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L`ultimo muro durato mezzo secolo
MERCOLEDÌ 28 APRILE 2004 LA REPUBBLICA 35 DIARIO DI UN CONFINE CHE HA DIVISO LA CITTÀ IN DUE Una contesa fra l’Italia e la ex Jugoslavia sorta nel ’47 Nel giorno del primo maggio quel muro verrà abbattuto Gorizia: l’autobus parte dalla linea del confine (segue dalla prima pagina) nche Trieste era così, ma la sua identità era più complessa. Aperta a greci, serbi, dalmati, turchi e mediterranei in generale, era una città-porto nata dal mare e per il mare, separata dal grande retroterra slavo dal confine naturale di un pendio aspro e poco valicabile. Gorizia no, era un baricentro di terra, legato alle valli e alla pianura circostante, il cuore indivisibile di una conca popolata da italiani, sloveni e in piccola parte da austriaci. Era, soprattutto, il capoluogo di una provincia unitaria che andava da Caporetto fino a Postumia, sulla strada per Lubiana. Quando si incendiò il fronte dell’Isonzo, nel maggio del 1915, le truppe austroungariche — spiega 90 anni dopo lo storico americano John Schindler — lottarono con una determinazione superiore a quella di altri fronti. Vienna schierava battaglioni di sloveni, croati e bosniaci, i quali sentivano l’Isonzo come loro “limes”, loro frontiera etnica. Gorizia importava meno, e difatti cedette per prima, nell’agosto del 1916. Per l’Italia invece era quello il simbolo, l’obiettivo. «Città santa» la definì il poeta-soldatoVittorio Locchi, mentre la truppa nel fango cantava «Gorizia tu sei maledetta», forse la canzone più spietata di denuncia contro l’orrore della trincea. Le truppe di Cadorna entrarono in una città semidistrutta che Alice Schalek, in Isonzo Front, l’epopea di parte austriaca, definì invece come città-vittima. Ma allora cosa fu l’ingresso degli italiani a Gorizia? Conquista? Liberazione? Redenzione? «Il quesito era così difficile — racconta lo storico triestino Antonio Sema — che ancora settant’anni dopo, a un convegno internazionale, si dovette usare il termine più neutrale possibile: presa di Gorizia». Tanto più che poi, a guerra finita, la città santa stranamente scomparve. Si cominciò a parlare di Trento e Trieste, e Gorizia — costata migliaia di morti — smise di essere elemento nazionale primario. Perché? L’identità del luogo non era poi così italiana. Alle prime elezioni, la provincia aveva espresso, su cinque parlamentari, quattro A GORIZIA tinuarono. Nova Gorica era giovane, piena di immigrati, tutta cemento. Gorizia era città storica e di pensionati, abitata quasi solo da autoctoni. Ma tra i due pianeti era nato subito un rapporto, erano troppo diversi per non veder crescere la curiosità reciproca. Così il rapporto di frontiera crebbe anziché ìdiminuire. E la città, defilata rispetto a Trieste, poté sperimentare nell’ombra orizzonti di convivenza sconosciuti altrove. Nacque il “Kino atelier”, l’atelier del cinema fra italiani e sloveni. Si stampò il periodico bilingue Isonzo-Soca, curato instancabilmente da Dario Stasi. Sul Collio, terra benedetta di vigneti, le due parti continuarono a comunicare. E i carri a passare. Ma soprattutto, nel 1968, fu l’esperienza dell’apertura del manicomio a opera di Franco Basaglia, un’esperienza che avrebbe fatto scuola in Europa. Si abbatté un muro che non poteva essere più carico di simboli. Fisicamente, la recinzione del manicomio coincideva per un bel tratto con il confine, tanto che per i matti italiani era provocatoriamente più facile scappare in Slovenia. Ma il muro stava anche nella testa della gente, ed era un muro tosto, perché a Gorizia la diversità mentale poteva sovrapporsi a quella linguistica, raddoppiando il pregiudizio. «Il Sessantotto di Gorizia anticipò il 2004 — spiega commosso l’allora “vice” di Basaglia, Agostino Pirella — perché fu anch’esso un’istanza di libertà». Oggi ovviamente c’è chi ha paura che il confine cada. La destra slovena vede sparire una rendita di posizione. Quella italiana pure, non ha più il nemico alle porte. Perfino la scritta Nas Tito, eretta in pietra a caratteri cubitali sulla frontiera del Monte Sabotino e lasciata coprire di sterpaglia per anni dopo l’indipendenza slovena del 1991, ora è stata ripulita da mani misteriose. Ma l’evento si sente, è entrato nelle famiglie. A differenza di Trieste, l’attesa si percepisce come una corrente. Lungo i paesi dell’Isonzo e su, verso il Kolovrat, Caporetto e Tarvisio, si preparano falò, si lucidano gli ottoni, si organizzano salite sui monti dai due versanti. Ma non è un ordine nuovo che arriva. E’ solo la restaurazione dell’ordine antico. L’ultimo muro durato mezzo secolo PAOLO RUMIZ sloveni e un comunista. E poiché già tirava un’arietta fascista, si reagì abolendo temporaneamente la provincia, che venne spartita fra Udine e Trieste. A livello politico, la divisione etnica delle memorie cominciò allora, con la Grande Guerra, non con i reticolati comunisti. Gli sloveni ripensarono Caporetto, come prima loro vittoria nazionale. Mussolini militarizzò i cimiteri di guerra, per italianizzare le terre. «Redipuglia — racconta il giorna- lista inglese Mark Thompson — era stato costruito come un Golgota, un luogo dantesco e ammonitore, ma subito venne rifatto come sacrario». Poi tutto deragliò verso il nuovo scontro. La violenza squadrista contro chi parlava lo sloveno, la guerra, l’occupazione di Lubiana, le rappresaglie, le vendette dei partigiani, gli infoibamenti. Ma a Gorizia, nonostante le atrocità, nonostante la frontiera infelice decisa da Tito e Alleati, i rapporti interetnici continuarono — MASSIMO CACCIARI CONFINE. SI PENSA al confine come a ciò che separa il luogo da noi abitato e che crediamo appartenerci dall’ “alter mundus” di cui ignoriamo linguaggio e costumi. Pensiamo al confine come al muro che li separa. Certo, anche la barriera più alta e massiccia sarà esposta alle intemperie e rotta da porte e passaggi. E tuttavia la sua “linea”, lì di fronte al nostro sguardo, continua ad apparirci qualcosa di “sacro”. Ma se invece confine non fosse che il nome proprio per dire il nostro stesso luogo, anzi: il nostro stesso corpo? Che cosa definisce un luogo se non il punto, quel suo punto, dove esso tocca l’altro da sé? Non è forse grazie a questa relazione che ci definiamo? Che cosa rende evidente il nostro corpo se non il suo confine, l’istante, cioè, in cui esso si espone al pericolo di toccare ed essere toccato, di ferire ed essere ferito? Confine non è, allora, ciò che divide, ma all’opposto ciò che di noi, dei luoghi che siamo, è sempre necessariamente con l’altro. Questo Cum può significare amore o inimicizia, ma rimane comunque ineliminabile. E solo gli organismi condannati a morte lottano per dimenticarlo o rimuoverlo. “ “ come scrisse Guido Piovene — per antiche consuetudini. Erano scritti nel Dna del luogo. Racconta Lucio Fabi, autore dell’unica storia complessiva della città: «quando nel ‘47 si stesero i reticolati, l’innaturalità del confine emerse subito». I contadini non avevano più un mercato dove vendere la roba. I mercanti e i trasportatori erano senza lavoro. La rabbia crebbe, e solo tre anni dopo, in una giornata indimenticabile, la gente radunatasi dalla parte slovena sfondò le barriere semplicemente per «fare la spesa». Era una domenica di mezzo agosto, ma i negozi dalla parte italiana aprirono come d’incanto, e la sera la gente tornò in Jugoslavia brandendo scope, oggetti che la pianificazione socialista non prevedeva. Fu la «domenica delle scope». E anche quando, dalla parte comunista, crebbe un’altra città, destinata — nei progetti comunisti — a sbattere sul muso dei capitalisti le meraviglie del regime, i rapporti con- 36 LA REPUBBLICA LE TAPPE PRINCIPALI MERCOLEDÌ 28 APRILE 2004 1947. LA CONFERENZA DI PACE A meno di due anni dalla fine del conflitto mondiale, il 10 febbraio del 1947, alla conferenza di pace di Parigi, viene tracciato il nuovo confine che attraversa la città. Sarà operativo a settembre 1948 LA ZONA FRANCA L’economia di Gorizia, privata di nove decimi del suo territorio provinciale, è in condizioni disastrose. Nel dicembre del 1948, lo Stato italiano crea la Zona Franca per rilanciare i commerci 1950 LA DOMENICA DELLE SCOPE Migliaia di sloveni possono riabbracciare i parenti rimasti in Italia. E’ una domenica d’agosto, i negozi di Gorizia sono aperti, vanno a ruba le scope. La chiameranno «la domenica delle scope» COME LA POPOLAZIONE GORIZIANA HA VISSUTO IL TRAUMA DELLA SEPARAZIONE STORIE DI CONFINE TRA PAURA E LIBERTÀ ALESSANDRA LONGO I LIBRI LUCIO FABI Storia di Gorizia, Il Poligrafo 1991 Gente di trincea. La Grande Guerra sul Carso e sull’Isonzo, Mursia 1994 MARIO SILVESTRI Isonzo 1917, Rizzoli 2002 ALICE SHALEK Isonzofront, Libreria Editrice Goriziana 2003 ANTONIO SEMA La Grande Guerra sul fronte del’Isonzo Libreria Editrice Goriziana 1997 TONINO FICALORA La presa di Gorizia, Mursia 2001 CAMILLO MEDEOT Cronache goriziane, Campestrini 1976 GIUSEPPE DEL BIANCO La guerra e il Friuli, Edizioni accademich e, 19371958 LUCIA PILLON EMANUELA UCCELLO SERGIO ZILLI Gorizia e dintorni, Libreria editrice Goriziana 2000 ERNESTO SESTAN Venezia Giulia. Lineamenti di storia, Edizioni Italiane 1947 Gorizia veva solo quindici anni, le piacevano le calze di nylon e quei pettini che si vendevano «dall’altra parte», a Gorizia, in Italia. Passò il confine di notte, strisciando tra le vigne, conquistò il suo piccolo bottino di giovane donna e tornò indietro, così com’era arrivata, per i campi. Ma un soldato di ronda vide quell’ombra in movimento, le intimò: Stoj! Fermati! Non ebbe nemmeno il tempo di gridare: fu falciata da una raffica di mitra. Rimase a terra, stringendo fra le mani le sue calze nuove, i suoi pettini. Si poteva morire anche così, nel 1949, ai confini tra Italia e Jugoslavia. Morire per un paio di calze, morire per provare ad essere ancora liberi, com’era stato sempre prima, quando niente divideva quel mondo, Gorizia viveva in simbiosi con le sue campagne, la gente arrivava in città dalle valli dell’Isonzo e del Vipacco, a fare commerci, ad incontrare parenti ed amici. Poi la Storia cambiò la vita delle persone. Il 16 settembre del 1947 case e strade vennero separate, campi, giardini, famiglie, persino i morti del cimitero di Merna furono divisi, una lapide in Italia, una in Jugoslavia. Gli angloamericani avevano tracciato col gesso una linea sulla carta, una «linea che trapassava la carne», come scrisse Celso Macor, uomo di cultura di queste terre. Una linea che sradicava i sentimenti e produceva un disperato senso di claustrofobia, un muro fisico che alimentava l’odio tra italiani e sloveni, marchiati dalla guerra e dal fascismo. Cavalli di frisia, filo spinato. Confine vero, duro. La gente non ci voleva credere, soprattutto non ci volevano credere quegli sloveni che avevano a lungo vagheggiato una Gorizia jugoslava, la consideravano anche la loro città, e rimasero orfani di tutto, delle amicizie, del mercato, dei negozi, prigionieri dei militari serbi, croati e albanesi mandati a far la ronda fra le case col mitra in pugno. Pavel e Jolanda Srebnic, 77 e 75 anni, vivono nel Collio, vicino a Cormons. Per andarli a trovare bisognerebbe ancora passare un valico internazionale, esibire un passaporto. Ma siamo nel 2004 e ci vado a piedi, attraversando un prato in mezzo alle vigne. Qui, nella notte del settembre 1947, furono gli scozzesi con il kilt a tracciare il confine: «Erano in fondo alla strada, me li ricordo bene — racconta Pavel — Arrivarono davanti alla nostra stalla. Fecero due segni verticali con il gesso e una croce nel mezzo. Insomma, ci divisero la stalla a metà». La stalla a metà: le mucche pascolavano in Italia, anche il letamaio era in Italia, ma Pavel non ci poteva andare se non dopo lunghissimi giri e previo permesso dei soldati che gli circondavano la casa. «Ci consideriamo una generazione di sfortunati. Un confine chiuso è una brutta cosa. L’hanno deciso fra Stati, sopra la nostra testa. D’improvviso ci vie- A LE IMMAGINI L’immagine sopra dei due soldati davanti al cartello che segna il confine proviene dalla Fototeca Musei Provinciali Gorizia. Per la terza, la quarta e la sesta foto da sinistra della sequenza ringraziamo la rivista “Isonzo-Soca”, pubblicata dalle edizioni Transmedia di Gorizia I GIORNALI Il tema del confine orientale suscitò grandi passioni nell’Italia degli anni ‘50 tarono persino di salutare con la mano nostra zia che era rimasta dall’altra parte, in Italia. Dal 1947 al 1954, non ci si poteva parlare». «Gli uomini dimenticano la paura, il terrore, vogliono vivere, si abituano a tutto...», dice l’oste Poller in Tarabas di Joseph Roth. Così morte e vita si mescolavano. La gente sentiva gli spari, vedeva a volte passare un carro con un cadavere. Ma la voglia innocente di un paio di scarpe da mettere nel giorno del proprio matrimonio poteva battere la paura. Mjra Tomasic ride della sua incoscienza: «Passai il confine di nascosto. Andai a Gorizia nel solito negozio, dov’ero cliente da sempre, prima che il filo spinato ci dividesse. Mi fecero vedere tante scarpe, bellissime. Ero indecisa. Ce n’era un paio blu, lisce, la pelle morbida, ed un altro in camoscio scuro... Scelsi, me le misero in una scatola. Quando arrivai a casa scoprii che si erano sbagliati, trovai una scarpa sinistra blu e una destra scamosciata. No, non era più possibile tornare indietro, rifare la pazzia. Mi sposai così, con le scarpe spaiate». Myra ha raccontato questa storia a Nadja Veluscek, regista e autrice, insieme alla figlia Anja Medved, di un bellissimo film documentario sul confine di Gorizia. Nadja, 56 anni, è lei stessa una protagonista. Il filo spinato ha attraversato anche la sua vita: «Mia madre era goriziana, mio padre veniva dalle valli dell’Isonzo. La nonna e tre zie rimasero in Italia, io nacqui in Jugoslavia. Come ti segna il confine? Molto, diventa il tuo modo di vivere. Sei un bambino che vuole correre ma non può correre perché ad un certo punto trova una sbarra, un soldato con la pistola. E’ come sentirsi sempre oltre, divisi in due. E’ una gran fatica ma diventa anche, adesso, un valore aggiunto, perché ti dà un’energia diversa». Nadja ha insegnato sloveno a Gorizia, italiano a Nova Gorica, che è l’altra Gorizia sorta dal nulla per dare un baricentro agli orfani della città vecchia. Cultura mista, tipica di queste terre. Anche Cilka Princic, 79 anni, ha radici complesse. Parla italiano con accento bolognese, una sorella scelse di vivere in Italia e abita a Bologna. Lei, Cilka, nasce a Caporetto, quando Caporetto è italiana. Aveva nove fratelli, di cui due, i più grandi, battezzati ancora sotto l’Austria. Cilka fugge da Gorizia nel 1949, vuol raggiungere Rado, il suo fidanzato, seguirlo nella nuova avventura jugoslava. Lascia tutti, parenti, amici, compagni di scuola. E si trasferisce con il neo marito ferroviere nel luogo simbolo del confine: la Transalpina, un edificio costruito in epoca asburgica. E’ la stazione nordorientale di Gorizia che il tracciato angloamericano attribuisce alla Jugoslavia. Cilka vive lì da 55 anni, l’ha intervistata anche il Times. La sua casa ha le finestre che guardano verso l’Italia: «Non ci si poteva affacciare, se ti scopriva- MATRIMONIO AL CONFINE Due sposi davanti al cartello che segna il confine. (Fondo fotograficoFotografski fond Emil Doktoric) no era pericoloso». Sul piazzale della Transalpina ci sarà, tra pochi giorni, la grande festa con Romano Prodi, verrà abbattuto l’ultimo muretto di recinzione. «Rado è morto il 7 novembre del 2003. Aveva tanto sperato di assistere alla caduta del confine. Ho preso una pietra del muretto e l’ho messa sulla sua tomba». Tra non molto quel che ancora adesso è carne viva, sarà solo un ricordo da trasmettere ai nipoti. Sarà quasi buffo raccontare loro, per esempio, cosa successe nella famosa «domenica delle scope». Era il 13 agosto del 1950, l’Anno Santo. Dopo tre anni di buio, si decise che, per un giorno, quel SIGMUND FREUD Sabato mattina giungemmo a Gorizia.Vedemmo alberi dai fiori bianchi, potemmo mangiare arance e frutta candita. Intanto raccoglievamo ricordi Da una lettera del 1898 GUIDO PIOVENE Gorizia era soprattutto un mercato. Ora i commerci sono morti, decade il ceto commerciale. Gli abitanti fingono una vita gaia e perfino agiata Viaggio in Italia 1957 I SIGNIFICATI CHE LA PAROLA CONFINE PUÒ AVERE LA LINEA CHE SEPARA CHI È DENTRO DA CHI È FUORI PIERO ZANINI dea complessa e molteplice quella del confine, talvolta idolatrata sull’altare della differenza, per esempio, o condannata come fonte di ogni male nel desiderio liberatorio di «un mondo senza confini». Basta guardarsi attorno, nella propria quotidianità come in quella del mondo, per osservare gli effetti nefasti di entrambe le posizioni. Il fatto è, come ha notato Michel Serres, che siamo molto bravi a controllare le nostre imprese puntuali ma «siamo ciechi alle loro relazioni: non abbiamo né scienza né tecnica delle interazioni. Abbiamo conquistato la nostra efficienza con la specialità, da cui la nostra impotenza nella somma». E’ proprio alla natura e alle proprietà delle interazioni che ci pone di fronte I questa linea (o fascia) di spessore variabile che chiamiamo confine e che rimanda al modo in cui conosciamo — e percepiamo — il fuori dal dentro, l’estraneo dal conosciuto, e al continuo andirivieni che caratterizza questo processo. E che di volta in volta può definire il confine come unione o divisione, barriera o cerniera, luogo di incontro o di conflitto, renderlo visibile sulla superficie del mondo o celarlo nell’intimità o nella memoria personale o collettiva, attivarlo o disattivarlo in base ad un preciso interesse ideologico. Confine che può avere la concretezza materiale di un’architettura (un recinto, un muro, una fortificazione) o l’apparente vaghezza di un paesaggio (una linea di costa, un braccio di mare, un MERCOLEDÌ 28 APRILE 2004 LA REPUBBLICA 37 1953 LA CRISI DI TRIESTE Improvvisa crisi nei rapporti tra Italia e Jugoslavia. Si discute del destino del Territoro Libero di Trieste, diviso in zona A e zona B. I due eserciti si schierano al confine. Grande tensione anche a Gorizia 1975 GLI ACCORDI DI OSIMO Gli accordi di Osimo sanciscono in maniera definitiva i confini. Gorizia incassa finanziamenti norevoli per la creazione di un grande complesso doganale autoportuale 2004 IL PRIMO MAGGIO Primo maggio 2004. E’ la data fissata per l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea. Possono circolare liberamente merci e capitali, non ancora le persone che dovranno aspettare il 2007 LA TESTIMONIANZA DELLO SCRITTORE GORIZIANO QUANDO RIPENSO A QUEL FILO SPINATO PAOLO MAURENSIG inquant’anni sono passati da quando ho capito che cos’era un confine. Mezzo secolo, dieci lustri, un’eternità o un attimo soltanto... A guardare avanti, cinquant’anni mi parevano tanti a quel tempo, ed ora, invece, quando mi volgo indietro sembra sia solo ieri. Ieri che per la prima volta ho visto un confine. Per arrivarci, si percorreva una strada che portava in periferia, si costeggiava l’alto muro del convento delle Orsoline, dopo il quale l’abitato si diradava, ed ecco che la strada finiva su un reticolato. Una matassa dipanata di filo spinato ti impediva di proseguire, e sembrava proprio che il mondo stesso finisse in quel punto e che oltre non ci fosse più nulla, nulla di duraturo perlomeno, nulla di costruttivo, solo pietre che si sgretolavano sotto le intemperie, resti di focolari che erano stati un tempo e di cui rimaneva ben poco: cumuli di sassi invasi dalle erbacce, qualche cantone di muro dove cresceva a stento il fico selvatico. Ecco dove finisce il mondo, nessuno sembra sapere che cosa ci sia oltre quel filo spinato e a che cosa montino la guardia quei figuri vestiti di grigio, con berretti dalle pendule orecchie di bracco e con la puska a tracolla, infreddoliti sonnambuli che camminano avanti e indietro e s’incrociano senza scambiarsi una parola. Cinquant’anni sono passati da allora, ma l’immagine è ancora viva. Avevo undici anni e frequentavo un doposcuola che si trovava a pochi passi dal reticolato. Quella strada la facevo tutti i giorni con la cartella sotto C confine poteva riaprirsi. Migliaia di persone si riversarono a Gorizia. Era domenica ma gli italiani aprirono i negozi. La città si rianimò, la gente non aveva soldi e scambiava uova e burro contro quelle bellissime scope di saggina introvabili oltreconfine. Al calar del buio, i carri ripresero la strada di casa, e le famiglie tenevano alte le loro scope come fossero preziosi trofei. Scrive Darko Bratina, intellettuale, senatore al Parlamento italiano, scomparso nel 1997: «Fu una domenica indimenticabile. Capii allora in modo definitivo la tragedia del confine». Anche Nadja Veluscek partecipò alla domenica delle scope, in braccio al padre. Nel suo album di istantanee, il confine ha però un’altra immagine forte: «Dovevo essere piccolissima. Ricordo le sbarre, un soldato con il fucile, un pacchetto di caramelle per terra. E mio padre che mi dice: “Vai, vai a prenderle”. Io esito, so quanto siano dolci quelle caramelle, mi faccio coraggio, comincio a correre, i militari mi vedono e alzano gli occhi al cielo. Afferro il pacchetto e torno indietro. Vedo il sorriso di mia nonna. Le caramelle me le aveva gettate lei, dall’Italia, ma non era riuscita a tirarle abbastanza lontano e io avevo dovuto passare il confine per prenderle». GLI AUTORI Massimo Cacciari, filosofo, ha da poco pubblicato Della cosa ultima (Adelphi). Paolo Maurensig, scrittore, si è imposto alcuni anni fa con il romanzo La variante di Lünenburg (Adelphi), il suo ultimo romanzo è Il guardiano dei sogni (Mondadori). Piero Zanini, architetto, si occupa di ricerche in ambito geografico e antropologico. Ha pubblicato Il significato dei confini (Bruno Mondadori) braccio. Quell’istituto era la Casa dello Studente slovena, che io frequentavo gratuitamente poiché ero orfano di padre. Ricordo molto bene l’ora del pranzo con le cuoche che sospingevano un carrello con un gran pentolone di jota — il tipico minestrone giuliano con fagioli e cappucci macerati nell’aceto — sento ancora l’odore che si spandeva dalle cucine e che impregnava gli ampi stanzoni in cui si passava il pomeriggio a studiare, o il fumo della legna e i grandi recipienti di lisciva che bollivano in un angolo del cortile, e le braci rimaste in cui seppellivo qualche patata che avrei mangiato la sera lungo IL PASSAGGIO Il confine che attraversa la città, divide le famiglie, impedisce i commerci e le attività più elementari ERNEST HEMINGWAY LA DIVISIONE La provincia di Gorizia, con il trattato del ’47, ha perso una notevole parte dei territori conquistati dall’Italia con la Grande Guerra deserto). Idea che ha sempre a che fare con delle persone, con il loro vissuto e la loro esperienza del mondo, esperienza che ancora si intreccia per la stragrande maggioranza degli abitanti di questo pianeta (al di là delle retoriche della globalizzazione e della virtualità) con un villaggio, una città, un luogo preciso, insomma con una territorialità. Un confine non è solo una linea di qualche colore tracciata — sempre fuori scala, accentuata rispetto agli altri segni grafici — su una carta geografica ma il risultato, provvisorio come mostra anche il caso di Gorizia, di una continua negoziazione tra soggetti e forze diverse. E’ intorno a questa pratica dell’interazione, che non può prescindere dal riconoscere l’esistenza di qualcuno dall’altra parte della linea, che si gioca la nostra capacità di limitare il potenziale di violenza impresso nella parola confine, almeno per come la intendiamo noi che veniamo dalla tradizione greco/romana. Ricordandoci però che non è l’unica maniera possibile di farlo, sempre che non vogliamo reiterare all’infinito le disastrose politiche di questi tempi. Andammo a stare a Gorizia in una casa che aveva una fontana e molti grandi alberi ombrosi in un giardino cintato e un pergolato di glicini violacei Addio alle armi 1929 FULVIO TOMIZZA A distanza di quarant’anni, rimettere piede a Gorizia significava introdursi in un mondo incantato, fuori dal frastuono della vita ultramoderna Franziska 1997 la strada verso casa. Con il tempo, l’immagine del confine si era fatta familiare, persino le sentinelle armate di moschetto e con i berretti di pelo non mi parevano più così minacciose: quando in cortile giocavamo a calcio ci osservavano divertite e avevano la bontà di rimandarci il pallone, se questo sconfinava. Quel luogo l’ho rivisto di recente, proprio in occasione di un’intervista televisiva sui confini. Cinquant’anni erano passati da allora, ma non mi è sembrato che fosse cambiato molto: gli stessi odori di legno bruciato, di crauti, di lisciva. Non c’erano più i reticolati, eppure il confine restava ancora. I confini sono come ferite che quando si rimarginano lasciano visibile una cicatrice. Che dire poi di quei confini che ci portiamo dentro? Già, di quei confini vorrei evitare di parlare perché nel ricordo della mia infanzia, altrimenti luminosa, portano una vena d’amarezza. In quel collegio, in quel doposcuola, ho capito che cosa sono questi confini interiori che ci segnano, è stato proprio lì, in uno di quegli ampi stanzoni in cui si studiava chini sui libri, in cui si architettavano scherzi e burle ai nostri prefetti, ai nostri controllori, ragazzi di poco più vecchi di noi, e con i quali ingaggiavamo a volte lotte furibonde finendo sempre per soccombere e per subire la punizione, ecco, proprio lì, su quei tavoli in cui ripassavamo le lezioni di latino, un libro circolò tra le nostre mani, un libro terribile, un album di fotografie che avrei voluto dimenticare, e che mi tolse il sonno per parecchie notti: l’immagine di un mio insegnante, di qualche anno più giovane ma ben riconoscibile, che indossando un’improbabile uniforme e brandendo un fucile si fa ritrarre ghignante accanto ad una tavola imbandita di teste mozzate, esibite nelle espressioni più grottesche, alcune con la sigaretta accesa in bocca, un’immagine che mi ha perseguitato per molti anni, e ancora oggi non la dimentico. Bela garda era il nome, la rosa bianca che distingueva i fascisti sloveni. Sì, ho vissuto la mia infanzia in una città divisa, in un mondo diviso fuori e dentro, diviso tra i divisi. Io stesso, passando dalle scuole italiane a quelle slovene, e poi nuovamente a quelle italiane, mi sono sentito attratto da due culture, da due lingue, per cinquant’anni, e per qualsiasi scelta abbia fatto, per qualsiasi giudizio abbia espresso, mi sono visto costretto a togliere ad una parte per dare all’altra, perché è inevitabile essere parziali quando si è divisi dentro, quando i confini dentro di noi passano tra cuore e cervello. Ci sono voluti cinquant’anni, ma ora i muri sono abbattuti, le barriere finalmente divelte. Qualche reticolato, semmai, ancora ruggine, impregnato di tetano, resterà ancora nell’anima di qualcuno, perché a lenire certi dolori non basta un’intera vita. I LIBRI OLIVIER RAZAC Storia politica del filo spinato, Ombre Corte 2001 PIERO ZANINI Significati del confine, Bruno Mondadori 1997 MARTA SORDI (A CURA DI) Il confine nel mondo classico, Vita e Pensiero 1987 ALFONSO ANGELILLO ANTONIO ANGELILLO CHIARA MENATO Città di Confine, conversazioni sul futuro di Gorizia e Nova Gorica, Ediciclo 1994 ANNALIA DELNERI (A CURA DI) Il Novecento a Gorizia. Ricerca di un’identità. Arti Figurative, Marsilio 2000 FABIO CUSIN Il confine orientale d’Italia nella politica europea del XIV e XV secolo, Lint 1977 PIO PASCHINI Storia del Friuli, Arti Grafiche Friulane 1975 ISONZOSOCA Giornale di frontiera bilingue, Editore Transmedia, Gorizia FULVIO SALIMBENI ROBERTO SPAZZALI Gorizia moderna, Editrice Goriziana 1994 Fondatore Eugenio Scalfari ALVOHXEBbahaajA CIDEDIDQDW 40428 9 770390 107009 Anno 29 - Numero 100 € 0,90 in Italia SEDE: 00185 ROMA, Piazza Indipendenza 11/b, tel. 06/49821, Fax 06/49822923. Spedizione abbonamento postale, articolo 2, comma 20/b, legge 662/96 - Roma. Direttore Ezio Mauro (con “LA FIGLIA DEL CAPITANO” € 8,80) mercoledì 28 aprile 2004 PREZZI DI VENDITA ALL’ESTERO: Austria € 1,85; Belgio € 1,85; Canada $ 1; Danimarca Kr. 15; Finlandia € 2,00; Francia € 1,85; Germania € 1,85; Grecia € 1,60; Irlanda € 2,00; Lussemburgo € 1,85; Malta Cents 50; Monaco P. € 1,85; Norvegia Kr. 16; Olanda € 1,85; Portogallo € 1,20 (Isole € 1,40); Regno Unito Lst. 1,30; Rep. Ceca Kc 56; Slovenia Sit. 280; Spagna € 1,20 (Canarie € 1,40); Svezia Kr. 15; Svizzera Fr. 2,80; Svizzera Tic. Fr. 2,5 (con il Venerdì Fr. 2,80); Ungheria Ft. 350; U.S.A $ 1. Concessionaria di pubblicità: A. MANZONI & C. Milano - via Nervesa 21, tel. 02/574941 INTERNET www.repubblica.it Domani la manifestazione “per la pace, non contro il governo”. Aderiscono le associazioni cattoliche e i no global. Berlusconi: “Non stiamo occupando l’Iraq” Ostaggi,corteoconifamiliariaSanPietro IL RETROSCENA LE IDEE Il concerto trasmesso in differita Il Cda censura la Annunziata Lo scenario più nero: Portare un fiore un sequestro lungo all’Altare della patria GIUSEPPE D’AVANZO ADRIANO SOFRI AVVERO c’è spazio per una trattativa? Davvero c’è un “qualcosa” che possa essere concesso senza piegare le scelte di politica estera del governo e soddisfare i sequestratori degli italiani favorendo la liberazione degli ostaggi? Sono le due domande che il video consegnato dai terroristi ad Al Arabiya fa scivolare sul tavolo del governo e della maggioranza. SEGUE A PAGINA 7 PRIVATI carcerieri degli ostaggi italiani hanno calcolato, al facile costo dell’assassinio di altre tre persone, di mettere alle strette il governo italiano, di appropriarsi della mobilitazione pacifista, e insomma di guidare per un fatale momento il gioco della vita pubblica (e dei sentimenti privati) nel nostro paese. Il rifiuto dei partiti di prestarsi al ricatto dei sequestratori era inevitabile. SEGUE A PAGINA 14 D Primo maggio senza diretta Rai L’opposizione: “Un’arroganza inaudita” I Il padre di Salvatore Stefio ALLE PAGINE 2, 3, 4, 7 e 10 BATTISTINI e CASADIO ALLE PAGINE 4, 18 e 19 Bombardamenti Usa in Iraq. Catena di attentati a Damasco Morchio: una svolta l’incontro coi sindacati Scontro su Alitalia oggi voli a rischio Melfi, la Fiat tratta Un’immagine dell’attacco notturno a Falluja “Con i palestinesi non si può negoziare”. Il Likud vota sul ritiro dalle colonie Sharon: la road map è morta ANTA. Maledetta. Italianissima. Slava. Delizia. Inferno. Città delle rose. Corona di spine. L’hanno definita in tutti i modi. Ma che cos’è veramente Gorizia, tagliata per più di mezzo secolo da un confine assurdo che cadrà il primo maggio, con l’ingresso della Slovenia in Europa? Che cos’è questo luogo-simbolo conquistato nella Grande Guerra a prezzo di sofferenze bestiali e stranamente sparito dalla memoria degli italiani? Quali frontiere mentali conserva ora che il “secolo terribile” si chiude davvero? E soprattutto, perché Gorizia sembra aprirsi all’evento — il May day europeo — con più naturalezza di Trieste? Quanto sta per accadere davanti alla stazione dell’ex Ferrovia Transalpina — la Porta di Brandeburgo della piccola Berlino di casa nostra — non è solo la sutura di una ferita apertasi nel 1947, quando la Jugoslavia comunista stese i reticolati a due passi dal centro città. Non è solo il naturale sbriciolamento di una cortina di ferro che non blocca più nessuno, tantomeno le migliaia di clandestini. E’ anche l’inizio della fine di uno scontro lungo un secolo, uno scontro iniziato alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. La storia della “città contesa” che finisce. Contesa tra Italia e Austria, assai prima che tra Italia e Jugoslavia. «La diletta», la chiamava l’imperatrice Maria Teresa quando l’Europa non era in fiamme. Era piccola, ma per il suo clima incantevole l’avevano ribattezzata “Nizza d’Austria”. Aveva un’anima complessa, era polo e mercato naturale per genti diverse. Scriveva nel 1567 il nunzio apostolico Girolamo da Porcia: «Nel mangiare, nel bere e nel vestire sono tedeschi. Vi si parlano tre lingue: tedesca, schiava e italiana». «Nobile città del Friuli austriaco» la definì Lorenzo da Ponte, il librettista di Wolfgang Amadeus Mozart. Luogo tranquillo di delizie. «I suoi vini — scrisse Carlo Goldoni — danno motivo a graziosissime lepidezze». SEGUE A PAGINA 35 CACCIARI, LONGO, MAURENSIG e ZANINI ALLE PAGINE 35, 36 e 37 ALLE PAGINE 12, 13 e 27 A PAGINA 11 LA STORIA IL CASO Il mistero della Gioconda malata per un millimetro Vogliono abolire il pareggio addio alla partita perfetta FRANCESCO MERLO PARIGI guancia destra, come fosse un brivido della L CONSERVATORE Gioconda che all’illucapo Vincent Posione del movimento, marède ci ripete del calore e della vita che quell’impercettiaggiunge la grazia indibile, pressoché invisicibile di sembrare peribile deformazione tura. Così a cinque pasdella tavola di pioppo, si di distanza e dietro il meno di un millimevetro sul quale rimbalzano i flash si tro, «è solo un’inquietudine che crede di vedere la nuova malattia non bisogna né minimizzare né drammatizzare». E tuttavia l’imdella Gioconda con la stessa mistimaginazione del popolo dei musei ca morbosità con la quale si vedono riesce subito a notare il cedimento senza vederle le lacrime delle Madella materia sulla guancia sinistra donne che piangono. o se preferite il rigonfiamento sulla SEGUE A PAGINA 39 I Gorizia cade l’ultimo muro d’Europa S InfernoaFallujaeNajaf BAGDAD — Attacco alle roccheforti dei ribelli iracheni. Le forze americane hanno lanciato operazioni notturne prima contro la città sciita, feudo di Al Sadr: negli scontri vi sarebbero state almeno 64 vititme tra i miliziani dell’imam; tregua saltata ancora una volta nella cittadina sunnita di Falluja dove sono entrati in azione caccia ed elicotteri Usa e dove è saltato l'esperimento delle pattuglie congiunte iracheno-americane. Il capo dell'Autorità civile provvisoria Paul Bremer ha affermato che, dopo gli scontri, Falluja verrà ricostruita in 8 settimane. E, mentre l’inviato dell’Onu Brahimi si dice ottimista su un accordo entro maggio per la formazione d’un nuovo governo a interim che sostituisca la Coalizione e ponga fine all’occupazione entro la data del 30 giugno, inviati della Croce rossa hanno di nuovo incontrato il prigioniero Saddam. Ieri sera attacco terroristico a Damasco. Le forze di sicurezza siriane avrebbero ingaggiato scontri con un gruppo d’attentatori in azione nel quartiere diplomatico della capitale. DA PAGINA 8 A PAGINA 11 DIARIO PAOLO RUMIZ Notte di fuoco nella città santa degli sciiti, i morti sono almeno 64. In Siria attacchi terroristici nel quartiere delle ambasciate Bremer: in due mesi ricostruiremo tutto La Croce rossa in visita da Saddam AB GIANNI MURA CON REPUBBLICA “I racconti” di Puskin Il 19° volume della Collana dell’800 a richiesta a soli 7,90 euro in più EPP Blatter ne ha buttata lì un’altra delle sue: abolire i pareggi. È lo stesso Blatter che proponeva il body per rendere più attraenti le calciatrici, quello che puniva i calciatori del Camerun per aver usato il body. È sempre lui. Il fatto che sia presidente della Fifa, cioè del calcio mondiale, obbliga a prendere quasi sul serio l’ultima uscita. Intanto, come reagirebbe Gianni Brera? «Svizzer, va a scoà el mar». SEGUE A PAGINA 14 CROSETTI A PAGINA 49 S