca e un po’ in dialetto. Giurò e spergiurò che
io ero un bravo ragazzo, che non facevo male a nessuno, nemmeno a
una mosca. Io approfittai di quei momenti che i Tedeschi erano rivolti
verso la cugina, così lestamente con astuzia lasciai cadere fra l’erba
del fosso laterale sia la bomba che la pistola rompendo la tasca dove
le tenevo. Dopo la chiacchierata, il soldato che era stato apostrofato
e che aveva in mano il mio documento, me lo rese dicendo: “Gut,
bene”; forse perché convinto o perché lui, anziano, non voleva creare
divergenze con la popolazione presso la quale viveva tranquillo.
Arrivato a casa pregai mia sorella Gina, che stava per uscire, di
andare dalla cugina Elia dicendole che avevo bisogno di parlarle.
A sera fonda venne da me, calorosamente la ringraziai di essere
venuta e, sapendo che lei faceva il doppio gioco coi Tedeschi per
informare il comandante Fricco, le spiegai dove avevo nascoste
le mie armi. Il giorno dopo a mezzogiorno mi portò pistola e
bomba a mano. Ringraziai Dio perché fino ad allora tutte le
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
111
coincidenze pericolose mi erano state favorevoli.
Poco dopo seppi che quelle armi che avevamo nascoste nel casolare
erano state prese in consegna dal mio comandante di battaglione,
che ne usò una parte per armare il nostro gruppo Silvio Pellico.
Le rimanenti furono consegnate a cinque squadre di sabotatori.
Battaglione Silvio Pellico
Il comando del nuovo battaglione Silvio Pellico si mise subito in
contatto con le formazioni della brigata “Italia Libera” sul massiccio
del Grappa, con le quali poi si mantenne sempre in relazione.
Intanto iniziarono le istruzioni per il maneggio degli esplosivi e per
imparare come e dove mettere le cariche di scoppio per ottenere gli
effetti maggiori. Il mio primo forte impatto con la lotta armata fu il
23 luglio 1944, quando ricevemmo l’ordine di sabotare la ferrovia
Padova – Bassano.
Di notte andammo e innescammo le cariche esplosive e riuscimmo
a far saltare in aria un bel po’ di binari, tanto che il transito fu
sospeso per due giorni.
Ben presto mi resi conto del valore di quel sabotaggio, che sulle prime
mi sembrava poco importante. Bassano del Grappa era diventata un
punto cardine dei nazifascisti, vi erano dislocate parecchie truppe per
rintuzzare le azioni dei partigiani e anche per difendere la caserma
Efrem Reatto, dove erano insediati un tribunale fascista e le prigioni,
il cui capo era un certo Perillo che dalle nostre parti era conosciuto
per il suo integralismo fascista. Quel nostro sabotaggio, poi seguito
da altri, aveva lo scopo di rallentare il trasporto dei condannati ai
lager tedeschi e il vettovagliamento alle truppe dislocate in città e
di creare diversivi per alleggerire le azioni di rastrellamento attorno
al Grappa sul cui massiccio vi erano parecchi patrioti. Infatti quel
monte, fornito di boschi e anfratti, offriva nascondigli ai fuggiaschi
e anche una certa quantità di viveri perché vi erano zone coltivate,
prati per il sostentamento di animali da latte, abitazioni e stalle, ove
vivevano montanari disponibili a dare aiuto.
Un po’ alla volta quei renitenti alle leve fasciste che si erano colà
nascosti si trasformarono in partigiani, formando vari gruppi
112
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
con i propri comandanti. Queste nuove formazioni non erano
isolate, ma erano organicamente coordinate con i vari battaglioni
e brigate esistenti in pianura. Infatti fra quei patrioti vi erano
plotoni inquadrati nella mia brigata “Italia libera”. Essendovi questi
collegamenti il mio vicecomandante di battaglione diede a più
riprese aiuti sostanziosi di viveri, armi e materiali a coloro che erano
sparpagliati sul Grappa.
Il 13 agosto fu per noi del Pellico un giorno doloroso perché
i nazifascisti arrestarono e imprigionarono a Bassano il nostro
comandante Negri: tememmo subito per la sua vita. Solo allora
seppi che il mio comandante era il tenente Ermenegildo Moro. Il
23 agosto successivo Bill fu nominato nostro nuovo comandante.
Bill, che prima era il vice, diede l’ordine di sabotare la ferrovia da
Cittadella a Belvedere della linea Bassano – Padova.
Non venne allargata questa azione per paura di eventuali
rappresaglie che potevano essere inflitte al comandante Negri da
poco catturato.
Il 6 settembre 1944 ricevemmo l’ordine dal CLN di Bassano di
recuperare a Tezze sul Brenta le scorte di cibo e materiali vari
(indumenti, prodotti sanitari, ecc.) offerti dalla popolazione e
ammassati in nascondigli, per rifornire le formazioni dislocate nel
territorio. Partimmo in circa 140, al comando di un comandante del
gruppo di Cartigliano, per andare nottetempo a prelevare quanto ci
avevano ordinato e anche per arrestare quattro fascisti che avevano
richiamato in zona i soldati tedeschi, impedendo così per tre volte i
lanci di rifornimento armi degli Alleati.
Ad azione ultimata, il comandante della mia compagnia Belvedere,
Bernardi Sante detto Buonconsiglio, ci fece marciare inquadrati per
rendere omaggio al monumento dei caduti e anche per incoraggiare
gli incerti: marciammo e cantammo alcuni inni dedicati alla libertà:
fu una vera sfida ai nazifascisti!
L’otto settembre 1944, primo anniversario dell’infausto armistizio
portatore in Italia di una enorme confusione sociale e politica,
la mia compagnia sabotò di nuovo la linea ferroviaria Padova
– Bassano, producendo gravi danni e distruggendo binari, scambi e
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
113
pali telegrafici. Questo colpo fece nascere in me la fiducia assoluta
che alla fine avremmo vinto in quanto i nazifascisti, nonostante
le loro dure repressioni, si dimostravano sempre più vulnerabili.
Il 17 settembre vi fu un articolato tentativo di sequestro di soldati
tedeschi di ronda notturna, dislocati a Villa Ca’ Dolfin di Rosà, per
scambiarli con due nostri attivisti fatti prigionieri mentre di notte
facevano volantinaggio per dissuadere i giovani dal rispondere alle leve
fasciste. Dato che noi non avevamo armi pesanti ed equipaggiamento
adatti per assaltare le prigioni e liberare i nostri compagni, il comando
pensò di catturare dei Tedeschi per lo scambio.
I Tedeschi facevano la ronda con autoblindo nel percorso fra i paesi di
Rosà, San Pietro, Tezze, Belvedere e Cusinati delle province di Padova
e Vicenza. Fu così che i tre plotoni della mia compagnia furono
dislocati in tre luoghi distanti fra loro, dato che l’autoblindo tedesca,
che faceva il giro, cambiava continuamente i punti di partenza e di
arrivo. I Tedeschi furono attaccati in un punto lontano una decina di
chilometri da Belvedere, dove si trovava il mio plotone.
Noi aspettammo un bel po’, poi ci fu recapitato l’ordine a mezzo
staffetta di ritornare alla base. Venimmo a sapere che l’imboscata
aveva avuto esito negativo per noi, tanto che tre nostri compagni
furono fatti prigionieri, anche se fu ferito un tedesco.
Fino al settembre 1944, il Pellico riuscì a sviluppare una trentina
di azioni militari, come poi precisarono i nostri comandanti. Noi
agivamo nei paesi: Belvedere, Tezze sul Brenta, Rossano Veneto,
Rosà, San Pietro di Rosà, Cassola, Ezzelino da Romano, Cartigliano,
Bassano del Grappa.
Ora voglio qui ricordare anche il battaglione Mazzini che, agendo
nei territori vicini ai nostri, si distinse per molte imprese. Lo cito
perché il comandante era Masaccio, eroe della Resistenza, persona
che ricordo con ammirata devozione, e del quale parlerò più avanti,
perché divenne poi mio comandante di brigata.
La battaglia del Grappa
Questo episodio di guerra fu molto importante per le sorti della
Resistenza nelle nostre zone dove io ero chiamato a operare.
114
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Lo sterminio fatto dai nazifascisti sul massiccio del Grappa dal 23
al 26 settembre 1944 portò rovinose conseguenze. Non ho certo la
pretesa di scrivere la storia di quei fatti eccezionali, anche perché
ormai tutto è consolidato e precisato in varie rievocazioni pubbliche.
Desidero solamente fare la cronaca di quello che ho visto e sentito
da vicino e di quanto la sorte mi ha portato a fare e conoscere.
È con umiltà di intenti che mi accingo a richiamare fatti e persone
che ne furono autorevoli e sfortunati protagonisti. È anche
con trepidazione e angoscia che parlo di quello che ha segnato
profondamente la mia vita di partigiano. Verso la fine del 1944,
fui molto vicino agli epiloghi perigliosi, ma la sorte volle che io
inconsapevolmente non ne fossi direttamente coinvolto, giacché per
ben tre volte, così io ritengo, mi fu salva la vita solo per coincidenze
occasionali.
Dalle nostre parti, come già detto, molti renitenti si rifugiarono sul
Grappa: tra questi giovani renitenti vi fu anche un mio conoscente.
Costui prima di salire sul monte venne da me dicendomi che il
mio comandante Fricco lo aveva consigliato di procurarsi prima
un’arma, perché sul Grappa non c’erano distribuzioni di armi,
poiché scarseggiavano. Gli aveva detto anche che io avevo una
pistola personale e che avrei potuto dargliela. Convinto dalle sue
parole che mi chiarirono come quel giovane conoscesse a fondo la
organizzazione del mio plotone, gliela consegnai senza resistenza
anche perché nelle varie azioni militari noi partigiani di pianura
venivamo riforniti, di volta in volta, di armi e munizioni più potenti
di una rivoltella.
Quel conoscente salì sul Grappa, lottò contro i nazifascisti, fu
rastrellato e impiccato nell’eccidio del settembre 1944. Al riguardo
seppi poi che, durante il supplizio, per ben due volte si ruppe la
corda del suo capestro e che solo alla terza volta il boia impietoso
riuscì a compiere la sua nefanda opera.
I giovani rifugiati sul Grappa furono inquadrati, oltre che nella
mia brigata “Italia libera”, come già detto, anche in altre, a seconda
delle disposizioni d’animo o amicizie di ciascuno. Vi furono
brigate: Garibaldi – Gramsci, Matteotti, Archeson e Campo Croce
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
115
che erano filiazioni di “Italia libera”.
Tra quei partigiani vi erano anche soldati degli eserciti alleati, fuggiti
dai campi di concentramento. Costoro però facevano riferimento
alla Commissione Inglese che si trovava in pianura diretta da
ufficiali inglesi. Intanto continuava quel mordi e fuggi sulle vie di
comunicazione in pianura, per danneggiare i trasporti nord – sud,
azioni che rinvigorivano i ranghi della Resistenza per la loro efficacia
e che nel contempo mettevano sempre più in pericolo i presidii
nazifascisti del territorio, tanto che il comando tedesco stabilì di
eliminare in modo radicale quella situazione.
Visto che il Massiccio del Grappa era il punto di forza e il centro
principale dei partigiani, stabilì di fare un rastrellamento a tappeto
di quella zona per dare un colpo mortale alle formazioni partigiane.
All’inizio del settembre 1944, i Tedeschi pertanto cominciarono
ad ammassare uomini e mezzi per sferrare un attacco a tenaglia
investendo un ampio fronte. I comandi partigiani subito ne furono
informati, poi se ne resero conto anche perché i nazifascisti con
ingenti forze rastrellarono il Cansiglio che era una porta di fuga
per i difensori del Grappa. Mentre i Tedeschi e i repubblichini di
Salò ammassavano truppe alla base, i comandanti del Grappa si
predisponevano per la difesa del Massiccio.
Capitò che i reparti della mia divisione “Italia libera” appostati in
montagna chiesero aiuto col radiotelefono a Fricco, comandante
del mio plotone che agiva in pianura. Fricco, uomo pieno di
ardore, ma nel contempo lucido osservatore degli sviluppi bellici,
volle controllare prima di persona come era la situazione. Salì sul
Monte Grappa, ma prima avvisò alcuni di noi perché facessero il
passaparola di riunirci in una sera stabilita in una certa zona, ora
e luogo precisati, per partire equipaggiati di armi e viveri in aiuto
degli amici difensori del Grappa. All’ora stabilita Fricco si presentò
a noi tutto mesto, con i segni del dolore stampati in faccia: non
si poteva salire, bisognava ritornare a casa. Più tardi seppi che lui,
accompagnato da uno del luogo, perlustrò il fronte. Vide che i
nazifascisti avevano iniziato l’accerchiamento, constatò l’imponente
numero di uomini, armi e automezzi che avevano gli attaccanti, vide
116
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
squadroni di ucraini delle SS, battaglioni fascisti, soldati di varie
specialità; al contrario verificò che i nostri commilitoni partigiani
non avevano cannoni e mortai, ma solo armi leggere, rilevò che le
postazioni approntate erano assolutamente modeste, si convinse
che l’aiuto di pochi uomini, sprovvisti di armamento pesante, non
avrebbe modificato in alcun modo l’esito dello scontro. Se ne tornò
sconsolato anche perché riuscì a uscire da quel campo di battaglia
solo perché gli fece da guida uno che conosceva tutti gli anfratti di
quei luoghi.
Molto più tardi venni anche a conoscenza che il comandante
del battaglione Mazzini, Masaccio, che si trovava in pianura, fu
informato da una donna, che faceva il doppio gioco, di quanto
stavano preparando i Tedeschi per eliminare il nodo dei partigiani
sul Grappa. Salì subito e consigliò il Comitato, che raggruppava
i comandanti dei vari reparti dislocati nel Massiccio, come è
precisato in alcuni comunicati, di fare una lotta di movimento,
con ritirate strategiche per salvare quanto più possibile gli uomini
impegnati. Qualcuno del Comitato propose anche di abbandonare
temporaneamente il Grappa perché di facile accerchiamento.
La maggioranza dei comandanti però fu per la guerra di posizione
e di resistenza a oltranza. Questo fu dovuto al fatto che un
rappresentante della Missione inglese assicurò rifornimenti di armi
pesanti, a mezzo di una superfortezza volante, e che era imminente
uno sbarco di accerchiamento dei marines nell’alto Adriatico,
per cui il Grappa sarebbe stato una valida testa di ponte. Questa
dichiarazione fu poi ritenuta sconcertante perché non ebbe seguito.
Dopo molti anni si venne invece a sapere che effettivamente il
primo ministro inglese Churchill, nel 1944, patrocinava uno sbarco
nel Veneto, presso Caorle, e un lancio di paracadutisti nella zona del
Grappa.
Questa azione era prevista per tagliare la ritirata dall’Italia delle
truppe tedesche, prima che le armate russe arrivassero in Jugoslavia,
per sottrarre quel paese al comunismo. Gli Americani invece
preferirono lo sbarco in Normandia. La mancanza di validi aiuti per
i nostri partigiani del Grappa produsse una conseguenza nefasta.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
117
Tutti noi sapemmo subito che le truppe d’assalto nazifasciste
erano formate da parecchi soldati, ma nessuno pensava fosse
così imponente il numero. La storiografia precisa che erano
quindicimila, perfettamente armati anche di cannoni, per snidare
meno di millecinquecento patrioti poco armati. Certamente nessun
comandante partigiano, né lo stratega alleato che consigliò la
resistenza ad oltranza, pensarono a una così marcata sproporzione di
uno contro dieci. L’impari lotta durò dal 23 al 26 settembre 1944 e
in quel teatro di guerra ben pochi riuscirono a salvarsi.
Vi fu un tremendo eccidio e quei partigiani furono da subito
chiamati “Martiri del Grappa”. Se io avessi ricevuto l’ordine di
partire, certamente non sarei qui a parlare di quella lotta!
La sorte volle che il Grappa, già famoso per le battaglie della Prima
Guerra Mondiale, divenisse anche per la Seconda luogo di scontri
eroici e di morti gloriose. La storiografia ha scritto che quei quattro
epici giorni del settembre 1944 portarono un risultato terrificante:
171 impiccati, 603 fucilati, 804 deportati nei lager tedeschi, dei quali
600 morirono in Germania, 285 case e stalle date alle fiamme.
Quei soldati delle SS, che erano volontari stranieri, e quei militi
fascisti che erano invece italiani, unitamente ai loro superiori si
dimostrarono colmi di una disumanità sconcertante.
Proprio il 26 settembre 1944, fatidico giorno finale dell’eccidio,
quando ancora l’esito della battaglia non era di dominio pubblico,
mi successe un fatto che non ho mai dimenticato. Verso le sette e
trenta di mattina si presentò a casa mia il camilliano padre Odone
Nicolini, che io ben conoscevo. Mi chiese se potevo accompagnarlo
in bicicletta a Bassano del Grappa: accettai e partimmo. Fu per
me un giorno di tensione e di paura che superai solo perché quel
religioso mi confortò con la sua forza d’animo sacerdotale veramente
edificante. Di questo episodio parlerò più avanti nel capitolo che
riguarda il frate camilliano.
Conseguenze della rovinosa battaglia del Grappa
La battaglia del Grappa fu una tremenda lezione per noi partigiani
e un forte monito per gli Alleati. Molti nostri comandanti si
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
convinsero della necessità di un coordinamento generale per creare
una articolata capacità di sostegni vicendevoli; gli Alleati si resero
conto che gli Italiani erano sì disposti alla lotta, ma che avevano
bisogno di armamenti: fu così che intensificarono i lanci di armi ed
esplosivi e non fecero più promesse.
La disfatta del Grappa portò un forte inasprimento dei controlli
nazifascisti specialmente nelle nostre contrade poste alla base delle
Prealpi, dove io vivevo. La Gestapo, la polizia segreta di Hitler,
certamente si era accorta che quasi tutti i prigionieri del Grappa
provenivano dai paesi contermini. In aggiunta poi, forse vi fu qualche
notizia compromettente trovata nelle tasche dei reclusi e sicuramente
vi furono delle confessioni estorte con bastonature a sangue. Tutte
quelle rivelazioni spinsero il Comando tedesco a fare continui controlli
sul nostro territorio. Riuscirono a sequestrare armi e a imprigionare
i comandanti di alcuni reparti: dovemmo limitare le nostre azioni di
sabotaggio, però aumentarono le nostre ricognizioni sui movimenti
delle truppe nazifasciste.
Uno dei primi giorni dell’ottobre 1944, verso l’imbrunire, partecipai
a una azione contro una colonna di cinque o sei camion portatruppe,
pieni di soldati tedeschi armati. Il mio comandante di compagnia,
Buonconsiglio, era stato informato dell’itinerario che doveva fare quel
convoglio sulla strada Valsugana, in località Belvedere. Preparò un
agguato. In zona aperta vi era la Villa Ca’ Dolce posta entro un grande
parco cintato. Il comandante Buonconsiglio, io e altri due partigiani
ci nascondemmo all’interno delle mura che fiancheggiavano la strada.
Eravamo forniti di grossi chiodi a tre punte e ci mettemmo distanziati
nel bosco su un lungo tratto di strada. Lasciammo passare i due
motociclisti di staffetta e poi gettammo i chiodi. Almeno tre camion
si fermarono. Scappando verso l’aperta campagna sentimmo grida e
imprecazioni.
Pochi giorni dopo fui ricercato da una pattuglia tedesca. Fui però
fortunato perché una omonimia mi salvò. In paese poco lontano da
me abitava un altro Attilio Bizzotto, mio lontano parente che aveva
pressappoco la mia stessa età. Una pattuglia di soldati tedeschi si
presentò nella casa dell’altro Attilio per arrestarlo. Trovarono solo la
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
119
madre la quale spiegò ai soldati che il figlio lavorava da meccanico
sotto una ditta tedesca. Sicuramente quei soldati controllarono
e certamente pensarono che il nome Attilio Bizzotto fosse stato
erroneamente incluso nelle liste di arresto. Infatti nessuno poi venne
a cercarmi.
Subito mio padre venne a sapere di quella ricerca, io perciò divenni
sempre più vigile ed attento nel tenermi lontano dai soldati tedeschi
per evitare ogni controllo.
Il 18 ottobre i Tedeschi catturarono il mio comandante di compagnia
Sante Bernardi detto Buonconsiglio. Io, che vivevo alla macchia,
vidi da lontano come lo presero: lo snidarono bruciando totalmente
tutta la casa e le adiacenze. Fu condotto nella vicina Ca’ Dolfin dove
c’era una prigione e dove facevano i primi interrogatori. Poco dopo
prelevarono dalle loro case il mio comandante Erminio Sgarbossa
detto Fricco, e anche mio fratello Giuseppe; pure essi furono portati
a Ca’ Dolfin.
Visti quei continui imprigionamenti io, su consiglio di padre Nicolini,
iniziai a lavorare per i Tedeschi.
Lo stesso consiglio lo ricevettero anche due miei cugini, Galiano
Bizzotto e Angelo Sgarbossa. Fu così che per alcune settimane
facemmo i boscaioli a Lonigo, assieme a una dozzina di cittadellesi.
L’abbiamo fatto per avere il tesserino che ci permetteva girare in
tranquillità, senza pericoli di arresti, e svolgere nel contempo quelle
incombenze che i nuovi comandanti partigiani ci assegnavano.
Nei boschi tagliammo e sfrondammo, con sega ed ascia, quegli alberi
che i soldati tedeschi di guardia ci indicavano. Era un lavoro che
conoscevo personalmente perché d’inverno lo facevo nei campi di
famiglia. Fra quei soldati di guardia c’era un anziano che sicuramente
era un esperto di quel mestiere e che mi prese subito a ben volere, visto
come io sapevo ben maneggiare ascia e sega; fu così che mi chiamava
quando c’erano tagli rischiosi.
Noi vivevamo in baracca e avevamo a disposizione cibo e vino.
Successe che un giorno il mio parente Galiano Bizzotto bevve più del
solito e si ubriacò. Cominciò a chiamare “cruchi” i Tedeschi, i quali
sapevano che era una parola italiana offensiva per loro.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Uno della guardia lo prese, lo portò nel suo ufficio forse per punirlo o
per denunciarlo. Io allora ricorsi al tedesco che mi portava simpatia e
gli spiegai, come potevo, che il parente era ubriaco e che non sapeva
quel che diceva. Fortunatamente costui si interpose, spiegò che la
causa era il troppo vino bevuto: il parente fu rilasciato.
In quel torno di tempo si distinse nel tenerci un po’ allegri, l’altro mio
cugino Angelo Sgarbossa.
Egli era un insegnante, era l’organista della chiesa, amava dir facezie
e organizzare commedie: ci tenne un po’ distesi con le sue trovate.
Finito il lavoro, dopo alcune settimane ci rimandarono a casa senza
però ritirarci il tesserino, forse perché pensavano di richiamarci, invece
fortunatamente non ci chiamarono più a far lavori. Intanto mio padre
e la cugina Clara Sgarbossa giornalmente andavano a Ca’ Dolfin in
bici per portare da mangiare ai reclusi Giuseppe ed Erminio.
I contenitori dei cibi erano dei pentolini speciali di lamiera smaltata,
allora molto usati dagli operai che pranzavano sul posto di lavoro.
Erano di forma piatta, oblunga e avevano la capacità di circa un litro.
Sopra avevano infilata a cannocchiale una scodellina: in pratica si
versava sotto la minestra, sopra nella scodellina il companatico.
Il pentolino aveva un coperchio, che serrava ermeticamente il
contenuto, ed era manovrato da un grosso pomolo. Questo non era
avvitato o saldato ma stampato col restante, per cui aveva all’interno
una cavità e un foro. Qui mio padre e la Clara nascondevano i
messaggi, oggi diremmo i “pizzini”, e chiudevano il foro con mollica.
Le varie ispezioni non riuscirono mai a trovare alcunché perché il
pentolino prima di partire veniva immerso per vario tempo in acqua
calda, non solo per riscaldare il cibo, ma anche per provocare una forte
evaporazione che formava all’interno un velo continuo di goccioline. In
aggiunta poi portavano anche tabacco trinciato e cartine per sigarette:
allora era molto comune arrotolare da sé le cartine per farsi le sigarette.
Il trinciato lo ricavavamo dalle foglie di tabacco che andavamo a
comperare nei paesetti dell’alto Brenta e che sminuzzavamo con le
forbici da potare le viti. Tutto questo era per creare un forte legame coi
reclusi perché essi si sentissero sorretti dall’amore dei parenti. Dopo
alcune settimane mio fratello fu liberato, il cugino Fricco invece fu
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
121
mandato a Vicenza nella prigione di San Biagio, luogo dove io poi
accompagnai varie volte il padre Nicolini.
Tra ottobre e novembre 1944 mi capitò un fatto che avrei voluto
finisse in modo migliore. Una mattina, ritornando dalla casa
dell’ingegnere Brunetta che custodivo, entrando nella nostra stalla
mi si pararono davanti due soldati nazisti della SS: stavano parlando
col cugino Galiano perché cercavano un soldato inglese che era
fuggito dal campo di concentramento e l’avevano visto aggirarsi nei
nostri paraggi. Non mi inquisirono perché mostrai il tesserino di
lavoro rilasciatomi dai Tedeschi, però pretesero che io aprissi tutte le
porte che essi vedevano: ispezionarono dappertutto. Non trovarono
il soldato e se ne partirono con le loro motociclette, visibilmente
contrariati. Quando cessò il rumore dei motori Galiano mi disse:
”Ce la siamo cavata bene” e, senza profferir parola, mi condusse in
un localetto defilato che noi usavamo come cantina. Aperta la porta
vidi un soldato inglese a cavalcioni di una botte. Si cominciò a parlare
con mezze parole e molti gesti. Mi parve in affanno e così cercai di
fargli capire che andavo a prendergli dei viveri. Credendo di essermi
spiegato, io e Galiano andammo nella mia cucina a fare i prelievi.
Ritornati con un pacchetto di pane, salame e vino, non lo trovammo:
era fuggito. Rimasi sconcertato, io ce l’avevo messa tutta per dirgli che
eravamo amici e che gli avrei procurato del cibo per aiutarlo nella fuga
verso i boschi montani, ma non ero riuscito a spiegarmi!
Inverno 1944 – 1945
La perdita del Grappa e i successivi rastrellamenti di uomini e armi
spinsero i comandanti superstiti a riorganizzare i resti dei reparti
rimasti. Fu così che Masaccio, comandante del battaglione Mazzini,
all’inizio di ottobre riuscì a riunire i vari gruppi nella nuova brigata
“I Martiri del Grappa”. Il comandante eletto fu Masaccio stesso, io
divenni membro di questa nuova formazione perché vi confluirono
i resti di “Italia libera”. Furono intensificati i collegamenti con gli
Alleati e questi, certamente convinti di non aver dato sufficienti aiuti
prima della battaglia del Grappa, risposero con massicci aviolanci
soprattutto di esplosivi. Iniziarono metodici e mirati sabotaggi per
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
disarticolare i rifornimenti alle truppe nazifasciste, per creare panico
e disorientamento fra le truppe che controllavano il territorio e anche
per infervorare i patrioti.
Mentre infuriava la lotta senza quartiere contro i nazifascisti, l’8
febbraio 1945 divenne realtà quello che vari comandanti partigiani
auspicavano da tempo: la creazione di un Comando Unico Veneto.
Ben sei brigate, prima operanti in modo autonomo, e fra queste la
“Martiri del Grappa”, furono unificate nella nuova divisione “Monte
Grappa”. Per il comando fu chiamato un colonnello dell’ex esercito
italiano che era fuggito dai lager tedeschi e si era rifugiato nelle prealpi
venete: egli prese il nome di battaglia Pizzoni.
Contemporaneamente fu istituito il CLNV (Comitato di Liberazione
Nazionale del Veneto) formato da rappresentanti di tutti i partiti di
allora (DC – PCI – PSI – PLI – PRI – PdA), il cui capo divenne
l’avv. Gavino Sabadin. La nuova direzione impresse da subito una
dinamicità organica e simultanea tale da disorientare i Tedeschi
dissuadendoli dal ricorrere a ritorsioni sistematiche.
La forte pressione contro i Tedeschi e i fascisti risvegliò in molti
giovani l’amore alla libertà, per cui sorsero nuovi gruppi pronti alla
lotta. Mi fa piacere ora ricordare che il mio concittadino avv. Gavino
Sabadin riuscì a favorire la formazione di un gruppo di tre brigate che
egli denominò tutte “Damiano Chiesa”.
Il più famoso e spettacolare caso di sabotaggio fu quello contro il
ponte vecchio di Bassano il cosiddetto ponte degli alpini, che era
l’unico ponte rimasto in piedi sul fiume Brenta, dopo che gli Alleati
avevano distrutto tutti gli altri con bombardamenti aerei.
Questo attacco fu fatto dalla mia Brigata Martiri del Grappa, su ordine
del Comando Unico Veneto, e di esso parlerò dettagliatamente nel
capitolo Masaccio. Mentre succedevano questi fatti io ero fortemente
impegnato nel porgere aiuti alla famiglia del mio comandante
di plotone Fricco. Suo padre, mio zio, conduceva e lavorava
personalmente un podere di una decina di campi forniti di una stalla
con quattro bovini. Quando Fricco fu imprigionato, nell’ottobre, suo
padre cominciò a deperire essendo fortemente inquieto perché erano
note le mortali bastonature a sangue usate dagli inquirenti.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
123
Il sei gennaio del 1945 morì di crepacuore. Io che avevo già iniziato
ad aiutarlo alle prime avvisaglie della malattia, sentii l’obbligo morale
di assumermi tutti i lavori agricoli della famiglia di Fricco. L’ho fatto
anche perché i miei fratelli Gaspare e Giuseppe, pur continuando a
fare il loro mestiere di falegname, davano un aiuto a mio padre nei
lavori agricoli. I fratelli del cugino erano invece scolari o studenti. Fu
così che ogni giorno governavo la stalla, mungevo le vacche, lavoravo
i campi; poi, quando potevo, davo anche una mano a mio padre nella
nostra stalla: ovvero la giornata piena di lavoro.
Alla morte dello zio Agostino Sgarbossa, il camilliano Odone Nicolini
volle di persona avvisare il figlio Erminio perché era molto amico di
tutta la famiglia. Io lo accompagnai in bici fino alle prigioni di Vicenza.
Non partecipai al colloquio del sacerdote col prigioniero, però nel
ritorno il Nicolini mi disse come erano andate le cose. Dopo aver
confortato il detenuto, Nicolini si rivolse al dirigente della prigione
esprimendogli il desiderio di tutti i parenti che chiedevano la presenza
del figlio ai funerali. La prima risposta fu un no, poi dialogando e
insistendo Nicolini ottenne la proposta di lasciarlo partire, purché
fosse stato accompagnato da due soldati della SS, ma Fricco non
accettò quella proposta.
Talvolta dopo il lavoro diurno mi fermavo dalla zia fino a tardi e spesso
a dormire là, per ascoltare radio Londra, andando in una casa vicina
posta in mezzo ai campi, dalla quale si poteva controllare se arrivavano
le ispezioni, proprio come facevo prima quando il comandante Fricco
era libero. Rimanevo di notte dagli Sgarbossa anche perché la zia e
i cugini avevano paura, e la presenza di un uomo giovane dava loro
coraggio. Io poi continuavo a tenermi informato delle azioni militari
partigiane dai vecchi amici, anche se non ero direttamente chiamato
dai miei comandanti, giacché sapevano delle mie gravose incombenze,
d’altra parte i partigiani più impegnati erano gli artificieri. Venni anche
a sapere che, nonostante la mancanza di Fricco, i contatti radio erano
aumentati come anche i rifornimenti che piovevano dal cielo. Fu allora
che mi tornò alla mente una frase detta da Fricco quando alla sera
andavo da lui per ascoltare radio Londra e/o ricevere ordini. Una volta
improvvisamente disse: “I fratelli Rocco fanno un buon lavoro”.
124
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Lì per lì non feci nessun collegamento con la radiotelefonia della
Resistenza, poi lentamente mi resi conto che i Rocco lavoravano
nei collegamenti con gli Alleati. Sulle prime io ritenevo che da noi
i contatti con gli angloamericani fossero tenuti solamente da Fricco,
anche perché come ho già detto ero stato presente ad alcune sue
trasmissioni in inglese; poi però, quando Fricco fu imprigionato e
sentendo che i collegamenti continuavano capii che questi erano
opera dei fratelli Rocco, Angelo e Elio. Ho tratto questa conclusione
perché sapevo che Angelo era un radiotelegrafista dei sommergibili.
Io e i Rocco abitavamo vicini e prima della guerra ho giocato con
Elio, il più giovane, che era mio coetaneo: io abitavo a Ca’ Moro,
loro a Belvedere, due frazioni contermini però con comuni e province
diverse. Mio papà quando, andava nella filanda sita a Belvedere, io lo
accompagnavo. Là trovavo Elio Rocco, perché suo padre era uno della
filanda, e così giocavamo assieme.
Dopo la guerra non li ho più visti, ma venni a conoscere la loro grande
e utile attività svolta per i partigiani del nord – est. Il loro gruppo
d’azione era chiamato Missione MRS (Mazzini Rocco Service) sul
quale ho ricevuto poi delle precisazioni. Il Marini si chiamava Renato,
era di Padova, e prestava il suo servizio come ufficiale dell’aviazione.
Costui e Angelo Rocco si trovavano al Sud d’Italia quando gli Alleati
la invasero. Si misero subito a disposizione degli angloamericani che,
nell’ottobre 1943, li trasportarono via mare fino a S. Benedetto del
Tronto, dove nottetempo sbarcarono con ricetrasmittenti. Saliti
lentamente al nord arrivarono nella nostra zona. Contattarono l’avv.
Sabadin di Cittadella e iniziarono la loro preziosa opera informativa
assieme a Elio Rocco ed altri.
A poco a poco l’attività si estese in varie parti delle province di
Vicenza, Treviso, Venezia, Padova. Queste trasmissioni davano forti
preoccupazioni ai Tedeschi e le SS tentarono parecchie volte di
interromperle facendo perquisizioni per scovare le apparecchiature.
Arrivarono perfino a fare un blitz nella Basilica del Santo a Padova che
godeva anche allora del privilegio di extraterritorialità.
Ai fratelli Rocco e al Marini fu concessa la medaglia d’argento al valor
militare.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
125
Aprile 1945
Per noi della divisione Monte Grappa fu il mese della riscossa
generale, perché si riuscì a risolvere situazioni precarie e pericolose
prima dell’arrivo delle armate alleate nelle nostre terre. Si sapeva
da Radio Londra che ai primi di aprile 1945 l’esercito russo era
arrivato ai confini dell’Austria, allora regione annessa al Grossreich
hitleriano, e che gli Alleati partiti dal sud Italia stavano per arrivare
al nostro fiume Po. Così pure si sapeva che tutto il territorio
germanico era sottoposto a una violenta pressione delle armate
alleate sul fronte ovest e di quelle russe sul fronte est. Ormai le
reazioni dei nazifascisti ai vari e continui sabotaggi erano deboli
e non venivano più puniti con feroci rappresaglie: forse sentivano
ormai imminente il loro sfacelo. Io che avevo vissuto appartato nei
primi mesi del 1945, svolgendo pesanti impegni parentali, sentii
dentro il mio spirito l’urgente bisogno di fare qualcosa per la Libertà
come negli anni precedenti. Così mi presentai al CLN di Cittadella
per essere impegnato in qualche azione della Resistenza. Gli eventi
di quella seconda metà di aprile furono un susseguirsi di piccoli e
grandi episodi che ho vissuto in modo esaltante tanto da non fissare
completamente nei ricordi tutti i nomi e le date che caratterizzarono
quei giorni. In quel torno di tempo venni a sapere che il mio primo
comandante Negri era arrivato a casa e che partecipava alle battaglie
finali. Il Negri, imprigionato, bastonato e condannato a morte
dal tribunale fascista di Bassano, fu fortunosamente prima posto
in carcere duro e poi inviato nei lager nazisti. Fu mandato in un
campo di concentramento del sud – est della Germania, in pratica
nell’Austria orientale, dove arrivarono ai primi di aprile le armate
russe così tutti i prigionieri furono liberi. Negri, sempre molto
determinato, si mise in cammino e presto arrivò a casa.
Soprattutto nella seconda metà di quell’aprile i partigiani scatenarono
una diffusa guerriglia tra il Brenta e il Piave. Riuscirono a cacciare o
a fare prigionieri tedeschi e fascisti. Qua e là reparti repubblichini,
per rifarsi una verginità, affiancarono i partigiani.
Il 28 aprile fu un giorno cruciale per Cittadella e, per meglio capire
gli eventi, mi permetto fare delle precisazioni topografiche sulla mia
126
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
città. Essa aveva e ha il centro storico con numerosi abitanti cintato
completamente da mura medioevali, con tutto attorno varie frazioni
tra le quali Ca’ Moro luogo della mia residenza. Entro le mura vi era
la vita pulsante di tutto il Comune con la sede municipale. Quando
ancora non esistevano le attuali numerose autostrade, Cittadella era
uno snodo stradale di importanti vie di comunicazione. Da sud a
nord è attraversata dalla Statale Padova-Trento e da ovest a est da
quella che collega Vicenza a Treviso.
Quel giorno ventotto fu per noi cittadellesi pieno di tragiche paure
che io ho vissuto da vicino.
Il CLN ormai governava il centro storico e aveva provveduto per la
sua difesa. Le porte delle mura erano sbarrate da tronchi di alberi,
cavalli di frisia e sacchetti di sabbia, là erano dislocate pattuglie di
controllo, come anche sulle mura. Proprio quella mattina passai
prima a chiedere notizie di Erminio, mio capo plotone imprigionato
a Vicenza, poi andai in municipio per mettermi a disposizione
del CLN che vi risiedeva. Per primo incontrai Bino Rebellato,
comandante partigiano, che alla mia richiesta di come andavano
le cose, scosse energicamente la testa: lo vidi molto preoccupato.
Dalle varie staffette che arrivavano e partivano venni a sapere che
una lunga colonna di truppe tedesche con camion e carri armati
era in marcia di avvicinamento da Padova verso di noi. La colonna
poi si era fermata a Ca’ Nave, a pochi chilometri dal centro, e da
là fu inviato in avanscoperta un reparto che si presentò nel primo
pomeriggio alla porta Padova del castello. Dopo aver appostato
alcuni plotoni di fucilieri e un cannone, un sottufficiale tedesco
superò i primi sbarramenti, ma fu fermato da un patriota armato
con un fucile mitragliatore.
Era costui il partigiano avvocato Carmelio Conz che era stato
liberato il giorno prima dalle carceri di Padova, dopo tre mesi di
reclusione, e che era ritornato a casa. In quella mattina stessa si era
messo a disposizione del CLN, che l’aveva direttamente incaricato
di andare a presiedere porta Padova, dove avrebbe trovati altri
partigiani, consegnandogli armi e munizioni.
Conz iniziò un dialogo col tedesco fatto di mezze parole e di molti
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
127
gesti, mentre nel contempo mandò una staffetta a cercare padre
Nicolini che era il consueto interlocutore con i Tedeschi. Il fatto era
che i Tedeschi volevano entrare entro le mura senza combattere, sia
perché quello era un luogo che si prestava a una eventuale difesa, sia
perché dovevano congiungersi là con altre due colonne provenienti
da est e ovest per formare poi un fronte di sbarramento nella vicina
Fontaniva, a sinistra del Brenta. Nell’attesa dell’arrivo dell’interprete
furono precisati i motivi del contendere: i Tedeschi volevano entrare
nel centro città. Conz rispose che era cosa impossibile perché era
presieduto da duemila uomini armati e che se i Tedeschi volevano
andare verso nord, dovevano girare attorno alle mura.
Col Nicolini poi il dialogo si fece serrato. Intanto un ufficiale tedesco
chiese anche la presenza al dialogo del Sig. Angelo Pasquale, del quale
conosceva la probità, per essere rassicurato sulla veridicità di quanto
veniva detto. Quell’ufficiale conosceva bene il Pasquale perché costui,
avendo una fabbrica di liquori, andava di persona in Germania a
comperare le essenze che gli abbisognavano e ogni volta soggiornava
nell’albergo gestito dal padre di quel tenente. Arrivò per partecipare
alla discussione anche il generale comandante delle truppe ferme
sulla strada per Cittadella. Costui poco dopo però venne a sapere
per radiotelefono che la divisione proveniente da Ovest, sulla strada
Vicenza – Cittadella, era stata attaccata e fermata dai partigiani prima
di arrivare alla riva destra del Brenta, cioè prima di Fontaniva.
Volle andare a controllare di persona: capì che le due colonne non
potevano riunirsi, accettò le proposte fattegli a mezzo di padre
Nicolini. Il giorno 28 stava per finire.
I Tedeschi passarono al di fuori delle mura verso nord, i partigiani non
fecero alcun attacco e ai Tedeschi furono restituiti quella quarantina
di soldati e ufficiali che erano stati imprigionati durante la liberazione
del centro storico. Noi cittadellesi avevamo superato il pericolo di
essere prima bombardati dai Tedeschi, che volevano entrare nella
roccaforte, e poi dagli Alleati che avrebbero sicuramente bombardato
pesantemente Fontaniva e Cittadella, se i Tedeschi fossero riusciti ad
attestarsi sul Brenta. Finalmente passò l’incubo e io tornai a casa.
Se qualcuno poi volesse sapere in toto lo sviluppo di quelle trattative,
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
può leggerle nel libro di Guerrino Citton “Il prete partigiano” (che è
padre Odone Nicolini) da pagina 257 a pagina 268.
Il giorno dopo ritornai dai cugini per andare assieme a prelevare
Erminio dalle prigioni di San Biagio a Vicenza. Avevo pensato
che Vicenza fosse stata liberata, perché la colonna tedesca era stata
fermata dai partigiani a vari chilometri da quella città proprio sui
confini della provincia di Padova.
Andammo in bici io, Clara e qualche amico. Arrivati vedemmo
uscire dal portone delle prigioni un gruppetto di detenuti, fra questi
Erminio. Che gioia! Teneva in mano solo un oggetto che poi capii
essere di mollica di pane rafferma sostenuta da stecchini: lo aveva
fatto per passare il tempo e lo tenne per ricordo. Lo montammo a
turno sulle nostre bici.
Arrivammo a casa nel primo pomeriggio, trovammo tutti in grande
festa: erano arrivati gli Alleati! Per noi ritornati da Vicenza per i
parenti e per gli amici doppia festa e doppia allegria. L’Erminio, ex
Fricco, fu subito richiesto dal CLN per fare l’interprete, perché il
responsabile militare della città usava un inglese con tante parole in
gergo e non sempre veniva capito dall’interprete.
Così fu chiamato Erminio che conosceva molto bene ogni espressione
in lingua inglese avendo fatto le scuole inferiori e superiori in America.
Ricordo che lui mi disse parecchie volte la prima frase che tradusse di
quell’ufficiale alleato: “Se dovete uccidere dei fascisti per vendicarvi dei
torti subiti fatelo entro domani (30 aprile); poi non sarà più concesso
uccidere, ma solo fare prigionieri”. A Cittadella però nessuno fu ucciso
nonostante quella possibilità sancita dal comandante militare.
Intanto quella colonna che aveva aggirata Cittadella e le altre
provenienti da Est e che dovevano congiungersi, furono furiosamente
attaccate dai partigiani ormai armati anche di armi pesanti. Le
compatte schiere tedesche si sfaldarono, furono fatti tanti prigionieri
consegnati poi agli Americani.
Molti soldati tedeschi però riuscirono a fuggire fra i campi,
organizzandosi fra loro in gruppi per raggiungere la Germania
a piedi. Anche il nostro CLN si preoccupò di rastrellarli. Io fui
mandato come capopattuglia assieme ad altri due per andare in bici
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
129
a Rossano. Trovammo solo nel bivio Cassola – Rosà due giovanissimi
italiani vestiti con la divisa dei battaglioni M che si dirigevano a
piedi verso Treviso, certamente per ritornare a casa. Erano dimessi e
silenziosi, nessuno li aveva aiutati.
Li perquisimmo, rovesciammo i loro zaini, non trovammo armi né
oggetti rubati: decidemmo di lasciarli andare. Personalmente mi
fecero pena, erano due giovani spaventati desiderosi solo di ritornare
agli affetti familiari, che volontariamente avevano abbandonato
convinti dai sogni di gloria della propaganda fascista: per me erano
due pulcini implumi.
Poco dopo noi elementi della compagnia Belvedere, assieme ad altri
di una brigata Damiano Chiesa, ricevemmo l’ordine di andare a
rastrellare dei soldati tedeschi visti a Villa Favera e a Ca’ Tron, nella
periferia di Cittadella. Partimmo in una cinquantina ben armati, in
corriera seguita da un’altra corriera vuota per caricare gli eventuali
prigionieri.
Prima andammo a Villa Favera dove c’era una grande officina meccanica
approntata dall’esercito tedesco; vi trovammo un folto gruppo di
soldati armati ed equipaggiati per la partenza. I nostri responsabili,
come avevano ricevuto gli ordini, si misero a dialogare coi Tedeschi.
Questi, dopo aver chiarito che sarebbero stati fatti prigionieri con il
rispetto assoluto di tutte le garanzie internazionali, deposero le armi.
Furono caricati nella corriera, che ci aveva seguiti, per essere condotti
dai carabinieri di Cittadella e poi consegnati ai vincitori. Alcuni
dei nostri rimasero in sito per raccogliere le armi, io e tutti gli altri
partimmo per Ca’ Tron nel comune di Santa Croce Bigolina.
Mentre stavo salendo in corriera un soldato tedesco mi si avvicinò e
mi disse: “Io sono Jacob, quel soldato che ha ricevuto i tuoi documenti
mentre mi chiamava tua cugina: ebbene io ho sempre saputo che tu
eri un partigiano. Ti chiedo solo il piacere di farmi consegnare agli
angloamericani e non ai russi!”. Rimasi sconcertato. Subito mi rividi
tutto trepidante davanti a due soldati tedeschi, mentre in tasca avevo
una bomba a mano e una pistola. Sentii ancora le parole della cugina
Elia Marsan. Forse quel soldato mi aveva detta la verità giacché mi
lasciò libero dopo quel breve dialogo che certamente non poteva essere
130
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
esaustivo. Subito pensai di essere stato molto più fortunato di quanto
credessi d’esserlo stato dopo quell’incontro mattutino. Comunque fui
contento che quei Tedeschi cadessero nelle mani degli angloamericani,
i soli d’altra parte che arrivarono da noi. Capii che quei soldati
conoscevano solo la propaganda nazista!
Eliminati dalla circolazione Tedeschi e repubblichini, tutti noi
partigiani tornammo agli impegni familiari. Io non chiesi di ritornare
a fare il carabiniere, ritorno che certamente mi avrebbero concesso,
ormai preferivo la vita di borghese. Continuai a coltivare la campagna.
A completamento dei miei ricordi sento il dovere di parlare in modo
un po’ dettagliato di coloro che ho incontrato nei duri anni della
Resistenza e che hanno colpito la mia mente e il mio cuore. Sono
due persone che mi hanno infuso equilibrio, volontà e coraggio per
superare le difficoltà della vita.
Padre Odone Nicolini
Padre Nicolini nacque nel Trentino il 6 agosto 1903, quando quella
provincia faceva parte dell’impero austroungarico di Francesco
Giuseppe. Imparò anche la lingua tedesca che nell’ultima guerra gli
fu utilissima nel periodo 1943-45 quando nell’Italia centro – nord
comandavano i nazifascisti. La sua vocazione fu tardiva. Fece il soldato
di leva nell’esercito italiano come artigliere, poi lavorò in famiglia fino
al 1930 quando iniziò gli studi in seminario.
Cedette al fratello i suoi averi e nel 1935 entrò nella congregazione
dei Camilliani: quei religiosi che portano sul pettorale della loro veste
una grande croce rossa. Il 5 luglio 1942 fu consacrato sacerdote nel
convento di Mottinello di Rossano Veneto. Dato che i Camilliani
sono ministri degli infermi, fu destinato a compiere la sua missione
nell’ospedale di Cittadella.
Durante le mie licenze di carabiniere cominciai a conoscerlo perché
accompagnavo sovente una sorella nell’ospedale della mia città, in
quanto soffriva di un malanno cutaneo che aveva continuamente
bisogno del bisturi. Quando poi ritornai dopo l’armistizio, lo
incontrai spesso e divenimmo amici perché lui dava un fraterno
aiuto agli sbandati e ai partigiani. Per questa sua utile opera fu poi
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
131
chiamato “Il prete dei partigiani”, come è scritto nel corposo libro
di Guerrino Citton, uscito nel 2004, che tratteggia la vita e l’opera
di questo sacerdote camilliano. Dato però che io dialogavo con lui,
specie quando lo accompagnavo in bici nelle sue missioni a favore dei
prigionieri dei nazifascisti, credo poter dire che padre Nicolini non era
organico con la Resistenza, ma era un prete senza paura fornito di un
alto senso sacerdotale che lo portava a consolare e ad aiutare gli afflitti.
Ritornando ora a quell’indimenticabile 26 settembre 1944 quando
lo accompagnai a Bassano del Grappa, ricordo che era una giornata
di sole e che pedalavamo affiancati non essendovi nessun via vai di
rotabili: così potemmo parlare. Padre Nicolini mi disse che era venuto
a conoscenza che, nella caserma Reatto di Bassano, erano stati fucilati
sette giovani dietro le mura e che i loro corpi giacevano seminudi
per lasciarli a vista come monito ai prigionieri che non volevano
confessare e come dissuasione per tutti. Continuò dicendomi che
intendeva lavarli, rivestirli e benedirli. Nei pressi di Rosà vedemmo
una pattuglia armata formata da due militi fascisti e due soldati
tedeschi che controllavano il traffico. Subito mi allarmai perché io
non avevo nessun lasciapassare.
Il padre vistomi pensieroso e incerto mi sussurrò: “Non preoccuparti,
non succederà nulla, la mia veste è un lasciapassare”. Infatti non ci
furono chiesti documenti e passammo.
Arrivati nei pressi di Bassano vedemmo da lontano, al centro della
strada, un gruppo di persone: civili, soldati tedeschi e militi fascisti;
mi allarmai molto. Dissi a padre Nicolini: “Non me la sento di
continuare la strada con lei, torno indietro”. Questa volta mi rispose:
“Va bene, fa quello che ti detta la mente”. Certamente anche lui
mostrò grossa preoccupazione, ma lui era un sacerdote che doveva
compiere un atto di misericordia verso dei morti. Così lui continuò e
io ritornai prendendo le stradine di campagna. Alla sera si seppe quello
che era successo in quel memorabile giorno. Padre Odone Nicolini fu
un indomito, mise a repentaglio la sua vita per poter confortare ben
trentun giovani ammassati su un camion e condannati al capestro fra
gli alberi del viale Venezia di Bassano.
I Tedeschi erano incattiviti e totalmente spietati, non volevano dar
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
spazio al sacerdote, il quale però perorando con forza le sue motivazioni
riuscì a salire sul camion e confortare quei morituri.
Se io fossi rimasto con lui, cosa mi sarebbe successo?
Certamente avrei subito un tremendo interrogatorio e chissà come
sarebbe andata a finire! Per quella giornata padre Nicolini rilasciò nel
1946 alla Corte d’Assise di Vicenza, che giudicava quel fatto, una
relazione piena di nobiltà d’animo, di angoscia e nel contempo di
fermezza sacerdotale, come è riportato nel libro “La Resistenza tra il
Brenta e il Piave” di Gianfranco Corletto.
In seguito accompagnai diverse volte in bicicletta il sacerdote a Vicenza
per visitare i prigionieri che erano rinchiusi nelle carceri di San Biagio.
Verso metà ottobre 1944 di mattina, dopo che padre Nicolini aveva
visitato i detenuti, vi fu un bombardamento aereo.
Fu così che egli mi disse: “Aspettiamo la fine di ogni allarme per
ritornare, nell’attesa andiamo a pranzare da una famiglia amica che
mi ha già invitato tante volte”. Andammo. Durante la siesta riprese
il bombardamento, i padroni di casa andarono nel rifugio, noi
rimanemmo, fu così che Nicolini mi raccontò cosa gli era successo a
Bassano in quel famoso 26 settembre. Mi disse esattamente quello che
poi riferì in tribunale in modo magistralmente evocativo.
Mi precisò anche che, grazie alle forti pressioni dei Vescovi di Vicenza,
Padova, dell’abate di Bassano e anche dello stesso Commissario del
Comune di Bassano, erano state sospese ben cinquanta impiccagioni
di partigiani decise per la sera del 27 settembre, e anche che fu permessa
la sepoltura dei sette fucilati nella caserma Reatto e di togliere dagli
alberi del viale i trentun impiccati; tutti quei morti furono sepolti nel
cimitero. Ogni volta che facevo quei viaggi ritornavo a casa col cuore
gonfio di tristezza e di impotenza perché i discorsi evocativi erano
sempre pieni di dolori.
In un percorso fatto sempre nell’ottobre 1944 ci fermammo a Bolzano
Vicentino perché il padre voleva visitare un carcerato rinchiuso in una
villa dei dintorni di quel paese. A delle donne che uscivano dalla
prima messa, padre Nicolini chiese la strada più breve per arrivare
alla villa dove erano insediati i Tedeschi. Subito le donne si misero a
piangere e ci raccontarono. I custodi di quella villa erano soldati delle
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
133
SS che avevano addestrato dei cani per sbranare le persone: facevano
finta di lasciar liberi dei poveri disgraziati prigionieri e poi, quando
costoro erano nei campi per ritornarsene a casa, aizzavano contro di
loro i cani che dilaniavano i corpi di quei poveretti, lasciando insepolti
i loro resti. Proprio quella mattina alcune donne avevano visto un
corpo straziato insepolto.
Non so se al padre fosse arrivata prima la notizia di quei misfatti, certo
che ammutolì. Il padre però andò ugualmente a visitare il carcerato
che conosceva. I soldati tedeschi gli risposero che quella persona era
stata trasferita. La sua faccia era visibilmente impietrita, ma con me
non fece commenti né io gli chiesi niente perché il raccapriccio in
entrambi era molto evidente. In novembre poi ritornai a Vicenza e
questa volta se non avessi avuto il tesserino del lavoro, avrei passato
molti guai. Io, assieme a Padre Nicolini e a due mie cugine, sorelle di
Erminio, andai a trovare Fricco, imprigionato a San Biagio e all’arrivo
incappai in un pasticcio.
Le guardie fasciste lasciarono passare il padre e non noi tre; le cugine
andarono per i fatti loro e io in una chiesa vicina in attesa che il
camilliano finisse la sua visita. Io, impaziente, uscii per controllare,
proprio in quel momento passava una pattuglia di repubblichini, si
fermarono per controllare i miei documenti. Lessero che io lavoravo
per i Tedeschi, ma anche che ero stato carabiniere. Così mi condussero
dentro nei loro uffici e cominciarono a farmi proposte per aderire
alla repubblica di Salò. Io rispondevo sempre che i miei genitori
erano vecchi e che io ero il solo che potesse lavorare i campi e farli
produrre. Mi proposero perfino di farmi nominare maresciallo e
mettermi a capo di una stazione carabinieri in una cittadina vicina.
Finalmente dopo parecchie ore, alle sei di sera mi rilasciarono. Quelle
insistenze mi convinsero sempre più che io ero nella giusta posizione
e che il fascismo avrebbe avuto ancora una vita molto breve, dato
che mi proposero di saltare tutti i gradi dei sottufficiali e premiare
per una adesione, trasformando un modesto e giovane carabiniere
in un maresciallo, cioè in uno che poteva disporre di parecchia
autorità. Dovetti fare la strada da solo perché gli altri erano ripartiti
non sapendo dove io fossi andato e temendo nel contempo della
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
mia sorte. Quando arrivai, verso le ventuno, trovai i familiari in
apprensione, perché dai miei compagni di viaggio era stato detto loro
che i repubblichini mi avevano arrestato. Fortunatamente il tesserino
di lavoro mi salvò! In cuor mio ringraziai padre Nicolini che mi
aveva consigliato, come già detto, di procurarmene uno lavorando
per i Tedeschi. Data la stima generale di cui godeva Nicolini, egli
sapeva tutto ciò che succedeva ai partigiani e alle loro famiglie da
Cittadella a Bassano. Era continuamente in moto con la sua bicicletta
per provvedere ai bisogni. La sua veste, contrassegnata da una grande
croce rossa, svolazzava ovunque.
In questo suo girare spesso mi chiamava per accompagnarlo, anche
se io poi rimanevo uno spettatore che non conosceva le varie vicende
che lui voleva dipanare. Quando all’inizio del 1945 lavoravo per la
famiglia di Erminio, spesso rimanevo a dormire dalla zia perché,
come ho già precisato, lei e le sue giovani figlie avevano paura; allora
io dormivo nella stanza di nonno Giuseppe, già molto anziano.
Rimanevo colà volentieri perché oltre ad avere l’occasione di ascoltare
radio Londra, avevo anche il piacere di godere della compagnia di
padre Nicolini. Egli infatti veniva dalla madre di Erminio almeno
due volte alla settimana: “per bere il caffè”, ma era per dare conforto
e trasmettere ottimismo. Così di chiacchere in chiacchere venni a
conoscere nomi e fatti della Resistenza di cui io avevo una vaga
conoscenza. Evidentemente aveva fiducia in me.
Fu così che venni a conoscere la storia di alcuni sacerdoti e di alcune
donne che operarono in modo efficace con i partigiani.
Venni a sapere la storia di Don Giuseppe Menegon, parroco di
Loria – Treviso. Fu tradito da uno che il sacerdote aveva soccorso, fu
imprigionato prima a Treviso poi a Padova. Fortunatamente per lui, fu
inquisito dal giudice nazista Albrecht Kaiser, responsabile del tribunale
militare di Padova che aveva anche la supervisione di tutti i tribunali
veneti. Dopo un lungo interrogatorio sul filo dei diritti e dei doveri
dei cittadini verso il proprio Stato, quel giudice assolse don Menegon
dalle accuse e si proclamò un suo estimatore perché fu conquistato, lui
ateo, dalla ineccepibile coerenza di quel sacerdote.
Questa stima servì a Menegon e a Nicolini per salvare la vita a dei
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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partigiani, fra questi i miei comandanti Moro e Buonconsiglio.
Questi due preti riuscirono talvolta a superare le disposizioni di
Perillo, il temuto capo del tribunale militare di Bassano, talaltra a
far cambiare idea allo stesso Perillo. Padre Nicolini, oltre a ricordare
vari sacerdoti che salvarono parecchi giovani, raccontò anche la storia
di alcune donne che si prodigarono a fare da staffetta fra i reparti
dei partigiani. Ricordo qui con particolare commozione quanto mi
disse Nicolini riguardo ai miei due comandanti sopra ricordati, e
che dopo anni trovai anche scritto a pagina 123 nel libro di Franco
Corletto “Masaccio”. I Tedeschi sapevano già tutto della Resistenza
nelle nostre zone, volevano però la conferma dal Buonconsiglio che
disperatamente non parlava.
Negri in prigione a Bassano, già condannato a morte, fu portato a
confronto con Buonconsiglio che era nelle prigioni di Ca’ Dolfin dove
era stato bastonato lungamente e ridotto a una larva umana.
Davanti a tutti gli inquisitori Negri si assunse ogni responsabilità
invitando l’amico a dire tutto. Buonconsiglio svenne, poi confessò
quanto sapeva. Ebbero salva la vita: Negri dopo un mese fu spedito in
Germania, Buonconsiglio nelle prigioni di San Biagio a Vicenza.
Padre Nicolini fu sempre un ascoltato interlocutore sia a favore
dei partigiani prima, che dopo per i nazifascisti: era il suo spirito
sacerdotale che gli faceva mettere davanti a ogni cosa la persona
umana. Alcuni esempi che ho riscontrato di persona: verso la fine
della guerra, due fascisti repubblichini disertarono a Bassano. Ripresi
furono condannati a morte da Perillo. Il camilliano esortò e argomentò
con quell’inquisitore finché il Perillo inviò i due in una prigione sul
Garda, da dove poco dopo uscirono vivi.
Dopo l’arrivo degli Alleati il Nicolini salvò un collaborazionista
fascista: alcune persone con percosse continue, lo trascinavano lungo
la strada per ludibrio. La folla li aizzava, padre Nicolini strappò dalle
mani dei giustizieri l’individuo e lo portò via con sé, salvandogli la
vita. Per me fu una persona eccezionale che mi diede un forte aiuto
spirituale e psicologico durante la Resistenza.
A padre Nicolini fu concessa, per i suoi meriti eccezionali, la
medaglia d’argento al valor militare e varie città gli dettero la
136
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
cittadinanza onoraria. Per chi desidera ampliare la conoscenza
dell’opera di padre Nicolini c’è il libro “Padre Odone Nicolini il
prete dei partigiani” di Guerrino Citton stampato nel 2004 a cura
del comune di Fontaniva (Vicenza).
Masaccio
Fra i comandanti partigiani che ho conosciuto, quello che mi ha
colpito in modo totale, è stato Masaccio. Lo conoscevo di nome
quando era comandante del battaglione “Mazzini”, poi lo conobbi
di persona e cominciai ad ammirarlo. Per me egli impersonò il
condottiero impavido perché, dopo il famoso e burrascoso settembre
1944 portatore di morti e distruzione di organici fra noi partigiani,
riuscì a riorganizzarci in modo perfetto. Di questo eroe, medaglia
d’oro della Resistenza, parla diffusamente Gianfranco Corletto nel suo
libro, appunto intitolato “Masaccio”, edito nel 1965 da Neri Pozza.
Masaccio era il nome di battaglia del professore Primo Visentin,
nato a Riese – Treviso – nel 1913. Ebbe una vita giovanile misera.
Salì pian piano la scala dell’insegnamento, prima diplomandosi
maestro elementare e poi laureandosi in lettere a Padova: così passò
prima dai bambini poi agli studenti delle scuole tecniche superiori.
Mobilitato per la guerra, non accettò di fare il corso allievi ufficiali,
allora fu inquadrato nell’esercito regio come soldato di artiglieria.
Dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, partecipò da subito alla
Resistenza col nome di battaglia Masaccio. Prese questo nomignolo
perché era amante della pittura e aveva studiato a fondo il pittore del
‘400 con quel nome.
Il professore organizzò un gruppo di partigiani in un battaglione che
chiamò “Mazzini”, perché si sentiva come quel patriota del nostro
Risorgimento, cioè essere un combattente per amor di Patria. Si
dimostrò un comandante attento, anche se un po’ irruento, che
studiava e programmava le azioni militari, badando nel contempo
alla salvaguardia dei suoi uomini. Fu per questa sua visione realistica
che Masaccio, all’inizio del settembre 1944, aveva consigliato i
comandanti delle formazioni rifugiate sul Grappa di condurre una
guerriglia mobile piuttosto che fare una resistenza ad oltranza.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
137
Malauguratamente non fu ascoltato e vi fu l’eccidio di molti patrioti.
Il 5 ottobre 1944, alle quattro del mattino, presso il cimitero
di Castion di Loria, Masaccio riunì i comandanti superstiti del
disastroso rastrellamento del monte Grappa. Tanto parlò che tutti
accettarono di costituire una nuova brigata, riunendo tutti i gruppi
col nome “Martiri del Grappa”, e che operasse a cavallo delle province
di Vicenza e Treviso con centro il massiccio del Grappa, ormai faro
di gloria per tutti: sia per i martiri della prima guerra mondiale
che per quelli della Resistenza. I miei comandanti, parteciparono a
quella riunione così noi tutti del plotone di Fricco facemmo parte
della nuova brigata. Masaccio ne divenne il capo e scrisse subito un
lungo e articolato ordine del giorno relativo alla Costituzione del
nuovo corpo di volontari; poi il giorno dopo un altro rivolto alle
popolazioni del Grappa, del Brenta, del Piave. Sono due bollettini
che danno la misura di come fossero chiare e valide le sue idee
sulla organizzazione partigiana e di quanto fosse consapevole della
necessità di informazione dei cittadini. Questa opera di educazione
popolare l’ampliò con l’uscita, il primo gennaio 1945, della “Gazzetta
pedemontana” che dopo poco fu sostituita, con orizzonti più ampi,
dalla “Gazzetta del Patriota”. Fu una attività efficace perché portò il
popolo a conoscere da vicino la lotta contro i nazifascisti.
Masaccio continuò la sua opera organizzativa ed insieme educativa
con parecchi altri bollettini di servizio. Parlava anche di onestà,
obbedienza, coscienza, solidarietà, coraggio.
Raccomandava ai combattenti di praticare queste virtù perché chi
lottava per la libertà e la democrazia, doveva essere motivato da idealità.
L’azione militare della sua brigata iniziò il 12 ottobre 1944 e continuò
ininterrotta, con parecchie decine di azioni, fino alla vittoria finale.
Poco dopo la creazione della nuova brigata, il mio comandante di
battaglione Negri, fu imprigionato; fu sostituito da Bill, Andrea
Cocco, suo vice. Anche lui si dimostrò un coraggioso comandante
tanto che divenne l’aiuto di Masaccio.
Io ebbi l’occasione, per alcune volte, di incontrare di persona Masaccio
nelle riunioni che promuoveva per istruirci sui modi e i metodi di lotta.
Furono per me lezioni illustrative che mi entusiasmarono per il fascino
138
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
che emanavano le parole e il volto del capo. Fu fautore nel creare una
organizzazione che riunisse tutte le brigate che operavano nel Veneto
centrale tra Padova, Vicenza e Treviso. Finalmente l’unione arrivò l’8
febbraio 1945 quando fu istituita la divisione Monte Grappa, formata
da sei brigate, sotto un unico comando militare e politico.
Insediatosi il comando della Divisione, subito fu elaborato un
piano strategico di sabotaggi per disorientare e disgregare le forze
nemiche. Vi furono azioni mirate nei territori sotto la giurisdizione
del Comando Unico. Vi fu anche, il 17 febbraio 1945, un successo
strabiliante dei miei comandanti Masaccio e Bill – il primo
comandante della brigata Monte Grappa, il secondo del battaglione
Silvio Pellico – che con duecentocinquanta chilogrammi di esplosivo
danneggiarono irrimediabilmente il ponte vecchio di Bassano, detto
anche ponte degli alpini. Lo racconta Bill nel libro di Gianfranco
Corletto nelle pagine 154 – 156. Certo noi lo sapemmo dopo, ma
questo fatto, congiuntamente ad altri sabotaggi contemporanei,
sollevarono gli animi di tutti, specie di noi partigiani, perché
capimmo che erano arrivati gravi scricchiolii per la potenza tedesca.
A me piace ricordare quell’azione perché si sviluppò con una
progressione che oggi diremmo cinematografica, giacché degli episodi
simili sono stati raccontati in film di guerra. I quattordici sabotatori,
vestiti da soldati tedeschi o repubblichini e Masaccio con divisa da
ufficiale, divisi in due squadre, passarono indenni fra la folla ove
c’erano anche militari nazifascisti. Quella azione temeraria rovinò
il ponte, che fu restaurato solo dopo la guerra, purtroppo ebbe
uno strascico penoso con l’uccisione, per ritorsione, di tre giovani
innocenti prelevati dalle prigioni. Oggi sul ponte di Bassano c’è una
placca bronzea che ricorda il fatto con questa parole:
“Per salvare la città da minacciato bombardamento aereo il 17 febbraio
1945 Masaccio - prof. Primo Visentin da Riese Pio X - con un pugno
di volontari della libertà, questo ponte fece saltare. Per rappresaglia il
22 febbraio 1945 Alberti Federico, Lunardi Cesare, Zavagnin Antonio
qui furono fucilati dai nazifascisti”.
Masaccio morì da un colpo di fucile proprio nel giorno della vittoria.
A ricordo di questo eroe della Resistenza, le brigate partigiane Martiri
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
139
del Grappa e Cesare Battisti donarono all’Università di Padova una
statua per onorare il professor Primo Visentin – Masaccio, che si era
laureato in quell’ateneo, e che ora si trova nell’atrio del Bo.
La statua del celebre scultore Arturo Marini raffigura Palinuro,
personaggio virgiliano che fu pilota del fuggiasco Enea da Troia in
fiamme, che però vinto dal sonno cadde in acqua e morì, proprio in
vista delle coste d’Italia.
Questa mitica figura, emblematica di una sicura rotta, simboleggia
Masaccio comandante partigiano intrepido che portò la Resistenza
veneta alla riscossa, dopo il disastroso rastrellamento nazifascista sul
Monte Grappa del settembre 1944, e che poi morì quando ormai la
Libertà era sicura.
Ritorna la pace
Mentre detto le mie memorie sono passati sessantacinque anni dal
fatidico aprile 1945 che apportò all’Italia la pace e, assieme, anche quella
democrazia che era stata soffocata per oltre un ventennio dal fascismo
di Mussolini. Se si chiedesse ora ai giovani cosa è stata per gli Italiani
quella pace, certamente i più ci guarderebbero con occhi interrogatori;
solo pochi avrebbero le semplici conoscenze dei libri di storia studiati.
Per noi invece, che abbiamo sofferto e lottato per la pace, è stata anche
una grande festa, una esplosione di gioia, di entusiasmo e di frenetica
attività. Avevamo perso cinque anni di vita entro una fornace che
aveva bruciato le nostre speranze e i nostri desideri. Quando quel
fuoco distruggitore fu spento dall’eroismo di tanti, ci riprendemmo il
nostro destino. Abbiamo vissuto quei primi anni da liberi, con impeto,
con voglia di rifarci, di lavorare per un domani migliore, senza voltarci
indietro a chiedere giustificazioni o spiegazioni.
Deposte le armi diventammo solerti cittadini operatori.
È stato certamente per questa ansia di agire per ricostruire che noi
combattenti guardammo solo verso il futuro, dimentichi ormai del
passato. Solo ora, ormai appagati del lavoro fatto durante la nostra
vita, desideriamo ricordare le nostre vicissitudini perché siano di
insegnamento alle nuove generazioni.
Io uscito fortunatamente, direi quasi miracolosamente, indenne ho
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
dimenticato tutti gli affanni della guerra fino a che l’amico Giuseppe
Trevisan mi ha convinto a esplorare dentro di me e a raccontare le mie
memorie, anche perché mi ha ripetuto tante volte che le miserie delle
guerre devono essere monito per il futuro.
Nel 1945 mi immersi nei lavori dei campi di mio padre, anche perché
non volli chiedere di essere riammesso nell’arma dei carabinieri: ormai
preferivo la vita borghese che dava tante possibilità di agire a seconda
delle proprie ambizioni.
Nel 1946 alle prime elezioni amministrative fui eletto consigliere
comunale di Cittadella, quale rappresentante della mia frazione di
Ca’ Moro. Ciò mi fece partecipare in modo diretto alle nuove vicende
per creare una società diversa da quella fascista. Un giorno, quando
ormai cercavo un lavoro autonomo, incontrai un commilitone che
aveva trovato un posto sicuro. Mi spiegò che la sua ricerca fu facilitata
dall’Associazione di assistenza dei carabinieri in congedo di Padova.
Mi iscrissi e trovai quasi subito lavoro.
Nel 1952 il comune di Monselice si era rivolto alla Associazione
chiedendo dei nominativi per scegliere e assumere un vigile urbano.
Mi chiamarono, accettai e feci un anno di prova, nell’anno successivo
ebbi il posto stabile nell’organico, in seguito a un regolare concorso.
Nel 1954 mi sposai con Agnese, anche lei di Cittadella, e venimmo
ad abitare a Monselice. Nacquero quattro figli e nel contempo
cominciammo anche a costruire la nostra casa. Furono anni intensi
di lavoro. Io usavo le ferie agostane per fare il vigile sussidiario prima
a Piove di Sacco, per alcuni anni, e poi a Ortisei, in Val Gardena.
Agnese aveva aperto un laboratorio per la produzione di maglie
di lana. Andato in pensione nel 1979 con la legge 336 a favore
dei combattenti, continuai a lavorare come vigile sussidiario per
il comune di Ortisei non solo in agosto, ma anche negli altri mesi
turistici dell’estate e dell’inverno.
Di questa parentesi di servizio a Ortisei mi piace ricordare la grande
umana affabilità del Presidente Pertini. Egli d’estate villeggiava a
Selva di Val Gardena e spesso si recava a Ortisei, accompagnato dalla
sua scorta, per prendere la funivia dell’Alpe di Siusi. Ricordo che
una domenica, essendo di servizio davanti alla chiesa parrocchiale
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
141
mentre la folla usciva dalla chiesa, prontamente fermai il percorso
delle auto per dar modo alla gente di attraversare la strada. Il caso
volle che lasciassi passare le auto di scorta del Presidente e fermassi
invece proprio la sua. Ripristinato il passaggio delle auto, il Presidente
si affacciò al finestrino, mi salutò e mi lodò pubblicamente perché
ero stato impeccabile nel mio servizio. Volle anche stringermi la
mano. Un’altra volta accadde che vidi Pertini uscire da una farmacia:
si dirigeva senza scorta verso di me. Mi disse di non dire a nessuno
che l’avevo visto. E aggiunse: “Sono peggio di un prigioniero!”. Dopo
mezz’ora lo vidi ripassare con la scorta. Vedendomi mi fece un cenno
di saluto con la mano: seppi poi che era stato a salutare i Catores (un
gruppo di volontari di soccorso alpino) e che era stato raggiunto dalla
sua scorta dopo un’affannosa ricerca. Inoltre ebbi modo di parlare con
lui in altre occasioni perché mi invitò più volte a bere un caffè con lui
e alcuni carabinieri presso il Caffè Haiti dove andava abitualmente.
Ritiratomi definitivamente dal lavoro a Ortisei, cominciai a fare
volontariato in alcune associazioni di Monselice, smettendo qualche
anno fa.
Sono tranquillo e sereno: la continua occupazione del tempo, che ha
contrassegnata la mia vita, mi ha dato un vigore costante per superare
le difficoltà. Penso che la vita possa dare sicurezza, libertà, benessere
e amore soprattutto se si è volonterosi, attivi e consapevoli dei propri
limiti.
Partigiani cittadellesi illustri
Ritengo che noi partigiani dell’Alta padovana dobbiamo sempre
ricordare anche due cittadellesi perché essi, prima, durante e dopo
la guerra, hanno impersonato l’anima veneta insofferente di ogni
ingiustizia. Gavino Sabadin, animatore politico della Resistenza,
e Bino Rebellato, cantore dei nostri sacrifici, sono due personalità
entrate ormai nella nostra storia.
Desidero qui parlare di loro perché essi sono stati due punti di
riferimento, per le loro capacità, disponibilità e nobiltà di propositi,
di noi giovani fervorosi, ma anche talvolta inesperti.
Non pretendo certo che queste mie modeste parole possano aggiungere
142
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
gloria e fama a questi due valorosi combattenti per la Libertà
d’Italia, desidero solo rendere a loro un mio tributo reverenziale,
e nel contempo riconoscente, per quello che essi hanno fatto a me
infondendomi coraggio, pazienza e ardore.
Gavino Sabadin, 1890 – 1980. Fu l’avvocato che aiutò sempre i più
deboli. Prima della Grande Guerra fondò da noi le leghe bianche
a difesa dei contadini e dei piccoli proprietari, una volta molto
numerosi. Quando il fascismo soppresse le leghe, concentrò la sua
opera a sostegno della “Federazione piccoli proprietari”, la sola
permessa dal duce. Queste sue attività gli portarono notorietà e stima.
Il 25 luglio 1943, caduto Mussolini, subito iniziò la sua opera per
raccogliere volontari a difesa delle patrie sorti. Venuto poi l’armistizio
dell’8 settembre, raccolse attorno a sé persone di diverse tendenze
politiche e fondò il gruppo organizzativo di lotta contro i Tedeschi:
anche da noi a Cittadella nacque il CLN.
Fu il responsabile cattolico e capo del nuovo organismo. Lavorò con
costanza, oculatezza e forza nella organizzazione dei volontari, tanto
da formare, come già detto, tre brigate che lui chiamò “Damiano
Chiesa”. Riteneva che questo valoroso combattente della prima guerra
mondiale fosse il più emblematico eroe sia come combattente contro
i Tedeschi, sia come fervente cristiano.
Sabadin divenne anche responsabile del CLN veneto e dopo la guerra
Prefetto pro tempore di Padova. Poi fino alla sua morte, dovuta a un
incidente, fu un noto e capace dirigente amministrativo di vari enti
pubblici. Fu insignito di parecchie onorificenze.
Albino Rebellato, detto Bino, 1914 – 2004. Fu insegnante, poeta,
scrittore ed editore. Divenne un punto di riferimento della cultura
veneta e nazionale. Fu comandante partigiano della terza compagnia
della brigata “Damiano Chiesa” e stretto collaboratore del responsabile
del CLN Gavino Sabadin.
Fu insignito di vari riconoscimenti pubblici.
Mi piace riportare a suo ricordo l’inno che scrisse per la nostra
divisione “Monte Grappa” che esalta il valore partigiano.
Sono versi che riecheggiano la passione e l’amore per la Libertà della
Patria, proprio come quelli dei poeti del nostro Risorgimento.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Tutti i petti un sol grido percosse
e di giovani forti una schiera
d’ogni parte cantando si mosse
impugnando una sola bandiera.
La bandiera nell’ombra sepolta
che ora palpita libera al vento
e l’Italia che tutta n’è avvolta
è di voci e di squilli un concento.
Torturati derisi inseguiti,
nella fede che illumina e crea
in un solo concordi, riuniti,
già gli eventi pieghiamo all’Idea.
Dai quaranta impiccati a Bassano
s’è levata una voce potente
e Dio scese a guidarci la mano,
d’ognun fece una folgore ardente.
Fucilate, impiccate, legate!
Rinchiudeteci dentro una fossa:
ma un ardore di fedi inviolate
si disserra immortale dall’ossa.
Su dal sangue, dall’orrido inferno
che di sangue cosparse la terra
sorge a spegnere amore fraterno,
dell’orgoglio tirannico l’era.
Ritornello (dopo ciascuna strofa)
Sono infrante le nostre catene:
libertà, libertà! Libertà
che l’umano avvalora nel bene,
di bellezza fulgor, verità.
143
144
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Tesserino di riconoscimento del 7 gennaio 1942 firmato dal colonnello comandante
la mia legione Dino Tabellini, ottenuto subito dopo essere stato promosso da
allievo a carabiniere.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Roma, 1 aprile 1943, stazione Ostiense. Picchetto d’onore della mia quarta
compagnia per l’arrivo del Primo Ministro Ungherese, alleato dell’Italia, ricevuto
dal Capo del Governo Mussolini. Io sono in seconda fila, dietro al terzo carabiniere
partendo da sinistra.
Io con la divisa nera come è l’attuale, per svolgere mansioni fra il pubblico, e con la
divisa grigio-verde con pantaloni alla cavallerizza e gambali per servizio di ordine.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Roma 1942. Il picchetto della mia IV compagnia, con bandiera e banda in testa,
marciamo per andare a fare la guardia d’onore alla residenza del re Vittorio Emanuele III.
Roma, mattinata del 19 luglio 1943. La grande caserma dove alloggiavano la mia
legione e il comando generale dei carabinieri. Nel cortile, due compagnie di allievi,
promossi carabinieri, prestano giuramento alla presenza del Generale Comandante
dell’Arma Azolino Hazon.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
147
Il generale dei carabinieri
Azolino Hazon, perito
mentre prestava aiuto alla
popolazione romana durante il
bombardamento pomeridiano
del 19 luglio 1943. Gli fu
concessa la medaglia d’argento
alla memoria.
Roma, 21 luglio 1943. Funerali
del generale Azolino Hazon.
La salma è posta sull’affusto di
un cannone trainato da muli. Il
picchetto d’onore è formato dal
gruppo di carabinieri a cavallo.
148
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Roma, notte tra l’8 e il 9 settembre 1943. Noi carabinieri della legione di stanza
nella Caserma Comando, fummo armati e trasportati con camion presso la Basilica
di San Paolo fuori le mura. Qui siamo rimasti circa due ore, accovacciati in attesa di
ordini per far sloggiare da Cecchignola truppe tedesche, le quali improvvisamente
avevano occupato quello snodo stradale. Disegni di B. Mardegan.
Trincea costruita a difesa di Roma congiungente la Basilica di San Paolo con il
ponte della Magliana. Camminamento usato dalla nostra legione carabinieri, IV
compagnia in testa, per riconquistare la posizione strategica occupata dai tedeschi.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Il capitano Orlando
de Tommaso,
comandante della
mia IV compagnia
carabinieri, morto da
eroe il 9 settembre
1943 durante la
battaglia per ricacciare
le truppe tedesche che
tentavano di occupare
Roma entrando dal
ponte della Magliana
di Cecchignola e poi
seguire il percorso
della trincea fino al
cuore della città.
È la prima medaglia
d’oro della Resistenza.
Motivazione della medaglia d’oro al valor militare
Comandante di compagnia allievi carabinieri impegnata per la difesa della
capitale, nella riconquista di importante caposaldo che truppe tedesche avevano
strappato dopo sanguinosa lotta a reparto di altra arma, mosse all’attacco con slancio
superbo, trasfondendo nei suoi giovanissimi gregari grande entusiasmo ed alto
spirito combattivo, dopo tre ore di aspra ed alterna lotta, in un momento decisivo
delle sorti del combattimento, per trascinare il suo reparto inchiodato dal fuoco
nemico a poche centinaia di metri dall’obiettivo e lanciarlo contro l’ultimo ostacolo,
non esitava a balzare in piedi allo scoperto, sulla strada furiosamente battuta,
affrontando coscientemente il supremo sacrificio. Colpito a morte da una raffica di
arma automatica, cadeva gridando ai suoi carabinieri: “Avanti! Viva l’Italia!”.
Il suo grido e il suo olocausto, galvanizzando il reparto, lo portarono d’impeto,
in una nobile gara di eroismi, alla riconquista dell’obiettivo.
150
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Il mio portasigarette sul cui coperchio
ho inciso con la punta della baionetta
la data, il luogo e il nome del
commilitone, che mi sono trovato a
fianco, al termine della battaglia di
Cecchignola del 9 settembre 1943.
Roma, Altare della Patria. Mentre ero di picchetto d’onore presso questo sacrario il 18
settembre 1943, arrivò dal Veneto la madre di un mio commilitone, che era in quel
momento di guardia, la quale disse di volere portare a casa suo figlio: fu in quel momento
che io decisi di abbandonare il servizio militare. Partii da Roma il 22 settembre ‘43.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Il 10 aprile 1944 io e mio fratello Giuseppe diventammo parte integrante delle
formazioni Partigiane. Qui mio fratello, artigliere di montagna con obici da
75/13 quando partecipava alla guerra dei Balcani. È ritratto nel 1942, assieme ad
altri fa il presentat-arm con le canne degli obici che pesavano Kg 105 ciascuna,
escluso naturalmente ogni altro accessorio. Mio fratello è il secondo da sinistra.
Monte Grappa, 25-26-27 settembre 1944, vi fu la più grande battaglia campale
della Resistenza Veneta: poco meno di 1.500 patrioti contro circa 15.000 soldati
tedeschi e fascisti. Quasi tutti i partigiani morirono, i tedeschi incendiarono
molte case e stalle. Si noti sopra i pochi resistenti e sotto i molti soldati nazifascisti
all’attacco con armi pesanti. Disegno di B. Mardegan.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Padre Nicolini sale sul camion per confortare i giovani che vengono portati in
un viale di Bassano del Grappa per essere impiccati. Tarda mattinata del 26
settembre 1944.
I giovani impiccati appesi agli alberi di un viale ora chiamato “Viale dei Martiri”.
Inizio del supplizio ore 15 del 26 settembre 1944. Disegni di B. Mardegan.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Bassano del Grappa, ponte vecchio detto degli Alpini, sabotato dai partigiani
comandati da Masaccio per evitare i bombardamenti aerei degli alleati che
avrebbero causato gravi danni alla città. Per rappresaglia il 22 febbraio 1945
furono fucilati dai nazifascisti: Federico Alberti, Cesare Lunardi e Antonio
Zavagnin.
Bassano del Grappa, 17 febbraio 1945. Il comandante Masaccio assieme ad altri
partigiani, tutti travestiti da soldati tedeschi, trasportano con un carrettino tirato
da biciclette, 150 kg di esplosivo per fare saltare il ponte vecchio detto “degli
Alpini”. Disegni di B. Mardegan.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Foglio matricolare da cui risulta la mia attività di Partigiano (vedi immagine
seguente).
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Parte del foglio
matricolare da cui
risulta la mia attività di
Partigiano.
Reparto: Brigata Martiri
della Libertà.
Conferimento della
croce di guerra.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Dichiarazione del distretto militare di Padova per la concessione della croce di
guerra.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Dichiarazione del distretto militare di Padova per la concessione della croce di
guerra.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Tessera rilasciatami perché partigiano.
Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
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Certificato di Patriota rilasciatomi dal comandante americano maresciallo
Alexander, controfirmato dal comandante della mia divisione Monte Grappa
e da un ufficiale alleato con timbro del CVL – Comitato Veneto di Liberazione.
A sinistra, padre Odone Nicolini, frate camilliano, che fu di grande aiuto per
molti partigiani, per questo fu chiamato “Il prete dei partigiani”.
A destra, sacerdoti veneti che operarono nella zona: Don Giuseppe Menegon,
Don Francesco Mascotto, Don Carlo Davanzo, Don Anselmo Riello.
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Attilio Bizzotto - Ricordi di un carabiniere combattente per la libertà
Masaccio, nome di
battaglia del prof. Primo
Visentin, nato nel 1913
a Riese (Treviso), è stato
il mio comandante di
Brigata, Martiri del
Grappa, dall’ottobre
1944, dopo l’eccidio del
settembre.
Una fucilata lo uccise
sul finire della guerra.
È medaglia d’oro della
Resistenza.
Masaccio, Medaglia d’oro al valor militare
Motivazione
Fin dall’inizio del movimento cospirativo, organizzò le formazioni armate,
trascinando con l’esempio, con l’entusiasmo e con l’ardimento le squadre dei giovani
da lui inquadrate.
Comandante di Brigata, partecipò alle più ardue azioni di lotta e di sabotaggio e la
sua audacia non conobbe ostacoli, né pericoli.
A poche ore dalla liberazione, mentre intimava la resa ad un forte gruppo di tedeschi
asserragliati, cadde colpito a morte, chiudendo da eroe la sua adamantina vita
dedicata al luminoso ideale della Patria libera.
Il suo nome, consacrato dal sacrificio, è assurto a simbolo della zona del Grappa.
25 aprile 1945
Memorie di guerra
di un soldato del Genio
1942 – 1945
1944, aggregato alle truppe americane
LINO BELLUCO
Classe 1923
Monselice – PD – Via Trento Trieste
162
Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio
Sono Lino Belluco, nato il 6 aprile 1923 a Monselice in via Savellon
Mulini, dove erano i campi coltivati da mio padre agricoltore.
Soldato di leva, fui chiamato alle armi nel settembre 1942, mentre
frequentavo il liceo classico “Tito Livio” di Padova. Fui destinato al 14°
reggimento del Genio di stanza nella caserma Fantuzzi di Belluno.
Ebbi una lunga e accurata preparazione tecnica, sia per essere in grado
di ricevere e trasmettere con l’alfabeto Morse i vari dispacci militari, sia
per conoscere dettagliatamente le attrezzature di una stazione radiomarconista mobile, cioè posta su automezzo.
Contemporaneamente dovetti fare anche servizio di caserma per assolvere
i quotidiani impegni che richiede una comunità militare e per le solite
esercitazioni tattico-militari.
Un giorno ero il caporale capoposto del picchetto di guardia. Fui
chiamato dalla sentinella, che si trovava nella garitta a fianco del portone
principale, la quale mi indicò un signore di bassa statura con una grossa
valigia che stava avvicinandosi. Osservai ben bene quell’uomo che
lentamente camminava verso di noi. Con grande sorpresa lo riconobbi:
era il professor Lino Lazzaroni, mio insegnante di italiano al liceo di
Padova. Gli corsi incontro e, pieno di commozione, lo abbracciai. Era
stato richiamato ed assegnato alla mia caserma. Il professore faceva parte
di quegli ultimi scaglioni di anziani chiamati alle armi: il fascismo aveva
raschiato il fondo del barile.
Nella tarda estate del 1943 noi genieri, assieme a tanti altri soldati di varie
specializzazioni, fummo destinati alla difesa della Corsica.
Partimmo da Belluno in treno di buona mattina e alla sera arrivammo al
porto di La Spezia. Avevamo appresso tutto il nostro equipaggiamento
militare e le stazioni radio-marconiste. Io, oltre allo zaino, portavo anche
una pesante valigia piena di libri scolastici con l’idea di poter studiare
nelle pause libere dal servizio, come avevo fatto in caserma.
I piazzali di quel porto erano pieni di una moltitudine eterogenea di
soldati, carichi di zaini e armi. Dormimmo all’addiaccio.
Il giorno dopo lentamente ci stiparono in una nave: alla fine eravamo
millecinquecento soldati impossibilitati anche di muoverci, proprio come
le sardine in barile!
Salpammo solo a notte inoltrata per non subire attacchi aerei Alleati;
Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio
163
finalmente arrivammo di mattina presto a Bastia in Corsica.
Lo sbarco durò parecchie ore. A piedi, come al solito, arrivammo in un grande
campo oappena fuori dalla cinta cittadina: era il centro di smistamento
per le varie destinazioni. Il campo era pressoché sguarnito di servizi, così
dovemmo allestire le tende, con i teli in dotazione, per dormire.
Rimanemmo là qualche giorno ad oziare e poi a grattarci il corpo per i
numerosi parassiti che infestavano quel luogo: erano il lascito in regalo e
la risultanza di tutti quelli che erano passati di là prima di noi.
Fortunatamente ci spostarono: andammo nella periferia di una cittadina
che si chiamava Corte, dove trovammo uno spiazzo abbastanza attrezzato,
così potemmo lavarci e ripulirci. Mancavano fabbricati e così ci
attendammo di nuovo. Innalzammo grandi tende che contenevano nove
brande per il riposo di noi soldati: era un luogo tranquillo. Ma la quiete fu
interrotta abbastanza presto dall’armistizio dell’8 settembre 1943.
I nostri comandi non accettarono la richiesta di collaborazione
avanzata dalle truppe tedesche presenti nell’isola, così scoppiò il
conflitto tra noi e i nazisti. Vi furono combattimenti ravvicinati
per circa un mese. Gli assalti tedeschi erano violenti con l’uso di
fanteria, artiglieria e mezzi blindati che causarono distruzioni e morti
fra noi Italiani. Più i Tedeschi insistevano nei loro attacchi, più in
noi si sviluppava un sentimento di ripulsa verso i nuovi nemici e ci
sentivamo motivati a sconfiggere proprio coloro che avevano messo a
ferro e fuoco l’Europa, creando macerie e lutti a non finire.
In uno di quegli attacchi successe a me un fatto che ho sempre considerato
miracoloso.
Mentre eravamo in perlustrazione sul territorio, una improvvisa bordata
di cannonate tedesche colpì il nostro campo e, in particolare, centrò
appieno la mia tenda rovinando ogni cosa compresi i miei libri: se
fossimo stati all’interno saremmo stati sfracellati, proprio come lo
furono le brande e gli zaini.
I Tedeschi, constatato che non sarebbero mai stati capaci di neutralizzarci,
o forse perché avevano bisogno di altri soldati in Italia, se ne andarono
dalla Corsica alla fine dell’ottobre 1943.
Vi fu una pausa ristoratrice e sistemammo ogni danno, con mio dispiacere
però i libri erano andati tutti perduti.
164
Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio
Rimanemmo in attesa di ordini per essere impiegati, truppa combattente,
a fianco degli alleati angloamericani e francesi.
Venne il 1944 e in Campania si svilupparono lunghi e sanguinosi
combattimenti. Attorno a Montecassino i Tedeschi difendevano la
linea Gustav contro un gruppo di divisioni americane, inglesi, polacche
e francesi. Le battaglie più aspre si svilupparono nel mese di febbraio
ed ebbero il loro culmine con la distruzione della grande abbazia di
Montecassino, avvenuta il 15 febbraio 1944. In quei frangenti noi fummo
spostati dalla Corsica alla Campania, ove sbarcammo immediatamente
dopo il devastante bombardamento di Cassino.
Il mio contingente di radio-marconisti fu aggregato all’armata americana
che ci fornì divise e attrezzature. Io fui impiegato come capo squadra in
una stazione mobile posta su una jeep.
Facevo collegamenti fra il comando italiano e i nostri soldati in prima
linea, attraversando pericoli di ogni sorta. Quando arrivammo nelle
Marche, in un’azione di avanscoperta, fui colpito dolorosamente da
un fatto. Con la mia squadra dovevo fare un servizio di collegamento
durante una battaglia. Il mio amico e collega Banzato, anche lui capo
pattuglia, ma in quel momento a riposo, volle sostituirmi in quella
azione ritenuta molto pericolosa. Era più anziano di me e forse si sentiva
più esperto; insistette molto e volle partire al posto mio. Andò, ritornò
steso sulla jeep ferito gravemente: gli fu amputata una gamba.
Risalimmo lentamente lo stivale, occupando una alla volta le varie linee
di difesa ideate dal comandante tedesco Kesselring. Arrivammo a Castel
San Pietro alla fine di marzo 1945.
Qui ci fermammo brevemente, rimanendo in attesa di ordini, mentre
altri soldati partirono per liberare il Veneto e il Friuli. Poco dopo il
mio gruppo di radio-marconisti, assieme ad altri soldati, fu inviato a
Dobbiaco per controllare la zona frontaliera tra l’Austria e l’Alto Adige.
Poco dopo la vittoria finale dell’aprile 1945 io fui congedato.
I trasporti per arrivare a casa erano allora molto problematici, per questo
il mio comando permise a me e ad altri miei conterranei di ritornare a
casa in jeep, con l’intesa di riconsegnare l’automezzo al comando tappa
più vicino. Arrivati allegri e contenti nel centro di Monselice, trovai
amici e conoscenti coi quali ci abbracciammo.
Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio
165
Uno mi avvisò che mio padre Ferruccio era stato ricoverato
all’ospedale di Monselice per una ferita infertagli da un colpo di
fucile, sparato da un soldato tedesco in ritirata: così corsi a salutare
per primo mio padre che fortunatamente trovai quasi del tutto
guarito, tanto che fu dimesso poco dopo.
Ripresi subito gli studi liceali interrotti, ritrovai il professore Lino
Lazzaroni, ormai amico di naia; successivamente mi laureai in scienze
agrarie all’Università di Padova.
Infine, non posso non ricordare con commozione i soldati che sono
morti da eroi, parecchi dei quali miei amici, fra questi la medaglia d’oro
Bruno Bussolin di Monselice, caduto sul Monte S. Michele d’Abruzzo
il 19 maggio 1944.
Abbiamo combattuto per avviare la vita di noi Italiani a un lungo
periodo di pace. L’Europa unita come una grande nazione nacque anche
dal nostro sacrificio di soldati.
Epilogo della lotta in Corsica
Pochi anni fa l’amico Giuseppe Trevisan mi fece leggere un articolo
in fotocopia, del giornale “La Nazione”, con la cronaca di Livorno
dell’11 giugno 1963, che aveva come titolo Arrivano le 620 salme
dei Caduti in Corsica. La nave Stromboli trasportava a Livorno,
proveniente da Bastia di Corsica, le cassette ossario dei soldati
italiani caduti durante i combattimenti dopo l’8 settembre 1943
contro le truppe tedesche. Con una solenne cerimonia quelle spoglie
furono tumulate in parte nel sacrario del cimitero della Cigna ed
altre nei cimiteri dei paesi natii dei soldati. Il sindaco di Livorno fece
un proclama ai cittadini: mi piace ricordarne l’ultima parte, perché
ha rinnovato in me una profonda commozione.
L’amministrazione saluta riverente le gloriose vittime dell’ultima guerra
ed invita la cittadinanza a rendere tributi di onore ai resti mortali di
questi Italiani che offrirono la loro giovinezza nella difesa della libertà e
della indipendenza del nostro Paese.
Non pensavo che i morti in quegli scontri, dei quali io fui un fortunato
sopravvissuto, fossero 620 commilitoni tutti morti per una sola parola:
No, detta ai Tedeschi che chiedevano di collaborare.
166
Lino Belluco - Memorie di guerra di un soldato del Genio
1943, Caserma Fantuzzi di Belluno. Gruppo di soldati del Genio Radiotelegrafisti.
Da destra io sono il terzo. Il primo a sinistra è il commilitone Bonzato, che perse una
gamba quando tutti e due combattevamo nel centro Italia al comando degli Alleati
contro l’armata tedesca. Bonzato volle sostituirmi e fu ferito durante una battaglia.
Estate 1944. La jeep americana in dotazione alla mia squadra, comandata da me,
caporale, primo accosciato da destra.
Un sopravissuto del campo
di morte di Zeithain
CARLO FRIZZARIN
nato a Monselice il 4-XI-1923
deceduto il 26-VIII-2001
168
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Ricerche fatte da Giuseppe Trevisan
Premessa
Quando mi sono dedicato alle ricerche delle memorie di questo
amico ritenevo avesse lasciato un proprio diario, come diverse persone
mi avevano assicurato. Chiesi allora alla moglie, la quale subito mi
precisò che non c’era nessun diario personale, ma che vi erano due
libri custoditi gelosamente da suo marito che li considerava come
diari dei suoi patimenti nel campo di Zeithain. Fu così che lessi
come testimonianze di Carlo Frizzarin due libri-diario: uno di un
sacerdote cappellano e l’altro di una crocerossina.
Io poi rinvenni gli articoli giornalistici che avevo raccolti per mia
documentazione sui lager, i quali mi sono serviti per confrontarli con
i libri diario. Leggendo il tutto mi sono convinto di poter descrivere
con sufficiente precisione la vita tormentata di questo amico a
Zeithain. Mancano certamente gli episodi che hanno segnato
profondamente Carlo e i suoi commilitoni in quel Kranklager
(campo degli ammalati), ritengo però poter fare ugualmente un
quadro realistico, perché mi sento anche aiutato dalla mia esperienza
diretta dei lager nazisti
Il lager di Zeithain
Soprattutto dalla lettura dei due libri ricevuti, mi sono fatto un’idea
precisa di cosa fosse stato il Reserve Lazaret, come lo chiamavano
i Tedeschi. Era uno dei tanti lager con baracche e letti a castello
di legno, sempre pieni di cimici, circondato da cavalli di frisia,
con guardiania costante di soldati armati. In più aveva differenze
specifiche di controllo dato che era adibito a ospedale per malattie
contagiose: era appunto un lazzaretto. Si trovava sulla sponda destra
del fiume Elba e dipendeva dallo Stammlager IV B di Mühlberg/
Elba, in Sassonia, dal quale distava una decina di chilometri.
Quello Stalag (abbreviazione di Stammlager) era molto grande,
e lo deduco perché colà furono immatricolati circa trecentomila
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
169
prigionieri. Questo calcolo è stato fatto, considerando le matricole
delle piastrine dei nostri novecento soldati deceduti in quel lazzaretto
che erano arrivati quasi per ultimi, infatti esse portano dei numeri
superiori al 260 000.
Luca Airoldi, il frate francescano cappellano di Zeithain, precisò nel
suo libro-diario che quel campo conteneva, alla fine del 1943 circa
6000 russi e poi polacchi, serbi qualche centinaio di francesi, inglesi,
americani, perfino un centinaio di indiani e infine circa duemila
italiani, molti dei quali provenivano dei Balcani.
Il relatore continua dicendo che ogni nazionalità aveva il proprio
reparto, separato dai restanti da un reticolato alto tre metri, e che le
baracche degli italiani erano divise in tre serie: quelle della medicina
indicate con A, quelle della chirurgia col B e infine quelle delle
malattie infettive – soprattutto TBC – con la C. L’Airoldi completa
la presentazione del campo Lazaret – Zeithain scrivendo:
Un ospedale… penserà qualcuno, e teoricamente lo era, ma quanto
diversa era la realtà! Se le baracche rigurgitavano di ammalati… e se
ogni baracca aveva il suo medico curante e suoi infermieri, mancava
assolutamente tutto il resto. Un ospedale beffa! Basti pensare poi che,
se mancavano quasi totalmente le medicine, mancavano pure i cibi
sufficienti.
Su quest’ultimo argomento io ho fatto poi un confronto con quello
che ricevevo negli Arbeitslager (campi di lavoro). I prigionieri
ammalati ricevevano circa il 60% di quello che ottenevamo noi
prigionieri lavoratori. Valga come esempio: io ricevevo 250 grammi
di pane al giorno, loro 150 grammi!
Fortunatamente, anche in quel campo gli italiani potevano
arrangiarsi, facevano cioè baratti con gli stranieri che ricevevano i
pacchi dalla Croce Rossa, oppure con astuzia e sotterfugi riuscivano
ad accaparrarsi qualcosa da mettere sotto i denti.
A Zeithain, ove mancavano tantissime cose e ove era presente
solo la morte giornaliera, vi furono tanti italiani eroici. A partire
da coloro che sapevano di dover morire, ai medici, infermieri,
crocerossine e cappellani. I primi morivano con la pace degli eroi,
tutti gli altri si prodigavano con abnegazione a dare sollievo, nel
170
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
modo migliore possibile, in quell’infernale campo.
Colà morirono novecento italiani le cui spoglie furono quasi
tutte inumate in un camposanto ben organizzato, che dopo circa
cinquant’anni ha permesso il ritrovamento di tutte le salme. Il
merito va soprattutto al cappellano del campo e ai suoi soldati
aiutanti, fra i quali penso vi sia stato anche l’amico Carlo Frizzarin.
Quel sacerdote volle le singole fosse molto profonde, poiché temeva
che quel terreno sabbioso subisse stravolgimenti nel caso il vicino
fiume Elba straripasse.
I russi, arrivati in quel luogo nell’aprile 1945, vi fecero un grande
campo d’aviazione demolendo tutto ciò che impediva lo spianamento
e quindi anche il cimitero. Quella zona poi passò sotto alla Germania
Est, il cui governo non permise mai di fare controlli per riesumare
le salme.
Solo nel 1989, quando vi fu la caduta del muro di Berlino e la
riunificazione tedesca, furono consentite le ricerche e il recupero
delle tombe.
Testimonianza del cappellano
Il francescano padre Luca Airoldi cappellano del lazzaretto di
Zeithain, scrisse nel 1962 il libro-diario Zeithain campo di morte,
dove 900 nostri invocavano ancora Italia, edito dalla Scuola
tipografica Artigianelli di Pavia. Da subito quel libro divenne per
Carlo Frizzarin il diario della sua prigionia, tanto da considerarlo
espressione personale del suo calvario. Quel libro è certamente un
diario importante, scritto di nascosto durante la prigionia ed è a
mio giudizio, una formidabile ed eloquente testimonianza di quanto
di esecrabile abbia fatto il nazismo, nella inutile e sanguinosissima
guerra scatenata dalla follia di Hitler per le sue manie di grandezza.
Quel sacerdote autore è stato, oltre che un infaticabile ministro di
Cristo, anche un preciso, paziente ed attento osservatore di quello
che vedeva e di quello che era costretto a fare.
A partire da pagina 129, nelle 220 pagine della sua opera, scrisse il
susseguirsi continuo e inarrestabile elenco delle morti avvenute nel
lazzaretto. Annotò non solo le generalità di tutti i defunti, ma anche
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
171
ciò che riusciva a conoscere di quei soldati moribondi: segno della
sua costante e incessante assistenza a quei poveri destinati a morire
perché mancanti cibo e di medicine. I primi italiani morti a Zeithain
furono inumati nel cimitero dello Stalag IV B. Poi, monsignor Ezio
Ghidini, cappellano di quel campo base, ottenne dai tedeschi di
costruire il cimitero degli italiani a Zeithain, nel quale, a partire
dal 2 febbraio 1944, furono sepolti quasi novecento nostri militari.
L’organizzatore fu il francescano, aiutato però da parecchi nostri
prigionieri che scavarono le fosse, costruirono le casse, le croci e i
cippi di riconoscimento.
I morti venivano rinchiusi nudi nella cassa con al collo mezza
piastrina identificativa dello Stalag IV B, che aveva anche il numero
di matricola del defunto. Il francescano fu così scrupoloso che annotò
sul proprio diario i numeri delle piastrine e delle tombe, facendo nel
contempo una precisa planimetria.
Questi accorgimenti furono molto utili, cinquant’anni dopo, quando
vi fu la riesumazione. Certamente Carlo Frizzarin, generoso qual era,
contribuì in modo fattivo a quest’opera di misericordia: non a caso
conservava quel libro come una reliquia!
Dal resoconto dei deceduti ho constatato che a Zeithain la TBC infierì
su quasi tutti gli italiani, segno della molto scarsa alimentazione.
Il 2 febbraio 1945 vi morirono sette nostri soldati provenienti dallo
Stalag XVII A, che era il mio. Sicuramente quel mio campo base, sito
poco distante dalla Cecoslovacchia, fu sgomberato quando l’armata
russa arrivò in quella regione. In quei giorni io mi trovavo in un
arbeitslager, distante circa 100 chilometri verso ovest: dove i russi
arrivarono solo all’inizio dell’aprile 1945.
Zeithain invece fu liberato dai russi verso la fine di quel mese.
Subito i russi migliorarono le cure per gli ammalati anche se
purtroppo gli italiani continuarono a morire, date le loro gravi
condizioni. Intanto coloro che potevano muoversi sciamarono fuori
dal campo e lentamente se ne tornarono in Patria, come fece Carlo
Frizzarin, che ritornò all’inizio del luglio 1945.
Padre Airoldi continuò ad aiutare gli ammalati anche sotto i russi e
riuscì a far curare i più bisognosi negli ospedali di Praga.
172
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
A furia di richieste si scontrò con il responsabile russo del distretto;
fu così che per non avere noie con l’autorità russa dovette fuggire il
15 giugno 1945 da Zeithain. Dopo aver salutato ammalati e sanitari
rimasti nel campo, partì verso ovest travestito da soldato francese,
per ottenere aiuti e non essere sottoposto a interrogatori, dato che in
quella zona vi era allora mescolanza di militari di varie nazionalità.
Arrivò dagli Alleati con il suo pesante zaino pieno di ricordi
personali dei molti defunti, compreso il suo prezioso diario che era
riuscito a scrivere ed a salvare dalle perquisizioni, nascondendolo fra
gli arredi sacri. Arrivato in Italia, pian piano ricercò i familiari dei
morti, consegnando a loro quanto aveva portato con sé.
Padre Airoldi per lunghi anni operò intensamente per il rientro in
Italia di quelle salme che lui e i suoi aiutanti avevano seppellito.
Purtroppo rimase una voce inascoltata; vuoi perché allora da noi
i ricordi dolorosi erano tantissimi, vuoi perché Zeithain era nella
Germania dell’Est che non permetteva controlli. Fu così che il
francescano nel 1962 pubblicò il suo libro-diario per scuotere
le coscienze. In Italia ottenne sì una risonanza, ma non scosse
minimamente il governo della Germania dell’Est.
Testimonianza di una crocerossina
Vittoria Maria Zeme fu crocerossina volontaria a Zeithain. Durante
la sua prigionia scrisse il proprio diario in un’agendina che riuscì
sempre a nascondere, nonostante le varie perquisizioni subite. Solo
nel febbraio 1994 fece stampare il libro-diario dal titolo Il tempo di
Zeithain 1943-1944, diario di una crocerossina internata volontaria
in un lager lazzaretto nazista, lo stampatore fu Alberti libraio editore,
Verbania-Intra.
La Zeme in questo libro non solo parla dell’opera sacerdotale di Luca
Airoldi, confermando anche la tristissima condizione di vita in quel
campo, ma in un certo modo completa il diario del francescano,
perché racconta anche la riesumazione delle salme avvenuta negli
anni 1989-90 (il sacerdote era morto nell’ottobre del 1985).
Nella prefazione l’autrice, che porta il numero di matricola 256 569
dello Stalag IV B, dice:
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
173
Questo mio diario mi ricordava di essere una persona, non un numero,
e mi avrebbe ricordato un giorno, se mai avessi potuto salvarmi e
salvarlo, di essere stata protagonista e testimone di un evento storico,
assurdo, terribile, che non doveva assolutamente ripetersi.
Il libro ha una presentazione chiara ed efficace di un ex prigioniero internato IMI - che ben interpreta la situazione e i sentimenti di noi
soldati lasciati in balia dell’ignavia di coloro che avevano il potere,
quando, l’8 settembre 1943, hanno firmato l’armistizio.
La crocerossina snoda il diario della sua assistenza ai malati piena
nell’intimo di un grande dolore per le gravi deficienze assistenziali,
anche se cercava di essere sempre sorridente con coloro che avevano
tanto bisogno di conforto.
Pure lei cominciò ad avere forti problemi di salute, per alte febbri
che durarono mesi interi, tanto che alla fine del maggio 1944 fu
inclusa nel treno violetto per il rientro in Italia di 150 ammalati.
Nel suo libro descrive anche il giorno precedente la partenza, quando
le fu estratto il dente del giudizio che le procurava atroci dolori. Il
medico privo di strumenti, dovette estrarre il dente con una tenaglia
da falegname, senza nessun anestetico: e questo era un ospedale!
Finalmente alla sera del 3 giugno 1944 il treno partì. Arrivò a Verona
la sera del 6 giugno. Gli ammalati furono distribuiti in vari ospedali;
però l’impatto sulla popolazione di quei relitti umani, suscitò un
così grande sconcerto fra gli abitanti italiani da allarmare le autorità
nazifasciste. Ne derivò che la promessa fatta di riportare in Italia
altri ammalati, fu annullata per timore di sommosse.
Evidentemente l’assistenza ai malati nei campi ospedali tedeschi era
molto diversa da quella descritta dalla propaganda mussoliniana!
La crocerossina parlando poi del cappellano Luca Airoldi, scrive che
quel francescano si era molto prodigato dopo la guerra, con costanza
e in tutte le direzioni, per portare in patria i caduti di Zeithain.
Solamente nel 1972 riuscì ad avere un permesso dal governo della
Germania dell’Est, che una delegazione della Croce Rossa potesse
controllare il sito dove si trovava il cimitero.
Fra i partecipanti vi furono anche padre Airoldi e la crocerossina
Maria Vittoria Zeme. Al riguardo, costei scrive nel libro:
174
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Partimmo pieni di speranza per Zeithain, ma il regime poliziesco della
Repubblica Democratica Tedesca – DDR - rese inutile il nostro viaggio
perché non potemmo fare ricerche. Fummo condotti davanti a una
stele, che era un monumento sepolcrale per i caduti russi del lager 304
(così era la denominazione ufficiale di Zeithain fino al gennaio 1944),
là erano sepolti in grande fosse comuni 150 000 (centocinquantamila)
soldati russi.
Qualsiasi commento è superfluo!
Continuando la Zeme precisa che finalmente, dopo la caduta
del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, nel 1989
l’associazione italiana “Onorcaduti” ebbe il permesso di eseguire
ricerche del camposanto ormai coperto dalla grande base aerea
russa, che aveva nascosto ogni segnacolo di quello che era stato
Zeithain.
Vi furono lunghe indagini e alla fine fu trovata in profondità la cassa
da morto di un soldato italiano, il cui scheletro era contrassegnato
dalla piastrina di zinco dello Stalag IV B col numero di matricola.
Con l’ausilio della planimetria e delle annotazioni del cappellano
Airoldi, fu possibile fare una riesumazione generale, con una
ricognizione precisa, di tutte le salme. I resti furono riposti
singolarmente in piccoli cofani contrassegnati da nome e indirizzo
dei defunti e trasportati nel grande cimitero militare di Redipuglia,
dove si svolse una solenne celebrazione, con la presenza delle
Autorità dello Stato Italiano. Molti parenti dei caduti chiesero il
trasferimento dei resti nei cimiteri dei paesi di origine; le salme
rimaste furono tumulate nel Sacrario dei Caduti d’Oltremare di
Bari, da dove non potranno più essere rimosse. Padre Airoldi non
ebbe la consolazione di vedere compiuto il proprio desiderio: egli
morì nel 1985.
Sicuramente Carlo Frizzarin conosceva bene la crocerossina, anzi
di certo l’ha aiutata nell’esplicazione del suo impegno umanitario:
ne sono sicuro sia perché, conoscendo la disponibilità di Carlo,
ritengo l’abbia sostenuta laddove c’era qualche bisogno di forza
fisica, sia perché c’è in proposito una cronaca giornalistica di cui
parlerò più avanti.
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
175
Documenti e interviste di Carlo Frizzarin
Dai documenti che allego risulta che Carlo Frizzarin fu arruolato
per il servizio di leva il 28 giugno 1942 e subito lasciato in
congedo illimitato provvisorio perché figlio di agricoltore: fu
infatti considerato necessario per i lavori nei parecchi campi che
suo padre aveva in affitto a Monselice in via Savellon Retratto.
Ricevette la chiamata alle armi il 15 gennaio 1943 e fu assegnato
all’Ottavo Reggimento di Artiglieria di Corpo D’Armata. Dopo
breve addestramento il 23 aprile 1943 venne inviato in territorio
di guerra nei Balcani. Fu ricoverato nel successivo luglio, dapprima
in un ospedale da campo e poi ad Atene in Grecia. Ritengo sia
stato per febbri malariche, come successe ad altri di stanza in quei
luoghi.
Certamente non fu per affezioni polmonari poiché egli riuscì a
sopravvivere in un lazzaretto tedesco, ove molti italiani trovarono
la morte a causa tisi. All’armistizio dell’8 settembre 1943 Carlo si
trovava ancora in ospedale e finì subito prigioniero dei tedeschi.
Nell’ottobre successivo fu internato nello Stammlager IV B di
Mühlberg/Elbe col numero di matricola 264 742.
Dopo poco tempo fu trasferito nel Lazaret di Zeithain, dipendente
dal campo di concentramento di base, nel quale Carlo trascorse
parecchi mesi e che è stato il luogo principale della sua prigionia.
Colà dovette fortemente lottare per sopravvivere in quell’infernale
situazione: era internato in un ospedale non di guarigione ma di
morte.
Dopo i brevi riassunti dei due diari che illustrano la terribile vita
dei duemila malati contagiosi italiani, internati nel Lazaret di
Zeithain, ora presento all’attenzione del lettore alcune interviste,
apparse sui giornali negli anni ’90, fatte a Carlo Frizzarin e
riguardanti il periodo della sua prigionia. Alcune descrivono il
recupero delle salme dal cimitero italiano a Zeithain, altre invece
riportano la viva voce del Frizzarin, quando parla di se stesso.
Questi articoli giornalistici ribadiscono le tremende vicissitudini
cui furono sottoposti i nostri soldati in quel lazzaretto.
176
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Ora che Carlo non c’è più, ritengo cosa migliore riportare le
interviste integrali, soprattutto perché in quegli scritti traspare
con chiarezza l’esistenza di un suo profondo coinvolgimento vivo
ancora dopo cinquant’anni. Le sue parole sono l’eco commossa
degli antichi sacrifici sofferti nel campo di morte.
Sul Gazzettino di domenica 9 settembre 1991 venne pubblicato un
lungo articolo della cronaca di Padova. Il titolo è: Tornano le salme
di 25 deportati. Sono 850 gli Italiani morti tra il 1943 e il 1945
nel campo di Zeithain nell’ex Germania Est. Previsto entro ottobre il
rientro in Italia sul colle di Redipuglia. Parla un sopravvissuto.
Il cronista Claudio Bertoncin scrisse: Oggi Carlo Frizzarin vive a
Monselice. Nella sua mente c’è il ricordo tragicamente lucido dei mesi
bui trascorsi in quelle squallide baracche di legno a Zeithain, stipati
all’inverosimile l’uno sull’altro su letti a castello sconquassati.
E poi la fame. Il giorno del mio ventesimo compleanno, il 4
novembre del 1943, ho venduto l’orologio in cambio di sei filoni
di pane nero. Il rancio quotidiano consisteva in un paio di patate
ed una fettina di pane.
A Zeithain il gruppo di italiani iniziò ad arrivare il 12 ottobre 1943:
venivano dalla Grecia, parecchi colpiti da malaria contratta durante
la campagna d’Albania.
Eravamo stati fatti prigionieri all’ospedale di Atene. Ci hanno
caricati in treno dicendo che ci avrebbero portati in Italia. Dopo
giorni e giorni di viaggio, dal portone scorrevole del carro merci,
dove ci avevano sistemati, vedemmo l’insegna di Innsbruck. Ci
mettemmo a piangere: avevamo capito che la nostra destinazione
era la Germania e che solo Dio sapeva cosa ci sarebbe capitato.
Il lavoro dei campi è stato la salvezza di Carlo Frizzarin.
In tre uomini andavamo a lavorare sui campi vicini al campo di
Zeithain: raccoglievamo asparagi assieme a una quindicina di
donne tedesche. Furono queste che, senza farsi vedere, ci passavano
qualche fetta di pane, qualcosa da mettere sotto i denti: eravamo
degli scheletri.
Ad Atene, prima di lasciare la Grecia, Carlo Frizzarin aveva voluto
confessarsi. Fin da adesso, gli disse il cappellano, considerati assolto per
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
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tutto quello che ruberai per riuscire a restare in piedi, purché il tuo
gesto non sia di danno per altri che sono nelle tue stesse condizioni.
I preti, durante la prigionia, erano la nostra unica speranza, confida
il monselicense sopravvissuto agli orrori della tirannia tedesca…
Il giornalista Renato Malaman, sul giornale Il Mattino, cronaca di
Padova del 23 novembre 1991, scrive:
Carlo Frizzarin è l’unico sopravvissuto padovano del campo di Zeithain.
In tutti questi anni è stato, e continua ad essere, il prezioso punto di
riferimento per i familiari di tanti defunti del famigerato campo che si
trovava nella ex DDR. A favorire il recupero degli 840 corpi sono stati,
oltre le Autorità Federali Tedesche, anche il libro-diario del francescano
Luca Airoldi di Pavia. Carlo Frizzarin da Zeithain ha portato come
souvenir una cicatrice nell’anima. Di quel calvario ha fissato ogni
particolare. Frizzarin era giunto a Zeithain con una tradotta di carri
bestiame sigillato alla partenza da Atene. Il viaggio durò parecchi
giorni, eravamo privi di cibo, durante le soste la gente ci lanciava
qualcosa da mangiare. Frizzarin è stato internato prima nel terribile
Stalag a Mühlberg-Elbe (era lo Stammlager IV B, dove provvedevano
per le immatricolazioni), poi quasi subito, a Zeithain.
“Nel campo la vita era un inferno, si moriva di fame. Per spartirci
in otto un filone di pane usavamo un rudimentale bilancino.
Durante l’inverno, con il gelo, ci costringevano ad uscire dalle
baracche completamente nudi per andare a fare la doccia.
Loro nel frattempo disinfettavano gli ambienti dove eravamo
costretti a vivere, mettendo tutto sottosopra. Letti e indumenti
risultavano poi ricoperti di un fastidioso unguento. Nessuno
comunque cedette alla tentazione di arruolarsi alla Wermarcht,
sarebbe stato grave, anche se qualcuno in quel modo avrebbe
salvata la vita. La fame era uno spettro quotidiano. Un giorno
assaltammo un camion di fettucce di barbabietole rinsecchite;
le nascondemmo nei berretti. I pacchi viveri da casa arrivavano
raramente. Ed erano anche un pericolo. Un nostro compagno,
dopo aver mangiato avidamente il contenuto, durante la notte
ci rimise le penne. Ormai eravamo talmente denutriti che
ingurgitare cibi provocava fatali lesioni all’intestino.”
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Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
L’ultimo riscontro giornalistico è del 14 febbraio 1995.
Sempre il cronista Renato Malaman scrisse sul Mattino, un lungo
titolo a tutta pagina:
Un ex internato di Monselice ritrova una collega di prigionia, lei
è piemontese ex crocerossina e sui patimenti del campo nazista di
Zeithain ha scritto un libro di memorie.
Riporto ora la cronaca:
Monselice. Emozionatissimi, si sono sentiti al telefono dopo che lui
aveva ricevuto il suo libro-diario. Ora vorrebbero incontrarsi.
Un contatto a sorpresa mezzo secolo dopo l’olocausto. Protagonisti un
ex detenuto del lager di Zeithain, il monselicense Carlo Frizzarin
oggi settantaduenne, e una crocerossina, che rifiutò l’adesione alla
RSI (Repubblica Sociale Italiana di Salò). Maria Vittoria Zeme da
Pallanza, città sulla sponda del lago Maggiore.
Entrambi sono tra i pochi sopravvissuti del terribile campo di
concentramento che si trovava vicino a Lipsia. Se lo ricorda bene
Carlo Frizzarin quella giovane crocerossina, dall’espressione spesso
sorridente, che tanto conforto ha regalato ai dannati di Zeithain. E la
notizia che anche lei è sopravvissuta ai tragici giorni dell’internamento
nel lager gli ha aperto il cuore.
L’ho saputo grazie al suo libro-diario che l’Associazione Nazionale Ex
Internati mi ha fatto recapitare – spiega Frizzarin –; “con il libro
mi è stato spedito anche il recapito dell’autrice. Le ho telefonato.
È stata una grande emozione. Ci piacerebbe anche incontrarci.
Vedremo…”
L’articolo continua.
Carlo Frizzarin è la bandiera vivente dei sopravvissuti del campo
di Zeithain. Ha dedicato molte energie alla conservazione e alla
divulgazione della memoria di quel luogo di sofferenze, perché le
nuove generazioni non dimentichino cos’è stato il genocidio nazista.
Ha parlato ai ragazzi delle scuole della sua esperienza. Lo scorso anno
era in prima fila, issando il cartello col nome del lager, all’incontro con
il presidente Scalfaro svoltosi a Terranegra (Padova, ove c’è il Tempio
dell’Internato Ignoto). Carlo Frizzarin ora è felice di riscontrare che
anche altri non vogliono che si dimentichi il Lazaret di Zeithain.
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
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Riflessioni
Quando ho iniziato a raccogliere notizie del prigioniero Carlo
Frizzarin ero dubbioso di riuscire a trovare dei riscontri che mi
permettessero di ricostruire le sue vicissitudini, interpretando nel
contempo il suo stato d’animo. Lo temevo poi perché ognuno
di noi prigionieri ha vissuto il proprio calvario con reazioni
particolari e soggettive, dovute sia alla personale preparazione
e formazione mentale, sia anche alle situazioni contingenti da
superare.
Ritengo che Carlo abbia vissuto le sue giornate da uomo di
grande fede e di forte tempra, badando e cercando di superare
le difficoltà giorno per giorno, senza nessun scoraggiamento,
dando nel contempo aiuto ai più deboli. Sono convinto di questo
perché ho visto Carlo Frizzarin operare con impegno a servizio
degli altri.
Lo ricordo anche per la sua devozione alla Madonna di Medjugorie
(Croazia), per la quale egli incessantemente lavorò per divulgare
la sua devozione.
Alla fine di questa mia ricerca mi sono persuaso di aver interpretato
le lunghe sofferenze di Carlo in modo corretto.
Certo la sua presenza avrebbe potuto far conoscere tanti episodi
che avrebbero circostanziato al meglio i lunghi patimenti e le sue
reazioni. Comunque ritengo che queste mie note, ricavate da
più fonti, dimostrino come Carlo Frizzarin abbia saputo reagire
con determinazione ad avversità davvero terribili, riuscendo a
ritornare con un corpo ancora sano. A me rimane la fiducia che
la prigionia di Carlo, piena di dolori e stenti, serva di monito
alle nuove generazioni per dissuaderle sempre e comunque dal
compiere atti di forza perché questi, inesorabilmente, portano
particolari lutti e rovine.
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Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Foglio matricolare del distretto militare di Padova ove si possono riscontrare i dati
anagrafici e le notizie militari di Carlo Frizzarin.
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Questionario del distretto militare di Padova, redatto dopo il rientro dalla
prigionia. Si può rilevare che il lager era Mühlberg/Elbe – contrassegnato IV B –
e che la matricola di Carlo Frizzarin era 264 742.
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Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Copertina del libro Zeithain, campo di morte del cappellano francescano Luca
Airoldi stampato nel 1962. Da notare che il titolo è stato scritto su una pagina
del suo diario compilato in prigionia.
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
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Il francescano padre Luca Maria Airoldi (1910-1985), durante la sua prigionia.
Si notino le sue vesti raccogliticce strette da una fascia nera, segno del cordone
caratteristico dei frati dell’ordine di San Francesco.
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Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Un funerale a Zeithain. Si vedono il portale di legno fatto dai prigionieri e il
carro agricolo per il trasporto della cassa, coperta dalla bandiera italiana che allora
aveva lo scudo sabaudo con la croce.
Cimitero italiano di Zeithain. Sullo sfondo tumuli con le croci, in primo piano
tombe senza croci data la mancanza di assi per costruirle.
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Una pagina del lbro-diario dell’Airoldi. Si vuol dimostrare come il cappellano
raccogliesse i dati dei defunti. I morti italiani di luglio 1944 furono 58,
quelli di agosto 75.
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Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
L’avviso del comune di Monselice per annunciare il ritorno della salma di Gino
Sadocco, morto a Zeithain l’1 aprile 1944. Carlo Frizzarin in quell’occasione
tenne il discorso commemorativo.
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
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La copertina del libro stampato nel 1994, della crocerossina Maria Vittoria
Zeme con il suo piastrino di prigionia n° 256 569 dello stalag IV B. I piastrini si
potevano dividere in due parti: uno per l’identificazione, l’altro per l’anagrafe.
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Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Foto della crocerossina conosciuta da Carlo Frizzarin.
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
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In alto.
Nimis (Udine).
Raduno dei
sopravvissuti
da Zeithain,
con qualche
loro familiare,
probabilmente
a metà degli
anni ’70. Padre
Airoldi seduto,
Carlo Frizzarin
in piedi, il
primo da destra.
1992. Ritorno della salma di Gino Sadocco. Carlo Frizzarin a sinistra, c’ è poi
Italo, il fratello di Gino Sadocco.
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Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
1995. Carlo Frizzarin nell’incontro al Tempio di Terranegra – Padova – col
presidente della repubblica Scalfaro. Tiene in mano il cartello del lager Zeithain
con le foto dei tre cappellani del campo IV B.
Carlo Frizzarin - Un sopravissuto del campo di morte di Zeithain
Carlo Frizzarin nei primi anni ’90.
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Appendice
Lettere alla moglie
di un prigioniero in Germania
GIOVANNI GAZZEA
nato a Monselice il 20-VIII-1913
deceduto il 7-III-1991
194
Appendice
Il monselicenze Giovanni Gazzea, classe 1913, è stato un soldato
fatto prigioniero dai tedeschi nel settembre 1943 in Albania.
Fu internato nello Stalag VI D sito a Dortmund in Vestfalia,
ricevendo la matricola 72296.
Ritornò in Patria il 5 agosto 1945.
Fu insegnante di lettere e preside delle scuole medie “Guinizzelli”
di Monselice.
Si riportano qui, in ordine cronologico, le lettere che scrisse alla
moglie Fernanda. Esse formano un percorso di affetti e ricordi
dove traspare il suo animo sensibile e delicato senza evidenziare le
terribili difficoltà nelle quali viveva nei famigerati lager nazisti.
______________
Mia carissima Danda, lo spazio che mi è concesso è insufficiente
al desiderio, al bisogno di comunicarti mie notizie. Bisognerà
fare di necessità virtù ed accontentarci. Di salute sto benissimo,
come mi auguro di te, di Giuliana e di tutti. Questo è l’essenziale.
Basta a darci una certa qual tranquillità. Deponiamo tutte le
nostre speranze nella bontà e misericordia di Dio. Preghiamo,
tesoro caro. Il Signore non mancherà di soccorrerci, di assisterci
col suo potentissimo aiuto. Immagina l’ansietà con cui aspetto
la risposta. Scrivimi di tutti e di tutto. Inutile che ti elenchi le
cose che desidero sapere. Hai sgomberato la casa? Ti sei ritirata
presso tuo papà? E Giuliana? E il suo occhietto? Che dice ora del
suo papà? Oh, Danda mia, le lunghe ore che passeremo insieme
a raccontarci, riportandoci col pensiero, in ore di felicità, a questi
giorni duri e amari! Sono assieme a Rocca, Bettio e Garbo. Stiamo
tutti benone e a volte, facendo buon viso a cattivo giuoco, siamo
di buon umore.
Saluti a tutti. Bacioni alla mia Lisia.
Ti abbraccio
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 19.12.43)
Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania
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18 gennaio 1944
Mia cara, dopo quanto ti scrissi nella lettera e nella prima
cartolina non saprei, date le circostanze di tempo e di luogo,
che cosa altro raccontarti, se non l’ardentissimo mio desiderio di
sapere prestissimo notizie di te, di Giuliana e di tutti e soprattutto
di riabbracciarti, magari domani. Ti rinnovo l’assicurazione che
godo ottima salute e che sono al riparo da qualsiasi pericolo.
Saluti a tutti.
Bacioni a te e Giuliana
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 18.2.44)
18 gennaio 1944
Mia cara, lo spazio ristretto della lettera non mi ha concesso
di dedicare un pensierino alla mia Lisia. Cara, puoi facilmente
immaginare quanto la desidero. Oh, se tu potessi mandarmi una
sua foto recente, e anche tua. Nel pacco, di cui ti parlai nella
lettera, non dimenticare un po’ di tabacco e cartine e sigarette, se
ce ne sono. A confezionare il pacco fatti aiutare dai miei parenti.
Spero lo faranno volentieri. Rispondimi subito subito. Prega, mia
cara, che il Signore ci conceda di rivederci presto.
Bacia Lisia. Saluti a tutti. Ti abbraccio
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 18.2.44)
Danda carissima, ancora non ho ricevuto risposta alla mia del 25
novembre u.s. Ogni giorno che passa si acuisce in me il desiderio
di sapere di voi notizie buone e copiose. Spero tu abbia ricevuto e
di ricevere pure io fra giorni, anche e soprattutto perché qualche
lettera dall’Italia è arrivata. Di salute, mia cara, sto molto bene
davvero, come quando mi trovavo in Italia ed in Grecia. Sono
dimagrito un pochettino, ma non ho sino ad ora avuto il minimo
disturbo. Col trascorrere dei giorni, in virtù di quello spirito di
adattamento corporale e spirituale ch’è intrinseco ad ogni anima
196
Appendice
umana, anche il morale è migliorato un po’. E’ giovato e giova
non poco la speranza di sapere presto vostre notizie ed in principal
modo la speranza che la misericordia divina guardi all’umanità
ormai così duramente provata e la sua bontà ponga presto fine
ad ogni tribolazione. Mia cara insieme a questa lettera ti spedisco
un modulo buono per la spedizione di un pacco. Istruzioni
concernenti la spedizione e l’imballaggio le trovi stampate sul
modulo stesso. Attenti ad esse scrupolosamente. Una cassettina di
legno è l’imballaggio più consigliabile. Il peso non deve superare i
5 kg. Che cosa voglio? 2 canottiere – 2 paia di mutandine – 3 paia
di calze – degli aghi – del filo – un servizio completo per barba,
qualche pezzo di sapone da bucato, del Mom o altra polvere
insetticida, un po’ di farina bianca, 1 kg. di fagioli, un po’ di pane
biscottato, del pepe, e qualche cosa altro che puoi trovare.
Non dimenticare qualche pacchetto di tabacco.
Baci
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 17.2.44)
Mia carissima, ancora sono privo di tue notizie. Sono ormai sette
mesi che non so nulla di voi. Immagina se il morale può essere
alto. Almeno fossi certo che tu hai ricevuto le due lettere e le due
cartoline che ti ho scritto e questa che come le precedenti viene a
dirti che di salute sto benissimo e che di nient’altro vivo che del
più ardente dei desideri di rivederti presto, presto, prestissimo. Ti
penso, ti sogno giorno e notte e sono in preda alla più tormentata
delle ansietà per il buio nel quale vivo su quanto concerne la tua
vita e quella della mia adorata piccola Giuliana. Anche stavolta
ti invio un modulo, buono per la spedizione di un pacco. Mi
necessita sopra ogni altra cosa del sapone. Fa l’impossibile per
mandarmene. Vorrei inoltre del filo, degli aghi, un paio di forbici,
uno spazzolino da denti, una matita copiativa, un quaderno
grosso, un pettine e di biancheria: una camicia, qualche fazzoletto,
due paia di calze e possibilmente un paio di pantofole col fondo in
Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania
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cuoio. Sono senza scarpe. Gli zoccoli di legno mi fanno sanguinare
i piedi. Non dimenticarti di mandarmi del Mom. Gradirei, se ti
riesce trovarlo, un po’ di tabacco e cartine. Spedirò una cartolina
agli zii di Villa perché ti diano qualche cosuccia da includere nel
pacco. A te chiedo un po’ di riso, un po’ di marmellata, un po’ di
cioccolato e del pane biscottato e del latte condensato. Abbiamo
bisogno di cibi sostanziosi.
Saluti a tutti. Vi bacio
Gianni
(Timbro postale di Monselice dell’8.3.44)
23 marzo 1944
Mia cara, ho ricevuto ieri 22 la tua del 27 - 12 - 43 e la cartolina del
17 - 2 - 44. C’è un po’ di disordine nella posta. Pazienza. Castello
e Casarin si trovano in un altro campo. Di loro non abbiamo
notizie dall’ottobre scorso. Ti spedisco un altro modulo, il 4°.
Almeno 1 arriverà. Mandami pane – farina, fagioli e qualche altra
cosa di buono. Sempre un po’ di tabacco. I parenti ti aiuteranno.
Baci a te e Lisia
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 19.4.44)
8 maggio 1944
Mia cara, in data 6 c. m. ho ricevuto la tua del 9/3 e il secondo
pacco. Grazie infinite di tutto. Preziosa la camicia e più i sandali.
Ora posseggo biancheria sufficiente per il cambio e sono contento.
Di salute, mia cara, sto benone. Qui nulla di nuovo. Si aspetta
sempre e con ansia crescente il grande giorno, vicino o lontano, Dio
solo lo sa. Ti spedisco ancora un modulo per il pacco. Mandami
tutto pane e un po’ di marmellata. Muoio dalla voglia di un piatto
di risotto o pasta asciutta. Ma se impossibile, pazienza.
Bacioni a tutti
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 29.5.44)
198
Appendice
1 giugno 1944
Mia carissima Danda, ti rinnovo innanzi tutto l’assicurazione
che sto bene. Ho una fame da lupo. In queste ultime settimane
mi sono anche ingrassato. Il lavoro non mi riesce più tanto
pesante come durante i mesi dell’inverno. Confido molto nella
bontà e misericordia divina e nella efficacissima intercessione
dei nostri genitori, che di lassù sicuramente ci guardano. Tale
fiducia mi fa bene sperare in una fine rapida e buona. Sarà stata
una dura esperienza, atta a renderci più lieti i giorni che verranno
e che vivremo tanto vicini. Oh, se tu sapessi il mio fantasticare
durante le ore di lavoro e durante quelle di riposo! Ma non
mi allungo perché lo spazio è troppo breve. Ti racconterò, ti
racconterò. Mia cara, proprio stasera ho ricevuto comunicazione
che mi è arrivato un pacco. Ancora non me lo hanno consegnato
perciò non so dirti se è quello degli zii o il tuo. A rigore dovrebbe
essere quello degli zii. Sono ansioso di averlo per conoscerne
il contenuto. A proposito quando mi spedisci un pacco nella
lettera che precede o segue immediatamente la spedizione,
descrivimi dettagliatamente il contenuto per soddisfare la mia
naturale curiosità. Aldo dà buone notizie? Non mi è possibile
scrivergli. Quali novità a Monselice? E gli studi di Gianni
come vanno? Giorgino è stato promosso? Manda i miei saluti
al Rettore del Collegio e a tutti i parenti. Vorrei tanto fare una
lunga chiacchierata con tuo papà.
Baci a te e Giuliana
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 21.6.44)
7 luglio 1944
Mia carissima, dopo quasi un mese di silenzio m’è arrivata, due
giorni fa, una tua cartolina del 16/6. M’hanno risollevato non
poco il morale le buone notizie di cui mi fu apportatrice. Anche
la mia salute è sempre ottima. Lo stato di magrezza non è tanto
Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania
199
impressionante quanto quella mia frase t’ha fatto immaginare.
Non preoccuparti. Supererò. Il cuore me ne dà la più assoluta
certezza. Pacchi ne ho ormai ricevuti 5. Il 4 e il 5 insieme. Gli
zii sono stati davvero molto solleciti e generosi: pane, pasta,
fagioli, lardo, salame, farina. Ho vissuto un paio di settimane
mangiando […] mente. Peccato che tutto abbia presto fine e
sopraggiungano sempre troppo presto i giorni della sola razione
e delle solite zuppe di verdura. Pazienza. Se è vero che i pacchi
finiscono presto è altrettanto vero che pure i giorni passano
veloci e, Dio voglia, non sia lontano quello della fine. Di Bettio
ti ho già detto in altre mie. Gli altri, Rocca e Garbo, stanno
benone. Quali novità costì? Che ne è di Aldo, di […] ? Salutami
tutti di cuore. Ricambia i saluti a zia Stella. E Giulianuccia mia?
Cara, ho tanta fede nelle sue preghiere. Quanto desidero vederla
e insieme a lei te, che amo tanto. Le vostre foto sono la mia più
cara compagnia.
Vi abbraccio insieme con tutto l’amore di cui è capace il cuore.
Gianni
7 agosto 1944
Danda cara, sono ancora privo di vostre notizie dal 16/6. Mi
consola, un tantino, il fatto che nelle mie condizioni sono quasi
tutti al campo. Mi auguro che lo stato di salute vostro sia pari
al mio. Da un mese sono a riposo, cioè non lavoro; grazie alla
carezza di una stanga di acciaio sul dorso del piede destro. Ne avrò
per un mesetto ancora. Intanto passano i giorni e si approssima
la fine. Il giorno del Santo Natale vorrei mangiare i tortellini
alla bolognese, ed ascoltare la poesiola d’occasione, declamata
da Giuliana. Ti prego di provvedere in merito. Conviene essere
ottimisti. Il pacco, che mi avrai, sicuramente, spedito, il mese
scorso, col modulo di giugno, non l’ho ancor ricevuto. Nel mese
di luglio ci hanno dato due moduli. Il secondo l’ho mandato
agli zii di Villa. Non mancheranno di accontentarmi e, sono
200
Appendice
certo, lo faranno molto volentieri. Quali novità costì? E’ tornato
nessuno dalla Germania? Aldo, come sta? che cosa scrive? dove
si trova attualmente? La nostra casetta è sempre in ordine? Ti
raccomando caldamente i miei libri. […] cresce bene? Oramai
è una donnetta. Ha già iniziato il suo quarto anno. Saluti
cordialissimi a tutti; in particolare a Stella, Dante, Lina, Toni,
famiglia Toso ecc. ecc.
Baci ed abbracci a te e Lisia
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 20.9.44)
19 agosto 1944
Danda carissima, immagino l’ansia con cui attenderai questa
mia, per conoscere quale fu la scelta, di cui ti parlai nell’ultima.
Nessuna. Non ci hanno messo al bivio. E allora? A quanto sembra
saremo civili entro il 31 del c. m. Ti darò notizie più precise e più
dettagliate in avvenire, quando, naturalmente, sarò in grado di
potertele fornire. Nell’ultima dimenticai di dirti che ho ricevuto
la tua lettera dell’1 luglio e la cartolina del 6. Felice dell’ottima
salute che godete. Ti ringrazio di cuore degli auguri. Anch’io il
30 giugno ho pensato più che gli altri giorni alla mia Lisia e mi
sono ripromesso di festeggiarla per quel dì anniversario anche
quanto non mi è stato possibile sino ad ora. Tu non puoi pensare
quanto forte sia il desiderio di rivederla. Di salute sto benissimo.
L’appetito non mi manca. Il piede, che mi ha concesso e mi
concede tanti giorni di prezioso riposo, guarisce bene. Ci hanno
sospeso la spedizione di moduli per pacchi. Perciò perdute tutte
le speranze. Attendo il nuovo indirizzo di Aldo per scrivergli.
Non tenermi all’oscuro di nulla, bello o brutto, che vi riguarda.
Ti raccomando vivamente. Salutami tutti di cuore. Bacioni
infiniti a […].
Ti abbraccio, tuo
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 25.9.44)
Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania
201
24 settembre 1944
Danda carissima, giorni fa ti scrissi che la questione inerente
il mio passaggio a civile era rimasta in sospesa, grazie al piede,
e che non sarei più tornato al vecchio campo. Invece… eccoti
l’ennesima prova della vanità delle nostre credenze. Entro il
30 c. m. tutti saremo civili e ritorneremo al campo originario.
L’amico Pulito è già partito. M’è dispiaciuto assai staccarmi da
lui. Ci siamo lasciati con la promessa di incontrarci presto a
Monselice e di festeggiare debitamente l’incontro. Ritornando
al 1242 difficilmente ritornerò al duro lavoro di prima. Il
piede non mi consente ancora di camminare speditamente e
soprattutto di rimanere ritto 12 ore. Non so prevedere quale
lavoro, quale sorte mi attenderà. Iddio disporrà di me ed io sarò
contento della sua volontà. Intanto ci sia concesso sperare che
la sua infinita bontà ponga presto fine al flagello che dilania da
tanti anni questa povera umanità. Ritornando al 1242 spero
di ricominciare a ricevere regolarmente tue notizie e magari
qualche pacco. Ho letto sul nostro giornale che potete spedire,
senza modulo, da due a tre pacchi al mese, di 5 kg. ciascuno, o di
viveri, o di vestiario. Te ne domando uno di vestiario: 2 o 3 paia
di calze grosse, una camicia, un pullover, un vestito vecchio, un
paio di mutande, filo, sapone,dentifricio. Indirizzalo al 1242.
Saluti e baci, tuo
Gianni
(Timbro postale di Monselice del 21.11.44)
202
Appendice
Foglio matricolare dal quale si conosce il curriculum militare dal 1933 al 1945,
dove si può rilevare che, pur essendo laureato, non ha frequentato il corso
Allievi Ufficiali perché non fornito di istruzione premilitare, allora considerata
obbligatoria dal fascismo.
Giovanni Gazzea - Lettere alla moglie di un prigioniero in Germania
Continuazione del Foglio matricolare con il percorso militare fino al 6 ottobre
1945, quando fu posto in congedo.
203
204
Appendice
Lettere di Giovanni Gazzea alla moglie Fernanda, spedite dallo Stammlager VI D,
matricola 72296.
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