CAPITOLO I IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA. LA SVOLTA
by user
Comments
Transcript
CAPITOLO I IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA. LA SVOLTA
CAPITOLO I IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA. LA SVOLTA DELLA CASSAZIONE: ANCHE IL NATO HA DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO IN CASO DI OMESSA DIAGNOSI DELLE MALFORMAZIONI DEL FETO GUIDA 1. La questione controversa 2. L’omessa diagnosi di malformazione congenita va distinta dall’ipotesi in cui la lesione è causata dalla condotta prenatale di terzo 3. Omessa diagnosi di malformazione congenita: i punti fermi 3.1. Il diritto al risarcimento del danno a favore della madre 3.2. La ripartizione dell’onere probatorio con riferimento alla posizione della madre 3.3. Il contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo e il risarcimento del danno anche a favore del padre 4. Le questioni aperte: il riconoscimento al nato malformato iure proprio di un diritto al risarcimento del danno 4.1. La tesi che esclude la legittimazione del nato malformato (Cass. n. 14488/2004; Cass. n. 10741/2009) 4.2. La tesi che riconosce il diritto al risarcimento del danno a favore del nato malformato (Cass. n. 16754/2012) 5. La motivazione di Cass., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754 5 1. La questione controversa. Nel caso in cui il medico, cui la gestante si sia rivolta per ottenere una diagnosi sulle condizioni del feto, ometta di riscontrarne una malformazione, così impedendo alla donna di esercitare in modo consapevole il suo diritto di autodeterminarsi in ordine alla scelta di interrompere o meno la gravidanza, a chi spetta il risarcimento del danno? È possibile, in particolare, riconoscere al nato un autonomo diritto al risarcimento del danno? 2. L’omessa diagnosi di malformazione congenita va distinta dall’ipotesi in cui la lesione è causata dalla condotta prenatale di terzo. È bene precisare che il problema si pone nel caso in cui la malformazione sia congenita (e, quindi, non sia imputabile, sotto il profilo causale, all’attività del medico) e al sanitario si contesta soltanto di non averne riscontrato l’esistenza, incidendo sulla libertà di scelta, in campo procreativo, spettante alla madre. Nel caso in cui, invece, il medico abbia causato la malformazione del feto, non vi sono particolari ostacoli a riconoscere in capo al soggetto poi nato malformato il diritto al risarcimento del danno. Tale conclusione è stata condivisa sia da quella parte della giurisprudenza (cfr. Cass., sez. III, n. 10741/2009) che ritiene che il nascituro sia, in quanto tale, già titolare di una forma, sia pur limitata di soggettività giuridica, sia da parte dell’orientamento che, invece, nega recisamente la possibilità di riconoscere la soggettività giuridica del concepito. Nell’ambito di quest’ultima tesi si afferma, infatti, che anche negando la soggettività giuridica del concepito, non vi è dubbio che questi, una volta nato, abbia il diritto di essere risarcito dei danni che si manifestano dopo la nascita a causa di condotte poste in essere anteriormente o contemporaneamente alla stessa, essendo irrilevante la non contemporaneità fra la condotta dell’autore dell’illecito (che ben può realizzarsi durante la fase del concepimento) e il danno (Cass. pen. n. 11625 del 2000; Cass. civ. n. 9700 del 2011). Molto più complessa è, invece, la questione che si pone nell’ipotesi in cui la malformazione sia congenita e al medico si contesti soltanto l’omessa diagnosi. 3. Omessa diagnosi di malformazione congenita: i punti fermi. Con riferimento a tale fattispecie, possiamo distinguere quelli che sono i punti fermi cui è approdata la giurisprudenza dai profili che, invece, sono ancora oggetto di dibattito. 3.1. Il diritto al risarcimento del danno a favore della madre. La giurisprudenza in maniera pacifica riconosce la legittimazione all’azione risarcitoria alla madre. L’irrilevanza della questione della soggettività del nascituro 6 Nei primi 90 giorni Dopo i primi 90 giorni PARTE PRIMA – PERSONE E FAMIGLIA In questo caso il danno discende evidentemente dalla lesione del suo diritto di autodeterminarsi in ordine alla scelta di interrompere o meno la gravidanza. Si tratta di un diritto che trova la sua fonte nella legge 22 maggio 1978, n. 140 e, in particolare, negli artt. 4, 6 e 7. Tali disposizioni distinguono come è noto due ipotesi, a seconda che l’interruzione della gravidanza avvenga nei primi novanta giorni o successivamente a tale momento. Nei primi novanta giorni, il diritto all’interruzione della gravidanza spetta alla sola condizione che “la donna [...] accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. Dopo i primi novanta giorni, invece, ai sensi dell’art. 6 della medesima legge, “l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. In questo caso, peraltro, l’art. 7, comma 3, specifica che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”. 3.2. La ripartizione dell’onere probatorio con riferimento alla posizione della madre. Con riferimento alla posizione della donna, alla luce del quadro normativo appena descritto, in giurisprudenza si è posto soprattutto il problema di definire l’onere probatorio gravante rispettivamente sulla donna e sul medico. La giurisprudenza (cfr. Cass. n. 6735/2002; Cass. n. 14488/2008) ha chiarito che: a) non è necessario che già nella gravidanza o nel parto la malformazione o anomalia del feto dia luogo ad un serio (o, dopo i novanta giorni, grave,) pericolo per la salute, potendo lo stesso essere anche successivo alla nascita e dipendente quindi esclusivamente dalla maternità. Non si deve accertare se in lei si sia instaurato un processo patologico capace di evolvere in grave pericolo per la sua salute psichica, ma se la dovuta informazione sulle condizioni del feto avrebbe potuto determinare durante la gravidanza l’insorgere di un tale processo patologico; b) trattandosi di valutazione prognostica da effettuare, nell’ipotesi di cui all’art. 4 l. n. 194/1978, peraltro sulla base delle sole circostanze “accusate” dalla CAPITOLO I – IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA gestante, essa va effettuata in termini di probabilità, secondo le nozioni della scienza medica, ma non di certezza (che non può che riferirsi ad un fatto attuale o già verificatosi), con giudizio da effettuarsi ex ante; c) la circostanza che, nel ricorso di dati presupposti, tra i quali sono le anomalie e malformazioni del nascituro, la legge consenta alla donna di evitarle il pregiudizio che da quella condizione del figlio le deriverebbe al suo stato di salute, rende legittimo per il giudice assumere come normale e corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi malformazioni del feto e perciò rende legittimo anche il ricondurre al difetto di informazione, come alla sua causa, il mancato esercizio di quella facoltà; che elementi indicativi della volontà della donna di esercitare il diritto all’interruzione della gravidanza possono trarsi da fattori ambientali, culturali, di storia personale e dallo stesso fatto che la gestante si sia rivolta al professionista appunto per esami volti a conoscere se il feto presentasse o no malformazioni o anomalie, segno questo di un comportamento orientato piuttosto nel senso di rifiutare che di accettare di portare a termine la gravidanza, se il feto avesse presentato gravi malformazioni; d) salvo il caso di grave pericolo di vita per la donna, dopo il novantesimo giorno di gravidanza, la gestante può esercitare il diritto all’aborto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 6 e 7, comma 3, l. 22 maggio 1978 n. 194, solo in presenza di due condizioni positive concernenti la propria salute e di una negativa, costituita dall’insussistenza di possibilità di vita autonoma per il feto. Per possibilità di vita autonoma del feto si intende quel grado di maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione anche fuori dall’ambiente materno. Pertanto in una causa in cui si discute se la donna sia stata impedita ad interrompere la gravidanza da un inadempimento del medico ad una sua obbligazione professionale, l’eventuale interrogativo concernente la possibilità di vita autonoma del feto va risolto avendo riguardo al grado di maturità raggiunto dal feto nel momento in cui il medico ha mancato di tenere il comportamento che da lui ci si doveva attendere; e) nella causa tra la donna che chiede il risarcimento dei danni derivatile dal non aver potuto esercitare il suo diritto ad interrompere la gravidanza, ed il medico che sostiene l’insussistenza del nesso causale perché la donna non avrebbe comunque potuto esercitarlo, alla donna spetta provare i fatti costitutivi del diritto, al medico i fatti idonei ad escluderlo. Pertanto non spetta alla donna provare che quando è maturato l’inadempimento del medico il feto non era ancora pervenuto alla condizione della possibilità di vita autonoma, ma spetta al medico provare il contrario. Per quanto poi riguarda il danno risarcibile la giurisprudenza ha chiarito che la possibilità, per la madre, di esercitare il suo diritto ad una procreazione cosciente e responsabile interrompendo la gravidanza, assume dunque rilievo nella sede del giudizio sul nesso causale, ma non l’assume come criterio di selezione dei danni risarcibili, non almeno come criterio di selezione tra tipi di danno. Perché, trattandosi di responsabilità contrattuale, ad essere risarcibili sono i danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento 7 Si presume che in caso di diagnosi corretta avrebbe abortito La possibilità di vita autonoma del feto Riparto dell’onere probatorio 8 PARTE PRIMA – PERSONE E FAMIGLIA (art. 1223 c.c.). In questo danno rientra non solo il danno alla salute in senso stretto ma anche il danno biologico in tutte le sue forme ed il danno economico, che sia conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del sanitario, in termini di causalità adeguata (Cass. n. 14488/2004). 3.3. Il contratto con effetti protettivi nei confronti del terzo e il risarcimento del danno anche a favore del padre. Altro punto fermo è il riconoscimento di un autonomo diritto al risarcimento del danno anche a favore del padre. A tale conclusione si arriva qualificando, alla luce del tessuto dei diritti e dei doveri che secondo l’ordinamento si incentrano sul fatto della procreazione — quali si desumono si dalla legge 194 del 1978, sia dalla Costituzione e dal codice civile, quanto ai rapporti tra coniugi ed agli obblighi dei genitori verso i figli (artt. 29 e 30 Cost.; art. 143 e 147, 261 e 279 c.c.) — il contratto tra medico e gestante come contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che, per effetto dell’attività professionale dell’ostetrico-ginecologo diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale) È vero, infatti, che la madre, pur informata, può scegliere di non interrompere la gravidanza: l’ordinamento non consente al padre di respingere da sé tale eventualità e nulla potrebbe imputarsi al medico. Ma, sottratta alla donna la possibilità di scegliere, al che è ordinata l’esatta prestazione del medico, gli effetti negativi di questo comportamento si inseriscono in una relazione col medico cui non è estraneo il padre, rispetto alla quale la prestazione inesatta o mancata si qualifica come inadempimento e giustifica il diritto al risarcimento dei danni che ne sono derivati. Certamente la decisione di interrompere la gravidanza, dalla l. n. 194/1978, può essere presa solo dalla donna, previo esame e riconoscimento delle sue condizioni di salute (come sopra si è detto). Da ciò discende che il padre non ha titolo per intervenire in siffatta decisione e la Corte costituzionale ha riaffermato la legittimità costituzionale di tale scelta legislativa (ord. 31 marzo 1988, n. 389, ed in parte C.Cost. 5 maggio 1994, n. 171). 4. Le questioni aperte: il riconoscimento al nato malformato iure proprio di un diritto al risarcimento del danno. La questione controversa riguarda la possibilità di riconoscere, iure proprio, un diritto al risarcimento del danno a favore del nato malformato. Il problema che si pone è stato oggetto di dibattito dottrinale anche negli ordinamenti stranieri (segnatamente quello francese ed in parte quello tedesco e nordamericano, c.d. “wrongful life” o “vita ingiusta”). La tendenza prevalente è stata quella di rigettare la domanda proposta in proprio dal nato malformato, e di accogliere quella dei genitori relativamente ai CAPITOLO I – IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA danni patrimoniali, variamente intesi, ed a quelli non patrimoniali (nell’ordinamento americano la fattispecie è trattata nell’ambito dei torts). La Corte di cassazione francese (assemblea plenaria), nel celebre arrêt Perruche del 28 novembre 2001, con un revirement rispetto alla precedente giurisprudenza, dichiarò che “quando gli errori commessi da un medico e dal laboratorio in esecuzione del contratto concluso con una donna incinta impedirono a quest’ultima di esercitare la propria scelta di interruzione della gravidanza, al fine di esercitare la nascita di un bambino handicappato, questi può domandare il risarcimento del danno consistente nel proprio handicap, causato dai predetti errori”. Successivamente in Francia è intervenuto il legislatore con la legge n. 303/2002, che ha statuito che nulla può essere richiesto dall’handicappato per il solo fatto della nascita, quando l’handicap non è stato provocato, aggravato o evitato da errore medico. Questa sentenza della corte francese ha riaperto il dibattito sul diritto dell’handicappato di “non nascere se non sano”. Segnatamente in Italia, il dibattito dottrinale è stato alimentato non solo dalla suddetta sentenza francese, ma anche da alcuni arresti giurisprudenziali. In particolare, il risarcimento a favore del nato era stato ritenuto un possibile sviluppo di elementi tratti dalla sentenza della Corte di Cassazione 10 maggio 2002, n. 6735. Quest’ultima sentenza, qualificato il contratto tra la gestante ed il ginecologo come contratto con effetti protettivi in favore di terzi, aveva ritenuto che l’inadempimento del medico rilevasse direttamente non solo nei confronti della gestante, ma anche nei confronti del padre del nato handicappato e che la possibilità per la madre di esercitare il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, interrompendo la gravidanza, assumesse rilievo nella sede del giudizio sul nesso causale, ma non come criterio di selezione dei danni risarcibili. Da ciò parte della dottrina ha ritenuto che l’ulteriore passo era quello di riconoscere anche al concepito, egualmente soggetto protetto dal contratto, il risarcimento del danno per la vita “ingiusta” quale handicappato, in luogo del “non nascere”. Sulla questione si registrano ormai due indirizzi diametralmente contrastanti. 9 L’arrêt Perruche Cass. n. 6735/02 4.1. La tesi che esclude la legittimazione del nato malformato (Cass. n. 14488/ 2004; Cass. n. 10741/2009). Secondo una prima tesi, espressa da Cass. n. 14488/2004, deve escludersi un autonoma legittimazione risarcitoria del nato malformato. La tesi negativa si basa sulle seguenti considerazioni: va, anzitutto, rilevato che detto diritto di “non nascere” sarebbe un diritto adespota (letteralmente: senza padrone), in quanto a norma dell’art. 1 c.c. la capacità giuridica si acquista al momento della nascita, ed i diritti che la legge riconosce a favore del concepito (artt. 462, 687, 715 c.c.) sono subordinati all’evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita. Nella fattispecie, invece, il diritto di non nascere, fino alla nascita non avrebbe un soggetto titolare dello stesso e con la nascita detto “diritto di non nascere” sarebbe definitivamente scomparso. Il diritto adespota 10 L’ordinamento tutela il concepito verso la nascita Il divieto di eutanasia prenatale PARTE PRIMA – PERSONE E FAMIGLIA Sotto altro profilo, ma nella stessa ottica, ipotizzare il diritto del concepito malformato di non nascere significa concepire un diritto che, solo se viene violato, ha, per quanto in via postuma, un titolare, ma se tale violazione non vi è (e quindi non si fa nascere il malformato per rispettare il suo diritto di non nascere), non vi è mai un titolare. Il titolare di questo presunto diritto non avrà mai quindi la possibilità di esercitarlo. A parte queste incongruenze, a sostegno della tesi negativa viene ulteriormente osservato che il nostro ordinamento positivo tutela il concepito e quindi l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la nascita e non verso la non nascita, per cui se di diritto vuol parlarsi, deve parlarsi di diritto a nascere. Anche a seguito della l. n 178/1994 l’interruzione della gravidanza, al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 l. n. 194/1978, accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8, costituisce reato e ciò anche per la stessa gestante (art. 19 l. n. 194/1978). Le malformazioni fetali rilevano in questa fattispecie non per far sorgere un diritto all’aborto ma solo per concretizzare il pericolo alla salute o alla vita della gestante e permettere alla stessa di avvalersi dell’esimente costituita dalla necessità di interruzione della gravidanza. Tanto è vero che l’art. 7, ult. c. statuisce, che quando vi è la possibilità di vita autonoma del feto, l’aborto può essere praticato solo nell’ipotesi di cui all’art. 6, lett. a) (pericolo per la vita della donna, non essendo più sufficiente il pericolo per quanto grave alla salute) ed il medico ”deve adottare ogni misura per salvaguardare la vita del feto”, indipendentemente dal punto se esso sia malformato o abbia gravi patologie. Quindi il legislatore tutela, addirittura con sanzione penale, il diritto a nascere del concepito, a prescindere dalle malformazioni o patologie (diversamente dalla legislazione francese in ipotesi di gravi malformazioni fetali). Sostenere del resto che il concepito abbia un diritto a non nascere, sia pure in determinate situazioni di malformazione, significa affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o di eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., nonché con i principi di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art. 5 c.c. Va poi osservato che se esistesse detto diritto a non nascere, se non sano, se ne dovrebbe ritenere l’esistenza, indipendentemente dal pericolo per la salute della madre, derivante dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore problema, in assenza di normativa in tal senso, di quale sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello è legittimante della non nascita. Infatti, anche se non vi fosse detto pericolo per la salute della gestante, ogni qual volta vi fosse la previsione di malformazioni o anomalie del feto, la gestante, per non ledere questo presunto diritto di “non nascere se non sani” avrebbe l’obbligo di richiedere l’aborto, altrimenti si esporrebbe ad una responsabilità (almeno patrimoniale) nei confronti del nascituro, una volta nato. Si osserva, invero, che quella che è una legge per la tutela sociale della maternità e che attribuisce alla gestante un diritto personalissimo, in presenza di determinate circostanze, finirebbe per imporre alla stessa l’obbligo dell’aborto CAPITOLO I – IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA 11 (salvo l’alternativa di esporsi ad un’azione per responsabilità da parte del nascituro). 4.2. La tesi che riconosce il diritto al risarcimento del danno a favore del nato malformato (Cass. n. 16754/2012). A questo indirizzo giurisprudenziale se ne contrappone uno diverso che è stato recepito dalla giurisprudenza più recente. Dapprima, seppure in un obiter dictum, Cass. n. 9700 del 2011, nel riconoscere il diritto al risarcimento del danno a favore del figlio nato orfano a causa di una condotta illecita prenatale, muovendo dalla premessa secondo cui non è necessario ravvisare una soggettività giuridica del concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato, ritiene che tale ricostruzione consentirebbe di riconoscere il diritto al risarcimento anche al nato con malformazioni congenite e non solo ai suoi genitori, sembrando del tutto in linea col sistema e con la diffusa sensibilità sociale che sia esteso al feto lo stesso effetto protettivo (per il padre) del rapporto intercorso tra madre e medico; e che, come del resto accade per il padre, il diritto al risarcimento possa essere fatto valere dopo la nascita anche dal figlio il quale, per la violazione del diritto all’autodeterminazione della madre, si duole in realtà non della nascita ma del proprio stato di infermità (che sarebbe mancato se egli non fosse nato). Tali considerazioni vengono poi portate alle estreme conseguenze da Cass., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754, che, superando i precedenti di segno contrario (Cass. 14488/2004 e Cass. 10741/2009), riconosce al bambino nato malformato legittimazione autonoma ad esercitare l’azione risarcitoria anche nel caso in cui le malformazioni siano congenite e non siano state causate dall’errore del sanitario (cui si imputa soltanto di non averle rilevato, pregiudicando così il diritto della madre di autodeterminarsi in ordine alla scelta di interrompere la gravidanza). Con riferimento alla fattispecie in esame (omessa diagnosi di una malformazione congenita), è proprio la negazione della soggettività giuridica del nascituro e, quindi, dell’autonoma titolarità in capo al medesimo di diritti soggettivi ancor prima della nascita, che consente alla Corte di Cassazione di superare uno degli argomenti tradizionalmente invocati a favore della tesi negativa al risarcimento: quello secondo cui vi sarebbe una insanabile contraddizione tra il riconoscimento al nascituro del diritto alla vita (e, quindi, del diritto a nascere) e, al tempo stesso, il riconoscimento di un diritto a non nascere se non sano, a non vivere una vita pregiudicata dalla malformazione. Chi nasce malato per via di un fatto lesivo ingiusto occorsogli durante il concepimento non fa, pertanto, valere un diritto alla vita né un diritto a nascere sano né tantomeno un diritto a non nascere. Fa valere la lesione della sua salute, originatasi al momento del concepimento. Oggetto della pretesa e della tutela risarcitoria è, pertanto, sul piano morfologico, la nascita malformata, su quello funzionale (quello, cioè, del dipanarsi della vita quotidiana) il perdurante Cass. n. 9700/2011 Cass. n. 16754/2012 Negata la soggettività giuridica del concepito 12 L’evento di danno PARTE PRIMA – PERSONE E FAMIGLIA e irredimibile stato di infermità. Non la nascita non sana o la non nascita. (così letteralmente la sentenza n. 16754/2012). Il danno non è dato dalla nascita in sé, né dalla malformazione in sé, ma dalle condizioni deteriori di vita cui è costretto a causa della malformazione, dall’esistenza diversamente abile che si trova ad affrontare. L’evento di danno è costituito in particolare dalla individuazione di sintesi della “nascita malformata”, intesa come condizione dinamica dell’esistenza riferita ad un soggetto di diritto attualmente esistente, e non già destinata a realizzare un suicidio per interposto risarcimento dei danni, come pure si è talvolta opinato. In quest’ottica, la legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva, pertanto, da una omissione colpevole cui consegue non il danno della sua esistenza, né quello della malformazione di sé sola considerata, ma la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto non di rappresentante-rappresentato, ma di includente-incluso. Così spiegato l’evento di danno, non vi è dubbio, tuttavia, anche superando le contraddizioni derivanti dal riconoscimento al nascituro di una soggettività giuridica (contraddizioni espresse dall’interrogativo: se è già soggetto, e quindi titolare del diritto alla vita, come può lamentarsi del fatto che questo suo diritto è stato rispettato?), il percorso che conduce ad ammettere che il nato malformato possa agire in proprio contro il medico che ha omesso la diagnosi (contribuendo così alla sua nascita) si caratterizza per la presenza di alcuni “ostacoli” concettuali di non facile superamento. Si tratta, infatti, di capire, in primo luogo, quale sia l’interesse leso del nato, la cui lesione determina il danno ingiusto e consente l’azione risarcitoria e, in secondo luogo, come debba possa affermarsi l’esistenza di un rapporto di causalità tra il danno lamentato e la condotta del medico (che si limita all’omessa diagnosi di una malformazione che già esisteva e che il medico non ha contribuito a creare). La sentenza n. 16754/2012 cerca di fornire una risposta a questi interrogativi. Nella specie, risulta violato il dettato dell’art. 32 Cost., intesa la salute non soltanto nella sua dimensione statica di assenza di malattia, ma come condizione dinamico/funzionale di benessere psicofisico (art. 1 lett. o) d.lgs. n. 81 del 2008; Cass. 21748/2007). In conseguenza non è a discorrersi di non meritevolezza di una vita handicappata, ma di una vita “che merita di essere vissuta meno disagevolmente” attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio. L’interesse giuridicamente protetto è, quindi, quello di consentire al soggetto leso di alleviare sul piano risarcitorio la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici del Costituente. Ciò deve essere inteso bene: nel senso che è solo comprendendo come a sua volta la “vita handicappata” possa divenire un oggetto sociale, considerato come tale dall’ordinamento, che ne segue che “non assume, pertanto, alcun rilievo “giuridico” la dimensione prenatale del minore”. È infatti in questa ottica “ogget- CAPITOLO I – IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA tiva” che segue la “assoluta irrilevanza” dell’affermazione secondo la quale “nessuno potrebbe preferire la non vita alla vita”. L’oggetto della tutela non è l’impossibile alternativa del soggetto tra essere e non essere, ma la “vita handicappata” qua talis rispetto all’ideale tracciato dalla Costituzione della vita volta alla propria entelechia. Significativo, inoltre, è il passaggio motivazionale in cui la Corte fa riferimento al diritto del minore allo svolgimento della propria personalità, evidenziando come l’arrivo del minore in una dimensione familiare alterata (come lascia presumere il fatto che la madre si fosse già emotivamente predisposta, se correttamente informata della malformazione, ad interrompere la gravidanza, in previsione di una sua futura malattia fisica o psichica al cospetto di una nascita indesiderata) impedisce o rende più ardua la concreta e costante attuazione dei diritti-doveri dei genitori sanciti dal dettato costituzionale, che tutela la vita familiare nel suo libero e sereno svolgimento sotto il profilo dell’istruzione, educazione, mantenimento dei figli. Con riferimento al rapporto di causalità, la duplice obiezione secondo cui la nascita (cui il medico contribuisce con la sua omissione) non è di per sé un danno e la malformazione non è conseguenza dell’omissione del medico, ma del presupposto di natura genetica rispetto al quale la condotta del sanitario è muta, vengono superate proprio partendo dalla sopra illustrata rivisitazione dell’evento di danno. Abbiamo visto come secondo la Cassazione, il danno non è qui rappresentato né dalla nascita in sé, né dalla malformazione in sé, ma dalla sintesi di entrambe, dalla “vita malformata”, dall’esistenza diversamente abile cui il minore è comunque costretto. È proprio partendo da tale premessa che poi la Corte può affermare la equiparazione quoad effecta tra le fattispecie dell’errore medico che non abbia evitato l’handicap evitabile ovvero che tale handicap abbia cagionato e l’errore medico che non ha evitato la nascita malformata evitabile, senza l’errore diagnostico, in conseguenza della facoltà di scelta della gestante derivante da una espressa previsione di legge). La sentenza n. 16754/2012, senz’altro apprezzabile per l’imponente sforzo motivazione e la ricchezza dei riferimenti culturali, non è, tuttavia, una sentenza di facile comprensione. Rimane, infatti, qualche perplessità che nasce dalla semplice considerazione che il danno aquiliano è comunque un danno “differenziale”, nel senso che implica un confronto, una comparazione tra la situazione che avrebbe potuto essere senza l’illecito e quella che si verifica in conseguenza dell’illecito. Nel caso di specie, al di là di tutto, sembra difficilmente superabile la constatazione la conseguenza dell’illecito contestato al medico (che è l’omessa diagnosi della malformazione) è la mancata scelta di interrompere la gravidanza da parte della madre. In altri termini, la tesi sottesa alla pretesa risarcitoria è che la madre avrebbe abortito se il medico l’avesse correttamente informata. Questo consente di comprendere il riconoscimento dell’azione risarcitoria a favore della madre, titolare del diritto all’autodeterminazione consapevole in materia procreativa; consente di comprenderlo anche a favore del padre (destinatario dell’effetto protettivo del contratto tra il medico e la madre); ma certamente rende più difficile il riconoscimento della pretesa risarcitoria autonoma in capo al nato 13 Rapporto di causalità Considerazioni critiche 14 PARTE PRIMA – PERSONE E FAMIGLIA malformato. Con riferimento a quest’ultimo è comunque difficile superare il tradizionale argomento ostativo secondo cui l’alternativa sarebbe stata la non vita. 5. La motivazione di Cass., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754. Si riportano di seguito i passaggi essenziali della motivazione. (Omissis) 6.2. La soluzione della questione di diritto affrontata nella sentenza 10741/09, al pari di quella oggi sottoposta all’esame del collegio, non sembra, peraltro, postulare né imporre come imprescindibile l’affermazione della soggettività del nascituro, soluzione che sconta, in limine, un primo ostacolo di ordine logico costituito dalla apparente contraddizione tra un diritto “a nascere sano” (un diritto, dunque, alla vita, che si perpetuerebbe nel corso della gestazione) e la sua repentina quanto inopinata trasformazione in un diritto alla salute di cui si invocherebbe tutela solo dopo la nascita. In premessa, l’accurata analisi, gli approfonditi riferimenti e gli spunti critici riservati in sentenza alla giurisprudenza cd. normativa, nell’ottica di una rinnovata funzione “creativa” della speculare Interessenjurisprudenz, ne lascia poi impregiudicato l’interrogativo circa la collocazione di quest’ultima nell’ambito della gerarchia delle fonti — salvo a voler riservare alle sole fonti “poste” tale preordinazione gerarchica, onde la giurisprudenza normativa sarebbe singolarmente fuori da quell’assetto. Se quest’ultimo appare a prima vista l’approdo più agevole sul piano dogmatico, per altro verso non sembra seriamente discutibile che, così opinando, il giudice civile, laddove ritenga nell’interpretare la legge alla luce dei valori costituzionali che essa non tuteli (o non tuteli a sufficienza) una situazione giuridica di converso meritevole, interviene a creare una corrispondente “forma” giuridica di tutela, eventualmente in contrasto con la legge stessa, ma senza subire alcun sindacato di costituzionalità, in quanto il sistema non prevede un meccanismo immediato di sindacato della costituzionalità degli orientamenti pretori salvo che questi riguardino la stretta interpretazione di una o più norme di legge esistenti (e sempre che un giudice sollevi la questione di costituzionalità secondo il consueto procedimento di cognizione incidentale). Il problema — che non può essere approfondito in questa sede se non nei limiti in cui la risoluzione del caso concreto lo impone e che attinge all’equilibrio stesso tra i poteri dello Stato, oltre che al modo di essere, e dunque di evolversi, dell’ordinamento giuridico — induce l’interprete ad interrogarsi sui limiti del suo intervento in seno al tessuto normativo e al di là di esso, senza mai omettere di considerare che, di interpretazione contra legem (non diversamente che per la consuetudine), non è mai lecito discorrere in un sistema (pur semi-aperto) di civil law, che ammette e legittima, esaurendone in sé la portata innovativa, l’interpretazione estensiva e l’integrazione analogica, anch’essa condotta pur sempre ex lege ovvero ex iure. Non altro. Non oltre. Merito della sentenza è senz’altro quello di aver distinto tra due situazioni apparentemente simili, ma in realtà, sul piano giuridico, tra loro assai diverse. Al contrario di quanto avviene nel caso di prescrizione di farmaci teratogeni, la errata o mancata diagnosi non rileva ex se, sul piano eziologico, con riguardo alla genesi della patologia sofferta dal bambino, vicenda per la CAPITOLO I – IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA quale i genitori possono conseguentemente lamentare, nei confronti dei sanitari, la sola omissione di informazione circa lo stato di salute del feto per avere tale difetto di informazione di fatto impedito alla madre di potersi determinare ad un aborto terapeutico nei termini e alle condizioni previste dalla legge. Meno condivisibile appare, per le ragioni che in seguito meglio si approfondiranno, il principio, ribadito in obiter, della irrisarcibilità del danno direttamente subito dal neonato, che ad avviso del collegio perpetua lo stesso equivoco concettuale immanente alla sentenza n. 14488/ 2004: quello secondo il quale il nato non ha comunque diritto ad alcun risarcimento del danno per essere venuto alla vita, in quanto privo della titolarità di un interesse a non nascere. La contraddizione in materia di diritti del concepito sta proprio, da un lato, nel considerarlo (a torto o a ragione), in fase prenatale, soggetto di diritto e perciò centro di imputazione di alcuni diritti, della personalità e patrimoniali — da far valere solo se ed in quanto nato —; dall’altro, nel riservargli, alla nascita un trattamento di non-persona, disconoscendone sostanzialmente gli aspetti più intimi e delicati della sua esistenza. La concezione della vita come oggetto di tutela, da parte dell’ordinamento, in termini di “sommo bene”, di alterità normativa superiorem non recognoscens — di talché non potrebbe in alcun modo configurarsi un interesse a non nascere giuridicamente tutelato (al pari di un interesse a non vivere una non-vita, come invece condivisibilmente riconosciuto da questa stessa corte con la sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748) — è percorsa da forti, aneliti giusnaturalistici, ma è destinata a cedere il passo al raffronto con il diritto positivo. Decisiva appare, difatti, la considerazione secondo cui, al momento stesso in cui l’ordinamento giuridico riconosce alla madre il diritto di abortire, sia pur nei limiti e nei casi previsti dalla legge, si palesa come incontestabile e irredimibile il sacrificio del “diritto” del feto a venire alla luce, in funzione della tutela non soltanto del diritto alla procreazione cosciente e responsabile (l. n. 194 del 1978, art. 1), ma dello stesso diritto alla salute fisica o anche soltanto psichica della madre. Mentre non vi sarebbe alcuno spatium comparationis se, a confrontarsi, fossero davvero, in una comprovata dimensione di alterità soggettiva, un (superiore) diritto alla vita e un (”semplice”) diritto alla salute mentale. È questo l’insegnamento, oltre che del giudice delle leggi, della stessa Corte internazionale di Strasburgo che, con (ancora inedita) sentenza dell’agosto di quest’anno, ha dichiarato la sostanziale incompatibilità di buona parte della l. n. 40 del 2004 in tema di fecondazione assistita (che, comunque, consentiva anche nell’originaria formulazione il sacrificio di due dei tre embrioni fecondati in vitro), per (illogicità e) contraddittorietà, proprio con la legge italiana sull’interruzione della gravidanza, così mettendo in discussione ab imo la stessa ratio ispiratrice di quella normativa, già considerevolmente vulnerata in non poche disposizioni dalla Corte costituzionale nel 2009. Troppo spesso si dimentica che una norma statuale di rango primario, più volte legittimata dal vaglio della Corte costituzionale, riconosce alla madre il diritto ad interrompere la gravidanza quando questa si trovi “in circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (così testualmente la l. n. 194 del 1978, art. 4). Appare di indiscutibile efficacia la scelta lessicale di un legislatore che descrive la situazione giuridica soggettiva attribuita alla gestante in termini di diritto alla procreazione cosciente e responsabile, a lei rimesso in termini di assoluta quanto inevitabile esclusività. 15 16 PARTE PRIMA – PERSONE E FAMIGLIA Il diritto alla procreazione cosciente e responsabile è, dunque, attribuito alla sola madre, per espressa volontà legislativa, sì che risulta legittimo discorrere, in caso di sua ingiusta lesione, non di un diritto esteso anche al nascituro in nome di una sua declamata soggettività giuridica, bensì di propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell’illecito (come incontestabilmente ammesso nei confronti del padre) — salvo l’indispensabile approfondimento (che di qui a breve seguirà) sul tema della causalità in relazione all’evento di danno in concreto lamentato dal minore nato malformato. Altra e diversa questione è quella se la facoltà riconosciuta ex lege alla madre di interrompere volontariamente la gravidanza — consentendole di porre fine, con la propria manifestazione di volontà, allo sviluppo del feto — possa ritenersi rappresentativa di un esclusivo interesse della donna, e non piuttosto anche del nascituro. Questione, peraltro, di stampo etico, filosofico, religioso, che pone all’interprete interrogativi destinati a scorrere su di un piano metagiuridico di coscienza, ma non impone la ricerca di risposte né tampoco di soluzioni sul piano del diritto positivo, postulando che l’interesse alla procreazione cosciente e responsabile non sia solo della madre, ma altresì del futuro bambino, e ciò anche quando questo si trovi ancora nel ventre materno. La titolarità del relativo diritto soggettivo, riconosciuto espressamente dalla l. n. 194 del 1978, art. 1, non può che spettare, si ripete, alla sola madre, in quanto solo alla donna è concessa (dalla natura prima ancora che dal diritto) la legittimazione attiva all’esercizio del diritto di procreare coscientemente e responsabilmente valutando le circostanze e decidendo, alfine, della prosecuzione o meno di una gravidanza che vede la stessa donna co-protagonista del suo inizio, ma sola ed assoluta responsabile della sua prosecuzione e del suo compimento. Il rigoroso meccanismo legislativo, in consonanza con quello di natura, esclude tout court la possibilità che il bambino, una volta nato, si dolga nei confronti della madre, come pure si è talvolta ipotizzato seguendo gli itinerari del ragionamento per assurdo, della scelta di portare avanti la gravidanza accampando conseguentemente pretese risarcitorie. È la madre, infatti, che, esercitando un diritto iure proprio (anche se, talvolta, nell’interesse non soltanto proprio, pur essendo tale interesse confinato nella sfera dell’irrilevante giuridico), deciderà presuntivamente per il meglio: né potrebbe darsi ipotesi contraria, a conferma della mancanza di una reale soggettività giuridica in capo al nascituro. A tanto consegue la non condivisibilità, sul piano strettamente giuridico, della ricostruzione delle singole situazioni soggettive (della madre, del padre, dei componenti il nucleo familiare, del neonato stesso) che postulino in premessa l’esistenza, in capo al nascituro, di un diritto a nascere sano, contrapposto idealmente ad un non diritto “a non nascere se non sano”. Altra questione, del tutto fuori dall’orbita del diritto, è quella che vede tuttora discutersi a vario titolo sulla scelta legislativa di consentire alla madre di scegliere se proseguire o meno la gravidanza in presenza di determinate condizioni. Compiuta una simile opzione normativa da parte del legislatore ordinario, e ricevuta ripetuta e tranquillante conferma della sua conformità al dettato costituzionale da parte del giudice delle leggi, l’interprete è chiamato non ad un compito “creativo” di pretese soggettività limitate, ma all’accertamento positivo di un diritto, quello della madre, e di un interesse, quello del nascituro (una volta in vita), oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, alla procreazione cosciente e responsabile. Sarà poi destinata alle considerazioni che di qui a breve seguiranno l’analisi della questione centrale della causalità, la questione, cioè, se ledere un siffatto interesse abbia come conseguenza diretta ed immediata quella di porre il nascituro malformato in condizioni di diseguaglianza rispetto agli altri nascituri, e se tale condotta lesiva sia o meno concausa del suo diritto