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fra realta` e apparenza

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fra realta` e apparenza
Liceo Classico F. Fiorentino
Esame di maturità
A/ S 2005/2006
Percorso interdisciplinare
dell’alunna
Alessandra Renda
Classe III A
Il velo di Maya
…tra realtà e apparenza…
Schopenhauer
I miraggi
Montale
Magnitudine assoluta
Pirandello
e
apparente
Il velo di Maya
…tra realtà e apparenza….
Einstein
Escher e Magritte
“Le Metamorfosi”
di
Apuleio
Le illusioni
del
periodo
fascista
Il teatro
greco
Tra Realtà e Apparenza….
Un periodo che più di altri è dominato dall’interrogativo su cosa siano la realtà e
l’apparenza è quello che va dalla seconda metà dell’800 ad oggi e trova espressione in
tutte le branche della cultura. A porre l’attenzione su questo interrogativo sono stati in
particolare Pirandello e Schopenhauer che della frammentazione della realtà e della
personalità dell’individuo hanno fatto il centro dei loro interessi. Ed è proprio in questo
periodo che troviamo ancora più difficile distinguere tra realtà e apparenza, perché non si
parla più soltanto di illusioni ottiche, ma di illusioni che risiedono nell’anima dell’individuo
e delle cose che abbiamo sempre dato per scontato essere vere, ma che a volte neanche il
nostro cervello ci aiuta a distinguere il vero dal falso, ( quello che invece per almeno un
momento ci potrebbe capitare di fronte ad un Trompe L’oeil ). Un esempio di inganno
ottico invece, sono le stelle; si proprio le stelle che ammiriamo ogni notte ed illuminano il
cielo. Queste, infatti, a volte ci appaiono più luminose rispetto ad altre anche se in realtà
sono più piccole. Pensiamo al sole che per noi è la stella più luminosa e che invece è
niente al pari della stella più luminosa della nostra galassia che tuttavia ci appare più più
piccola e meno brillante. Addirittura percepiamo la luce di alcune stelle che in realtà si
sono estinte da milioni di anni: quale inganno peggiore???
O pensiamo a quante volte d’estate, sulla strada asfaltata ci capita di imbatterci in un
miraggio : il nostro occhio crede che sulla strada si sia formata una pozzanghera, ma il
nostro cervello ci dice che non è possibile con un simile caldo. Il nostro cervello ci rende
consci anche di inganni più semplici di cui tutti siamo consapevoli, forse Freud vedrebbe
tutto ciò come l’eccezione in cui sebbene l’es ed il Super io coincidano, L’io è molto
instabile.
Talvolta distinguere tra realtà e apparenza è molto difficile per i nostri occhi: sapreste dire
se la donna rappresentata nell’immagine a fianco sia una giovane o un’anziana???
Purtroppo tutti gli sforzi per distinguere realtà e apparenza sembrano essere vani, come
quelli che voi avrete fatto cercando di capire quali siano le reali sembianze della donna, ed
anzi è sembrato sempre più improponibile operare una distinzione. L’unica cosa rimasta
certa è che esistono mille sfaccettature con cui una realtà, oscura a tutti noi Si propone ad
ognuno.
Ed è proprio per questo che ho voluto che la mia tesina rappresentasse simbolicamente lo
schermo su cui gli uomini proiettano le loro immaginazioni per rendere accettabile
l’esistenza…..appunto “il velo di Maya”
“E’ Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un
mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista ; perché ella rassomiglia
al sogno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano
scambia per acqua, o anche rassomiglia alla corda gettata a terra, che egli prende per un
serpente”.
Da “Il Mondo come volontà e rappresentazione”
A. Schopenhauer
Arthur Schopenhauer
Partiamo da Arthur Schopenhauer per indagare la contrapposizione tra
realtà e apparenza che egli analizzò nelle celebre opera “Il mondo come
volontà e rappresentazione”. Il punto di partenza della sua filosofia è la
distinzione Kantiana tra fenomeno e noumeno (cosa in sé). A differenza
del filosofo tedesco Schopenhauer considera il fenomeno come sogno,
illusione, mentre concepisce il noumeno come una realtà nascosta
dietro l’ingannevole trama fenomenica. Il mondo è quindi
rappresentazione illusoria (concetto, questo, che viene inaugurato dalla
filosofia Cartesiana e che è alla base di tutta la filosofia moderna), e da
questo punto di vista non è quindi possibile distinguere tra il sogno e la
veglia. La rappresentazione nasconde che l’essenza delle cose è
rinvenibile unicamente nella volontà di vita e noi viviamo avvolti nel
“VELO DI MAYA” fino a quando l’arte, la morale o l’ascesi non ci
permettono di squarciarlo e di penetrare il senso della realtà.
La vita
Nacque a Danzica nel 1788. avviato dal padre alla mercatura , viaggiò in
Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera e Austria. Ma dopo la morte del
padre potè dedicarsi ad i suoi studi prediletti e nel 1813 scrisse per tesi
di dottorato “La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente”.
A Weimar entrò in rapporti con Goethe e in quel tempo attende allo
studio della civiltà indiana. Dal 1814 al 1819 egli elaborò il suo più
grande capolavoro, appunto “Il mondo come volontà e
rappresentazione”. Intanto in quegli anni viaggia in Italia: è a Venezia,
Bologna, Firenze, Napoli. Si reca poi a Berlino e, ottenuta la libera
docenza in quell’università dove allora trionfava Hegel, egli dovette
constatare l’assoluto insuccesso del suo insegnamento. Per distrarsi
ritorna in Italia ma non desiste dalla sua opposizione all’idealismo
trionfante e più particolarmente contro Hegel, Fichte e Schelling che egli
chiama “i tre ciarlatani”.
Si stabilisce infine a Francoforte dove elabora le sue ultime opere :
“ I due problemi fondamentali dell’etica” e “ I supplementi al mondo
come volontà”. Morì nel 1860.
“ Il mondo come volontà e
rappresentazione”
“Il mondo come volontà e rappresentazione”
“La vita e i sogni sono fogli di uno stesso libro: leggerli in ordine è vivere, sfogliarli a caso è sognare…”
A. SCHOPENHAUER
In quest’ opera Schopenhauer si professa Kantiano nell’ammettere che il mondo è fenomeno, non è altro che una nostra
rappresentazione, cioè una serie infinita di fenomeni costituiti di molteplici parvenze sensoriali collegate tra loro. Inoltre ammette
a differenza di Kant, solo tre forme a priori : spazio, tempo e causalità (alla quale tutte le altre sono riconducibili). Poiché
Schopenhauer paragona le forme a priori a dei “vetri sfaccettati” attraverso cui si deforma la visione delle cose, egli considera la
rappresentazione come una fantasmagoria ingannevole, traendo la conclusione che la vita è “sogno, tessuto d’apparenze, una
sorta d’icantesimo”.
Ma al di là del sogno esiste la realtà vera, sulla quale l’uomo non può fare a meno di interrogarsi : esso infatti è un animale
metafisico che, a differenza degli altri esseri viventi, è portato a stupirsi della propria esistenza e ad interrogarsi sull’essenza
ultima della vita.
La rappresentazione è identificata con “IL VELO DI MAYA” , divinità buddista che si avvale del velo come strumento per mostrare
come reali delle semplici illusioni. Ed è proprio fra le cose e noi che si contrappone questo velo ingannevole, di cui parla la
sapienza indiana, attraverso il quale, quasi per incantesimo, vediamo le cose come in sogno o come l’effetto di un’illusione ottica:
apparenza vana e fuggitiva. Si può fuoriuscire da questa dimensione illusoria per penetrare nella realtà nuda e cruda, squarciando
tale velo, e per farlo, Schopenhauer ricorre all’allegoria del castello circondato dall’acqua, con il ponte levatoio sollevato” : il
viandante può osservare il castello da tutti i lati, ma ne rimarrà sempre fuori.
Allo stesso modo, noi possiamo osservare la realtà da tutti i punti di vista, ma ne rimaniamo ugualmente esclusi. Il tunnel che ci
consente di andare al di là delle illusioni è il nostro corpo, l’unica realtà che non ci è data solo come immagine, perché noi
viviamo il nostro corpo anche dall’interno. La corporeità è quindi il modo per andare al di là della rappresentazione e afferrare
l’essenza delle cose.
Schopenhauer considererà però il corpo, solo come un mezzo metafisico per pervenire alla realtà, percorrendo questa strada si
individua una realtà sostanziale : la volontà di vivere, che ha un valore universale. La volontà di vivere è una forza tragica
apportatrice di dolore, è il fondamento del reale, la brama, il desiderio di esistere, la vera essenza delle cose. Essa presenta
quattro caratteristiche : è inconscia, eterna, unica, incausata e senza scopo.
Prosegui nella lettura
“Il mondo come volontà e rappresentazione”
Da questo deriva l’irrazionalismo del pensiero schopenhauriano :viene negata la presenza di qualunque realtà nelle cose, di qualsiasi
carattere razionale nella realtà (contrariamente ad Hegel, secondo il quale ciò che è razionale è reale, ciò che è reale è razionale ),e viene
negata qualsiasi efficacia riconosciuta alla ragione. Dalla concezione di Schopenhauer della Volontà di vivere, emerge un ineluttabile
pessimismo : la Volontà di vivere produce sofferenza, perché volere significa desiderare, cioè mancare di qualcosa. Tale senso di
mancanza produce dolore. Alcuni desideri possono essere soddisfatti, ma il loro appagamento è temporaneo : il piacere è un intervallo
in cui cessa il dolore e subentra la noia, forse proprio la noia che ci rende la realtà alterata ed illusoria. Schopenhauer approda alla
“sensucht cosmica”, al dolore che investe ogni creatura. Egli approda allo stadio della sofferenza universale : tutto soffre : il male non è
solo nel mondo ma nel principio da cui esso dipende. Nella globalità della sua filosofia, una via di liberazione apparentemente sicura dal
dolore, potrebbe essere il suicidio, condannato invece fortemente dal filosofo in quanto sarebbe un’emblematica affermazione della
Volontà stessa di vivere. La vera risposta al dolore del mondo non consiste nell’eliminazione di una o più vite, bensì nella stessa
liberazione della volontà di vivere, l’iter salvifico delineato da Schopenhaur consta di tre momenti essenziali :
L’ARTE :
è la conoscenza libera e disinteressata, che si rivolge alle idee ed ha un carattere contemplativo, la sua funzione però è
temporanea e parziale, come un incantesimo.
LA MORALE : che implica un impegno a favore del prossimo e che si concretizza in due virtù cardinali :
la giustizia : si riconosce con la giustizia nella persona altrui, un essenza uguale alla nostra.
la pietà : il sentimento in cui sentiamo nostre le sofferenze altrui.
L’ASCESI
: per la cui definizione, nel pensiero di Schopenhauer, concorrono elementi tratti dalla mistica tedesca. L’ascesi
comincia infatti quando l’uomo cessa di volere ed esercita in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa,
finendo per provare orrore della volontà di vivere, che è il nocciolo del dolore.
L’ultimo gradino dell’ascesi si rivela così essere la Noluntas o nolontà, l’assoluta quiete dell’animo, il puro nulla.
.
Cartesio
Renè Descartes
E se fosse tutto un sogno ? Cioè, e se niente esistesse per davvero? – né voi,
né questo tavolo , né io qui seduta a sostenere gli esami , ma fosse un’illusione
completa e coerente, generata dalla mia mente (come i sogni) oppure indotta da
un agente esterno dotato di un immenso potere di suggestione?? Questo è un
assaggio della strategia argomentativa che Cartesio utilizza nelle sue
Meditazioni per sottoporre a critica la distinzione tra realtà e apparenza. Infatti a
Cartesio è riconducibile la formulazione canonica in epoca moderna ed in
occidente di ciò che è stato poi chiamato “solipsismo” : solo io esisto , o per
meglio dire , la mia mente. Alla base di questa antica fantasia filosofica, vi è la
capacità degli esseri umani di sognare e di formare immagini mentali, anche di
cose che non esistono e di situazioni non realizzate, da cui dipende anche il
dubitare che l’illusione che chiamiamo “realtà” sia prodotta da un essere
perfido, un genio maligno.
Vita.
Renè Descartes nacque in Turenna nel 1596, grande filosofo, scienziato e
matematico, è considerato il reale fondatore della filosofia moderna. Fu educato
dai gesuiti nel collegio di La Flèche, dove ebbe una formazione, per quel tempo
eccellente, improntata allo studio dei classici, della filosofia scolastica e della
matematica. In seguito studiò diritto presso l’università di Poitiers e dal 1618 si
arruolò nell’esercito del principe protestante Nassau, avendo deciso di
intraprendere la carriera militare. La sua attenzione era tuttavia già rivolta ai
problemi filosofici e matematici, ai quali poi dedicò tutta la vita. Fece molti
viaggi in Italia ma visse per lo più in Francia dedicandosi alla filosofia e agli
esperimenti di ottica. Tra le sue opere ricordiamo “Il discorso sul metodo”, lo
scritto forse più famoso di Cartesio, in cui è esposta la sua intera filosofia. Ma è
dopo la pubblicazione del Discorso che Cartesio sentì l’urgenza di una
presentazione più ufficiale della propria dottrina , nascono così le “Meditazioni
metafisiche” pubblicate a Parigi nel 1641. morì a Stoccolma nel 1650.
Dal “Discorso sul metodo”
alle “Meditazioni
metafisiche”
Dal “Discorso sul metodo” alle “Meditazioni metafisiche”
“ Non c’è nulla interamente in nostro potere, se non i nostri pensieri “ R. DESCARTES
La prima regola del metodo Cartesiano prescrive di accettare come vero soltanto
ciò che è evidente, oltre ogni forma di dubbio e di incertezza . La prima cosa di
cui si deve dubitare è la testimonianza dei sensi. È infatti comune l’esperienza
che a volte i sensi ci ingannano. Ma se essi ci ingannano anche una volta
soltanto, perché non potrebbero ingannarci sempre? In fondo è lo stesso
discorso che facevano gli scettici: così come i sensi ci ingannano quando ci
sembra spezzato un remo immerso nell’acqua per via di effetti ottici , chi ci dice
che i sensi non ci ingannino sempre, su ogni cosa? Analogamente dobbiamo
dubitare della nostra esistenza corporea e di tutta la realtà esterna : chi infatti ci
assicura che la nostra vita non è un sogno continuo? . Tuttavia, prosegue
Cartesio, anche se i sensi ingannano, e anche se possiamo, per quanto ne
sappiamo, illuderci costantemente di vivere, vedere, toccare quello che in realtà
solamente sogniamo, le verità matematiche sono comunque sempre vere. Due
più tre fa sempre cinque e un quadrato ha sempre quattro lati. Tuttavia,
applicando il metodo del dubbio iperbolico, Cartesio giunge ad immaginare che
il creatore dell’Universo possa non essere il benevolente Dio Cristiano, bensì un
genio maligno il cui costante scopo sia quello di ingannare il genere umano. Per
cui, anche il più semplice ragionamento matematico potrebbe essere falso.
Come possiamo, infatti, essere sicuri che tale genio maligno non esista? L’intera
realtà, pertanto, potrebbe essere il sogno di tale genio maligno. Dobbiamo
dunque, si interroga a questo punto Cartesio, giungere alla conclusione che non
vi è nulla di indubitabile? No, dal momento che vi è in effetti qualcosa di
indubitabile, vale a dire la certezza della propria esistenza: chi dubita, sta
riflettendo, e chi riflette, o pensa, esiste (cogito, ergo sum). E’ importante notare,
già a questo punto, come Cartesio precisi il fatto che sia la coscienza (l’attività
mentale, il cogito) ad essere indubitabile, e non la certezza dell’esistenza del
proprio corpo.
Martin Heidegger
Secondo un’affermazione di Martin Heidegger, “Cartesio è il primo tra i
pensatori nel quale è possibile rintracciare i caratteri distintivi della
modernità”. Lo stesso Heidegger (1889-1976) è il massimo rappresentante
dell’esistenzialismo europeo. Professore universitario che ha legato la sua
vita al nazismo.
Il pensiero di Heidegger può apparire, per la sua concentrazione sulla
questione dell'essere, un pensiero estremamente astratto e lontano dai
problemi più concreti e più immediati della vita. In realtà dietro questa
dedizione al problema ontologico, Heidegger manifesta una attenzione
sensibilissima e capillare per quelli che sono gli sconvolgimenti radicali
del mondo contemporaneo. Pensiamo a fenomeni come la svalutazione dei
valori, la perdita del centro, le crisi di identità e a tutte quelle espressioni di
una crisi profonda che lacerano il mondo contemporaneo e che hanno
trovato in Heidegger un lettore, un interprete molto acuto e molto attento.
Un giorno, mentre scartabellava nella biblioteca dell’università, trovò delle
opere interessantissime di Kierkegaard. E’ infatti ad Heidegger che si deve
la riscoperta di Kierkegaard e del suo pensiero filosofico.
Per Heidegger questa scoperta fu fondamentale perché secondo lui,
Kierkegaard è riuscito a capire l’uomo nella sua categoria fondamentale: la
possibilità , L’AUT-AUT, infatti la vita dell’uomo è caratterizzata
dall’angoscia (sentirsi abbandonati nel mondo). Questo aspetto sarà la
caratteristica fondamentale dell’esistenzialismo.
Vita autentica e inautentica / L’oblio dell’essere
“ La grandezza dell’uomo si misura in base a quel che cerca e all’insistenza con cui egli resta alla ricerca “ M. HEIDEGGER
Come aveva già dimostrato Kierkegaard , a cui Heidegger si richiama palesemente, l’angoscia è diversa dalla paura, perché quel
che essa si trova davanti non è mai un ente definito ma qualcosa di indeterminato. Questo provoca una sorta di spaesamento dal
mondo, che appare privo di significato e tale da non poter più offrire il nulla, è il nulla. Esaminati i momenti che rendono complessa
e problematica l’esistenza nel suo profondo, Heidegger può concludere che l’esserci (il Dasein) ha di fronte a se un aut-aut, due
scelte fondamentali, due possibilità: rimanere legato alla quotidianità e disperdersi nelle cose o elevarsi ad una visione più alta,
ossia scegliere tra una vita apparente, falsa e la vita reale.
La prima scelta, l’esistenza inautentica, determina, con la dispersione che la caratterizza, l’anonimato, la perdita dell’individualità,
la rinuncia a se stessi in nome di un comodo ma vuoto adeguarsi a ciò che gli altri fanno, dicono e pensano espresso
dall’impersonale “si”; è lo stato in cui “ognuno è gli altri e nessuno è se stesso”, (proprio come nella celebre opera di Pirandello).
In fondo a questo modo di vivere l’uomo può trovare solo la paura di fronte ad un mondo che non può dominare, e tale paura lo
conduce alla noia che il disperdersi nelle cose genera. La vita inautentica nella sua superficialità diventa “tranquillizzante” , ma
proprio questa tranquillità vieta all’uomo la conquista del senso dell’essere, perché ,lo induce ad una attività sfrenata, che gli
impedisce di rientrare in sé , di riflettere sul valore della sua esistenza, ma di costruirsi una maschera che mostra nella quotidianità.
Il rientrare in sé, il riflettere sull’esistenza è dunque un traguardo che si raggiunge solo con l’altra scelta, radicalmente diversa,
quella lontana dalle apparenze, quella dell’ esistenza autentica, caratterizzata dalla coscienza del carattere assolutamente
individuale dell’esistenza. L’autenticità è comprendere l’onticità del Dasein senza veli. La situazione emotiva che accompagna
questa scelta è proprio l’angoscia. L'angoscia è una situazione rara, ma è in essa che l'esserci si manifesta come essere possibile,
sottratto a quello stato di nascondimento, in cui si trova quand'è immerso nel "Si" anonimo, è aperto, invece, alla libertà e alla
possibilità di ritrovare se stesso. In quanto aperto a questa possibilità, l'esserci è già sempre proiettato avanti rispetto a sé, cioè si
progetta, nel senso letterale del termine. Però l'esserci non può mai esperirsi come un ente totalmente compiuto, ma sempre
soltanto come poter essere e può essere autenticamente tale solo ' anticipando costantemente la possibilità estrema e insuperabile
', cioè la morte . Da queste conclusioni nasce anche il rifiuto di heidegger del modello di sviluppo del mondo occidentale che fa
perno sulla tecnica. La tecnica ha immerso l’uomo nel mondo facendogli dimenticare l’essere , mettendo in pericolo la sua
esistenza, giungendo al suo oblio.
Luigi Pirandello : Illusione e Realtà
“ci sentiamo come smarriti, anzi perduti in un cieco , immenso
labirinto, circondato tutt’intorno da un mistero impenetrabile.
Di vie ve ne sono tante : quale sarà la vera…?”
Queste parole, scritte nel 1893, quando Luigi Pirandello, ancora
perfettamente sconosciuto aveva ventisei anni, bene testimoniano
la precoce consapevolezza che lo scrittore ebbe della “crisi di
valori” cui il mondo moderno andava incontro: consapevolezza
che non fece che acuirsi col passare degli anni e che è all’origine
di tutta l’opera pirandelliana, dalle novelle ai romanzi, alle
commedie per il teatro.
Scrittore, drammaturgo e narratore, rappresentò sulle scene
l’incapacità dell’uomo di identificarsi con la propria personalità, il
dramma della ricerca di una verità al di là delle convenzioni e delle
apparenze.Al centro della concezione pirandelliana c’è il contrasto
tra apparenza e sostanza. La critica delle illusioni va di paripasso
con una drastica sfiducia nella possibilità di conoscere la realtà;
qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata
all’inattingibile verità della vita, percepita come un flusso continuo,
caotico e inarrestabile.
La vita e le opere
“.…perché una realtà non ci fu data e non c’è ; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere ;
e non sarà mai una per sempre, ma di continuo ed infinitamente immutabile” L. Pirandello
Luigi Pirandello : Vita e Opere
Nacque a Girgenti il 28 giugno 1867: il padre gestiva alcune solfare, la madre
apparteneva ad una famiglia di agiati commercianti. Compiuti gli studi liceali
frequentò l’università di Roma , laureandosi poi a Bonn con una tesi sui
suoni del dialetto agrigentino. Scrisse alcune raccolte di poesie : “le Elegie
Renane” e “Pasqua di Gea” alla maniera carducciana . Sposatosi nel 1893
con Antonietta Portulano appartenente ad una ricca famiglia socia in affari
con la sua e si trasferì a Roma dove insegnò stilistica italiana. Le sue prime
composizioni furono alcune novelle; “Amori senza amore” ed opere di
narrativa fra cui “Marta Ayala” che in seguito pubblicherà con il titolo
“l’esclusa”. Nel 1904 la zolfatara gestita dal padre viene distrutta da una frana
. La moglie ne riporta un trauma psichico dal quale non guarirà mai più . Le
difficoltà familiari conducono Pirandello ad un forte senso di frustrazione, al
punto da farlo pensare al suicidio . Ma nonostante tutto trova la forza di
reagire . Nel 1904 pubblica un muovo romanzo che lo rende celebre “Il fu
Mattia Pascal “ , in seguito “i vecchi e i giovani” (1913) , “Si gira” (1916),
“Liolà”, “Pensaci Giacomino” e “Così è se vi pare”
Nel dopoguerra riprende la produzione teatrale con una famosa trilogia della
quale fa parte “Sei personaggi in cerca di autore”. Nel 1924 chiede la tessera
del partito fascista , forse solo per ragioni pratiche.
Conseguì grande successo in Europa ed in America anche se il suo teatro
critico contrastava certamente con la retorica nazionalistica del fascismo.Nel
1934 gli venne conferito il premio nobel per la letteratura . Morì a Roma nel
1936.
“ Uno, Nessuno e Centomila”
L’opera fondamentale dalla quale è necessario partire per capire la concezione della vita di Pirandello e quindi della sua
poetica è “UNO, NESSUNO E CENTOMILA” pubblicata nel 1926 che esprime pienamente il contrasto tra illusione e realtà. Il
tutto parte dall’esperienza pirandelliana e di tutti gli uomini decadenti che avevano visto vanificare gli ideali ottocenteschi del
progresso, della scienza , di pacifica coesistenza tra gli uomini e si trovavano a vivere un realtà storica ben diversa, avviata
verso la catastrofe della prima guerra mondiale. In seguito a ciò nacque la convinzione del fallimento. La vita si presentava
assurda nella sua casualità e tale che ogni illusione era destinata a mostrare il suo risvolto negativo. Pirandello in “Uno,
nessuno e centomila” sostiene che il contrasto tra apparenza e realtà non esiste solo fuori di noi, ma anche e soprattutto
nell’intimo della coscienza : contrasto tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, tra ciò che siamo e risultiamo agli occhi
degli altri, perché “la vita è un flusso che noi cerchiamo di arrestare in forme stabili e determinate”, come i concetti, gli
ideali. Di conseguenza ciascun personaggio di Pirandello presenta centomila realtà interne , per cui la vera realtà è nessuna
e proprio per i personaggi Pirandelliani non esiste quindi una realtà oggettiva ma soggettiva, che a contatto con la realtà
degli altri si disintegra e si disumanizza. L’uomo però deve adeguarsi ad una legge imposta dalla società e per farlo si
costruisce una maschera , poiché il personaggio non sa come mutarla si verifica la sua disintegrazione che si riassume
nella teoria della triplicità esistenziale :



Come il personaggio vede se stesso;
Come il personaggio è visto dagli altri;
Come il personaggio crede di essere visto dagli altri;
Le conseguenze sono tre; il personaggio :



È uno , quando viene messa in evidenza la realtà forma che lui si da;
È nessuno, quando si accorge che ciò che lui pensa e ciò che gli altri pensano non è la stessa cosa;quando la propria realtà
forma è soggettiva .
È centomila, quando viene messa in evidenza la realtà forma che gli altri gli danno.
In conclusione in “Uno, nessuno e centomila” Pirandello afferma che “o la realtà ti disperde e disintegra o ti vincola e ti
incatena fino a soffocarti.
Così è se vi pare
“ Così è ….( Se vi pare)”
La trama
Altra significativa opera di Luigi Pirandello è “Così è (se vi pare)” messa in scena per la prima volta nel
1917. L’ho scelta perché, il titolo , dal sapore ironico racchiude la problematica esistenziale che Pirandello
affronta nella storia : l’impossibilità di avere un a visione unica e certa della realtà. Il tema è stato
ampiamente sviscerato in “Uno, nessuno e centomila” , ma appare già chiaro in questa commedia.
Ironici, sentenziosi, enigmatici, a volte provocatori, i titoli teatrali pirandelliani sono un vero biglietto da
visita, molto sottindendono e preparano l’attesa del pubblico. Come si può notare, il titolo della commedia
è diviso e la seconda parte sembra il ripensamento della prima.
Il “Così è” afferma , per l’ultima volta ciò che si vede, ciò che si crede di conoscere. Il contenuto fra
parentesi (Se vi pare…), sovverte tale idea di ordine. La commedia diviene bipartita. Il “Così è” raccoglie
le caratteristiche della commedia borghese, con manifestazioni semicaricaturali : la burocrazia di
provincia, l’autorità prefettizia, le donne curiose. Rappresenta la vita sicura e tranquilla in cui tutto deve
essere compreso e che è alla base dell’ordine costituito. Nel “(Se vi pare)” ci sono il disordine, la
sciagura, il lutto, la pazzia che quell’ ordine respinge, un dolore impenetrabile di cui si ignorano le cause
ed il personaggio che ne è portatore, è “martirizzato”, è vittima della requisizione borghese.
Di solito però, una simile situazione teatrale si risolve con la vittoria di una delle parti, con il ritrovamento
della chiave dell’enigma: Pirandello invece, rifiuta di soggiacere a tale logica e la sua ambizione è far
vivere per un attimo un assioma : il fantasma velato = la signora Ponza non ha volto, sfugge alla
burocrazia, resta atto di fede, la verità resta per sempre velata.
“ Così è ….( Se vi pare)”
Tutto un paese si affanna per sapere quale sia la verità intorno allo strano comportamento della famiglia Ponza.
La curiosità nasce dal fatto che la sedicente madre della signora Ponza , la signora Frola, non vive con la figlia e il
marito, anzi non entra neanche in casa loro, comunica con la figlia solo attraverso bigliettini scambiati per mezzo
di un cestino calato dalla finestra . Alla signora Frola la gente pone insistenti domande , e la poveretta si vede
costretta ad asserire che il signor Ponza , avendo perso nel terremoto tutti i suoi parenti, ha un amore ossessivo
per la moglie che gli impedisce di farla uscire di casa e di far incontrare madre e figlia. Dal canto suo il signor
Ponza sostiene invece che la signora Frola sia impazzita , poiché crede che la figlia morta, la prima signora Ponza
, sia ancora in vita , scambiandola con la sua seconda moglie: per non deludere la suocera e per non importunare
la nuova signora Ponza , non permette che le due donne s’incontrino. Poiché non c’è maniera di confutare
nessuna delle due affermazioni , la gente, smaniosa di dover attribuire a tutti i costi una maschera e un ruolo ben
definito ai componenti di questa famiglia , non può fare altro che interrogare la signora Ponza. Ma la donna che
entra in scena velata, a simboleggiare l’impenetrabilità della verità, afferma di essere la seconda moglie del
signor Ponza , per il marito, e la figlia della signora Frola , per la madre, ma per lei stessa nessuna :”io sono colei
che mi si crede”
Per Pirandello quindi l’uomo non ha una propria essenza a priori , l’uomo diventa una persona solo sotto lo
sguardo degli altri , assumendo tanti ruoli e tante maschere , quante sono le persone che lo vedono.
Eugenio Montale
Oltre a Pirandello, colui che maggiormente ha saputo cogliere il
mondo delle illusioni è Eugenio Montale. Pochi poeti come lui
hanno saputo scavare con calma tenacia nei segreti tessuti della
realtà, della quotidiana esistenza , alla ricerca di un nodo che
chiarisse il groviglio inspiegabile, contraddittorio, crudele delle
apparenze. Eugenio Montale, nato a Genova nel 1896 e e morto a
Milano nel 1981, visse dapprima in Liguria, poi a Firenze e nel
secolo del dopoguerra a Milano , dove lavorò come giornalista al
“Corriere della sera”. La sua fama ebbe inizio con la raccolta
giovanile “Ossi di seppia” e venne continuamente crescendo dal
dopoguerra culminando in una serie di onorificenze ufficiali sino
al premio nobel per la letteratura ottenuto nel 1975. Poeta
raffinato, dallo stile inconfondibile per il lessico volutamente
“povero” e insieme densissimo, costruttore di immagini difficili e
nuovissime, Montale ha esercitato una grande influenza sulla
poesia contemporanea. ha creato un modo di fare poesia
antiretorico, tutto teso alla ricerca del significato di una vita
autentica, al di là delle apparenze. Di qui anche il prevalere di
paesaggi tipici:il sole, il mare, la nudità, la secchezza del mondo
della sua infanzia trascorsa in Liguria.
Dunque alla fonte della sua ispirazione c’è questa disarmonia che
egli stesso definisce un “inadattamento” un maladjustment
psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo
introspettivo. Il poeta dunque non riesce a vivere pienamente la
vita,la realtà, limitandosi a descriverla , ad analizzarla.
Le Poesie
La casa dei doganieri
Tu non ti ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
In cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
La casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Il commento della poesia
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera !
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Nuove stanze
La casa dei doganieri
Questa poesia è datata 1930 e come Montale stesso ha
rivelato molti anni dopo, essa è dedicata ad Arletta, la
fanciulla morta che compare in numerosi altri suoi testi.
Nella poesia riappare un tema assai frequente in Montale:la
consapevolezza dei guasti che il tempo opera sulla
memoria, distruggendo anche i ricordi più amati e
significativi. Si immagina che il poeta e la sua interlocutrice
abbiano vissuto insieme un momento di vita autentica, vera
nella casa dei doganieri, passato il quale, i rispettivi destini
si sono separati: il poeta vive ancora ma da come si
intuisce, invece la donna è morta. Il primo è rimasto
tenacemente legato al ricordo di quel momento e del luogo
dell’incontro, abbandonato invece, evidentemente dalla
donna. Ed è proprio qui che emerge il contrasto tra
apparenza e realtà: non è possibile sapere chi dei due sia
davvero vivo e dunque fedele all’autenticità di quell’incontro
lontano: l’apparente resistenza del poeta e l’apparente
lontananza della donna potrebbero essere infatti fallaci. Sin
dal titolo compare dunque il tema della casa, insieme alla
contrapposizione interno/esterno. L’interno è il luogo
dell’autenticità, dell’interiorità psicologica e del ricordo;
l’esterno quello della vita falsa , della società di massa e del
fascismo, d’altra parte il riferimento ai doganieri _addetti ai
confini_ introduce il motivo del limite e, appunto, il confine
che separa la vita vera dalla vita falsa, la realtà
dall’apparenza.
Nuove Stanze
Poichè gli ultimi fili di tabacco
al tuo gesto si spengono nel piatto,
di cristallo, al soffitto lenta sale
la spirale del fumo
che gli alfieri e i cavalli degli scacchi
guardano stupefatti; e nuovi anelli
la seguono, più mobili di quelli
delle tue dita.
La morgana che in cielo liberava
torri e ponti è sparita
al primo soffio; s’apre la finestra
non vista e il fumo s’agita. Là in fondo,
altro stormo si muove: una tregenda
d’uomini che non sa questo tuo incenso,
nella scacchiera di cui puoi tu sola
comporre il senso.
Il mio dubbio d’un tempo era se forse
tu stessa ignori il giuoco che si svolge
sul quadrato e ora è nembo alle tue porte:
follia di morte non si placa a poco
prezzo, se poco è il lampo del tuo sguardo,
ma domanda altri fuochi, oltre le fitte
cortine che per te fomenta il dio
del caso, quando assiste.
Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco
tocco la Martinella ed impaura
le sagome d’avorio in una luce spettrale
di nevaio. Ma resiste e vince il premio della
solidarietà veglia chi può con te allo specchio
ustorio che accieca le pedine opporre i tuoi
occhi di acciaio.
Il commento della
poesia
Nuove stanze
A richiamare ancora il tema dell’illusione e della realtà, come il
contrasto tra interno/esterno è la poesia “nuove stanze”, fu scritta
quando già appariva inevitabile lo scoppio della seconda guerra
mondiale. Ai preparativi militari, alla follia del fascismo e del nazismo
, si oppone la chiaroveggenza di Clizia, di cui qui si esalta il potere di
opposizione connesso alla sua forza intellettuale. Il poeta e Clizia
giocano a scacchi in un interno, mentre il fumo della sigaretta della
donna costruisce in aria un castello ideale. Ma si apre una finestra e
la minaccia dell’esterno, rappresentata dal soffio del vento, può
penetrare nella stanza distruggendo l’ideale costruzione che in essa
si svolgeva. Al di là della finestra, all’esterno, fervono infatti i
preparativi di guerra. Tuttavia il poeta non depone la speranza: può
infatti dare una risposta al dubbio di un tempo (quello presente in
stanze) riguardante il potere di Clizia, cioè della cultura. Solo la
donna-angelo, con la chiaroveggenza dei suoi occhi di acciaio, può
tenere in scacco la barbarie che si avvicina. gli scacchi hanno
dunque un doppio valore emblematico: da un lato rappresentano una
guerra simulata e riproducono simbolicamente la scacchiera dei
campi europei; dall’altro sono il gioco dell’intelligenza e della cultura
che si adattano bene al personaggio di Clizia. Una ricca simbologia
evoca così l’atmosfera di un assedio medievale e, insieme,il clima di
una magia, operata ,dalla donna come forma di controllo sulle cose.
Infine dunque in questa poesia all’interno corrisponde il valore,
all’esterno il disvalore ma anche la cruda realtà delle cose.
Benito Mussolini : carisma e psicologia del duce
Piero Gobetti e Carlo Rosselli hanno spiegato che fa parte della psicologia degli italiani la necessità di
avere un padreterno capace di risolvere i problemi che altri popoli risolvono con il metodo e con
l'impegno. Gli oppositori del fascismo si trovarono però di fronte ad un nemico grande e pericoloso, che
era in grado, con la persuasione di far sembrare reali delle semplici illusioni. Il duce infatti non era
soltanto un leader politico. Piantato sul palco in posa statuaria, le mani sui fianchi, gli occhi spiritati che
scandagliano la folla, Mussollini arringa con fiero cipiglio gli italiani. A vederlo sentire parlare oggi, in
uno dei suoi “cinegiornali luce”, non si può fare a meno di sorridere per certe pose esagerate, per certi
atteggiamenti da consumato teatrante. Eppure Benito Mussolini anche con le recite da grottesco
avanspettacolo e le pose gladiatorie che oggi fanno ridere, è rimasto saldamente al potere per un
ventennio; è stato amato, adorato, idolatrato ma anche odiato. Il potere di condizionamento e
persuasione di Mussolini fu così forte che poté permettersi persino il fortunato slogan "Il Duce ha
sempre ragione", e scriverlo sui manifesti in tutt'Italia senza temere il ridicolo. Ma da dove veniva una
tale pienezza di sé, una simile, incredibile presunzione?
Il Duce era, nella mentalità degli italiani, il protagonista di un'avventura che sembrava promettere un
grande e luminoso futuro. Anche se così non fu, era tutta apparenza, la figura provvidenziale del Duce si
stagliava in tutta la sua grandezza. Il particolare rapporto di Mussolini con le masse fu influenzato,
com'egli stesso ebbe a confessare, dall'opera di Gustave Le Bon, studioso francese che, con la
"Psicologia delle folle", diede un determinante contributo alla comprensione del "carattere" delle masse
e alle strategie di persuasione per dominarle. Mussolini comprese che, nella sua epoca, le folle, come
scrisse per l'appunto Le Bon, rappresentavano per la prima volta un'immensa potenza. Mussolini
sapeva cogliere gli umori più sottili del popolo ed era in grado di dare le risposte che il popolo stesso si
aspettava. In questo egli sembrò aver assimilato alla perfezione le teorie di Le Bon. In "Psicologia delle
folle" lo studioso definisce per la prima volta le caratteristiche delle masse: la più saliente é il desiderio
inconscio alla sottomissione e il bisogno di essere guidate da un capo. La folla non possiede idee
proprie in quanto gli uomini riuniti in essa perdono la loro individualità e la loro personalità cosciente:
ciò determina un affievolimento delle capacità critiche, mentre si sviluppa un forte senso
d'appartenenza a una identità collettiva. Di conseguenza la massa tende ad assimilare idee già fatte,
specie se esse hanno una forte componente ideale e una carica di profonda suggest ione: la massa é,
per sua natura, dominata dall'inconscio e dall'impulsività. Le Bon delinea anche le caratteristiche del
capo: dev'essere innanzitutto un uomo d'azione e non di pensiero.Dev'essere dotato di grande volontà e
sorretto da un'ideale o da una fede incrollabile: questo esercita sulle masse una grande forza di
attrazione e coinvolgimento. Idee semplici, affermazioni concise, proclamate ripetutamente, sono i
principali strumenti di persuasione che si basano sulla facilità di assimilazione.Il prestigio é anche la
molla più forte di ogni potere. Il prestigio personale di un capo esercita un fascino magnetico e
determina nello stesso tempo un'autorevolezza che non si presta a contestazioni.
Benito Mussolini : carisma e psicologia del duce
Mussolini era un oratore di consumata abilità. La sua forza
comunicativa si basava su frasi brevi, pronunciate con tono
oracolare e trionfalistico. Faceva un grande uso di metafore, di
terminologie militari (ferro, fuoco, spada, moschetti, baionette,
navi, cannoni) e spiritualistiche (fede, ideale, sacrificio, credere,
martire, missione, comunione). Proclamava i suoi discorsi con
brevi periodi, con martellante ritmo ternario e con un continuo
ricorso all'antitesi ("Voi oggi mi odiate, perché mi amate
ancora"). Il suo lessico era povero, e tuttavia ricco di enfasi, di
pause sapienti, di richiami eroici e patriottici, e di genericità
esaltanti proiettate in un indeterminato futuro, e proprio per
questo difficilmente verificabili.
La sua energia non ha nulla d'intimo e di reale: essa é soltanto
esteriore e verbale, ma é straordinariamente pronta nello
scoprire la debolezza dell'avversario e nello sfruttarla fino alle
ultime conseguenze".
Egli dunque aveva fortemente illuso il suo popolo, ma tante
illusioni, ben presto se le fece anche lui.
Tutto ebbe inizio quando annunciò da palazzo Venezia, a Roma,
l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania e contro
Francia ed Inghilterra. È il 10 giugno 1940 : la politica del
ventennio fascista giunge al punto culminante , di lì a pochi anni
l’Italia sarà un unico ammasso di rovine…….
Clicca sul quadratino nero qui a fianco per sentire la voce
di Mussolini durante il discorso pronunciato da palazzo Venezia.
Le illusioni del duce durante le campagne militari
La mattina del 10 Giugno 1940 Galeazzo Ciano, genero di Mussolini nonché
Ministro degli Esteri del governo fascista, consegnava la dichiarazione di guerra
agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna. Alle ore diciotto dello stesso
giorno, dal balcone di Palazzo Venezia, di fronte a una folla entusiasta, il Duce
stesso annunciava ufficialmente quanto era ormai stato stabilito: l'Italia entrava
in guerra a fianco della Germania hitleriana, contro la Francia e l'Inghilterra. La
guerra scoppiata nel Settembre precedente, con l'invasione nazista della
Polonia, si allargava ulteriormente. Molti erano stati i dubbi e i tormenti della
classe dirigente italiana; forti anche le perplessità dei vertici militari. Lo stesso
Mussolini visse lunghe e dolorose lacerazioni, ma alla fine cedette e scelse
l'opzione bellica: a spingerlo, non solo le minacce più o meno velate dell'alleato
Hitler, ma anche i trionfi della macchina da guerra tedesca, capace in poche
settimane di occupare Polonia, Norvegia e Danimarca, e di sferrare un attacco
inarrestabile sul fronte occidentale; attacco che stava portando rapidamente la
Francia al disastro. Il Duce era convinto che la guerra fosse già alle ultime
battute e che essa avrebbe portato, in breve tempo, ad una pace generalizzata.
Questo calcolo rafforzò ulteriormente la sua convinzione della necessità di un
diretto contributo italiano al conflitto, pena lo scadimento dell'Italia a potenza
"vassalla" in un'Europa ridisegnata dai nazisti vincitori. In un promemoria,
Mussolini stendeva e pianificava tale decisiva convinzione, introducendo il
concetto di "guerra parallela": l'Italia avrebbe combattuto sì coi Tedeschi, ma
perseguendo obiettivi autonomi. Lo scopo era di crearsi una sfera egemonica in
Africa e nel Mediterraneo; sfera poi da far riconoscere al futuro tavolo di
negoziato. In realtà, tutto questo disegno era campato per aria, costruito su basi
assolutamente inesistenti. La guerra non era affatto al termine; i successi
hitleriani, per quanto strabilianti, erano tutt'altro che decisivi. Il calcolo
meschino ed erroneo del Duce, ovvero ottenere grossi vantaggi sacrificando
qualche povero soldato, avrebbe portato il regime fascista al crollo violento e
totale; l'Italia al disastro e alla guerra civile; più di mezzo milione di italiani alla
morte. Ma sarebbe sbagliato credere che fu la stolida ambizione di un uomo
solo, Mussolini, a condurre il paese alla tragedia; gravissime furono infatti le
responsabilità del re Vittorio Emanuele III, di Ciano e di quasi tutti i gerarchi
fascisti, dei capi militari. Essi erano consapevoli della realtà; conoscevano le
carenze dell'esercito e delle altre forze armate, la loro impreparazione alla
guerra. Ma evitarono accuratamente di contrastare il Duce nelle sue astrazioni;
anch'essi erano convinti della guerra breve, della vittoria tedesca e della
necessità di qualche "sacrificio necessario" per ottenere gloria e vantaggi
materiali. Il loro utilitaristico silenzio contribuì a rendere ancora più
drammatiche le vicende successive e del crollo del fascismo.
Il Teatro Greco
Un’ altra forma di evasione dalla realtà la si può ritrovare nel teatro greco che fa delle rappresentazioni fittizie
e delle finzioni, il suo punto di partenza.
Il teatro greco ebbe origine nell'Attica nella forma del dramma satiresco, della tragedia e, quindi, della
commedia, in stretta connessione con il culto di Dioniso e con le sue feste esaltanti che, operando la
comunione dell'umano con il divino, crearono l'ambiente adatto perché sensibilità, passioni e fantasia
dessero vita a una finzione drammatica. Nel periodo greco classico le rappresentazioni teatrali erano parte
delle festività cittadine, a carattere religioso. Le festività più importanti erano le Dionisie (in marzo) e le Lenee
(in gennaio). Le rappresentazioni si collocavano nell'ambito di una vera e propria gara di drammaturgia, in cui
diversi autori concorrevano per vedersi aggiudicare un premio. La passione per il Teatro fu per i greci, e in
particolare per gli ateniesi, una vera mania. Si diceva che Atene avesse speso per il teatro più che per la sua
flotta. Quando, per il costo di realizzazione degli spettacoli, si dovette chiedere agli spettatori il pagamento di
una tessera d'ingresso, Pericle istituì un fondo speciale per pagare l'ingresso ai cittadini meno abbienti.
Lo spazio scenico
A grandi linee, la codificazione rituale dovette avvenire in questi termini: il coro, o meglio i due semicori,
celebrando le lodi del dio, venivano ad agire intorno all'altare, (la timelè) in uno spazio semicircolare che
assunse il nome di orchestra (dal greco orkeomai che significa "danzare"). La timelè conserva comunque il
centro della rappresentazione scenica. Aumentando progressivamente il numero dei personaggi affidati alla
sua interpretazione, si presenta di pari passo l'esigenza di un riparo dietro cui l'attore possa celarsi durante i
cambi d'abito. Questo luogo deputato, costituito agli inizi da un semplice siparietto, dal termine greco skené
(che significa appunto tenda) assumerà la definizione teatrale di "scena" e verrà ad assumere un ruolo
centralizzante nella rappresentazione teatrale, che successivamente verrà sopraelevata sfruttando, in un
primo tempo, un rialzo naturale del terreno, o costruendo una pedana in legno. Il rialzo della skené e dello
spazio circostante corrisponde alla esigenza di non confondere le azioni degli attori, appunto, in quella fascia
che ancor oggi si definisce col termine di proscenio. Questo aspetto dello spazio scenico verrà corredato
dalla presenza di due corridoi laterali aperti verso l'orchestra, che servivano per le entrate e le uscite dei
semicori e che prendevano il nome di paradoi.Trattandosi quindi di rendere partecipi migliaia di spettatori che
dovevano, non solo vedere, ma anche ascoltare, il problema poteva essere risolto solo con una
sopraelevazione del pubblico stesso. Da questa semplice considerazione nasce la struttura plateale ad
anfiteatro chiamato oggi "teatro greco". Il teatro greco si è sviluppato in forma compiuta solo dopo l'età
periclea. Gli elementi suoi caratteristici sono la cavea, area semicircolare a gradoni, dove sedevano prima due
scale laterali e infine, da una serie di scalinate radiali chiamate cunei. Nei primitivi teatri la cavea era formata
in terra battuta (teatro di Siracusa, 470 a.C,), solo nel IV secolo a. C. viene realizzata interamente in pietra
(Teatro di Epidauro, 370 a. C.). L'orchestra è la zona nella quale in origine e durante tutto il periodo classico
agivano i danzatori e i coristi. Più tardi la rappresentazione si sposta in un piano sopraelevato. La sckené, in
origine era un fondale di tela posto nell'orchestra, di fronte alla cavea, più tardi costruita in legno per
accogliere gli attori durante il cambio dei costumi, fu posto dapprima a fianco dell'orchestra, poi costruita in
muratura, fu posta di fronte alla cavea di modo che la parete sull'orchestra servisse da fondale. Un'ultima
modifica portò alla formazione del proskenion che consiste in una articolazione a forma di "U" della skené.
Le maschere
Le maschere
La rappresentazione di un’opera greca si caratterizzava per l’utilizzo da parte degli attori, di una maschera che traduceva in forme
convenzionali le indicazioni sull’età, la condizione sociale e lo stato d’animo prevalente del personaggio.
È dunque nella maschera che ritroviamo un contrasto più profondo fra illusione e realtà.
L'applicazione di una faccia posticcia è un segno molto forte: lo si associa comunemente al modo forse più diretto per attuare un cambio di
identità. Presentarsi al mondo con una faccia diversa manifesta l'intenzione di segnalare qualcosa (un avvenuto cambiamento, un carattere
etc.) , interpretare un ruolo diverso, evadere dalla realtà e costruirsi un personaggio fittizio.
La maschera è la rappresentazione più evidente della condanna dell’individuo a recitare sempre la stessa parte, imposta dall’esterno, sulla
base di convenzioni che reggono l’esistenza di massa. Nella società rappresenta l’unico modo per evitare l’isolamento, nel teatro greco la
maschera assolveva a una serie di funzioni pratiche: nella vastità del teatro, l'espressione facciale dell'attore si sarebbe persa; inoltre, i pochi
attori permessi dalle convenzioni non avrebbero potuto sostenere le diverse parti; la maschera, in più, creava un effetto di amplificazione
della voce dell'attore utile anche in teatri dall'acustica perfetta.
La maschera, il cui uso è attestato nell’arte greca con implicazioni religiose molto prima del dramma, era la caratteristica più importante
dell’attore greco.
Fatta di lino / sughero / legno e munita di una parrucca, pur con una fisionomia fissa (viso dipinto di bianco per le donne, di grigio per gli
uomini ) ed una bocca leggermente aperta per il solo fine di fungere da megafono (la scena poteva distare dagli ultimi spettatori anche m. 90),
era fondamentale per attori che dovevano sostenere anche dieci ruoli diversi e, quindi, accessoriata (colore, forma, natura dei capelli; varietà
dei copricapi; …) in modo tale da poter ottenere da pochi tipi una serie di personaggi dissimili. Nel periodo d’oro della tragedia (sec. IV) la
maschera diventa più imponente e presenta una bocca decisamente sproporzionata al resto del volto. La maschera dunque, è stata usata nei
tempi antichi in ambito sacro, magico e rituale, quale elemento di contatto con una dimensione che oltrepassasse il reale, condensandolo in
una immagine (facciale, della intera testa, o totale, come travestimento corporeo) che, nei diversi usi e scopi, di quella stessa realtà fosse
concrezione, un "di più" di espressione: un condensato che per esempio esprimesse la realtà vera, sottesa a quella comune, ovvero il
sostrato magico, il legame con una alterità divina (nelle modalità della maschera cultuale o del travestimento rituale) o ancora con il regno dei
morti.
“Le Metamorfosi” di Apuleio
Un tipo di evasione dalla realtà e un rientro nel tessuto ingannevole delle apparenze,
può celarsi nel cambio d’identità, nella trasformazione, nella “Metamorfosi” , e chi
meglio di Apuleio potrebbe rappresentarlo?
Le Metamorfosi (o Metamorphoseon libri XI) dello scrittore latino Apuleio
costituiscono - assieme al Satyricon di Petronio - l'unica testimonianze del romanzo
antico in lingua latina. Sono infatti l’unico romanzo latino pervenuto intero ad oggi.
Con l'intreccio di episodi variamente collegati alla magia che ne costituisce la
nervatura, lo scritto non sarebbe potuto passare sotto silenzio all'epoca del processo
per magia cui l'autore fu sottoposto nel 158; quindi è possibile desumere che la sua
stesura sia posteriore a quella data. Il romanzo, opera stravagante in 11 libri, è forse
l’adattamento di uno scritto di Luciano di Samosata , del quale ci è pervenuto un
saggio intitolato “Lucius o L’asino”: si discute se Apuleio abbia seguito il modello
solo nella trama principale o ne abbia ricavato anche le molte digressioni novellistiche,
tragiche ed erotiche. In ogni caso le Metamorfosi di Apuleio gravitano comunque nella
tradizione della “milesia”, Ma anche in quella del romanzo greco contemporaneo,
arricchito però dall’originale e determinante elemento magico e misterico. Degli undici
libri, i primi tre sono occupati dalle avventure del protagonista, il giovane Lucio
(omonimo dell'autore, che forse proprio dal protagonista assunse il nome) prima e
dopo il suo arrivo a Hypata in Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Coinvolto
già durante il viaggio nell'atmosfera carica di mistero che circonda il luogo, il giovane
manifesta subito il tratto distintivo fondamentale del suo carattere, la “CURIOSITAS”,
che lo conduce ad incappare nelle trame sempre più fitte di sortilegi che animano la
vita della città. Ospite del ricco Milone e di sua moglie Pànfila, esperta di magia, riesce
a conquistarsi i favori della servetta Fotide e la convince a farlo assistere di nascosto a
una delle trasformazioni cui si sottopone la padrona. Alla vista di Pànfila che, grazie a
un unguento, si muta in uccello, Lucio prega Fotide che lo aiuti a sperimentare su di sé
tale metamorfosi. Fotide accetta, ma sbaglia unguento, e Lucio viene trasformato in
asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il
rimedio sarebbe semplice, (gli basterebbe cibarsi di alcune rose), se un concatenarsi
straordinario di circostanze non gli impedissero di scoprire l’antidoto indispensabile.
La parte centrale del romanzo è occupata dalla novella di Amore e Psiche che riprende
la trama principale e quasi ne anticipa il significato.
La chiave di lettura
del
romanzo
La chiave di lettura del romanzo…
L’ultima parte del romanzo (libro XI) che si svolge in un clima di forte
suggestione mistica ed iniziatica , non ha equivalente nel testo del modello
greco. È evidente che è un’aggiunta di Apuleio, al pari della celebre favola di
Amore e Psiche, che si trova inserita verso la metà dell’opera : centralità
decisamente “programmatica”, che fa della stessa quasi un modello in scala
ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone la corretta
decodificazione. La successione degli avvenimenti della novella riprende
quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la
“curiositas” punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e
le sofferenze , che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità.
La favola insomma , rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver
commesso il peccato di “hybris” (tracotanza) tentando di penetrare un mistero
che non le era consentito di svelare , deve scontare la sua colpa con
umiliazione ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di congiungersi
al dio. L’allegoria filosofica è appena accennata (se non altro, nel nome della
protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso è
evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside,
prende l’iniziativa di salvare chi è caduto, e lo fa di sua spontanea volontà ,
non per i meriti della creatura umana. Ci si può chiedere se queste aggiunte
non servano a spiegare l’intenzione dell’autore . In realtà l’episodio di Iside,
come quello di Amore e Psiche , ha un evidente significato religioso: indubbio
nel primo; fortemente probabile nel secondo , interpretato specificatamente
ora come mito filosofico di matrice platonica, ora come un racconto di
iniziazione al culto iliaco. Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di
rimandi simbolici all’itinerario spirituale del protagonista-autore: la vicenda di
Lucio ha infatti indubbiamente valore allegorico: rappresenta la caduta e la
redenzione dell’uomo. Il tutto farebbe delle “Metamorfosi”, così, un vero e
proprio romanzo “mistagocico” che sembrerebbe registrare l’esperienza
stessa dello scrittore. Romanzo che, tuttavia, qualunque sia la sua reale
intenzione, ci offre una straordinaria descrizione delle province dell’impero. Il
romanzo, confrontato con quello di Petronio, dà però la curiosa impressione
che i personaggi vi siano osservati con maggiore distanza, come in un
immenso affresco dove si muovono, agitandosi, innumerevoli comparse.
…Il disegno è illusione
M. C. Escher
Renè Magritte
M.C. Escher
Colui che maggiormente è riuscito a penetrare con immensa genialità nel mondo delle
illusioni, capovolgendo vertiginosamente tutte le prospettive artistiche, è stato Maurits
Cornelis Escher.
Se si pensa di trovare nell’arte trascorsa una figura che possa competere con l’artista
Olandese, allora si rimarrà delusi perché mai nessuno ha sviluppato una ricerca così coerente
e stringente, con esiti e tematiche tanto originali e geniali. Escher partendo dall’osservazione
accurata della realtà, è giunto, nei suoi lavori, ad esiti di altissimo livello fantastico e
simbolico: i suoi ingannevoli paesaggi, le sue prospettive invertite, le architetture da capogiro,
i mosaici fantastici, le figure grottesche umane e animali, le costruzioni geometriche
minuziosamente disegnate, incantano, sconcertano e contemporaneamente soddisfano il
bisogno di ordine ed equilibrio. Nei contrasti giorno-notte , cielo-acqua, pesci-uccelli, delle
incisioni più famose l’ambiguità visiva diventa ambiguità di significato, il positivo ed il
negativo sono assolutamente intercambiabili, sovrapponibili, indissolubilmente legati.
Disegnare diventa quindi con Escher, illusione: siamo convinti di vedere un mondo
tridimensionale, quando il foglio da disegno è invece soltanto bidimensionale….
Il fascino e la fama di Escher quindi non sembrano voler invecchiare e oltrepassano il tempo
e i luoghi, come testimonia l'uso sistematico delle sue immagini per le illustrazioni di libri e
di articoli dedicati soprattutto, per un'affinità evidente, a fisica, astronomia, geometria,
psicoanalisi e altre scienze, in ogni parte del mondo. Egli amava definirsi molto più vicino ai
matematici e gli scienziati piuttosto che agli artisti.
Chi si è occupato di Escher ha spesso cercato di capire se nelle immagini create dalla matita
e dalla sgorbia del geniale artista olandese si nascondano, nonostante le sue stesse
affermazioni, simboli, allegorie, enigmi, crittografie, rebus o comunque qualcosa di segreto.
Tentativi non riusciti a quanto si sa. Se ne è dedotto che Escher non voleva dire nulla di più
di quanto si vede nelle sue opere e che, pertanto, da un lato la sua ricerca estetica si
identifica con la ricerca geometrico-formale, dall'altro la sua idea di bellezza risiede nella
purezza del segno, nell'armonia anche apparente delle composizioni e nei paradossi
illusionistici che solo la matita può creare. Le affinità di Escher con Magritte o il surrealismo,
in particolare sono notevolissime, e anzi si può parlare di sicure influenze reciproche.
Eppure Escher non viene di norma citato nè tra i surrealisti nè tra gli epigoni del movimento.
C'è sicuramente un problema di contenuti, perchè se l'olandese appare nel complesso
vicino alle scelte figurative surrealiste di Ernst, Magritte, Dalì, Mirò , è invece difficile
apparentarlo alla ricerca interiore, psicanalitica e onirica che trasuda dalle loro opere.
A differenza di altri artisti, Escher mentre ci inganna ci svela l'inganno, e forse proprio in
questa ironia, o ammiccamento, richiesta di complicità, risiede buona parte del suo fascino
e del suo rapporto empatico con lo spettatore.
Il disegno è illusione
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Nell’occhio di Escher
Il disegno è illusione
Drawing hands
Ascending and descending
Reptiles
Moemius band
Waterfall
Sky and water
balcony
Another world
Belvedere
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Rettili
Gravitation
Stars
House of stairs
Hight and low
Relativity
Illusion
Reflecting
Drawing Hands
Un foglio di carta è fissato
ad un supporto con
quattro puntine da
disegno: la mano destra è
occupata a disegnare la
manica di una camicia; al
momento non ha
terminato il suo lavoro,
ma, un po’ più in là, a
destra ha disegnato una
mano sinistra già così
dettagliatamente che
questa si distacca dalla
superficie e, a sua volta,
come una parte viva del
corpo, disegna la manica
dalla quale appare la
mano destra.
Gallery
Moemius band
Un nastro chiuso e circolare presenta
solitamente due superfici, una interna
ed una esterna. Su questo nastro invece,
camminano una dietro l’altra delle formiche
rosse le quali percorrono sia la parte
anteriore , sia quella posteriore. In questo
modo il nastro risulta avere un’unica
superficie.
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Relativity
Qui agiscono perpendicolarmente tre
livelli di forza di gravità, tre superfici
terrestri, su ognuna delle quali vivono
degli uomini e si intersecano ad
angolo retto: due abitanti di due
mondi diversi non possono vivere
sullo stesso pavimento, perché non
hanno lo stesso concetto di ciò che è
orizzontale e verticale, nonostante ciò
possono usare la stessa scala. Sulla
scala superiore procedono due
persone, l’una accanto all’altra, nella
stessa direzione. Evidentemente è
impossibile che queste persone
entrino in contatto perché vivono in
due mondi diversi e, per questo, l’uno
non è a conoscenza dell’esistenza
dell’altro.
Gallery
High and low
Escher esaspera il tema dentro/fuori soprattutto in quest’opera,
che mostra lo stesso ambiente da due punti di vista diversi.
Nella metà superiore di questa litografia, il punto di vista è
posto al terzo piano di un edificio che si apre su un cortile
abbellito dalla presenza di una palma. La metà inferiore
dell’opera, invece, rappresenta il medesimo edificio visto dal
cortile, dove un ragazzotto con i pantaloni corti, guarda una
donna affacciata alla finestra. Si ha così un effetto dentro/fuori
che è molto sofisticato. Tra l’altro per riuscire a far entrare nella
superficie ristretta di un foglio rettangolare uno spazio così
dilatato, Escher è costretto ad utilizzare un tipo di deformazione
prospettica, che, per l’epoca, appare assolutamente innovativa,
ovvero quella della prospettiva curvilinea che Escher aveva
studiato riproducendo le celebri sfere riflettenti.
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Renè Magritte
Come già detto precedentemente, le affinità di Escher con Magritte sono
notevolissime, ma se il lavoro di Escher appare incunearsi nella
complicazione estrema della riflessione, dell’illusione prospettica, dell’artificio
stesso della rappresentazione, Magritte si presenta in un tono misterioso e
sospeso che è tipico del surrealismo. Magritte (Belgio 1898- 1967), svolge un
tipico illusionismo di ordine onirico: illustra ad esempio oggetti e realtà
assurde, come un paio di scarpe che si tramutano nelle dita di un piede o un
paesaggio simultaneamente nella parte inferiore notturno e in quella
superiore diurno, ricorrendo a tonalità fredde, ambigue, antisentimentali, quali
quelle del sogno. Magritte è l’artista che più di ogni altro, gioca con gli
spostamenti del senso, utilizzando sia gli accostamenti inconsueti, sia le
deformazioni irreali. Ciò che invece è del tutto estraneo al suo metodo, è
l’automatismo psichico, in quanto egli, con la sua pittura, non vuole fare
emergere l’inconscio dell’uomo ma vuole svelare i lati misteriosi dell’universo.
I suoi quadri sono realizzati in uno stile da illustratore, di evidenza quasi
infantile. Volutamente le sue immagini conservano un aspetto pittorico, senza
alcuna ricerca di illusionismo fotografico.
Già in ciò si avverte una delle costanti poetiche di Magritte: l’insanabile
distanza che separa la realtà dalla rappresentazione. E spesso il suo
surrealismo nasce proprio dalla confusione che egli opera tra i due termini. In
altri quadri Magritte gioca con il rapporto tra immagine naturalistica e realtà,
proponendo rappresentazioni dove il quadro nel quadro ha lo stesso identico
aspetto della realtà che rappresenta, al punto da confondersi con esso.
Magritte è un “antipittore”, non amava dipingere. Non mancano gli aneddoti e
le testimonianze dirette che confermano il suo atteggiamento distaccato
rispetto al “fare pittura”, il suo è un dipingere freddo, levigato, meticoloso ma
senza palpiti di pennello, senza sorprese di tocchi, di gesti, d’inebrianti
incidenti di percorso, tuttavia e paradossalmente egli si colloca nel cuore
della pittura.
Il suo surrealismo è uno sguardo molto lucido e sveglio sulla realtà che lo
circonda , dove non trovano spazio né il sogno, né le pulsioni inconscie.
L’unico desiderio che la sua pittura manifesta, è quello di “sentire il silenzio
del mondo”, come egli stesso scrisse.
Il disegno è illusione
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Magritte Gallery
Il disegno è illusione
Ceci n’est pas une pipe
Clairvoyance
Le faux miroir
L’empire des lumières
Les passeggiates des Euclide
Le modèle rouge
Human condition
Le viol
Le chàteau des Pyrènèes
Le fils de l’homme
Les amants
Graties naturali
Le domaine d’Arnheim
La dècouverte du feau
Le grande famille
Questa non è una pipa……
In “Ceci n’est pas une pipe”, il rapporto
tra linguaggio ed immagine, ovvero tra
rappresentazioni logiche ed analogiche, è un tema
sul quale Magritte gioca con grande intelligenza ed
ironia. In questo caso, guardando l’immagine di una
pipa e leggendo la scritta sottostante che dice:
“questa non è una pipa”, la prima reazione è di
chiedersi : “ma allora cos’è?”. Il sottile inganno si
svela ben presto se si riflette che si sta guardando
solo un’immagine , non l’oggetto reale che noi
chiamiamo “pipa”. Magritte anche in questo caso,
tende a giocare con la confusione tra realtà e
rappresentazione, per proporci una nuova
riflessione sul confine, non sempre coscientemente
chiaro tra i due termini.
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Gli amanti
L’artista belga, ha ragione quando ritiene, che
se è sostenibile che, secondo una logica
strettamente surreale, il sogno rappresenti la
vera vita, cioè la parte reale dell’esistenza, è
però altrettanto sostenibile il contrario: cioè
che la realtà visibile e tangibile non sia che un
sogno, in sintesi il problema non si pone, è
semplicemente superfluo.
Uno dei meccanismi utilizzati da Magritte, per
giungere alla rappresentazione surreale, è
quello di coprire il volto dei personaggi ritratti
per cancellarne l’identità e mostrarceli solo
nella loro apparenza. Ai volti sovrappone delle
colombe, a volte delle mele, , in questo caso
copre i due volti con due lenzuoli. L’effetto è
tanto più sorprendente se, come in questo
caso, i due personaggi si stanno baciando. La
sensazione che ne deriva è di malinconia per la
crudeltà imposta ai due personaggi , ai quali
viene negata la piena potenzialità del gesto
compiuto.
*(secondo alcune indiscrezioni, il dipinto
rimanda all’episodio del ritrovamento del corpo
della madre di Magritte, morta suicida nel 1912
e rinvenuta nel fiume Sambre con il volto
coperto dalla camicia da notte.)
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Il modello rosso
Due scarpe che diventano piedi o viceversa. Un’immagine disturbante
ed ambigua. “il modello rosso” rappresenta una delle opere più
emblematiche dell’artista. Forse un indizio sta nel titolo? Macchè…ci
porta ancora più fuori strada!!! Un paio di piedi, perfettamente scorciati.
Una parte resta in ombra, a prima vista. Ed è strano, perché la fonte
luminosa nel quadro sembra essere unica ed inondare con omogeneità
quasi artificiale l’intera scena. Ancora più strano è che i piedi si
trasformano, sotto i nostri occhi increduli e diventano un bel paio di
scarponcini scuri con tanto di stringhe. L’effetto sopresa è immediato,
tuttavia la produzione di Magritte mira a creare questo effetto. La
passione dell’artista per la creazione di accoppiamenti strani e
incongrui spiazzano nella loro ostentata banalità :egli stesso afferma
che la sua maniera di dipingere è assolutamente accademica e che
l’unica cosa interessante è ciò che mostra.
La visione del contenente (un paio di stivaletti) suggerisce all’istante,
all’intelletto, la visione del contenuto (i piedi nudi). Dunque l’occhio non
solo vede ma anche pensa, è consapevole di ciò che ha visto, di ciò che
si nasconde dietro l’apparenza e di ciò che si potrebbe vedere.
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Albert Einstein: cenni biografici
Albert Einstein
( Ulm 1879 - Princeton 1955 )
Fisico tedesco naturalizzato statunitense. Il maggiore fisico della nostra
epoca. Dall'eta' di un anno visse a Monaco; fu per alcuni anni a Milano e poi a
Zurigo (1896), Divenuto cittadino svizzero, trovò un impiego all'ufficio
brevetti di Berna. Nel 1905 pubblicò tre scritti di fondamentale importanza;
uno esponeva i principi della teoria della relatività ristretta; uno sul moto
browniano, che costituiva la prima prova della reale esistenza degli atomi;
il terzo per lungo tempo respinto dai fisici, rappresentava la prova della natura
corpuscolare della luce. Proprio per questa prova (l'interpretazione
dell'effetto fotoelettrico- conosciuto oggi come "fotovoltaico") vinse il
premio Nobel per la fisica nel 1921. Nel 1916 pubblicò un fondamentale
articolo sulla teoria della relatività generale, teoria che recentemente
ha ottenuto una considerazione sempre più ampia e diverse nuove
verifiche in campo cosmologico. Rifugiatosi in America durante
il periodo delle persecuzioni ebraica hitleriane, venuto a conoscenza
dei lavori di OTTO HAHN e FRITZ STRASSMANN e LEO SZILARD
(fisico teorico ex allievo di Einstein all'Istituto di Fisica di Berlino),
oltre i lavori di Fermi, con una lettera a Roosevelt, proponeva la costruzione
di una bomba nucleare, per il timore che la Germania riuscisse a costruirne una.
Perchè proprio dalla Germania a lui pervennero le ultime informazioni sulla struttura dell'atomo e sulle possibilità di usare
l'energia nucleare. Dopo la seconda guerra mondiale, Einstein cercò in tutti i modi di favorire la
pace nel mondo, promuovendo una vasta campagna popolare contro la guerra e le
persecuzioni razziste. Proprio una settimana prima di morire, insieme ad altri
sette Nobel, compilò una dichiarazione pacifista contro le armi nucleari.
Questo messaggio all' umanità, che rappresenta una specie di testamento
spirituale dello scienziato, termina con queste parole: "Noi rivolgiamo un appello come esseri umani a
esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto. Se sarete capaci di farlo è aperta la
via di un nuovo paradiso, altrimenti è davanti a voi il rischio della morte universale".
La Teoria della Relatività
La teoria della relatività, elaborata da Albert Einstein all’inizio del XX
secolo, è alla base dell’intera fisica moderna. Solo mediante la teoria
della relatività si può dare una sistemazione completa
all’elettromagnetismo e alla teoria della gravitazione; ed è solo grazie
ad essa che la fisica nucleare e la fisica delle particelle elementari
hanno potuto svilupparsi e avere le applicazioni ingegneristiche
attuali. La teoria della relatività si può suddividere, anche
storicamente, in due “fasi” successive: la relatività speciale e la
relatività generale. Il problema di fondo, per risolvere il quale Einstein
elaborò la propria teoria, è in ambedue i casi quello di dare una forma
invariante, indipendente cioè dal sistema di riferimento, alle leggi
fisiche. Per molto tempo si credette che l’unica risoluzione del
problema fosse costituita dal “Principio di relatività di Galileo”.
Secondo questo principio tutti i sistemi di riferimento “inerziali” sono
equivalenti per la descrizione dei fenomeni meccanici. Esso viene
messo in discussione alla fine del XIX secolo in seguito alla scoperta
dei fenomeni elettromagnetici. In modo particolare la formulazione
maxwelliana dell’elettromagnetismo e la scoperta della natura
elettromagnetica della luce portavano a contraddizioni molto
profonde con il principio di relatività galileiano. Einstein riesce a
superare le contraddizioni tra principio di relatività e teoria
elettromagnetica. La teoria della relatività di Einstein si basa su due
postulati: Le leggi della fisica devono essere le stesse in tutti i sistemi
di riferimento inerziali. La velocità della luce è una costante, cioè è la
stessa in tutti i sistemi di riferimento. Egli inoltre analizza a fondo i
concetti di spazio e di tempo e dimostra, sulla base di due postulati,
che né lo spazio né il tempo hanno carattere assoluto.
Cenni biografici
Il paradosso dei gemelli
L’accettazione della teoria della relatività non fu immediata e ancora oggi esistono oppositori. Trai vari paradossi
apparenti ideati per mostrare delle contraddizioni nella teoria della relatività ristretta, il più noto è quello dei gemelli. Il
paradosso si presenta nel modo seguente. Sulla terra vivono due gemelli, Mimmo e Sonia, che al momento
dell’esperimento hanno venti anni e possiedono entrambi un orologio ed un calendario. Supponiamo che Sonia
decide di diventare astronauta, mentre Mimmo rimane sulla terra. Sull’astronave lei vede scorrere il tempo sul
proprio orologio in modo normale. Quando Sonia torna sulla terra però , ha una sorpresa imprevista:Mimmo è più
vecchio di lei ! La differenza di età dipende da quanto è durato il viaggio e dalla velocità alla quale si è svolto:più la
velocità dell’astronave è stata vicina a quella della luce, maggiore è la differenza nel tempo sperimentata dai due
gemelli. Il paradosso nasce dal ruolo apparentemente simmetrico dei due gemelli : ambedue possono sostenere, in
base alla relatività del moto, di essere rimasti a riposo mentre l’altro faceva il viaggio. Ambedue possono sostenere
che l’orologio dell’altro va a rilento . Esiste tuttavia una differenza fondamentale tra i due gemelli: Mimmo è un
osservatore inerziale mentre Sonia non lo è, poiché frena e inverte la marcia per tornare sulla terra.
Magnitudine Assoluta e Magnitudine Apparente
Un altro paradosso, un altro fenomeno ottico e sorprendentemente illusorio è
quello delle stelle. Con il termine magnitudine si intende la misura della quantità di
luce che ci arriva da un corpo celeste (stelle, galassie, nebulose..) questa quantità di
luce dipende da molti fattori, come la distanza dell’astro in questione, la sua
grandezza e la sua temperatura. Guardando il cielo si nota immediatamente che
alcune stelle sono più luminose di altre. Inoltre la luce che la stella emette, durante
il tragitto, sino alla terra, deve attraversare una quantità di materia che ne assorbe
una parte(assorbimento interstellare); la stessa atmosfera terrestre contribuisce a
questo assorbimento. Per cui una stella può essere più luminosa ma più lontana di
un’altra, pertanto appare più debole. La magnitudine si distingue in
Magnitudine Apparente:la dicitura apparente è dovuta al fatto che ci
si riferisce alla luminosità delle stelle così come appaiono viste dalla superficie
terrestre. In realtà questa scala non ci permette di classificare e quindi di
confrontare correttamente le stelle fra loro, in quanto non tiene conto né delle
dimensioni effettive dell’astro né della sua distanza dalla terra.
Magnitudine Assoluta: è la luminosità effettiva e reale della stella. Si è deciso di
costituire un sistema di magnitudini assolute in cui si misura la luminosità che
avrebbero gli astri se fossero tutti alla distanza (arbitraria) di 10 Parsec dalla terra. Il
legame tra la magnitudine relativa(m) e quella assoluta (M) è dato dalla seguente
relazione:
m
Dove (d) è la distanza della stella in Parsec
=d
M
Se si conosce la distanza di una stella se ne può determinare la magnitudine,
viceversa se si conosce la magnitudine assoluta, si può risalire alla distanza. La
scala delle grandezze è inversamente progressiva, cioè più la massa della stella è
grande, meno sarà luminosa la stella.
Anche i raggi che associamo alle stelle sono ovviamente illusori: derivano dalle
aberrazioni sferiche dell’occhio e dalla struttura del cristallino , che diffondono la
luce dei dei punti luminosi e ne producono un immagine sfrangiata. Altrettanto
illusorio è il tremolio delle stelle che è invece causato dalla turbolenza dell’atmosfera.
Oltre alle stelle, gli unici oggetti ottici di cui abbiamo una percezione diretta sono la
via lattea e Andromeda. delle altre galassie non vediamo la luce direttamente, perché
è troppo debole. Ma se la vedessimo, ci accorgeremo che essa non è bianca come
quella del sole ma rossastra. Questo effetto ottico chiamato red schift
“spostamento verso il rosso” è l’analogo visivo del famoso effetto doppler acustico.
Analogamente la luce bianca emessa da una sorgente in movimento viene percepita
come più o meno rossa o blu , a seconda che essa si allontani o si avvicini. Il red
schift delle galassie scoperto nel 1929 da Edwin Hubble , è dunque una prova del
fatto che esse si allontanano da noi e che l’universo si espande.
I miraggi
I miraggi
Un altro inganno è rappresentato dai miraggi. Ma che cos’è un miraggio?
È solo un’allucinazione? No, i miraggi non sono guizzi della nostra immaginazione,
ma fenomeni ottici addirittura fotografabili e spiegabili. All’origine di ciascun miraggio
vi è un’anomalia di rifrazione dei raggi luminosi causata da scarti di temperatura negli
strati più bassi dell’atmosfera. Un miraggio può essere creato dal sole.
Il sole appare come un disco arancione con un sottilissimo bordo superiore
verde e un altro inferiore blu (il blu viene come al solito diffuso) nel momento
in cui il sole sparisce all’orizzonte , il bordo verde si dissolve in un bagliore
che da il nome al fenomeno. A volte l’ovale del sole al tramonto è un vero e
proprio miraggio , come dimostra il fatto che esso può apparire interamente al
di sopra della superficie dell’acqua e restringersi e svanire senza mai
scendere sotto l’orizzonte. Altri tipici miraggi sono le le finte pozzanghere
d’acqua che si vedono a volte sulle autostrade o nel deserto. In tutti questi
casi è in azione un principio enunciato da Pierre de Fermat nel 1657: la luce
segue sempre il cammino più veloce per congiungere 2 punti. Poiché l’aria
calda ha minore densità e minore indice di rifrazione di quella fredda, la luce vi
viaggia più velocemente. Quando la temperatura vicino al terreno è più alta di
quella dell’ambiente circostante , come succede d’estate , la luce del cielo può
dunque arrivare ai nostri occhi non seguendo la normale linea retta, bensì
attraverso una linea curva concava che passa rasente al suolo. Il cervello
scambia questa immagine del cielo con quello di una pozzanghera d’acqua
provocando così la sensazione del miraggio. una situazione simmetrica si
ottiene quando la temperatura vicino al terreno è più bassa di quella
dell’ambiente circostante. In questo caso la luce arriva ai nostri occhi
attraverso una linea curva convessa che passa alta nel cielo e l’impressione
sarà quella di vedere gli oggetti sollevati da terra.
Più spettacolare è la cosi detta “fata Morgana” tipica dello stretto di Messina.
In determinate condizioni le rocce e gli edifici della costa sembrano fluttuare
nel cielo e danno l’illusione di castelli in aria come quelli che la “fata Morgana”
faceva apparire alla corte di re Artù.
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