L`arte della persuasione - Liceo Classico Statale Giovanni Berchet
by user
Comments
Transcript
L`arte della persuasione - Liceo Classico Statale Giovanni Berchet
L’arte della persuasione di Sara Olivia Miglietti I Sofisti L’epoca moderna L’oratoria a Roma dalla retorica sofista alla propaganda moderna Intenti e piano generale • Si vuole tracciare una storia sintetica della retorica (come strumento di persuasione) analizzando nello specifico i rapporti che essa intrattiene con la dimensione politica. • Si intende inoltre toccare con taglio critico il problema della libertà di parola e di stampa (pluralismo) e della questione se un pluralismo incontrollato possa condurre a uno stato di oggettiva disinformazione (mescolanza di notizie fondate e di falsità); di contro, si vuole mettere in luce il rischio che comporta un controllo serrato dei mezzi di comunicazione (censura). Il tutto sarà indagato attraverso opportuni esempi storici. Momenti cardine • Atene, V secolo a.C. : l’epoca della prima Sofistica, quando per la prima volta si mise in crisi la concezione di Verità come entità assoluta, oggettiva e universalmente riconoscibile, si sviluppò una teoria cosciente del linguaggio e l’oratoria si definì come techne regolata da una serie di principi fissi trasmissibili attraverso l’insegnamento • Roma, I secolo a.C. – I secolo d.C. : l’età repubblicana e i primi passi dell’impero, quando si ebbe prima uno sviluppo effimero ma eccezionale dell’oratoria politico-giudiziaria (Cicerone, analizzato in particolare nei suoi rapporti di debito e di originalità rispetto ai Sofisti); uno studio approfondito dei meccanismi della retorica nonché degli obiettivi e della formazione dell’oratore (Quintiliano); e un approccio critico al problema dei rapporti tra oratoria e democrazia (Tacito) che ci introduce al problema del pluralismo • I primi decenni del secolo XX, con un excursus riguardante l’evoluzione liberale del principio della libertà di opinione e di stampa e il suo destino attraverso i decenni dei regimi totalitari europei, con il loro sfruttamento intensivo di tecniche propagandistiche attraverso i nuovi mezzi di comunicazione di massa (giornali, radio, cinema, fotografia) Mappa del lavoro Parte prima - I Sofisti Parte seconda - L’oratoria a Roma - Novità dell’approccio sofista - Linguaggio e verità (cfr. Fornero) - Vivere in democrazia (cfr. Geymonat) - I Sofisti e la morale (cfr. Untersteiner) - Schopenhauer e la dialettica (brani) - Aristotele e la dialettica (brani) - Gorgia e il crollo delle verità - Gorgia e la parola (brano) - Il giudizio di Platone nel Gorgia (brano) - I Ragionamenti doppi (brano) - L’eredità dei Sofisti - Tra il IV e il I secolo a.C. - La retorica a Roma al tempo di Cicerone (cfr. Flocchini) - L’oratore per Cicerone - La forza della parola (brano da Cicerone) - Probitas e prudentia (cfr. Conte) - Forma e contenuto (brano da Cicerone) - Cicerone vs. Sofisti - La fine della retorica a Roma (cfr. Flocchini) - Le diverse letture della decadenza - Quintiliano e l’Institutio oratoria (brani dall’I.O.) - Tacito e il Dialogus de oratoribus (brani) - Tacito e Cicerone - Il pluralismo: una questione aperta Parte terza - L’epoca moderna e il problema del pluralismo Sul modello liberale pluralista - Il pluralismo come problema - Liberali e libertà di stampa (Milton, Locke, Mill) - I rischi del sistema liberale - I rischi di un pluralismo illimitato Sulla Rivoluzione Russa - John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo (brani, compreso il Decreto sulla stampa di Lenin e l’inizio della censura) - Le masse e il partito - “Guidare le masse” Sull’uso della censura e della propaganda nei totalitarismi - Mussolini e la stampa - Hitler e la propaganda (cfr. Mein Kampf, da Kershaw e Broszat) - La propaganda del Nsdap - L’oratoria di Hitler (cfr. Mosse) PARTE PRIMA - I Sofisti La nascita della retorica e l’abbattimento delle verità uniche e precostituite Novità dell’approccio sofista • viene elaborata una teoria del linguaggio, che fa dell’eloquenza non più un talento meramente innato, bensì una techne, cioè una forma di sapere che può essere insegnata e appresa, perché regolata da un insieme di leggi e di artifici ben precisi > uso scientifico dell’eloquenza, nascita della retorica; • si associa al problema del linguaggio una consapevolezza filosofica, ovvero la nozione dialettica del reale, cui spesso segue il relativismo culturale (vedi gli anonimi Ragionamenti doppi, le Antilogie protagoree); • si fa riferimento a una dimensione politica entro cui il linguaggio è uno strumento imprescindibile di comunicazione e di persuasione (Atene, V secolo a.C.: nascita della democrazia: necessità di una nuova forma di paideia adeguata alle esigenze della nuova classe dirigente). D’ora in avanti la retorica sarà indissolubilmente legata all’attività giudiziaria e politica. Tant’è vero che, venendo a mancare il retroterra politico (come fu ad esempio a Roma nell’età dell’impero), si assiste a uno svuotamento di significato della retorica (esiti della Seconda Sofistica, riflessioni di Tacito nel Dialogus de oratoribus). Linguaggio e verità Scrive Fornero: “L’importanza della parola è una delle grandi scoperte dei Sofisti. Ma essi non si limitarono a celebrarne la potenza, poiché la tematizzarono sul piano filosofico, studiandone i problematici rapporti con la realtà e la verità. Per gli antichi filosofi il linguaggio non costituiva un interrogativo, in quanto essi erano spontaneamente indotti a collegare, e quasi a non distinguere, fra la cosa reale, il pensiero che la conosce e la parola che l’esprime. Essi ritenevano che ciò che vale sul piano logico del pensiero debba valere anche sul piano della realtà e viceversa. Per cui essere = pensiero = verità. I Sofisti, in virtù della loro nuova impostazione, scuotono queste primitive certezze e la realtà dall’altro.” Per la prima volta si prospetta dunque la possibilità che invece di una Verità inossidabile e accessibile ai “sapienti” esista una pluralità di opinioni, nessuna più “vera” e incontestabile delle altre, e ognuna potenzialmente vincente se si sanno impugnare le armi della persuasione. Vivere in democrazia Scrive Geymonat: “Vivere attivamente in democrazia significa partecipare ad assemblee, prendervi la parola, far valere con efficace discorso la propria opinione frammezzo alle altre opinioni; e perciò saper pesare la varie accezioni e sfumature dei vocaboli, avere nell’orecchio le più felici espressioni dei poeti, riuscire a disporre i periodi in un ordine che incateni l’attenzione, accenda le fantasie e susciti i consensi: significa insomma possedere quel complesso di cognizioni grammaticali, lessicali, sintattiche, stilistiche, letterarie che costituisce l’arte dell’eloquenza.” I Sofisti e la morale Scrive Untersteiner: “Per il Sofista non esiste effettivamente un’assoluta ορθότης : ορθόν è ciò che talora, mediante ragioni, può essere reso più verosimile di altro, ciò che soprattutto opera in modo persuasivo, finché si presenti qualche cosa d’altro più verosimile. […] Il principio di τόν ήττω λόγον κρείττω ποιει̃ν doveva trovare un particolare sviluppo nel mondo della retorica, che in quei tempi si imponeva come un problema pratico e politico, giacché sia nei discorsi giudiziari sia in quelli deliberativi era necessario, per vincere, saper imporre il proprio punto di vista, la propria verità, la quale poteva anche non coincidere con la verità in senso universale: non era dunque la retorica necessariamente immorale, ma perseguiva fini pratici, cosicché doveva rinunciare a un atteggiamento teoretico, su cui l’eloquenza non poteva fondarsi. Protagora non ammette che in ogni dominio sia da attuare, con l’abilità oratoria, in luogo del bene il male ammantato dal luccichio delle apparenze.” Schopenhauer e la dialettica • “La dialettica è l’arte di disputare, e precisamente l’arte di disputare in modo da ottenere ragione, dunque per fas et nefas.” • “La verità oggettiva di una proposizione e la validità della medesima nell’approvazione dei contendenti e degli uditori sono due cose diverse. A quest’ultima è rivolta la dialettica.” • “Bisogna separare nettamente il reperimento della verità oggettiva dall’arte di imporre come vere le proprie tesi. Per formulare la dialettica in modo limpido bisogna considerarla, senza badare alla verità oggettiva, semplicemente come l’arte di ottenere ragione, la qual cosa sarà certo tanto più facile se si ha oggettivamente ragione.” • “Se ci poniamo come fine la pura verità oggettiva ritorniamo alla mera logica; se invece poniamo come fine l’affermazione di tesi false abbiamo la mera sofistica. E in entrambi i casi il presupposto sarebbe che noi sapessimo già che cosa è oggettivamente vero e falso: ma solo di rado questo è certo in anticipo.” (Da L’arte di ottenere ragione) Aristotele e la dialettica Nelle Confutazioni sofistiche Aristotele distingue la dialettica sia dalla sofistica (“una sorta di sapienza apparente senza esserlo”) sia dall’eristica (“un combattimento ingiusto nell’opposizione verbale”), per recuperarla come strumento e procedimento ideale per la speculazione filosofica: durante una discussione, “essendo in grado di sviluppare le difficoltà in entrambe le direzioni, in ciascuna vedremo più facilmente il vero e il falso”; “rispetto alla conoscenza e alla saggezza che è conforme alla filosofia, non è compito di poco conto l’essere in grado di abbracciare e d’aver abbracciato con lo sguardo le conseguenze nel caso di ciascuna ipotesi: resta infatti soltanto da scegliere correttamente l’una o l’altra di queste”. Per Aristotele dialettica e filosofia hanno lo stesso scopo, cioè la conoscenza; la dialettica senza filosofia è vuota, la filosofia senza dialettica cieca. Gorgia e il crollo delle Verità Le tesi contenute nel Περί του μή όντος: 1) niente esiste 2) se anche qualcosa esiste, è inconoscibile per l’uomo 3) se anche è conoscibile non si può comunicare e spiegare Conseguenze: • Gorgia scardina l’idea di una verità ultima, unica, oggettiva e universale; • se una verità ultima delle cose non esiste, pensiero e parola non sono più in rapporto univoco, ed ogni volta che usiamo il linguaggio possiamo al massimo perseguire l’obiettivo di una verità contingente, che vale solo per l’istante in cui la pronunciamo; • la parola diventa uno strumento di persuasione onnipotente Gorgia e la parola “La parola è un gran dominatore che, con un corpo piccolissimo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore e a suscitar la gioia e a ispirare la pietà… E che la persuasione, congiunta con la parola, riesca a dare all’anima l’impronta che vuole, ce lo insegnano soprattutto i discorsi degli astronomi, i quali, sostituendo ipotesi a ipotesi, distruggendone una, costruendone un’altra, fanno apparire agli occhi della fantasia l’incredibile e l’incomprensibile; in secondo luogo le gare oratorie, nelle quali un discorso scritto con arte, ma non ispirato a verità, suole dilettare e persuadere la folla; in terzo luogo le schermaglie filosofiche, nelle quali si rivela anche con che rapidità l’intelligenza facilita il mutare convinzioni della fantasia. C’è tra la potenza della parola e l’ufficio dell’anima lo stesso rapporto che tra l’ufficio dei farmaci e la natura del corpo.” (Dall’Encomio di Elena di Gorgia) Il giudizio di Platone nel Gorgia Socrate – Da un pezzo mi vado domandando quale mai sarà la potenza di codesta retorica. Dico la verità, quando ci penso, mi appare per la sua potenza quasi divina. Gorgia – E più stupiresti, se ne conoscessi tutta la potenza. Perché si può proprio dire che la retorica concentri in sé tutte le altre potenze e tutte le domini. Te ne voglio dare una prova evidente. Spesso io stesso mi sono trovato, insieme con mio fratello e con altri medici, presso qualche ammalato, che si rifiutava di prendere una medicina, o che non voleva lasciarsi dal medico tagliare o bruciare; e mentre il medico non riusciva a persuaderlo, io ci riuscivo - e con nessun altro mezzo se non con la retorica. Perciò io dico che in qualunque città si rechino un oratore e un medico, se è innanzi all’assemblea popolare o a qualunque altro consesso, attraverso una discussione, che si deve scegliere fra i due uno come medico, il medico non avrebbe in nessun modo il mezzo di affermarsi e anche come medico sarebbe preferito l’oratore, dato che egli lo volesse. E con chiunque si trovasse a competere, io dico che il retore riuscirebbe a farsi eleggere nel confronto con qualsiasi altro tecnico, perché non vi è cosa in cui un uomo esperto della retorica non possa riuscire più persuasivo di qualsiasi competente, parlando innanzi a un’assemblea. Tale e così grande è la potenza di quest’arte. I Ragionamenti doppi In quest’opera anonima viene parzialmente confutato il giudizio negativo di Platone sui Sofisti: “Io credo che spetti alla medesima persona e alla medesima arte avere la capacità di discutere con rapide risposte, conoscere la verità delle esperienze, saper rettamente giudicare, possedere l’attitudine a fare discorsi politici, sapere l’arte della parola e insegnare intorno alla natura di tutto in relazione alle sue proprietà e alla sua origine. Anzitutto, colui che possiede una conoscenza intorno alla natura di tutto, come non sarà in grado anche di operare rettamente di fronte a ogni situazione? Inoltre anche chi conosce l’arte della parola saprà parlare rettamente intorno a tutto. Infatti è necessario che chi si propone di parlare rettamente parli intorno a ciò che sa. Di conseguenza egli s’intenderà di tutto. Egli infatti conosce l’arte di ogni discorso e tutti i discorsi riguardano la realtà.” L’eredità dei Sofisti – Crollo di ogni certezza precostituita > dalla Verità universale a un mondo di verità personali e circoscritte > idea pluralistica – nascita della retorica e dell’oratoria: uno strumento di persuasione volto esclusivamente a riscuotere il consenso di un uditorio e a far prevalere la propria opinione – “democraticizzazione” dell’eloquenza che diventa un sapere acquisibile da chiunque – almeno in nuce, la possibilità di manipolare a proprio piacimento il consenso dell’uditorio grazie alle tecniche della retorica PARTE SECONDA L’oratoria a Roma • La breve stagione dell’ oratoria di Cicerone • La lenta decadenza dell’eloquenza nelle opere di Quintiliano e di Tacito Tra il IV e il I secolo a.C. • si assiste in Grecia al crollo della polis e all’assoggettamento ai Macedoni: pur restando in vita le istituzioni tradizionali, la libertà politica delle città stato viene di fatto svuotata di consistenza, perché le decisioni sostanziali non dipendono più dalle direttive concordate al loro interno. Di conseguenza, l’oratoria sviluppatasi ad Atene nel V secolo a.C. va incontro a un processo di impoverimento che la induce a farsi raffinato gioco intellettuale senza alcun significato politico; • si assiste in ambito mediterraneo all’ascesa di Roma, che va conquistandosi un ruolo egemone sia come potenza politica sia come centro culturale. Lentamente va sviluppandosi una “consapevolezza teorica” nel campo della retorica, che si concretizza nei primi manuali (La Rhetorica ad Herennium e il De Inventione di Cicerone) che trova appunto in Cicerone la sua massima espressione. La retorica a Roma al tempo di Cicerone Scrive Flocchini: “Da una parte i Retori, come ad esempio Menedemo citato nel De oratore, proponevano un metodo educativo basato esclusivamente sull’apprendimento delle tecniche dell’eloquenza, senza preoccuparsi dei contenuti, dall’altra i Filosofi ne contestavano la validità, sostenendo che esso non garantiva la conoscenza della verità e non insegnava a reggere e amministrare lo Stato. Cicerone cercò di ricomporre l’antica unità, elaborando un sistema retorico in relazione alla filosofia e sottolineando che, se spetta al filosofo indagare e analizzare la verità, è poi compito del retore divulgarla, ma tutti e due non possono non incontrarsi in zone determinate del sapere dove una vivisezione netta di principi e un’assoluta discriminazione di competenze sono nocive e alla retorica e alla filosofia. Le ipotesi (quaestiones finitae) che rappresentano l’ambito particolare dell’oratoria, non possono infatti non rimandare a tesi (quaestiones infinitae) cioè a quei temi generali la cui indagine spetta alla filosofia: così, ad esempio, in una causa del genus iudiciale, rientrano le tesi de aequo et iniquo e de iusto et iniusto.” L’oratore per Cicerone Cicerone parte da una concezione etica dello Stato: esso deve essere governato da uomini politici caratterizzati da 1) onestà; 2) acume politico; 3) sapientia; 4) capacità di farsi portavoce degli interessi della comunità e di essere validi leader dei concittadini. L’uomo politico viene a coincidere con l’oratore (vir bonus dicendi peritus) perché non potendo imporre le proprie scelte sulla città con la forza (stato di natura), è essenziale che sia in grado di padroneggiare la parola per persuadere i cittadini a prendere decisioni conformi ai suoi assunti (stato di diritto). La forza della parola (I) “In verità, non c’è niente per me di più bello del potere con la parola dominare gli animi degli uomini, guadagnarsi le loro volontà, spingerli dove uno voglia, e da dove voglia distoglierli. Presso tutti i popoli liberi, e soprattutto negli Stati tranquilli e ordinati, quest’arte è sempre stata tenuta nel massimo onore e ha sempre dominato. Infatti, che cosa c’è di più meraviglioso del veder sorgere dall’infinita moltitudine degli uomini uno che da solo o con pochi possa fare quello che la natura ha concesso a tutti? O di più piacevole a conoscere e sentire di un discorso abbellito e adorno di saggi pensieri ed elevate espressioni? Che cosa è così imponente e sublime quanto il fatto che le passioni del popolo, i sentimenti dei giudici, l’austerità del Senato siano modificati dal discorso di un solo uomo? Che cosa inoltre è così splendido, così nobile, così liberale quanto il portare aiuto ai supplici, sollevare gli afflitti, dare salvezza agli uomini, liberarli dai pericoli, salvarli dall’esilio? Che cosa è così necessario quanto l’avere sempre pronta un’arma con cui tu possa e difendere te stesso e attaccare gli altri senza tuo danno e vendicarti se provocato? Orbene per non parlare sempre di foro, tribunali, rostri e Senato, che cosa ci può essere, per chi è libero da impegni, di più piacevole e di più degno di una persona colta, di un discorso arguto e bene informato su qualsiasi argomento?” La forza della parola (II) “Noi ci distinguiamo dalle fiere soprattutto per questo, perché sappiamo conversare ed esprimere con la parola i nostri pensieri. Perciò chi non ammirerebbe e, a ragione, quest’arte, e non riterrebbe suo dovere studiarla con tutte le sue forze, onde superare gli stessi uomini in ciò in cui gli uomini si distinguono massimamente dalle bestie? Ed ora passiamo al punto più importante della questione: quale altra forza poté raccogliere in un unico luogo gli uomini dispersi, o portarli da una vita rozza e selvatica a questo grado di civiltà, o, dopo che furono fondati gli Stati, stabilire le leggi, i tribunali, il diritto? Non voglio passare in rassegna tutti gli altri vantaggi che sono quasi infiniti. Per questo condenserò in poche parole il mio pensiero: io affermo che dalla saggia direzione di un perfetto oratore dipendono non solo il buon nome dell’oratore stesso, ma anche la salvezza di moltissimi cittadini e dell’intera Nazione. Perciò continuate, o giovani, la strada intrapresa e attendete con impegno ai vostri studi, affinché possiate essere di onore a voi stessi, di utilità agli amici e di giovamento allo Stato.” (Cicerone, De oratore, I, 30-34) Probitas e prudentia Scrive Conte: “Il talento, la tecnica della parola e del gesto e la conoscenza delle regole retoriche non possono ritenersi bastevoli per la formazione dell’oratore: si richiede invece una vasta formazione culturale. E’ la tesi di Crasso il quale lega strettamente la formazione culturale (soprattutto filosofica, con privilegiamento della filosofia morale) dell’oratore alla sua affidabilità etico/politica. La versatilità dell’oratore, la sua capacità di sostenere il pro e il contra su qualsiasi argomento, riuscendo sempre a convincere e a trascinare il proprio uditorio, possono costituire un pericolo grave, qualora non vengano controbilanciate dal correttivo di virtù che le mantengano ancorate al sistema di valori tradizionali, in cui la “gente perbene” si riconosce. Crasso insiste perché probitas e prudentia siano saldamente radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi mancasse di tale virtù equivarrebbe a mettere delle armi nelle mani di forsennati (III, 55).” Forma e contenuto “L’arte del dire non ha modo di rifulgere se l’oratore non ha studiato profondamente i problemi che dovrà trattare. Una caratteristica di coloro che parlano bene è certamente questa: uno stile armonioso e forbito, che si distingue per la sua elegante fattura. Ma un tale stile, se non poggia sopra un argomento perfettamente conosciuto dall’oratore, inevitabilmente o non ha alcuna consistenza o è deriso da tutti. Quale stoltezza può eguagliare un vuoto fragore di parole, perfino le più scelte ed eleganti, che non siano sostenute da un pensiero e dalla perfetta conoscenza dell’argomento? Pertanto qualunque sia l’argomento, a qualunque arte o disciplina appartenga, purché l’abbia bene studiato, come fa per la causa del cliente, l’oratore lo esporrà con maggiore competenza ed eleganza dello stesso inventore e provetto intenditore. E se qualcuno sostiene che vi sono determinati argomenti e problemi propri degli oratori e una speciale scienza limitata ai tribunali, io ammetterò che il nostro genere di eloquenza si interessa con maggior frequenza di questi problemi; tuttavia in questo ristretto spazio ci sono moltissime nozioni, che non vengono insegnate e che non sono neanche conosciute dai cosiddetti retori.” (Cicerone, De oratore, I, 48; 50-54) Cicerone vs. Sofisti • Cicerone riconcilia retorica (quaestiones finitae) e filosofia (quaestiones infinitae) nella figura dell’oratore • Cicerone fonda l’intero suo sistema su un concetto etico di Stato • la retorica per Cicerone è anch’essa un sapere unificatore e universale • la parola non ha in sé la propria ragion d’essere ma è legata al messaggio etico che deve trasmettere. La persuasione è il fine ultimo ma può essere legittimamente operata solo dall’uomo onesto che conosce e opera il bene • i Sofisti separano pensiero e parola abolendo il concetto di una Verità universale ed elaborando il concetto di una verità finita e arbitraria • i Sofisti rifiutano l’idea di una politica basata sull’etica riconoscendo che i principi morali sono essi stessi relativi e non possono pertanto fungere da criterio di giudizio • la dialettica per i Sofisti è una “sovrascienza”, un sapere unificatore e universale • la parola è completamente svincolata da un significato particolare: è lo strumento con cui chiunque, conoscendone la tecnica, può operare la persuasione La fine della retorica a Roma Scrive Flocchini: “La vera grande retorica a Roma ebbe, si può dire, la vita di una generazione e Cicerone ne fu il punto di partenza e di arrivo insieme. Dopo di lui infatti la grande oratoria morì soffocata dalle nuove strutture politiche in cui non c’era più spazio per l’eloquenza, che solo dal foro e dalla vivacità della vita politica aveva tratto alimento. L’eclissi del Senato e del foro come centri decisionali tolse ogni credibilità alla tradizionale funzione dell’oratore e l’eloquenza quindi, isterilita e devitalizzata, ripiegò nelle sale di recitazione secondo la moda introdotta da Asinio Pollione. L’unità di retorica e moralità, teorizzata e appassionatamente difesa da Cicerone, inevitabilmente si ruppe e si ebbe il trionfo della retorica pura, delle regole, di una normativa sempre più sofisticata e fine a se stessa.” Le diverse letture della decadenza Il cambiamento fu evidente agli occhi di tutti coloro che vissero in quest’epoca, da Seneca il Vecchio a Petronio (che nei libri I e II del Satyricon inserisce un dibattito sulla decadenza dell’eloquenza), da Quintiliano a Tacito. Del fenomeno furono date diverse letture: a) stilistico - formale e mirante a evidenziare il decadimento dei costumi (> Quintiliano) b) storico - politica e mirante a fornire una spiegazione più pragmatica (> Tacito) Quintiliano e l’Institutio oratoria • Obiettivo: restaurazione dell’eloquenza • Strumento: rigenerazione del sistema didattico - educativo attraverso un programma complessivo di formazione culturale e morale che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente dall’infanzia fino all’ingresso nella vita pubblica. • Presupposto: la decadenza dell’eloquenza è dovuta alla rilassatezza dei costumi. Educando i futuri oratori a un regime di onestà e di virtù si rinnoverà l’intera retorica. Il problema della retorica Nel secondo libro, Quintiliano si sofferma ad analizzare la natura, il fine e l’utilità della retorica: “Prima di tutto vediamo che cosa sia la retorica che viene definita invero variamente, ma che presenta due questioni: si discute infatti sulla qualità della cosa stessa o sul collegamento delle parole. La prima e principale differenza delle opinioni è su questo punto: alcuni ritengono che anche gli uomini disonesti si possano chiamare oratori, altri (dei quali seguiamo il parere) vogliono che questo nome e l’arte della quale parliamo sia da attribuirsi solo agli uomini onesti. […] E’ frequentissima la definizione che la retorica sia la forza della persuasione.” Quintiliano dissente; egli non è d’accordo neppure sull’assunto che il fine dell’oratore sia quello di “condurre gli uomini col dire” a quello che egli vuole. Infatti ci sono altri che persuadono con le parole o inducono gli uomini a ciò che vogliono, “come le meretrici, gli adulatori, i seduttori. Invece l’oratore non persuade sempre, cosicché talvolta non è il suo fine e talvolta gli è comune con quelli che sono molto lontani dall’oratore”. La scienza del ben parlare “Sembra che pensasse allo stesso modo di coloro che ho detto anche Cornelio Celso, le cui parole sono: “L’oratore cerca soltanto il verosimile”. Quindi, poco dopo: “Perché non la buona coscienza, ma la vittoria della causa è il premio di colui che indice una causa”. Se queste cose fossero vere, sarebbe da uomini assai disonesti fornire così dannosi strumenti alla malvagità della natura degli uomini e giovare con precetti ad essa. Ma essi vedano il motivo della loro opinione. Quanto a noi che ci siamo accinti a formare un perfetto oratore che soprattutto vogliamo che sia uomo onesto, ritorniamo a coloro che su questa arte hanno una opinione migliore. Ora alcuni hanno creduto che la retorica fosse la medesima cosa che la politica: Cicerone la chiama una parte della scienza civile. Ora la scienza civile equivale alla sapienza. Altri la chiamano anche una parte della filosofia, tra costoro c’è Isocrate. Infatti, non solo abbraccia tutte le virtù dell’oratore, ma comprende anche i costumi dell’oratore, non essendoci altro che l’uomo onesto che possa parlare bene. […] La retorica è la scienza del ben parlare, dal momento che, quando si è trovata la cosa migliore, chi cerca altro vuole trovare cosa peggiore. Approvata questa definizione, è chiaro anche quale sia il suo fine o quale sia il suo sommo ed ultimo obiettivo, che è detto τέλος, al quale tutta l’arte tende. Infatti se essa è la scienza del parlare bene, il suo fine e il suo supremo obiettivo è il parlar bene.” L’uso disonesto della retorica (I) “Segue la questione se la retorica sia utile. Infatti alcuni sogliono scagliarsi con furia contro di essa e, quel che è più indegno, per accusare l’eloquenza adoperano le forze dell’eloquenza. L’eloquenza sarebbe quella che sottrae alle pene gli scellerati e coi suoi artifici fa condannare talvolta gli onesti, porta al peggio ogni deliberazione e suscita non solo torbidi e sedizioni popolari, ma anche guerre implacabili quando riesce a sostenere le menzogne contro la verità. In questo modo, per la verità, né saranno utili i comandanti di eserciti, né i magistrati, né la medicina, né infine la stessa sapienza. Infatti non furono utili il capitano Flaminio e i magistrati Gracchi, Saturnino, Glaucia; nelle medicine sono stati trovati veleni e in quelli che usano male del nome di filosofi sono state scoperte talvolta gravissime infamie. Non tocchiamo i cibi, spesso causarono infermità; non entriamo mai nelle case, talvolta crollano sopra a coloro che vi abitano. Non si fabbrichi spada per il soldato, l’assassino può valersi della medesima arma.” L’uso disonesto della retorica (II) “Per parte mia, ritengo che né i fondatori di città sarebbero giunti diversamente a far sì che quella moltitudine di genti vagabonde si unissero a formare dei popoli se non l’avessero convinta con una sapiente arte oratoria; né i legislatori avrebbero ottenuto, senza una eloquenza straordinaria, che gli uomini da soli si sottomettessero al giogo delle leggi. Anzi, gli stessi precetti della morale, anche se per natura sono onesti, hanno più forza a formare le menti quando un discorso splendido illumina la bellezza degli argomenti. Perciò, anche se le armi dell’eloquenza valgono in un senso e nell’altro opposto, tuttavia non è giusto ritenere cosa cattiva ciò di cui si può fare buon uso.” Dire il falso in buona fede? “Accusano la retorica anche di far uso di difetti, cose che nessuna arte fa; perché essa dice il falso e muove le passioni. Di queste due cose nessuna è turpe, quando muove da buone ragioni e perciò non è un difetto. Infatti dire il falso talvolta è concesso anche al sapiente e, se non si potrà indurre il giudice all’equità non diversamente che col muovere le passioni, l’oratore dovrà necessariamente muoverle. Infatti, ignoranti sono quelli che giudicano e spesso bisogna ingannarli proprio per impedire loro di sbagliare. Perché se mi dessero giudici saggi, assemblee e concili di saggi, se nessun potere avesse l’invidia, né il favore, né i preconcetti ed i falsi testimoni, poco posto vi avrebbe l’eloquenza e servirebbe solo a dilettare. Se invece gli animi degli ascoltatori sono volubili e la verità è impedita da tanti ostacoli, si deve combattere con l’artificio ed i mezzi che possono giovare. Infatti chi ha smarrito il cammino diritto non può esservi ricondotto se non con un altro giro.” Tacito e il Dialogus de oratoribus Nell’opera si confrontano differenti punti di vista sull’oratoria ai tempi del principato: 1) chi la ritiene superiore a quella degli antichi (> Apro) 2) chi ne lamenta la degenerazione (> Messalla e Materno). Ma tra Messalla e Materno emerge un contrasto sulle cause di tale degenerazione (contrasto che rispecchia presumibilmente i dibattiti in corso al tempo di Tacito, allievo a sua volta di Quintiliano insieme a Plinio il Giovane). > Messalla attribuisce le cause della decadenza dell’oratoria alla corruzione dei costumi e all’impreparazione culturale dei nuovi oratori > Materno attribuisce le cause della decadenza dell’oratoria alla perdita della libertà da parte dello stato, o meglio, alla raggiunta pacificazione di quest’ultimo Tacito non vuole proporre soluzioni come fa invece Quintiliano: accetta l’esistenza del principato come minore dei mali, e si limita ad analizzare storicamente la situazione L’impreparazione dei nuovi oratori Parla Messalla: “Non mi si venga a dire che basta avere di volta in volta delle semplici e generali informazioni sull’argomento. Grande è la differenza tra l’usare ciò che è nostro e ciò che invece ci viene dato in prestito, tra il possedere i concetti che si espongono e il prenderli invece da altri; ed inoltre una cultura vasta è di ornamento in altre circostanze. E di questo non solo la persona colta ed esperta, ma anche il popolo si accorge, e con le sue lodi riconosce che colui che parla ha seriamente studiato, conosce tutte le forme dell’eloquenza ed è insomma un vero oratore; quale anch’io affermo che non possa esistere né mai essere esistito, se non scende nel foro armato di tutte le scienze, come un combattente in campo, fornito di tutte le armi. Gli avvocati dei nostri tempi tengono invece in così poco conto tutto questo che nelle loro arringhe si scoprono i vergognosi difetti del linguaggio volgare; ignorano le leggi, non conoscono le deliberazioni del senato, e perciò si prendono gioco del diritto civile, hanno un profondo terrore per lo studio della filosofia e i precetti dei filosofi.” Oratoria e democrazia Parla Materno: “In verità le continue adunanze, il diritto di assalire i cittadini più potenti e il vanto che derivava dalle grandi inimicizie – perché moltissimi oratori non risparmiavano neppure Scipione, Silla o Pompeo, ed eccitati dall’astio nell’attaccare uomini tanto importanti non rifuggivano dai modi più istrionici e volgari – quanto ardore suscitavano negli ingegni, quale fiamma infondevano all’eloquenza! Non stiamo parlando di un’arte oziosa e quieta, che ami l’onestà e la moderazione: la grande, sublime eloquenza è alunna della licenza, che gli stolti chiamavano libertà, compagna dei tumulti, incitatrice del popolo sfrenato, incapace di rispetto ed obbedienza, fiera, tracotante e temeraria, quale non può allignare negli Stati ben ordinati. Quali oratori ebbe mai Sparta, quali Creta? Ma quelle città avevano disciplina e leggi quanto mai severe. Neppure tra i Macedoni, i Persiani o altri popoli retti da governi stabili troviamo traccia di eloquenza. Qualche oratore ebbe Rodi, moltissimi Atene, dove tutto poteva il popolo, tutto gli ignoranti, tutto, per così dire, tutti. Anche la nostra città, finché vagò sperduta e si lacerò nelle discordie e nelle lotte di parte, finché non ci furono pace nel foro, concordia nel senato, moderazione nei tribunali, rispetto verso i magistrati e limiti al loro potere, ebbe indubbiamente una eloquenza più vigorosa, allo stesso modo che un campo non coltivato produce talvolta erbe più rigogliose. Tacito e Cicerone Tacito utilizza esattamente la medesima espressione di Cicerone in De oratore 1, 30 ma traendone conclusioni opposte: per Cicerone l’oratoria non può che svilupparsi nella repubblica, perché essa è l’unico ordinamento in cui la libertà d’espressione, il pluralismo, la possibilità di incidere concretamente sul corso degli eventi siano oggettivamente garantiti; Tacito sostiene invece che l’oratoria sia strettamente connessa all’ordinamento repubblicano perché quest’ultimo si configura come una situazione di disordine e licenza, in cui è lecito dire tutto e il contrario di tutto, perseguendo il proprio interesse particolare, senza incorrere in alcuna sanzione. Il pluralismo: una questione aperta Fino a quale punto può essere garantita piena libertà di espressione all’individuo (soprattutto a figure di riferimento come, ai nostri giorni, gli intellettuali e i giornalisti), senza che questo significhi legittimare ogni sorta di giudizio su qualunque materia, cosa che rischierebbe di generare soltanto confusione e disinformazione? Garantire il pluralismo significa permettere anche che circolino notizie manipolate scientemente, o si può concepire un qualche organo di controllo che sottoponga a vaglio critico le diverse posizioni presentate, per evitare che, soprattutto in una società massificata come la nostra in cui ogni notizia ha immediata e vastissima risonanza, si faccia disinformazione più che informazione? Ma entro quali limiti, in tal caso, sarebbe autorizzabile la sua azione, considerando il rischio che un’operazione come la censura può comportare? Chi può realmente discernere le opinioni “giuste” da quelle “sbagliate”? E’ insomma da garantire più strenuamente la libertà di informare o il diritto di essere informati? E le due cose sono davvero inconciliabili? PARTE TERZA: l’epoca moderna e il problema del pluralismo Una scena da “Citizen Kane” di Orson Welles • Il sistema liberale: vantaggi e pericoli • Un esempio di anarchia dell’informazione: la Russia rivoluzionaria di John Reed • La politica nell’epoca della società di massa • Propaganda e totalitarismi (fascismo e nazismo) Il pluralismo come problema Alcune scuole di pensiero sostengono, spesso in maniera discutibile, l’equazione pluralismo = disinformazione, sostenendo ad esempio, come fa Gabutti su “Il Nuovo”, che: “Non è in questione, con il “pluralismo”, la qualità della informazione, se cioè l’informazione sia attendibile e non manipolata, ma la sua spartizione politica e ideologica, affinché a tutte le chiese elettorali sia riconosciuto il diritto di manipolare le notizie liberamente e a proprio vantaggio: un principio passato alla storia della neolingua italiana come par condicio.” Al di là dell’eccessività di alcune affermazioni, il problema proposto nell’articolo è effettivamente di ampia portata, perché investe i fondamenti stessi della democrazia. Liberali e libertà di stampa • 1644: Milton pubblica Areopagitica, in difesa della libertà di stampa • 1694: l’Inghilterra, prima tra tutti i paesi europei, abolisce la censura sulla stampa nazionale. La libertà di stampa diventa un cavallo di battaglia dei liberali, che vedono in essa uno strumento chiave per rendere efficaci i diritti civili, diffondere informazione e garantire una pluralità di punti di vista. a - per John Milton la libertà di stampa garantisce un forum che permette all’uomo di discernere tra bene e male b - per John Locke essa garantisce la libertà dell’individuo dall’elite politica dominante c - per John Stuart Mill essa è il solo mezzo per impedire che le nozioni si trasformino in dogma John Milton John Locke John Stuart Mill I rischi del sistema liberale a - con l’espandersi del bacino di utenza, i costi di manutenzione per un giornale sono cresciuti > concentrazione dei media nelle mani dei grandi capitali > monopoli editoriali che hanno reso i giornali voce di ristretti gruppi di potere (lo stesso ragionamento può essere esteso ai nuovi mezzi di comunicazione e in particolare alle televisioni, dove il problema della concentrazione è reso ancora più urgente dall’esistenza di un ventaglio limitato di frequenze disponibili); b - il mercato della stampa si è via via regolato secondo i medesimi criteri di domanda e offerta di qualunque altro settore dell’economia > la stampa, ma in maniera ancora più evidente la televisione, diventa un prodotto che deve prima di tutto rispondere al requisito della vendibilità: il rischio che si profila è che cada così in secondo piano la funzione primaria dei mass media, ovvero quella di informare la gente piuttosto che di andare incontro ai gusti dei “consumatori”. I rischi di un pluralismo illimitato Se la censura è un pericolo e una violazione inammissibile delle libertà individuali, esistono tuttavia anche dei rischi comportati dal pluralismo. Presentando una affianco all’altra una quantità indiscriminata di posizioni che si contraddicono reciprocamente, il pubblico – specialmente se si tratta di un pubblico profano, solo mediamente informato e dunque in cerca di riferimenti – si ritrova spesso disorientato, e c’è il rischio che il pluralismo da confronto costruttivo si tramuti in un’anarchia sterile di opinioni divergenti. John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo • La situazione culturale delle masse russe alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre (I e II) • La mancanza di una censura rigida e la contraddittorietà delle notizie diffuse tra le masse (III, IV, V, VI) • Il Decreto sulla stampa emanato dai bolscevichi una volta al potere (VII, VIII) • Il difficile sforzo compiuto dalle masse per comprendere la situazione politica a partire dalle notizie apprese (IX e X) • La tattica propagandistica di Lenin (XI e XII) La situazione culturale (I) “Al fronte i soldati lottavano contro gli ufficiali e, nei loro comitati, imparavano l’autogoverno. Nelle fabbriche, i comitati di fabbrica, queste organizzazioni uniche, acquistavano forza ed esperienza e prendevano coscienza della loro missione storica di lotta contro il vecchio ordine. Tutta la Russia stava imparando a leggere e leggeva – di politica, di economia, di storia – perché la gente voleva sapere… in ogni città, in quasi tutte le cittadine, al fronte, ogni gruppo politico aveva il suo giornale e a volte ne aveva più d’uno. Centinaia di migliaia di opuscoli venivano distribuiti da migliaia di organizzazioni e si riversavano tra i soldati, nei villaggi, nelle fabbriche, nelle strade. La sete di istruzione, non soddisfatta per tanto tempo, con la rivoluzione esplodeva in una frenesia di espressioni. Solo dall’istituto Smol’nyi nei primi sei mesi, ogni giorno uscirono tonnellate, carrette, vagoni di libri, che saturarono tutto il paese. La Russia assorbiva insaziabile la parola scritta come sabbia ardente assorbe l’acqua. E non si trattava di favole, di storia falsificata, di religione annacquata, di romanzi corruttori da quattro soldi, ma di teorie sociali ed economiche, di filosofia, delle opere di Tolstoj, di Gogol’, di Gor’kij.” La situazione culturale (II) “E quale funzione aveva la parola! I “torrenti dell’eloquenza francese” di cui parla Carlyle erano una pura bazzecola. Conferenze, dibattiti, discorsi, nei teatri, nei circhi, nelle scuole, nei circoli, nelle sale di riunione dei soviet, nelle sedi dei sindacati, nelle caserme… riunioni nelle trincee al fronte, nelle piazze dei villaggi, nelle fabbriche… che spettacolo meraviglioso vedere dalle Officine Putilov riversarsi fuori quarantamila operai per ascoltare i socialdemocratici, i socialisti rivoluzionari, gli anarchici, chiunque, qualunque cosa avevano da dire, fino a quando volevano parlare! Per mesi a Pietrogrado, in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica. Nei treni, nei tram, dovunque, nascevano discussioni e dibattiti… […] Ad ogni riunione venivano respinti i tentativi di limitare la durata dei discorsi e ciascuno era libero di esprimere quello che sentiva dentro…” Verità e menzogna (III) “Al Consiglio della Repubblica Kerenskij dichiarò che il governo era pienamente consapevole dei preparativi bolscevichi e che disponeva di forze sufficienti per far fronte a qualunque dimostrazione. Accusò tanto la “Novaja Rus’” quanto il “Rabočij put’” di svolgere opera di sovversione e aggiunse che grazie all’assoluta libertà di stampa, il governo non aveva la possibilità di combattere le menzogne stampate… Dichiarando che questi erano due aspetti del medesimo tipo di propaganda, che si proponeva come scopo una controrivoluzione ardentemente desiderata dalle forze occulte, proseguì: “Io sono un uomo condannato, e non ha nessuna importanza che cosa mi accadrà. Ho però il coraggio di dire che l’altro elemento enigmatico è l’incredibile provocazione creata nella città dai bolscevichi!” Kerenskij rappresentato in una scena di “Ottobre” di Ejzenštejn Verità e menzogna (IV) “Voglio citarvi i passaggi più caratteristici di un’intera serie di articoli pubblicati su “Rabočij put’” da Ul’janov Lenin, criminale di Stato attualmente nascosto e che noi cerchiamo di trovare… Questo criminale di Stato ha invitato il proletariato e la guarnigione di Pietrogrado a ripetere l’esperienza del 16 e 18 luglio e perora l’immediata necessità di una sollevazione armata… […] Devo segnalare che le espressioni e lo stile di un’intera serie di articoli del “Rabočij put’” e del “Soldat” assomigliano moltissimo a quelli della “Novaja Rus’”… Abbiamo a che fare non tanto con il movimento di questo o quell’altro movimento politico, quanto con lo sfruttamento dell’ignoranza politica e degli istinti criminali di una parte della popolazione, da parte di una specie di organizzazione il cui scopo è quello di provocare in Russia, costi quel che costi, una folle ondata di distruzioni e saccheggi.” Qui Kerenskij lesse una citazione da un articolo di Lenin: “Pensateci!… i compagni tedeschi hanno il solo Liebknecht, non hanno né giornali né libertà di riunione né soviet… hanno di fronte l’incredibile ostilità di tutte le classi della società… e tuttavia i compagni tedeschi cercano di agire. Mentre noi, che abbiamo dozzine di giornali, libertà di riunione, la maggioranza nei soviet, noi, i proletari internazionalisti che godiamo della miglior situazione di tutto il mondo, possiamo rifiutarci di appoggiare i rivoluzionari tedeschi e le loro organizzazioni insurrezionali?” Kerenskij quindi proseguì: “Gli organizzatori della ribellione riconoscono così implicitamente che ora in Russia vigono le condizioni ideali perché un partito politico sia libero di agire.” Verità e menzogna (V) “Fratelli cosacchi! Vi si conduce contro Pietrogrado. Vogliono costringervi a combattere contro gli operai rivoluzionari e i soldati della capitale. Non credete a una parola di ciò che dicono i grandi proprietari terrieri e i capitalisti, nostri comuni nemici.” “Non credete alle promesse dei bolscevichi! La promessa di pace immediata è una menzogna! La promessa del pane una truffa! La promessa della terra una favola…” “Compagni! Siete stati crudelmente ingannati! La presa del potere è stata effettuata dai soli bolscevichi… Essi hanno nascosto il complotto a tutti gli altri partiti socialisti che compongono il soviet… Vi è stata promessa la terra e la libertà ma la controrivoluzione approfitterà dell’anarchia scatenata dai bolscevichi e vi priverà della terra e della libertà…” “Il nostro dovere è quello di smascherare questi traditori della classe operaia…” Verità e menzogna (VI) L’aneddoto del principe Tumanov: “Secondo molti giornali il suo corpo era stato trovato galleggiante sul canale della Mojka. Alcune ore dopo la famiglia del principe smentì la notizia precisando che il principe era stato arrestato; la stampa quindi identificò il cadavere come quello del generale Denisov. Essendo ritornato in vita anche il generale, noi svolgemmo delle indagini, e non riuscimmo a trovare una qualsiasi traccia di un cadavere ritrovato da qualche parte…” Decreto sulla stampa (VII) “Nell’ora seria e decisiva della rivoluzione e nei giorni che immediatamente la seguono, il Comitato provvisorio rivoluzionario è costretto ad adottare una serie di misure contro la stampa controrivoluzionaria di tutte le tendenze. Immediatamente, da ogni parte, si è preso a gridare che il nuovo potere socialista così agendo violava i principi essenziali del suo stesso programma, attentando alla libertà di stampa. Il governo degli operai e dei contadini richiama l’attenzione della popolazione sul fatto che, nel nostro paese, dietro questo paravento liberale, si nasconde la libertà delle classi abbienti di prendersi la parte del leone dell’intera stampa e, così, di intossicare l’opinione pubblica e confondere la coscienza delle masse. Tutti sanno che la stampa borghese è una delle armi più potenti della borghesia. Specialmente in questi momenti critici in cui il potere degli operai e dei contadini si sta ancora consolidando, è impossibile lasciare la stampa nelle mani del nemico, in quanto essa non è meno pericolosa delle bombe e delle mitragliatrici. Ecco perché sono state adottate misure temporanee e straordinarie allo scopo di arrestare l’ondata di infamie e di calunnie nella quale la stampa gialla e verde sarebbe felice di far annegare la giovane vittoria del popolo.” Decreto sulla stampa (VIII) “Non appena il nuovo ordine sarà consolidato tutte le misure amministrative contro la stampa verranno annullate; e verrà restituita la piena libertà, entro i limiti della responsabilità della legge, in armonia con leggi più aperte e più progredite… Tuttavia, tenendo presente il fatto che qualunque restrizione della libertà di stampa, persino in momenti critici, è ammissibile solo in quanto dovuta alla necessità, il Consiglio dei commissari del popolo decreta quanto segue: 1 – Verranno sottoposte a sequestro le seguenti categorie di giornali: a) quelli che incitano alla resistenza aperta o alla disobbedienza verso il governo degli operai e dei contadini; b) quelli che creano confusione travisando chiaramente e deliberatamente le notizie; c) quelli che incitano a commettere reati puniti dalla legge 2 – La chiusura temporanea o definitiva di qualunque organo di stampa verrà effettuata solo in virtù di una decisione del Consiglio dei commissari del popolo 3 – Il presente decreto ha carattere temporaneo e sarà revocato da uno speciale ukaz quando la normalità sarà ristabilita Il presidente del Consiglio dei commissari del popolo: Vladimir Ul’janov (Lenin)” Voglia di capire (IX) “Mai mi è capitato di vedere degli uomini che cercavano con tanta intensità di capire, di decidere. Non si muovevano, fissavano con una sorta di terribile concentrazione l’oratore, le sopracciglia aggrottate nello sforzo di pensare, le fronti coperte di gocce di sudore; uomini giganteschi dagli occhi chiari e innocenti di bambini e il volto di guerrieri da epopea. Poi parlò un bolscevico, uno dei loro, con violenza, con odio. Non gli piacque più di quanto gli fosse piaciuto l’altro. Non era quello il loro stato d’animo. Per il momento erano vennero sollevati dal corso dei soliti pensieri, e portati a pensare alla Russia, al socialismo, al mondo intero, come se dipendesse da loro la vittoria o la sconfitta della rivoluzione…” Ragionare “per bianco o nero” (X) I soldati avevano l’aria di essere umiliati e a disagio, come dei bambini rimproverati ingiustamente. Un giovanotto alto dall’aria arrogante, vestito con uniforme da studente, guidava l’attacco. “Vi rendete conto, suppongo,” disse con insolenza, “che prendendo le armi contro i vostri fratelli accettate di essere gli strumenti di un gruppo di assassini e di traditori?” “Ecco, fratello,” rispose uno dei due soldati, con convinzione. “Tu non capisci. Ci sono due classi, vedi, il proletariato e la borghesia. Noi…” “Oh, le conosco queste scemenze!” lo interruppe bruscamente lo studente. “Voialtri contadini ignoranti, basta che sentiate ragliare qualche slogan. Non capite neanche che cosa significano. Vi limitate a ripeterli come un mucchio di pappagalli.” La folla scoppiò a ridere. “Io sono uno studente marxista e ti dico che non è il socialismo quello per cui voi state lottando. E’ solo anarchia filotedesca!” “Oh, sì, lo so,” rispose il soldato, con la fronte bagnata di sudore. “Tu sei una persona istruita, lo si vede subito, e io sono un ignorante. Ma a me sembra…” “Immagino,” lo interruppe l’altro in tono sprezzante, “che tu credi che Lenin sia un vero amico del proletariato.” “Certo che lo credo,” rispose il soldato, a disagio. “Bene, amico mio, lo sai che Lenin ha attraversato la Germania su un vagone piombato? Lo sai che Lenin ha preso soldi dai tedeschi?” “Beh, non sono molto al corrente,” rispose il soldato, cocciuto. “Ma a me pare che quello che lui dice è quello che voglio sentire io e tutta la gente ignorante come me. Ora, ci sono due classi, la borghesia e il proletariato…” L’oratoria di Lenin (XI) “Nient’affatto adatto per essere l’idolo della folla, fu amato e venerato quanto pochi capi nella storia lo sono stati. Uno strano capo popolare, capo per le sue sole doti intellettuali. Incolore, privo di umorismo, intransigente e distaccato, senza idiosincrasie pittoresche – ma dotato della capacità di spiegare idee profonde in termini semplici, di analizzare le situazioni concrete. Il tutto combinato con l’acutezza e con una grandissima audacia intellettuale. “ “Infine fu il turno di Lenin, che si afferrava al parapetto della tribuna, muovendo sugli astanti i piccoli occhi socchiusi, fermo, in attesa, apparentemente insensibile alla lunga ovazione che si prolungò per diversi minuti. Quando fu finita disse semplicemente: “Ora procederemo all’edificazione dello stato socialista!” Di nuovo questo schiacciante boato umano.” L’oratoria di Lenin (XII) “In proclami eloquenti diffusi in tutta la Russia Lenin spiegava al popolo la rivoluzione con parole semplici, lo esortava a prendere il potere nelle proprie mani, a spezzare con la forza la resistenza delle classi possidenti e a impadronirsi con la forza delle istituzioni governative. Ordine rivoluzionario. Disciplina rivoluzionaria. Conti e controlli rigorosi. Niente scioperi! Niente pigrizia!” “Seguendo la tattica di appellarsi direttamente alle masse, Lenin comunicò per radio a tutti i comitati di reggimento, di divisione e di corpo d’armata […] il rifiuto di Duchonin.” Le masse e il Partito Discorso di Lenin: “L’errore dei socialisti rivoluzionari di sinistra sta nel fatto che, a quel tempo, non si opposero alla politica di compromesso, in quanto erano convinti che la coscienza delle masse non fosse abbastanza sviluppata… Se il socialismo si dovesse realizzare solo quando tutto il popolo avrà raggiunto un sufficiente sviluppo intellettuale, allora non vedremo il socialismo per almeno cinquecento anni… Il partito politico socialista è l’avanguardia della classe operaia. Non deve lasciarsi arrestare dalla mancanza di educazione delle masse nel loro insieme, ma deve guidare le masse, usando i soviet come organi di iniziativa rivoluzionaria… Ma per guidare chi tentenna, i compagni socialisti rivoluzionari di sinistra devono essi stessi smetterla di tentennare…” “Guidare le masse” Il problema evidentemente è che un’espressione come “guidare le masse” implica la convinzione di sapere già che cosa le masse desiderino – solo inconsapevolmente, senza essere in grado di esprimerlo in prima persona e di ottenerlo – e di essere anche gli unici detentori dei metodi con cui conseguirlo. E dunque presuppone l’esistenza di un partito o gruppo di potere che incarna la Verità e pertanto è inattaccabile a qualunque critica od opposizione; perciò si arriva al paradosso di sostenere che “tutti i giornali sono liberi, eccetto la stampa borghese”, cioè tutti i giornali coerenti con le direttive del regime sono ammessi, gli altri no. Affermare l’esistenza di una sola Verità – una sola fede religiosa, una sola ideologia politica… - è letale per la tolleranza; così se un pluralismo indiscriminato fa credere che qualunque verità sia accettabile o comunque lascia aperta la strada anche a palesi menzogne, ed è pertanto controproducente, l’idea che nessun pluralismo sia accettabile è altrettanto pericolosa, se non forse di più. Perché se agli effetti collaterali del primo si può rimediare educando le masse a una maggiore coscienza critica, dando loro maggiori elementi per distinguere almeno tra il palesemente falso e il verosimile, lasciando comunque all’individuo la libertà e la responsabilità di determinare le proprie decisioni, al vuoto di idee portato dalla censura non c’è rimedio. Mussolini e la stampa - Da un discorso ai direttori dei quotidiani italiani del 10/10/1928: “Io considero il giornalismo italiano fascista come un'orchestra. Il la è comune; è un la che il giornalismo dà a se stesso. Egli sa come deve servire il regime. Ma dopo i la, c'è la diversità degli strumenti, ed è appunto dalla loro diversità che si evita la cacofonia e si fa prorompere la piena e divina armonia, oltre agli strumenti, c'è poi la diversità dei temperamenti e degli artisti. Ciò precisato, la stampa nazionale, regionale e provinciale serve il Regime illustrandone l'opera quotidiana, creando e mantenendo un ambiente di consenso intorno a quest'opera.” - Da un discorso del 1933 ai dirigenti del Sindacato fascista della stampa: “Discorso da soldati a soldati. I giornalisti italiani devono considerarsi militi comandati a guidare il settore più avanzato e delicato del fronte fascista e a manovrare l'arma più pericolosa e potente di ogni battaglia. Il duce si è servito di quest'arma per le prime conquiste, se ne serve ancora per colpire alto, lontano e vicino. Oggi tutta la nazione è blocco e scudo: e tutti i giornali formano una sola bandiera. Pensiero ed azione sono nel commento e nella notizia più fusi che mai.” Hitler e la propaganda (I) Le prime riflessioni sul tema sono contenute già nel Mein Kampf, dove egli scrive di aver considerato la gestione della propaganda come il compito di gran lunga più importante nel Partito nazionalsocialista dei primi anni: essa deve dimostrare la progressiva diffusione dell’Idea e tentare di piegare l’intera nazione alla forza di una dottrina. A suo modo di vedere, il vero leader doveva essere più un agitatore che un enunciatore di programmi teorici: raramente, scrive, un grande teorico è anche un grande capo, perché comandare significa essere capaci di muovere le masse. I suoi stessi inizi del resto sono di propagandista militare alla fine della Grande Guerra, al servizio del primo reggimento fucilieri bavarese. “Di punto in bianco mi fu offerta l’opportunità di parlare di fronte a un pubblico più grande. E allora ebbi la certezza di ciò che avevo sempre presentito dentro di me, senza ancora capirlo: sapevo parlare.” Hitler e la propaganda (II) Scrive Kershaw: “Fu questa sintesi di spirito messianico e capacità propagandistiche che sancì, fin dai primi anni Venti, la superiorità di Hitler rispetto a tutti i potenziali aspiranti alla guida del movimento nazionalsocialista: nessuno degli altri esponenti di punta del Partito, infatti, poteva mettere in campo contemporaneamente come faceva lui il fascino demagogico dell’oratoria, le doti di trascinatore e l’unità e la forza esplicativa di una visione ideologica onnicomprensiva.” Scrive Broszat: “Secondo Hitler, tutta la propaganda deve adeguare il suo livello intellettuale alla capacità di comprensione del più stupido dei suoi destinatari. Meglio allora il banale argomento del bianco contro il nero, che i pensieri sofisticati. […] Il tema deve avere effetto esplosivo. […] Non c’è spazio per discorsi saggi da concilio. L’unico scopo è aizzare le ansie e le passioni e infiammare la folla fino al parossismo.” La propaganda del Nsdap La propaganda del Nsdap è caratterizzata da due aspetti vincenti: - è onnicomprensiva, ossia mira a includere tutti gli aspetti della vita, come recita un manifesto del partito del ’36: “Il partito ha una risposta per tutto o un’opinione su ogni argomento: l’arte, la pace, l’uguaglianza, la religione, le passeggiate domenicali, l’agricoltura e, naturalmente, gli ebrei”; - è semplice e diretta, indirizzata all’emozionalità e non all’intelligenza, martellante su pochi semplici temi presentati in bianco e in nero. Del ministero della propaganda si occupava un fedele collaboratore di Hitler, Goebbels, che si assicurò fin dall’incendio del Reichstag la facoltà di esercitare un controllo serrato sulla stampa (la radiofonia era statale e pertanto fu immediatamente nazificata) L’oratoria di Hitler Scrive George Mosse in La nazionalizzazione delle masse: “L’integrazione della funzione del capo con l’intero cerimoniale può essere rilevata anche nel ritmo stesso e nella struttura dei discorsi di Hitler. Questi insistevano sempre sulla “chiarezza”. Ma chiarezza voleva anche dire una concisione di forma che non lasciasse luogo ad ambiguità. Il suo assioma politico che “il popolo non comprende le strette di mano” fu applicato ai suoi discorsi. I discorsi di Hitler erano in realtà fatti, per le parole da lui usate, per le domande retoriche, per le affermazioni categoriche. In più avevano un ritmo costante nel quale il popolo poteva inserirsi con esclamazioni. Questi ritmi erano bellicosi, aggressivi e in particolare comportavano un timbro di voce di grande effetto. Lo stesso Hitler aveva scritto che i discorsi aprono il cuore del Volk come colpi di maglio. Spesso questi discorsi avevano una costruzione logica, ma la logica interna era mascherata dal ritmo e dal crescendo della voce. Il pubblico recepiva in tal modo la logica del discorso emotivamente, avvertiva solo la combattività e la fede, senza afferrare il contenuto concreto, o senza soffermarsi a riflettere sul suo significato. La folla era attratta dalla forma del discorso, “viveva” il discorso più che analizzarne il contenuto. Hitler sentì molto l’influenza di Gustave Le Bon e ne seguì la massima contenuta nel volume La psychologie des foules, e cioè che il capo deve essere parte integrante di una fede posseduta in comune, che non poteva da lui essere sperimentata o rinnovata. La sperimentazione e l’innovazione da lui introdotte consistettero solo nell’intensificare il significato di ciò che era largamente accettato, e nell’introdurre una visione manichea che trasformava le sue parole in fatti.” Bibliografia Classici e opere originali Aristotele, Confutazioni sofistiche Tacito, Dialogus de oratoribus Platone, Gorgia Cicerone, De oratore Quintiliano, Institutio oratoria Arthur Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione John Stuart Mill, Sulla libertà John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo Adolf Hitler, Mein Kampf Opere critiche Mauro Sacchetto, Dialettica, La Nuova Italia, 1998 Nicola Flocchini, Argomenti e problemi di letteratura latina, Mursia, 1977 Mario Untersteiner, I sofisti Guido De Ruggiero, Storia della filosofia, vol. 1, La filosofia greca, Laterza, 1967 Ludovico Geymonat, Storia della filosofia, vol. 1, Garzanti, 1966 Ian Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, Laterza, 1997 George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Il Mulino, 1975 Manuali scolastici Fornero – Abbagnano, Protagonisti e testi della filosofia, vol.. 1 tomo A, Paravia, 2000 Conte, Letteratura latina, Fossati – Luppi – Zanette, La città dell’uomo, vol.. 3, Mondadori, 2000 Materiale reperito in rete Anthony Rhodes, L’arte della persuasione (raccolta di materiale propagandistico risalente al periodo della Seconda Guerra Mondiale) Propaganda, Media control and Democracy (sul controllo dei mass media da parte di gruppi di pressione negli Stati Uniti) Il quarto potere (sulla stampa come prodotto di mercato) La militarizzazione di stampa e tv (sull’atteggiamento dei media durante la guerra civile nella ex-Jugoslavia e nel primo conflitto nel Golfo) Guido Gonella, Libertà di stampa (in occasione del cinquantenario dell’Ordine dei Giornalisti) Protocolli dei Savi di Sion Diego Gabutti, Il pluralismo uccide l’informazione William Randolph Hearst (sul magnate della stampa americana dei primi decenni del Novecento, la cui figura fu d’ispirazione a Orson Welles per il suo Citizen Kane) Sartori, Giovanni, Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica. Jurgen Habermas, Teoria dell’agire comunicativo