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Wikipedia oscurata e libertà vigilata

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Wikipedia oscurata e libertà vigilata
CULTURANDO
Wikipedia oscurata
e libertà vigilata
di Diana Pirjavec-Rameša
Ventiquattrore di blackout per protesta: così Wikipedia, nella versione in lingua inglese, ha deciso di oscurare mercoledì
18 gennaio il servizio per combattere contro il Sopa, la proposta
di legge contro la pirateria informatica al vaglio del Congresso
USA. L’enciclopedia online fondata da Jimmy Wales ha aperto in home page con una schermata nera: tutte le informazioni
erano bloccate e gli utenti non potevano accedere ai contenuti.
Il blackout ha riguardato solo la versione in lingua inglese, ma
anche la pagina in italiano, pur se funzionante, ha aperto con un
messaggio di solidarietà per i colleghi che potrebbero essere sottoposti alla nuova legge. Il dibattito sulla legge contro la pirateria
informatica negli States si sta trasformando in una lotta contro
la censura: le modifiche che potrebbero essere apportate con la
Stopping Online Privacy Act (Sopa) vengono viste più come una
nuova censura che come metodi per combattere i pirati informatici. Anche il presidente Barack Obama ha preferito non appog-
LA VOCE
DEL POPOLO
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Il volume è stato presentato presso numerose università
Istria e Puglia. L’inscindibile vincolo
che lega le culture dell’Adriatico
di Mario Simonovich
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L’
inizio, se così si può definire, risale al seminario avente a tema l’identità adriatica, svoltosi
a Pola nella primavera del 2009 e ad una sessione della Scuola di relazioni interadriatiche tenutasi a
Bari nel primo autunno dello stesso anno. La conseguenza è stata il libro “Istria e Puglia fra Europa e Mediterraneo”, pubblicato dalla Edizioni Studium nel 2011 e presentato di recente agli Atenei di Pola, Fiume e Capodistria, presenti fra gli altri i due curatori, Luciano Monzali
e Furio Šuran.
Come spiegato nell’introduzione al volume, intendimento primo dell’opera è di presentare, attraverso “valutazioni di settore” il quadro delle relazioni interadriatiche così come si vengono delineando agli inizi del XXI
secolo. Protagonisti cruciali del processo nato ed evolutosi in parallelo con il crollo del progetto del comunismo jugoslavo di creare un’entità politica forte ed autosufficiente e quindi del tutto sottratta alle grandi potenze, sono state le regioni e le città: Istria e Puglia si sono
dimostrate pregne di un inusuale propulsivo dinamismo
tanto politico quanto culturale favorito dalla dimensione
adriatica, sicché le popolazioni di ambo le aree ne hanno guadagnato in vitalità e dinamismo. Tra gli effetti più
evidenti ciò ha portato ad una significativa riscoperta del
patrimonio storico e culturale locale ed a una sua accurata e cosciente identificazione quale espressione di un
territorio di frontiera fra l’Italia, l’Europa balcanica e danubiana e il Mediterraneo orientale.
La Puglia si è qualificata come l’unica regione meridionale italiana che ha reagito al processo d’involuzione economica, culturale e politica del Mezzogiorno, che minacciava ripercussioni di maggior consistenza sul piano sociale nella sua globalità. Puntando
sui giovani quali elementi primi di una trasformazione
dell’economia che non ammetteva ulteriori indugi, ha
registrato il risveglio di Bari e Lecce, le due città più
rappresentative, per confermarsi in generale come meta
turistica di pregio. La contemporanea riconsiderazione della sua dimensione adriatica, a brevissima distanza dall’Albania e dal Montenegro, ha costituito poi un
cultura
passo esemplare nel processo teso a fare della società italiana uno dei centri più creativi e propulsivi della
vita nello spazio mediterraneo. Ad essa dunque il merito dell’estrinsecazione – in questa parte dell’Adriatico
- di un’articolata pluralità culturale, linguistica e religiosa desiderosa di esprimersi ed ampliarsi in maniera
sempre più libera e dinamica.
Sull’altra sponda, l’Istria, superati gli sconvolgimenti bellici e quel che ne era seguito, dalla collettivizzazione all’esodo, negli Anni Ottanta ha conosciuto pure un
progressivo risveglio, peraltro guardato dal nuovo regime in una chiave critica che per certi aspetti si sarebbe
potuta tranquillamente confrontare con quello che l’aveva preceduto.
Le suaccennate “valutazioni di settore” si avvalgono
dei contributi di Luigi Masella, Franco Botta, Onofrio
Romano, Giovanna Scianatico, Rita Scotti Jurić, Elis
Deghenghi Olujić e Andrea Matošević.
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giare il disegno di legge, tanto da scatenare la reazione di Rupert
Murdoch, il magnate delle comunicazioni che spinge per l’approvazione della legge.
Il braccio di ferro sulla protezione del copyright riguarda un diverbio a tutto campo tra Hollywood e la Silicon Valley: da un lato
i giganti della cinematografia, l’industria musicale, i produttori di
contenuti televisivi (e anche gli editori), decisi a difendere il loro
patrimonio intellettuale saccheggiato dai siti pirata, con un danno stimato in 58 miliardi di dollari nel solo 2011; dall’altro i grandi operatori di Internet che, al di là degli appelli ideali alla libertà
d’espressione, temono di subire pesantissime limitazioni se entrerà in vigore una legge che li obbliga a bloccare preventivamente il
transito di materiale “proibito” sui loro siti.
Le norme in teoria prenderebbero di mira solo i siti-canaglia
stranieri che si appropriano di film e brani musicali senza pagare diritti d’autore. Con le nuove regole, però, i provider americani
di Internet che non bloccano preventivamente il transito di questi contenuti potrebbero essere denunciati e diventerebbero corresponsabili del danno patrimoniale. Per gli operatori, a cominciare
da Google, Bing e dalle reti sociali, sono, dunque, norme ben più
stringenti rispetto al Digital Millennium Copyright Act, la legge
attualmente in vigore, che garantisce loro l’immunità per le violazioni del copyright, presumendo la buona fede dei provider e chiedendo loro solo di eliminare dai siti il materiale proibito, una volta
ricevuta la relativa notifica.
Insomma, un vero scontro di titani, nel quale la lobby dello
spettacolo, assai più ricca e radicata a Washington di quella di Internet, ha condotto all’inizio un’offensiva imponente, conquistando un vasto consenso parlamentare che, però, ora sta svanendo
sotto i colpi della controffensiva della Silicon Valley. Il mondo di
Internet, infatti, ha mobilitato milioni di utenti, invitandoli a bombardare di mail e telefonate i loro parlamentari, mentre anche il
sarcasmo della stampa cinese, che ora accusa l’America di costruire barriere censorie, viene usato come arma contro il Congresso.
Errato infine sarebbe legare il problema solo ad una mera questione di guadagni. Qui viene ridotto lo spazio di libertà e di libero
accesso all’informazione. E non è una cosa da poco.
2 cultura
Sabato, 21 gennaio 2012
INTERVISTE /«Istria e Puglia fra Europa e Mediterraneo» un prezioso volume che rac
L’identità istriana è piuttosto identità col
di Mario Simonovich
O
ltre a curare il libro Istria e Puglia
fra Europa e Mediterraneo, Luciano
Monzali e Fulvio Šuran sono autori di due capitoli, il primo dei quali - scritto insieme a Federico Imperato - s’intitola Aldo Moro e il problema della cooperazione adriatica nella politica estera italiana 1963 – 1978, il secondo Istria: analisi
sociologica di un territorio multiculturale
e multietnico. Monzali, docente di storia
delle relazioni internazionali alla Facoltà di
scienze politiche di Bari, è autore di numerosi studi sulla politica estera italiana e, per
quanto riguarda quest’area, curatore del volume Italia e Slovenia fra passato, presente e futuro (2009). Più che opportuno quindi vedere più da vicino quali siano oggi, da
parte di un ricercatore italiano, le valutazioni sull’opera dello statista nei confronti dello stato con i cui i rapporti assumevano una
precisa specificità, derivante dallo spostamento dei confini e dall’esodo. Un giudizio, quello di Monzali, che oggi appare tanto più degno di nota quando si consideri i
mutamenti successivi, che hanno stravolto i
rapporti a livello mondiale e dunque anche
in quest’area.
Nel libro in parola uno dei capitoli di
centro riguarda Aldo Moro e il problema
della cooperazione adriatica negli anni
dal 1963 al 1978. Quale può essere oggi
il giudizio in merito?
“Con questo saggio abbiamo voluto sottolineare un aspetto dell’attività politica in-
Rovigno, la Grisia
ternazionale di Aldo Moro, ovvero la sua
attenzione al clima di riconciliazione e alla
cooperazione con i popoli dell’Adriatico
orientale. Su questa sua attenzione, che è
uno degli aspetti che hanno contraddistinto la sua azione come capo del governo e
ministro degli esteri, di certo ha influito il
fatto che egli fosse un “adriatico”, un pugliese molto attento ai rapporti con i popoli
dell’altra sponda adriatica e l’Europa orientale. D’altra parte, questa sua azione sicuramente teneva conto anche degli aspetti di
politica interna: egli credeva nella necessità di dare all’Italia repubblicana il ruolo di ponte e strumento di mediazione fra i
blocchi. Il riavvicinamento alla Jugoslavia
e all’Albania era visto come un elemento
importante di questo tentativo volto a dare
all’Italia repubblicana tale ruolo.”
Se da parte italiana si registra questa
novità impersonata dall’azione di Moro,
si può dire che da parte jugoslava si profilasse pure un atteggiamento nuovo?
“A partire dagli inizi degli Anni Sessanta, in contemporanea con l’evoluzione interna della Jugoslavia comunista, segnata dalla riforma economia e dalla parziale
liberalizzazione sul piano politico e culturale, divenne più intensa l’azione per la riconciliazione con l’Italia repubblicana con
cui era sempre aperta la questione dei confini, ma che a partire dagli Anni Cinquanta
era diventata il principale partner commerciale. Si può dire quindi che sicuramente,
soprattutto da parte dell’élite di Belgrado,
ovvero del governo centrale e della Lega
dei comunisti, sussistesse la volontà di un
miglioramento dei rapporti con l’Italia.”
In che misura questa disponibilità poteva collidere con i problemi che si presentavano all’interno, in testa i rapporti
fra le etnie, che poi sarebbero scoppiati
negli Anni Novanta?
“La domanda è complessa. Penso che
da una parte ci fosse la volontà di Tito di
pervenire a un miglioramento dei rapporti
con l’Italia in quanto processo fondamentale anche per la stabilità interna del sistema
comunista jugoslavo. Dall’altra parte si capiva che migliorando i rapporti interstatali
sul piano economico, culturale, della cooperazione, si spianava la strada alla chiusura del problema dei confini. A sua volta
questo avrebbe avuto per Tito una ricaduta
molto importante sul piano interno.
Ecco dunque l’importanza di Osimo anche per Tito. Con il Trattato egli garantisce alle repubbliche di Slovenia e Croazia
la definitiva stabilizzazione dei confini, ossia l’annessione dei territori che erano stati
conquistati e che le grandi potenze avevano
riconosciuto alla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale.”
Le preziose testimonianze raccolte nei diari dei viaggiatori
Fra gli altri contributi inseriti nel volume, tutti degni d’attenzione per gli aspetti specifici che mettono in luce, un cenno
particolare va dato a Le immagini della Puglia, dell’Istria e del Quarnero nei diari dei
viaggiatori di Giovanna Scianatico, ordinario di Letteratura italiana presso l’Università del Salento, che riporta le esperienze acquisite dalle nostre parti da parecchi
viandanti che avevano inoltre la capacità di
manovrare bene la penna.
Il saggio si apre con la descrizione in
versi del percorso seguito dallo scrittore e
diplomatico napoletano Collantonio Carmignano. Vissuto per lunghi anni alla corte
barese di Isabella d’Aragona Sforza quale
diplomatico e uomo di fiducia, nel gennaio del 1518 viene incaricato d’accompagnare la ventiquattrenne figlia di questa, Bona,
in Polonia, dal cinquantunenne marito Sigismondo, che aveva sposato per procura.
Nei suoi versi egli dà ampio spazio alle descrizioni delle coste quarnerine, delle isole
di Arbe e Veglia, fino a Fiume, dove il corteo sbarca per continuare via terra. Costa
e isole sono ripetutamente definite “molto
vezzose” e costellate di golfi, isole e, cosa
che lo colpisce in particolare, pregne di aromi. Avvicinandosi a Fiume, la nave è circondata da una flottiglia di barche che la
guidano e trainano in porto. La notte si fa
festa: l’abitato è illuminato da fiaccole poste sulle torri, sulle mura, per le strade: sparano le bombarde e la gente acclama a gran
voce l’imperatore Massimiliano d’Asburgo
e i regnanti d’Aragona. Una città che si tratta bene accoglie con molta ospitalità chi arriva, nota compiaciuto Carmignano (la festa de’ Fiumi, con sì grato e bel ricette). Ma
anche in quei giorni non viene a mancare
quella pioggia che talvolta sa darci tanto fastidio anche oggi. L’acqua cade infatti a catinelle la domenica in cui gli ospiti si recano in duomo. Prima di entrare, acclamata da gente assai et de diverse lingue (già
allora!), Bona però non dimentica di fare
atto di modestia deponendo il cappello ed
il purpureo manto regale, per entrare a capo
spoglio. Fosse la stanchezza, fosse il calore
dell’accoglienza o i difficili preparative per
il prosieguo, sta di fatto che la comitiva si
ferma a Fiume nove giorni e, una volta ripartita, incontra molto presto alle sue spalle un “ghiacciato e rustico paese”, insomma un altro mondo dove si susseguono case
di legno e in cui gli oggetti più vezzeggiati sono le capaci stufe. Che dire? Che anche oggi, tolti i patiti dello sci, in gennaio il
Gorski kotar non si presenta particolarmente attraente...
Non meno interessanti le descrizioni dei
siti fatte da una categoria di viaggiatori tipi-
ca del tempo: i pellegrini che, diretti in Terrasanta, partivano o da Brindisi o, con più
frequenza da Venezia, a bordo di galee armate da privati. Era quasi una sorta di viaggio organizzato in cui, una volta sbarcati a
Giaffa, venivano prelevati dai frati francescani che facevano loro fare gli usuali tour.
Mariano da Siena, in un pellegrinaggio nel
1431, descrive Umago e Parenzo, notando
che quest’ultimo è luogo al quale per bello hordine della Signoria di Vinegia, facciano capo ogni nave et galee di Veneziani.
Inutile dire che l’obbligo, dettato dalla pericolosità derivante dall’assetto della costa,
implicitamente promuoverà traffici e commerci che sarebbero stati di notevole stimolo allo sviluppo della città, in quanto, già
che c’erano, i naviganti si provvederanno
anche di carni, acqua e legna per il resto
della navigazione. Viaggiando alla stessa
meta una dozzina d’anni dopo, è Antonio
da Crema che si conferma un ammiratore di
Parenzo, sì come Plinio la descrive e vole
sia colonia de’ Romani battuta da tre parti
dal mare, in cui de pietre asai dolce cavati
da monte sono le case, templi ed altri edifici constructi. In quanto ai servizi - annota con meticolosità - abbondano le lecarìe,
sive taberne, copioso de scorte, cioè meretrice. Insomma anche allora per i pellegrini, che erano quasi per la totalità uomini, le
distrazioni e le opportunità di socializzare
nel senso più ampio erano generosamente
a portata di mano... Il cronista d’occasione
però torna subito a concentrare la sua attenzione sull’urbanistica e l’architettura parentina, dove spicca il duomo che dimostra essere antiquo per la sua salicata de musaica,
quale è antichissima.
Di questi lidi scriverà una sessantina
d’anni dopo, un altro pellegrino, rispondente al nome di Pietro Casola, che in un brutto giorno d’ottobre dovrà subirsi una forte tempesta nel Quarnero. La nave cercherà
riparo sulla costa istriana in uno porto, secundo se diceva, molto securo da la furia di
venti, che da un lato haveva una villa chiamata la Fasana, da l’altro lato, un’altra
vila, chiamata Briona. Non ci sono marmi,
osserva, ma pietre che sembra quasi fosseno prima squadrate che fosseno misse in
quelle montagne. Da lì, conclude, evidentemente ben informato, se levano la maiore
parte de le prede (pietre) che se adoperano
a Venezia.
cultura 3
Sabato, 21 gennaio 2012
coglie importanti ricerche socio - politologiche
Fulvio Šuran
ollettiva che nazionale
Luciano Monzali (a destra in alto) mentre partecipa ad un dibattito
Questo patrimonio si può considerare
valido a tutt’oggi?
“A mio avviso la risposta è positiva. Non
c’è dubbio che le origini dell’attuale distensione nelle relazioni fra l’Italia, la Slovenia
e la Croazia vanno cercate nella distensione
a cui furono caratterizzati i rapporti fra l’Italia repubblicana e la Jugoslavia comunista
a decorrere dagli Anni Cinquanta e Sessanta, quindi dal periodo di Moro. Non a caso
gli Accordi di Osimo si sono mostrati accordi forti sugli aspetti territoriali. Ovvero, nonostante la disgregazione e la scomparsa di
una delle due parti contraenti, sono accordi che hanno retto.
Questo significa che c’era, nella logica politica, una forza
che portava italiani, serbi, sloveni e croati a
riconciliarsi ed a sviluppare una collaborazione politica.
Provo anche a sottolineare un limite della politica estera di Moro. Egli non mostrò
sicuramente attenzione al problema della
tutela della minoranza italiana in Jugoslavia e slovena in Italia, in quanto vi era in lui
l’idea che fossero in fondo questioni secondarie. Non a caso gli Accordi di Osimo non
contengono ulteriori tutele per le collettività
italiane nell’altro Paese. Esse traggono indubbiamente vantaggio dal fatto che si vengono migliorando i rapporti generali fra gli
stati, ma manca un’attenzione specifica da
parte di Moro e della classe dirigente italiana di quegli anni nei loro confronti.
Dall’altra parte ci fu in Moro una sottovalutazione della profondità delle ferite che
l’esperienza della seconda guerra mondiale
e del tragico dopoguerra avevano lasciato
in Istria, Quarnero e Dalmazia in tutti quelli italiani che erano partiti. Deriva da qui in
parte anche la perdita di efficacia di alcune parti degli Accordi, nel senso che furono quasi imposti agli esuli, in particolare a
Trieste. In effetti lungimirante, la politica
praticata allora da Moro e dalla diplomazia
italiana, evidenzia effetti molto ritardanti
quando si tratta della sua capacità di costruire un consenso in coloro che erano stati le
vittime delle tragedie della seconda guerra
mondiale. “
Incapacità di capire o effetto di una
realpolitik?
“Il problema è che era difficile chiedere a
Tito un mea culpa, quindi si trattava indubbiamente di realpolitik. La polemica del re-
gime contro gli italiani era sicuramente inferiore rispetto a quella verso la Germania,
però pure l’Italia era uno dei “nemici ideologici” che avevano legittimato tutta l’esistenza del movimento partigiano. Per Tito
una riconciliazione su questa questione era
impossibile, per cui prevalse una politica realistica, ossia di non parlare di questioni che
non potevano essere ancora risolte sul piano
della memoria.
Personalmente non condivido la polemica contro gli Accordi di Osimo che ancora viene portata avanti da taluni: non c’è
dubbio che essi presentano determinati limiti, però sono stati un momento importante della pacificazione e della stabilizzazione
dell’Adriatico.”
Analisi della multiculturalità
Mentre il saggio di Monzali s’incentra,
per forza di cose, sul passato, nell’analisi
della multiculturalità e plurietnicità istriana Fulvio Šuran, si mantiene sul presente.
Rovignese, laureato in filosofia a Zagabria e
acquisito il dottorato in sociologia a Trieste,
ha insegnato al Ginnasio di Rovigno ed è
stato collaboratore del CRS di Rovigno. Attualmente è docente ordinario di storia della
filosofia e associato di sociologia dei fenomeni territoriali e internazionali all’Università di Pola. Nel 2010 ha pubblicato il volume Sociologia della guerra: il caso della ex
Jugoslavia (Edit).
L’identità nazionale istriana si presenta, nel contempo, con una componente nazionale, di fatto duplice, ossia italiana o croata, e una che lei definisce “marginale”, ovvero l’istrianità. Siccome però
quest’ultima sembra prevalere in taluni
aspetti più facilmente percepibili, come
ad esempio il linguaggio o il modo di pensare, quanto può essere ritenuta profonda quando venga posta in rapporto con
le altre due?
”Va detto che questo lavoro si collega a
parecchi altri, scritti sia in croato che in italiano, specialmente a uno che mi ha dato anche dei problemi, in cui identificavo l’identità istriana quale forte o debole, dipendentemente dal prevalere dell’una o dell’altra
componente nazionale. Io definisco l’istrianità - che chiamerei collettiva piuttosto che
nazionale, in quanto anche il “nazionale”
in effetti è un costrutto – come un’identi-
tà oscura che le genti di questa regione si
portano dentro per farla affiorare, portarla
alla superficie, nei momenti di convenienza. In altri termini l’istriano se la porta dentro e la sente, però essa si estrinseca, diventa prevalente, dipendentemente dai risvolti socio-storici come anche in quelle che si
possono definire momenti di aggregazione
nel costrutto sociale. Un’identità che molto volte io chiamo oscura. Basta ricordare
quanto avveniva – indipendentemente dalle
falsificazioni - nel 1947, nel passaggio fra
uno stato e l’altro, quando si chiedeva agli
istriani di dichiarare l’appartenenza nazionale: con la Jugoslavia vincitrice molti si
dichiararono jugoslavi. Quando si profilò la
possibilità delle pensioni italiane molti ridiventarono ad un tratto italiani. Questa è appunto l’espressione dell’identità nascosta.
Da parte croata si tende spesso ad attribuire alla presenza veneta in Istria una
forte componente italiana o paleoitaliana.
Nel suo testo lei si oppone a tali tesi affermando che la parlata venetizzante va vista quale lingua correntemente usata dalla compagine statale più potente. Perché
gli storici croati si abbarbicano a una tesi
che mi pare carente quanto impropria?
”La risposta è un po’ difficile e a mio avviso fa capo al cosiddetto moderno neocolonialismo. Diversi storici e non solo tali,
guardano a questa che per me è una componente culturale del territorio come a un
colonialismo, in concreto veneto. All’atto d’incontrare amici o anche qualcuno dei
molti parenti e parlando in istroveneto, diverse volte mi è capitato di sentirmi dire
Ma, zašto ne govoriš po naški? Ovvero: Ma
perché non parli alla nostra? La risposta è
che io parlo alla nostra, perché anche questo
è nostro, istriano. Nell’opinione pubblica
però l’istroveneto è sinonimo di italiano e
il concetto è stato assimilato anche da molti storici della componente croata per una
questione di piena convenienza: in una società di stati nazionali, dove la paga e quindi il sostentamento ti derivano proprio dallo
stato dato, uno non può prendere un’identità che può solo peggiorare la sua posizione
esistenziale.
Quali possono essere a suo avviso i difetti più evidenti nell’approccio agli studi
di sociologia dell’Istria sia da parte italiana che jugo/sloveno/croata?
”All’inizio del saggio ho premesso
che nell’accingersi ad analizzare questa
realtà – che a me piace chiamare “realtà
socio-territoriale istriana” visto come un
territorio dal confine statale mobile e di
frontiera sia linguistica che etnica - ogni
ricercatore dovrebbe liberarsi di quei costrutti etnici/emotivi che in certo senso lo
frenano nell’analizzare la realtà. Non è
casuale che siano i ricercatori americani,
d’oltreoceano, a dare una visione più oggettiva di questa realtà. Ritengo dunque
che tutti i ricercatori debbano in un certo
senso liberarsi di questa zavorra etno-nazionale per poter osservare meglio la realtà istriana nel suo contesto socio-culturale attuale”.
Ma perché, a suo avviso, avviene questo? Per incapacità di capire, per il quieto
vivere, per l’immaturità degli strumenti
di ricerca?
”No, ripeto quanto detto. Le cause possono essere le più diverse, ma vediamo di
concentrarci su quello che rientra nella norma e che tocca dunque la stragrande maggioranza: siamo sempre alla questione dello
stato che paga. Il deva fare così se vuol avere successo, soffrire di meno, farsi un nome.
Insistendo sul nazionalismo, diventano importanti, ottengono i mezzi per la ricerca e si
vedono pubblicati i lavori. Facendo il contrario non otterrebbero nulla”.
Sta preparando altre ricerche sul
tema?
”Uno dei programmi universitari di cui
mi occupo in quanto scelti dagli studenti riguarda l’etnicità e l’identità collettiva.
Si tratta di appurare quanto sia importante
l’identità collettiva e quanto l’etnicità, con
le sue caratteristiche, costituite dai valori
tradizionali intesi sia in senso positivo che
peggiorativo, ossia come zavorra, o ancora, quale folclore, contribuisce alla creazione dell’identità legata a una o l’altra etnicità dell’Istria. Quando si proceda in questo
campo si può agevolmente osservare come
la componente slava – favorita anche dalle maggiori possibilità - dia più rilievo ai
propri valori tradizionali rispetto alla componente italofona che pertanto appare più
soggetta al processo d’assimilazione. Questo emergerà dal lavoro di cui sono pronte
già circa 150 pagine. Per la pubblicazione,
si vedrà.”
4
cult
Sabato, 21 gennaio 2012
INTERVISTE / Studiare in Germania e vivere una realtà completamente nuova aiuta a
Il design di qualità è nella sua ess
S
di Helena Labus Bačić
tudiare in un ambiente stimolante, nel quale viene apprezzata
ogni forma di sapere e competenza è certamente un’esperienza che arricchisce lo spirito e che sprona a dare
il meglio di sé in ogni occasione. Un
ambiente del genere, che permette a chi
si impegna e lavora di esprimersi e di
maturare, è un terreno fertile per idee
originali che possono portare, e quasi di regola portano, a risultati concreti
in svariati campi di attività, contribuendo allo sviluppo della società, come
pure dell’economia. Il desiderio di ampliare i propri orizzonti e di progredire in campo professionale hanno portato l’artista fiumana Ivna Mavrinac in
Germania, dove ha la fortuna di vivere
quest’esperienza in prima persona, frequentando i quarto semestre della Fachhochschule di Münster.
Ivna, classe 1981, ha frequentato la
Scuola elementare italiana “Belvedere”
per continuare la sua formazione alla
Scuola di arti applicate di Fiume. Nel
1999 si iscrive all’Accademia di Belle arti di Brera a Milano, dove consegue la laurea in scultura nel 2005. Ecco
cosa ci ha raccontato della sua esperienza all’università tedesca.
Come mai ti sei decisa a diventare di nuovo matricola, dopo aver concluso gli studi all’Accademia di Brera?
”Ero ancora studente quando, assieme a mia sorella, feci un viaggio
in Germania visitando Berlino e Amburgo. Rimasi talmente affascinata da
queste città che da allora in poi divenne mio desiderio vivere a Berlino, che
è uno dei centri più importanti dell’arte contemporanea. La città ha un’atmo-
dustriale. La mia idea era stata accolta con interesse e già il giorno seguente
avevo un incontro con uno dei docenti di Produktdesign al quale mostrai alcune fotografie dei miei lavori scultorei, il mio curruculum vitae e il diploma
dell’Accademia di Belle arti di Brera.
Mezz’ora dopo ero ammessa alla facoltà.
Ovviamente, questa non è una procedura standard in quanto il procedimento di ammissione alla FH di Münster dura di solito tre mesi a partire
dalla consegna della mappa dei lavori
fino all’esame di ammissione. La facoltà accoglie studenti di tutta la regione del Northreinwestfalen (Renania Settentrionale Vestfalia), come
pure da altre parti della Germania. Nel
mio caso, a parte il fatto che i miei lavori sono stati apprezzati – il talento
e la perseveranza sono le doti più importanti -, quello che ha giocato a mio
favore è stata la mia volontà di imparare una nuova lingua e di intraprendere un nuovo percorso accademico.
D’altro canto, sono consapevoli del
fatto che il numero elevato di studenti stranieri contribuisce ad accrescere
il prestigio della facoltà e, inoltre, la
mescolanza di culture porta a idee interessanti. Infine, tutti gli studenti stranieri che un giorno decidono di far ritorno nei loro Paesi d’origine diventano promotori della cultura e della lingua tedesca. Quindi, non c’è motivo di
perdere tempo con le procedure. I tedeschi sono un popolo efficente.
Per quanto riguarda la mia decisione di ritornare ad essere studente, posso dire che l’idea mi è venuta per caso.
Volevo trasferirmi e vivere in Germa-
Il design è molto diverso dall’arte in quanto le
idee si sviluppano in maniera metodica e a uno scopo
finale, mentre nel procedimento è essenziale la
ricerca. La cosa più importante nel design è il risultato
finale, mentre nell' arte è rilevante il percorso
sfera magnifica, allo stesso tempo rilassata e lavorativa. Tutto il mondo è
a Berlino. Infine decisi di andare a studiare a Münster, che è una città grande come Fiume e conta 60mila studenti
provenienti da tutto il mondo. È la città
universitaria più grande della Germania, dopo Berlino, ed è conosciuta soprattutto per la Facoltà di architettura e
l’Accademia di Belle arti.
Due e mezzo anni fa mi ero presentata a un colloquio informativo alla
Fachhochschule, nell’ambito del quale avevo espresso, in inglese (all’epoca non conoscevo ancora il tedesco), il
mio desiderio di studiare il design in-
nia ma non conoscevo la lingua, per cui
bisognava superare questo primo gradino. Münster si è dimostrato perfetta in
questo senso. Infatti, chi vuole studiare ha diritto a un corso gratuito di lingua tedesca della durata dai sei ai 18
mesi. Poi sono venuta a sapere del corso di design, uno dei più conosciuti e
apprezzati in Germania, e gradualmente la mia idea di iscrivere un corso post
laurea si è concretizzata con un secondo corso di laurea.
Il corso di design offre all’artista un
sapere tecnico che non viene appreso
all’Accademia. Nell’ambito del corso
di Design industriale veniamo a cono-
Il vecchio porto di Münster
Ivna Mavrinac
Uno dei laboratori
Durante gli studi a Brera Ivna Mavrinac ha partecipato a numerose mostre
collettive in Italia e Germania. In Istria e a Fiume si è pure presentata in mostre
personali e collettive quale membro dell'Associazione nazionale degli artisti
visivi (HDLU). Nel 2006 è stata premiata alla «Grisia» di Rovigno, mentre nel
2007 ha ottenuto un riconoscimento alla mostra collettiva «Open RIVA Art».
Per due estati consecutive, nel 2008 e 2009, ha ideato e gestito il progetto
dell'Iniziativa artistica "Stand up/Galleria mobile", organizzato nell'ambito
dell'"Udruga Plus" e con il patrocinio della Città di Fiume.
Nel 2008 ha collaborato con l'artista brasiliana Karin Schneider, attiva a New
York, al progetto "Campo giochi Pomerio", nell'ambito del quale ha disegnato
la fontanella pubblica "Vidikovac", realizzata lo stesso anno con il patrocinio
della Municipalità di Fiume. Il progetto è il risultato della collaborazione tra la
galleria "Art in General" di New York e del Museo di arte moderna e
contemporanea del capoluogo quarnerino. L'anno scorso è stata a Graz come
borsista dell'organizzazione austriaca "Kulturvermittlung Steiermark", dove ha
realizzato una serie di lavori site-specific intitolati "Dialogo intimo"
scenza di materiali e di tecniche attuali
di produzione. Impariamo a utilizzare
i programmi informatici di grafica e di
modellazione 3D (tridimensionale). Si
tratta di nozioni molto utili per lo scultore.
In Germania si investe molto nel
sistema scolastico, per cui le università sono perfettamente attrezzate il
che ci permette di applicare in pratica
tutto il sapere appreso. La mia facoltà dispone di diversi tipi di stampanti
(in 3D, per i poster…), nonché di una
serie di laboratori (per la lavorazione
del legno o del metallo, ma anche per
la fotografia e per il film). Insomma,
qui è possibile realizzare proprio ogni
idea.
Vorrei, però, precisare che il design
è molto diverso dall’arte in quanto le
idee si sviluppano in maniera metodica
e possiedono una propria finalità, mentre nel procedimento artistico è essenziale la ricerca. La cosa più importante
nel design è il risultato finale, mentre
nell’ arte è rilevante il percorso”.
Puoi descrivere una tua giornata
all’università? La trascorri nei laboratori oppure riesci a trovare il tempo per altri interessi?
”Qui è in vigore il Processo di Bologna, quindi la laurea di primo livello
è divisa in sei semestri, di cui i primi
due sono generali e come tali anche più
impegnativi. Al terzo semestre si sceglie l’indirizzo optando tra: illustrazione, design della comunicazione, quello
dei media oppure il design industriale.
Il curriculum comprende una serie di
materie obbligatorie e quelle opzionali.
Tutto sommato, non posso dire di avere
troppe lezioni dal momento che si tengono una volta alla settimana. All’università si insiste sul lavoro autonomo,
per cui l’80 per cento viene svolto nei
laboratori. Le lezioni servono per indirizzare gli studenti, per fare il punto
sul nostro lavoro, per uno scambio di
idee e di opinioni. Fin dal primo semestre, dagli studenti ci si aspetta molto,
per cui non c’è spazio per l’ozio. Il programma della Fachhochschule è tale da
abilitare gli studenti per un lavoro autonomo e per renderli concorrenti sul
mercato, ma dipende da loro quanto
impareranno. Anche dal punto di vista
del programma di studio c’è molta libertà. È possibile frequentare e accedere agli esami anche di materie che rientrano nel curriculum di altri corsi di
laurea.
Quindi, ritornando alla domanda,
le mie giornate e le mie settimane non
sono ripetitive. Qualche volta trascorro
all’università poche ore, altre volte delle giornate intere. Oltre a studiare, lavoro, per cui non ho troppo tempo libero
ma ogni volta che posso visito qualche
mostra.
A Münster ci sono alcuni spazi
espositivi molto interessanti, mentre
ogni dieci anni viene allestita una gran-
Il laboratorio per il film e il video
tura
Sabato, 21 gennaio 2012
crescere professionalmente
enza molto semplice
Ivna Mavrinac: Dialogo intimo (scultura site-specific)
de mostra internazionale nelle piazze,
strade e nei parchi. La città vanta una
serie di sculture pubbliche di nomi prestigiosi della storia dell’arte quali Henry Moore, Claes Oldenburg e altri”.
Puoi fare un paragone tra l’Italia,
la Croazia e la Germania nel contesto del rapporto verso l’istruzione?
Quali sono le differenze?
”Le differenze sono notevoli. Direi
che l’Italia si trova in una via di mezzo tra la Croazia e la Germania, ma qui
non è da trascurare il fattore economico. Le università tedesche sono molto
più attrezzate di quelle italiane e croate, il che è un fattore molto importante
per lo studio del design. Infatti, se non
sei a conoscenza di tutto quello che c’è
sul mercato, rimani in disparte e nel design bisogna seguire le novità perché
questa disciplina rispecchia l’attualità.
Ma c’è anche l’altra faccia della
medaglia. Gli studenti dispongono di
tutto il necessario per lavorare, di conseguenza “dimenticano” l’arte dell’arrangiarsi, il che a volte fiacca l’immaginazione e la creatività. Credo che
non poche volte gli studenti croati hanno dimostrato notevole creatività e spirito di innovazione proprio a causa della mancanza di mezzi.
Ciò che aiuta molto gli studenti della Fachhochschule è il fatto che la facoltà collabora con diverse aziende attive nella regione del Northreinwestfalen (Renania Settentrionale Vestfalia) su numerosi progetti. Questo è il
vero lavoro del designer e soltanto così
si può imparare veramente il mestiere.
Proprio in questo semestre sono coinvolta in due progetti del genere. Tutti
i miei professori hanno collaborato per
anni con diverse aziende come designer autonomi, molti possiedono proprie ditte. Per questo motivo, si tratta
di persone che hanno molta esperienza,
sono competenti anche nel campo del
mercato, delle tendenze e, non meno
importante, hanno dei buoni contatti. Con gli studenti sono molto aperti e
amichevoli perché sono consapevoli di
essere lì per gli studenti e non viceversa. Si impegnano a creare programmi
quanto più interessanti, apprezzano il
lavoro e l’opinione dello studente.
D’altro canto, ognuno si occupa del
proprio lavoro e non c’è spirito di comunità, anche se sono tutti dei buoni
colleghi e sono sempre pronti a dare
una mano. Da questo punto di vista,
l’atmosfera è molto diversa da quella
delle facoltà italiane o croate.
Credo che nelle università italiane
il percorso accademico venga ancora
inteso non soltanto come un’abilitazione professionale, ma come un periodo in cui si accumulano esperienze
anche fuori dal campo professionale, il
che contribuisce alla crescita spirituale
e umana di un individuo. In Germania,
studiare vuol dire investire nel futuro.
In Croazia, a mio parere, l’accento si
pone molto di più sulla teoria che sulla pratica. I tedeschi sono efficienti nello studio e non perdono tempo facendo
cose inutili”.
Quali sono i designer il cui lavoro apprezzi in modo particolare e in
che modo la tua preparazione artistica influisce sui tuoi lavori attuali?
Tra tutti gli impegni, riesci ancora a
occuparti di scultura?
”Per quanto riguarda la scultura, cerco di non trascurarla. La scorsa estate ho trascorso un mese a Graz
e propri. Scopro ogni giorno delle cose
molto interessanti, come nel campo
dell’arte così pure nell’architettura e
nel design. Apprezzo il design classico
a partire da Alvaro Aalto fino al design
contemporaneo di Moooi”.
Quali sono le qualità che deve
possedere un bravo designer?
”È indispensabile una dose di talento e di innovatività. È fondamentale l’approccio analitico al problema,
la flessibilità e, non meno importante,
bisogna essere convincenti. Bisogna
conoscere il mercato, in quanto dietro
a ogni prodotto di qualità c’è una storia interessante che aiuta a venderlo. E
infine, a volte bisogna essere audaci e
pronti a rischiare.
L’interno della Fachhochschule
Nel design è indispensabile una dose di talento e di
innovatività. È fondamentale l’approccio analitico al
problema, la flessibilità e, non meno importante,
bisogna essere convincenti. Si deve conoscere il
mercato. Dietro a ogni prodotto di qualità c’è una
storia interessante che aiuta a venderlo. Bisogna
essere audaci e pronti a rischiare. Però la vera arte sta
nella creazione di oggetti utili, di qualità e accessibili a
tutti, che rendono la vita più facile e più interessante
in Austria come borsista del programma Artist-in-Residence “Kulturvermittlung Steiermark”. È stato questo un
mese molto interessante, nel corso del
quale mi sono dedicata completamente al lavoro. Il mio alloggio si trovava
vicino al centro cittadino e proprio di
fronte si trovava una stanza sotterranea
nella quale ho realizzato tre lavori sitespecific (ovvero legati alla specificità
del luogo) ispirati all’architettura della
città e intitolati “Dialogo intimo”.
A proposito della mia formazione
artistica, direi che è stata sempre per
me un punto di partenza e un sostegno
teorico. Grazie a questo sapere sono
più libera e più sicura nelle mie scelte. Gli italiani sono grandi autorità nel
campo del design, per cui posso dire
che i sei anni di studio che ho trascorso a Milano mi ispirano ancora. Dal
punto di vista tecnico, le competenze
e le esperienze acquisite negli anni della Scuola Media Superiore mi tornano
sempre utili, così come la capacità di
“creare qualcosa dal nulla”. Però, devo
confessare che da scultrice ho il vizio
di complicare le cose, mentre il design
di qualità è nella sua essenza semplice e si basa sul motto “less is more” (il
meno è più).
I designer che apprezzo di più?
Non posso dire di avere degli idoli veri
Però la vera arte sta nella creazione
di oggetti utili, di qualità e accessibili a
tutti, che rendono la vita più facile e più
interessante. Nel fare ciò è indispensabile soprattutto tutelare la natura, in
quanto accumulare oggetti inutili che
pure inquinano non aiuta nessuno”.
Qual è il settore del design che
più ti attira? E infine, dove vedi il tuo
futuro, in Germania o in Croazia?
”Ogni progetto è diverso. Sono da
sempre interessata allo spazio, che è un
tema ricorrente anche nel mio lavoro
scultoreo. Pertanto, vorrei occuparmi
di arredamento degli interni e del design di mobili. Al momento, però, sto
lavorando al design di una confezione
estiva di cioccolatini per un’azienda tedesca e devo dire che anche questo mi
diverte.
Per quanto riguarda i miei piani futuri, per ora desidero rimanere in Germania. Qui mi trovo bene e mi piace
come funzionano le cose perché c’è
spazio per chi si impegna e lavora.
Torno spesso in Croazia, dove ci
sono la mia famiglia e i miei amici.
Ogni tanto partecipo anche a dei progetti, come lo è stato quello di “Campo
Pomerio”, al quale ho collaborato con
Karin Schneider. Spero di poter prendere parte anche ad altri progetti del
genere”.
La sede della Fachhochschule
Uno scorcio della cittavecchia di Münster
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6 cultura
Sabato, 21 gennaio 2012
IDEE / Giustizia sociale, l’unica in grado di ridare dignità al grande progetto europeo
La Grecia, la filosofia e la democrazia
di Irene Dioli
M
entre la crisi scombussola le vite
materiali dei cittadini, ma anche
le categorie di pensiero, la filosofia torna a riflettere sui concetti di democrazia e solidarietà che la politica ha abbandonato.
La crisi economico-finanziaria ha portato con sé le sue parole d’ordine: “austerità”, “responsabilità”, “sacrifici”. “Adottare provvedimenti impopolari”, “tagliare
sprechi e privilegi”, “rassicurare i mercati”.
Queste le espressioni e le esortazioni che
attraversano l’Europa veicolate da media e
politica, senza grandi distinzioni fra destra
e sinistra. Una pioggia che si rovescia sulle
teste dei cittadini con l’obiettivo di presentare come naturali e ineluttabili quelle che
sono precise scelte politiche e sociali, dove
a fare la differenza è “chi” deve affrontare
l’austerità, “che cosa” viene indicato come
spreco o privilegio, “presso quali gruppi sociali” sono impopolari determinati provvedimenti, “a quale prezzo” rassicurare i mercati. La Grecia rimane il caso più emblematico (e drammatico), ma anche l’Italia
promette bene. E se la politica non sembra
voler mettere in discussione il credo finanziario internazionale e il linguaggio apparentemente neutrale di “esperti” e “tecnici”,
a prendere spunto dalla crisi greca per un
dibattito sul significato di democrazia, rappresentanza e solidarietà interviene la filosofia.
Judith Butler, vite precarie
Fra gli intellettuali che di recente hanno
fatto sentire la propria voce c’è Judith Butler, autorevole filosofa americana nel campo degli studi queer e della critica ai sistemi
sociali, che il 12 novembre scorso ha preso la parola sul blog “Greek Left Review”.
In Grecia ma non solo, secondo Butler, non
siamo di fronte ad una temporanea fase di
difficoltà economica, ma ad una “costellazione di pratiche economiche neo-liberiste”
caratterizzate dalla precisa volontà di modificare i rapporti fra strutture economiche
e sociali. Lo smantellamento di istituzioni
democratiche e servizi sociali produce infatti quelle che Butler chiama “vite precarie”, da intendersi come vite “usa e getta”.
Non si tratta semplicemente di esistenze
precarie dal punto di vista lavorativo, ma di
vite sul cui sfruttamento si produce profitto: si parla in primo luogo di persone povere, senza casa e migranti, e in generale tutte quelle interessate da forme di protezione
sociale (protezioni che in Europa vengono
sempre più etichettate come “assistenzialismo”, “spreco” e “privilegio”). Il problema, sostiene Butler, non è solo nell’impoverimento materiale di vasta parte della società, ma anche nel fatto che l’abbandono di
molteplici gruppi sociali al tritacarne liberista sia stato ri-concettualizzato come pratica periodica, regolare e normale.
Slavoj Žižek
Jürgen Habermas,
dignità e democrazia
Questa nuova razionalità, che rende gli
Stati meri mediatori delle esigenze indiscusse delle sovrastrutture economico-finanziarie, apre una ferita profondissima nei
concetti stessi di rappresentanza e di democrazia. Butler non cita qui lo slogan “noi
siamo il 99 p.c.”, ma indica esplicitamente nelle masse di manifestanti a New York,
Oakland e altrove il ricostituirsi, letteralmente e fisicamente, della volontà popolare
di chi è rimasto escluso da un “noi” istituzionale ormai svuotato di significato. E la
democrazia, un concetto che sembrava dato
per scontato in Occidente, compare nei dibattiti nel ruolo di creatura in via di estinzione. In un’anticipazione del suo prossimo
libro (“The Crisis of the European Union:
A Response”) pubblicata sul Guardian il
Platone e Aristotele
La scuola di Atene rappresentata dal grande Raffaello
filosofo tedesco Jürgen Habermas dipinge
lo scenario di un’Europa post-democratica, fatta di governi che, sotto minaccia di
sanzioni, traducono gli imperativi di mercato in politiche economiche nazionali senza mediazione o legittimazione democratica. Vi suona familiare?
In questo modo, secondo Habermas,
l’Europa che dovrebbe essere una democrazia transnazionale si trasforma in un sistema caratterizzato dall’asimmetria fra
le possibilità di partecipazione democratica a livello nazionale e quelle a livello
dell’Unione europea. Ma di fronte al deficit democratico, i governi nazionali fomentano l’euro-scetticismo invece di proporre
un’Europa partecipata e autenticamente democratica, che secondo Habermas passa attraverso una solidarietà civica transnazionale. Ma una solidarietà civica, continua,
si può sviluppare solo in presenza di equità
sociale all’interno dell’Unione, invece che
di gerarchie fra ricchi e poveri negli Stati
membri. Una posizione che in Germania
non può passare inosservata. Infatti, ai primi di novembre, Habermas era intervenuto
sulla questione dell’annunciato referendum
greco commentando: “Non è soltanto una
questione di democrazia: è una questione di
dignità”, guadagnandosi sulla stampa tedesca gli appellativi di buonista, isterico e retorico.
Tuttavia, anche se lo strumento referendario sembrerebbe la quintessenza della democrazia e la sua cancellazione ha suscitato
sospiri di sollievo ai piani alti delle istituzioni europee, da alcuni intellettuali greci
la mossa di Papandreou era stata interpretata come tutt’altro che una questione di
principio. In diversi contributi, l’ormai ex
primo ministro viene ritratto non come costretto dal ricatto internazionale ad abdicare ai propri principi democratici, ma come
uno spregiudicato scommettitore che aveva usato il paventato referendum come strumento di ricatto e stratagemma contro l’opposizione interna. Il governo greco come la
Fiat, in altre parole. Uno stato d’emergenza
che maschera e giustifica la rottura del contratto sociale.
Božidar Jakšić
e la tradizione di Praxis
Dimostrazioni antigovernative dell’estate scorsa ad Atene
Di referendum in referendum, arriviamo
ad una voce filosofica dall’ex-Jugoslavia:
Božidar Jakšić, figura legata alla rivista Praxis, alla scuola estiva di Korčula e all’Istituto di filosofia e teoria sociale dell’Università di Belgrado. A proposito del referendum croato sull’entrata nell’Unione europea (osteggiata in ottica nazionalista da
destra e anti-liberista da sinistra), e pur augurandosi un futuro all’interno dell’Unione per la Croazia e in futuro per la Serbia,
Jürgen Habermas
Jakšić mette in guardia dalla tendenza delle istituzioni europee a guardare ai Balcani come ad entità subordinate anziché stati
indipendenti, anche se sotto questo aspetto, in questo momento, i Paesi candidati
sembrano essere in buona compagnia degli
stati membro. Per Jakšić, le manifestazioni di questi tempi rappresentano una sorta
di ritorno alle origini: alle piazze, all’agorà
dove la democrazia è nata e potrebbe rinascere dalle proprie ceneri. Con un certo ottimismo, infatti, vede in proteste e occupazioni “l’inizio della fine” per le oligarchie
finanziarie, politiche e militari, e nella crisi l’opportunità di ripartire da una critica
dell’esistente.
Slavoj Žižek, solidarietà
trans-europea
Come Habermas, Jakšić invita a rivalutare il concetto di solidarietà in chiave civica e umanistica. E all’idea di solidarietà
si affidano anche le speranze dell’immancabile Slavoj Žižek. Qui però l’ottica non
è universalistica, ma di classe: Žižek indica infatti l’unica possibile via d’uscita dalla
crisi, economica e di sistema, nell’emergere
di una solidarietà trans-europea fra lavoratori e lavoratrici. Un movimento al 99 p.c.
europeo? A sentire la filosofia, quella giustizia sociale che viene presentata come un
costoso impiccio alla crescita potrebbe essere l’unica possibilità di ridare significato
al progetto europeo.
cultura 7
Sabato, 21 gennaio 2012
MOSTRE/ Furono i protagonisti della nascita del fotogiornalismo
Il lontano oriente raccontato
all’occidente dai fratelli Beato
R
accontarono il mondo
quando la fotografia era
ancora sperimentale, furono protagonisti della nascita del
fotogiornalismo e del reportage.
Fecero scoprire il Giappone, e le
meraviglie dell’Egitto, portarono
la fotografia nelle terre d’oriente,
partendo dal Veneto. Loro sono
Antonio e Felice Beato, due fratelli greco-veneziani, e Adolfo Farsari, vicentino. Una mostra, dall’emblematico titolo di “East Zone”,
per la prima volta documenta in
modo esteso la loro arte. Raccontando anche uno scambio culturale
tra l’est italiano e il lontano Oriente, scambio nei due sensi dato che
i tre fotografi veneti influenzarono
la storia della fotografia in Giappone ma dal questo e dagli altri Paesi visitati trassero elementi
che influenzarono la loro maniera
di “fare fotografia”. Da segnalare
come la mostra proponga accanto
alle immagini dei tre protagonisti,
una carrellata di foto di confronto, a dar conto di come queste terre
lontane seppero calamitare, affascinare fotografi di diverse provenienze. Ad ospitare la mostra, dal
17 dicembre al primo aprile 2012,
è Villa Contarini, la reggia delle
Ville Venete, oggi proprietà della Regione Veneto, a Piazzola sul
Brenta, vicino a Padova.
La mostra è curata da Magda di Siena e promossa da Regione del Veneto, da “Photosophia” e
“Immobiliare Marco Polo”, una
società regionale che gestisce Villa Contarini.
Vita avventurosa
Felice Beato viene avvicinato
alla fotografia dal fotografo della
Zecca Ottomana James Robertson,
affiancandolo nel suo lavoro a Costantinopoli. A loro si unisce il fratello di Felice e prendono vita le
grandi spedizioni fotografiche:
Malta (nel 1854-1856), in Grecia
e Gerusalemme (1857). Scoppia
la Guerra di Crimea e Felice, con
Antonio Beato, Tempio di Ramsete III
Antonio e Felice Beato, spiega la mostra di
Villa Contarini, hanno raccontato il mondo
quando la fotografia era ancora sperimentale,
facendo conoscere l'Oriente agli europei. A
lungo sono stati considerati invece che due
fratelli greco - veneziani, un'unica persona. Tutto
colpa delle (molte) fotografie firmate a due mani
"Felice Antonio Beato"
Robertson, crea reportage di guerra che fanno il giro del mondo e
contribuiscono non poco a orientare l’opinione pubblica inglese, ma
non solo.
É il primo esempio di grande
fotogiornalismo di guerra. Felice
Beato è poi in Cina, ancora al seguito dell’esercito inglese stavolta
impegnato nella Guerra dell’Oppio. Negli anni ‘60 i tre fotografi
si dividono; Antonio si trasferisce
in Egitto, mentre Felice è in Inghilterra. Nel 1863 si trova già a Yokohama, in Giappone, in società con
Charles Wirgman, un illustratore
giornalista che Beato aveva già in-
Kimbei Kusakabe, Samurai 1880
tecipato, come militare, a diverse
guerre (fu anche volontario nella guerra civile americana), Farsari si era stabilito a Yokohama
specializzandosi nell’importazione di libri e riviste e dedicandosi alla fotografia. Di notevole capacità imprenditoriale e dotato di
forte senso estetico, Farsari fa del
suo studio un punto di riferimento per la fotografia giapponese del
tempo. Le sue foto sono di straordinaria bellezza e si distinguono soprattutto per la qualità della
colorazione. Le sue tecniche fotografiche e i suoi alti standard qualitativi influenzano notevolmente
la fotografia come forma d’arte in
Giappone, ma anche in Cina e in
altri paesi d’Oriente. Sicuramente
le foto di Farsari pubblicate in occidente, contribuiscono a plasmare l’immagine che del Giappone
medievale si ha negli immaginari collettivi contemporanei. Farsari, nei soggetti e nelle scenografie
delle sue opere, si ispira al grande
artista giapponese dell’ukiyoe Hiroshige, il quale nell’ultimo periodo della sua produzione artistica
si cimenta con l’emergente sperimentalismo fotografico.
contrato ai tempi della Cina e col
quale aveva viaggiato a lungo. Le
fotografie giapponesi di Beato rivestono particolare importanza documentaria in quanto riprese in anni
in cui l’accesso degli stranieri era
decisamente avversato. Il suo corposo archivio di negativi nel 1866
viene distrutto dal grande incendio
di Yokohama. Per quasi due anni è
impegnato a ricostituire un adeguato fondo di immagini, che pubblicherà negli anni successivi in due
diversi volumi, “Native Types” e
“Views of Japan”, oggi conservati
presso il Victoria and Albert Museum a Londra. Nel 1871 è il fotografo ufficiale di una spedizione
navale statunitense in Corea e nel
1873 viene nominato Console Generale per la Grecia in Giappone.
Nel 1884 lascia il Giappone e si
reca in Egitto, fotografo ufficiale
di una spedizione diretta in Sudan,
a Khartoum, in soccorso del generale Charles George Gordon. Torna in Inghilterra, ma già nel 1888
lo troviamo in Birmania. Proprio
in quell’anno a Yokohama muore
Robertson, Felice Beato continua
la sua attività e le ultime notizie di
questo stravagante ed avventuroso
personaggio si ritrovano nel 1907,
quando la sua compagnia “F. Beato Ltd” viene liquidata. Anche
le ultime notizie di Antonio risalgono a quegli anni; un documento, infatti, riporta l’annuncio di
vendita del suo studio fotografico, emesso dalla vedova Beato a
Nella primavera del 1890 FarsaLuxor nel 1906.
ri fa ritorno a Vicenza con la figlia
Kiku, avuta da una relazione con
E poi arriva
una giapponese, le ultime immagini lo ritraggono vestito alla maniera
il momento
orientale assieme a sua sorella neldi Farsari
la casa di Arcugnano. A Vicenza è
Intanto in Giappone lo studio considerato un personaggio stravafotografico di Felice Beato passa- gante, spesso nominato nel foglio
to a Baron Von Stillfried nel 1877, satirico locale ‘La freccia’. Muore
finisce, nel 1885, nelle mani di un nel 1898 senza aver fatto ritorno in
altro veneto: il vicentino Adol- Giappone. Anche se notizie del suo
fo Farsari. Dopo aver viaggiato studio fotografico appaiono nel Jaa lungo in Occidente ed aver par- pan Directory con il vecchio nome
Le geishe di Adolfo Farsari.
Stampa all’albumina colorata a
mano (1887)
di Farsari and Co. ancora per moltissimi anni fino al terremoto del
1923. Felice Beato è uno dei pionieri delle riprese fotografiche e del
fotogiornalismo soprattutto del reportage di guerra. In Giappone la
sua influenza è notevole, sia in termini di vero e proprio insegnamento delle tecniche di ripresa, sia per
il livello della documentazione che
ha prodotto.
Un pioniere
delle tecniche
di colorazione a mano
Bisogna tener conto che nella
sua lunga attività ha vissuto l’evoluzione dei materiali sensibili e
li ha praticamente utilizzati tutti,
cominciando dai negativi al collodio umido stampati sulle carte
all’albumina fino, probabilmente,
alle lastre in gelatina al bromuro
d’argento. Deve essere considerato un pioniere anche delle tecniche
di colorazione a mano delle copie
positive. I suoi reportage hanno il
merito di aver portato in Occidente immagini di luoghi e di persone
fino a quel momento praticamente sconosciuti. Antonio ne seguì le
orme, ma le sue foto sono principalmente concepite come souvenirs, egli riprende sovente monumenti e architetture. Adolfo Farsari, “erede” della ricca attività commerciale di cui il veneziano Felice
Beato era stato il pioniere, avrà
modo di perfezionarla e di avvalersi dei migliori coloristi giapponesi per fare delle sue fotografie
dei veri e propri capolavori.
8 cultura
Sabato, 21 gennaio 2012
CARNET CULTURA rubriche a cura di Viviana Car
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IL DIARIO ORDINATO DELL’AFFASCINANTE GREGORIO DI SVEVA CASATI MODIGNANI
Esce in contemporanea, nelle librerie italiane e croate, il nuovo romanzo di Sveva Casati Modignani Mister
Gregory (Sperlin&Kupfer/Italia, Školska knjiga/Croazia). L’autrice in questo suo ultimo lavoro narra le vicende di una vita intricata, creando un romanzo toccante
e avvincente. Un diario ordinato, che segue i fatti, i momenti, che vuole descrivere i conflitti famigliari e insieme i drammi di un’epoca intera. Il protagonista ripercorre le sue memorie un periodo che va dagli anni Trenta ai
giorni nostri quasi per alleviare, con lucide riflessioni, il
peso dei rimpianti, e si ritrova, trascinato da eventi legati al passato, in una nuova avventura. Dettagli, aneddoti
e ambientazioni, tramandano poi uno spaccato dei moti
delle generazioni che hanno vissuto quegli anni tanto turbolenti quanto significativi per la storia italiana. La prosa
rassicurante della scrittrice si compone di un linguaggio
che via via si adatta all’epoca storica, conformandosi ai
luoghi in cui il protagonista si avventura. I particolari,
mirano alla caratterizzazione psicologica dei personaggi, risultando insieme storicamente pertinenti, fortemente contestualizzanti. Una narrazione in equilibrio con gli
eventi che rievoca, saldamente ancorata al contesto storico su cui poggia.
Uomo affascinante, elegante, carismatico, Gregorio,
nonostante l’età avanzata, conserva ancora ciascuna di
queste qualità. Abbandonata la carriera di proprietario
alberghiero, ormai i suoi giorni procedono senza grandi
scossoni. Ha deciso di trascorrere gli ultimi anni della sua
vita nella modesta pensione “Stella Mundi”, circondato
da sconosciuti che ignorano completamente la sua storia,
interamente all’oscuro delle vicende che hanno segnato
la sua esistenza piena e affascinante. Dopo cinque anni di
letargo gli arriva una visita inaspettata che fa riaffiorare i
ricordi di un passato straordinario, mostrando a Gregorio
che, sebbene 85.enne, la sua vita è ben più che un
mero insieme di nostalgiche reminescenze.
Nelle librerie italiane troviamo L’estate alla fine
del secolo (Dalai Editore) di Fabio Geda. Nell’ultima estate del XX secolo un nonno e un nipote si incontrano per la prima volta, dopo che una lunga serie di incomprensioni famigliari li ha tenuti distanti.
Il nonno, ebreo, nato il 5 settembre 1938, giorno in
cui in Italia vengono promulgate le leggi razziali,
ha trascorso la propria vita senza la possibilità di
sentirsi vivo nel senso autentico della parola. Ormai
anziano, ha scelto la piccola borgata di montagna
dove durante la guerra aveva trascorso la clandestinità con la famiglia, per uccidersi. Il ragazzino, un
adolescente sensibile ed estroverso che viene affidato a lui perché il padre, malato, deve sottoporsi
a una delicata terapia, entra in quell’ultima stagione del vecchio in modo perentorio e imprevisto. E
mentre sulle rive del lago artificiale in cui si specchia il paesino riceve la sua iniziazione alla vita, riuscirà,
forse, a far uscire il nonno dalla sua condizione di fantasma.
Il nuovo romanzo di Fabio Geda è una storia narrata a due
voci – quella del nipote ormai diventato adulto e quella del
nonno – dove il mondo innocente dei bambini, tema tanto
caro all’autore, si incontra con quello dei vecchi dipingendo
un abbraccio tra l’inizio e la fine della vita. Ancora una volta una parte della vicenda – quella del nonno – ha una forte
componente reale.
Nelle librerie croate ritorna Martin Cruz Smith con
Staljinov duh (Algoritam). Arkady Renko torna al lavoro
in una doppia indagine: deve fare luce su di un omicidio
per il quale sono sospettati due ex-poliziotti: Nikolai Isakov
e Marat Urman, membri in congedo del corpo d’élite dei
Berretti Neri, ricordati per l’assalto alla scuola di Beslan.
Anno VII / n. 58 del 21 gennaio 2012
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ, supplementi a cura di Errol Superina / Progetto editoriale di Silvio Forza
Art director: Daria Vlahov Horvat / edizione: CULTURA
Redattore esecutivo: Silvio Forza / Impaginazione: Saša Dubravčić
Collaboratori: Viviana Car, Mario Simonovich, Helena Labus Bačić, Irene Dioli
Copertina: Simone Mocenni (Mediterraneo 2008)
La redazione del presente inserto ha consultato i siti: www.knjiga.hr, www.kulturaplus.com, www.sveznazdor.com
www.svetknjige.si, www.emka.si, www.librerie.it, www.italialibri.net, e la rivista “Arte” (Giorgio Mondadori Editore)
Inoltre, nei tunnel della metropolitana di Mosca, molti passeggeri hanno visto l’apparizione del fantasma di
Stalin. Due casi molto diversi che però sembrano ricondurre ad un’unica vicenda, al cui centro sembra trovarsi proprio Isakov, oggi candidato politico per un partito
ultraconservatore. Non appena Renko comincia a scavare in cerca della verità, alcuni ex-membri dei berretti
neri vengono trovati uccisi, e lui stesso, presto, scoprirà
di essere al centro del mirino. Il romanzo fa parte della
serie di volumi scritti da Martin Cruz Smith cje si snodano attorno alla figura di Arkady Renko: da “Gorky
Park” a “Lupo mangia cane”.
Ambientato nell’Inghilterra del 1583 arriva in libreria il thriller storico Krug Heretika (Školska knjiga) dell’esordiente S. J. Parris, pseudonimo di Stephanie Merritt, un romanzo che, prendendo le mosse da un
episodio della biografia di Giordano Bruno, trascina il
lettore in un’avvincente caccia all’uomo costruita con
grande accuratezza e intelligenza. Lo sviluppo della trama ha inizio in un’Europa devastata dalle guerre di religione, l’Inghilterra di Elisabetta I sembra un rifugio
sicuro ed è per questo motivo che Giordano Bruno, perseguitato dall’Inquisizione, trova riparo a Londra dove
viene reclutato come spia al servizio della causa protestante e incaricato di recarsi a Oxford per sventare una
congiura contro la Regina.
Viviana Car
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