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di Rita Charbonnier

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di Rita Charbonnier
L'immagine di copertina e tutte le
immagini di Simone Bianchi sono
proprietà della Marvel (© 2012)
gentilmente concesse a Speechless
Magazine per questo numero.
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direttore editoriale
Alessandra Zengo
direttore RESPONSABILE
Selene Pascarella
creative designer
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COVER ARTist
Simone Bianchi
Redazione
Marina Albamonte
Giovanni Arduino
Stefania Auci
Valentina Bettio
Alexia Bianchini
Elena Bigoni
Andrea Bresson
Elisabetta Bricca
Andrea Cattaneo
Valentina Coluccelli
Claudio Cordella
Roberta de Tomi
Fabio di Pietro
Pia Ferrara
Roberto Gerilli
Carlo Lanna
Barbara Maio
Giulia Marengo
Miriam Mastrovito
Marco Piva-Dittrich
Elisabetta Ossimoro
Elena Raugei
Manuela Salvi
Francesca Scotti
Christian Soddu
Maila Daniela Tritto
Federica Urso
Andrea Veglia
03
Si ringraziano
Maurizio Bettini
Simone Bianchi
Rita Charbonnier
Elisabetta Chicco Vitzizzai
Rebecca Coleman
Melanie Delon
Natasa Dragnic
Victoria Frances
Marco Guadalupi
Francesca Lia Block
Loredana Lipperini
Stefano Manferlotti
Romano Montroni
Tomoko Nagao
Dan Panosian
Vicky Satlow
Wu Ming 4
illustratrici
Max Rambaldi
Claudia Cocci
CORREZIONE BOZZE
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 8 di Alessandra Zengo
 10 IL RICORDO
di Loredana Lipperini
coverartist
NUMERODUE
editoriAle
 13 Simone Bianchi e i supereroi made in Italy
di Roberto Gerilli
Musica
 20 RUBRICA – Giro di voci
di Elena Raugei
Editoria
 24 RUBRICA – Pixel Rubati
di Giovanni Arduino
 26 INTERVISTA – Vicki Satlow: al cuore delle parole
di Elisabetta Bricca
 28 RUBRICA – Nuovo atlante del libro: La Frontiera
di Fabio di Pietro
 30 Voci dallo spazio bianco tra le righe
di Alessandra Roccato
 32 RUBRICA – West Egg, Vaghezie dell'editor
di Christian Soddu
 34 Il fascino discreto della Libreria
di Stefania Auci
 38 RUBRICA – Il sottoscala
di Manuela Salvi
 40 INTERVISTA – Le metamorfosi del testo: Maurizio Bettini
di Andrea Veglia
 48 Killing me softly, 50 sfumature di stalking nel sexy romance
di Selene Pascarella
 54 Tra vendette e compromessi: uno sguardo sulle donne
di Maila Daniela Tritto
 58 Piccole (e grandi) donne in cucina
di Elisabetta Ossimoro
 62 RACCONTO – Tre indimenticabili giorni
di Rita Charbonnier
 64 Le parole del nostro destino: quando l'amore supera i confini del tempo
di Roberta de Tomi
 66 INTERVISTA – Le relazioni pericolose: quando l'amante è un teenager
di Alessandra Zengo
 70 Miradar: Crocevia di solitudini interrotte
di Elisabetta Ossimoro
 72 RACCONTO – Faccia di Luna
di Natasa Dragnic
 74 Qualcosa di scritto che ti porta dentro a Petrolio
di Viviana Filippini
 78 Charles Dickens, il cantore dell'epoca vittoriana
di Stefania Auci
 82 Vita e morte di Lady Lazarus
di Elisabetta Bricca
 84 La seconda a destra, e poi dritto fino al mattino
di Andrea Cattaneo
 88 La dittatura delle fascette
di Andrea Bresson
 91 INTERVISTA – Memorie di Birra Man: Intervista a Victor Gischler
di Marco Piva e Roberto Gerilli
 94 RACCONTO – Un'ora movimentata
di Arthur Conan Doyle
 104 Fumo e specchi: l'immaginario di Neil Gaiman
di Giulia Marengo
 108 L'orda del vento: come coniugare fantasia, letteratura e successo
di Claudio Cordella
 111 RACCONTO – Figlia del Crepuscolo
di Wu Ming 4
 118 Angeli (sempre più) pericolosi
di Giovanni Arduino
 122 Battle Royale: tra sadismo e spirito di sopravvivenza
di Federica Urso
 124 RUBRICA – Viaggio nei luoghi dell'immaginario
di Miriam Mastrovito
 126 RACCONTO – Psycopatic Love
di Marco Guadalupi
 134 La principessa sposa: quando la storia è davvero infinita
di Valentina Coluccelli
04
sommario
04
sommario
Letteratura
04
sommario
Arte
 140 Tomoko e Francesca
 147 L'universo illustrato di Victoria Frances
di Elena Bigoni
Cinema & serie tv
 156 È un film? È un fumetto? No, è un Cinecomic!
di Roberto Gerilli
 160 The newsroom, quando il vero giornalismo torna a far notizia
di Roberto Gerilli
 162 Sons of Anarchy: storia e gloria di una dinastia di antieroi
di Elena Bigoni
 164 Il fascino dell’eccesso, ovvero perché amiamo True Blood
di Barbara Maio
 168 Six Feet Under e la sepoltura della morte
di Elisa Emiliani
 172 Homeland, caccia alla spia
di Carlo Lanna
 174 La fine di un'epoca, la morte degli ideali: Parade's End
di Stefania Auci
 178 King of Darkness: Tim Burton, macabro e malinconico menestrello
di Alexia Bianchini
 182 Miyazaki: cantastorie per i piccoli, sensei per i grandi
di Valentina Coluccelli
 188 Il mondo di Avatar e l'animazione che arriva da ovest
di Pia Ferrara
04
di ALESSANDRA ZENGO
Illustrazione © Melanie Delon
D
opo tre lunghi e faticosi mesi, torno
a scrivere su queste pagine virtuali.
Con grande attesa per l'uscita del
secondo numero e per il responso dei lettori.
Perché sono proprio i tantissimi lettori che
hanno reso possibile questa splendida
avventura; un percorso rappresentato da una
commistione intelligente tra diverse forme
di espressione: arte, letteratura, cinema
e musica. I feedback positivi ricevuti non
hanno fatto altro che accrescere la spinta
al miglioramento, e infatti Speechless #2 è
uscita diversa, più sobria ed elegante nella
grafica, più definita nei contenuti.
In molti hanno chiesto un'edizione
cartacea della nostra rivista, ma la verità
è che Speechless senza il supporto digitale
non sarebbe mai esistita. Perché? Perché una
rivista di cultura in edicola non è destinata
a durare, soprattutto in un periodo in cui
anche i settimanali più famosi arrancano.
Inoltre, è più semplice distribuire una rivista
in e-Book, che richiede costi nettamente
inferiori.
Ma non disperiamo, perché nell'era delle
nuove tecnologie riusciamo a raggiungere
grazie a Internet centinaia di migliaia di
lettori, che molto probabilmente non ci
avrebbero scoperto con la sola uscita in
edicola. La fruizione è ampia, e il passaparola
ci aiuta ogni giorno a farci conoscere anche
negli anfratti più bui e dimenticati della rete,
forse.
In questo nuovo numero abbiamo
deciso di dare più spazio all'espressione
artistica. Speechless ospita, ancora
8
relax your mind reading
una volta, artisti di fama internazionale:
Victoria Frances, illustratrice spagnola
che ha conosciuto il successo grazie alla
pubblicazione di Favole; Tomoko Nagao,
una delle maggiori esponenti della cultura
MicroPop giapponese; e Dan Panosian,
talentuoso fumettista statunitense. Le
opere dell'italiano Simone Bianchi poi,
disegnatore per Marvel, DC Comics e
Bonelli, e cover artist per questo numero 2,
sono impreziosite dalle illustrazioni interne
di Max Rambaldi e Claudia Cocci.
Per accompagnare la lettura di
Speechless, Elena Raugei, giornalista
che collabora anche con la storica rivista
di musica Il Mucchio Selvaggio, segnala
gli albi musicali più interessanti dell'ultimo
periodo, con un focus su Alessandro
Fiori, uno dei songwriter più originali in
circolazione.
Inoltre, autori di talento sia italiani che
stranieri hanno deciso di contribuire al
progetto. Marco Guadalupi, esordiente
amante del genere fantastico, si destreggia
insieme al veterano Wu Ming 4 tra due
narratrici di calibro internazionale, come
Rita Charbonnier e Natasa Dragnic.
Guest Author: Sir Arthur Conan Doyle
che, raggiunto tramite una riuscitissima
seduta spiritica, ci ha concesso l'onore di
pubblicare un suo racconto.
E non è finita qui, cari lettori. Essendo io
tormentata quotidianamente da idee folli,
per Halloween non potevo esimermi dal
pensare a voi. È nata così l'idea di I fuochi
di Samhain, una raccolta di racconti
con protagoniste le streghe, le figlie della
notte per eccellenza. Quale miglior modo di
augurarvi una buona notte di Ognissanti?
Le madrine d'eccezione di questa raccolta
stregata, che vanta una cover illustrata
da Victoria Frances, saranno Barbara
Baraldi, autrice della prefazione, e Vanna
de Angelis, che ci delizierà con un saggio
conclusivo sulle indiscusse protagoniste dei
racconti.
Speechless è, insomma, una fucina di
menti produttive. Ed è a questo microcosmo
culturale che una delle maggiori scrittrici
italiane di fantastico ha voluto lasciare la sua
ultima opera, il racconto breve Ragazza che
passa. Questo numero si aprirà con il ricordo
sentito e nostalgico di un'amica per un'amica,
di una grande autrice per una grande autrice;
un omaggio alla donna e scrittrice che
Chiara Palazzolo è stata.
Per concludere questo editoriale,
scritto a ridosso della pubblicazione (sono
una ritardataria cronica), ho il piacere
di annunciare che d'ora in avanti sarò
coadiuvata dall'esperienza di Selene
Pascarella, novello Direttore Responsabile
di Speechless. Insomma, dovrò dividere il
mio vertice con un'altra allegra donzella. E
speriamo di starci, in due.
Quindi ora, terminati i consueti deliri di
rito, non mi resta che ringraziarvi per essere
giunti alla fine di questo sconclusionato
editoriale (se ci siete arrivati, ed è tutto da
dimostrare!) e augurarvi buona lettura!
Now, don't talk, folks, just read!
Scrivetemi a:
[email protected]
editoriAle
stretch your fantasy, empower your ideas and
9
N
ell’ultima scena di Giù la testa di
Sergio Leone, Juan Miranda si volta verso il treno che sta per esplodere e dove il suo amico Johnny Mallory
giace ferito a morte. Urla “Johnny”, e mentre lo fa sboccia un’onda di fuoco e fumo.
Miranda guarda, con dolore e stupore negli
occhi, e dice “E adesso, io?”.
Giù la testa è una storia di amicizia
maschile: legame che è stato celebrato e
idealizzato fin da quando gli uomini hanno
cominciato a raccontare. Da Oreste e Pilade fino al Cacciatore di Aquiloni, l’amicizia maschile non solo non è mai stata messa in dubbio, ma è stata spesso anteposta
all’amore, o narrata come sentimento più
puro e affidabile del medesimo. Al contrario, l’amicizia femminile non solo conosce
in minima parte le glorie della letteratura o
del cinema (con poche eccezioni, in questo
caso, e su tutte Giulia, che Fred Zinnemann
trasse nel 1977 da Pentimento di Lilian
Hellman), ma viene spesso negata, o avvelenata dalle insidie della competizione, della rivalità, dell’invidia, dell’inaffidabilità.
A farlo sono, molto spesso, le stesse donne.
Juan Miranda e Lilian Hellman mi
10
tengono compagnia dal 6 agosto, da quando Chiara Palazzolo, la mia amica più cara,
è morta. Il suo ultimo romanzo, Nel bosco
di Aus, è un romanzo sull’amicizia femminile, fra le molte altre cose. E sulla sua perdita: Rita, la migliore amica della protagonista, muore nelle prime pagine, e fino alle
ultime righe Carla continuerà a sentirne la
mancanza e a portare fiori rossi sulla sua
tomba. Amanda Satriani, una delle streghe
del bosco, racconta a Carla di aver perso
un’amica, e dice anche che questo tipo di
dolore viene raramente capito, come se fosse un dolore secondario, come se i dolori
potessero essere divisi in primari e secondari.
Dunque, mi è
molto difficile parlare di Chiara come
Chiara meriterebbe. Raccontare
quel che ha fatto
per la letteratura
fantastica (e non
solo). Raccontare i suoi personaggi femminili,
sempre divisi fra bene e male, due lingue
della stessa fiamma, Mirta e Luna, Carla ed
Ecate. Raccontare la sua lingua e la complessità dei suoi mondi, nascosti dietro storie di architettura impeccabile. Prima o poi,
spero di farlo, e spero che molti altri lo facciano, come è già avvenuto in questi mesi.
Chiara con Mirta e Clara
Illustrazione © Claudia Cocci
A Speechless (che Chiara amava
molto, e che vedeva come uno dei luoghi dove intraprendere una discussione
approfondita sul genere), per ora, posso
solo consegnare la nostalgia, queste poche righe e la frase di Juan Miranda, “E
adesso, io?”. Il resto, forse, verrà, perché
anche i dolori più forti si attenuano. Passa, come tutto nella vita, scriveva Chiara nell’ultima pagina di Nel bosco di Aus.
Ecco, su questo aveva torto: non passa.
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Il Ricordo
di Loredana Lipperini
13
di roberto gerilli
P
Simone
Bianchi
e i supereroi made in italy
Wolverine Origins
Volendo fornire alcune note biografiche più dettagliate, possiamo dirvi
che Simone Bianchi è nato a Lucca,
quarant’anni or sono ed è cresciuto a
pane e fumetti (come ogni disegnatore che si rispetti). Il suo primo lavoro,
una striscia umoristica, lo pubblica a
soli quindici anni sulle pagine de Il Tirreno e nella seconda metà degli anni
’90, dopo una discreta gavetta su varie
testate regionali e nazionali, raggiunge
www.simonebianchi.com
CoverArtist
er
presentare
Simone
Bianchi sarebbe sufficiente
citare tre degli editori per cui
ha lavorato e lavora tutt’ora: Bonelli,
DC Comics e Marvel. Tre colossi che
hanno fatto e fanno la storia del
fumetto e che riassumono gran parte
del panorama immaginifico di un
appassionato italiano (e non solo).
Con il nuovo millennio inizia a insegnare anatomia per fumetti nella
Scuola Internazionale del Fumetto di
Firenze e inizia a farsi conoscere anche
fuori dai confini nazionali tanto che nel
2005 viene scelto dalla DC Comics per
illustrare la miniserie Shining Kinght, su
testi di Grant Morrison. Bianchi stesso
definisce questo evento come lo spartiacque della sua carriera. Il lavoro gli
dà visibilità internazionale. Inizia a collaborare assiduamente con la DC creando le copertine di molte serie (tra
cui Green Lantern, Batman e Detective
Stories) e l’anno successivo “attraversa
la strada” e firma un contratto in esclusiva per la Marvel. Per la casa editrice
fondata da Stan Lee, Bianchi lavora su
moltissime serie tra cui Wolverine Origins, Astonishing X-Men (per cui ha il
compito di ridisegnare i costumi dei
supereroi mutanti), Dark Avengers XMen: Utopia, Thor: For Asgard e Black
Panther The Man Without Fear.
Simone Bianchi è al momento uno dei
più noti disegnatori italiani nel mondo e siamo orgogliosi di poterlo ospitare qui, nelle pagine digitali della nostra rivista.
14
15
pensi che italiani e americani diano lo
stesso significato al mondo dei fumetti?
Speechless: Hai avuto la fortuna di lavorare sia in Italia che negli Stati Uniti. C'è
molta differenza nell'approccio al lavoro
artistico?
Simone Bianchi: No. Forse, in particolare
alla Marvel e alla DC c’è un pochino più di
libertà, nel senso che nel fumetto Bonelli,
di cui io sono lettore accanito, ci sono delle restrizioni di gabbia tradizionali che ti impongono delle scelte un po’ più forzate. Da
questo punto di vista forse negli Stati Uniti
c’è una libertà di interpretazione della tavola scritta più arbitraria.
S: Da un punto di vista culturale, invece,
SB: Questa è una bella domanda. Forse
in America è ancora più percepito come
pura forma di intrattenimento, almeno
per quello che riguarda le 2 grandi Case
Editrici, che non come forma di espressione culturale. Però anche là le cose si stanno un po’ muovendo. Tanto per fare un
esempio, Alex Ross ha appena terminato
un’esibizione personale di ampio impatto emotivo e mediatico al Museo di Andy
Warhol.
S: La rivalità tra la Marvel e la DC Comics è molto sentita dai fan. È un antagonismo di facciata o è radicato anche nei
rispettivi ambienti di lavoro?
SB: Direi che è piuttosto radicato. C’è
uno spirito di squadra quasi cameratistico abbastanza evidente e percepibile “su
entrambi i lati della strada” come dicono
loro.
S: Quanto lavoro c'è dietro a una
tua illustrazione completa? Qual è
il tuo approccio verso una nuova
commissione? Quante e quali fasi di lavoro intercorrono tra l'idea iniziale e il prodotto finito?
SB: Dipende moltissimo. Guarda, fino a
circa 2 mesi fa era bozzetto in piccolo- riferimento fotografico per lo studio delle
luci e delle pose – matita dettagliata – china, per poi passare il lavoro al mio colorista Simone Peruzzi e da questi al lettering.
Negli ultimi tempi ho eliminato i riferimenti fotografici e passo direttamente da
una matita veloce, istintiva su foglio A3,
alla china. Ho cercato di semplificare il
CoverArtist
la fama illustrando la prima edizione
di Nembo e Rivan Ryan e venti tavole di
Brendon per la Sergio Bonelli Editore.
I suoi lavori vengono molto apprezzati
tanto che nel 1998 vengono esibiti accanto a quelli di illustri colleghi come
Will Eisner, Andy Kubert e Adam Kubert.
Astonishing X-Men
processo perché il risultato finale fosse più
immediato, diretto, fresco. Ho avuto la sensazione che nei vari passaggi si rischiasse di
perdere una parte di quella carica che avevo
visto in fase iniziale.
S: Quali fumetti ti hanno colpito tanto da farti sognare di diventare
disegnatore?
SB: Tutti quelli della Casa Editrice Corno e il
numero 1 di Nathan Never di Claudio Castellini.
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Thor: For Asgard
S: Quali sono stati gli artisti che ti hanno
ispirato maggiormente? Cosa si prova a diventare fonte d'ispirazione per giovani appassionati?
SB: Claudio Castellini è stato colui che mi ha
dato la voglia di ricominciare a disegnare, poi
Allegory of behing and having
Enrique e Alberto Breccia, Trevis Charest,
Frazzetta, Brom e Phil Hale; Alex Ross e più
recentemente Olivier Coipel, che penso sia
il miglior disegnatore a livello di storytelling
e di interni al momento nell’ambiente. Dopo
di me, ovviamente (risate a profusione). Oddio, riguardo ai giovani, è una percezione un
po’ distorta perché li incontro solo alle fiere,
per il resto dell’anno me ne sto rinchiuso a
disegnare, quindi è quasi una fama virtuale.
Sicuramente quando li incontro e mi manifestano affetto, è un motivo di grandissimo
orgoglio e gratificazione allo stesso tempo.
S: Quali sono state le tappe cardine della
tua carriera? Quando hai capito di essere
un professionista affermato nel tuo campo?
SB: Sicuramente Shining Knight nel 2005 su
CoverArtist
17
18
S: Cosa ne pensi del panorama disegnatori/fumettisti in Italia? E all'estero?
SB: In Italia, tolti ovviamente i grandi nomi
che non hanno nemmeno bisogno che li
citi, su tutti Castellini, Villa, Mastantuono, ovviamente Toppi, Frezzato, Dell’Otto,
Age of x
Carnevale, di giovani mi piacciono moltissimo Matteo Scalera, Michele Bertilorenzi e
non fra i giovani perché è molto affermato,
mi piace molto il lavoro di Carmine Di Giandomenico.
S: Qual è l'opera di cui vai più fiero?
SB: A livello di visibilità e prestigio, il fatto
di aver ridisegnato i costumi degli X-Men. A
livello creativo, Thor per Asgard e questa ultima run di Evolution.
S: Quali sono i tuoi progetti futuri?
SB: Ritirarmi e finalmente consegnare queste braccia al mestiere che più compete
loro: l’agricoltura. Scherzi a parte, ce n’è
uno enorme ma per la prima volta, per darvi la misura di quanto è segreto, dovrò firmare un Contratto di Riservatezza!
CoverArtist
testi di Grant Morrison è stato lo spartiacque. Per la prima volta ho avuto attenzione
non solo dai lettori Italiani ma anche a livello internazionale, per ovvi motivi di distribuzione. Al di là della scontatezza del fatto
che a livello creativo non c’è veramente mai
un punto di arrivo, da un punto di vista di
riconoscibilità e di fama sicuramente il fatto
di frequentare le conventions e fare signing
anche all’estero e vedere un certo seguito ti
dà una sensazione positiva su quello che sei
riuscito a fare fino a quel momento.
Colossus
uncanny xforce
19
20
rubrica di di elena raugei
Cat Power – Sun
Alt-J – An Awesome Wave
e per sua madre, che ne è in simbiosi l’alter ego.
Ho osservato, mi sono svuotato e riempito, e
l’album non poteva far altro che assecondarmi”.
A dispetto degli arrangiamenti curatissimi e dei
tanti strumenti impiegati, Questo dolce museo è
nel complesso maggiormente uniforme, delicato
e avvolgente: “Sto aspettando i pareri altrui, ma
senza dubbio è un lavoro molto diverso dal primo
disco, che di base aveva un ritmo più vario e un
impasto timbrico più acustico”.
Fiori si rapporta al meglio con la nostra
tradizione cantautorale, da Lucio Dalla a Enzo
Jannacci, e al contempo esalta la sua verve
eccentrica: “Credo che Dalla e Jannacci fossero ben più eccentrici di me. Se si vive con pudicizia, curiosità e responsabilità, l’essere artista
giorno per giorno è sintesi tra memoria storica
e innovazione”. La poetica, immediatamente riconoscibile, dosa sensibilità e ironia, così come
citazioni alte e basse, da Hemingway al SuperTeleGattone: “Mi fa piacere che la mia poetica
sia riconoscibile, che di mio si leggano poesie,
racconti o canzoni. Il mix di sensibilità e ironia,
attitudini che vanno abbastanza di pari passo, è
caratteristica di altri colleghi, come Dente o Brunori Sas. Basti poi pensare a eccellenti esempi
del passato quali Pier Paolo Pasolini, Enzo Biagi,
Carmelo Bene e Federico Fellini. Se un testo non
viene fuori, vuol dire che non è pronto o che addirittura non c’è, quindi – anziché perder tempo nel
cercare di estrapolare qualcosa di poco auten-
L'
eroina del cantautorato minimale e sofferto torna con un
album spiazzante. Fa tutto da
sola: compone, suona, canta,
produce. Una svolta elettronica, qua e là screziata di venature etno, che tende verso
l’esterno con immediatezza e
si lascia a tratti illuminare da
un nuovo ottimismo.
È
nato il folk step, è arrivato l’esordiochiave del 2012. Premendo Alt e J sulla
tastiera di un computer Mac appare il
triangolare simbolo Delta, che nelle equazioni
esprime cambiamento. La band inglese cambia
a sua volta le regole dello storytelling fondendo
tradizione e modernità.
The Xx - Coexist
C
on l’omonimo debutto
ci aveva consegnato
uno dei capolavori degli anni Zero. Ora il trio londinese conferma le belle promesse
con un pop che unisce il calore
soul delle voci alla glacialità
dell’elettronica, avvolge con
cupezza o si fa ballabile preservando intimismo. Da ascoltare
in cuffia.
Yeasayer – Fragrant World
A
lchimisti neo-psichedelici al terzo album, i tre artisti newyorkesi proseguono
nell’ibridare dance, funk e R&B, trame
sintetiche, ritmiche tribali, nuance esotiche, voci
filtrate e infettive melodie freak. Specchio di un
mondo stimolante, dove i confini di genere sono
stati per fortuna aboliti.
David Byrne & St. Vincent – Love This Giant
L'
ex leader dei rivoluzionari Talking Heads, nome di punta della new
wave, e una delle più innovative songwriter di oggi, capace di destrutturare la forma-canzone con la sua chitarra elettrica, uniscono le forze per un disco realizzato a metà. Pop-rock sperimentale con fiati
sontuosi.
Musica
Alessandro Fiori
T
21
valore in quanto oggetto fisico”. A proposito di
Betti Barsantini, duo fondato assieme a Marco
Parente, e Assodifiori, in coppia con Alessandro “Asso” Stefana, il futuro si prospetta in
fermento: “Il debutto dei Betti Barsantini sarà
molto pop, fresco e diretto, venato di punk. Mi
aspettano anche l’uscita del primo album di
Assodifiori e del vinile Cascata, a mio nome”.
Per surreale conclusione, cosa racchiuderebbe
Alessandro Fiori nelle teche del suo personale
museo? “Un orto coltivato con amore, un pollaio, una cagnetta, dei funghi porcini e parecchia
legna da ardere”.
GRANDANGOLO
ZOOM
ra i songwriter più originali in circolazione, Alessandro Fiori ha alle spalle la lunga esperienza come cantante e paroliere
dei pirotecnici Mariposa: “La mia band-madre,
con cui sono partito e arrivato dove sono. Abbiamo fatto tante cose con libertà e forse un po’ di
spocchia. Comunque, ci siamo creati un nostro
piccolo spazio con cocciutaggine e coerenza
d’approccio, non perché pensassimo che l’indie
avesse bisogno di noi ma perché semplicemente
noi stessi avevamo bisogno di noi. A novembre
dell’anno scorso sono uscito dal gruppo perché
non riuscivo più a dare e ricevere come prima”.
L’esordio solistico del 2010, Attento a me
stesso, era stato annunciato come “Il disco del
moto a luogo”, mentre il nuovo Questo dolce
museo come “il disco dello stato in luogo”: “Ciò
che scrivo è filtrato, è il mio olio essenziale e il
mio divenire. Ciò che scrivo sono io ancora più
di me stesso e non comprende la teatralità della
rappresentazione esperienziale, gli (auto)inganni
del relazionarsi, del trovarsi un posto, darsi un
senso e così via. Capisco qualcosa di me solo
ascoltando i miei brani, che a volte infatti non capisco bene. Attento a me stesso è stato fondamentale, legato a un momento di passaggio con
cambiamenti: “moto a luogo” perché la mia
vita è approdata altrove. Questo dolce museo,
invece, è nato all’ombra di una creazione unica,
più grande: mia figlia. È una frenata, una pausa
durante la quale forze e ingegno bruciano per lei
tico – preferisco dipingere”. Ecco, la pittura è
da sempre una passione, tanto che il musicista
toscano ha curato personalmente la copertina
di Questo dolce museo: “La veste grafica è in
sintonia con lo spaesamento generale. Sono
impaziente di vedere mia figlia disegnare, la
prima modalità espressiva alla quale ancora
oggi mi dedico. Con la mia compagna abbiamo
inaugurato l’Ibexhouse, studio/laboratorio dove
sono già state ideate le confezioni dei miei ultimi cd e dei miei prossimi progetti, Betti Barsantini e Assodifiori. L’artwork trasmette al disco
direzionalità comunicativa, oltre che dignità e
Come sempre Pixel Rubati
ruba. Oppure accetta quello che viene gentilmente offerto. Come in questo
caso: un'e-mail mandata da
un'amica che l'ha ricevuta da un'altra amica che
a sua volta gliel'ha inoltrata, eccetera eccetera.
La pubblico senza tagli,
cambiando solo i nomi per
proteggere colpevoli e innocenti.
Statemi sani, buone letture
e continuate a inviare al
solito
[email protected]
P IX E L
RUBATI
di GIOVANNI ARDUINO
e
da lle m ill e sf um aterzur
iamo?)
(altro che solo cinquanta,
ma sch
e poi forse lui scortica e IMPRIGIONA me che
è anche meglio perché come ho letto sul Panorama che mi ha prestato Graziella il sogno
di ogni donna è di essere sottomessa e poi
in fondo siamo tutte un po' geishe, non trovi
ciccia?, e insomma credo che si stia rivelando
una parte nascosta di me e ASSOLUTAMENTE lo devo a questa scoperta e in ufficio stamattina ho iniziato a parlarne con la stagista
ventenne che, poverina, con il contratto che
si ritrova, anzi il non-contratto, ih ih ih, vabbe'
è giovane e deve fare esperienza, e ti dicevo
che lei mi sembra un pochino stanca e le ho
detto che forse aveva bisogno di più PEPE e
le ho fatto l'occhiolino come credo mi abbia
fatto la cassiera e lei mi ha risposto che è
stanca proprio perché il PEPE non manca e
ha sorriso e alla fine ci siamo fatte una risata,
anzi, no, forse ho riso solo io e lei ha continuato a sorridere, ma non importa, tanto ho
iniziato a scrivere dei commentini a lato delle pagine dei romanzi e sottolineare le frasi
e le righe che mi sono piaciute di più e poi
li passo a Mario perché impari e li metta in
pratica il martedì e intanto aspetto che arrivino le ordinazioni da internet e ih ih ih, ma
dai, perché non te li compri anche tu così mi
racconti come funzionano per te (ogni tanto
ti vedi ancora con Giorgio? anche se non è
un quadro non dovrebbe fare troppa fatica a
capire questi libri), perché devi smettere di
leggere solo Fabio Volo e Federica Bosco e
Massimo Gramellini anche se come scrittori,
ASSOLUTAMENTE, tanto di cappello... ciao
ciccia come sempre ti voglio un mondo di
bene, smack <3 <3 <3
Editoria
24
Ciao ciccia... ti volevo raccontare di questo libro, anzi, non è uno ma sono tre, me li
sono comperati all'iper perché in libreria mi
vergognavo un po', all'iper li ho mischiati alle
barrette pesoforma e al tonno al naturale e
nessuno se ne è accorto, anche se mi pare
che la cassiera mi abbia fatto l'occhiolino,
vabbe', comunque, ho iniziato a leggere il
primo l'altroieri sera e ho finito il terzo che
erano le cinque del mattino, Mario dormiva
vicino a me perché era martedì e può raccontare alla moglie di restare a casa di uno dei
suoi amici del calcetto e comunque così non
turba la mia singletudine (ti piace la parola?
l'ho inventata, ih ih ih, forse anch'io dovrei
scrivere), e va bene, allora l'ho svegliato e
l'ho scorticato vivo, accidenti se sono potenti questi libri, e sono anche scritti bene, cioè
non ti senti come se avessi visto un porno,
le descrizioni fanno morire (sono anche un
po' ironiche, ih ih ih) e poi ti insegnano delle cose, sono meglio di un manuale, tipo, io
la storia del contratto in un rapporto mica la
sapevo, e poi lei è così dooolce e lui, pensa,
lo dice nel libro che fotte senza pietà, quindi
puoi capire, e comunque si amano, lo senti
proprio, alla fine si vogliono sposare (non che
io lo farei, ih ih ih, con gli anta vicinissimi e
la singletudine che adoro tranne quando sono
sola) ed è un'idea così carina, dooolce anche
questa, e mi ha fatto capire che il sadomaso
(si chiama così, l'ho cercato su google) può
essere una novità per qualsiasi relazione e
ho visitato molti siti e ho visto anche molte
robe non descritte nei romanzi e le ho ordinate e poi a Mario lo scortico davvero, ih ih ih,
25
di ELISABETTA BRICCA
N
intervista
on conosco Mrs Satlow di persona,
eppure, girando sul web, mi sono
fatta di lei l'idea di una specie di dea
degli agenti. Rispettata, potente, temuta e
schiva. Non vi nascondo una certa reticenza
nel momento in cui sono andata a contattarla
per un'intervista su Speechless, e la mia sorpresa nell'avere, da parte sua, una risposta
immediata ed entusiasta.
Vicki Satlow, nata americana, e specificatamente bostoniana, trapiantata in Italia da
un bel po’ di anni, rappresenta scrittori del
calibro di Susanna Tamaro, Paola Calvetti e il
giovane Mattia Signorini, solo per fare alcuni
nomi. Crede negli autori che rappresenta, li
sostiene, li tutela. E, soprattutto, ci mette il
cuore.
Ho dato un’occhiata a diverse interviste video da lei rilasciate e sono rimasta piacevolmente colpita dal sorriso di questa donna. Un
sorriso che arriva a illuminare gli occhi.
Somewhere over the raimbow, cantava
qualcuno, e
Vicki sembra
proprio avere
tutte le capacità per portare i suoi
autori oltre la linea
dell’arcobaleno.
S: Qual è la linea della tua agenzia? Su quale
tipo di storie puntate?
VS: Non ho una linea e non pretendo neanche
di saper valutare un libro. So solo quello che
piace a me e mi commuove. Tutto qui.
S: Sei una delle agenti più quotate, e ricercate,
sul mercato editoriale italiano. Quanti manoscritti ti arrivano ogni settimana e cosa deve
avere una storia per colpire la tua attenzione?
VS: Mi arrivano intorno a 20 proposte ogni
giorno e il libro deve catturarmi – o per la
scrittura o per la storia e poi deve lasciarmi in
qualche modo cambiata.
S: Qual è il tuo rapporto con l'autore che scegli di rappresentare?
26
Speechless: Ciao Vicki e benvenuta su Speechless. Cominciamo l'intervista con una domanda un po' scomoda: la crisi, più o meno
confermata, e comunque vociferata, dell'editoria italiana. Cosa dobbiamo aspettarci per
il futuro?
VS: Paradossalmente è la copia di che si vende meglio. Quando propongo una storia fuori
il trend oppure un genere fuori moda ricevo
obiezioni. Eppure tutti i grandi fenomeni (da
VS: Difficile sapere: di sicuro le librerie vanno
in quella direzione e di conseguenza i lettori.
Ma l'e-book e librerie online potrebbero cambiare questo trend.
S: Avresti rappresentato E. L. James?
VS: Ah! Me lo sono chiesto tante volte. Credo di sì. Il libro si fa leggere velocemente e la
tensione drammatica c'è. Certo io, come tutti
gli editori a cui l'ha inviato, mi sarei chiesto se
c'era un mercato.
S: E-book. Ben disposta o contraria?
VS: Assolutamente ben disposta. Il futuro sta
solo negli accordi di vendita, cioè prezzo di copertina.
VS: Di fiducia totale e rispetto. Pretendo che i
miei scrittori si comportino come professionisti e investano in se stessi quanto io e l'editore
investiamo in loro.
S: Cosa rende un romanzo un bestseller?
S: Sentiamo spesso dire dagli agenti che un libro scritto con il cuore, che abbia una propria
voce, è ciò che cercano. Cos'altro deve esserci, secondo te?
VS: In questo momento: Biografia di Agsassi,
Dalai Lama e The Pearl.
VS: Una vera storia da raccontare
Vicky Satlow: Si pretende sempre di più che
l'autore si spenda con la promozione, i media,
presentazioni etc. Le case editrici puntano su
meno titoli ma con più forza di prima. Ma la
richiesta anzi, il bisogno di grandi storie e di
narrazione che commuove rimane. E solo la
collocazione di questo contenuto che sarà
modificato.
S: Classici, storici, mainstream, fantasy, crossover, fantastico quale di questi generi, oltre
i classici, è più semplice da vendere a un editore? E perché? Quali sono invece quelli che
"sopportano" meglio la crisi del libro e che
avranno successo nei prossimi mesi?
S: Omologazione dei gusti. Mi sembra che il
pubblico italiano stia andando sempre più
verso questa direzione. Sbaglio?
27
VS: Se sapessi.....!
S: I tre libri sul comodino di Vicki Satlow?
S: E il tuo sogno come agente?
VS: Poter cambiare il mondo... come tutti i
bambini.
Editoria
Vicki
Satlow:
al cu re delle parole
Harry Potter a 50 shades) sono stati sorprese
inaspettate.
N U O V O
A T L A N RTOE
DEL LIB
di Fabio di Pietro
LA FRONTIERA
Prima Tappa
C'
è chi dice che il mondo dell'editoria libraria è percorso da una grande, ottimistica euforia riguardo alle nuove possibilità
aperte dal libro digitale.
E c'è chi sospetta che si tratti di uno scodinzolio, per imbonire un conquistatore che potrebbe
portare via prestigio e lavoro a molti. Chi ha ragione, se qualcuno ha ragione?
La verità è che noi lavoratori dell'editoria siamo qui, con i nostri scarponi di fatica e il nostro
zaino d'esperienza, e non sappiamo dove andare.
La mappa che ci ha guidati finora non vale più, le
strade che sappiamo percorrere a memoria finiscono sullo sterrato.
Le pianure sono state troppo edificate, le vette spianate. Il pilota automatico ci porta in vicoli
ciechi, ma tanti anni a fidarsi di lui hanno atrofizzato la nostra capacità di trovare percorsi alternativi.
Tuttavia non siamo bambini perduti, siamo
esploratori. Siamo su una frontiera sconosciuta
che ci induce a un'illusoria confidenza, perché i
suoi rilievi somigliano a quelli cui siamo abituati.
La copertina si disincarna, di lei restano i contorni, resta l'aura, resta il profumo. Non è più la
tagliente, garantita arma di marketing che conosciamo e amiamo.
La copertina di un e-Book solitamente è la
stessa dell'edizione cartacea (quando esiste).
Ma come la vedranno i lettori? L'editore non è
in grado di saperlo. Il che, scusate, non è poco.
Tutto dipende da un pugno di caratteristiche tecniche: quelle delle vetrine virtuali delle librerie
online e quelle dei dispositivi sui quali gli e-Book
verranno letti.
Nelle vetrine dei retailer le copertine sono
piccole, a volte piccolissime. Spesso è possibile
ingrandirle, ma non sempre; spesso si può vederne il retro, ma non sempre; spesso le immagini
godono di buona definizione, ma non sempre.
Soprattutto: spesso le copertine saranno a colori, ma non sempre. Su tablet come iPad i colori
sfolgoreranno quasi più che in un libro a stampa,
ma su lettori a inchiostro elettronico come Kindle
la speranza è che il bianco e nero sia davvero elegante come dicono, perché è l'unica possibilità.
“Spesso ma non sempre” è un mantra cui
dobbiamo abituarci. Perché, più sempre che
spesso, la perdita di controllo diretto sul risultato finale dei nostri sforzi di pubblicazione è
un boccone amaro che noi che facciamo i libri
dovremo ingoiare.
Ma ci sono altri bocconi, ben più dolci, nello
stesso pasto: nuove possibilità per costruire e
diffondere i nostri libri, per ascoltare le opinioni
di chi li legge, per scoprire nuove voci e metterle
in contatto diretto e costruttivo con il loro pubblico.
Cosa si può fare dunque con questa nuova copertina così sfuggente?
Le certezze scarseggiano, del resto la frontiera è frontiera perché regolamenti e sceriffi qui
non sono ancora arrivati. Ma le idee sì.
Si può, per esempio, smettere di scannerizzare le copertine cartacee e pensare a copertine
native digitali, decodificabili anche quando lillipuziane, prive di indicazioni non essenziali che risulterebbero comunque illeggibili; copertine audaci
e nuove che mantengono il loro equilibrio sia a
colori che in scale di grigio.
Si può tentare la strada delle live-covers, già
sperimentate da alcune riviste online e possibili
al momento solo sui tablet, ed ecco che la copertina non è più statica ma contiene animazioni e
possibilità di interazione.
Ma la strada più ardita è la più brulla: copertine assenti. E se scoprissimo che, almeno in alcuni selezionati casi, si può fare tout court a meno
della copertina, sposando soluzioni più pratiche?
La nostalgia ci dice che la copertina è irrinunciabile, ma la nostalgia è raramente buona consigliera. Soprattutto esplorando la frontiera.
29
Editoria
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Ma la frontiera è un pianeta diverso. Siamo
esploratori con una bussola lenta, chirurghi di
corpi mutati che non riconosciamo.
In queste pagine proveremo a ricostruire l'atlante e l'anatomia del libro. Faremo il libro a pezzi
con amore e, uno per uno, cercheremo di capire
cosa hanno rappresentato e cosa rappresenteranno. Perché riscoprirci esploratori è la cosa migliore che potesse accaderci: essere professionisti dell'editoria vuole dire essere professionisti
dell'esplorazione.
Da dove cominciare se non dalla copertina, o
meglio dalla “prima di copertina”?
Uno dei più abusati e falsi adagi dell'editoria
recita “non si giudica un libro dalla copertina”. E
chi l'ha detto?
In realtà che un libro si giudichi innanzitutto
dalla copertina è risaputo. Se non altro perché,
mentre ti aggiri per la libreria, non hai altro elemento di giudizio – a meno di non avere attinto a
recensioni e opinioni.
Più di un editor(e) ha scavato profondi solchi
nel parquet, passeggiando nervosamente davanti a una prova appena sfornata dall'ufficio grafico, come la regina di Biancaneve davanti allo
specchio.
La copertina questo fa: seduce. Seduce l'intelletto attraverso la vista. È un finestrino che
promette un viaggio, sempre e comunque: nel
mondo, nella storia o anche “solo” nella mente
umana. Anche una copertina priva di immagini
seduce: lo fa suggestionando con la forza di un
titolo, di un autore, di un marchio editoriale, lo fa
promettendo che tu, potenziale lettore, non sei
certo uno che si fa abbindolare da un'immagine,
tu la sai più lunga, tu hai maggiore discernimento.
Seduce attraverso la sua matericità, con le
dorature e con la carta usomano, con i rilievi e
con gli angoli smussati. Seduce con le immagini,
spesso coloratissime, geneticamente modificate
per sopravvivere alla feroce lotta in trincea sui
banconi delle librerie, all'urlo (silenzioso) di “se
ne noterà solo una”.
La copertina è il biglietto da visita, la locandina e il ritratto del libro. O lo era?
Perché di tutte queste armi di seduzione, nel
mondo digitale, rimane ben poco.
Voci
dallo [spazio bianco]
tra le righe
Così a Urbino saperi e competenze si incontrano
(e a volte si scontrano), dando vita a discussioni, idee,
progetti, riflessioni al cui centro stanno i traduttori, quelle misteriose creature la cui voce, per
usare le parole di Ilide Carmignani, "arriva dallo
spazio bianco tra le righe".
Le Giornate
della Traduzione
Letteraria
di Urbino
Ciò che si respira durante le Giornate è la
disponibilità a confrontarsi di chi partecipa, dai
grandi dell'editoria agli absolute beginners della
traduzione. Si percepisce prima di tutto il desiderio di imparare e di trasferire saperi, la disponibilità a mettersi in discussione e ad accogliere altri
punti di vista, altre visioni del modo di tradurre e
di fare cultura.
D
a ormai dieci anni, nell’ultimo week end di
settembre, Urbino ospita le Giornate della traduzione letteraria, uno spazio in cui
traduttori e scrittori, editori e docenti universitari
si incontrano per esplorare le difficoltà e le sottigliezze di un mestiere svolto per lo più nell'ombra
e in solitudine da personaggi il cui maggior pregio è stato finora ritenuto l'invisibilità.
Un'opportunità che è stata colta al volo e
con entusiasmo da chi crede ancora che i libri si vendano non per la bella copertina (o almeno non solo), ma per ciò che contengono.
Che poi è quello che ha detto Gian Arturo Ferrari nel suo intervento: la crisi che stiamo attraversando è strutturale, e l'unica speranza
per l'Europa del futuro sta nella letteratura,
nel plurilinguismo, nello scambio tra le culture.
A maggior ragione dunque, ha sottolineato Bart
Vonk, ambasciatore del PETRA (European Platform for Literary Translation), è indispensabile
una sempre maggiore sensibilità nel promuovere
non solo traduzioni di qualità, ma anche occasioni
di scambio, di incontro e di crescita professionale per i traduttori, perché è proprio "alla lettura
attenta e ricreatrice del tradurre letterario che è
affidata la trasmissione del patrimonio spirituale
dell'umanità".
Ilide Carmignani, voce italiana di autori illustri
(Sepúlveda e Bolaño tanto per citarne un paio), e
Stefano Arduini, teorico della traduzione, docente di linguistica, direttore del Master di traduzione dell'Università di Urbino (e un sacco di altre
cose), si sono inventati questo spazio nel 2003
per attirare allo scoperto chi si rintanava nel suo
studio, accontentandosi della compagnia dei libri
che traduceva, e che invece avrebbe avuto molto
da dire e forse ancora di più da dare.
Perché spesso, o forse sempre se il traduttore
ha centrato il suo obiettivo, si tende a dimenticare che dietro la maggior parte dei libri letti, studiati e talvolta divorati dai lettori ci sono proprio
loro, i traduttori.
“La traduzione, ha detto Arduini nel saluto di
apertura, è una pratica che si nutre di svariati saperi, che mette in contatto culture diverse e così
facendo costringe a riflettere anche sulla propria
e la trasforma, riempiendo dei vuoti."
Da questi spunti è partito il viaggio in questo
mondo ricco di sfumature, fatto di tavole rotonde
in cui i big dell'editoria hanno illustrato scenari
30
31
futuri e limiti attuali di un panorama in continua
evoluzione.
Lorenzo Enriques (Zanichelli), Stefano Mauri
(GeMS) e Mattia Carratello (Sellerio) hanno indagato l'impatto che l'avvento del digitale avrà
sull'editoria in un futuro che appare ancora nebuloso ma già delineato; Maria Giulia Castagnone
(Piemme) e Alberto Rollo (Feltrinelli), che in passato sono stati anche traduttori, si sono confrontati con Yasmina Melaouah, la voce italiana di
Daniel Pennac, su un tema molto sentito – Quanto costa tradurre? – cercando di contemplarne
tutti gli aspetti, non solo quello economico.
Questi e altri temi ancora sono stati affrontati successivamente nei seminari, analizzando le
problematiche della traduzione da una molteplicità di punti di vista: perché gli editor sono tanto
carogne con i traduttori? Come si fa a diventare
spalle comiche di uno scrittore umorista? Come
ci si regola nel tradurre slang e turpiloquio, cosa
non bisogna assolutamente fare traducendo,
come si revisiona un testo, quali difficoltà si incontrano nel tradurre i titoli?
Ancora, accanto ai laboratori pratici, dove si
impara il vero mestiere più che su tanti libri di teoria, numerosi incontri hanno riguardato aspetti
meno letterari e più concreti: il rapporto tra editore e traduttore, reddito e fiscalità della traduzione letteraria, l'utilizzo di strumenti di ricerca
come i dizionari, cosa può fare un aspirante traduttore per trovare lavoro...
Ma insieme ai contenuti, molto concreti e
mai noiosi, è la passione che anima allo stesso
modo relatori e pubblico a fare la differenza. E a
rendere le Giornate di Urbino un appuntamento
irrinunciabile.
Per saperne di più:
http://traduzione-editoria.fusp.it/giornate-traduzione-letteraria
http://www.facebook.com/GiornateTraduzioneLetteraria
Editoria
di Alessandra Roccato
rubrica
di Christian Soddu
l
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T
O
H
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K
I
L
E
SOM
«
Diamo un'occhiata... L'incipit è tutto...». È la frase
semiseria che tra colleghi
si è pronunciata, qualche volta,
accingendosi a leggere un manoscritto che aspetta da troppo
tempo sulla propria scrivania.
L’incipit, dunque. Senza frugare tra gli immortali, il paragrafo iniziale dell’Informazione di
Martin Amis regala sempre un
brivido di piacere, almeno al sottoscritto. Bret Easton Ellis, che
tiriamo fuori dal secchio del nostro personale “C’eravamo tanto
amati”, è talmente ossessionato
dai giusti attacchi che ha aperto
il suo penultimo romanzo, Lunar
Park, trascrivendo tutti gli incipit
dei suoi libri precedenti.
E sarà perché mi trovo attualmente in California, aeroporto di
Los Angeles, in attesa di salire
sull’aereo che mi riporterà a
Roma dopo aver trascorso tre
settimane a guidare una “rental
car” della Hertz su e giù tra L.A.
e San Francisco; sarà per questo, per aver rischiato seriamente la vita in almeno due occasioni, che ripenso al disturbante «La
gente ha paura di buttarsi nel
traffico delle autostrade a Los
Angeles», con cui inizia Meno di
zero. Un incipit che è riuscito a
circoscrivere uno spazio con un
colpo di forbici netto. Uno spazio fisico, caratteriale, mentale.
E fin qui siamo banali. Ma,
ecco, poi t’imbatti in un Truman
Capote qualunque, che sembra
prenderla alla lontana mentre
in realtà sta partendo sparato
quando apre il suo Preghiere
esaudite con «Da qualche parte
del mondo dev'esserci una filosofa straordinaria che si chiama
Florie Rotondo [...]. Florie, tesoro,
io so bene cosa intendi dire [...]
Perché io ci sono stato al centro
del nostro pianeta [...] E, senti,
Florie: ho incontrato Mostri non
rovinati. E anche Mostri rovinati».
A leggere solo queste sole
righe, non è dato sapere di cosa
diavolo Capote stia parlando.
Non lo sappiamo, ma già capiamo. Lo spazio ritagliato, suggerito e poi piano piano, si vedrà nel
corso del libro, setacciato con
un'emotività pornografica, una
sincerità spudorata che costò
all'autore l'esilio dalla Café Society che l'aveva finora adottato,
è quello di una deformità morale, di una mostruosità tanto più
intatta quanto più incastonata
in profondità nello spesso stra-
to di privilegio, denaro e potere
che pur l'autore corteggiò, frequentò, sedotto e seduttore.
Uno “spazio dell'anima”, abbiamo imparato anni fa a dire
e a scrivere. Un luogo amato e
odiato. E se c’è una categoria
che insegue da sempre e per
sempre l’Ideale che si fa luogo,
questa è la categoria degli scrittori. Gli autori che passano in
casa editrice per fare un saluto
prima delle vacanze estive irradiano cieca fiducia sul fatto che
finiranno il libro grazie all'atmosfera della loro casetta al mare,
e noi possiamo stare tranquilli,
il nuovo giallo del commissario
xxxx sarà pronto per settembre
come da programmazione, ché
lì in riva al lago si scrive tanto
bene...
Lo stesso fantasma estivo,
la stessa magnifica ossessione
del luogo perfetto, di uno spazio-scintilla che inneschi l’idea,
l’opera, rendendo agili le dita
sulla tastiera, nutriva evidentemente quel tizio, quello con la
polo rosa, davvero somigliante a
Capote (giuro, non è autosuggestione né fissazione agostana)
con la sua delicata pinguedine,
e quella «voluminosa testa da
feto» che di lui descriveva Arbasino. Ricordo: l’ho visto starsene
per quattro mattine di seguito
al medesimo tavolo, l'unico di
metallo e non di vimini, nel bar
dell'Hotel Del Coronado a San
Diego. Per noi le vacanze sono
finite ma lui sarà ancora là, sicuro, con quel portatile vecchio
modello, batteria ormai usurata,
la spina sempre attaccata alla
presa di una colonnina poco
distante.
Uno scrittore!, ho subito pensato dopo averlo notato la prima volta. Uno
scrittore in cerca di suggestioni
all’Hotel Del Coronado è come
dire Rocco Siffredi nell’harem di
un sultano immune da gelosia.
Uno scrittore senza quel tipo di
fama che rende immediatamente riconoscibili, e che in questo
hotel ci resterà per i prossimi
quattro o cinque mesi, finché
conto in banca o ispirazione non
li separi...
Lui e l’hotel, intendo. Un hotel
che, se i tanto abusati “luoghi
dell'anima” esistono, è il re di
questa specie che mai rischierà
l’estinzione. Costruito nel 1880,
un gregge di bianchi edifici
stretti l’uno all’altro, sovrastati
da tettucci rossi e da una pacchiana torre che lo rende simile
a un castello disneyano... Ma
davanti, verissimi, ci sono solo
il verde e l’azzurro, lucidi prati e
palme spettinate dal vento cal-
33
do, chilometri di spiaggia e oceano Pacifico.
E dietro c’è la storia. Non
quella dei tanti presidenti e
ospiti illustri che hanno soggiornato qui, ma del tempo che è
semplicemente trascorso senza
perdere nulla per strada, trascinando tutto in avanti come
un’onda fino alle nostre rive. Il
più celebre fantasma della California vive tra questi corridoi:
una donna sedotta e abbandonata nel 1912. In effetti, la notte
qui regala qualche scricchiolio e
sussurro di troppo a cui ci siamo sforzati di fornire una spiegazione erotica... E nel 1959,
in quest’albergo venne girato
A qualcuno piace caldo (Some
like it hot), con Marilyn Monroe
e Tony Curtis che s’innamorano
sullo sfondo dei tetti rossi.
Servono, saranno serviti i
tanto vagheggiati luoghi dell'anima ai nostri scrittori quest'estate appena passata? L'uomo
dalla polo rosa avrà concepito il
suo primo bestseller grazie allo
scenario che ha fatto da sfondo
alla più grande commedia della
storia del cinema? Come inizierà
il suo libro? Ci saranno, scommettiamo, l’oceano e l’urlo dei
gabbiani, e qualche carattere
altezzoso, pronto a innamorarsi
o a uccidere qualcuno...
Eppure, stando ai documenti conservati nel piccolo museo
interno all’hotel, pensieri un po’
più terreni spinsero Billy Wilder a scegliere “Del Coronado”
come set del suo capolavoro e
alloggio per la troupe: era relativamente vicino a Hollywood e,
soprattutto, pare che le stanze
fossero piuttosto a buon mercato...
Poca anima. In quel caso è
bastato il genio.
Editoria
32
Io abitavo
a West Egg,
nella parte...
bÈ, quella
meno alla moda
delle due
34
Il fascino discreto
della
Libreria
ualche mese fa, il mercato editoriale fu
scosso da un brivido di panico. Waterstone, la più grande catena di librerie
del mondo anglosassone, chiuse i battenti. Più di
duecento punti vendita abbassarono le saracinesche, lasciando nello sconforto migliaia di lettori.
Si disse che il mercato editoriale si stava convertendo agli e-book, che la crisi economica stava erodendo anche l’editoria. Poche, timide voci
parlarono del fatto che la globalizzazione aveva
colpito anche il mondo dell’editoria, rendendo i
volumi sempre più omogenei e indistinguibili.
Poi, la svolta: un magnate russo acquistò la
catena, la rivoluzionò tagliandone i rami secchi e
impose una nuova filosofia all’azienda: al vertice
di ogni punto vendita doveva esserci non più un
responsabile delle vendite ma un libraio.
Una per-
sona dotata di competenze specifiche, che
unisse skills gestionali, conoscenza del mondo
dell’editoria e una sensibilità verso il territorio
che si sostanziava attraverso una forte presenza
di testi autoctoni e originali sugli scaffali. Un ritorno alle origini, laddove il libraio riveste il ruolo
di guida e consigliere per i propri clienti e non è
più, o non è solo, un addetto alla cassa.
Un libraio. Una parola dal sapore antico, che
racchiude in sé il profumo di un sapere e di una
sensibilità culturale che si sta perdendo.
In Italia esistono centinaia di librerie indipendenti. Sono piccole roccaforti il cui modo di intendere la cultura non è massificato, ma risponde
alle esigenze dei lettori, che istaurano con il libraio un rapporto basato sulla fiducia e sul riconoscimento reciproco. Il rapporto fiduciario e di stima
rappresenta il quid, quel valore aggiunto che le
librerie di catena non hanno, in quanto coloro
che vi lavorano non hanno una conoscenza e una
competenza tale da poter accogliere il lettore in
maniera adeguata. Nelle librerie di catena, il lettore è un cliente (magari con una tessera fedeltà,
come al supermercato), e il libro è un prodotto.
«Si tratta di commessi e non di librai» commenta
Romano Montroni, autore de I libri cambiano la
vita (Longanesi, 2012) e consulente del progetto
Librerie Coop. «La libreria indipendente ha un’anima e una sua voce, ed è il luogo di elezione dei
forti lettori che in quella sede possono soddisfare
le loro particolari richieste.»
Queste considerazioni possono fornire una
chiave di lettura importante sul ruolo e sulla condizione delle librerie indipendenti in Italia. La crisi
economica ha investito il mercato editoriale trasformandosi in una spirale drammatica da cui si
fatica a uscire. Mentre le case editrici affrontano
la crisi abbassando i prezzi e sfornando testi dalla qualità risibile – saturando il mercato di cloni –dall’altra parte la piccola editoria deve fare i
conti con le esigenze di una progettualità a lungo
termine che non sa se sarà in grado di mantenere, stante i costi della produzione. Oltretutto, vi
sono i costi della distribuzione che incidono sul
libro inteso come prodotto finito.
Mentre i grandi gruppi come RCS, Mondadori,
Feltrinelli, Gems possono sostenere una politica
di sconti poiché si avvalgono di proprie linee di
distribuzione, ciò non è possibile per le piccole
Editoria
Q
di stefania auci
case editrici, che devono pagare la distribuzione
dei volumi. In questi casi le promozioni attuate
in libreria finiscono per ridurre drasticamente i
ricavi sia delle case editrici che delle librerie. Un
piccolo esercizio commerciale non può sostenere una serie di sconti sul lungo periodo poiché il
prezzo di copertina è composto quasi per il 50%
dai costi di distribuzione. Ovvio che le librerie
online possono praticare una massiccia politica
di sconto, poiché la distribuzione viene ridotta al
minimo.
Ultimo anello della filiera produttiva è, appunto, la libreria. Ma mentre la libreria di catena ha
alle spalle una struttura finanziaria che la sorregge, la piccola libreria indipendente deve lottare
contro le difficoltà economiche, confrontandosi
con la tirannia dei distributori e i vincoli imposti
dalle case editrici. «La concorrenza delle librerie
35
Prefazione di Barbara Baraldi
Saggio conclusivo di Vanna de Angelis
affonda le radici in una visione mitteleuropea
della cultura intesa come ricchezza e orgoglio di
una nazione.
Dunque, vengono premiati i negozi di libri che
“fanno le librerie” e non quelli che spesso mescolano i volumi a gadget e ad accessori per la casa,
come accade nelle grandi catene. Nelle librerie
indipendenti è il libraio a scegliere cosa mettere
in vetrina o quali testi privilegiare: accanto al libro del calciatore o al soft-porn di turno – utili per
ottenere dei ricavi economici – piazzerà il romanzo dell’autore sconosciuto edito da una piccola
casa editrice di qualità. E sarà merito suo, e del
passaparola tra lettori, se magari quel romanzo
arriverà a una platea più vasta, così come è accaduto per alcuni casi editoriali degli ultimi anni.
La libreria indipendente è un luogo d’amore.
In essa il libro vive della sua fisicità, in essa il
lettore può sfogliare il testo, coglierne la bellezza segreta. E il libraio acquista un potere quasi
sciamanico, poiché la sua saggezza e la passione
permettono la conservazione di un sapere che altrimenti andrebbe perduto: quello delle emozioni
che solo alcune storie sanno dare al nostro cuore.
37
Editoria
Dal 31
Ottobre
online
di catena è spietata, poiché esse possono avvalersi di privilegi e promozioni sui libri che aggirano la Legge Levi. Questa legge ha avuto il merito
di frenare la corsa agli sconti selvaggi, ma non
è sufficiente per tutelare le librerie indipendenti
o le piccole case editrici che non hanno risorse
adeguate», commenta Montroni, il quale cita il
caso della Francia e della Spagna, stati in cui la
percentuale di sconto sui volumi non può superare il 5%. «Si tratta di legislazioni chiare, e non
soggette a interpretazioni fumose come invece
accade per la legge italiana.»
Eppure, nonostante il quadro economico sia
così cupo, molte librerie indipendenti resistono
alla crisi meglio delle rivali di catena, e anzi, segnano timidi progressi nel fatturato. Come mai?
I fattori sono molti. Le piccole librerie sono legate al territorio in cui vivono, ne respirano umori
e sensazioni, ne conoscono i bisogni e i limiti; il
libraio conosce il proprio bacino di utenza e, nello
stesso tempo, egli è dotato di una competenza
strettamente legata alla sensibilità personale.
Egli sa cogliere i gusti e le necessità dei lettori,
soprattutto se esercita da molti anni il mestiere;
attraverso tale capacità può fidelizzare il cliente
alla ricerca del testo di nicchia o organizzare gli
scaffali mettendo in luce testi che altrove prenderebbero polvere. La vera ricchezza delle librerie è data dalla qualità dei testi che esse sono in
grado di offrire e che sfuggono alle logiche massimaliste e di mercato, oltre che dalla ricchezza
dell’assortimento.
Parole chiave sono qualità, varietà, originalità.
«Se la qualità del rapporto tra cliente e libraio è
alta ed è coniugata a una saggia gestione aziendale, allora la libreria indipendente può sopravvivere a questa fase di crisi, così come dimostrano
gli ultimi dati sulle vendite» spiega Montroni, il
quale sottolinea come i lettori, in questa fase
storica, siano spesso alla ricerca di una guida
nella scelta dei testi da comprare. «Il libraio non
è un consulente di vendita: è un patrimonio umano ineliminabile», conclude. E di questo si sono
resi conto da tempo in Germania: per diventare
libraio è richiesto un curriculum che prevede la
frequenza di una scuola per librai di durata biennale, una approfondita conoscenza del mercato
locale e una legislazione fiscale agevolata per
l’avvio dell’attività. Un modo di concepire il ruolo
del libraio assai diverso da quello italiano e che
38
Una rubrica di
di MANUELA SALVI
dell’infanzia, pari opportunità, genitori attenti, lotta alla sessualizzazione precoce e simili? L’argomento principesse, infatti, pare farsi
sempre più scottante, visto che al momento
sembrano essere le dirette predecessitrici di
soubrette, squillo e cantanti dal multiplo orgasmo – almeno nell’immaginario delle ragazzine che si affacciano alla pubertà.
Gli editori quindi rilanciano. Dicono basta
alla principessa in rosa e sostituiscono le scarpette di cristallo con un paio di quintali di armatura medievale.
Biancaneve scende dal letto di rose e se la
deve vedere con il rozzo cacciatore, il quale le
dà una mano a riconquistare il regno perduto
di suo padre, ora nelle grinfie della perfida regina con lo specchio fatato. È il caso di “Biancaneve e il cacciatore” libro-film (non è chiaro
se sia nato prima l’uno
o prima l’altro) uscito di
recente.
La storia rivaluta la
figura della principessa
inerme che deve essere
salvata e relega l’apparizione del principe a
un evento di contorno,
talmente marginale da
non diventare nemmeno, in effetti, il lieto fine
della versione classica.
Prenditi le responsabilità di una vera principessa, sembra dunque
suggerire il tema. Pensa ai sudditi invece che
ad arricciarti i capelli. Il
modello Elizabeth che
vince su Sissi, anche
in “Mirror Mirror” con
39
Julia Roberts regina cattiva, altro film biancanevoso uscito qualche mese prima e sempre
incentrato sulle doti da condottiera della principessa in questione. Ma senza il libro.
Altra fiaba, invece, altro libro-film: “Cappuccetto rosso sangue”. Il lupo di giorno è un
ragazzo, ma quale dei tanti che girano intorno
all’incappucciata Valerie? Triangolo alla Twilight, amore impossibile, tante scene di mantello rosso che spicca sulla neve bianca, lui con
ciuffo alla Edward Cullen ma in versione castana. Mmmmh.
Per quanto interessante da un punto di vista del marketing, comunque, l’operazione
appare piuttosto piatta e piena di cliché inevitabili, perché forse non basta una spada per
fare di un personaggio passivo un’eroina. E
probabilmente in “Biancaneve e il cacciatore”
l’espressione persa di Kristen Stuart non aiuta.
Per trovare qualcosa di interessante, invece, tocca andare un po’ più a fondo. Uscire dal
cinema, tornare subito nel sottoscala e tirar
fuori da sotto una pila di Licia Troisi originali un
titolo che purtroppo non è stato molto sotto i
riflettori italiani – perché non è ancora uscito
il film e forse non uscirà mai, visti i costi di realizzazione di un mondo futuristico alla Blade
Runner che ammicca alla Cina.
Ma il riflettore eccolo qui, adesso: si chiama
“Cinder”, scritto da Marissa Meyer (un’altra
Meyer, sì), pubblicato da Mondadori, e racconta la storia di una Cenerentola del futuro.
Anche qui c’è del ferro, ma niente armature:
Cinder è, infatti, un cyborg che, al posto della scarpina di cristallo, ha un piede di metallo
troppo piccolo per la sua altezza. La matrigna
cattiva la schiavizza, approfittando del fatto
che a Nuova Pechino i cyborg sono apprezzati
meno degli scarafaggi, ma Cinder è un bravissimo meccanico e incontrerà il principe ereditario proprio grazie a questa sua dote.
Gli ingredienti ci sono tutti, compresa una
zucca-automobile, e le copertine – sia quella italiana che quella americana – si sforzano
di presentare una Cinder sexy e in linea con
la favola originale, ma la vera forza di questo libro sta proprio nel suo tema centrale e
nell’inquietante domanda: come reagirà il bel
principe quando scoprirà che la ragazza da cui
sembra tanto attratto appartiene alla razza
più disgustosa e maltrattata del Pianeta Terra?
Diversità. Bellezze mozzafiato che ipnotizzano e ingannano (vedi la cattiva regina della Luna) e difetti che incantano. La
realistica sensazione di ruggine e bulloni in
un corpo di ragazza, che sembra voler svelare la fragilità che si nasconde sottopelle.
Una storia avvincente, scritta meglio di molti
best-seller dello stesso filone, originale nonostante le premesse.
Perciò viva Cinder. Cenerentola coraggiosa che zoppica ma non si arrende. Nemmeno a stare relegata nel sottoscala…
Editoria
Q
uaggiù nel sottoscala – il luogo riservato alla letteratura per ragazzi, come
abbiamo accennato nello scorso numero – ogni tanto si fanno le Grandi Pulizie,
mettendo in naftalina la roba vecchia ma principalmente riciclando il riciclabile. Quasi mai si
ha il coraggio di buttare via qualcosa, perché
è impossibile prevedere cosa tornerà di moda
all’improvviso, cosa può essere spacciato
come Classico Contemporaneo e cosa invece
ha solo bisogno di una rinfrescata per tornare
sugli scaffali. Michael Morpurgo e il suo “War
Horse” insegnano: si può stare nel sottoscala
per trent’anni e rinascere a nuova vita grazie
al cinema hollywoodiano. Per esempio.
In tempi di crisi, perciò, il riciclo è decisamente incoraggiato. Gli editori si sono guardati intorno e, dopo aver per anni infiocchettato,
glitterato e lucidato le
fiabe classiche – leggi:
le principesse – in ogni
modo concepibile da
mente umana, si sono
accorti che quelle bambine travolte dallo tsunami rosa cristallo sono
cresciute. Sono ormai
delle teenager smaliziate
e probabilmente hanno
già scoperto qualche falla nella teoria del Principe Azzurro e del vissero
felici e contenti.
Cosa fare?
Come lenire la delusione?
Soprattutto:
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accontentare le numerose associazioni (anglosassoni) di protezione
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(perché questa non è una
categoria che vale nel valutare le traduzioni), ma in modo
efficace, affascinante, capace
cioè di ‘prendere’ il lettore o lo
spettatore, bisogna tenersi il
più possibile vicino al punto di
vista della cultura di partenza.
Ossia veicolando nel testo quei
modi di pensare, quei modelli
di cultura che suscitino il sentimento della alterità, non della identità o della omogeneità.
Per me aveva ragione Antoine Berman, che concepiva la
traduzione come un “albergo della lontananza”,
un luogo aperto e generoso, dove far spazio
all’altro. Se riduco Plauto a un
testo romanesco, usando il
linguaggio di Belli o di Trilussa,
o a un musical alla Garinei e
Giovannini, avrò anche fatto
un bel pastiche, che molti intellettuali mi loderanno, avrò
‘avvicinato’ il testo antico alla
cultura contemporanea e diffusa – quella che già so, che
già ho – ma avrò perso una
grande occasione: ossia far
sentire al pubblico che cosa
prova uno schiavo in una società dove ce ne sono migliaia,
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e riscritture, quando si tratta
di operazioni creative; dall’altro sulla ricezione, quando si
tratta di riflessioni a carattere
saggistico o erudito. Questo si
vede bene dalla enorme quantità di libri e Handbook dedicati, in Europa o in America, alla
ricezione dell’antico dal Medioevo alla contemporaneità.
Sa che cosa mi hanno chiesto
di scrivere, alcuni amici americani, per un reader dedicato
a Nerone? Un saggio sul Nerone di Petrolini. Come spiegare questa inflessione presa
dagli studi classici nel mondo?
Tutto sommato, questo a me
continua a sembrare un segno di ‘noia’ verso i classici,
un modo per liberarsene, per
parlar d’altro senza dichiararlo
apertamente. Come dire: non
siamo ancora in grado, o non
abbiamo ancora il coraggio, di
fare a meno dei classici – ma
più che di Sofocle e del suo
Edipo re, preferiamo parlare di
Pasolini.
S: Tornando alle traduzioni: spesso le traduzioni
contemporanee di opere
greco-latine, pur nel loro
rigore filologico, restano
lontane dal lettore e perdono la loro capacità di
generare effetti. È possibile ovviare o si ricade nella ormai nota divisione tra
traduzioni source-oriented
e target-oriented?
MB: La traduzione non è
un’operazione letteraria – e
mi dispiace molto per chi
continua a pensarlo – ma
culturale. Questo significa che,
per tradurre non dico “bene”
41
terzina abbastanza ingenua,
ma che piacque, e ancora gli
piace, a uno dei classicisti
più brillanti che ci siano in
circolazione, Alessandro Fo.
Eccola: “Studiando queste
cose / dovremmo divertirci, /
non renderle noiose”.
S: Un errore comune, quando si parla del mondo classico, è dare per scontato
che il nostro lessico, molto simile dal punto di vista
del significante a quello
antico, conservi quegli
stessi significati. Tra noi
e gli antichi c’è un’innegabile affinità, a cui però va
contrapposta la necessità di una giusta distanza.
43
Come conciliare i due opposti, e quali ripercussioni
si riscontrano nell’atto del
tradurre?
MB: Proprio così, fare antropologia del mondo antico
significa prima di tutto questo: ripartire dalle parole,
dal loro significato, dalla loro
contestualizzazione culturale.
Faccio un esempio. Di fronte a
un vitello nato con due teste
o a un crimine particolarmente efferato i Romani dicevano
che si trattava di un monstrum:
proprio come noi parliamo allo
stesso titolo di un “mostro”.
Solo che per loro questa parola, connessa a moneo, “far
ricordare”, indicava che quella
nascita o quel crimine costituivano appunto qualcosa ciò
che ci ammonisce, che ci fa
pensare. A che cosa? Al fatto
che gli dèi sono irati con noi,
e dunque bisogna trovare le
pratiche giuste per placarli.
Dietro il mostro dei Romani
si spalanca un orizzonte religioso totalmente assente nel
nostro caso, perché la nostra
cultura, a dispetto della sua
origine, è molto diversa da
quella romana. Tutto ciò rende
più difficile tradurre dal latino,
o dal greco, certo, perché viene meno l’illusione che esista
fra le nostre lingue quella “intimità culturale” che ci hanno
insegnato a dare per scontata:
ma rende la traduzione anche
molto più interessante e più
degna di esser fatta, perché
non solo illumina la cultura degli antichi, ma, per contrasto,
anche la nostra
S: Il nostro concetto di
traduzione deriva da un
misreading, da un fraintendimento dell’umanista
Leonardo Bruni. A traductum si è dato un significato che il termine non
aveva nel latino classico.
Questo errore, che per
un filologo sarebbe un
obbrobrio, dà però una
spinta propulsiva al nascente mondo moderno:
almeno un aspetto della
cultura occidentale deriva da un errore di interpretazione. L’anacronismo
ha dunque una funzione
positiva?
MB: In realtà non possiamo
sapere se Bruni si fosse davvero sbagliato, o se invece si
Editoria
che cosa prova un padroncino
che dispone come amico di
uno schiavo (forse che oggi ne
esistono?), che cosa significa
invocare una divinità in una
società dove ce ne sono centinaia (non una sola o nessuna,
come nelle nostre), e così via.
Pensare che la “cultura”, soprattutto nel senso che a questa parola dà l’antropologia,
sia per forza noiosa, è molto
ingenuo! E denota anzi scarsa
‘cultura’ (nel senso tradizionale di questo termine).
S: Nel Suo saggio, Lei spoglia il concetto di traduzione da quelle connotazioni,
proprie del nostro mondo,
ma estranee sia all’antichità, sia a popoli non
occidentali. È stato difficile astrarsi dalle proprie
strutture concettuali?
MB: È sempre difficile
compiere questa operazione,
perché significa ogni volta
decontestualizzare non solo
ciò che si legge o si sa, ma
direttamente se stessi. Per
me però è l’unica operazione
che vale la pena di compiere,
perché è l’unica capace di
rendere interessanti le cose
che si studiano, non solo la
cultura classica, ma qualsiasi
cultura, anche quella in cui si
vive. Del resto, a che serve
studiare se non a questo? Forse
a scrivere 150 pagine sulle
riscritture di Seneca nel teatro
goliardico della Germania
fra 1568 e 1632? Una volta,
era credo il 1983, scrissi una
recensione in cui lamentavo
la capacità annoiativa, se mi
si passa il neologismo, degli
studi classici, che era e resta
formidabile. Composi anzi una
44
S: I più importanti “riscrittori” contemporanei
di opere classiche sono
di origine anglosassone
o post-coloniale. Come si
spiega che i fondamenti
della cultura occidentale vengano inglobati nella incandescente fucina
post-coloniale, caricati di
nuovi sensi e livelli di intertestualità e riproposti
all’Occidente come nuovo
canone?
MB: Per rispondere, posso
formulare un paradosso: i
classici sono un rimorso, una
necessità, una specie di voce
interiore che non ne vuol
sapere di stare zitta. Qualcosa
di cui liberarsi ma, contemporaneamente, che ‘bisogna
avere’. Così li vediamo spuntare nei territori più lontani, disparati, imprevedibili: riscritti
(o semplicemente riappropria-
ti) da gente che, proprio a motivo della marginalizzazione
che ha subito, rifiuta di essere
esclusa dai classici. Del resto,
non mi pare un fenomeno diverso da Heitor Villa-Lobos
che compone delle “Bachianas Brasileras”? Bach in fondo
all’Amazzonia è come Omero
nei Caraibi.
ché gli studi sulla fortuna
dell’antico non sono presenti in ogni dipartimento
di lettere antiche, e perché stentano ad affermarsi grandi progetti editoriali
sulla ricezione dell’antichità? Einaudi, Carocci e
altri editori minori si stanno muovendo in quella
direzione, ma si è ancora
lontani dai progetti inglesi di Oxford e Blackwell.
45
S: In un Paese a tradizione
classica come l’Italia, per-
L’antico non riveste attrattiva editoriale?
MB: Gli studi sulla recezione, in realtà, stanno fiorendo
abbastanza anche nel nostro
paese, e l’insegnamento di
queste discipline è presente
in molti dipartimenti. Che poi
alcuni classicisti non sentano
il bisogno di rendere interessanti i testi che studiano, o la
cultura che dicono di interpretare, è un altro discorso – e
questo vale non solo per gli
studi sulla ricezione ma per
tutto il resto, come già dicevamo prima. Quanto all’editoria,
ahimè, non mi pare che crisi,
lentezze o timori riguardino
solo le opere sul mondo antico. Riguardano un po’ tutto.
Il problema è che i libri, in generale, godono cattiva salute.
Ma non nel senso che stanno
male quelli su carta e bene,
poniamo, quelli che si leggono sui supporti informatici (il
mito dei milioni di libri resi
accessibili da Google…). A
godere di cattiva salute sono
in generale i testi, su carta o
su schermo non fa differenza.
I testi intesi come stringhe di
caratteri dell’alfabeto, assai
lunghe, che registrano pensieri strutturati, argomentati, che inglobano altri testi in
forma di citazioni o materiali,
che mirano a raggiungere conclusioni, suscitare domande,
rispondere ad altri testi in un
dialogo, etc. etc. Confronti
tutto ciò con un twit, un sms
o un post su Facebook, e tragga le sue conseguenze… Ma
questo, ovviamente, è un altro
discorso!
Editoria
fosse preso una libertà con il
latino, coniando un fortunato
‘solecismo’. Comunque esistono molti casi di creative misreading, come dicono gli Americani. Se qualcuno che ama
il latino vuol divertirsi, può
leggere a questo proposito
l’Hommage to Sextus Propertius di Ezra Pound!
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very breath you take, ovvero la più sdolcinata e la più inquietante delle canzoni sentimentali. Dove amore fa rima con controllo
e la passione diviene un certificato di proprietà.
Un pezzo del 1983 che potrebbe fare da colonna
sonora al libro dell’estate, la trilogia delle 50 sfumature (di grigio, di nero e di rosso) che ha spopolato tra le signore del belpaese (e del globo).
Scritto da E. L. James, pseudonimo di una lady
middle class (è di nascita britannica!) con marito e figli che passerà alla storia come la madre
di tutte le porn mum, il volume ha sdoganato al
grande pubblico tematiche e stilemi del BDSM
(acronimo per Bondage, Disciplina, Sadismo e
Masochismo). Soprattutto ha inaugurato un sottogenere letterario, il sexy romance incentrato
sul tema della dominazione sessuale, destinato a
tenere banco nel prossimo biennio.
Una formula semplice quella della James: una
21enne vergine (Anastasia, come la più obliata
delle Disney princess) incontra un miliardario
bello, giovane e tenebroso con un debole per il
bondage (Christian Grey, il titolare delle sfumature). Tra loro sembra instaurarsi il classico rapporto padrone-sottomessa, eppure l’amore ha la
meglio su latex e frustini. I due s’innamorano, si
fidanzano e infine convolano a giuste nozze. Nel
mezzo, una lunga serie di amplessi snocciolati
con dovizia di particolari e un’attenzione ai gadget erotici che sfiora il product placement.
Non proprio una trama sensazionale o trasgressiva. Eppure Fifty Shades of Grey è al vertice delle classifiche mondiali, è stato il colpaccio
2012 di Mondadori e ha salvato, da solo, l’annata
del mercato librario italico. A ruota della James
49
Letteratura
48
di Selene Pascarella
Da Cinquanta sfumature
ai sexy mash-up di Jane
Austen: nuove sottomesse,
vecchi padroni e villain
senza tempo nella nuova
narrativa erotica.
sono arrivati da noi i 90 giorni di tentazione di Lucinda Carrington (Newton Compton) e Giocando
con il fuoco di Sadie Matthews (Nord) e non si
faranno attendere a lungo anche le rivisitazioni
soft core di grandi classici.
Nella corsa al sexy mash-up la fa da padrona
come sempre Jane Austen. Le eroine di Orgoglio
e Pregiudizio e Northanger Abbey si cimenteranno con sesso “alla vaniglia” (cioè tradizionale) e
ardito, ma si daranno da fare anche Heathcliff e
Catherine di Cime tempestose, così come Sherlock Holmes e Mr Watson faranno outing regalandoci un bollente male/male romance.
Se persino le protagoniste più toste e indipendenti delle letteratura sentono il bisogno di farsi
scollacciare, sorge davvero il dubbio che E. L. James si sia fatta portatrice di un’istanza sottovalutata ma forte. «Nel momento in cui le donne
sono in ascesa nei posti di lavoro – ha scritto la
giornalista del Newsweek Katie Roiphe – consumano ardentemente miriadi e disparate fantasie
di sottomissione», in grado di offrire loro «un
sollievo, una pausa, un’evasione dalla noia e dal
duro lavoro dell’essere eguali». Un’affermazione
che racconta l’andamento del dibattito suscitato
dal successo di 50 sfumature, che si incastra nella sterile dicotomia tra perbenisti e libertari, femministe e post-femministe, dimenticando il punto
di partenza. Nell’equazione donne di successo
uguale aspiranti sottomesse si cela, infatti, un
doppio inganno.
Il primo è quello, vecchissimo, delle “donne
che comandano”. Comandano, ovvero soverchiano il legittimo primo sesso, ma nel farlo smarriscono la loro “vera natura” scavandosi da sole la
fossa esistenziale e condannandosi all’infelicità.
Il secondo si fonda su uno slittamento, graduale ma irreversibile, tra sfera privata (e sessuale) e dimensione sociale. Perché se c’è un
elemento indiscutibile in Fifty Shades è che Anastasia non è disponibile (non subito) a subire dal
suo fiancé punizioni corporali, ma gli permette
su due piedi di controllare ogni aspetto della sua
vita relazionale e lavorativa. Il che rende completamente sbilanciato il rapporto di potere tra
i due. Benché Christian non eserciti il suo ruolo di “signore” BDSM e se non nelle fasi finali
della trilogia, il suo dominio è stato gettato fin
dalle prime battute. Quando sceglie (e paga) per
Ana i costosissimi vestiti o l’automobile luxury,
50
Imposizioni irragionevoli, che dovrebbe rifiutare categoricamente, ma finisce per
accettare di buon grado. Uscendo dalla
“logica del dominio”, che è prerogativa maschile, per sposare quella dell’obbedienza.
Sembra che a sussurrarle all’orecchio ci sia
Costanza Miriano, l’autrice del pamphlet
Sposati e sii sottomessa (pubblicato nel
2011 da Vallecchi). Il capo della casa è il
marito, sostiene la Miriano. «Nel dubbio –
consiglia alla sposa – comunque obbedisci.
Sottomettiti con fiducia».
Christian Grey è un maniaco del controllo, «ma è il suo maniaco del controllo». Il
dominio che vuole esercitare su di lei diventa un’eccentricità d’amore, perdonabile;
i suoi, rari,domi ripensamenti capolavori di
gentilezza, concessioni quasi immeritate
dalla fallace sposa. Che, quando si ribella,
finisce sempre per creare disastri, comportarsi
male, trovarsi in mortale pericolo. Accettando, a
posteriori, la verità: Anastasia ha sposato il suo
stalker, ma l’ossessiva vigilanza del marito è giustificata dalla minaccia che si annida ovunque,
appena varcata la soglia domestica.
Al contrario grandi vantaggi si prospettano
alla giovane signora Grey quando si dimostra arrendevole. «Dovrai imparare a essere sottomessa
– a scrivere è ancora la Miriano – come dice San
Paolo. Cioè messa sotto, perché tu sarai la base
della vostra famiglia (…) È chi sta sotto che regge
il mondo, non chi si mette sopra gli altri». A una
lettura superficiale parrebbe la stessa affermazione della McKenna, eppure c’è stato un ribaltamento. Non c’è nessuno scambio bidirezionale
di potere, nessuno sbilanciamento dell’equilibrio,
se non il caro vecchio “sorridi e stringi i denti”.
È un inferno domestico, ma viene spacciato per
Henry Miller
ovvero
la differenza tra “scandaloso” e “osceno”
P
Illustrazione© Dan Panosian
rati che sotto la superficie possa essere quello
disperato. Dall’altra parte assicurati che quello
vulnerabile abbia alcune carte da giocare a proprio vantaggio e lascia che l’equilibro si sposti,
lasciando tutti in bilico».
Anastasia si attiene al decalogo BDSM, ma rinuncia alla regola base, quella dell’indipendenza.
Si diverte a letto ma fuori dalle lenzuola è una
persona dimezzata. Cammina sulle uova, costantemente macerata dalla paura che Christian «si
arrabbierà». Perché è uscita da sola, ha preso il
sole in topless o, semplicemente, non ha spazzolato tutta la cena come una «brava bambina».
51
ubblicato per la prima volta nel 1939, Tropico del
capricorno è stato bandito per oltre vent’anni dalla
censura Usa per i suoi contenuti “osceni”. La tardiva
“riabilitazione” (era il 1961) da parte del Dipartimento di Giustizia (avvenuta contestualmente al Tropico
del cancro), ha promosso il volume da libro erotico a
“grande romanzo americano” e trasformato il suo autore in un’icona vivente.
Quando il sistema stabilisce che l’opera di Miller
è “letteratura” e in ciò massima, intoccabile, espressione del pensiero nazionale, la rivoluzione sessuale
e l’impatto delle controculture sono ormai inevitabili.
Del resto anche l’avvento della poetica beat sarebbe
stato impensabile senza le feroci, patetiche e scanzonate scorribande on the road di Miller.
A settembre Feltrinelli (che portò il romanzo in
Italia per la prima volta, nel 1964) ha ripubblicato il
volume (entrambi i Tropici), nella mitica traduzione di
Luciano Bianciardi. Da leggere per riscoprire le ragioni
dell’oscenità di Miller. Fatta di sesso, ma soprattutto
di critica sociale. Sono gli anni ’20 e Miller disseziona
con metodologia surrealista il ventre marcio del suo
paese, a partire dagli uffici di un colosso economico
patrio, la Western Union.
Letteratura
acquisisce l’azienda in cui
lavora e le confeziona una
carriera, stabilisce persino
cosa, come e quanto deve
mangiare. Un gap che nega
il presupposto ludico-anarchico della pratica sessuale
a cui il romanzo dovrebbe
essere consacrato. Tant’è
che non si perde occasione
per ricordare che l’attrazione di Christian per il masochismo affonda nel suo passato di bambino maltrattato
e adolescente abusato da
una donna di mezza età.
Per BDSM s’intende, invece, un insieme di pratiche
sessuali che si muovono
all’interno dello schema relazionale dominatore-sottomesso, ma si fondano sulla
consensualità. I ruoli sono
interscambiabili e possono
essere rivestiti indifferentemente da uomo e donna;
il rapporto deve garantire
soddisfazione reciproca e in
caso ciò non avvenga può
(deve) essere immediatamente interrotto ricorrendo
a una safeword, una parola
d’ordine di sicurezza scelta
in precedenza. Qualsiasi deroga a queste regole sposta
la relazione nel campo, ben
diverso, del sadomasochismo. Come dicono i protagonisti di Fifty Shades:
«Il nostro scopo è il piacere». Per ottenerlo va
bene qualsiasi cosa, dalla ball gag al divaricatore
anale, purché si resti nel campo della sperimentazione gioiosa, ludica e libera e il role playing
alla base della pratica non intacchi la parità tra
gli individui che vi prendono parte.
Un meccanismo efficacemente spiegato da
Cara McKenna all’interno del manuale How to
Write Hot Sex: Tips from Multi-Published erotic
Romance Autors (curato da Shoshanna Evers per
la Createspace nel 2011). «Se un personaggio
dall’esterno sembra avere tutto il potere, assicu-
assassini, amanti gelose, arrampicatori sociali.
E se le rinunce di Bella per amore sembrano
imparagonabili a quelle di Ana (perde addirittura l’anima!) lo scotto di quest’ultima per l’happy end è ben più alto. Non c’è per lei speranza
di ribaltare l’equilibrio di potere nella relazione
con Christian, al pari di Bella, che chiude il suo
cerchio come potentissima immortale, capace di
imporre la propria volontà su quella del compagno. Dopotutto questa è la vita reale, bellezza!
L’ultima immagine di Ana è quella di una soddisfatta porn mum di extra lusso, una sottomessa
col pancione, incatenata a un letto, emblema del
«legame tra fare l’amore e dare la vita» che – parola di Costanza Miriano – rende il sesso «avventuroso e coraggioso» e il legame matrimoniale a
un uomo «divertente, naturale», la risposta – con
frustino – ai «nostri bisogni» di donna e ai «desideri di felicità».
Non resta (a lei e a noi) che sperare che questo ruolo non le venga mai a noia, che il suo bel
maritino non le sussurri come serenata l’inno internazionale dello stalker…
Oh can't you see
You belong to me?
How my poor heart
aches with every step you take…
Letteratura
la favola del «per sempre felici e contenti», un
traguardo che le single possono solo sognare.
Chiedetelo alla povera Genevieve di 90 giorni
di tentazione, una over 30 che era triste e sola
e nemmeno lo sapeva, non prima di incontrare
un playboy dominatore deciso a farne una donna
onesta.
Non bisogna dimenticare la particolare genesi
di 50 sfumature, concepito come fan fiction della Twilight Saga per un pubblico adulto. Come
Bella Swan, Anastasia è insicura, goffa, con una
spiccata tendenza al sacrificio. Ha una madrebambina e un papà-roccia, una suocera che incarna un modello materno irraggiungibile, pur se
non fondato sul vincolo di sangue. Christian, d’altronde, non è un vampiro, ma si dipinge come un
«mostro», un uomo senza cuore. «Stammi lontana!» ammonisce la sua principessa (proprio come
Edward), ma non può staccarsi da lei nemmeno
un minuto. Allora impone il ritmo della relazione
e anche quando sembra cedere alla spontaneità,
cambiare il proprio armamentario di regole sessuali ed emotive, sta solo abiurandole in nome di
un codice superiore. Un codice cavalleresco fatto
di legami eterni, promesse nuziali, protezione del
nucleo famigliare da orribili e agguerriti villain.
Che non sono vampiri ma molestatori, potenziali
52
Le inglesi lo fanno meglio
Sadie Matthews sfida E. L. James
con una sexy eroina britannica
Prendere il posto della timida ma focosa Anastasia Steel nel
cuore delle signore che hanno amato 50 sfumature non sarà
facile, ma molte autrici sono in corsa per essere la “nuova”
E. L. James. Tra loro Sadie Matthewes e la sua Beth, l’eroina
di Giocando con il fuoco (Nord, Ottobre 2012, 384 p., 14,90
euro). Sadie, come E. L. James, è una mamma inglese; Beth
è una ragazza di provincia che arriva a Londra con un grosso
peso sulle spalle – è stata tradita e umiliata dal fidanzato storico – e poche aspettative per il futuro. Dovrà badare all’appartamento, nonché al felino, di una parente conosciuta in
famiglia per la sua indipendenza e tostaggine, ma soprattutto
per la sua singletudine. Ma la gattara di successo non è il
destino di Beth, che al primo giorno nella capitale si imbatte
nel più grande colpaccio per una ragazza scaricata. Nel palazzo di fronte abita un uomo bello e impossibile, ricco come si
conviene e con l’immancabile segreto celato dentro al cuore.
Si chiama come il belloccio di una soap opera, Dominic, e la
condurrà «lungo un sentiero lastricato di piacere e sensazioni
uniche». Un successo annunciato…
53
Tra vendette e
compromessi:
uno sguardo sulle
donne
di Maila Daniela Tritto
54
co e veritiero: le svilisce e le fa apparire volgari;
lontane dai normali canoni femminili o dalla quotidianità. È l’immagine della donna di estrazione
tipicamente occidentale; priva di ogni difetto e
felice e soddisfatta della propria vita, sia pubblica che privata. Inoltre, sempre la pubblicità ma
anche le forme editoriali − dal momento che di
editoria e di letteratura si sta parlando −, optano per alcuni mezzi prettamente legati all’eros e,
dunque, ai suoi effetti che non sempre consentono alla donna di rappresentarsi nella sua vera e
propria essenza. Pertanto, l’immagine proposta
è strettamente legata alla perfezione, generando frustrazioni in chi − anche in minima parte −
se ne discosta.
Tuttavia, questa è solo una visione parziale
del genere femminile ma che, in questa sede,
mi interessa in modo particolare affinché possa ricollegarmi ai due romanzi che ho letto per
Speechless: La vendetta (Einaudi, 2012), opera
dell’autrice norvegese Anne Holt − da sempre
interessata alla stesura di romanzi tipicamente
polizieschi o che, comunque, ripropongono le
scene del crimine − e Sono quello che vuoi, romanzo d’esordio di Enrica Aragona (Edizioni La
Gru, 2012).
Fin dai titoli è possibile comprendere come
entrambe le opere affrontino il tema piuttosto
«scomodo» della violenza sulle donne; preferendo uno stile che sia quanto più vicino al romanzo
criminale − nel primo caso − e, nel secondo, al
thriller e all’hard-boiled, con un particolare riferimento alla realtà nostrana.
È facile immaginare, prima ancora di aver letto le sinossi, come le protagoniste siano le donne: fragili nelle loro insicurezze emotive e, tuttavia, disposte a concedersi − senza alcun riservo
− all’uomo che le vuole «sottomesse» e ben
disposte a soddisfare ogni suo desiderio. Tale
situazione rappresenta per le donne un vano
tentativo di conquista della propria personalità
o, almeno, alla comprensione della stessa.
È noto, in effetti, come la letteratura sia in
grado di proporre storie diverse e, allo stesso
tempo, analizzare − più o meno sapientemente −
i tanti contesti di cui l’uomo fa parte. In questo
caso, i romanzi analizzati sono scritti da donne
per indagare, forse con maggiore affinità e attenzione, quella parte del mondo femminile che,
talvolta anche per insicurezza, trova nell’aspetto esteriore − e anche nella trasgressione − una
Letteratura
L
a donna riveste, da sempre, un ruolo importante sia nella letteratura italiana, che
in quella internazionale. Oggetto privilegiato di autori e autrici che ne hanno decantato la
bellezza, inserendola in contesti diversi per farne
emergere i suoi tratti caratteriali. La donna sa
essere gentile, dolce, sensibile, affidabile e costantemente alla ricerca di un uomo che sappia
amarla e proteggerla. Questo, almeno, in linea
generale.
Infatti, benché la donna − al di là della sua
estrazione sociale − spesso, e volentieri, ricopra
il ruolo di moglie e di madre, sa essere anche
forte e indipendente o, al contrario, si dimostra
debole e indifesa. Talvolta incapace di reagire
alle offese e agli attacchi provenienti dall’esterno. Basti pensare, ad esempio, all’ampio panorama mass-mediale che, di frequente, propone
immagini di donne perfette, sia dal punto di vista
estetico che comportamentale. Ne deriva, si sa,
una situazione in cui il mondo femminile cerca
di conformarsi − e uniformarsi − affinché sia di
gradimento al sesso opposto; al proprio partner,
insomma.
Spesso la pubblicità, che è puro prodotto mediale, non rappresenta le donne in modo autenti-
55
57
56
«via di fuga» dai problemi che attanagliano la
quotidianità. Si tratta di romanzi di denuncia
che portano a riflettere sulle intime condizioni di vita, spesso anche nascoste per paura di
compromettere la propria esistenza e gli affetti
personali; o, ancora, la vergogna in un gioco perverso di vendette e compromessi che sviliscono
l’anima. In certi casi, uscire da questo «circolo
vizioso» è complesso, ma non impossibile.
Sebbene gli scritti siano dedicati a due donne in particolare, entrambi si possono definire
corali: rappresentano, infatti, quelle verità, un
po’ taciute, di donne fragili e che non riescono
a far fronte alle situazioni degenerative. Sono,
inoltre, romanzi affrontati con uno stile che
unisce la suspense alla realtà e che potrebbero
incuriosire per l’ardua scelta di aver affrontato
tematiche che si discostano dal panorama editoriale.
Come già precedentemente accennato, si
tratta di donne insicure, alle quali la vita non ha
riservato «sconti speciali» e che, tuttavia, si fanno portavoce − sebbene negativamente − di una
realtà che oggigiorno è affrontata con sempre
più attenzione, anche dagli stessi mass media
che, il più delle volte, fanno emergere il prototipo della donna felice. È la realtà della violenza,
non sempre fisica bensì anche psicologica. Tanto che, poi, il genere affrontato dalle due autrici
Inoltre, viene analizzato il fenomeno del ‘femminicidio’ che, purtroppo, accomuna le donne di
tutto il mondo e che si verifica in particolare in
ambito domestico o nelle relazioni di intimità. È
un fenomeno, questo, che dapprima era nascosto − quasi ci si vergognasse dello stesso − ma
che, in seguito, ha portato le donne alla consapevolezza di sé e alla denuncia. Se, poi, tale
situazione non costituisce solo un episodio isolato ma «la norma» − come nel caso del romanzo di Anne Holt − tutto ciò non può essere non
considerato ed è, quindi, necessario capire chi
o cosa abbia dato origine a una serie di crimini raccapriccianti, che per Hanne Wilhelmsen:
«non sono motivo di rabbia e nemmeno di rassegnazione, ma solo di un’immensa tristezza.»
Tuttavia, e per fortuna, nella realtà ci sono
alcune associazioni femminili che si propongono di denunciare e di prevenire − o almeno
accogliere − quelle donne vittime della violenza maschile. Infine, sebbene il problema vada
affrontato, ciò che la società dovrebbe evitare
− o almeno controllare − sono i possibili attacchi misogini che vanno a ledere uno dei principi
fondamentali: la libertà.
Letteratura
Le opere analizzate affrontano la vita di due
donne: l’ispettrice di polizia Hanne Wilhelmsen,
nel romanzo della Holt, che è la testimone oculare di casi di omicidio e Laura, una ragazza di
ventisette anni, dal passato familiare problematico, nel romanzo della Aragona. Sono, queste,
donne che subiscono − per motivi diversi − lo
sguardo indagatore dell’uomo; quello stesso
sguardo che fa sì che siano un po’ vittime e un
po’ carnefici, in un connubio di «giochi perversi»
in cui non c’è posto per la vita «facile e felice»
tipica dei migliori romanzi rosa, caratterizzati
dal lieto fine e solo per inguaribili romantiche.
diventa assolutamente secondario: l’obiettivo,
infatti, è quello di riportare − seppure letterariamente − episodi di vita, simili a testimonianze.
Donne in Cucina
La Gastronomia Letteraria
di Elisabetta Chicco Vitzizzai
58
C
Bovary – uscito nel 2002 –
ha inaugurato questa collana, quindi si può dire che
Leggere è un gusto sia
nata insieme al suo libro.
Com’è nata l’idea di cimentarsi con un’impresa
così inconsueta, come
scrivere di gastronomia legata alla letteratura?
Elisabetta Chicco: L'idea in
sé è stata dell'editrice Anita
Molino, io l'ho accolta con
entusiasmo e non so perché
ho pensato a Madame Bovary, forse perché a un livello
subliminale ricordavo che nel
di cui tratta? Vuole raccontarci quali sono le fasi
di gestazione e composizione di un Leggere è un
gusto?
EC: Fermo restando che nel
libro o nell'autore prescelto
i cibi e la cucina devono
avere un'effettiva rilevanza, la struttura che do loro
nasce dalle corrispondenze che si creano tra me
e le opere indagate. Virginia
Woolf è una delle scrittrici che amo di più e siccome
circolavano varie leggende
sulla sua presunta anoressia
ho voluto verificare nei diari e
nelle lettere, scoprendo una
realtà del tutto diversa. Virginia frequentò addirittura una
scuola di cucina e sfornava
pane e dolci mentre scriveva
i suoi romanzi meravigliosi, in
cui sono tutt'altro che rari i
riferimenti a piatti particolari.
Per esempio, l'evento centrale nella prima parte di La signora Dalloway è proprio una
cena, il cui piatto forte sarà il
Boeuf en daube. Mi interessa
molto il rapporto tra autrici
e/o protagoniste di romanzi
e la vita domestica, che era
poi la dimensione prevalente
nella vita delle donne di un
tempo. Sotto questo punto di
vista Scarlett O'Hara, la protagonista di Via col vento, va
del tutto controcorrente: non
ha alcun penchant casalingo, poiché preferisce essere
una donna d'azione, ma adora
i cibi gustosi e raffinati della
cucina delle piantagioni e della cucina creola che le vengono serviti.
S:Uno dei capitoli più
interessanti del suo ultimo
59
capolavoro di Flaubert si parla
molto di cibo, come in effetti ho poi verificato. Il cibo in
Madame Bovary non è citato
come semplice elemento di
ambientazione realistica, ma
ha uno straordinario valore
metaforico, come una sorta
di correlativo oggettivo degli
stati d'animo di Emma.
S:Piccole donne in cucina
è, invece, l’ultimo nato della collana, che, negli anni,
si è arricchita di ben 63 titoli. Da Madame Bovary a
Piccole donne è cambiato
qualcosa del suo modo di
approcciarsi alla materia
Letteratura
Piccole (e grandi)
di Elisabetta
Ossimoro
hissà di che meravigliosa colazione si saranno private Jo, Meg,
Amy e Beth, le mitiche sorelle
March, per andare a sfamare i poveri Hummel! Piccole
donne in cucina, l’ultimo libro
di Elisabetta Chicco Vitzizzai,
uscito a luglio 2012 all’interno della collana Leggere è un
gusto (Leone Verde Edizioni),
risponde a questa e ad altre
domande di natura “letterario-gastronomica” legate al
capolavoro alcottiano.
I libri della collana Leggere
è un gusto prendono spunto dagli autori e dalle grandi
opere di letteratura e cinema
per proporre ricette a tema,
condite con brani tratti dalle
opere in questione, a seguire
con riflessioni di critica e storia letteraria e con contorno
di dati biografici e curiosità
sugli autori trattati.
Elisabetta Chicco Vitzizzai (autrice, inoltre, di quattro
romanzi, quattro raccolte di
racconti e alcuni testi scolastici) oltre a Piccole donne in
cucina, ha dedicato altri tre
libri al connubio tra cucina e
letteratura: La cucina golosa
di Madame Bovary, Alla tavola di Virginia Woolf e A tavola
con Scarlett O’Hara, tutti editi
da Leone Verde Edizioni.
Oggi noi di Speechless
abbiamo il piacere di poterla
intervistare, per poter assaporare appieno il lavorio letterario e gastronomico che si
cela dietro questi suoi particolarissimi libri.
Speechless:B e n v e n u t a
Elisabetta. Il suo La cucina golosa di Madame
to, forse anche perché cerca
nello scrivere consolazione e
risarcimento. E poi per pudore familiare non avrebbe certo potuto rivelare al pubblico
l'inettitudine del padre come
capofamiglia.
S:Dopo essersi cimentata
con le opere di Flaubert,
Woolf, Mitchell e Alcott,
ha già in mente quale sarà
l’oggetto della sua prossima fatica gastroletteraria?
Vuole anticiparci che cosa
bolle in pentola?
EC: No, di gastronomico-letterario non bolle alcunché in
pentola. Il prossimo sarà un
romanzo.
S:Delle ricette “alcottiane” ricostruite nel suo libro, ce n’è una che le sta
particolarmente a cuore?
La vorrebbe regalare ai
lettori di Speechless?
EC: Una delle ricette più curiose è quella dei Turnovers,
che Jo e Meg si portavano da
casa per fare uno spuntino
nei rispettivi luoghi di lavoro,
l'una come dama di compagnia di una vecchia prozia,
l'altra come baby-sitter, e che
chiamavano "manicotti" perché , essendo appena usciti
dal forno , scaldavano lungo
la strada le loro mani intirizzite dal gelo invernale.
60
La ricetta dei TURNOVERS
[Per 2 o 3 persone]
e ristrettezze che l’hanno
costellata. Che cosa spiega, a suo parere, questa
scelta così contro corrente, specie in un’epoca in cui i contemporanei
della Alcott tendevano, al
contrario, ad esasperare
sé stessi nei romanzi che
scrivevano?
EC: Non so se i contemporanei di Louisa Alcott tendessero a esasperare se stessi
nei romanzi che scrivevano
(in letteratura l'autobiografia
è sempre anche molto immaginaria): la Alcott descrive
la famiglia che avrebbe volu-
Tritate finemente una cipolla e rosolatela in un cucchiaio di burro.
Aggiungetevi 70 g di carne tritata e
dopo 5 minuti 50 g di formaggio tagliato a pezzettini.
Mescolate continuamente finché il
formaggio risulta fuso.
Lasciate intiepidire.
Ricavate da una sfoglia di pasta sei
quadrati di 10 cm di lato. Suddividete il composto su metà di ogni
quadrato.
Ripiegate schiacciando bene i bordi.
Mettete queste sfogliatine in una
teglia imburrata e infornate a 200°
per 20-25 minuti.
Quando i turnovers sono dorati levateli dal forno.
61
Letteratura
lavoro indaga il legame tra
la biografia della Alcott e
la storia che è raccontata
in Piccole donne e i suoi
vari seguiti, un mito per
tante generazioni di lettori: curiosamente se ne desume che, nella sua opera,
l’autrice ha edulcorato la
propria storia personale, riducendo di numero e
intensità le tante tragedie
racconto
Tre indimenticabili giorni
di Rita Charbonnier
È
ubriaca di un vino scadente perché ha visto quella gran mignotta della sua ex che
gli si avvicinava guardandolo di sotto in su.
Il bambino cattivo fa qualcosa per lei.
La carica sul cassonetto dell’immondizia e la
porta a casa propria e la accudisce per tre indimenticabili giorni e per tre indimenticabili giorni
la ospita nel proprio letto dalle lenzuola umide
di sudore. Lui non possiede una lavatrice e non
apre mai le finestre perché è allergico alla primavera, è allergico alla vita, e nel suo frigo campeggia solo un iceberg quietamente disceso dal
congelatore accanto a una cipolla ammuffita trafitta da un coltellaccio. Ma per lei, oh, per lei
lui compra un chilo di mele gialle e profumate e
per tre indimenticabili giorni taglia le mele gialle
e profumate a pezzettini e la imbocca paterno,
dopodiché alla fine dei tre giorni la rispedisce a
casa e si rimette con quella gran mignotta della
sua ex.
è una scrittrice, sceneggiatrice e
attrice italiana. Nata a Vicenza, ha
vissuto a Matera e Mantova, per
poi stabilirsi a Roma. Ha fatto studi
musicali, ha frequentato la Scuola
di Teatro dell’Istituto Nazionale del
Dramma Antico di Siracusa e il Corso di sceneggiatura della RAI. Ha
recitato in teatro al fianco di celebri artisti, per poi dedicarsi prevalentemente alla scrittura. Ha collaborato come giornalista con riviste
di spettacolo, ha scritto soggetti e
sceneggiature per la televisione, e
tre romanzi: La sorella di Mozart, La
strana giornata di Alexandre Dumas
e Le due vite di Elsa.
Letteratura
È accasciata sul divano e non ha la forza di
spostarsi. Prova a mettersi supina ma lo stomaco le arriva alle narici e l’intestino si annoda su
se stesso e nella sua testa cozzano nubi pesanti
che sovrastano un mare incazzato nero aiuto aiuto qualcuno faccia qualcosa per me. E tutto questo per un bambino cattivo di quarant’anni con
una macchina che assomiglia a un cassonetto
dell’immondizia e l’alito puzzolente di vodka da
due soldi, ma lui non si riduce mai in questo stato, come cavolo fa? Anzi ha un’aria straordinariamente salubre mentre parlotta tutto piacione
sdilinquito e sghembo con quella gran mignotta
della sua ex.
63
Rita Charbonnier
62
65
Le parole del nostro destino:
quando l’amore super a
le porte del tempo
O
verseas è il titolo originale de Le parole
del nostro destino, opera prima di Beatriz
Williams, uscito il 6 settembre per Editrice
Nord. Una parola che, oltre a riferirsi a un poema
citato nel testo (in italiano, Oltremare), evoca un
“oltre” che travalica i confini della ragione, per
arrivare al cuore. Il romanzo della Williams è prima di tutto una storia d’amore, che combina azione e fantastico.
La protagonista, Kate Wilson, è una brillante
analista finanziaria alle prese con una scalata
che sembra inevitabile. Improvvisamente, nella sua vita irrompe Julian Laurence. Un vero e
proprio principe da fiaba, troppo perfetto per non
nascondere un segreto. E infatti, sul più bello,
l’uomo sparisce per cinque mesi, per poi ricomparire, consentendo in tal modo la concretizzazione di quello che è rimasto sospeso. Tutto sembra
risolversi in un lieto fine, finché Kate non viene
licenziata dalla sua azienda, perché accusata
di avere fornito informazioni riservate alla società di
Julian. Da questo
momento la situazione si complica
in un crescendo
di rivelazioni sorprendenti.
Kate scopre
che Julian proviene dalla Francia
del 1916, epoca
in cui si recherà anche lei. La
giovane scopre
che con lui,
viaggiatore nel
tempo, è giunto
qualcuno che si
oppone al loro amore. Come spiegato dalla stessa autrice, Le parole del nostro destino: “combina i due mondi che conosco meglio: l’esperienza
britannica e la Wall Street dei giorni nostri”. E
l’autrice, con la sicurezza di chi conosce bene gli
ambiti specifici, riesce a ricreare una situazione
in cui echeggiano riferimenti a La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo. Rispetto al romanzo
di Audrey Niffenegger, però, la Williams sviluppa
la trama in maniera più lineare, pur presentando
due vicende spazio-temporali parallele.
Lo stile ricalca quello di molti chick-lit di grido,
con una scrittura agile, abbastanza convenzionale, ma improntata su un ritmo cadenzato, che
porta a un crescendo di colpi di scena ben architettati, in cui il lieto fine non sembra così scontato. È proprio il ritmo e l’abilità nella costruzione della trama, oltre al lavoro di ricerca storica
che è alla base del lavoro, quello che spicca, nel
contesto di una storia che riprende elementi già
molto sentiti.
Interessante il disegno dei personaggi; in particolare quello di Julian è ispirato ai soldati-poeti
raccontati da Vera Brittain, altra fonte fondamentale per l’autrice. Da Rupert Brooke a Wilfred
Owen, Beatriz Williams ha attinto a un ampio
repertorio che ha contribuito alla costruzione di
questo personaggio nato nel periodo edoardiano
e cresciuto in quello contemporaneo, evocatore
dunque di un’epoca tramontata, ma non dimenticata. D’altro canto emerge Kate, giovane emancipata, che si scontra talvolta bruscamente con
la mentalità dell’uomo d’altri tempi. Un po’ Cenerentola, un po’ Material Girl, un po’ Lady di Ferro,
Kate non cede troppo alla tentazione del finale “e
vissero felici e contenti”, anzi, vuole mantenere
la propria indipendenza, anche se lo strapotere di Julian, in un certo senso, sembra avere la
meglio. Rispetto al personaggio di Julian, c’è un
altro lato della medaglia che solleva perplessità
64
Letteratura
di Roberta De Tomi
e riguarda la capacità all’adattamento alla vita
moderna, poco credibile. Il giovane è un superuomo di quelli che ormai dilagano nel paranormal
e nel romance. Esseri talmente eclettici e perfetti da non sembrare umani, come il Christian Grey
di Cinquanta sfumature di grigio, che, pur nella
peculiarità del modo di amare (o di non saper
amare), sa fare tutto. Come in lui, però, anche
in Julian c’è uno sprazzo di umanità; e il poetasoldato resta il principe che deve cedere alle esigenze della sua Cenerentola emancipata.
:
e
s
o
l
o
c
i
r
pe ndo l'amante è un teenager
qua
I
Traduzione di Marco Piva-Dittrich
l 17 luglio Dalai Editore ha dato alle stampe un
romanzo particolare: La scuola dei giochi
segreti della newyorkese Rebecca Coleman,
autrice che Speechless ha incontrato per una
chiacchierata.
SPEECHLESS: Rebecca, grazie infinite per
aver accettato il mio invito e benvenuta
su Speechless. Allora,
cominciamo con una domanda standard: ti va di
presentarti al pubblico
italiano? Chi è Rebecca
Coleman?
REBECCA COLEMAN:
Grazie di ospitarmi! Beh, ho
una vita interessante... vivo
vicino a Washington D.C.
con i miei quattro figli e mio
marito, che è un vigile del
fuoco. Sia io che mio marito abbiamo finito per fare i
lavori che speravamo di fare
quando eravamo bambini.
Interessante, no?
S: Sveliamo alcuni retroscena. The kingdom
of childhood è il tuo romanzo d'esordio ma
non il primo che hai scritto. Quanto è stato
difficile il percorso per arrivare alla pubblicazione? E quanto ha inciso il tipo di storia
che proponevi?
RC: Di solito gli scrittori si sentono dire che, se
il romanzo è ben scritto,quando il lettore ha finito di leggerlo gli (o le) sembrerà come un sogno estremamente vivido. Sarà scorrevole come
se l'autore lo avesse scritto di getto. Quello che
di ALESSANDRA ZENGO
il lettore non vede è l'enorme lavoro di revisione che necessita. Per lo meno, questo è vero
per quanto riguarda The Kingdom of Childhood.
È stato difficile da scrivere e ancora più duro da
far pubblicare, e rappresenta tutto ciò che ho
imparato a proposito della scrittura negli anni
precedenti mentre lavoravo su altri progetti. Ma
quando il libro arriva nelle mani del lettore tutto
questo lavoro dovrebbe essere invisibile. Mi è sempre
piaciuto scrivere storie che
parlano di gente che proviene da gruppi e comunità
piccole, perché sono curiosa di vedere com'è la vita
in tali contesti, mi piace
cercare di immaginarmela.
Non è stato facile con
"Kingdom", perché molti agenti avevano creduto
che mi fossi inventata di
sana pianta il concetto delle scuole steineriane, da
quanto bizzarro e incredibile era loro sembrato. Non si
erano resi conto che esistono davvero.
S: Dicono che il rapporto scrittore/editor
sia abbastanza travagliato. Come hai vissuto questo "cambiamento" dalla scrittura
amatoriale a quella "professionale"? Quanto ti ha aiutato essere seguita da un editor
nel tuo percorso di scrittrice? (Curiosità:
qual è stata la prima impressione del tuo
editor a The Kingdom of Childhood?)
RC: Sono fortunata, perché ho un ottimo rapporto
con la mia editor e considero i suoi suggerimenti e
6667
ebecca Coleman non racconta una storia
d'amore. Non c'è traccia di sincero affetto tra
Judy McFarland, una maestra d’asilo quarantatreenne, e Zack Patterson, uno studente di sedici anni
dalle maniere impertinenti. Il laccio che li tiene
avvinti è l'ossessione. Judy riscopre la giovinezza
grazie alla relazione proibita con un minorenne,
mentre Zack viene iniziato ai dolci piaceri del desiderio fisico.
L'autrice disvela lentamente, con un'efficace alternanza temporale tra passato e presente, quei
«moti dell'animo» in continuo divenire che agitano i due protagonisti. Il lettore penetra nella sfera
emozionale di Zack e Judy, viene a conoscenza dei
loro sentimenti e delle loro motivazioni, ma non
riesce a condannarli. Li condivide, invece, li sperimenta, li comprende.
The Kingdom of Childhood, questo il titolo originale, è un romanzo disturbante, ma coinvolgente.
Coleman narra le vicende con maestria e precisione; lo stile, lineare e coinvolgente, accompagna il
lettore nella psiche dei protagonisti, rendendo ancora più vivida ogni azione, più sentita ogni scelta.
Assolutamente consigliato.
le sue idee preziosi. Chiaro, certe volte non sono
d'accordo, ma cerco di rimanere flessibile e aperta alle sue critiche. Sia lei che il mio agente sono
stati preziosi perché mi hanno dato un sacco di
consigli e hanno tirato fuori il meglio dalla mia
storia. Non penso mi sia stato particolarmente
difficile accettare le critiche, perché sono estremamente ambiziosa e volevo che il mio libro
fosse abbastanza buono da essere pubblicato, e
quindi avevo la volontà di lavorare duro. Ma poi
una notte mi sono ritrovata a piangere al telefono
con la mia migliore amica perché avevo paura di
non essere in grado di rendere il libro bello come
avrebbero voluto loro. È stata una sfida enorme.
La prima impressione che la mia editor ha avuto del libro è stata estremamente positiva. Le è
piaciuto tantissimo, il che mi ha dato una grande
soddisfazione: è bello vedere il proprio lavoro apprezzato e compreso.
S: I punti di forza del tuo romanzo sono sicuramente i personaggi e la perfetta descrizione della loro psicologia. Come sono
nati? E, soprattutto, scrivendo ti sei immedesimata in loro, nei loro sentimenti e nel
loro controverso e torbido rapporto?
RC: Grazie! La prima idea che avevo avuto di
Judy, l'insegnante, non funzionava. Me l'ero immaginata molto timida, confusa. Il libro non ha
preso vita finché non l'ho cambiata rendendola
molto più aggressiva. Con Zach, il teenager, volevo dipingere un bravo ragazzo che si ritrova in
una brutta situazione, non quello che va a fumare
di nascosto in bagno e ha un sacco di ragazze. In
entrambi i casi ho pensato che dovessero essere
complessi, non degli stereotipi. Quando mi chiedi
se mi ci rispecchio... sì, mi ci posso identificare
nel senso che, come molti, ho avuto relazioni
che non mi davano nulla di positivo ma piene di
passione e molto confuse, relazioni nelle quali mi
sentivo impelagata e dalle quali non sapevo come
uscire. Naturalmente non ne ho avuta nessuna
con un teenager, ma la domanda è interessante:
cosa succede se qualcuno ha quel tipo di feeling
nei confronti di una persona con la quale avere
una relazione è illegale? I rischi sono più alti, ma
i sentimenti non cambiano. E magari, chissà, il
rischio la rende ancora più eccitante.
S: A cosa ti sei ispirata per scrivere questa storia? Da dove è nato l'imput iniziale e quanto questa storia rispecchia la
Letteratura
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Avevo fatto cose
terribili, e non erano
ente
neanche lontanam
le che
paragonabili a quel
re.
mi restavano da fa
68
con dei minorenni, e molte di loro ammettono di
aver manipolato i ragazzi esattamente in quel
modo, di aver insegnato loro a mentire riguardo
a quello che stava succedendo. Se sei costretto
a comportarti così, com'è possibile che si tratti
di amore? Per quanto riguarda evitare il gap generazionale... non ne ho idea! Mio marito ha tre
anni più di me, e quando in radio sentiamo certe
canzoni che gli piacciono lo prendo in giro dicendo "Ah, quella è uscita prima dei miei tempi". Non
riesco a immaginare cosa succederebbe in una
relazione con una persona molto più vecchia o
molto più giovane. Di che cosa si può parlare?
S: C'è stata una parte particolarmente difficile da scrivere o particolarmente sentita?
RC: È stato difficile scrivere la scena nella quale Zach e Judy sono in camera da letto e lui ha
paura che la gente stia iniziando a capire cosa
sta succedendo e quindi cerca di interrompere la
relazione. Lei gli parla con un tono affettuoso, lo
conforta, ma in realtà lo sta manipolando e lui
non se ne accorge neanche e finisce per andarci
di nuovo a letto. Scene come quella sono state
durissime da scrivere perché sapevo che Judy si
stava comportando in una maniera orribile, ma
dovevo scrivere un dialogo amabile, convincente nonostante fossi schifata da quello che stava
dicendo, da come si stava comportando. Da un
lato quel dialogo stava uscendo dalla mia testa,
dall'altro stavo pensando "Se capita mai che una
parla a mio figlio in questa maniera la ammazzo".
S: Qualche progetto per il futuro?
RC: Beh, il mio prossimo libro, Heaven Should
Fall, è uscito da poco negli Stati Uniti, e sto scrivendone un altro che dovrebbe uscire nell'autunno dell'anno prossimo. Parla di una donna
innamorata di due uomini che decide che, invece
di scegliere, preferisce avere una relazione con
entrambi e vivere tutti insieme. Non voglio anticipare troppo, ma posso dire che non va così liscia
come sperava.
Letteratura
concezione della sessualità oggi (ragazze giovanissime con uomini anziani; donne mature con uomini molto più giovani)?
Cosa ne pensi di queste dinamiche?
RC: Non penso che abbia importanza quando entrambi i partner sono adulti consenzienti, ma nella società nella quale vivo insegnamo ai bambini
che fino all'età di 18 anni sono sotto la responsabilità degli adulti e non sono del tutto responsabili
delle proprie azioni. Vedono gli adulti come figure
di autorità e imparano ad obbedire. Il ragazzo ha
imparato che l'adulto è la persona responsabile,
il "capo", quindi non è in grado di essere davvero
consenziente. E, dato che molte di tali relazioni
sono illegali, un adulto non dovrebbe mai essere
messo nella posizione di essere costretto a nascondere un crimine. È semplicemente sbagliato, qualunque cosa dica che vuole il minorenne.
L'idea alla base della storia mi è venuta guardando il telegiornale parlare di una situazione simile:
un'insegnante che aveva un'ottima reputazione
aveva una relazione con un ragazzo minorenne.
Mi sono chiesta, "Perché cavoli una donna vorrebbe rischiare tutto per avere una storia con un
ragazzino?" Non aveva senso per me. E, siamo
onesti, non è che un teenager sia comunemente considerato l'amante ideale. Perché non si è
semplicemente trovata un adulto? Quello mi ha
portato a chiedermi cosa passa per la testa di
una donna che fa una follia del genere, e quindi
ho scritto una storia al riguardo.
S: Non è il caso del tuo romanzo, ma ipoteticamente credi possa esistere l'amore tra
due persone di età tanto distanti? Come superare l'inevitabile divario generazionale
che si presenterebbe?
RC: Sì, penso che l'amore sia decisamente possibile tra due persone con una differenza di età simile. Ma una relazione solida deve avere equilibrio
ed eguaglianza. Nel libro si vede Judy comandare
Zach a bacchetta, e ha così tanta esperienza più
di lui nell'ambito delle relazioni che Zach non sa
neanche come litigare, come interrompere la relazione. Lei lo manipola e lo intimorisce. Ho guardato un documentario che parlava di donne che
erano colpevoli di avere avuto rapporti sessuali
Cosa ci trovo in lei? si chiedeva disperatamente. Che cosa gli dava Judy che non poteva trovare altrove? Perché si ostinava a cercarla, a pensare a lei,
a desiderarla, quando era la persona più sbagliata al
mondo sotto quasi ogni punto di vista? Ma la domanda non era che la sua stessa risposta. Perchè era
proibito. Perché scoparsi una donna su un aereo che
precipita è mille volte più eccitante che farlo in una
camera da letto di una bella casa.
69
Crocevia
di solitudini
interrotte:
70
Miradar
di Ilaria Mavilla
U
Via dei Confini collegava Campi Bisenzio
a Prato. Era una strada a scorrimento
veloce costeggiata da campi incolti
e qualche fabbrica abbandonata. In
fondo, prima del semaforo, un distributore
di benzina e un albergo decrepito con
un’insegna luminosa che funzionava a
giorni alterni, il Miradar. A seconda di
quante lettere decidevano di illuminarsi, il
suo nome diventava Radar, Mira, Ira, Ar.
Avevo bisogno di un lavoro e sapevo che
all’interno dell’albergo c’era un locale, una
specie di discoteca anni ottanta che il
proprietario stava cercando di svecchiare.
Mi presentai a lui per un provino.
n incipit dal sapore vagamente
nabokoviano ci introduce senza troppi complimenti al centro
dell’azione di Miradar, il romanzo che ha
sbaragliato tutta la concorrenza al concorso Il mio esordio, bandito da Il mio libro,
ottenendo la pubblicazione nella prestigiosa collana I Narratori, titolo di punta della
nuova stagione per Feltrinelli. L’autrice, Ilaria Mavilla, 31 anni, dichiara: “Era il primo
romanzo che scrivevo e ho partecipato al
concorso senza aspettative, anche perché
eravamo davvero tanti. Fino ad allora avevo scritto qualche testo teatrale, qualche
cortometraggio, una manciata di racconti.
E credo che ci sia qualcosa di tutto questo
in Miradar, nella sua struttura che intreccia
monologhi. Bellissimo è stato il lavoro editoriale successivo al concorso. Ho imparato
a prendermi cura delle parole e ho visto il
testo lievitare, crescere con me.”
Miradar è un fulmine di 128 pagine in
cui una varia umanità ferita si sfiora, si incontra, si scontra in una contraddanza ruvida e problematica che mi ha ricordato il
film di Paul Haggis Crash – Contatto fisico:
lo contraddistingue una struttura altamente cinematografica, una studiata “poetica
del dettaglio luminoso” che permette al
lettore di mettere a fuoco la storia per gradi, tassello dopo tassello, andando ad incastrare ogni storia nel punto esatto in cui
trova una congiunzione – o una disgiunzione – con le altre.
L’autrice alterna i narratori, dando voce
in prima persona a Margherita, Barbara,
Marilù, Clarissa e Sugar, che “non saranno
gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”, per dirla con De Andrè: papponi, puttane, ballerine di strip club sono i
protagonisti di queste pagine, personaggi
archetipici che celano solitudini inconfessate, sogni di una vita diversa, infanzie di
stenti e violenza.
Ma Miradar è soprattutto un luogo
dell’anima, una nebbia sottile dove ognuno
71
di loro troverà la propria personale resa dei
conti, in una notte di pioggia battente in
cui i destini di tutti finiranno per influenzarsi e compiersi.
Ilaria Mavilla ha scritto un racconto che,
aldilà delle singole storie -alcune più riuscite di altre- conquista soprattutto per lo stile tagliente, quasi “mazzantiniano”, per il
ritmo serrato della narrazione, per la struttura originale e per la sottile poesia con cui
sono finemente dipinti anche i quadri più
squallidi.
Ancorché non un capolavoro, un esordio degno di nota che ci ha permesso di
conoscere una nuova narratrice dalla penna molto personale.
Restiamo in attesa dei suoi prossimi lavori.
Letteratura
di Elisabetta Ossimoro
Nataša Dragnić
traduzione di Roberta Maciocci
Faccia
di Luna
P
aula aveva una sola cosa in testa. Guardava i due bambini. Era così che li chiamava,
ancora, bambini sebbene suo figlio avesse
già trentatré anni, e la ragazza accanto a lui solo
uno di meno. Ma sembravano entrambi così fragili e indifesi.
Deglutì rumorosamente e si allontanò di un
passo dalla finestra. Come se potessero sentirla.
Leggere i suoi pensieri. Come se avessero occhi
e orecchie per qualcun altro a parte loro stessi. I
loro visetti schiacciati, a luna piena, erano luminosi e lei non poté fare a meno di ridere. Essere
così innamorati. Un’altra volta e basta. Sarebbe
meraviglioso.
Vide Jan alzare la mano verso i capelli biondi
e morbidi della ragazza e... certo, sì, la ragazza...
anche se sapeva appena parlare, non sapeva leggere né far di conto, né riusciva a fare nient’altro
di impegnativo, era pur sempre una donna, e le
carezze di Jan le piacevano, chiudeva gli occhi e
piegava la testa indietro. Come in un film.
Gli mise le braccia al collo e rise forte. Paula
sapeva che stava ridendo, anche se il rumore che
le giungeva somigliava più a una tosse profonda.
Secca e in un certo senso... rallentata. Stagnante. La bocca minuscola le scomparve fra le pieghe del volto e Jan cominciò a ridere a sua volta.
Allora, come sempre, si mise la mano sinistra davanti alla bocca, quasi si vergognasse. Anche lui
chiuse gli occhi dietro le spesse lenti degli occhiali e se ne stettero così, in veranda e pensavano,
probabilmente, che il mondo fosse loro.
Paula appoggiò la fronte al vetro della
finestra e chiuse gli occhi. Ma non rise. Sapeva
che il mondo è crudele e non avrebbe permesso
tutto quello. E nemmeno il padre di Ada, nella cui
officina lavorava Jan. Paula lo conosceva, quel
padre. Jan, lo sopportava e basta. Voleva passare da buon vicino, mostrare la sua magnanimità.
Guardate qua, ho assunto un disabile! E nel frattempo, teneva nascosta sua figlia.
Paula aveva scoperto Ada in un pomeriggio di
fine estate, mentre andava a prendere Jan al lavoro. Lui aveva ancora delle cosette da fare, così
Paula scese dalla macchina, si sedette sul cofano
e si voltò verso il sole morente. Chiuse gli occhi e
sorrise per il tepore.
All’improvviso, si sentì osservata, ma non si
mosse e tenne gli occhi chiusi. Cominciò a canticchiare una canzone, una che per anni aveva
cantato a Jan per farlo addormentare, a volte
gliela cantava ancora, se aveva avuto una giornata particolarmente agitata. Canticchiò a lungo.
E proprio quando cominciava a pensare di essersi sbagliata e stava per smettere, sentì un’altra
voce a pochi passi da lei, che provava a seguire la
melodia, senza tuttavia azzeccare una sola nota.
Paula lo sapeva di sicuro, per istinto e un lampo di
conoscenza, un’immagine completa e dei rumori
si accesero nella sua testa.
“Ciao” disse, senza aprire gli occhi.
“Ciao” le rispose una voce rauca e una mano
grande, dalle dita corte si posò sulla sua spalla.
Da allora erano passati tre mesi in cui il paterno
proprietario dell’officina aveva affermato in modo
debole ma insistente di non avere alcuna figlia,
è nata nel 1965 a Spalato,
Croazia. Nel 1995 si è laureata
in Lingue e letterature
straniere e si è specializzata
in studi diplomatici. Vive a
Erlangen, Germania, dove
insegna Lingue nell'università
locale. Ogni giorno, ogni
ora è il suo primo romanzo,
pubblicato in Italia da Feltrinelli.
7273
tantomeno “una così”. Per poi, alla fine, tre settimane prima, ammettere in lacrime che sì, quella
era sua figlia e che se ne vergognava tanto e che
non poteva sopportare quella vita, che non se l’era
meritata, e perché dio l’aveva punito così e sperava che presto finisse tutto e perché la madre era
dovuta morire di parto, che non era giusto e che lui
figli manco ne voleva e che quella era lì come una
palla al piede e lui non ce la faceva più.
Paula gli poggiò una mano sulla spalla e non
poté fare a meno di pensare a quella figlia che,
in quello stato di totale abbandono, seguiva solo
i suoi istinti.
Paula vide Jan sistemarsi gli occhiali sul naso
con un dito e scuotere la testa. La bocca si muoveva piano e Paula era certa che suo figlio stesse
raccontando qualcosa.
Jan aveva sempre un mucchio di cose da raccontare. A scuola, l’insegnante di sostegno aveva
trascritto molte delle sue storie e le aveva fatte
pubblicare sul giornalino della scuola. Alcune le
aveva mandate a dei concorsi e la stanza di Jan
si era riempita di premi e attestati.
Per il suo diciottesimo compleanno Paula gli
aveva regalato un dittafono. Due anni prima era
uscita la sua prima raccolta di racconti.
Paula si asciugò una lacrima dalla guancia. E
ora quello. Per la prima volta nella vita di suo figlio
accadeva qualcosa che le faceva paura: perché
non lo capiva appieno, non sapeva dove potesse
portare e metteva sottosopra la loro vita insieme. E cosa doveva fare, prego, con quel padre
che accompagnava sua figlia da loro, certo, ma
nascosta nel bagagliaio! Nel bagagliaio?! Non
aveva voglia di lottare per un altro figlio. Era sfinita.
Ada rise ancora. La lingua saettò fuori dalla
bocca, rapida e incontrollata e rimase penzoloni
un paio di secondi.
Il sole tramontava, piano. Era una giornata fredda ma senza vento. La casa profumava di sformato di spinaci al forno, il piatto preferito di Jan. Ada
voleva rimanere anche a cena e sarebbero venuti
a prenderla più tardi, al calare del buio. Forse a
quel punto avrebbe potuto persino mettersi sul
sedile posteriore. Ma doveva stare sdraiata. Naturalmente. Non si è mai troppo cauti.
Era venuto il momento di chiamare i ragazzi in
casa. Jan poteva apparecchiare. Oggi si usano i
piatti di plastica. Ancora. Chissà come si comporta Ada a tavola. Come una bambina di tre anni,
al massimo.
Paula fece un profondo sospiro. Molte cose
non le capiva. Padre e figlia, marito e moglie, figlia e figlio.
Mentre Paula bussava alla finestra per far
segno a Jan che dovevano rientrare, non aveva
che quel pensiero in testa. Quella domanda non
le dava pace. Tirò le tende e si coprì il viso con le
mani. Come si può sapere? Essere sicuri al cento
percento? Da cosa si capisce? C’è una canzone
che dice che la risposta sta in un bacio. Lei non
se lo ricordava più.
Jan e Ada stavano lì nel corridoio a strofinarsi
a vicenda le dita gelate. E ridevano.
Letteratura
racconto
di Viviana Filippini
N
on so se vi sia mai capitato di trovarvi in
libreria, di aggirarvi tra gli scaffali e di
fermarvi davanti ad un libro perché avete l’impressione che si rivolga a voi dicendovi:
«Comprami e leggimi». Fervida immaginazione?
Stramba impressione di una appassionata lettrice? Non so, ma vedendomi davanti
Petrolio di Pier Paolo Pasolini (Oscar
Mondadori, 2005) ho avuto questa
sensazione, poi però ho optato per
Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi.
Leggo la trama del libro treviano
e alla fine me ne vado dalla libreria
portando con me anche Petrolio, ed
è proprio la sua copertina – nera per
i tre quarti della superficie – che mi
fa pensare a quel liquido denso con
sfumature marroni e verdi, quell’elemento naturale che si infiamma facilmente e si nasconde sotto la crosta
terrestre. Un liquido torbido che nasconde e brucia, come ardono la mia
curiosità e la voglia di capire il perché
Petrolio di Pasolini ha suscitato nel
corso della sua esistenza tante opinioni contrastanti.
Con il pensiero rivolto all’oro nero
di Pasolini comincio la lettura di
Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi.
Protagonista di questo romanzo/saggio ambientato nella Roma dei primi
anni Novanta è un giovane studioso
trentenne, dipendente del Fondo Pier
Paolo Pasolini. Qui il giovane con il
suo carattere un po’ cinico, ma allo
stesso ingenuo, approda per effettuare un possibile documentario sulle
interviste di Pier Paolo Pasolini. La volontà di
portare a termine il progetto c’è tutta, ma l’ambiente del Fondo e il rapporto con la sua direttrice, detta la Pazza, porteranno il giovane a
crearsi una nuova immagine dell’autore friulano,
morto tragicamente nel novembre del 1975, e di
Nelle pagine di Trevi, Laura Betti non è più la giovane ragazza dei film di Pasolini, ma è una donna
matura, un po’ bisbetica, ossessionata dal cibo
e da Pasolini stesso. Ed è proprio questo amore viscerale, non corrisposto, verso lo scrittore
friulano che l’ha indotta a dare vita a un archivio
interamente dedicato allo stesso, a diventarne
la direttrice e a curarne ogni attività, divulgando
nel tempo la memoria di un grande scrittore, di
un regista, di uno profondo indagatore di esperienze nel mondo dell’arte e della vita di ogni
giorno vissuti fino all’estremo.
Il rapporto tra il giovane e la Pazza costituisce
la cornice strutturale del romanzo di Trevi, entro la quale prende vita un cammino di crescita
e apprendimento molteplice, che non coinvolge
solo chi vive nelle pagine della narrazione, ma
investe – e forse non tutti i lettori se ne accorgeranno alla prima lettura – anche la dimensione del fruitore di Qualcosa di scritto.
Quest’ultimo è un libro, infatti, che racconta
un processo di formazione, o meglio, di iniziazione più che alla vita, alla conoscenza di una parte
del vissuto e di alcune opere (Salò e Petrolio) di
75
uno dei più importanti letterati italiani della seconda metà del Novecento. A dire il vero, il cammino di conoscenza del nuovo non riguarda solo
il protagonista di Qualcosa di scritto, anzi esso
tocca da vicino ogni lettore. Perché? Per il semplice fatto che il giovane scrittore non ha una
identità precisa: non ha un nome e nemmeno un
cognome specifici che permettano a chi legge di
identificarlo con un io certo.
Anonimo, soprannominato Zoccoletta dalla
Betti, permette a chi legge di immedesimarsi
in lui e di compiere un viaggio di comprensione
e conoscenza delle idee e dei substrati socioculturali dai quali hanno preso vita la pellicola
filmica di Salò e in particolare di Petrolio. Questo
volume incompiuto è, a quanto esprime Trevi attraverso il suo alter ego letterario a pagina 120
di Qualcosa di scritto, l’esempio di «una trasformazione radicale e irreversibile di tutto l’essere,
che si manifesta nella formazione di una visione,
o di una serie di visioni».
Lo stampato di Emanuele Trevi, arrivato tra
i finalisti del Premio Strega 2012, propone al
pubblico di lettori un doppio pellegrinaggio, in
quanto, da un parte, chi legge conosce la vita
del ragazzo protagonista nella Roma dei primi
anni ’90, poi arriva nella Grecia culturale dello
stesso periodo e si immerge negli interessi intellettuali del Fondo Pasolini sul finire del secolo
scorso. Dall’altra il protagonista, che a volte può
sembrare un po’ spocchioso, ci accompagna verso la conoscenza dei contenuti e del processo
creativo che hanno caratterizzato Petrolio.
Da subito siamo avvisati che nel suo ultimo
romanzo Pasolini non si presenta al lettore come
io-narratore, ma assume i panni dell’io-uomo
che, raggiunta una conoscenza e consapevolezza tale della vita, può essere identificato come
l’uomo perfetto consapevole del tutto, perché
lo ha sperimentato sulla propria pelle. In origine
Pasolini aveva pensato di realizzare un romanzo
di 2000 pagine circa, nel quale convogliare ogni
esperienza della sua vita. Basti pensare che nel
1975 in un’intervista comparsa su «La Stampa
Sera», il 10 gennaio, Pasolini dichiarava alla giornalista Rossella Re: «Ho iniziato un libro che mi
impegnerà per anni, forse per il resto della mia
vita. Non voglio parlarne (...) basti sapere che è
Letteratura
4
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Quel Qualcosa di s
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che ti porta
alcune sue opere poco comprese dalla critica e
dai lettori, tra le quali l’incompiuto Petrolio.
La Pazza è in realtà Laura Betti, una cantante
e l’attrice che Pasolini spesso definiva «una tragica Marlene, una vera Garbo con sopra al volto
una maschera inalterabile di pupattola bionda».
77
e del contenuto letterario per l’attore principale
di Qualcosa di scritto. I due saranno uomini nuovi
con uno sguardo diverso e puro rivolto al mondo.
Il loro sarà lo sguardo di “iniziati”.
La lettura in simbiosi di Qualcosa di scritto e
di Petrolio è molto utile e la consiglio perché i
lettori impareranno attraverso le esperienze del
giovane dipendente del Fondo quello che Pasolini stesso ha ricercato, ha letto e ha scritto
per dare vita a Petrolio. Un’opera che nelle sue
schegge costruttive fa emergere tutta la volontà di espressione di ricchezza stilistica e delle
tematiche di riflessione più a cuore a Pasolini.
Il romanzo di Trevi non si limita a raccontare
un cammino di formazione interno al libro, esso è
qualcosa di esterno che investe anche chi legge,
permettendogli di conoscere meglio una parte
della vita – l’ultima – di Pier Paolo Pasolini e la
genesi di alcune sue opere. L’io protagonista del
romanzo di Trevi conosce quello che ha originato
Petrolio e nello stesso momento in cui il giovane
aspirante scrittore vive questa iniziazione anche
il lettore, cioè noi, impara e conosce attraverso
le esperienze del protagonista narrativo tutti gli
eventi e gli ingredienti che determinarono la formazione di Petrolio.
Qualcosa di scritto è un libro ricco e corposo
di sentimenti e significati, come lo è lo stesso
Petrolio di Pasolini al quale ogni lettore viene iniziato. Un vero e sincero elogio va rivolto ad Emanuele Trevi che con Qualcosa di scritto ha creato
non solo un bel romanzo e, allo stesso tempo, un
bel saggio letterario, ma ha regalato a noi lettori
un’utile guida letteraria o, concedetemelo, manuale di istruzioni per l’uso, che aiuta il fruitore a
conoscere meglio la fluente densità culturale ed
umana di Pier Paolo Pasolini.
Letteratura
76
una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie.»
L’esperienza della condizione umana da parte
dello scrittore di Casarsa in realtà assomiglia a
quella del protagonista di Petrolio di Carlo Valletti (primo e secondo). Carlo è un giovane appartenente alla borghesia torinese, nato nel 1932,
laureatosi in Ingegneria a Bologna nel 1956, dipendente dell’ENI e fervente cattolico comunista. Questo giovane impegnato in un processo di
scalata sociale ha una doppia personalità in perenne bilico tra razionalità e torbida passionalità.
La convivenza in uno stesso io di questa duplice
natura determina tutte le contraddizioni che caratterizzano il personaggio principale di Petrolio
e lo portano a vivere esperienze estreme per
dare il compimento al processo di iniziazione ai
misteri della vita.
Il giovane adulto Carlo sperimenta, come il
protagonista di Qualcosa di scritto, un cammino
iniziatico che lo porterà a conoscere la verità
profonda del vivere umano (il pellegrinaggio sperimentato dal giovane scrittore creato da Trevi
riguarda anche la conoscenza di uno scrittore e
di alcune sue opere). Attraverso queste prove e
con il viaggio mistico, Carlo Valletti e il dipendente del Fondo Pasolini del romanzo di Trevi attuano una vera e propria riflessione sulla vita personale e sull’Italia nella quale vivono. Nonostante
il lasso temporale che separa i due personaggi
sia evidente (Valletti vive negli anni Cinquanta
Sessanta, mentre il giovane di Qualcosa di scritto negli anni Novanta) entrambi intuiscono un
progressivo e brutale imbarbarimento della società italiana che ha perso ogni aspirazione e
valor del vivere. Questa consapevolezza di Carlo
Valletti, come quella del personaggio treviano,
sono i segni di una completezza di coscienza che
garantirà ai due la possibilità conoscere la verità
profonda del vivere per il protagonista di Petrolio
Dickens
il cantore
dell'epoca
vittoriana
di STEFANIA AUCI
78
N
el 1812 il piacere della
lettura era un privilegio
riservato ancora a pochi. Scarsi erano i romanzi pubblicati in quel periodo, spesso
di bassa qualità; nessun autore
scriveva intendendo quest’attività come il proprio mestiere e
si stava appena iniziando a progettare macchine per la stampa azionate a vapore.
È in quell’anno che nasce
Charles Dickens, l’autore che
ha radicalmente trasformato il
ruolo dello scrittore e che, più
di chiunque altro, ha segnato
la cultura e la società anglosassone con la sua sterminata
produzione.
Dickens non aveva pensato di diventare uno scrittore:
il suo vero amore era il teatro,
e successivamente la carriera
giornalistica. Tali esperienze
personali furono preziose, ed
egli iniziò a metterle a frutto
quando comprese, dopo la pubblicazione de Il circolo Pickwick,
che le sue doti di narratore potevano garantire una certa sicurezza economica.
Grazie alla crescente diffusione delle rotative azionate
a vapore, dagli anni trenta del
XIX secolo si diffuse la lettura
di riviste e quotidiani, cui erano
allegati dei romanzi suddivisi
in capitoli e pubblicati in fascicoli. Il successo di queste pubblicazioni fu enorme e la loro
diffusione capillare: esponenti
di ogni strato della popolazione – dalla Regina Vittoria fino
ai lavoranti delle botteghe di
Londra – si appassionavano ai
feuilleton pubblicati settimanalmente e attendevano con
ansia le uscite successive.
Charles Dickens riuscì a manovrare alla perfezione i meccanismi narrativi, lasciando perennemente i lettori con il fiato
sospeso ed esplicitando il concetto di turn page novel. Autentico genio narrativo, lo scrittore
inglese aveva la capacità di
delineare personaggi coerenti
e credibili in cui si mescolavano
luce e ombra, cinismo e generosità, crudeltà e compassione.
Nessun altro prima di lui aveva
avuto un simile mix di talento,
ambizione e energia: Dickens
sapeva scrivere per le masse
ma altresì riusciva a creare una
relazione personale e intima
con ciascun lettore.
Questo legame era rafforzato anche dalle letture aperte al pubblico che egli stesso
eseguiva, o meglio, recitava
nei teatri della Gran Bretagna
prima e degli Stati Uniti poi.
Tournee estenuanti cui l’autore si sottopose sia per ragioni
economiche – era fortemente
indebitato – sia perché egli
amava il contatto con il pubblico. Istrionico e sottile, Dickens
mise a frutto la sua esperienza
di ex attore e mescolò paura,
ironia, orrore e tenerezza nelle
sue performance, creando in
maniera scientifica il mito di
sé stesso, arrivando a definirsi
l’Inimitabile Dickens. Per questo
subì gli effetti deleteri del successo di massa: ad esempio, in
America, le sue opere venivano
regolarmente piratate e in più
di una occasione
vi furono scene
di isteria collettiva per le letture
pubbliche.
La sua scrittura potente e
pulita, lo stile
scorrevole e la
tipologia di storie che narrava
erano comprese anche da chi
aveva una scarsa alfabetizzazione, sed etiam
coinvolgeva chi
aveva un’istruzione (e un rango) superiore.
Sul punto, sono illuminanti le
considerazioni di Stefano Manferlotti, professore ordinario
di Letteratura inglese presso
l’Università di Napoli Federico
II, nonché uno dei più importanti esperti di Dickens nel nostro
paese, che ha curato una splendida traduzione dell’ultima
opera dell’autore, Il mistero di
Edwin Drood, (Roma, Gargoyle)
rimasto incompiuto.
Speechless: Dickens viene
considerato il primo autore
che scrisse assecondando i
gusti del pubblico e per denaro. Nell'epoca vittoriana
il suo stile era considerato
"populist" da parte dei critici. A suo avviso, questa è
più un'accusa infondata o è
la misura di una personalità
geniale che ha rivoluzionato la figura dello scrittore?
79
Stefano Manferlotti: La questione va posta diversamente.
In epoca vittoriana la pubblicazione dei romanzi in fascicoli
settimanali, unita alla crescente
alfabetizzazione,
determina
un'impennata vertiginosa nelle
vendite, quindi nei guadagni
che dalle loro opere ricavano
gli scrittori. In breve tempo ciò
li rende autonomi dal punto di
vista economico. Si tratta di
una rivoluzione vera e propria.
Possono perfino apparire i primi scrittori proletari. Dickens è
uno di questi. Naturalmente, la
pubblicazione a dispense imponeva anche una serie di strategie compositive che mantenessero vive le attese dei
lettori. In questo Dickens era
un maestro: seguiva i gusti del
pubblico, ma contribuiva anche
a formarli. Col crescere della
sua fama, il secondo processo
ebbe sempre più il sopravvento
sul primo.
S: La seconda parte della produzione di Dickens
si concentra sullo studio
di caratteri e topoi umani.
Letteratura
Char les
speciale
Edwin
Drood
80
L’
ultima opera di Charles Dickens è
un romanzo incompiuto: un rompicapo che ha affascinato studiosi e
appassionati. Edwin Drood è una storia di grandi passioni, di gelosie e di
invidia, ricca di intrighi familiari che si
intrecciano in una sequela di scambi
e vendette.
Edwin è il promesso sposo di una
giovane, Rose, di cui è invaghito anche Jasper, zio del protagonista. Jasper, più che Edwin, rappresenta il
fulcro della narrazione: maestro del
coro della parrocchia, persona stimata e apprezzata, è in realtà un’anima
nera, dotato di un fascino perverso
con cui cela i propri vizi, primo fra tutti la dipendenza dall’oppio. Dall’altra
parte, Edwin è una figura piena di sé,
un ragazzotto superficiale che non ha
lo stesso charme oscuro dello zio.
Attorno a loro, una miriade di personaggi che colpiscono per la loro
icasticità: dal sindaco al benefattore
– che Dickens descrive con un’ironia mordace intrisa di critica – fino
a Neville e alla sorella, figure ostiche
e scostanti, che non riescono a integrarsi con il microcosmo del villaggio,
fatto di ipocrisia e perbenismo.
Sebbene sia un’opera incompiuta e
dunque non rifinita, sotto-trame e personaggi si intersecano in una struttura complessa e raffinata con poche,
sapienti frasi.
Come termina il romanzo? O meglio: quale sarebbe stato il finale se
Dickens avesse potuto scriverlo? Le
notizie in nostro possesso sono incerte: sebbene in molti ritengano che il
colpevole della morte di Edwin Drood
sia Jasper, nessuno è in grado di sapere come Dickens avrebbe raggiunto
quest’esito.
E, per dirla come il professor
Manferlotti, ci vorrebbe una seduta
spiritica per conoscere le intenzioni
dell’autore…
Si tratta di figure iconiche
che incarnano archetipi
umani facilmente riconoscibili dai lettori. Quali
sono stati, secondo lei, i
motivi di questo cambiamento di rotta?
SM: Devo essere sincero: respingo con forza queste distinzioni manualistiche. Nel caso di
Dickens, poi, sono destituite di
fondamento. Stiano parlando
di uno dei più grandi narratori
di tutti i tempi: sì, in Dickens
non mancano i "tipi", ma ben
più numerosi sono i "personaggi", indagati nel profondo,
delle loro coscienze. Formidabile è anche la costruzione e
descrizione degli ambienti, dei
contesti soprattutto urbani, per
non parlare dell'attenzione per
il dettaglio e della capacità dimostrata nell'evitare i pericoli
del realismo d'ordinanza. Basta
leggerlo con attenzione e si vedrà che la definizione "cambiamento di rotta" è riduttiva, non
regge al confronto coi testi.
Ma la grandezza di quest’autore non risiede solo nello stile o
nella capacità di affabulare il
pubblico. Egli, pur mantenendo
un tono “populist” attirò l’attenzione sulle grandi problematiche che affliggevano la società vittoriana: la povertà delle
metropoli, lo sfruttamento e la
delinquenza minorile. Temi particolarmente cari a Dickens che
nella sua infanzia aveva dovuto
81
lavorare in fabbrica per un breve periodo di tempo mentre il
padre era rinchiuso in carcere
per debiti. La vergogna e la desolazione che egli riusciva a trasmettere ai propri lettori erano
autentici poiché derivavano da
un doloroso vissuto personale.
Divenuto uno scrittore famoso,
egli cercò di appuntare l’attenzione sulla terribile condizione
dei minori, assumendo così il
ruolo di “Intellettuale impegnato” ante litteram. Ecco cosa osserva in proposito il professor
Manferlotti.
S: Il ruolo dell'intellettuale
nella rappresentazione della realtà sociale vive con Dickens un punto di svolta: la
prima parte della sua produzione è incentrata su tematiche forti quali la povertà e
il degrado della metropoli,
la condizione dei minori e
lo iato tra città e campagna.
Quale è stato, a suo avviso, il ruolo della produzione
dickensiana nella letteratura di impegno sociale?
SM: Dickens è stato un acuto "diagnostico" dei mali del
suo tempo, non ci sono dubbi.
Ma nel valutare i suoi romanzi
"sociali" non va mai dimenticato che si tratta innanzitutto
di uno scrittore creativo, che
per fortuna nostra non si limitò mai alla mera denuncia. In
letteratura, insomma, la centralità spetta sempre alla forma. È col suo stile inimitabile
che Dickens ci affascina. Non
vi sono dubbi, tuttavia, che le
sue descrizioni dello sfruttamento minorile - per fare un
esempio - impressionarono talmente l'opinione pubblica che il
Parlamento dovette prenderne
atto, varando leggi che ponessero un freno almeno alle storture più macroscopiche. Non
dobbiamo dimenticare che per
certi versi il romanzo aveva allora la funzione che oggi ha la
televisione.
Letteratura
il mistero di
rò mai felice, ma
“Luglio 1950. Forse non sa
basta la casa
stasera sono contenta. Mnsi o di stanchezvuota, un caldo, vago se tutto il giorno al
za fisica per aver lavoratompicanti, un bicsole a piantare fragole raherato, una ciotola
chiere di latte freddo zucc nna. Ora capisco
di mirtilli affogati nella paere senza leggere,
come la gente possa viv uno è così stanco,
senza studiare. Quando bisogno di dormire
alla fine della giornata ha lo aspettano altre
e il mattino dopo, all'alba,si va avanti a vivefragole da piantare, e così enti come questi
re, vicino alla terra. In mom
di più...”
sarei una stupida a chiedere
N
on è facile scrivere di Sylvia Plath, cogliere la sensibilità, il messaggio e l’essenza
dei suoi scritti. Quando si tratta di affrontare un’anima sfaccettata e tormentata come la
sua, le parole vengono a mancare.
Sylvia Plath è stata una poetessa e scrittrice,
fragile e immaginifica. Viscerale e scettica.
Nata a Boston nel 1932, da immigrati tedeschi, dimostra da subito un talento precoce per
la scrittura. Nell’età adulta, la sua vita è tormentata dalla depressione che la porterà a tentare il
suicidio per ben due volte e al ricovero nell’ospedale psichiatrico McLean Hospital. Uscita, Sylvia vince una borsa di studio per l’Università di
Cambridge, dove conosce il poeta Ted Hughes,
l’amore della sua vita, che sposa nel 1956 e dal
quale avrà due figli.
Sylvia scrive, scrive sempre. Non si ferma.
La sua opera (autobiografica) più conosciuta, pubblicata nel 1963 sotto lo pseudonimo di
Victoria Lucas, è senza dubbio The Bell Jar – La
Campana di vetro, in cui, attraverso gli occhi della
protagonista Esther Greenwood, Sylvia racconta
parte della sua vita e l’esperienza dell’ospedale
psichiatrico.
Considerato un roman à clef, ossia un romanzo
Anche tra le fiamme violente
si può piantare il Loto d’oro.
Epitaffio sulla tomba di Sylvia Plath
a chiave, che descrive la vita reale dietro la finzione, non è, in realtà, conoscendo le vicissitudini
della Plath, difficile capire quanto ci sia dentro di
se stessa.
La vicenda si svolge nel 1953 a New York ed è
narrata in prima persona da Esther Greenwood,
giovane studentessa non ancora ventenne, che
si trova a fare praticantato in una famosa rivista
di moda. Esther è una provinciale che si ritrova
catapultata in un mondo scintillante e glamour,
che prevede e impone una sorta di rito iniziatico,
costruito su una serie di comportamenti e convenzioni sociali, per essere accettate dal gruppo.
83
una lucida, costante, visione del baratro oltre lo
slancio al perfezionismo, come acqua stagnante
mossa da fuochi violenti e ispirati.
I posteri hanno creato un’immagine romantica attorno alla figura della Plath, in realtà negli
scritti di Sylvia c’è una fredda indagine analitica,
quasi psicoanalitica. Un urlo, una passione resa
ancora più vivida dalla coscienza di un destino
ineluttabile. Un fuoco che brucia nell’istante in
cui è creato, senza speranza alcuna nel domani.
Leggendo “La Campana di vetro” si prova un
sentimento di asfissia, un’essenza tragica, una
totale sfiducia nel futuro. Le poesie di Sylvia
sono cupe, sensuali, quasi macabre.
Così è, così sarà. Nessuna via d’uscita, nessuna scelta. Un lungo tunnel buio alla fine del quale
non s’intravede la luce, ma solo l’abisso.
La grande prova d’amore di Sylvia è stata aver
lasciato ai posteri ciò che è stata, così, forse, inconsapevolmente. Una falena che ha agognato la
luce, e che del suo desiderio di luce si è bruciata.
Letteratura
Vita e morte di ELISABETTA BRICCA
di Lady Lazarus 82
Ne è un esempio Doreen, altro personaggio del libro, compagna di stanza di Esther, che in
fondo lei disprezza, ma che vuole emulare nel suo percorso di
accettazione sociale, per essere
come gli altri.
Le convenzioni sociali rappresentano il grande ostacolo
da superare per Esther/Sylvia e
la propria incapacità all’adattamento la porterà a un profondo
disagio esistenziale.
Simbolica la scena in cui
Esther si libera dei suoi costosi vestiti gettandoli, uno a uno,
dal balcone del proprio appartamento. La consapevolezza dei
propri limiti, dell’essere diversa
e del non poter mai diventare,
nonostante gli sforzi, come gli
altri.
Condizione esistenziale che
porterà Esther/Sylvia al crollo nervoso e al ricovero, esperienza in cui scoprirà che il “diverso” è la quotidianità, fino a
una lenta risalita verso la luce
dell’accettazione.
Cosa che non avverrà nella vita di Sylvia, suicida ad appena trent’anni, nella sua casa londinese, dopo aver preparato la colazione per i suoi
due figli.
Scrive nei suoi famosi Diari: “Distinguendomi.
Queste ragazze sono tutte uguali […] Mi sento
come Lazzaro: ha un tale fascino, questa storia.
Ero morta e sono resuscitata, e mi aggrappo persino al valore puramente sensoriale dell’essere una
suicida, dell’esserci andata così vicino, dell’uscire
dalla tomba con le cicatrici e il segno deturpante
sulla guancia […]” E ancora: “Il vento ha spinto sul mare una luna
giallo intenso: una luna bulbosa, che germoglia
nel cielo indaco sporco e sparge occhieggianti
petali luminosi sulla nera acqua fremente.”
In tutte le opere della Plath, siano esse poesie o romanzi, il male di vivere rappresenta una
costante. Una lotta senza requie di Sylvia contro
se stessa, dell’essere contro l’apparire. C’è, in lei,
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e poi dritto fi
di Andrea Cattaneo
I
lettori sono grandi viaggiatori, non
è un’opinione è un
fatto. Molti lettori sono
provetti Marco Polo,
sono stati (magari solo
con la fantasia) in posti incredibili e lontanissimi, e tutto questo
grazie ai libri. Chi pensa
che tra il mondo reale
e quello dei libri ci sia
una netta separazione
si sbaglia di grosso:
molte cose passano
da un mondo all’altro e
spesso esistono in entrambi. Per chi voglia approfondire l’argomento,
in ambito accademico esiste una disciplina specifica, la Geografia immaginaria, che si occupa
di tracciare questi itinerari a metà strada tra realtà e finzione. Per chi invece ha fretta di partire,
eccovi qualche suggerimento di viaggio (e anche
qualche consiglio di lettura).
«I sentieri si costruiscono viaggiando», diceva
Franz Kafka di Praga, impiegato alle Assicurazioni Generali in piazza di San Venceslao. Non risulta che Kafka fosse un gran viaggiatore nel senso
tradizionale del termine, a parte qualche piccolo
spostamento per lavoro (e per amore), non si è
mai allontanato troppo da Praga. Quello che sappiamo per certo di Kafka è che, con i suoi libri,
ha tracciato sentieri in territori sconosciuti della
fantasia umana. Tra le tante descritte dall'autore, c’è una pista (raccontata ne Il Castello) tutta
da esplorare che parte dalla romantica Praga e
porta dritto a un villaggio della campagna boema
che sorge ai piedi di un enigmatico Castello.
Rimanendo nell’Est Europa, c’è un altro itinerario fantastico (in tutti i sensi) che vi consiglio di
fare ed è quello descritto nel Dracula di Bram Stoker. Si parte da Monaco di Baviera rigorosamente
in treno e, se possibile, con convogli lenti perché
per questo viaggio è meglio non avere fretta. Le
tappe sono: Vienna, Budapest, Klausenburgh in
Romania e, per finire, Bistritz in Transilvania. Il
signor Stoker sostiene che, nei pressi di Bistritz,
ci sia un ricco compratore interessato a un’unità
immobiliare a Londra nota come “Carfax”. Certo,
viaggiare in compagnia di un avvocatucolo alle
prese con un matrimonio soffocante non è il massimo della vita, forse non incontrerete vampiri (il
che può essere un bene o un male, dipende dai
punti di vista...), però al vostro arrivo vi attende
la parte più misteriosa dell’Unione Europea.
Da Bistritz l’itinerario di ritorno descritto in
Dracula ci riporta a Londra e nella capitale inglese non si può non fare una capatina in una graziosa strada frequentatissima da turisti e curiosi:
Baker Street. Il signor Holmes ha, al numero
221B, il suo studio sia nella dimensione parallela,
immaginata da Arthur Conan Doyle e ferma per
sempre al XIX secolo, che nella nostra. A chi non
vede altro che la realtà tocca (al civico 234 spacciato per 221B) una ricostruzione un po’ kitsch
dello studio dove Holmes e Watson discutevano
i loro misteriosi casi, per tutti gli altri c’è un universo da scoprire sopra e sotto Baker Street (date
un’occhiata alla stazione della metropolitana).
Anche Parigi è una meta imperdibile per chi
ama la letteratura, la città è stata raccontata
così tante volte che è impossibile distinguere le
innumerevoli Parigi sovrapposte una sopra l’altra. Succede una cosa strana in città agli amanti
della buona letteratura (se ne è accorto anche
Woody Allen), il rischio di perdersi è altissimo.
Le tracce di Hemingway, anche lui a suo tempo
viaggiatore appena arrivato in città, portano alla
fantastica libreria Shakespeare and Company
sulla Rive gauche. L’edificio è retto su montagne
di libri accatastati ovunque. Qui s’incontravano
Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude
Stein, George Antheil, Man Ray, James Joyce e
un numero imprecisato di aspiranti scrittori che
non ce l’hanno fatta. Insomma, lo dico per gli
amanti del genere, questa è di sicuro una libreria
infestata di fantasmi.
A Oriente ci attendono guide molto importanti. La Russia dei miliardari e delle follie di oggi è
molto diversa da quella raccontata da Dostoevskij
nei suoi capolavori. A San Pietroburgo, e per
la precisione al numero 18 della Grazhdanskaja,
c’è un monito per chiunque pensi di poter ingannare la propria coscienza. A quell’indirizzo abitava il giovane squattrinato Raskol'nikov, autore
85
Letteratura
Londra è piena di “tracce letterarie” da seguire ben note ai bibliofili più incalliti. Al turista
qualsiasi la stazione di King’s Cross sembrerà
solo una delle tante stazioni ferroviarie britanniche con muri in mattoni a vista, non è così per chi
è stato almeno una volta a Hogwarts in Scozia,
e sa che l’espresso per la Scuola di Magia e Stregoneria parte dal binario 9 e ¾.
86
Procedendo verso est si arriva in Giappone,
quell’arcipelago popolato da gente tenace ed
enigmatica che produce sogni e fantasie dalla
notte dei tempi. Qui possiamo affidarci a due
ciceroni d’eccezione. Chi meglio del signor Murakami può guidarci attraverso il dedalo di strade
di una città, Tokyo, a metà strada tra sogno e
realtà, presente, passato e futuro. Nel suo ultimo romanzo 1Q84 racconta soprattutto il mistero principale che avvolge le isole giapponesi: le
persone. Comprenderle non è semplice, ci tenta
anche la nostra seconda guida Goffredo Parise
che, ne L’eleganza è frigidai, traccia un itinerario
antropologico valido ancora oggi e, oggi come ai
suoi tempi, insufficiente per svelare il mistero
giapponese.
Penultima tappa di questo excursus è la costa
Atlantica dell’America del Nord. Providence, nel
Rhode Island, forse non potrà vantare lo spettacolo del Golden Gate o lo skyline di Manhattan,
ma è ricca di storie e attira come una calamita
tutti gli “adoratori” di H. P. Lovecraft. Qualcuno
lo considera uno scrittore di genere dallo scarso
talento, qualcun altro (molti milioni di persone a
dire il vero) lo considera la guida più autorevole
a quelli che lui stesso avrebbe definito “gli abissi
dell’animo umano”. Al numero 7 di Thomas Street sorge la casa del Fleur-de-Lys con il famoso
bassorilievo che potrebbe rappresentare tutto e
niente, compreso uno strano mostro marino con
tentacoli assai noto ai lettori di Il richiamo di
Cthulhu.
L’ultimo spunto di “viaggio letterario” è anche
l’ultima frontiera dell’esplorazione: lo Spazio
profondo. Si può visitare dopo un severo addestramento militare ai comandi di Robert Heinlein
(Starship Troopers), oppure bighellonando in autostop seguendo i consigli della Guida galattica
per autostoppisti di Douglas Adams (e non dimenticate il vostro asciugamano a casa).
87
Letteratura
impunito di un duplice delitto perfetto. O meglio, impunito finché lui stesso non ha deciso di
vuotare il sacco per amore di una prostituta. A
Mosca, nei pressi del Cremlino dove passò il
corteo funebre di Berlioz, le tracce dell’esistenza
del Maestro sono ancora ben visibili nonostante
la censura sovietica ce l’abbia messa tutta per
cancellare il manoscritto di Il Maestro e Margherita. Chi ha letto Bulgakov sa di cosa sto parlando, agli altri lasciamo i percorsi turistici (forse) un
po’ meno affascinanti.
“Consigliato da Fox Crime”
delle fascette
“Il nuovo, sorprendente romanzo di un autore
da 1.500.000 copie vendute in Italia”
La donna
dei fiori di carta
“Lingua perfetta. Efficacia stilistica
totale. Un vero capolavoro”
di Andrea Bresson
N
el caso di Cosa sai della
notte di Grazia Verasani
(Feltrinelli, pp. 224 euro
13,00) si tratta di una fascetta di
co-marketing.
Nel caso di La donna dei fiori
di carta di Donato Carrisi (Longanesi, pp. 170, euro 11,60) di una
fascetta sbagliata.
Nel caso di La colpa di Lorenza
Ghinelli (Newton Compton Editori, pp.241, euro 9,90) di una fascetta di troppe pretese.
Infine, nel caso di L’ultimo giorno di Glenn Cooper (Nord, pp.
452 euro 18,60) della fascetta più
azzeccata che mi sia capitato di
leggere finora.
Personalmente, odio le fascette sui libri. Le odio perché sono
puro marketing, in ogni caso.
Spudorato o occulto. A modo loro,
vorrebbero dire al lettore “Ehi,
comprami”, in realtà, ciò che dicono è solo un “Eccomi qua, anche
io sono fascettato, esattamente
come gli altri libri”. E dunque, perché dovrei comprarti? Dov’è il tuo
valore aggiunto, caro libro?
Che Fox Crime consigli il libro
della Verasani a me, lettore medio in cerca di un buon noir, poco
importa. Anzi, forse potrei essere tentato dal lasciarlo lì dov’è,
perché io lettore medio scanso le
operazioni commerciali.
Che la fascetta di Carrisi mi
dia una definizione dell’autore,
quando Carrisi è al suo terzo romanzo, è tradotto all’estero, ha
vinto il Premio Bancarella, è uno
sceneggiatore, ha venduto migliaia di copie, è una firma di importanti quotidiani e settimanali
italiani e, non ultimo, va pure in
televisione, beh, offende quasi
il lettore, oltre che l’autore. Vuoi
che la casalinga di Voghera, con
tutto il rispetto, non abbia sentito
parlare almeno una volta di lui?
Di contro, se Longanesi fa il
modesto, non si può dir la stessa cosa di Newton Compton, che
firma una fascetta decisamente
pretenziosa. E non migliora la prima di copertina: “Torna l’autrice
de Il divoratore. Il caso letterario
del 2011”. Addirittura un caso
letterario, la Ghinelli. Ma come,
Carrisi vince il Bancarella, è conosciuto all’estero, viene invitato
in tv a parlare di crimini efferati e
ciononostante viene definito “un
autore”, e tu, Ghinelli, al tuo secondo libro, vieni fascettata così?
La fascetta di Cooper è quella cui tutti dovrebbero aspirare,
perché questo libro è davvero
“sorprendente”. Da un autore
di archeo thriller non ti aspetti
un’idea così originale, così nuova,
così diversa. Leggere per credere.
LA COLPA
La colpa di Lorenza Ghinelli (Newton Compton, pp.241, euro 9,90)
per quel che mi riguarda è un
“n.c.”: non classificato. E questo
perché non è carino che io scriva
che è un brutto libro.
Qualcuno qualche tempo fa,
ha scritto che la Ghinelli risente
molto, troppo dell’influenza della Scuola Holden di Torino. Ecco.
Leggere il suo periodare arzigogolato e ridondante è sfiancante. A
ciò si aggiunge una “lingua perfetta” – per dirla con la fascetta del
Sig. Newton Compton che vende
i libri a 9,90 cartonati che si scollano non appena li apri – densa di
parole come culo, coglioni, vaffanculo buttati lì del tutto gratuitamente. Anche in Mia sorella è una
foca monaca di Christian Frascella
(Fazi, pp. 290 euro 17,50) ci sono le
parolacce, ma sono finalizzate alla
caratterizzazione del personaggio.
Carrisi lo definisce noir. Non mi
trova d’accordo. La donna dei fiori
di carta (Longanesi, pp. 170, euro
11,60) è un racconto. Una storia.
Un romanzo breve. Qualcosa che,
son sincero, non mi prendeva. Arrancavo nella lettura, tentando di
capire dove volesse arrivare e domandandomi perché mai un fortunato autore di thriller si fosse cimentato in una noiosissima storia
come quella. Si salva, forse, verso
la fine, quando il lettore ritrova il
piglio deciso e il page-turning dei
due libri precedenti. Il rush finale,
insomma. Ma, ripeto: forse.
Il titolo evoca un Marsilio, così
come Il tribunale delle anime
(Longanesi) dello stesso Carrisi
evocava Il libro delle anime (Nord)
di Glenn Cooper. Un po’ di fantasia
Qui no. Qui lo abbiamo capito tutti
che Martino ha subito una violenza sessuale da piccolo, ma non è
con le parolacce o facendogli rompere una mano sulla portiera di
un’auto, che me lo rendi violento.
Lo abbiamo capito tutti – perché è largamente descritto – che
zio Tullio ha gusti sessuali discutibili e deplorevoli, ma poi? Nulla.
Dopo pagine intere, zio Tullio parte per Bratislava. E ciao zio Tullio.
Lo abbiamo capito tutti che
Estefan viaggia con la mente, magari dopo aver fumato erba, ma
poi? Non si sa. Io non l’ho ancora
capito.
Il personaggio più curioso, però,
è Greta, la bambina “prigioniera di
casa del nonno”, come recita una
bandella poco veritiera. Il nonno
muore e Greta ricompare solo alla
fine del libro… a che pro, anche
qui, non l’ho ancora capito.
89
“Un autore da 350.000 copie”
non guasterebbe (specialmente
dallo stesso gruppo editoriale).
Il tono utilizzato dai personaggi è, talvolta, troppo colloquiale
per collocarsi ai primi del ‘900 o
in pieno conflitto mondiale.
La storia, sebbene Carrisi stesso avverta il lettore che si tratta
di una storia vera (cosa che solitamente aumenta la curiosità del
lettore), è terribilmente poco appealing. Se a scriverla non fosse
stata la sapiente penna di Carrisi, dubito che qualcuno l’avrebbe
mai pubblicata. Arrivi alla fine e ti
chiedi: “E allora?”
Lo consiglio solo a chi ha voglia di spendere 11,60 euro per
leggere un Carrisi cimentato in
qualcosa di diverso e di nuovo.
Ma di terribilmente noioso.
9,90 euro per un libro che si è
scollato appena aperto, dalla carta troppo rigida, l’impaginazione
brutta, il rientro prima riga troppo
esiguo. Poco pagare, poco avere.
Non lo consiglio.
Letteratura
la dittatura
88
di Marco Piva-Dittrich e Roberto Gerilli
L'ultimo giorno
tà. Voglio dire, e se ciò che
stiamo vivendo adesso non
fosse davvero causato dalla
“bliss”?
Per nulla scontato l’epilogo. Leggermente semplicistico e frettoloso il modo
in cui evolve la vicenda alla
fine, ma per il resto un libro
da leggere assolutamente.
Per lo stile, per il fatto che
tutti i libri di Cooper sono
“stand alone”, e perché sono
452 pagine ben scritte e ad
un prezzo onesto. Sì, perché
non sarà a 9,90 euro, ma ti
fa intravedere il lavoro di
una bella squadra dietro un
grande autore. Bravi.
intervista a Victor Ghischler
C
i sono gli autori che coccolano i loro personaggi, li viziano e li fanno uscire indenni da ogni tipo di
situazione. Poi ci sono quelli che amano… ucciderli. Uno di questi ultimi è Victor Gischler, autore
americano che ci ha concesso l’onore di questa intervista esclusiva.
Gischler è uno scrittore della Louisiana, nel sud degli Stati Uniti, ed è noto per essere un autore di
romanzi noir e d’azione, nonché sceneggiatore di fumetti Marvel. Come scrittore è stato finalista al Edgar
Award con il suo romanzo Gun Monkeys (edito in Italia da Meridiano Zero con il titolo La gabbia delle
scimmie) e successivamente all’Anthony Awards con Shotgun Opera (Sinfonia di Piombo, Edizioni BD).
Per la Marvel ha invece sceneggiato diversi episodi di The Punisher, Deadpool e soprattutto della serie
X-Men.
Nell’intervista che segue, Gischler ci parla della sua esperienza nei fumetti e delle differenze riscontrate tra scrivere una sceneggiatura o un romanzo di narrativa. Oltre a questo ci racconta il rapporto con i
suoi editori, l’amore che prova verso il nostro paese e anche quanto si diverta a uccidere i suoi personaggi.
Perché Gischler è un autore di talento ma, soprattutto, è un autore originale, che si discosta dai temi
politicamente corretti per creare trame coinvolgenti intessute, spesso, attorno a personaggi che preferiscono far parlare le loro pistole.
Care lettrici e lettori di Speechless, ecco a voi Victor Gischler.
Cosa sai della notte
Cosa sai della notte di Grazia Verasani
(Feltrinelli, pp. 224 euro 13,00) è un libro
insolito, per essere un noir. Insolito perché
è scritto egregiamente – si evince chiaramente il feeling dell’autrice con il teatro –
e perché non segue i canoni standard. E lo
vedi appena incontri Giorgia Cantini, che
ti parla in prima persona: un personaggio
a tutto tondo, ironica, scanzonata, vera.
Te ne innamori subito.
Non conoscevo i libri della Verasani
e, per questioni organizzative, ho letto
questo in bozze, ma appena esce corro a
comprare sia questo che i due precedenti:
perché chi ama il noir non può non averla
in scaffale. E 13,00 euro è un prezzo onesto per un libro di qualità come questo.
90
S
peechless: Sei un autore sia di romanzi che di fumetti. Che differenza
c’è tra lo scrivere fumetti e lo scrivere un romanzo (o un racconto) tuo?
Victor Gischler: La cosa bella dei romanzi è
che ho un sacco di spazio e posso trattare un
argomento con tutti i dettagli che voglio. Se voglio che un capitolo sia lungo dieci pagine o venti, posso farlo. Scrivere un episodio di una serie
a fumetti, invece, è una cosa molto controllata.
Come dice Yoda: CONTROLLO, CONTROLLO,
CONTROLLO. La sceneggiatura per un episodio
di una storia a fumetti normale è lunga ventidue
pagine: non una di più, non una di meno. Quindi
è necessario che abbia la disciplina per raccontare la mia storia in quelle pagine.
S: Parlando ancora di fumetti: quanto trovi
che sia una limitazione scrivere storie per
dei personaggi creati da altri autori, personaggi che magari sono già ben definiti?
VG: Certo, ci sono delle limitazioni. Bisogna
rispettare il personaggio. I lettori hanno delle
91
Letteratura
L’ultimo giorno (Nord, pp.
452 euro 18,60), quarto libro
di Glenn Cooper è davvero
“fascettatamente” sorprendente. Nord, dunque, ha pienamente ragione.
Da un autore di archeo
thriller non ti aspetti un’idea
così originale, così nuova,
così diversa. Non mi stupisce, perché nonostante gli
alti e bassi che ogni autore
che si rispetti ha, Cooper
ha dimostrato versatilità
scrivendo un romanzo equilibrato, dal costante incalzare e talmente d’effetto da
insinuarti il dubbio che non
stia, forse, dicendo la veri-
aspettative ben precise. Ma può anche essere
una cosa positiva. Se stai scrivendo, per esempio, una storia di Wolverine hai il vantaggio che
c’è un sacco di gente che adora Wolverine. Non
devi convincere i lettori a “provare” il personaggio, a dargli una possibilità.
S: Tra tutte le storie a fumetti firmate da altri autori, quali ti sarebbe piaciuto scrivere?
VG: La serie di albi di DareDevil firmata da Frank
Miller. È un fumetto noir e allo stesso tempo resta una storia di supereroi. Una storia fantastica, e i disegni sono bellissimi.
S: Se dovessi creare un supereroe basato
su te stesso, che supereroe sarebbe?
VG: Oh mamma. Sarebbe il fumetto meno venduto della storia! Probabilmente Beer Man,
l’Uomo Birra, che in una maniera o nell’altra
ha il potere di risolvere crimini bevendo grandi
quantità di birra.
S: Quanto ti piace uccidere i tuoi personaggi?
VG: Tantissimo. Non perché mi stiano antipatici, ma per via della tensione narrativa. Ricavo
un piacere perverso dal costruire un personaggio, far sì che i lettori gli (o le) vogliano bene e
poi portarlo (o portarla) via. Non che succeda
in tutti i miei romanzi. Ma accade abbastanza
spesso, tanto per essere sicuri che i miei lettori
sappiano che non si possono rilassare. Nei miei
romanzi nessuno è al sicuro.
S: In Italia non abbiamo ancora letto il tuo
romanzo “Vampire a Go-Go”: che cosa ci
stiamo perdendo?
VG: Il fantasma di Edward Kelly, l’alchimista imbroglione. È uno dei miei personaggi preferiti.
Cerca di fare la cosa giusta ma fin troppo spesso è vittima delle sue debolezze. Ama troppo il
vino e le donne.
S: Nel prossimo numero di Speechless
pubblicheremo il tuo racconto Gli imbranati dell’Apocalisse (Duffers of the
Apocalypse), per il quale ti ringraziamo
calorosamente. Potresti dirci due parole
introduttive al riguardo?
VG: La storia parla di un villaggio per anziani che
si ritrova nella traiettoria di un incendio. Alcuni
dei personaggi reagiscono come ci si aspetterebbe; il protagonista, no.
S: Per finanziare il sequel di “Black City:
C’era una volta la fine del mondo” (“Go-Go
Girls of the Apocalypse”), che è atteso per
il 2013, hai deciso di ricorrere al crowd
funding tramite Kickstarter. Perché hai
scelto questa strada piuttosto che cercare di piazzarlo con la tua casa editrice? E
com’è andata?
VG: Nell’ambiente si sa che un editore non pubblicherà mai un sequel se non ha i diritti per il
primo libro, e quelli che mi hanno pubblicato
“Black City: C’era una volta la fine del mondo”
qui negli Stati Uniti sono stati estremamente
miopi. L’alternativa era questa: pubblicare il
sequel da solo con l’aiuto di Kickstarter o non
pubblicarlo per niente. Sono molto felice di dirvi
che il crown funding è andato molto bene. Ma
alla fine sono convinto che sia meglio avere un
buon rapporto con una casa editrice che ha a
cuore il tuo lavoro. Un ottimo esempio di questo
tipo di rapporto è quello che ho con Revolver, la
mia casa editrice italiana.
S: In che maniera ti sembra che il mercato letterario italiano si differenzi dal resto
del mondo?
VG: Non sono un esperto, ma ho l’impressione
che in Italia i quotidiani siano ancora disposti
INFO
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a prestare un po’ di attenzione agli autori.
Negli Stati Uniti per trovare un po’ di spazio
bisogna essere dei pezzi grossi, come J.K.
Rowling o Lee Child. Mi sembra che il mercato italiano prenda gli autori più sul serio.
S: Sei stato in Italia diverse volte. Che
cos’è che ti piace del nostro paese, e
cosa non ti piace?
VG: Non mi piace il viaggio per arrivarci.
Odio essere incastrato in un sedile di aereo, sono minuscoli. Ma una volta arrivato
mi sento quasi a casa. È come se andassi a
trovare dei vecchi amici. L’Italia è un paese
fantastico e la gente è meravigliosa e calorosissima.
S: Hai qualche storiella divertente da
raccontarci riguardo alle tue esperienze in Italia?
VG: Beh, ho passato qualche giorno girando
per l’Italia con il mio editore, il mio traduttore
e un altro autore. Io e l’altro autore eravamo
incastrati nel sedile posteriore dell’auto, che
dividevamo con un paio di scatoloni pieni
dei nostri libri. Quando qualcuno menziona
la bella vita degli scrittori, racconto quella
storia. Ma sai una cosa? Mi sono divertito.
Siamo ottimi amici e ci siamo fatti un sacco
di risate guidando di città in città per incontrare i lettori. Non avrei fatto cambio con un
tour di lusso in una limousine.
Per chi volesse approfondire la conoscenza di Victor Gischler consigliamo Sinfonia di Piombo, romanzo pubblicato da Revolver
(Edizioni BD) nel febbraio di quest’anno. Il protagonista è Dan, un
ragazzo di New York che vede quello che non dovrebbe e diventa
preda di alcuni killer prezzolati. A proteggerlo ci sarà suo zio Mike,
un uomo che sarebbe meglio non disturbare. Il libro dell’autore
americano è una storia tra il noir e il pulp che non indulge in inutili
sentimentalismi e si lascia andare in una danza energica al suono
delle pallottole. Tante pallottole. Perché i personaggi del romanzo
sono armati e cattivi, gente di cui aver paura, ma al contempo sono
anche simpatici e divertenti, gente che bisognerebbe conoscere.
Un gran numero di personaggi, caratterizzati in maniera magistrale, costituiscono il fulcro di una struttura narrativa complessa e
coinvolgente. Un intreccio che avvolge ma non disorienta, grazie
soprattutto allo stile semplice e scorrevole di Gischler, che riesce
a gestire l’intreccio con apparente facilità. Un romanzo breve (duecento settantasette pagine) che lascia senza fiato.
Letteratura
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racconto
Traduzione di Marina Albamonte
Illustrazione© Max Rambaldi
Sir Arthur Conan Doyle
Un’ora movimentata
E
rano le ventitré e trenta di una domenica sera
sul finire dell’estate. Un veicolo a motore viaggiava lentamente sulla strada tra Eastbourne
e Tunbridge, non lungi da Cross in Hand. Era un tratto di strada isolato, lambito su entrambi i lati da un
parco.
Una Rolls Royce lunga e sottile filava indisturbata,
con un lieve ronzio del motore. Le frange ondeggianti
delle piante e i ciuffi di erica scorrevano velocemente come in una macchina da presa dorata attraverso
i due vividi cerchi proiettati dai fanali anteriori, lasciando dietro di sé e tutt’intorno il buio più buio. Una
chiazza rosso rubino illuminava la strada con il suo
bagliore ma la targa dell’autovettura non era visibile
nell’alone fioco del fanale posteriore. L’autovettura
aveva la capote aperta, era un modello turistico ma,
persino nella luce cupa di quella notte senza luna, un
osservatore non avrebbe potuto non notare la curiosa vaghezza della sua silhouette.
Quando scivolò attraverso l’ampio fascio di
luce proveniente dalla porta aperta di un
cottage, attraversandolo, il motivo divenne
ben visibile. La carrozzeria era bardata con
una tela d’Olanda marrone non fissata e sistemata in
una strana foggia. Finanche il lungo cofano nero era
fasciato da un tessuto che recava dei disegni fitti.
L’uomo solitario che guidava questa stravagante
autovettura era grande e grosso. Sedeva rannicchiato sul volante, la falda del cappello di foggia tirolese
fin sopra gli occhi. La punta infuocata di una sigaretta accesa si consumava sotto l’ombra prodotta dallo
stesso. Il bavero, bordato di un tessuto scuro tipo
loden simile a lana grossa, gli copriva le orecchie.
Il collo pareva fuoriuscisse dalle spalle arrotondate
e, mentre l’autovettura filava silenziosa sulla lunga
strada in discesa, il cambio in folle e il motore che
girava libero, costui sembrava scrutare il buio innanzi
a sé, in cerca di un qualche oggetto avidamente atteso.
Lo strombazzare di un clacson in lontananza si
alzò debole da un punto a sud. In una notte come
quella, in un luogo come quello, l’intero traffico
scorreva da sud a nord, quando il flusso dei turisti del
fine settimana veniva respinto dalle stazioni termali
e balneari verso Londra: dal piacere al dovere. L’uomo
sedeva dritto e ascoltava con attenzione. Sì, eccolo
ancora, di certo proveniva da sud. Lo sguardo sulla
strada, strizzava gli occhi nell’oscurità. Poi, d’improvviso, gettò la sigaretta e fece un respiro profondo.
Sulla strada, in lontananza, due minuscoli punti gialli
avevano completato una curva. Scomparvero in un
declivio, tornarono a comparire poi scomparvero
ancora. L’uomo inerte nell’autovettura ricoperta fu
d’improvviso risvegliato a nuova vita. Estrasse dalla
tasca una maschera di tessuto scuro che si fissò saldamente sul volto, sistemandola con cura in modo da
poter vedere senza difficoltà. Scoprì per un istante
la lampada ad acetilene e diede una rapida occhiata a ciò che aveva preparato, poi ripose la lampada
sul sedile di fianco accanto ad una pistola
Mauser. Quindi, calzandosi il cappello sulla
testa ancora più di prima, rilasciò la frizione e fece scivolare verso il basso la leva
del cambio. La lunga autovettura nera tossì, diede un brivido poi scattò in avanti; il
potente motore esplose in un dolce sospiro lungo il
pendio. L’autista si abbassò e spense i fanali elettrici.
Soltanto una falciata indistinta di grigio tagliava la
brughiera buia indicandogli il percorso. Da più avanti
proveniva un confuso sbuffare, un rantolo, un fragore metallico mentre l’autovettura in arrivo scollinava.
Tossiva e scoppiettava tenendo una marcia bassa,
potente; il motore pulsava come un cuore affaticato.
Le luci gialle abbaglianti si eclissarono per un’ultima
volta dietro a un tornante. Quando riapparvero, le
due autovetture si trovarono a poco meno di 30 metri l’una dall’altra. Quella scura schizzò sulla strada
mettendosi di traverso, sbarrò il passaggio dell’altra
mentre la lampada ad acetilene veniva agitata in
aria in segno di avvertimento. Uno stridore di freni
e il nuovo e rumoroso arrivato fu indotto a fermarsi.
«Ma dico io», urlò una voce sconsolata, «in fede
mia, vi rendete conto che avremmo potuto avere un
incidente? Perché diamine non avete i fanali accesi?
Letteratura
(One Crowded Hour)
94
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96
qualcosa aveva attratto l’attenzione del giovanotto che sobbalzò, rimanendo senza fiato.
Schiuse la bocca come a voler
emetter suono. Poi, però, si
sforzò di trattenersi.
«Dentro», disse il bandito.
Il passeggero rimontò al suo posto.
«Come vi chiamate?»
«Ronald Barker. E voi?»
L’uomo mascherato ignorò la sua impertinenza.
«Dove abitate?» gli chiese.
«I biglietti da visita sono nel mio portafogli. Prendetene uno.»
Il bandito balzò quindi sulla sua autovettura, il cui
motore aveva fatto da dolce sottofondo con sibili e
sussurri durante tutta la conversazione. Tolse rumorosamente il freno a mano e si avventò sul cambio.
Girò il volante al massimo e superò la Wolseley senza vita. Un minuto più tardi filava a velocità sostenuta con le luci dei fari che accendevano bagliori sulla
strada, circa 800 metri più a sud mentre il signor
Ronald Barker, con uno dei fanali laterali in mano,
rovistava come un forsennato fra le cianfrusaglie
della cassetta degli attrezzi alla ricerca di un pezzo
di cavo per ripristinare il circuito elettrico consentendogli, così, di rimettersi sulla strada di casa.
Quando fu a distanza di sicurezza dalla sua vittima l’avventuriero si rilassò, prese il bottino dalla
tasca, ripose l’orologio, aprì il portafogli e contò il
denaro. Sette scellini costituivano il magro bottino.
Il triste risultato dei sui sforzi sembrava divertirlo
piuttosto che irritarlo, tanto che ridacchiò mentre
stringeva le due mezze corone e il fiorino nello chiarore della lampada ad acetilene. Poi il suo atteggiamento cambiò repentinamente. Si rificcò il portafogli in tasca, rilasciò il freno e ingranò la marcia con
lo stesso intenso atteggiamento con il quale aveva
cominciato la sua avventura: stavano sopraggiungendo sulla strada le luci di un’altra autovettura.
In quell’occasione, i metodi del bandito furono
meno furtivi. L’esperienza gli aveva chiaramente
infuso fiducia. Con i fari accesi corse incontro ai
nuovi arrivati e, fermatosi nel bel mezzo della strada, intimò loro di bloccarsi. Dal punto di vista dei
viaggiatori sorpresi il risultato fu sufficientemente
d’effetto. Nel bagliore dei fari scorsero due dischi
abbaglianti da entrambi i lati del lungo muso nero di
una potente autovettura, a bordo della quale vi era il
volto mascherato e la figura minacciosa del suo autista solitario. Nel cerchio di luce dorata dei fari del
filibustiere, si trovava, invece, un’elegante Humber
cabriolet da venti cavalli con il suo chauffeur mingherlino che, sbigottito, sbatteva le palpebre sotto
la visiera del cappello. Da dietro il parabrezza, i cappelli con veletta e i volti meravigliati di due donne
giovani e carine si sporgevano una da un lato e l’altra dall’altro. Un sottile crescendo di squittii annunciava l’intensa emozione di una di loro. L’altra era più
fredda e dotata di un certo spirito critico.
«Non tradirti, Hilda» le sussurrò. «Taci e non essere sciocca. È uno scherzo di Bertie o di uno dei
ragazzi».
«No, no! È tutto vero, Flossie. È un rapinatore,
sicurissimo. O mio Dio, che facciamo?»
«Che storia!» esclamò l’altra. «Oh, che storia magnifica! È troppo tardi per l’edizione del mattino, ma
apparirà di certo su quella della sera.»
«Ma a quale costo?» si lagnò l’altra. «Oh, Flossie,
Flossie, credo di stare per svenire! Che ne pensi se
gridassimo? Sarebbe meglio? È orripilante con quella maschera sul volto. Oh, per carità! Sta ammazzando il povero Alf!»
Il modo di fare del bandito mostrava un non so
che di inquietante. Precipitatosi fuori dall’abitacolo
della sua vettura aveva sollevato lo chauffeur dal
posto di guida prendendolo per la collottola. Questi, alla vista della Mauser, aveva interrotto tutte le
sue proteste e il piccoletto, sotto minaccia, aveva
aperto il cofano ed estratto le candele dell’accensione. Assicurandosi in siffatta maniera che la preda
fosse immobilizzata, l’uomo mascherato avanzò, la
lampada ad acetilene in mano, portandosi sul fianco dell’auto. Aveva abbandonato la durezza burbera
con la quale aveva trattato il signor Ronald Barker;
la sua voce e il modo di fare erano garbati, sebbene
decisi. Sollevò persino il cappello, a mo’ di saluto.
«Desolato per il disturbo, signore» disse con una
voce molto più stridula rispetto alla precedente
chiacchierata. «Posso chiedervi chi siate?»
La signorina Hilda era incapace di un qualsiasi
discorso coerente, ma la signorina Flossie si mostrò
più decisa.
«Bell’affare», disse. «Amerei sapere con quale diritto ci fermiate su di una pubblica strada.»
«Ho
poco
tempo,» rispose il rapinatore
con voce ferma.
«Devo chiedervi di rispondere
alla mia domanda».
«Diglielo,
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Flossie! Per amor del cielo sii gentile con lui!» piagnucolò Hilda.
«Orbene, siamo del Gaiety Theatre di Londra, se
proprio ci tenete a saperlo», disse la giovane. «Avrete forse sentito parlare della signorina Flossie Thornton e della signorina Hilda Mannering. Recitiamo
al Royal di Eastbourne da una settimana e ci siamo
prese una domenica libera tutta per noi. Adesso lo
sapete!»
«Devo chiedervi i borsellini e i gioielli.»
Gridolini striduli di rimostranza si levarono altissimi dalle due donne ma esse si resero conto, proprio come il signor Ronald Barker, che quell’uomo
dai modi di fare discreti risultava convincente. Nello
spazio di qualche minuto gli avevano consegnato i
borsellini e un mucchietto di anelli, braccialetti, spille e catenine scintillanti che ora erano sistemate sul
sedile davanti. Alla luce della lampada i diamanti
scintillavano come puntini elettrici. L’uomo afferrò
l’involto sfavillante e lo soppesò nel palmo della
mano.
«Vi è niente a cui tenete particolarmente?» chiese alle signore; ma la signorina Flossie non era in
vena di concessioni.
«Vi volete spacciare per un bandito gentiluomo
alla Claude Duval» replicò lei. «Prendere o lasciare.
Non desideriamo che ci vengano restituite le briciole dei nostri averi.»
«Tranne la collana di Billy!» esclamò Hilda, e fece
per afferrare un breve filo di perle. Il rapinatore fece
un inchino e lo mollò.
«Nient’altro?»
La coraggiosa Flossie scoppiò in un pianto improvviso, seguita da Hilda. Sorprendente fu l’effetto
sul rapinatore, che fece scivolare sul grembo a lui
più vicino l’intero involto di gioielli.
«Ecco, ecco, teneteveli pure!» disse. «Comunque
è ciarpame. Ha valore per voi ma non per me.»
In un istante le lacrime si tramutarono in sorrisi.
«Prenda pure le borse. Questa avventura vale
dieci volte il loro valore. Curioso modo davvero di
guadagnarsi da vivere ai nostri giorni! Non temete
di essere catturato? È così meraviglioso, sembra
una scena di una commedia.”
«Potrebbe essere una tragedia», replicò il rapinatore.
«Oh, spero di no, spero proprio di no,» dissero ad
alta voce le due donne di spettacolo.
Ma il rapinatore non era nello stato d’animo
adatto per proseguire la conversazione. Lontano, in
fondo alla strada, erano apparsi dei puntini luminosi.
Letteratura
Non vi ho veduto sino a quando mi sono quasi
schiantato sulla vostra vettura!»
La lampada ad acetilene tenuta in alto rivelò un
giovanotto decisamente in collera, occhi azzurri,
baffi biondi, florido; stava seduto da solo al volante
di un’antiquata Wolseley 12 cavalli. Improvvisamente, l’aspetto afflitto sul suo volto avvampato si tramutò in sconcerto totale. L’autista dell’auto scura si
era catapultato dal sedile e una pistola nera a canna
lunga dall’aspetto minaccioso era puntata contro la
faccia del viaggiatore. Dietro la pistola, un ovale di
tessuto nero con degli occhi micidiali che sbirciavano attraverso due fessure.
«Mani in alto!» disse una voce spedita e severa.
«Mani in alto! O per quanto è vero Dio…»
Il giovanotto era normalmente un uomo coraggioso, ma le sue braccia scattarono comunque verso
l’alto.
«Scendete!» disse l’assalitore in tono brusco.
Il giovanotto avanzò seguito dalla lampada e dalla pistola. Fece per abbassare le braccia, ma una
parola aspra gliele fece contrarre nuovamente verso l’alto.
«Ma, vi rendete conto? Tutto questo è alquanto demodé, nevvero?» disse il viaggiatore. «È uno
scherzo, immagino. Ma cosa...»
«L’orologio», replicò l’uomo con la pistola Mauser.
«Non direte sul serio!»
«L’orologio, ho detto!»
«Ebbene, prendetelo, se proprio dovete. È solo
placcato, comunque. Siete in ritardo di due secoli,
o a qualche migliaio di chilometri di longitudine di
distanza. La foresta o l’America sarebbero il vostro
ambiente. Non vi intonate ad una tipica strada del
Sussex.»
«Il portafogli», disse l’uomo. C’era qualcosa di
molto convincente nella sua voce e nel suo modo di
fare. Il portafogli fu consegnato.
«Anelli?»
«Non ne indosso».
«Fermo lì. Non muovetevi!»
Il bandito passò davanti alla sua vittima e spalancò il cofano della Wolseley. Vi infilò a fondo la mano
con un paio di pinze di acciaio. Si udì il colpo secco
di un cavo elettrico che veniva tranciato.
«Ma che diavolo! Non metterete mica la mia
auto fuori uso!», si lamentò il viaggiatore.
Si voltò, ma con la rapidità di un lampo si ritrovò
la pistola puntata di nuovo alla testa. Eppure, persino in quell’istante, mentre il rapinatore si allontanava rapidamente dal circuito elettrico interrotto,
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soprabito nero aggiungendovi i gemelli di perle e
persino il bottoncino d’oro del colletto. Rassicuratosi che non vi fosse null’altro da arraffare, il rapinatore indirizzò la luce della lampada ad acetilene
sullo chauffeur prostrato e si accertò che non fosse
morto, ma semplicemente stordito. Poi rivolse nuovamente l’attenzione al suo padrone procedendo
deliberatamente a spogliarlo degli abiti che gli sfilò con un’energia feroce, il che fece sì che la sua
vittima cominciasse a piagnucolare e a contorcersi
nell’imminente attesa della propria morte.
Le intenzioni del suo aguzzino non erano ben
chiare e, sebbene scaturissero da sue frustrazioni,
avevano prodotto i frutti desiderati. Un suono lo costrinse a voltare il capo: a non molta distanza, ecco
le luci di un’autovettura che proveniva velocemente
da nord. L’auto doveva aver già superato il disastro
che il pirata aveva lasciato dietro di sé. Stava seguendo volutamente le sue tracce, probabilmente
piena zeppa di poliziotti locali.
Non c’era tempo da perdere. L’avventuriero schizzò via dalla sua vittima infangata, balzò al posto di
guida e, piede sull’acceleratore, partì velocemente
lungo la strada. Laggiù, da qualche parte, c’era uno
stretto viottolo laterale nel quale il fuggitivo si infilò, spingendo sull’acceleratore, portandosi a buoni
otto chilometri di distanza da qualunque inseguitore prima di arrischiare a fermarsi. Poi, in un angolo tranquillo, quantificò il bottino della serata, la
misera ruberia al signor Ronald Barker, i borsellini
piuttosto gonfi delle attrici che, nell’insieme, contenevano quattro sterline e, infine, i magnifici gioielli e
il portafogli pieno zeppo di banconote del plutocrate
sulla Daimler. Cinque banconote da cinquanta sterline, quattro da dieci, quindici sovrane e numerosi
documenti di valore costituivano una refurtiva decisamente nobile. Era chiaramente più che sufficiente
per una notte di lavoro. L’avventuriero ripose in tasca l’intero maltolto e, accesa una sigaretta, si avviò sulla strada di casa con l’aria di chi non ha altre
preoccupazioni per la testa.
Fu il lunedì mattina successivo a quella serata
movimentata che Sir Henry Hailworthy di Walcot
Old Place, terminato che ebbe di fare colazione in
maniera rilassata, si recò nel suo studio con l’intenzione di scrivere alcune missive prima di avviarsi a
prender posto nel tribunale della contea. Sir Henry
era Deputy-Lieutenant, Vice Rappresentante di Sua
Maestà il Re, nella sua contea, baronetto di sangue blu da generazioni, magistrato con dieci anni di
servizio; ed era soprattutto famoso come allevatore
di un gran numero di ottimi cavalli e per essere il
cavallerizzo più appassionato di tutta la contea di
Weald. Alto, robusto, un volto dai tratti marcati, ben
sbarbato, le folte sopracciglia nere e la mascella
squadrata e decisa: uno come lui era meglio farselo
amico.
Sebbene sulla cinquantina non sembrava che la
giovinezza lo avesse abbandonato, a parte il fatto
che la Natura, in un momento di follia, gli aveva
piantato tra i capelli una piccola penna bianca, proprio dietro l’orecchio destro, facendo apparire per
contrasto il resto dei suoi ricci neri e fitti ancora più
scuri. Quella mattina sembrava meditabondo poiché, accesa la pipa, sedeva dietro la sua scrivania
con un foglio bianco dinnanzi, perso in qualche sogno ad occhi aperti.
Ma i suoi pensieri furono ricondotti d’improvviso
al presente. Dai cespugli di alloro lungo la curva del
viale d’accesso proveniva un lento suono metallico
che crebbe fino ad essere distinguibile come lo sferragliare monotono di un’auto d’epoca. Quindi da dietro l’angolo sbucò una Wolseley vecchio stile guidata da un giovanotto con un volto dall’incarnato roseo
e i baffi biondi, alla cui vista Sir Henry scattò in piedi
per poi rimettersi subito a sedere. Si rialzò solo quando, un minuto più tardi, il lacchè annunciò l’arrivo del
signor Ronald Barker. Era una visita di primo mattino
ma Barker era un amico intimo di Sir Henry. Erano
entrambi eccellenti tiratori, cavallerizzi e giocatori di
biliardo e pertanto avevano molto in comune; il più
giovane (e più povero) aveva l’abitudine di trascorrere a Walcot Old Place almeno un paio di serate
a settimana. Pertanto Sir Henry gli si fece incontro
cordialmente, tendendogli la mano per accoglierlo.
«Siete mattiniero stamani», disse. «Cosa c’è che
non va? Se vi state recando da Lewes possiamo andarci insieme con l’autovettura.»
Ma l’atteggiamento del giovanotto era strano
e scortese. Non si curò della mano che gli veniva
tesa e non si mosse mentre si tirava i lunghi baffi,
fissando preoccupato il magistrato della contea con
sguardo interrogativo.
«Qual è dunque il problema?» chiese quest’ultimo.
Ma il giovanotto non proferì parola. Era evidente,
aveva i nervi a fior di pelle e trovava estremamente difficile aprire il discorso. Il suo ospite diventava
impaziente.
«Non sembrate essere in voi
stamani. Che diamine! Qual è il
problema? C’è qualcosa che vi disturba?»
«Sì» rispose Ronald Barker con
veemenza.
«Cosa?»
«Voi.»
Sir Henry sorrise. «Sedetevi, caro amico mio.
Qualunque rimostranza abbiate da farmi sono tutto
orecchi.»
Barker si accomodò. Sembrava stesse concentrandosi per fargli una lavata di capo e quando si
sentì pronto esplose, come una pallottola.
«Perché mi avete derubato la notte scorsa?»
Il magistrato era un uomo dai nervi d’acciaio e
non rivelò né sorpresa né rancore. Il volto calmo e
imperturbabile, non mosse un muscolo.
«Perché mai affermate che vi ho derubato la
scorsa notte?»
«Un uomo grande e grosso su un’autovettura mi
ha fermato sulla strada per Mayfield. Mi ha puntato
una pistola alla testa e sottratto portafogli e orologio. Sir Henry, quell’uomo eravate voi.»
Il magistrato sorrise.
«Sono l’unico grande e grosso in questo distretto? L’unico a possedere un’autovettura?»
«Credete davvero che non sia in grado di riconoscere una Rolls Royce se ne vedo una, proprio io
che passo metà della mia vita alla guida di un’auto
e l’altra metà ad aggiustarla? Chi possiede una Rolls
Royce nei dintorni oltre voi?»
«Mio caro Barker, non credete che sia più probabile che un bandito moderno come quello da
voi descritto operi al di fuori del proprio distretto? Avete idea quante centinaia di Rolls Royce ci
possano essere nel sud dell’Inghilterra?»
«No, Sir Henry, proprio no. Persino la vostra voce,
sebbene la abbiate resa più profonda, mi suonava
alquanto familiare. Accidenti! Perché lo avete fatto?
Non riesco proprio a spiegarmelo. Che mi abbiate
derubato, proprio io, uno dei vostri amici più stretti,
io che ho sempre sgobbato per voi quando vi siete
candidato nel distretto; e tutto questo per un orologio Brummagen e qualche scellino: è semplicemente
da non crederci.»
«Semplicemente da non crederci» ripeté il magistrato e sorrise.
«E poi le attrici, quelle povere anime di Dio, che
devono guadagnarsi tutto quanto possiedono. Vi
ho seguito, sapete? Avete giocato sporco, mai visto niente del genere. Se si fosse
trattato di uno strozzino sarebbe
stato diverso. Se qualcuno decide
di commettere un furto, con quelli la caccia è aperta. Ma prima il
vostro amico e poi quelle ragazze,
99
Letteratura
Nuovo lavoro si appressava e lui non doveva far
confusione fra i vari colpi.
Mise in moto l’auto, sollevò il cappello e svignò
verso il nuovo arrivato mentre la signorina Flossie e
la signorina Hilda facevano capolino dall’autovettura lì abbandonata, ancora col cuore in gola per l’avventura vissuta, a guardare il bagliore rosso dei fari
posteriori finché non si dissolse nell’oscurità.
Stavolta, tutto faceva presagire un bottino prezioso. Dietro i quattro grandi fari incastonati in un
ampio telaio di ottone scintillante, la magnifica
Daimler da sessanta cavalli stava scollinando con
il suo russare lento, profondo e regolare che rivelava la sua enorme potenza latente. Come un galeone spagnolo col suo prezioso carico, la poppa alta,
la Daimler continuò la sua corsa fino a quando la
nave che si aggirava furtivamente in cerca della sua
preda, che ora le si parava dinnanzi, ne spazzò via
la prora obbligandola a fermarsi di colpo. Un volto
arrabbiato, rosso, chiazzato e cattivo si sporse fuori
dal finestrino aperto della limousine. Il rapinatore
notò quella fronte alta e liscia, le guance pendule e
rozze e quei due occhietti furbi che lampeggiavano
fra le grinze di grasso.
«Spostatevi, signore! Via di qui,
all’istante!» risuonò una voce stridula. «Prendilo sotto, Hearn! Esci
e smuovilo dal posto di guida. Questo è ubriaco, ubriaco!»
Fino a quel punto il modo di fare
del moderno bandito avrebbe potuto essere considerato garbato. Adesso era diventato selvaggio in
un istante. L’autista, un tizio corpulento e capace,
incitato alle sue spalle da quella voce rauca, balzò
fuori dal veicolo e afferrò per il collo il rapinatore
che avanzava. Quest’ultimo gli sferrò un colpo con
il calcio della pistola e l’uomo, con un mugugno,
cadde riverso sul selciato. Scavalcando il suo corpo prostrato l’avventuriero aprì la portiera e afferrò
selvaggiamente per un orecchio il corpulento occupante che sbraitava mentre veniva trascinato sulla
strada. Poi, con aria calma, gli mollò a mano ben
tesa un paio di schiaffi in faccia. I colpi risuonarono
come pistolettate nel silenzio della notte. Il grasso
viaggiatore impallidì in maniera spettrale e cadde,
quasi privo di sensi, contro la fiancata della limousine. Il rapinatore lo strattonò per il soprabito aprendolo e gli strappò la grossa catena d’oro dell’orologio con tutto quanto vi era agganciato e la grande
spilla con diamante che scintillava sulla cravatta di
seta nera. Gli sfilò quattro anelli, tutti chiaramente
di un certo valore, e infine estrasse dalla tasca interna un voluminoso portafogli. Si trasferì il tutto nel
Mayfield la notte scorsa.»
«Ma perché diamine…»
«D’accordo. Ve lo racconterò a modo mio. Prima
di tutto, desidererei che deste uno sguardo a questi.» Aprì un cassetto chiuso a chiave e ne estrasse
due pacchetti. «Avrebbero dovuto essere spediti da
Londra in serata. Questo è indirizzato a voi e posso consegnarvelo all’istante. Contiene
il vostro orologio e il portafogli.
Ecco, vedete, se escludiamo il cavo elettrico che
ho tranciato non
avreste avuto
alcun svantaggio da
questa
avventura.
101
un discorso a parte. Potete credermi sul mio onore:
per lo chauffer avevo in mente altro. Ma è del suo
padrone che desidero parlare. Sapete che io stesso
non sono ricco: credo che questo sia risaputo in tutta la contea. Quando Black Tulip perse il Derby per
me fu un brutto colpo, ma sono successe anche altre
cose. Avevo un lascito di circa mille sterline. Questa
maledetta banca dava il sette per cento
sui depositi. Conoscevo Wilde.
Lo incontrai. Gli chiesi se
fosse un investimento sicuro. Mi disse
di sì. Versai il
mio denaro
in banca, e
nel giro
di quarant o tt o
ore
è
Quest’altro
pacchetto
è
indirizzato alle
ragazze del Gaiety
Theatre, contiene i loro
beni. Spero di avervi convinto che avevo deciso comunque di porre rimedio in toto, prima che
voi veniste ad accusarmi.»
«E con ciò?» chiese Barker.
«E con ciò adesso ci occupiamo di Sir George Wilde che è, come voi forse non sapete, socio anziano
di Wilde e Guggendorff, i fondatori della tristemente nota Ludgate Bank. Quanto al suo chauffeur, è
a n d a t o
tutto in
fumo. Davanti all’amministratore fallimentare venne fuori
che Wilde sapeva già da
tre mesi che nulla avrebbe
potuto salvarlo! E tuttavia aveva
preso tutta la mia mercanzia a bordo della sua nave che stava affondando. A lui è andata
bene, al diavolo! Aveva risorse a sufficienza, lui!
Io, per contro, avevo perduto tutto il mio danaro e
la legge non poteva essermi d’aiuto in alcun modo.
Ebbene, era evidente che mi aveva rapinato proprio
come un rapinatore comune fa con le sue vittime.
Lo incontrai e mi rise in faccia. Mi disse di limitarmi
ai titoli consolidati, e che la lezione non mi era poi
costata chissaché. E fu così che giurai a me stesso
che, in una maniera o nell’altra, avrei pareggiato i
conti con lui. Conoscevo le sue abitudini poiché era
diventato affar mio conoscerle. Sapevo che ogni domenica sera faceva ritorno da Eastbourne. E sapevo pure che aveva con sé, nel portafogli, una bella
sommetta. Ebbene, adesso quello è diventato il mio
portafogli. Volete dirmi che non sono moralmente
giustificato in ciò che ho fatto? Per Giove, avrei lasciato quel demonio nudo come un verme, proprio
come ha fatto lui con molte vedove e orfani, se solo
ne avessi avuto il tempo!»
«Comprendo. Ma io cosa c’entro? E le ragazze?»
«Barker, un po’ di buon senso. Ritenete che io
potessi prendere a rapinare questo mio personale
nemico senza essere scoperto? Impossibile. Dovevo
far finta di essere solo un comune rapinatore capitatogli innanzi per caso. Fu così che mi scatenai sulla
strada e colsi al volo l’occasione. Il diavolo ci mise lo
zampino perché il primo che incontrai foste proprio
voi. Stupido io a non riconoscere quel vostro vecchio
macinino che si arrampicava sulla collina. Quando vi
vidi riuscii a malapena a parlare tanto non riuscivo a
trattenere le risate. Ma dovevo arrivare fino in fondo alla faccenda. Stessa cosa dicasi per le attrici.
Temo di essermi fatto scoprire perché non potevo
prendere i loro fronzoli, e pur tuttavia dovevo portare avanti la mia commedia. Poi, è arrivato il mio
uomo. Con lui non bluffai. Ero uscito per spellarlo e
così fu. Allora, Barker, che ne pensate ora di questa
storia? La notte scorsa ero lì a puntarvi una pistola
alla testa e perbacco, che ci crediate o no, stamani
siete voi a puntarmela!»
Il giovane si levò lentamente e, indirizzandogli un
sorriso a trentadue denti, prese la mano del magistrato e gliela strinse forte.
«Non fatelo più. È troppo rischioso» disse. «Quel
porco riporterebbe una pesante vittoria se vi scoprissero.»
«Siete un brav’uomo, Barker» replicò il magistrato. «Non lo farò più. Chi era quel tale che parlava di
”un’ora movimentata nella nostra fantastica vita”?
Perbacco! È così affascinante. Me la sono proprio
spassata. Alla faccia della caccia alla volpe! No,
non mi ci proverò ancora, temo di prendere il vizio.»
Il telefono che era sul tavolo squillò all’improvviso e il baronetto si portò la cornetta all’orecchio.
Mentre ascoltava sorrise al suo amico dall’altro lato.
«Sono piuttosto in ritardo stamani», gli disse.
«Sono atteso nel mio ufficio, devo giudicare qualche
furtarello.»
Letteratura
ribadisco, non lo avrei mai creduto.»
«Perché crederci, allora?»
«Perché è così.»
«Ebbene, sembra che vi siate convinto di ciò. Eppure non mi sembra che abbiate molte prove da portare davanti a chicchessia.»
«Potrei giurare che foste voi, in un tribunale. E
quando avete tranciato i fili elettrici della mia autovettura, una licenza diabolica! Quello é stato il colmo. Ho veduto quella vostra ciocca bianca spuntare
dalla maschera.»
Per la prima volta, agli occhi di un acuto osservatore non sarebbe sfuggita la traccia di una timida
emozione sul volto del baronetto.
«Sembra che abbiate un’immaginazione piuttosto fervida», disse.
Il suo visitatore avvampò dalla rabbia.
«Guardate qui, Hailworthy», replicò mentre apriva la mano mostrandogli uno sbrindellato triangolino di tessuto nero. «Lo vedete? Era per terra vicino
all’autovettura delle ragazze. Deve essersi strappato quando siete uscito dall’abitacolo. Ora ordinate
che venga portato quel vostro pesante soprabito da
guida nero, e se non suonate il campanello lo farò
io stesso e ordinerò che venga portato all’istante. È
mia intenzione andare fino in fondo, e attento a voi
a non fare mosse false.” La risposta del baronetto
fu sorprendente. Si alzò, superò la sedia sulla quale
sedeva Barker e, indirizzandosi verso la porta, diede
alcune mandate e ripose la chiave in tasca.
«Avete intenzione di andare fino in fondo»,
replicò. «Bene, vi terrò qui dentro finché non ci
sarete riuscito. E ora, Barker, faremo un bel discorsetto da uomo a uomo, e se finirà in tragedia dipenderà solo da voi.»
Mentre parlava aveva aperto per metà un cassetto dello scrittoio. Il suo visitatore aggrottò le sopracciglia irritato.
«Minacciarmi non vi renderà le cose più semplici,
Hailworthy. Intendo fare il mio dovere e non mi lascerò certo ingannare da voi.»
«Non ho intenzione alcuna di ingannarvi. Quando
parlo di tragedia non parlo di voi. Quello che intendevo è che a questa storia non è dato di prendere
certe strade. Non ho amici né parenti ma c’è l’onore
della famiglia da salvare, e certe cose sono inammissibili. »
«È tardi per parlare in siffatta maniera.»
«Forse sì, ma non è troppo tardi. Ed ora ascoltatemi, perché ne ho tante da dire. Innanzitutto, avete
ragione: sono stato io a rapinarvi sulla strada per
100
POSTFAZIONE
precisa con la quale anche l’autore
sembra d’accordo.
Doyle, infatti, era impegnato in varie
campagne contro l’ingiustizia arrivando
perfino a convincere i tribunali a
riaprire due processi che erano stati
chiusi con condanne (in entrambi i casi
all’ergastolo) che riteneva ingiuste.
Queste sue azioni hanno contribuito
alla creazione della corte d’appello
britannica. Alla luce di questo, è
estremamente probabile che Doyle
abbia fantasticato riguardo ai modi
possibili di “farla pagare” a un banchiere
disonesto come quello che appare nel
racconto. Non sappiamo se avesse in
mente un individuo preciso o piuttosto
lo stereotipo del banchiere imbroglione,
ma di sicuro Doyle si sentiva in dovere di
dare una lezione a qualcuno.
Lo vediamo dal fatto che il “Robin Hood”
della situazione è un Deputy Lieutenant,
il vice rappresentante della corona nella
contea del Sussex (lo deduciamo dal
fatto che l’avventura si svolge “vicino
a Cross in Hand”, che è appunto in
Sussex), “da una decina di anni”. Dal
1902 (ovvero una decina di anni prima
della pubblicazione di questo racconto)
fino alla morte avvenuta nel 1930, Doyle
è Deputy Lieutenant nel vicino Surrey.
Insomma, si ha la netta impressione
che Sir Henry Hailworthy non sia altri
che Doyle stesso (anche se non ci
risulta che Doyle sia incorso in problemi
di natura economica simili a quelli del
personaggio), che non può punire i
disonesti direttamente quindi crea una
storia nella quale uno di loro ha quello
che si merita.
Letteratura
di Marco Piva-Dittrich
Sir Arthur Conan Doyle
“One Crowded Hour”
(“Un’ora movimentata”) è stato
pubblicato per la prima volta nell’agosto
del 1911 dal prestigioso The Strand
Magazine, che ha pubblicato la maggior
parte dei racconti di Doyle, e poi nella
collezione Danger! and Other Stories del
1918. Il titolo alternativo della storia,
“A Pirate of the Land” (“Un pirata di
terraferma”), è più suggestivo del suo
contentuto ma forse si confà meno allo
stile dell’autore, che preferisce titoli
vaghi che rivelano il meno possibile.
Naturalmente Arthur Conan Doyle
è noto a tutti come l’autore delle
avventure di
Sherlock Holmes, ma “Un’ora
movimentata” ha poco o niente a che
fare con il popolarissimo investigatore.
Non sappiamo di preciso quando Doyle
abbia scritto questo racconto, ma è
stato pubblicato diversi anni dopo il
“ritorno” di Holmes, la cui morte l’autore
aveva narrato nel 1893 nella speranza
di liberarsi da quel personaggio così
ingombrante ma che la pressione dei
lettori e probabilmente dello Strand
lo avevano costretto a “resuscitare”
nel 1902.
Il protagonista della storia sembra
essere una versione moderna (o quanto
meno moderna per l’epoca) di
Robin Hood o Dick Turpin. Sulla sua
Rolls Royce, tende agguati ai pochi
automobilisti lungo la strada. L’idea di
vederlo rapinare due auto di persone
innocenti, prima di commettere il colpo
cui veramente tiene, non è di certo una
novità e ci starebbe in una storia classica
di detective, ma è interessante vederla
dal punto di vista di chi commette il
delitto, con una giustificazione morale
102
103
N
ei primi anni Ottanta a Neil Gaiman venne offerto
un lavoro come giornalista da Penthouse. Che lui
prontamente rifiutò, nonostante il suo editore avesse appena dichiarato bancarotta.
Cosa sarebbe successo
se l'allora romanziere in
erba avesse accettato il
posto in redazione? I lettori di Penthouse avrebbero
forse avuto la fortuna di
leggere articoli insolitamente immaginifici a contorno delle consuete foto
provocanti, ma la letteratura moderna avrebbe di
certo perso uno dei suoi figli più creativi.
Il nome di Gaiman porta
subito alla mente i titoli dei suoi
romanzi più celebri: la favola
delicata di Stardust, l’incantata
avventura di Richard nella Londra-di-sotto in Nessundove, la
cosmogonia potente e moderna
di American Gods. O, in alternativa, evoca l’universo complesso
e multicolore di Sandman. Eppure Neil Gaiman è anche un illusionista, un mago che gioca con
fumo e specchi per inanellare
una serie di racconti dal retrogusto incantato e incantevole.
Un artigiano che con perizia e
cura infinita dà vita a creazioni
fragili ed evanescenti, eppure
così tenaci da restare aggrappate per sempre nella fantasia
del lettore.
Che Gaiman sia un bravo
scrittore è fuori discussione. Ma
c’è una differenza fra scrivere
romanzi e dedicarsi a racconti
brevi, e non è affatto scontato
che un autore sia in grado di gestire entrambi con la medesima
abilità.
Questo autore non solo ci
riesce, ma lo fa in grande stile.
Esordisce con Angel Visitations
nel 1993, ma sono Smoke
and Mirrors (1998) e Fragile
Things (2006) le due raccolte di
racconti nelle quali il talento di
questo creatore di portenti
emerge con prepotenza.
Le raccolte sono, ahimè!, quasi del tutto inedite in Italia. Solo alcuni
racconti sono stati pubblicati da Mondadori nella
raccolta Il cimitero senza
lapidi e altre storie nere. Ed
è un vero peccato, perché
garantiscono una lettura
assai piacevole, e un alto
livello di intrattenimento.
Questi racconti sono come
le ciliegie, quelle lucide,
mature e seducenti: uno
tira l’altro.
Gaiman arpeggia le parole con levità, passando
dal fantasy all’horror alla
detective-story, accarezzando il noir, il weird e il
semplicemente inconsueto. Ma molto spesso l’aspetto
fantastico scivola in secondo
piano ed è quasi impercettibile.
Fra le sue pagine il reale e l’immaginario si mescolano in modo
così sottile che molto presto
risulta impossibile distinguere
dove finisca l’uno e inizi l’altro.
Ed è proprio questo il suo intento: confondere e affascinare, in
un gioco di ombre e di sospiri,
pervaso da una vena discreta
ma persistente di arguta ironia.
Le raccolte sono rese ancora più preziose da un dono
inusuale: ciascun racconto è
preceduto da un commento
dell’autore, che illumina il lettore
sulle circostanze che hanno dato
vita a quella particolare storia.
Alcuni pezzi sono stati scritti
su commissione, o su semplice
richiesta; qualcuno è un regalo,
per il compleanno delle figlie o
di un amico; e qualcuno nasce
da quella zona oscura fra il sonno e la veglia che è il regno delle
suggestioni.
I commenti sono di volta in
volta curiosi, sarcastici, talora esilaranti. Ci permettono di
gettare uno sguardo sulla vita
dell’uomo che sta dietro le storie, e di capire i meccanismi inconsci che danno vita al mondo
dell’immaginario. Nello stile che
è proprio di Gaiman, alcuni fra i
commenti mutano forma sotto lo
sguardo del lettore e si trasformano in racconti dentro i racconti, fornendo un’infinita fonte di
intrattenimento. Si riesce quasi
a cogliere, fra le righe, l’autore
che ci strizza l’occhio.
E poi ci sono i poemi. Sì,
perché l’autore non si limita ai
racconti, ma impreziosisce le
raccolte di versi, che spaziano
dalla satira al lirismo, dall’irrazionale all’inaspettato. Alcuni
di essi mordono in poche righe,
altri ammaliano con precisa, accurata musicalità.
Smoke and Mirrors si apre
narrando al lettore come in
passato fumo e specchi fossero
gli artefici prediletti dai prestidigitatori, che li usavano per
ammaliare e con-
specie
Come una
o
di vampir nte
me
particolar
il
testardo,
si rifiuta
racconto
e
di morire,
vere –
sembra a
fondere l’occhio dello spettatore – solo illusioni, o un modo
astuto per nascondere la vera
magia?
Per Gaiman le storie sono
come specchi, mezzi tramite i
quali possiamo scoprire realtà
che altrimenti non potremmo
vedere. Aspetti diversi della
quotidianità, dove l’insolito è
sempre in agguato, anche dove
nze
a
t
s
o
c
ir
nelle c – una
li
attua ione ideale
s
dimen nostra
per la zione.
a
gener
an
m
i
a
G
Neil
105
Letteratura
l'altra realtà di Neil Gaiman
di giulia marengo
104
106
There are so many
fragile things
after all.
People break so easily
and so do
dreams & hearts
Neil Gaiman
raccolta. Il titolo si riferisce sia
ai racconti in essa contenuti,
che alla natura della narrazione
in sé. Secondo Gaiman le storie,
così come tutte le cose più fragili – il cuore umano, il guscio di
un uovo, e i sogni stessi – appaiono delicate, ma sono invece
insospettabilmente tenaci.
Una storia è composta
di semplici lettere, segni
di interpunzione, vocali o
consonanti. Ma alcune storie
ci accompagnano da centinaia,
forse migliaia di anni, e
resteranno con noi per sempre.
Fragile Things si apre con una
brillante parodia del miglior Conan Doyle, mescolato a un pizzico di Lovecraft: A study in green
coniuga con sapiente perizia la
razionalità del primo e il senso
dell’orrore del secondo, e conclude con un finale a sorpresa.
Gaiman infrange le regole
e lascia al lettore il compito di
giudicare se l’elemento fantastico esista o sia una mera
suggestione,
l’illusione
di qualcosa di reale che
scoppia al primo sguardo
come una bolla di sapone.
Inanella idee semplici e
straordinariamente felici
in cui ribalta la quotidianità (Forbidden Brides of
the Faceless Slaves in the
Secret house of Dread Desire) a vignette irresistibili
dal retrogusto fantascientifico (How to talk to girls
at parties); ricama in modo
irriverente su personaggi
altrui, senza timore di disturbare autori del calibro
di C. S. Lewis (The problem
of Susan); e giunge infine
all’autocitazione, con racconti che espandono e
alimentano gli universi da
lui stesso creati – in particolare quello di American Gods
(Keepsakes and treasures e The
monarch of Glen).
Smoke and mirrors e Fragile
things rapiscono il lettore, lo incantano con miti e portenti e lo
trascinano con sé in un mondo
ammaliante che rende credibile
l’incredibile. E dimostrano che
la nostra rassicurante realtà è
forse appena un po’ più bizzarra,
magica e inquietante di quanto
siamo soliti credere.
Letteratura
Lovecraft, amatissimo da Gaiman. Ombre di Chtulhu palpitano in diversi racconti, da Shoggoth’s Old Peculiar a Only the
end of the world again. Ci sono
quelli evidenti (One life, furnished with early Moorcock) e
quelli sottili, e le rivisitazioni di
grandi classici: dopo aver letto
Snow, glass, apples non riuscirete mai più a pensare a Biancaneve allo stesso modo, è una
promessa. La magia continua
con Fragile things, la seconda
107
meno lo si attende.
La raccolta contiene trentaquattro racconti, legati insieme
forse soltanto dall’intento ambizioso di irretire e affascinare.
Si apre con Chivalry, un’ironica
vignetta in cui un’educatissima
vedova si imbatte nel Santo
Graal in un negozio di oggetti
di seconda mano e lo acquista
per il semplice fatto che starebbe benissimo sulla mensola
del suo caminetto, accanto alle
ceneri del marito defunto. Non
pare granché sorpresa
quando Sir Galaad viene
a bussare alla sua porta,
domandando, con cavalleresca cortesia, che gli
venga consegnato il calice. La donna rifiuta ma gli
offre un tè, il primo di innumerevoli – perché Galaad ha una missione e non
accetta certo un no come
risposta. È una favola delicata, in cui la realtà della
provincia si mescola con il
mito, ed è una delle storie
che Gaiman predilige nelle
sue letture pubbliche.
La raccolta contiene
anche un racconto, molto lungo, che accarezza
uno dei temi preferiti da
Gaiman, quello degli angeli. Lungi da lui gli orpelli
stucchevoli, in Murder Mysteries ci narra l’inchiesta di un
angelo caduto, che indaga su un
omicidio – il primo omicidio della storia. E ci lascia sulle labbra
una delle domande più complesse di tutti i tempi: esiste davvero il libero arbitrio?
Molte sono poi le citazioni
letterarie, così tante e molteplici che alle volte scovarle diventa
una vera e propria caccia al tesoro. Si passa dai tributi a Poe
(The Price) a quelli – numerosi – a
S
ono tempi grami per il fantastico. La scarsezza di idee sembra essere tale che il fantasyspazzatura, nato dalla clonazione di pochi
modelli di successo, sembra essere imperante. Per
di più, da un punto di vista squisitamente italiano,
la presenza di tali cloni, mutuati in particolare dai
bestseller anglosassoni,
sembra essere dominante. Come uscirne?
Per la narrativa fantastica nostrana una
soluzione potrebbe essere quella di assumere uno sguardo meno
anglo-centrico e al tempo stesso più europeo.
Ad esempio, studiando
autori come il polacco
Stanislaw Lem (1921
– 2006), creatore del
capolavoro Solaris, o il
tedesco Andreas Eschbach. Artisti che non
hanno pedissequamente
seguito i loro colleghi
britannici e americani.
A questi esempi virtuosi
dobbiamo ora aggiungere il bel romanzo
del 2004 La Horde du Contrevent (L'orda del vento), nato dalla penna del francese Alain Damasio
(pseudonimo di Alain Raymond). L'orda del vento,
vincitore nel 2006 del prestigioso Grand prix de
l'Imaginaire, è giunto in Italia grazie alla Editrice
Nord nel 2009 e ha recentemente beneficiato di
un'edizione tascabile a cura della TEA. Damasio,
nato a Lione nel '69, ha offerto ai suoi lettori un
libro complesso, a tratti di difficile comprensione.
Questo a causa dei tentativi di sperimentalismo
letterario presenti, che ricordano quelli di certi
scrittori americani di sci-fi degli anni '60 / '70, in
particolare ad Harlan Ellison e a Samuel R. Delany.
Possiamo però garantirvi che qualsiasi fatica sarà
ricompensata.
di Claudio Cordella
L'orda del vento è un romanzo poderoso, una
narrazione corale nella quale si intrecciano non
solo una pluralità di voci narranti, ognuna con il
suo personale punto di vista riguardo agli avvenimenti di cui è spettatrice o direttamente partecipe, ma anche di significati. Volendo indicare
brevemente le maggiori qualità di questo meraviglioso concentrato di fantasia,
avventura, psicologia, filosofia,
idee mistico-religiose e speculazione scientifica potremmo dire
che L'orda del vento è sia polisemico (concentrando in sé tutta una
pluralità di significati diversi) che
polifonico, assumendo la struttura
di un'avvolgente sinfonia che lascia stupefatti.
In un mondo senza nome, dominato dal vento che è la forza della
natura dominante in questa realtà,
da generazioni si tenta senza successo una missione disperata: inviare un gruppo di uomini e donne
sino alla Extrême-Amont (Estrema
Vetta). L'impresa, a metà strada
tra un pellegrinaggio che dev'essere compiuto in base a determinate
regole e una missione di esplorazione,
è portata avanti di generazione in generazione da un gruppo chiamato Orda. Ora la 34ª
Orda, capitanata dal tenace Golgoth, un uomo corpulento pieno di rabbia e cinismo, si avvicina alle
fasi finali di un viaggio che per lui, come per molti
suoi compagni, è iniziato sin dall'infanzia dopo un
duro addestramento.
Damasio ha concretamente dato vita a un romanzo-mondo, una creazione letteraria capace di
contenere all'interno delle sue pagine un intero
universo, seguendo in questo l'esempio di Dune di
Frank Herbert, della Middle-Earth (Terra di Mezzo) tolkeniana e dei romanzi della Ursula K. Le
Guin. Mostrando di possedere un'immaginazione
ugualmente vasta e potente, affatto intimidita da
descrivere i venti, si alterna nella narrazione come
se si trattasse di attori impegnati nella recitazione di un dramma particolarmente intenso. Oppure
come se si trattasse delle voci di un coro. Ogni
membro dell'Orda è associato a un simbolo, ad
esempio Sov, il quale scoprirà un segreto inimmaginabile e la cui vita sarà segnata fino alla fine
dall'amore per la bella Oroshi, è indicato come “)”,
con una parentesi.
La Nord incluse un segnalibro all'interno de
L'orda del vento, quest'ultimo riportava gli abbinamenti simbolo/nome/ruolo svolto all'interno
dell'Orda dei diversi personaggi. Un'utile guida per
non perdersi tra i venti dell'universo di Damasio.
Una realtà alternativa che ha beneficiato, nella sola edizione francese, di una colonna sonora,
composta da Bruno Raymond-Damasio, il fratello
del romanziere, che si accompagnasse alla lettura
di quest'epica avventura. Adesso sta persino per
arrivare una coproduzione animata
franco-nipponica, un film d'animazione in computer graphic e in 3D
stereofonico, per la regia del franco-olandese Jan Kounen e per la
sceneggiatura di Magalie Helle.
La pellicola attualmente in lavorazione è indicata con il titolo anglofono di Windwalkers: Chronicles of
the 34th Horde. Un successo non da
poco e ben meritato, raggiunto da
chi ha saputo esplorare nuove frontiere, servendosi della solida tradizione della letteratura di genere pur
non rimanendone schiavo. Preferendo battere sentieri mai percorsi
prima invece che spacciare l'ennesima copia priva della benché minima
originalità per capolavoro.
109
Letteratura
:
o
t
n
e
v
l
e
d
Lo' cormedconaiugare fantasia, letteratura e successo
costoro, mettendosi apertamente in gara con
i maestri del passato e rivaleggiando con loro,
questo talentuoso scrittore non solo crea una geografia peculiare, sottoposta a particolari condizioni atmosferiche e climatiche, ma arriva persino
a dare delle nuove leggi fisiche alla realtà da lui
descritta. Usi e costumi delle diverse popolazioni,
nomadi o sedentarie che sia, sono sempre descritti con gran accuratezza. Avendo a che fare con una
terra in cui è il vento l'elemento principe, sfruttato
come fonte di energia ma al tempo stesso causa
di immense catastrofi, Damasio giunge a inventare un peculiare sistema di annotazione della forza
del vento, fatto di punti e di virgole, che assomiglia
al pentagramma di uno spartito.
La natura polifonica del romanzo è accentuata
dalla sua struttura narrativa. Ciascun personaggio, come lo scriba Sov Strochnis, che è in grado
di usare i simboli di cui sopra abbiamo detto per
racconto
Figlia del Crepuscolo
Piccardia, Francia,
inverno 1917
N
Illustrazione© Max Rambaldi
on li sentirono arrivare.
La cortina di fumo li vomitò fuori all'improvviso,
un centinaio di yarde davanti
a loro, come creature sbucate
da un mondo capovolto, molto
diverso da quello che avevano
conosciuto da bambini. Niente
Cappellaio Matto, rospi parlanti, o pirati, ma velocità, zanne e
furore. Un attacco silenzioso e
disperato attraverso la Terra di
Nessuno devastata dagli incendi e dalle esplosioni. Un attacco
all'arma bianca: mazze, asce,
lame.
Dalla ridotta si aprì un fuoco
di fila, dapprincipio incerto, poi
sempre più martellante. Grida bestiali si alzarono al cielo
incolore, accompagnate dalla
percussione delle mitragliatrici.
Non erano uomini. Non più, se
mai lo erano stati. I proiettili
li ribaltavano all'indietro, uno
sull'altro, riempiendo di cadaveri il terreno. Un tenentino di primo pelo si sgolava al telefono:
il nemico non doveva essere lì,
il nemico si stava ritirando, faceva terra bruciata dietro di sé.
Un dardo gli trapassò il collo e
gli strozzò fiato e parole.
Alcuni riuscirono a passare
e a tuffarsi dentro la trincea,
solo per essere infilzati dalle
baionette. Sangue nero e budella schizzarono sul kaki delle
uniformi e sugli elmetti. Uno
si precipitò dentro brandendo
un'accetta e mozzò di netto
il braccio a un ragazzo del 11°
Lancashire, prima di essere abbattuto da un colpo di pistola in
mezzo agli occhi.
Non era stato il sergente a
sparare. Quello gracchiava ancora ordini incomprensibili nel
frastuono della fucileria, poche decine di yarde più in là,
ma avrebbe potuto essere un
miglio. La pistola, e la sua gemella, erano salde nelle mani
di un uomo alto, che indossava un pastrano militare senza
gradi né mostrine. Non portava
nemmeno l'elmetto. Si avvicinò
al cadavere e ne contemplò per
un istante il ghigno mostruoso.
Un secondo soldato anonimo e
senza i segni del reggimento gli
guardava le spalle, abbattendo
a fucilate i nemici che riuscivano ad affacciarsi sull'orlo della
ridotta. Entrambi si muovevano
con una calma irreale in mezzo
all'attacco. Due nemici riuscirono a saltare oltre la linea del
fuoco, ma vennero centrati dai
colpi di pistola prima che toccassero terra. L'uomo salì la
scaletta e contemplò la carneficina antistante, l'orda di orchi
falcidiata. Il secondo, al suo
fianco, abbassò il fucile e prese
anche lui a scrutare la nebbia.
Quando si udì il rombo, tutti
pensarono al grande cannone,
dall'altra parte, di cui si favoleggiava da mesi e che a detta
di alcuni il Kaiser avrebbe fatto costruire per combattere la
guerra da casa. I soldati si rannicchiarono con le mani sugli elmetti, in attesa del boato. Tutti
tranne i due soldati anonimi,
che rimasero fermi al loro posto.
Il rombo si ripeté, ma questa
volta ricordava piuttosto un ruggito. Più che di un grosso felino,
lo si sarebbe detto di un drago.
Un bagliore rossastro balenò
attraverso la nube di fumo.
Le due pistole vennero
spianate. Il secondo soldato
raggiunse una mitragliatrice
Vickers e ci si piazzò dietro,
pronto ad azionarla. Gli altri attendevano ancora la pioggia di
schegge e terriccio. Per diversi
secondi l'unico rumore che si
percepì fu il battere dei denti
di qualcuno là sotto. Davanti
a loro, la Terra di Nessuno era
una distesa brumosa di fango,
crateri, legni scheletriti. Un
caos funereo e senza vita.
Il terzo ruggito annunciò
l'epifania del demone.
Due braci rosse sulla mole
nera di zanne, artigli, coda.
Spianò le grandi ali da pipistrello, ma non spiccò il volo.
Lo raggiunsero prima i proiettili
della mitragliatrice, che crivellarono le ali riducendole a brandelli. Questo lo rallentò soltanto. E aumentò la sua rabbia, che
si fece limpida, rossa, tonante.
L'uomo in cima alla scaletta avanzò tra i cadaveri e fece
fuoco con entrambe le pistole,
a ripetizione, finché i caricatori
non scattarono a vuoto. Allora
estrasse dalla cintura un coltello ricurvo e attese.
«Non passerai», disse. «Ritorna nell'ombra!»
Il demone digrignò i denti e
fu come se lame d'acciaio sfregassero una sull'altra.
111
Letteratura
di Wu Ming 4
e soprattutto la medaglia che
pendeva dal nastro rosso. Il sergente annaspò, prima di riuscire
a fare il saluto. Di sicuro non
aveva mai visto una Victoria
Cross da così vicino.
«Signore.»
«Sergente, mandi a prelevare dieci taniche di benzina nelle
Oxford, 21 Dicembre 1918
La donna scostò la tendina
e osservò ancora oltre il vetro.
La luce giallastra del lampione
all'angolo spioveva sul selciato, attraversata da una rada
cascata di fiocchi di neve che
scendevano lenti, irreali, come
coriandoli di carta.
A quell'ora nessuno più si attardava
fuori. Gli ultimi impiegati del museo erano
andati a casa da un
Wu Ming 4 fa parte del collettivo di narratori Wu Ming, fondato a
pezzo e le famiglie dei
Bologna nel 2000 dai quattro autori del romanzo Q (Einaudi 1999,
Beaumont Buildings
firmato con lo pseudonimo “Luther Blissett”) insieme a un quinto
avevano figli troppo
piccoli o lutti troppo
elemento. Wu Ming ha al suo attivo romanzi collettivi, romanzi solirecenti per avere vosti, racconti di viaggio, reportages, saggi sulla letteratura. Wu Ming
glia di uscire. Per que4 è anche autore solista del romanzo Stella del Mattino (Einaudi
sto, la figura ferma
all'incrocio, poco oltre
2008), incentrato sulla figura di Lawrence d'Arabia e in cui compala zona illuminata del
iono come personaggi J.R.R. Tolkien, Robert Graves e C.S. Lewis.
marciapiede, la fece
Il sito del collettivo è www.wumingfoundation.com
trasalire.
L'avevano trovata.
Non avrebbe nemretrovie e le faccia portare qui.
meno
saputo
dire perché li
si voltò e lo colpì ancora con un
Organizzi due squadre e si aspensava al plurale, dato che ne
fendente al fianco. L'essere lansicuri che le carcasse dei neaveva visto soltanto uno, prociò un grido che era ghiaccio e
mici vengano bruciate.» Tenne
babilmente lo stesso, e in una
fuoco insieme. I soldati in fondo
gli occhi piantati sul grugno del
sola occasione. Il fatto è che
alla trincea dovettero tapparsi
sottoposto. «Nessuna esclusa.
lui aveva parlato al plurale. E in
le orecchie per non impazzire.
La riterrò personalmente requel "noi", lapidario come una
L'uomo puntò il coltello verso
sponsabile.»
sentenza, includeva anche lei.
il demone ferito.
«Signorsì, signore», fu la riForse era questa la cosa che
«Da qui non passerai. Torna
sposta trafelata.
suonava più terribile.
al tuo mondo.»
Il sergente scattò per eseIl primo Natale senza guerIl mostro ruggì ancora. Poi
guire l'ordine.
ra. Famiglie mutilate, ferite da
arretrò di un passo, due, laL'uomo percepì la presenza
rimarginare. Dove non aveva
sciandosi dietro una scia nera
del compare al proprio fianco.
potuto il conflitto era arrivata
di sangue. L'uomo attese che
«Dobbiamo andarcene», disla febbre spagnola. Loro invece
il fumo ingoiasse la creatura.
se quello.
ce l'avevano fatta, alla fine ne
Solo allora ripose il coltello soterano usciti indenni. E ora tutto
Lui annuì, lo sguardo perso
to il pastrano e ridiscese la scaveniva di nuovo messo a repenoltre la curva del camminaletta, in mezzo ai soldati che si
taglio.
mento.
rialzavano storditi.
Osservò ancora la sagoma
«E scoprire chi è stato.»
Cercò il sergente e lo trovò
ferma al margine del cono di
Si fecero largo tra i soldati,
barcollante che tentava di fare
luce. Alto, le mani nelle tasche
ricevendone il saluto scompol'appello e rimettere ordine tra
del cappotto militare. Proprio
sto, e sparirono rapidi com'erale file. Aprì il cappotto in modo
come lo ricordava. Guardava
no arrivati.
che potesse vedere le mostrine
Wu Ming 4
112
verso la casa, come potesse
scorgerla dietro la tendina. La
neve si impigliava tra i capelli,
ma lui sembrava non farci caso.
Si chiese se ce ne fosse un altro
e s'accorse che l'istinto le diceva di sì, doveva essere da qualche parte, lì intorno. Si ritrasse
dalla finestra.
La prima volta che lo aveva
incontrato era stato molto lontano da lì, sull'Essex Bridge, a
Great Haywood. Era l'inizio di
primavera del 1917, la guerra
era ancora in pieno corso. Una
pioggerella rada e sottile scendeva sul fiume. Si era fermata a
metà del ponte. Lo sapeva perché a ogni pilone corrispondeva
uno slargo sul camminamento,
una doppia sporgenza su entrambi i lati, da cui era possibile
contemplare il fluire placido del
Trent, e lei aveva preso l'abitudine di contarli, quando andava
a fare la passeggiata mattutina, prima di tornare al cottage
a prendersi cura dell'uomo che
amava.
Non poteva averne la certezza allora, ma vedendo adesso
quella figura ritta accanto al
lampione sentiva che il presentimento trovava conferma. Quel
giorno era rimasta per un po' a
fronteggiare a distanza l'uomo,
fermo sull'altra sponda, percependone la forza latente. Ma
aveva avvertito anche qualcosa
dentro di sé, un'energia che fino
a quel momento era stata soltanto un sospetto. Aveva proseguito, controllando con la coda
dell'occhio che lui rimanesse
indietro. Non l'aveva seguita.
La mattina dopo era tornata
lì e l'aveva trovato in attesa.
Gli era andata incontro senza
esitare, percependo la minaccia
anche senza sapere nulla di lui.
«Ben trovata, Mary.»
Attraverso quella voce ave-
va parlato una consapevolezza
antica, qualcosa che lei aveva
covato fin da bambina e l'aveva
accompagnata attraverso gli
anni. Quelli difficili della solitudine, in cui la felicità più grande era suonare il pianoforte, e
quelli più recenti, altrettanto
complessi, ma pieni e intensi:
il fidanzamento, il matrimonio.
«Il mio primo nome è Edith.
Chi siete?»
«Un conoscente di tuo padre.»
«Io non l'ho mai conosciuto
invece. È lui che vi manda?»
«No. Sono qui per dirti quello che lui non ti ha detto. Qualcosa che sospetti fin da quando eri piccola.»
In quel momento il presentimento aveva mutato consistenza, era diventato un cuneo
nel cervello. Aveva sentito il
sangue gelarsi, resistendo a
fatica alla tentazione di voltarsi e ripercorrere la strada fino
al cottage.
Gli stessi brividi di adesso.
Ora che Ronald era guarito e
John era nato al mondo. Ricordava lo sguardo, l'ultimo,
di quell'uomo, sul ponte, prima
che lei gli dicesse di non farsi
mai più rivedere. Si era posato
sul suo ventre, come se sapesse che da poche settimane era
incinta.
Qualche giorno dopo, Ronald
era stato richiamato in servizio
e trasferito al nord. Lei e sua
cugina Jennie avevano lasciato
il cottage, Great Haywood, la
contea, per seguirlo.
Adesso lui era tornato a minacciare tutto ciò che lei amava. E questa volta non poteva
andarsene.
Trasse un paio di profondi respiri per farsi coraggio. In
casa dormivano tutti. Anche il
piccolo, che aveva smesso da
poco di svegliarsi nel cuore
della notte per esigere il latte.
Per la verità non era sicura che
il marito fosse già nel sonno
profondo. Quando si era alzata
dal letto, mossa da un impulso,
un senso di timore che premeva
dallo stomaco, l'aveva sentito
rigirarsi e borbottare qualcosa
a proposito del piccolo John,
con la voce impastata di stanchezza. Di sua cugina poteva
invece stare certa: crollava
appena toccato il materasso e
non sognava nemmeno.
Pensò alla pistola, chiusa nel
cassetto della scrivania. Sapeva perfettamente dove Ronald teneva la chiave, eppure
era certa che il rumore di uno
sparo avrebbe disintegrato in
un istante ogni loro sforzo per
riapprodare alla vita.
C'era un paio di soprascarpe
di gomma che Ronald usava per
andare al lavoro nelle giornate
di neve. Le infilò. Erano troppo
grandi per i suoi piedi minuti,
ma non voleva salire di nuovo
per prendere le scarpe.
Infilò il cappotto e rialzò il
bavero. Quindi rimase in attesa, l'orecchio puntato verso le
scale. Nessun rumore. Se Ronald si fosse accorto della sua
assenza a quel punto l'avrebbe
già chiamata o sarebbe sceso a
cercarla.
Tornò a guardare fuori dalla
finestra.
La figura era scomparsa.
Il cuore prese a batterle forte, proprio come quel giorno
di primavera sull'Essex Bridge,
il ponte fatto costruire per la
regina Elisabetta dal suo amante. Lo scenario era assai meno
romantico adesso, notte fonda,
gelo. Niente dolce gorgogliare
del fiume, ma il silenzio cupo,
ovattato dalla neve.
113
Letteratura
«Vattene o verrai ucciso!»
Il demone si avventò su di lui,
ruggendogli in faccia il suo odio.
Gli artigli scattarono in avanti,
seguiti dall'enorme mole, ma
l'uomo fu più veloce, si ficcò
sotto la pancia del mostro e lo
pugnalò alla gamba, aprendogli
una larga ferita sulla coscia. Poi
114
voluto nient'altro. Lasciatemi in
pace.»
L'uomo si spostò quanto bastava perché il riverbero gli illuminasse il volto. Lo stesso volto
pallido e trascurato.
«Quale pace, Mary? L'umanità ha appena concluso la guerra più sanguinosa della storia e
questa pace non produrrà che
altre guerre. Non senti quanto
suonano vuote le tue parole?
Loro non sanno, vivono nell'inconsapevolezza. Ma tu sì.»
Edith ricordò ancora una volta il ponte, contò gli archi di pietra, uno dopo l'altro. E le parole
di quell'uomo che le raccontava
la storia di suo padre, quella che
non avrebbe mai riferito a nessuno, perché nessuno le avrebbe mai creduto.
L'uomo aveva puntato il mento verso la sponda alle spalle di
lei.
«Ha iniziato a scrivere qualcosa, non è vero?»
Lei non aveva risposto. L'onniscienza di quell'uomo l'annichiliva. Quell'informazione non
era mai uscita dalle mura del
Gipsy Green cottage. Nessun
altro che lei aveva letto quei
racconti.
«Lui non sospetta nemmeno ciò che può fare, capisci?
Ha aperto un varco. Un varco
tra il nostro mondo e il Mondo
Secondario. È così che lo chiamiamo. Siamo dovuti intervenire. Abbiamo dovuto uccidere e
respingere gli esseri che erano
passati da questa parte.»
Quel giorno si era allontanata, lasciandosi alle spalle tutto
quanto.
Poi era ripreso il loro miserabile vagabondare senza casa.
Prima nello Yorkshire. Poi ancora seguendo Ronald dentro
e fuori i sanatori, una ricaduta
dopo l'altra. Hull, Cheltenham,
dove lei aveva partorito. Quindi
Roos, un'oasi di quiete, e infine
il sud, Penckridge. Quando la
guerra era finita ed era arrivato il congedo, anche la salute di
Ronald si era stabilizzata.
«A Great Haywood non hai
voluto ascoltarmi», disse l'uomo. «Hai preferito scappare.
Non ti sei più fermata fino a
oggi.
Edith ritrovò le parole.
«Non è stata una mia scelta.
La salute di mio marito...»
Le parve che l'uomo scuotesse appena la testa.
«Davvero, Mary? Non sei
stata tu a tenerlo lontano dalle trincee? Tu l'hai protetto.
La febbre che tornava a salire
ogni volta che avrebbe dovuto
ripartire per il fronte… Proprio
come hai salvato vostro figlio.
Quel giorno di un anno fa, in
ospedale. Ronald lontano, Jennie in lacrime, e il piccolo che
non voleva saperne di uscire.
Tutto quel sangue…»
Come poteva sapere? Doveva essersi informato all'ospedale di Cheltenham. Ancora le
faceva male riportare il ricordo
alla memoria. Del parto si perde
cognizione, il dolore si dimentica. Chiacchiere di ostetriche e
levatrici. Lei non aveva affatto
dimenticato.
«Andate al diavolo!»
«Il diavolo non c'entra, Mary.
Noi siamo angeli. Siamo i buoni.
Abbiamo una missione. Ed è anche la tua. Lo sai da anni. Non
dirmi che quel giorno, in ospedale, quando sei tornata indietro dalla morte e hai salvato te
stessa e il tuo bambino non te
ne sei resa conto. È il tuo potere, Mary. Un grande potere.
Pochi di noi saprebbero esserne
all'altezza.»
Edith rabbrividì.
Noi.
Glielo aveva chiesto, quasi
due anni prima, sull'Essex Bridge, sotto la pioggia fine che le
pungeva la faccia e le diceva
che non stava sognando.
«Noi?»
«I figli del crepuscolo. I guardiani. Qualcuno nei tempi antichi ci chiamava i Grigori. Quello
che facciamo è chiudere le porte
tra i due mondi. Ogni volta che
è possibile, eliminiamo coloro
che possono aprirle, tagliamo
la pianta alla radice. Altrimenti
l'equilibrio verrà distrutto e sarà
il caos.»
Edith si guardò attorno. La
strada era deserta. La nevicata cancellava i rumori. La città
avrebbe potuto essere vuota di
persone e cose. Proprio come
quel giorno sul Trent. Sapevano scegliere i momenti adatti, o
magari avevano perfino il potere di produrli, di tenere lontani
gli occhi indiscreti, di imprimere
il sonno più pensante alle persone.
Vide l'uomo estrarre la mano
dalla tasca e srotolare un involto. Un baluginio argenteo rivelò
il coltello, leggermente ricurvo
in punta.
«Non potete farlo», mormorò
lei.
La voce dell'uomo non mutò
tono, rimase calma e avvolgente.
«Sei così egoista da mettere
a repentaglio il mondo intero?
È questo che vuoi, Mary? La
distruzione del tuo mondo? Vuoi
lasciarglielo fare?»
Edith non rispose, il cuore
aveva accelerato ancora. Davanti a lui appariva piccolissima.
L'uomo sospirò e per un attimo fu più umano di quanto
non fosse mai apparso. Ma era
un'umanità malata, di chi è assuefatto alla morte. Non diversa da quella di molti che in quegli anni terribili avevano tenuto
il conto dei caduti, giorno dopo
giorno, fino a perdere la cognizione del tempo e del dolore.
«Non possiamo rischiare che
lui apra un altro varco, lo capisci?» disse l'uomo con rassegnazione.
In quel momento l'altro si avvicinò e parlò per la prima volta.
«Lascialo a me», disse.
Ricevette l'arma e la impugnò con sicurezza. Si mosse
lateralmente per raggiungere la
porta di casa.
Edith arretrò per fronteggiare la minaccia. L'uomo era almeno il doppio di lei. Fece per
spostarla di peso. Prima ancora
di scattare, Edith si vide farlo.
Come se la mente precedesse il
corpo, come se sapesse esattamente cosa fare. Mezzo passo
di lato e una spinta con entrambe le mani: l'uomo si sbilanciò e
scivolò per terra.
Edith lo vide rialzarsi e lesse
l'impazienza e il disappunto nel
suo sguardo. Quello di un assassino, pensò. Perché questo
era. E voleva uccidere Ronald.
Proprio adesso che la guerra
era finita, adesso che la vita cominciava.
No, tu non lo farai, pensò.
Edith schivò l'affondo del
coltello, bloccando il braccio
dell'avversario e colpì a mano
aperta, dritta al viso. Non lo
aveva mai fatto prima, ma sentì
l'energia sprigionarsi tutta insieme, la rabbia diventare forza. Lui venne sbalzato indietro
e finì lungo disteso per terra,
tenendosi le mani sul naso. Il
sangue macchiò la neve.
Edith vide il bagliore sul
tappeto candido ai propri piedi
e si chinò a raccogliere il coltello. Sentì sulla pelle gli intarsi
dell'impugnatura. Un oggetto
antico e micidiale. Dava i brividi.
Il primo uomo aiutò l'altro a
rialzarsi. Gli disse qualcosa in
un sussurro che Edith non colse, quindi si girò verso di lei.
«Mi dispiace. Ho sperato
fino all'ultimo di non doverlo
fare.»
Aprì le falde del vecchio
cappotto militare e lo lasciò cadere alle proprie spalle.
Edith appoggiò la schiena al
legno della porta, le mani lungo
i fianchi.
L'uomo avanzò.
«Dammi il coltello, Mary.»
Si fece ancora più vicino e
allungò una mano per prendere
l'arma.
Ancora una volta Edith vide
i movimenti compiersi prima di
avere il tempo di realizzarli.
Uno scatto. Un solo colpo.
Un rantolo.
L'uomo arretrò, portandosi
le mani allo stomaco. La seconda coltellata lo prese al petto,
poco sotto il cuore.
Il compare si lanciò su di lei,
ma Edith gli spianò in faccia la
lama, gocciolando sangue sulla
neve, sconvolta dalla propria
stessa efficacia.
«Indietro!»
Ascoltò la propria voce come
fosse il sibilo di un serpente.
Sentì il ferito richiamare il
compare.
«Lascia… Lascia perdere.»
Sputò sangue, si premette
le ferite, e con difficoltà si rimise in piedi. Il dolore gli storpiava la faccia, ma non sembrava
affatto moribondo.
«Non è così facile ammazzarci»,
Letteratura
Soltanto in quel momento si
rese conto di credere alle parole
che aveva ascoltato sul ponte.
Non c'era un motivo razionale,
ma quell'uomo aveva ragione:
lei sapeva che era vero.
«Sarebbe toccato a tuo padre dirtelo. Ma lui si è perduto.
Capita ad alcuni di noi. I più deboli. Tu hai sempre saputo di essere diversa, non continuare a
mentire a te stessa. Qualcosa ti
ha spinto. È la tua natura, Mary.
Sapevi cosa dovevi fare. Lo hai
saputo fin dal primo momento
che hai incontrato Ronald.»
Aveva davvero temuto di essere una minaccia per l'uomo
che amava? Era giunta a sperare che la dimenticasse?
«Molti di noi faticano ad accettare ciò che sono. Come tuo
padre, anche tu hai provato a
sottrarti. È comprensibile, ami
quell'uomo. Hai pensato di poter sposare George Field, per
proteggere Ronald da te stessa.
Non pensavi che sarebbe venuto a cercarti, dopo quei tre lunghi anni di lontananza. Eppure
non ci hai pensato due volte a
rompere il fidanzamento.»
«Come fate a sapere queste
cose?»
«Ti osserviamo da molto
tempo, Mary.»
Ritornò al presente. Nessuna
alternativa. Doveva affrontarli.
Aprì la porta di casa cercando di non fare alcun rumore e si
ritrovò davanti all'uscio.
Erano a pochi passi da lei.
Proprio oltre il cancello.
Due ombre.
«Ben ritrovata, Mary.»
La voce. Avrebbe dato qualunque cosa per non ascoltarla
di nuovo.
«Ho la mia vita, una famiglia», mormorò lei. «Non ho mai
115
SPEECHLESS
VUOLE TE!
INVIA
il tuo racconto
e le tue generalità
alla Redazione:
[email protected]
IL PROSSIMO
RACCONTO
POTREBBE ESSERE
PROPRIO IL TUO!
Fissò ancora la faccia slavata dell'uno e quella macchiata
di sangue dell'altro, capendo
che l'avrebbero fatto, l'avrebbero controllata per il resto della
vita. Era disposta ad accettarlo,
almeno quanto era certa che se
si fossero ripresentati al suo cospetto li avrebbe uccisi. Il pensiero la spaventò terribilmente,
ma si impedì di darlo a vedere.
Infine si allontanarono, superarono la luce del lampione e
sparirono nel buio della strada.
Soltanto allora le ginocchia
cedettero e lei dovette aggrapparsi alla maniglia della porta.
Non poteva crollare proprio
adesso. Ci sarebbe stato tempo per pensare a ciò che aveva
fatto. O forse no, forse sarebbe stato meglio dimenticare,
cancellare tutto come un brutto sogno. Nevicava più forte
adesso, sentiva i fiocchi sulle
guance. Calpestò e rimestò la
neve macchiata, fino a ridurla a
una poltiglia rosata, grottescamente irreale. Entro mattino un
manto di neve fresca avrebbe
ricoperto tutto.
Infine si ritrovò dentro casa,
investita da un'ondata di calore
che le imporporò la faccia. Solo
allora si accorse di avere ancora il coltello in mano, sporco
di sangue. Andò in cucina e lo
lavò sotto il rubinetto. Sembrava una reliquia dell'Ashmolean:
argento cesellato, con incisioni
sull'impugnatura e sulla lama.
Orientale. Antico.
Si chiese cosa farne, senza
trovare una risposta. Nasconderlo era pericoloso, se l'avessero scovato… Gettarlo via
lo era altrettanto, perché un
ritrovamento avrebbe destato
sospetti. Poteva buttarlo nel Tamigi, stando attenta a non farsi
scorgere.
O forse anche no.
Oxford, 3 gennaio 1919
«Buon compleanno, Ronald.»
Il pacchetto venne aperto
con cura, senza rompere la carta e preservando il nastro.
«Santo cielo, cos'è?»
«Non lo vedi? Un tagliacarte.
»
Sulla faccia di Ronald lo stupore era sincero. Lo tenne sui
palmi aperti, osservandone la
linea arcuata e i disegni.
«È bellissimo. Dove l'hai trovato?»
Edith sorrise maliziosa.
«Segreto.»
«Ma è d'argento?» Ronald
saggiò la punta con il pollice.
«Accidenti, è acuminato…»
«Così potrai difenderti dai
goblin. E risparmiare le buste.»
Ronald rise e le diede un bacio.
«Grazie. È un gran bel pungiglione. Ne farò buon uso.»
Fece il gesto di infilarlo in
cintura.
Jennie entrò in soggiorno
tenendo per mano il piccolo,
ancora instabile sulle gambe.
Edith lo prese in braccio e gli
canticchiò un motivetto natalizio, approfittandone per avvicinarsi alla finestra. Le strade
erano sgombre dalla neve, che
adesso si scioglieva in mucchi
sempre più bassi a ridosso dei
marciapiedi. Il cielo era terso, di
un colore turchino intenso. Per
un istante le parve di scorgere una tendina sollevata nella
casa di fronte, subito richiusa.
Una coincidenza, senz'altro.
Nessun uomo col cappotto
militare era fermo all'angolo
della strada. Nessuna presenza
anomala nella sua vita. Andava
tutto bene.
117
Letteratura
Hai un
racconto
inedito che
vorresti veder
pubblicato?
disse con un ghigno di sofferenza.
Edith non abbassò il coltello,
glielo tenne puntato addosso
come fosse una pistola.
«No, infatti.»
L'uomo raccolse il cappotto e
il compare lo aiutò a rimetterselo. Tossì e sputò ancora un
grumo di sangue. Edith dovette
sforzarsi per non dare di stomaco.
Pregò che il trambusto non
avesse svegliato nessuno, ma
qualcosa le diceva che il suo potere li avrebbe preservati anche
da questo.
«Non puoi farcela», biascicò
l'uomo. «Non dovrai controllare
soltanto lui. C'è tuo figlio. I vostri figli…»
D'un tratto era tutto fin troppo chiaro.
«Farò in modo che si dedichino ad altro», disse lei. «Ronald no, non posso impedirgli
di scrivere. Ma farò quello che
devo fare: buona guardia. Non
è quello che vuoi? Se è vero che
ho il potere che dici, allora lo
userò. »
Il ferito tossì. Riprese fiato.
Drizzò la schiena per fronteggiarla ancora.
«Mi stai chiedendo di assumere un grande rischio.
«Ti sto concedendo di vivere», disse Edith. «Altrimenti moriremo entrambi adesso. Perché
io non ti lascerò mai passare.»
L'uomo si appoggiò al compare. Erano di nuovo sulla soglia
del cancello. Ancora un passo e
sarebbero stati fuori. Per sempre, pensò Edith.
«Ti controlleremo, Mary. Se
il varco verrà riaperto ne sarai
responsabile.»
Sì, era tutto chiaro. Poteva
farlo.
«Non succederà.»
Francesca Lia Block
quattro chiacchiere con
118
F
rancesca Lia Block è nata e vive a Los Angeles.
Conosciuta soprattutto per il personaggio di Weetzie Bat è stata tra le autrici (se non l’autrice) che ha
“sdoganato” il genere young adult di matrice fantastica presso un pubblico più vasto, trattando a fine anni
Ottanta temi come omosessualità, famiglie allargate e
AIDS.
Definita dal New York Times “la maestra postmoderna del realismo magico per adolescenti, e non solo”,
è pubblicata in molti paesi del mondo. In Italia è nota
soprattutto per Angeli pericolosi (che comprende tutte
le avventure di Weetzie Bat), Echo e Pretty Dead.
Il suo sito internet è:
www.francescaliablock.com
ed il suo blog:
www.loveinthetimeofglobalwarming.blogspot.it
Speechless: A quale genere appartengono i
tuoi romanzi?
Francesca Lia Block: Realismo magico poetico, se
proprio devo sceglierne uno, per mutuare in parte
un termine coniato da Alan Rifkin, un giornalista
del Los Angeles Times. Oppure li chiamerei favole
punk post-moderne. Anche se non è così evidente,
c'è un forte spirito punk in gran parte di quello che
scrivo. Da teenager seguivo da vicino la scena di
Los Angeles e gruppi come gli X, gli Adolescents,
i Circle Jerks, i Cramps, le prime Go-Go's, ancora
cicciotelle e con l'aria cattiva. Non mi perdevo un
loro concerto.
S: Come definiresti Los Angeles, la protagonista di così tanti tuoi lavori?
FLB: Un paese delle meraviglie seducente come
una mela avvelenata.
S: Weetzie Bat esiste davvero?
FLB: Weetzie è il mio alter ego. L'ho basata su
di me. Da ragazza me ne andavo a zonzo sulla
Pontiac decapottabile del 1955 di proprietà di un
amico, avevo i capelli ossigenati, indossavo vecchi, lunghi abiti da festa di fine anno e stivaloni da
motociclista. Altra gente che conoscevo ha contribuito a ispirare lo stile di vita di Weetzie e il suo
aspetto.
S: è vero che non hai mai considerato le avventure di Weetzie raccolte in Angeli pericolosi esclusivamente per ragazzi?
FLB: Non mentre le scrivevo. Avevo vent'anni,
come gran parte dei miei personaggi, e pensavo
di riferirmi a lettori di quell'età. E poi allora non
esistevano molti romanzi per teenager che parlassero di sesso (anche omosessuale), droga e rock
& roll, a differenza di adesso.
S: E in Pink Smog, uscito negli USA lo scorso
gennaio, racconti di Weetzie a tredici anni...
FLB: Era da tempo che volevo farlo. Spiegare chi
era prima di diventare la reginetta punk/glam dei
libri successivi. Sembrava interessare anche al
mio pubblico e così ho deciso di provarci.
S: Non credi che ormai la narrativa young
adult sia un settore troppo affollato?
FLB: Certo. Però io scrivo quello che scrivo. Quando ho cominciato The Elementals, che negli Stati
Uniti uscirà il prossimo ottobre ed è una specie
di mystery vagamente erotico e soprannaturale, non mi sono posta
problemi di un possibile destinatario. Verrà
venduto come libro per
adulti, e molto probabilmente è la decisione giusta. E comunque
ogni anno anche nella
marea di young adult
spiccano romanzi eccezionali, come in ogni
altra categoria. Pochi,
forse sempre meno,
ma ci sono.
S: A parte Angeli
pericolosi, una volta
hai detto che Echo è
il tuo romanzo più
autobiografico.
FLB: Sì, è vero. Forse
non è il mio preferito
(al momento questo
posto è occupato da
The Elementals), ma è
comunque quello che
sento più vicino. Ho
scritto gran parte delle
storie che lo compongono mentre ero al college, durante un periodo
difficile e doloroso.
S: Pretty Dead è la tua versione degli ormai
onnipresenti “romanzi di vampiri”. All'interno di questo genere hai qualche preferenza?
FLB: In realtà ho letto quasi solo Anne Rice, che
non mi dispiace affatto. Più che altro mi interessava esplorare l'idea di come l'amore possa ren-
dere umano un mostro, piuttosto che raccontare
di un essere umano reso quasi mostruoso dall'ossessione... questo ultimamente è già stato fatto
da molte serie di successo...
S: In passato hai ribadito che la saga di Stephenie Meyer rischia di lanciare un messaggio sbagliato al pubblico femminile, soprattutto giovane.
FLB: Fa sembrare che sia buono e giusto diventare schiave del proprio fidanzato. Invischiarsi in
un legame fatto soprattutto di violenza.
Sacrificarsi sempre e
comunque. Evitare di
fare sesso prima del
matrimonio. E che sia
necessario rinunciare alla propria vita in
cambio di quella del
nascituro (una scelta
che io ho rischiato di
dovere fare per ben
due volte, ma di cui
non mi è mai andato
di parlare nei miei romanzi per la paura di
essere fraintesa).
S: Prima si chiacchierava di musica. I tuoi lavori
spesso sembrano
una poesia o una
canzone.
FLB: La poesia è il
mio primo amore. Mi
viene naturale, spontanea, forse perché
ne ho letta tantissima da ragazzina. Poi per i romanzi uso anche
una sinossi, oggi più che spesso che in passato,
ma finisco sempre per stravolgerla. Riguardo alla
musica, oltre al punk degli esordi, dunque, Iggy
Pop, David Bowie, i Cure, i Joy Division. Cantanti
magiche come PJ Harvey, Patti Smith, Tori Amos,
Sia, Sinead O'Connor. E poi Silversun Pickups, Arcade Fire, Tony Ocean, Metric... potrei proseguire
all'infinito. E tutti mi ispirano o mi hanno ispirato
in qualche modo.
119
Letteratura
Angeli (sempre più) pericolosi:
di Giovanni Arduino
La stella nera di New York
Una ragazza, Evie, con il
dono della psicometria (la
chiaroveggenza nel passato) spedita dall'Ohio nella
New York degli anni Venti,
in pieno proibizionismo (e a
Evie piace bere e fare festa
fino a notte fonda, anche
se ha solo diciassette anni).
Uno zio che dirige un bizzarro museo delle scienze
occulte. Un intrico di trame
e sottotrame e perfino un
serial killer non così prevedibile o scontato. Libba
Bray, forse una delle autrici
young adult più generose
e strabordanti degli ultimi
anni, fonde l'ottimo sapore di feuilleton d'altri tempi
della trilogia vittoriana di
Gemma Doyle con il ritmo
frenetico e i particolari gradevolmente “weird” della
road novel Going Bovine, ancora inedita in Italia ma già
annunciata da Fazi. Il risultato può scombussolare e
confondere, e in alcuni punti il plot sembra traballare
sotto il peso di personaggi
secondari e divagazioni in
parte evitabili, ma il risultato è comunque degno di
nota: un bel giro in ottovolante, un romanzo ricco e
ben documentato senza il
rischio di essere didascalico,
e un'eroina-non-così-eroica
che (caso ormai più unico
che raro) ci piacerà vedere
tornare nelle parti successive di questa tetralogia.
(The Diviners)
Prezzo: 17,50
Pagg. 480
Lain/Fazi
Ottobre 2012
120
S: Allora, se Angeli pericolosi è punk, Echo
è...
FLB: Ah, non lo so! Aiutami tu, che sei l'esperto.
S: Post-punk?
FLB: Sì... art rock post-punk? Qualcosa del genere.
Magari con un ritmo techno e testi molto poetici.
S: Oltre alla musica, sembri essere influenzata anche dalla mitologia classica.
FLB: Mia madre, come favola della buonanotte,
mi raccontava l'Odissea (di cui sto provando a
scrivere una versione con protagonista femminile,
ambientata in una Los Angeles post-apocalittica).
E sono una grandissima fan di autori come Angela
Carter, Kelly Link e Chris Adrian, che di fatto creano miti moderni.
S: Tanti tuoi romanzi sono stati tolti dagli
scaffali di librerie e biblioteche
perché considerati osceni o dannosi...
FLB: Lo so. Odio la censura. E comunque c'è sempre gente disposta a
osteggiarti, come quando ho aderito
al movimento Occupy. Il lettore deve
decidere da solo; se è molto giovane,
magari con l'aiuto di un genitore o di
un insegnante. Non sta a me creare
un'opera “sicura” sotto tutti i punti
di vista. E poi spesso i ragazzini sanno che cosa è adatto a loro (lo dico
in base alla mia esperienza di madre,
non di autrice).
S: …e nonostante la presunta
pericolosità dei tuoi lavori molti
lettori (anche italiani) dicono di
trarne grande forza e coraggio.
FLB: Ne rimango sempre sorpresa. I
loro commenti, le loro opinioni mi danno la spinta per continuare. A loro devo
tutto o quasi. E scrivere mi ha salvato
la vita, letteralmente. Non posso che
sperare che succeda anche ad altri.
S: Un paio di consigli? Per chi volesse seguire la tua strada, intendo.
FLB: Più o meno i soliti. Leggere come
pazzi, scrivere il più possibile, magari trovarsi un mentore o un gruppo di scrittura,
ma soprattutto (anche se può sembrare banale)
esprimere sempre quello che si sente dentro, senza barare.
S: A proposito di banalità: carta o byte?
FLB: Carta quando leggo, byte quando scrivo.
S: Come in una favola, se tu avessi una bacchetta magica...
FLB: Per citare una preghiera tibetana, “che la
fame, la sofferenza, le malattie e le guerre possano scomparire, e che possano crescere la pietà
e la saggezza di ogni essere vivente”.
S: Niente di più?
FLB: Beh, con tanto amore e tanti baci da Shangri
L.A., naturalmente.
Letteratura
121
Libba Bray
TRA SADISMO e spirito di sopravvivenza
B
122
attle Royale è un best seller mondiale
del 1999 firmato da Koushun Takami, giornalista laureato in estetica all'università
di Osaka. Ad amplificarne il successo, che a distanza di tredici anni fa ancora sentire i suoi echi,
è subentrata del 2000 la trasposizione cinematografica a cura di Kinji Fukasaku, censurata in
diversi paesi tra cui la Germania e gli Stati Uniti.
La violenza della pellicola riflette infatti l’atrocità del romanzo, ambientato in un distopico universo parallelo totalitarista, nella “Repubblica
della Grande Asia dell’Est”. Qui, per motivi che
sono chiariti soltanto alla fine del libro, una classe
di quindicenni viene annualmente scelta per prendere parte al “Programma”: dentro un’arena naturale – spesso un’isola –, spiati e forzati da collari
esplosivi, dotati di armi e senza alcun preavviso,
vengono messi gli uni contro gli altri e costretti ad
uccidersi a vicenda.
Il meccanismo del gioco è letale: spinti sull’orlo della follia i ragazzini diventano ciechi di odio
e di sospetto, sopraffatti da uno spirito di sopravvivenza che ne annullerà quasi in tutti i casi
l’umanità. Fanno eccezione alcuni personaggi,
metaforica speranza di un microcosmo impazzito
e devastato, sconvolto in pochi momenti dall’assurda macchina governativa: dal cestista Shinji
Mimura detto “il terzo uomo” a Hiroki Sugimura,
esperto nelle arti marziali, fino ai due veri protagonisti, Shuya Nanahara, onesto, leale e fiducioso, e Noriko Nagakawa, timida e generosa.
Nessuno dei quarantadue studenti coinvolti viene però trascurato da Takami nell’analitica
ricostruzione della propria psicologia e personalità. Frammenti di vita si susseguono e talvolta
sovrappongono negli ultimi istanti, lasciando uno
scorcio significativamente vivido dei loro sentimenti, dei ricordi e delle azioni – vili, coraggiose,
piene di odio o di amore – per cui non esiste altra
conclusione che la morte.
di FEDERICA URSO
la formazione di Shuya e Noriko, assassini loro
malgrado (“Hai ucciso senza esitazione, Shuya”
gli dirà alla fine l’amico Shogo) ma ancora integri
e consapevoli di un nuovo sentimento.
Impossibile non parlare, inoltre, della deriva pulp del romanzo: scene splatter, sangue,
membra e resti umani accuratamente descritti,
nonostante possano disturbare i più sensibili, finiscono con l’assuefarli. Il sistema del gioco fuoriesce così dalle pagine coinvolgendo, con la sua
crudeltà, le percezioni dei lettori, spingendoli prima a conoscere le toccanti storie dei protagonisti
Le persone buone sono così.
Ma anche tra loro ci sono
quelle che possono diventare
cattive. Altre invece finiscono
per restare buone tutta la vita.
Tu sei una di queste.
e poi ad assistere inermi alla loro – disgustosamente violenta – morte. Scene, queste, descritte
senza abbellimenti alcuni, misere e fredde grazie
soprattutto a un linguaggio povero ed elementare.
Difetto maggiore di Battle Royale è, infatti, lo
stile, che se da una parte si addice alla crudezza
della narrazione, dall’altra risulta insoddisfacente, troppo essenziale e poco curato.
Da non prendere in considerazione se si sta
cercando una lettura piacevole, Battle Royale
è un romanzo intenso, dotato di diversi livelli di
lettura – non ultimi quelli connessi al sistema totalitario – e fortemente disperato, anche quando
la speranza, tra le ultime pagine, vorrebbe ridare
colore ad una vicenda disumana e sfortunatamente indimenticabile.
Letteratura
Battle Royale
Ancor più degna di nota è la brutalità cruenta
ed estrema che sfoggiano con naturalezza i quindicenni, talvolta motivati da un passato drammatico o addirittura da deficit emozionali e cerebrali.
Se l’autore riesce a catturare efficacemente molti di questi aspetti, talvolta, al contrario, diventa
artefice di cliché e luoghi comuni: il più palese,
oltre al caso di Noriko – la tipica ragazzina buona
e ingenua protagonista di manga e anime – è forse quello di Mitsuko Souma, efferata assassina,
bellissima, seducente, astuta ingannatrice, dedita alla prostituzione per soldi e noia, ladruncola
e vittima di stupro all’età di nove anni. La facilità con cui decide di partecipare attivamente al
gioco è dovuta alla lotta per la vita che è stata
tenuta a intraprendere molto tempo prima, e che
condurrà fino all’ultimo con coerenza, spietatezza
e con una dose di razionale sadismo. Questo non
salva però il personaggio da una caratterizzazione un po’ stereotipata, seppur l’approfondimento
psicologico sia il punto di forza di Battle Royale.
Come la degenerazione dei personaggi a uno
stato primitivo e puramente istintuale, che ha giustamente fatto pensare al capolavoro del Premio
Nobel Golding “Il signore dello mosche”, causa
l’autodistruzione prima psicologica e poi fisica,
così il percorso inverso maturerà la coscienza e
123
Il mondo oltre lo specchio
RUBRICA di MIRIAM MASTROVITO
I
l castello di Rosaspina, la casetta di marzapane, la scarpetta di cristallo, l’arcolaio
magico sono luoghi e oggetti
fatati che sicuramente tutti voi
conoscete. Quel che forse ignorate è che esiste un posto, al di
fuori delle favole udite da bambini, in cui è possibile ritrovarli.
È proprio lì che ci condurrà la
terza tappa del nostro viaggio.
Per giungere a destinazione
dovremo fare incursione nello
studio privato del signor Reckless ma non abbiate timore, il
buon John non se ne accorgerà
perché è via da tanto tempo e in
casa, al momento, non c’è nessuno. In ogni caso, eviteremo
di frugare tra le sue cose e non
toccheremo niente se non la
superficie di uno specchio che
campeggia tra le librerie.
A un primo sguardo può sembrare uno specchio comune ma
poggiando una mano sul vetro
bruno la stanza intorno a noi
sparirà. Ci ritroveremo in cima
a una vecchia torre. Nessuna
feritoia, solo una botola sul pavimento. Basterà sollevarla per
scorgere una scala mezza bruciata che si inabissa nell’oscurità e se avremo coraggio a
124
sufficienza per percorrerla ci ritroveremo a
Schwanstein. Per molti
aspetti è un’imitazione un
po’ retrò delle nostre città: carrozze con ruote di
legno si muovono sull’acciottolato sconnesso, un
ufficio telegrafico si staglia di fronte alla stazione
di posta, mentre donne in
abiti lunghi ornati di pizzi
e uomini con il cappello a
cilindro si aggirano per le
strade. Soffermandoci sui
cartelli tuttavia, potremo
notare messaggi bizzarri
che mettono in guardia
contro i geni delle acque
e i corvi d’oro e, volgendo
gli occhi al cielo, potremo ammirare ben due lune: una d’argento, l’altra simile a una moneta
di rame arrugginita. È solo un
piccolo assaggio delle stranezze che caratterizzano il Mondo
oltre lo specchio in cui tanto le
favole quanto gli incubi più tetri
si animano di nuova vita. Qui è
scomparso John Reckless e ripetutamente suo figlio Jacob
è venuto a cercarlo, divenendo nel frattempo un abilissimo
cacciatore di tesori. Un capello
seguendo oltre raggiungeremo
il castello di Rosaspina, ahimè
tuttora addormentato e completamente in rovina, giacché,
contrariamente a quanto riferito
nella favola, il principe non è mai
arrivato a svegliare la bella principessa.
E ancora, potremo visitare
Terpevas, la città dei nani. Inoltrandoci nei vicoli angusti e tra
casette a dimensione di bimbo,
scopriremo che l’ultima moda in
vigore tra i suoi abitanti è quella di radersi la barba mentre il
vecchio lavoro in miniera, caro
ai sette amici di Biancaneve, è
stato soppiantato da una florida
attività commerciale.
Ma le sorprese non finiscono qui. Man mano che andremo
avanti, tra fughe, sortilegi e in-
soliti incontri, scopriremo di essere finiti in un universo in cui
i tasselli delle fiabe più note si
sono scomposti e rimescolati
dando vita a una favola nuova e
non meno emozionante.
Ad aver tracciato per noi
questo fantastico percorso è la
penna magica di Cornelia Funke. Potrete scovare molte zone
ancora inesplorate tra le pagine
del suo Reckless o, se siete particolarmente temerari, provare a
tastare qualche altro specchio.
Con un pizzico di fortuna potreste finire sulle tracce della Clessidra che può fermare il tempo
o imbattervi nel vecchio John.
In tal caso, non trascurate di
avvertire Jacob perché lui li sta
ancora cercando.
125
di Raperonzolo, il Randello Castigamatti, la Palla d’Oro, sono
solo alcuni degli oggetti magici
che ha collezionato nel corso
delle sue ricerche. Durante l’ultimo viaggio però qualcosa è
andato storto. Suo fratello Will
lo ha seguito e il suo approccio
con la nuova realtà non è stato
dei più fortunati. Le terre oltre
lo specchio, infatti, non celano solo inestimabili tesori ma
anche mostri orribili e grandi
pericoli. Nel regno è in corso
una guerra scatenata dalla Fata
Letteratura
#3
Oscura che, a capo di un esercito di Goyl – spaventosi uomini
pietra – combatte per il dominio
assoluto. Ferito da queste mostruose creature, Will ha cominciato a trasformarsi in un uomo
di Giada. Adesso Jacob è in
viaggio alla disperata ricerca di
un rimedio che possa restituirgli
l’umanità. Seguendo le sue tracce, potremo esplorare in lungo e
in largo questo paese di orrori e
meraviglie vivendo un’indimenticabile avventura.
Dalla Foresta Nera popolata
di mordicorteccia, fungaioli e
uomini corvo – creature letali a
dispetto dei nomi graziosi – potremo giungere alla casetta di
marzapane che ci sedurrà con
quel che resta delle sue leccornie, sebbene assaggiarle non
sia affatto una buona idea. Pro-
I suoi sogni erano la mia casa. Lì potevo anche
guardarla negli occhi senza provare imbarazzo.
Accadde una sera, al matrimonio mancava una
settimana. Tornavo a casa in auto da una cena con
amici.
Organizzavamo un circolo letterario – roba noiosa, ma non potevo rifiutarmi visto che ero stato eletto presidente. Prima di andare a dormire
mi fermai in caffetteria, da Charlotte. «Il solito»
ordinai, e dopo pochi minuti la cara Charlotte,
signorina con tante speranze ma cameriera da
troppi anni, posò sul tavolo il mio caffè con tre
biscotti al cioccolato. Dopo il primo morso una
voce mi colse alle spalle, improvvisa, ma dolce
e sognante.
«Posso sedermi?»
Il biscotto che avevo in mano cadde nella bevanda bollente. Mi voltai appena. La proprietaria
di quella voce indossava un elegante abito blu
notte, decisamente fuori luogo in una caffetteria, a quell’ora per giunta. «Tu… tu saresti?»,
balbettai. Aveva gli occhi verdi, i capelli rasati
tipo marines e un vistoso piercing al naso. Prese
posto al tavolo.
«Sono chi stai cercando», rispose parlando
ancora con dolcezza.
Abbassai lo sguardo, colto dal mio proverbiale imbarazzo. «Non capisco. Non cerco nessuno,
ero qui solo per un caffè…»
«Sei qui perché pensi a Gwenda», disse la
donna misteriosa. «Sei qui perché questo posto
te la ricorda. Era seduta qui dove sono io adesso, no? Quel giorno di tre anni fa. Il vostro unico
appuntamento.»
Avevo portato la tazza alla bocca. La riappoggiai sul tavolo lentamente, tremando peggio di
un bambino quando viene sgridato.
«Tu… come… COSA?»
di
Marco
Guadalupi
M
ancava un mese al matrimonio. Sarebbe
diventata la signora Tunnen, ventiduenne moglie del venticinquenne Alister
Tunnen, giovanotto vicepresidente di una nota
multinazionale di sigarette elettroniche. Amavo
Gwenda, e presto non l’avrei più rivista.
Mi sono ritrovato a vagabondare nei suoi sogni.
Letteralmente nei suoi sogni. È una cosa che ho
voluto e che si è avverata. All’inizio mi ha fatto
paura. Cercavo un modo per starle vicino, amarla
(proteggerla?), sentirmi a contatto con lei in ogni
momento. Da bambino ero un maestro nel trovare
scuse per andare a casa degli Stuart e ammirare
Gwenda nel salotto di casa sua.
«Salve, signora Stuart. Posso spalarle il vialetto dalla neve?»
La signora Stuart aveva capito, o semplicemen-
te era così gentile da non dirmi mai di no. Spalavo
la neve, e Gwenda era a pochi metri da me, dietro
la vetrata del salotto, seduta al tavolo a leggere favole ai fratelli più piccoli. Non alzava mai la
testa dai libri; non mi dispiaceva, perché potevo
osservarla indisturbato.
Mia nonna – che riposi in pace – aveva capito
tutto. «Perché non ti fai avanti, sciocchino? Sarei
rimasta da sola per tutta la vita se non avessi trovato il coraggio di parlare con tuo nonno».
Ascoltavo sempre i consigli della nonna, ma
non ho mai trovato il coraggio di confidarmi a
Gwenda. Era come se tutto quello mi bastasse,
come se le consapevolezza di doverla osservare
sempre e comunque da lontano era una cosa naturale, gratificante e indolore. Volevo starle vicino
a modo mio.
126
127
Illustrazione © Dan Panosian
Letteratura
racconto
128
resti aiutarmi?»
«Beh, facendo fuori lo spacciatore di sigarette,
ovvio.»
Alister Tunnen era nel suo ufficio. Vestiva
come un qualsiasi vicepresidente di multinazionali. L’angolo del fazzoletto cremisi sbucava dal
taschino della giacca, i capelli impomatati e la
mascella spalancata. Fu la sua segretaria a ritrovarlo, il taglio alla gola ancora caldo. Ero il colpevole, ma quando Alister Tunnen se ne andò per
sempre mi trovavo nel mio letto.
Mi risvegliai dall’incubo in un bagno di sudore. «Ce l’hai fatta», esclamò la donna misteriosa
in piedi accanto il mio letto. Aveva cambiato abbigliamento per l’ennesima volta. La giacca da
uomo che indossava le arrivava quasi alle ginocchia, per il resto doveva essere completamente
nuda.
Strizzai gli occhi per metterla meglio a fuoco.
«Fatto cosa? Dormivo.»
«Oh, be’, era una deduzione. Non sono mie le
mani sporche di sangue.»
Mi guardai le mani. Provai un dolore acuto appena dietro le orbite. La vista si offuscò.
«Sta’ buono», disse la donna cercando di placare le mie urla e i miei spasmi. «Era quello che
volevi. Era quello che dovevi fare. Ora va’ a prenderti Gwenda.»
Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere
di Tunnen incontrai Gwenda in ospedale all’ingresso della camera mortuaria. Ero andato per
portare le mie condoglianze. Mi sentivo da schifo, ma feci uno sforzo. In qualche modo riuscii a
dirle che mi dispiaceva, l’abbracciai, ma aveva lo
sguardo fisso nel vuoto e dubitai mi avesse riconosciuto. Mi fece male, quell’abbraccio freddo,
ma non era colpa sua.
Dopo l’ospedale mi rintanai in casa per riflettere. Ero stato io a uccidere Alister. Che diavoleria! Lo sentivo dentro, nell’anima, non potevo
sbagliarmi. Ero proprio stato io, mentre la polizia
aveva aperto un fascicolo contro ignoti.
«Com’è accaduto?», chiesi. La donna misteriosa comparve dietro di me come al solito. Sentii il
fruscio dei suoi passi. Vestiva con un altro abito
elegante, rosso fuoco. Mi passò una mano sul
collo. «Dimmi, cosa hai sognato l’altra notte?»
Cercai di ricostruire i pensieri. «Io... non so.
Marco Guadalupi
129
Ricordo solo una brutta sensazione. Avevo caldo, poi dolore e… mi sono risvegliato. Pensavo a
Gwenda quando…»
«Quando lo hai fatto. Bene».
Ridacchiò.
«Ora hai capito?»
«Ho ucciso Alister Tunnen attraverso i miei
incubi?»
«Sei proprio un ragazzo intelligente!» Rise
ancora, abbracciandomi per complimentarsi con
me. Non sentii il suo tocco, soltanto uno spostamento d’aria dietro il collo sudato.
Entravo nella mente di Gwenda di notte, come
un ladro. Era bastato l’assassinio di Tunnen ad
aprirmi la strada. Non era difficile. Si perde ogni
contatto con la realtà, dai sensi, ai pensieri. Lo
descriverei come un viaggio in un tunnel freddo,
un tunnel trasparente in mezzo a un mare opaco
di immagini e suoni senza controllo. Quello erano
i sogni.
Così ebbi la conferma che Gwenda non aveva mai provato nulla per Tunnen, anche se era
affranta per la sua morte. Quando il matrimonio saltò ufficialmente riuscii a penetrare
nei sogni della mia amata anche di giorno, da
sveglio. Era più complicato e più freddo, ma
Appassionato da sempre del fantastico in
tutte le sue forme, Marco Guadalupi collabora dal 2006 con la testata Fantasy Magazine, di cui è attivo redattore. Per Lunatica, fiera del Fantasy, si occupa del reparto
scrittura e comunicazione. Ha pubblicato
numerosi articoli e recensioni, racconti, interviste e approfondimenti su riviste online e cartacee.
Si interessa di disegno, musica, cinema e
videogame. Collabora come blogger e social media manager con Fanucci Editore e
frequenta la Lupiae Comix, scuola del fumetto di Lecce. A giugno 2012 ha esordito
con il racconto Demon’s Rock nell’antologia Stirpe Infernale. A ottobre è uscito per
Plesio Editore DRC – Dark Rock Chronicles,
il suo primo romanzo.
con la pratica avevo imparato a schermare i
miei pensieri, così da nascondermi nell’ombra della sua psiche ed evitare di rimanere
esposto alla sua coscienza sopita dal sonno.
In camera mia, steso sul letto, vedevo Gwenda
riorganizzare la sua vita, parlare con i genitori
del suo futuro, comunque lontano dal nostro paesino.
«Posso parlarle?» fu la domanda che feci alla
signora misteriosa una notte fredda di dicembre.
Osservavo le luminarie di Natale dal mio letto.
La finestra era aperta sulla via addobbata per le
festività.
«In sogno? Se te la senti», fece lei indifferente, stringendosi nelle spalle. Non aveva alcun
vestito addosso. «Per caso vuoi chiederle di sposarla?»
«No», risposi cupo. «Vorrei chiederle se è felice.»
La donna misteriosa sbuffò. «Conosci già la
risposta. Non fare domande inutili.» Me la ritrovai a pochi centimetri dal mio viso. Gli occhi verdi
erano tunnel freddi…
Le mie incursioni nei sogni di Gwenda erano
sempre più frequenti. Sognava di leggere favole
ai suoi fratelli per sempre; sperava che l’omicidio
del suo promesso marito non fosse mai accaduto.
Letteratura
«Vuoi restare vicino a Gwenda, ma non sai
come fare. E, fammi indovinare”», aggiunse portando un indice sulle labbra carnose, «ti struggi
perché tra due settimane lascerà il paese per
andare in città!»
Mi alzai dal tavolo a testa bassa, abbandonando caffè e biscotti. Cercai Charlotte per pagare
il conto ma non c’era. Il locale era vuoto. Allora
mi voltai: era sparita anche la donna misteriosa.
In quel momento decisi che in quella caffetteria
non avrei più messo piede!
Istintivamente gridai il nome della cameriera.
Nessuna risposta. Urlai anche fuori dal locale.
Nulla. Ero immobile sul marciapiede quando iniziarono a cadere alcune gocce di pioggia. Ben
presto venne giù un acquazzone. Iniziai a correre
e fradicio raggiunsi l’auto. No, la donna non comparve sul sedile posteriore, né al mio fianco. Così
mi tranquillizzai, o almeno ci provai.
La pioggia cessò poco prima che arrivassi al
portone di casa. Parcheggiai la macchina in garage, e fu lì che lei ricomparve. Non indossava
più l’abito elegante. Portava una minigonna di
pelle nera, delle autoreggenti smagliate e una tshirt di un gruppo rock che non conoscevo. Era
scalza. «Perché sei scappato?» chiese risentita.
«Vai via, lasciami in pace!», urlai. Uscii dal garage per entrare in casa e lasciarmi la donna misteriosa alle spalle, invece mi voltai. «Come fai
a conoscere Gwenda? Chi sei? Io… non ti stavo
cercando.»
«Invece sì», insistette. Fece un gesto, come
per annusare l’aria. Chiuse gli occhi. «Io sono tutte le volte che non sei riuscito a dire a Gwenda
che l’amavi. Sono i rimorsi, le tue lacrime per lei.
Sono le cattive compagnie che hai frequentato per
cercare di dimenticarla. Non mi riconosci?» fece cincischiando con i piercing al naso. Riaprì gli occhi.
«Affronta le tue paure. Affrontami.»
Non erano più parole dolci.
«Io… non mi interessa» risposi soltanto, aprendo e chiudendo la bocca senza dire altro. «Voglio
solo che Gwenda sia felice…»
«Bla, bla, bla. Ma ti senti? L’hai lasciata in balia
di quello spacciatore di sigarette elettroniche. Secondo te con Alister Tunnen sarà felice? Quel tipo le
ha rubato la vita, i genitori hanno combinato tutto e
il matrimonio si farà ma a lei è stata rubata la vita.»
Osservai i suoi occhi verdi, profondi. «Come vor-
«Non vuoi proprio lasciarla andare, eh?»
«Sono un assassino.»
«Lo so», fece la donna misteriosa. «Ma perché ti preoccupi? Non lo saprà nessuno. Sei riuscito a trattenere Gwenda ancora per un po’.
Bravo. Ma la morte del suo amato padre quanto
la tratterrà ancora? Devi sbrigarti se vuoi dirle
che l’ami.»
«Non dirò un bel niente.»
La donna non rispose, ma l’eco delle sue ultime parole rimase a tormentarmi per tutta la
notte. Non dormii. Gwenda era lontana.
Trascorsi un’intera giornata in casa, tralasciando ogni impegno, compreso il circolo letterario. Ero solo. Probabilmente da qualche parte c’era anche la signora misteriosa, ma non si
manifestò. Tagliuzzavo foto di Gwenda e le appendevo sulle pareti della mia stanza. Il giorno
successivo continuai il lavoro, tappezzando di
foto ritagliate prima il corridoio, poi la cucina e
infine il piccolo salotto. Taglia e incolla, taglia e
incolla…
Il terzo giorno lo passai nella vasca da bagno.
La pelle bianca e deformata dall’acqua era nascosta da nuvole di sapone. La schiuma era il
mio bozzolo, sotto la quale mi masturbai per ore
pensando a Gwenda…
Gwenda. Non riesco a dormire. Dove sei?
… Salve, signora Stuart. Posso spalarle il vialetto dalla neve?
“…E così, Peter Pan e i bimbi sperduti attaccarono Capitan Uncino…”
«Perché non ti fai avanti, sciocchino?»
Io… Non ti stavo cercando…
«Invece sì…»
«… e vissero per sempre felici e contenti.»
«Non mi riconosci? Sono i rimorsi, le tue lacrime per lei.»
Basta…
«Ma ti senti? L’hai lasciata in balia di quello
spacciatore di sigarette elettroniche. Secondo te
con Alister Tunnen sarà felice?»
BASTA!
Sputai acqua, sapone e sangue. Raggomitolato nella vasca, fuori dal bozzolo di schiuma, ridevo eccitato, anche quando vidi Alister Tunnen
e il signor Stuart osservarmi con occhi sbarrati
uno accanto all’altro. Ero sveglio. Tunnen cercò
di dire qualcosa, ma il sangue scuro continuava
a fluire dalla ferita al collo.
Seppi di essermi riaddormentato perché mi
trovavo di nuovo in Gwenda. Muovevo passi incerti nella sua mente. Non c’erano più immagini
né ricordi: il tunnel freddo – la mia casa – era
scuro e vuoto.
Volevo svegliarmi. Aprii gli
occhi e c’era lei.
«La stai uccidendo.» La voce
della donna misteriosa mi fece
paura.
«Non… non voglio uccidere Gwenda!»
«Allora lasciala in pace. Basta incursioni»,
esclamò. La donna era avvolta in un lenzuolo
di seta. Al posto della testa rasata una chioma
gonfia di riccioli. «La stai inondando di incubi.
Così la ucciderai.»
Ero ancora nella vasca, stremato e sporco di
sangue. I tagli che mi ero inferto con le lamette
da barba andavano da una parte all’altra dell’addome. «Che devo fare?», chiesi.
«Amarla.»
«La amo.»
«Amarla come una persona normale, stupido.
Sempre che tu sappia il significato di normale.
Devi dirglielo, faccia a faccia, come fanno tutti.»
Disgustata, si tolse di dosso il lenzuolo. Aveva la
pelle bianca come la mia, ma senza tagli e senza
131
Letteratura
Poi arrivò il giorno della partenza. Gwenda
era pronta per dire addio al paesino, un infausto
giorno di primavera. Era una giornata ventosa,
con qualche strascico di pioggia. Poco prima
di prendere il taxi per raggiungere la stazione,
Gwenda e la madre furono raggiunte da un poliziotto sulla porta di casa. Tra il sonno e la veglia,
nella mia stanza, la vidi scoppiare in lacrime e
gettarsi tra le braccia della madre, mentre il poliziotto mandava via il taxi. Uccisi il signor Stuart
sul posto di lavoro, dal mio letto, nei miei incubi,
come avevo fatto con Tunnen. Un’altra gola tagliata.
La polizia iniziò a battere la pista del serial
killer.
132
Letteratura
grinze. Era perfetta. «Guarda come ti sei ridotto.
E guarda cosa hai fatto alla casa! Volevo solo
aiutarti.» Chiuse gli occhi. Una lacrima sfuggì
alle sue lunghe ciglia, scivolandole sulla guancia.
«Aiutarmi? È colpa tua. Tutto questo è colpa
tua!» Risi e piansi, sollevandomi dalla vasca, devastato da dolori e bruciori atroci. Il bagno era
completamente sporco di rosso. La signora misteriosa scomparve e non la rividi mai più.
Mi trascinai a letto lungo il corridoio. Strisciavo nel buio, nudo e ancora eccitato. Crollai sul
materasso dopo vari tentativi di rimettermi in
piedi. Tentai invano di restare sveglio, di reprimere la voglia di entrare in Gwenda. Ma il sonno
mi afferrò, e mi lasciai trasportare senza opporre
resistenza, sollevato.
Ciao, Gwenda.
Sei tu? Ciao.
Sì. Scusa per l’intrusione.
Ormai ci sono abituata.
Vuoi dire che…?
Sì, lo so che mi spii.
Scusami.
Non importa.
Prometto che d’ora in poi ti lascerò in pace.
Dovrei ringraziarti?
Non lo so.
…
Perché sei qui?
Non ho il coraggio…
Per fare cosa?
Lo sai. O puoi immaginarlo.
Lo so. Ma immagino solo te che ti masturbi
pensando a me.
Illustrazione© Claudia Cocci
Non lo farò più. Ti chiedo ancora scusa.
Non è questo il punto. Dimmelo, avanti.
Io… non… non riesco. Vivremo insieme? Tutto finirà?
Vivere con l’assassino di mio padre? Sei un
folle! Avanti, dimmelo.
Ti amo, Gwenda. Non ti rivedrò mai più.
Mai più.
Mi perdoni?
…Ti perdono.
Addio.
Cercavo un modo per starle vicino, amarla
(proteggerla?), sentirmi a contatto con lei in ogni
momento. Non sogno più.
133
elli
Questo, ecco,
proprio questo era ciò
che lui aveva sognato tanto spesso
e che aveva sempre desiderato
da quando era caduto in preda
alla sua passione: una storia che
non dovesse mai avere fine.
Il libro di tutti i libri.
Doveva avere quel libro,
a ogni costo!
- Michael Ende La storia infinita
134
quando la storia è davvero infinita
P
robabilmente a Bastian,
il giovane protagonista
de La Storia Infinita di
Ende, La principessa sposa
avrebbe fatto davvero gola, al
punto che avrebbe finito col rubarne una copia per leggersela
al sicuro e in solitudine nella
soffitta della scuola. Perché si
dà il caso che questo “libretto”
di così difficile classificazione
racconti davvero una storia che
potrebbe non avere mai fine. E
non solo perché non ha un vero
e proprio finale, lasciato volutamente aperto all’immaginazione del lettore; ma perché, grazie a un’ingegnosa e divertente
finzione biografica,
l’autore crea una
sorta di gioco di scatole cinesi per cui
la storia principale
viene letta da un
meta-narratore, che
la arricchisce con i
suoi interventi creandone una ancora
più preziosa e ampia, che a sua volta
viene letta da chi
ha in mano il libro. E
quest’ultimo lettore,
proprio come sto facendo io ora, probabilmente racconterà
a un altro lettore/
ascoltatore di aver
letto questo libro in
cui un personaggio
rileggeva una storia,
e così via.
William Goldman
ha la penna magica,
come sceneggiatore (Tutti gli
uomini del Presidente, Butch
Cassidy, Il maratoneta, solo per
citarne alcuni) e come scrittore, ma con La principessa
sposa, divenuto anch’esso poi
sceneggiatura per la versione
cinematografica, ha dato vita a
un libro talmente ricco e sfaccettato da sfuggire a qualsiasi
definizione.
Impersonando se stesso,
Goldman inventa di dover ridurre il libro che gli lesse suo
padre da bambino, cambiando il corso della sua vita: “La
principessa sposa. Una storia
classica di Vero Amore e Grande Avventura” di un certo S.
Morgenstern. A spingerlo è la
scoperta che il padre in realtà
gliene aveva offerto una sua
personale versione romantica
e avvincente, rivedendo, accorciando e abbellendo il libro
di Morgenstern, a quanto pare
invece interessato – e prolissamente – a elaborare una satira
tagliente sulla storia del suo
paese, Florin, e sul declino della monarchia.
In questo modo, Goldman
dà vita a un libro che in realtà sembra contenere più di
una storia, una dentro l’altra.
Forse, uno dei modi per raccontarle tutte potrebbe essere
scoprire ogni gradino della sua
scala speciale, che consente
in realtà di fermarsi al piano
che si preferisce, ignorando
bellamente gli altri, ma che, se
percorsa sino in cima, mostrerà
tutta la ricchezza, la capacità
comunicativa, l’intrinseca portata innovativa del lavoro di
Goldman.
Primo livello: la fiaba in sé.
È ciò che rimane dell’originario
lavoro di Morgenstern; “le parti belle”, come dice Goldman.
E quel che rimane è molto, moltissimo. Perché in questa fiaba
c’è tutto: “Scherma. Lotta. Tortura. Veleno. Vero amore. Odio.
Vendetta. Giganti. Cacciatori.
Uomini malvagi. Uomini buoni.
Belle dame. Serpenti. Ragni.
Bestie di ogni natura e tipo. Dolore. Morte. Uomini coraggiosi.
Uomini codardi. Uomini più forti. Inseguimenti. Fughe. Menzogne. Passione. Miracoli.” E poi
ci sono luoghi incredibili, come
lo Zoo della Morte, il Dirupo
della Follia, la Palude di Fuoco,
la Baia dell’Anguilla Gigante. E,
soprattutto, ci sono personaggi
indimenticabili: Buttercup, la
sposa (“La donna che ne era
emersa era un tantino più magra, molto più saggia, enormemente più triste. Aveva diciotto
anni. Era la donna più bella di
tutto il secolo. Non sembrava importarle”), il suo grande amore Westley, il garzone
(“Ai tuoi ordini” probabilmente sarà ricordata da chiunque
abbia letto il libro di Morgenstern come una tra le frasi più
Secondo livello: la fiaba-nonfiaba. Ci si potrebbe accontentare del puro divertimento e
delle emozioni regalate dalla
“semplice” fiaba di Morgenstern. Ma sarebbe davvero un
peccato decidere di non cogliere l’ironia di certi passaggi che
la trasformano in una spassosa
e brillante parodia dei romanzi
d’avventura e fantastici. Varrebbe la pena accorgersi, per
riderne grassamente, di quanto
Buttercup, se pur impareggiabile in bellezza, sia piuttosto rozza e decisamente poco sveglia;
come cogliere le mille battute
Letteratura
di valentina colucc
rincorrono in una fiaba avvincente, romantica, emozionante.
135
La Principessa Sposa
romantiche della letteratura), Inigo Montoya, lo spadaccino (“Hola. Mi nombre
es Inigo Montoya. Tu hai
ucciso mio padre, preparati
a morire!”), Fezzik, il gigante innamorato delle rime
(“Tegola, tegola, tornare alla
partenza è la regola”), Vizzini, l’infido siciliano gobbo
(“Inconcepibile!”), e ancora
l’albino del sussurro, Max
dei Miracoli e sua moglie (“Il
vero amore è la cosa migliore del mondo, dopo le pasticche
per la tosse. Lo sanno tutti.”), i
perfidi Principe Humperdinck
con la sua mania per la caccia
e il Conte Rugen con la sua particolare deformità.
Amore e avventura si
sarcastiche sparse in tutto il
testo, che compaiono quando
meno ce lo si aspetterebbe;
per non parlare delle situazioni
farsesche, delle esilaranti classifiche sulla donna più bella del
mondo o sul bacio più intenso, o
ancora delle spiazzanti precisazioni sul “veniva prima” e “veniva dopo”.
The Vampire Diaries
italia
primo sito italiano
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Terzo livello: la meta-narrazione. Questa è indubbiamente
la parte più originale e coinvolgente; grazie alla prefazione e
ai continui interventi di Goldman, che precisano quanto abbia tagliato in un capitolo e perché e che ricordano come aveva
vissuto quei passaggi da bambino, mentre suo padre plasmava
la storia appositamente per lui,
si ha l’impressione di vivere la
lettura con il William capace
e professionale del presente e
con il Billy ingenuo e meravigliato del passato, in una piacevole e informale condivisione.
E con loro si scopre anche,
mano a mano che si evidenziano i cambiamenti apportati
alla storia dal padre, la figura
romantica e attenta di questo
personaggio, che assume contorni bellissimi velati di nostalgia.
Quarto livello: la morale della fiaba. Questo è il passo successivo dell’ironia approntata
alla fiaba, i suoi senso e scopo
più profondi: nella realtà – e
anche in questa fiaba che ce
lo insegna – la vita non è giusta. Non sempre i buoni vincono, non sempre l’amore ha
un senso (il perfetto Westley
e la sciocchina Buttercup sono
davvero male assortiti), non
sempre chi ha valore ha successo, non sempre chi ha bisogno
di affetto è accolto dagli altri.
I personaggi di Morgenstern,
al di là della caratterizzazione
fiabesca in primis e caricaturale poi, hanno un’umanità che
commuove (soprattutto Fezzik e
Inigo, che in più punti sembrano richiamare i personaggi de Il
Mago di Oz, che desiderano ciò
che già hanno e non credono di
possedere) e coinvolge (difficile
non parteggiare per l’amore tra
Westley e Buttercup), e le loro
sconfitte pesano sul lettore e
insegnano ad accettare che “la
vita non è giusta”. Non come
una demoralizzante rassegnazione, ma come una sorta di
liberazione ricevuta dall’accettazione dell’imperfezione!
Quinto livello: inno alla lettura. Tutto il libro di Goldman, che
ha inizio dall’amore per un libro, è una sentita dichiarazione
d’amore alla lettura. E Goldman
ha proprio confezionato un’opera capace di raggiungere e piacere a tutti, che sembra gridare:
“Leggetemi! E poi leggete, leggete, leggete”. Come biasimare
Bastian, dunque?
Letteratura
137
TOMOKO NAGAO
Giapponese, vive a Milano.
Dipinge.
confronto
allo
specchio
Le opere
di Tomoko
sono un'allegoria
dell’epoca della
globalizzazione,
raccontata con
i suoi simboli
e i suoi prodotti,
in stile "superflat"
(Christian Gancitano)
140
Francesca
FRANCESCA SCOTTI
Italiana, vive a Kyoto.
Scrive.
I
l suo è un mondo coloratissimo, fluttuante, eccessivo ma non ridondante.
Tomoko tiene a bada la grande onda,
lasciandole travolgere solo ciò che desidera. Mischia i dipinti storici europei e la
società capitalistica, riflette i contrasti del
suo oriente portandoli nel quotidiano.
Le pagine di Francesca risplendono di
un perfetto nitore, una prosa pulita e sorvegliata. I suoi racconti sono attraversati
da una serie di temi tra loro speculari: la
musica e il suo complemento, il genio; l’arte culinaria e la sua ombra, il digiuno; il
Giappone come luogo ideale, terra di epifanie. Le storie che racconta posseggono
un tratto comune, ovvero una disarmante
intensità, una straordinaria forza emotiva.
Francesca e Tomoko si sono incontrate con un racconto che cercava un’immagine o viceversa. Da allora non hanno
più smesso di cercarsi. E di farsi domande.
Speciale
intervista
141
doppia
arte
Tomoko
Tomoko: Ti piace il dipinto “Giuditta e
Oloferne” di Caravaggio? Nel mio dipinto "Giuditta che decapita Oloferne", che
mano usa per tagliargli la testa?
Francesca: Sì, mi piace. Mi piacciono l'eleganza e la ferocia che racchiude. Questo binomio
lo ricerco anche nei racconti che leggo e nelle storie che scrivo. Giuditta corrucciata nella
bellezza, Oloferne contratto in uno spasmo, già
morto nel corpo ma non nello sguardo. Se mi
dici "mano" la prima che vedo è quella di Oloferne avvinghiata al letto. Poi c'è quella della
spada e quella con cui gli tiene il capo. Secondo
me, nel tuo dipinto lei lo decolla con l'eroismo,
con la mano della rivalsa. T: Perché ti piace hokusai?
L'acqua è viva
F: Di Hokusai mi piacciono i manga nei quali
convivono esseri umani, oggetti, creature fantastiche, personaggi storici, animali e piante.
Non ti sembra di sentire il lottatore di sumo
che canticchia mentre fa il bucato? o i servi che
si lamentano mentre spingono il carretto? Ora
che vivo a Kyoto, ogni tanto mi ritrovo davanti a
scene che sembrano quelle viste nei suoi lavori.
Mi piace la sensazione di corporeità che ottiene con pochi tratti, la naturalezza che dissimula
uno studio approfondito. Mi piace il suo modo
di raccontare storie per immagini, guardare il
tempo scorrere nei gesti dei suoi personaggi.
T: Lo sai che in giappone definiamo "blu"
alcune cose verdi? Cosa ne pensi?
Blu è verde? Verde è blu?
F: Mi viene in mente una frase di Melville, sui
confini labili. "Who in the rainbow can draw
the line where the violet tint ends and the
orange tint begins? Distinctly we see the difference of the colors, but where exactly does
the one first blendingly enter into the other?
So with sanity and insanity.” Quando scrivo
mi piace raccontare storie che stiano proprio
su quella linea sottile. Che indugino un po' nel
verde e un po' nel blu, fino a dimenticare qual
è uno qual è l'altro e cosa significhi "sano" e
"insano". Blu e verde siedono vicini nell'arcobaleno e i nostri occhi possono mescolarli.
arte
Tomoko a Francesca
142
Mi dà un piacevole spaesamento sentirli
utilizzare in alternativa in Giappone. Ma
del resto, da quando vivo qui, se mi chiedo
qual è il contrario di bianco non rispondo più
nero, ma rosso.
T: Attraverso cosa senti il "futuro" ?
Una volta, ho sentito il futuro in una foglia di
albero. ma mi sono spaventata. Perché sono
troppe.
F: La parola "futuro", da sempre, mi riporta
a pensieri fantascientifici. Se cerco di avvicinare questo termine alla
mia vita allora il futuro lo immagino nelle
storie che ancora non conosco. Se dovessi
trovare un'immagine sarebbero i libri che ancora non ho letto, le montagne di pagine che
rappresentano il passato per qualcuno e il
futuro per qualcun altro. 143
Francesca a Tomoko
Tomoko: Quanto amo il tuo modo di chiedere!
Caravaggio e Hokusai non sembrano delle verdure?
Se lo fossero, ne farei un succo. Hokusai è un
genio nel dipingere l’acqua. La sua acqua sembra un animale o una ceratura dotata di anima.
C’è dell’animismo nel suo stile. Qualche giorno fa sono andata alla mostra “Tesori dell’arte
giapponese” a Nagoya – sono qui per un mese,
per visitare la mia famiglia, fare shopping da
ragazze e fuggire dalla società europea e dal-
la mia realtà - ho visto un rotolo interessante,
“Heiji Monogatari emaki – Sanjoudonoyouchi”.
La rappresentazione del fuoco mi ha affascinata. Molte culture divinizzano il fuoco, e questo
mi ricorda l’acqua di Hokusai. La sua acqua
è un mostro che ci può divorare. E così è anche il fuoco della battaglia. Sono stata per tre
giorni a Goza Shirahama, vicino all’Ise Jungu,
il grande santuario dedicato alla dea del sole
Amaterasu-ōmikami e al dio dell’agricoltura
e dell’industria, Toyouke no ōmikami. È come
un’enorme e perfetta installazione, ti fa vede-
144
re un mondo mai incontrato. Quando ero sul
mare, le onde erano molto grosse a causa di
un tifone. Ho visto l’onda di Hokusai! E anche
gli spiriti della natura. La natura è splendida…
grazie per la mia vita.
F: La nostra prima collaborazione era relativa a un racconto erotico al quale tu
hai affiancato un'immagine. Quando l'arte è erotica per te?
T: Il mio disegno per il tuo racconto non è propriamente erotico per me. Era importante la
ragazza senza vestiti e il sex toy. Ero interes-
sata alla relazione fra un corpo nudo e un oggetto contemporaneo. Non sono un’artista che
esprime erotismo. Non credo di essere molto
brava nell’arte erotica. Sono andata al mare
in Giappone. Non ho visto donne in costume,
indossano vestiti sulla spiaggia, perché non
amano che la loro pelle si veda in pubblico. Se
una donna ha il costume, gli uomini la guardano, perché le altre sono vestite. Non sapevo
che le donne si comportassero così in Giappone, 7 anni fa, non era così. Cosa succede in
Giappone? Cosa pensi, se una donna indossa i
vestiti in spiaggia e mentre nuota gli uomini la
guardano? Sono confusa, cosa è erotico?
F: Di quale donna vorresti raccontare,
con la tua arte, la storia?
145
T: Quando racconto un personaggio femminile
mi interessa guardarla nella società in cui vive.
Perché, in qualche modo, la donna è simbolo e
vittima della società. Spesso uso la principessa spagnola Infanta Margarita Teresa in “Las
meninas” di Velazquez. Lei è stata principessa
quando la Spagna era il paese più potente del
mondo. È il mio super idolo di donna del periodo. Ora mi interessa Lady Gaga. È così carina,
non è vero? Ed è un idolo contemporano: musica, danza, fashion, sesso, technology… mischia tutto. Anche le AKB48 sono carine. Sono
vittime della società? O vincenti?
F: Nei tuoi lavori vedo tanto cibo. Ti piace
di più cucinarlo o rappresentarlo?
T: Mi interessa più il packaging del cibo di massa che il contenuto. E preferisco disegnare più
che cucinare o mangiare. Comunque, sai, anche il cibo tradizionale giapponese ha profonde
relazioni con l’animismo. Mi piace il cibo che
abbia storia e cultura alle spalle. Posso scoprire significati importanti del cibo mangiandolo.
Ma il packaging che uso per la mia arte cancella tutto il significato dell’alimentazione. La
gente sceglie il cibo di massa e questo mi interessa dal punto di vista sociale. Che sia uno
dei progressi dell’umanità? Se gli umani non
avessero più bisogno di cibo non sarebbero più
animali. È figo?
arte
Francesca: Se tu mi chiedi se mi piace Caravaggio, io ti chiedo se ti piace Hokusai!
146
147
L’universo illustrato di
Victoria
Frances
di ELENA BIGONI
arte
I
n occasione dell’uscita italiana dell’edizione
integrale di Favole, edita da Rizzoli Lizard, abbiamo avuto l’occasione di intervistare l’autrice
Victoria Frances.
La giovane illustratrice spagnola ha conquistato il grande pubblico di lettori in età giovanissima,
pubblicando un’opera illustrata intitolata Favole,
Lacrime di pietra, primo volume di una trilogia.
Quest'opera ha rappresentato, nel panorama delle
graphic novel, una sorta di spartiacque tra l’immagine del vampiro del passato e il vampiro moderno.
Victoria Frances ha saputo innestare nelle classiche caratteristiche dei vampiri quel giusto mix di
gotico e dark romantico che ha affascinato le nuove generazione di lettori. Atmosfere cupe sottolineano storie d’amore ricche di pathos dove eroine
disperate narrano le loro inquietudini.
La trilogia di “Favole” è entrata con prepotenza
nell'immaginario dei lettori di tutto il mondo, tanto che le immagini e le figure femminili raccolte
nell’opera sono diventate il simbolo della nuova
letteratura gotica, nella quale confluiscono il fascino e l’oscurità di personaggi tormentati e ricchi
di carisma.
La Frances, però, non si è fermata e ha prodotto
altre due serie di grande pregio El corazon di Arlene e Misty circus dove ha dimostrato di sapere
gestire e giocare con storie e stili molto diversi tra
loro senza mai dimenticare quella vena cupa che
contraddistingue il suo lavoro.
In attesa di poter leggere in Italia i suoi nuovi
lavori, buone “favole” a tutti.
148
Speechless: Ciao Victoria,
benvenuta su Speechless.
I nostri lettori sono sempre
molto curiosi, ti andrebbe di
parlarci un po’ di te? Cosa ti
piace fare quando non lavori
sui tuoi progetti?
Victoria Frances: Lieta di
ospitarvi. In verità mi considero
una persona molto normale e, al
di là dei miei progetti come illustratrice, di solito nel mio tempo
libero mi dedico alla lettura, in
particolare leggo romanzi ambientati nel passato, mi piace
anche andare al cinema, ascoltare musica… vale a dire faccio
quello che una qualsiasi persona
normale fa di solito nel proprio
tempo libero.
S: Parliamo subito della
tua opera prima “Favole”
pubblicata la prima volta nel
2005 in Spagna, una trilogia
illustrata che ha conquistato
in brevissimo tempo lettori e
lettrici di tutto il mondo. Da
poco è stata pubblicata la
versione integrale in un unico volume con illustrazioni e
testi inediti. Come mai questa scelta di riprendere in
mano l’intera opera?
VF: Il primo volume di “Favole” è stato pubblicato in Spagna
nel 2004 e onestamente sono
rimasta molto sorpresa dall’impatto che ha avuto il mio primo
artbook. Non mi aspettavo di ottenere un successo così rapido
e credo che non fossi nemmeno
pronta a tutto questo. Ma poco
a poco ho fatto mio il campo artistico che mi si apriva davanti
e mi sono dedicata completamente al mondo dell’illustrazione, continuando col secondo e
il terzo volume. Ho raggruppato
la trilogia in un unico volume per
darle un aspetto più elegante,
qualcosa di più simile a un “libro
d’artista” con un’impostazione
grafica più accurata e con materiale esclusivo.
S: Come è stato rimetterti
al lavoro su “Favole”? Quali
sono stati (se ne hai trovati)
i limiti della tua prima opera
rispetto a questa nuova revisione? In che modo ti senti
cambiata rispetto ad allora?
VF: Il primo libro contiene
lavori e testi realizzati in un’età
molto precoce, quasi 18 anni,
quando non avevo nemmeno
una tecnica completamente raffinata. Col passare del tempo e
realizzando nuovi lavori anche il
tuo stile migliora e le tue inquietudini cambiano, ma mantieni
sempre quello spirito particolare o quel tuo mondo proprio
che definisce la tua personalità
artistica.
S: “Favole” non è solo il
titolo dell’opera ma è anche
il nome della protagonista,
il filo conduttore dell’intera narrazione. Come è nato
questo personaggio e a chi
o cosa ti sei ispirata?
VF: Il nome “Favole” si riferisce ai racconti popolari a cui
mi sono ispirata sin da bambina, come ad esempio le storie
reali dei fratelli Grimm, Hans
Christian Andersen o Charles
Perrault tra gli altri… È il nome
che ho dato al mio personaggio
ispirandomi a me stessa, alle
mie esperienze e sentimenti.
S: “Favole” è un'opera
dove il lirismo dei testi si
unisce a illustrazioni piene
di pathos, tormento e gotiche atmosfere; le figure
femminili rimangono impresse nel lettore. Come
sono nate le loro storie?
VF: Il filo conduttore dell’opera è il cammino di uno spirito errante verso la propria salvezza.
arte
INTERVISTA
149
Tutta la mia opera si basa su
questo principio o concetto: la
ricerca della luce nell’oscurità.
Le storie presenti in “Favole”
si riferiscono alle ombre che
incontriamo durante la nostra
esistenza, dalle quali impariamo
sempre qualcosa e che alla fine
ci rivelano la luce che speravamo di trovare.
S: Il vampiro Ezequiel
è, assieme alla protagonista Favole, il punto focale
dell’intera storia, qual è stata la tua fonte d’ispirazione?
E cosa volevi raccontare at-
traverso la loro storia?
VF: Il vampiro Ezequiel rappresenta la redenzione amorosa desiderata da Favole, è il
concetto più romantico di tutta
la storia. È il suo amante folle, la sua speranza di vita e di
morte. Ezequiel ha in sé questa
dualità.
S: La tua opera è apparsa
in un periodo in cui non era
ancora esplosa la moda nata
dal fenomeno Twilight. Cosa
pensi di questa nuova immagine del vampiro dalle tinte
meno dark e tormentate?
Mary Shelley, Edgar Allan Poe,
Bécquer, Oscar Wilde… piuttosto sono un’amante del vampiro
classico o del “mostro gotico”
che non perde la sua propria
decadenza, la sua oscurità e il
suo tormento, così come la sua
intensa attrazione e la bellezza
dei suoi sentimenti.
S: La grande potenza
espressiva della tua opera
nasce dal perfetto connubio tra illustrazioni e testi,
durante la prima stesura di
150
“Favole” sono nate prime le
illustrazioni o i testi? In che
modo è nato l’intero progetto?
VF: Prima di realizzare il primo volume di “Favole” avevo
già a disposizione molte illustrazioni realizzate durante la
mia adolescenza. Poi, considerando l’idea di raggruppare
tutto il materiale in un unico
volume, ho deciso di dar loro un
senso, ordinare i personaggi e
creare la storia che li collegasse. Ad ogni modo realizzo sempre prima le illustrazioni partendo da un’idea generale o da un
filo conduttore presente nella
mia mente e infine, quando ho
tutte le illustrazioni di un libro,
costruisco i testi.
S: Quando disegni quali
sono le tecniche che prediligi?
VF: Fondamentalmente adopero una tecnica mista a una
base di acquarelli, pastelli, matite colorate e acrilici, ma non
ho una tecnica fissa con cui realizzo tutte le illustrazioni. Normalmente procedo sempre allo
stesso modo, ma ci sono immagini che necessitano di altri
materiali. La sperimentazione
continua è qualcosa che apporta ricchezza al proprio lavoro.
S: Da quali artisti trai
ispirazione?
VF: Da un’infinità… amo
soprattutto l’opera del grande
Brian Froud, ma lungo tutto l’arco della mia vita mi hanno ispirato moltissimi artisti, tra i quali
vorrei segnalare John William
Waterhouse, J. Everett Millais,
Arthur Rackham, Edmund Dulac, Alphonse Mucha, Toulouse-Lautrec, Mark Ryden… etc.
S: Nell’immaginario comune odierno (specialmente sul web) le illustrazioni
di “Favole” sono diventate
arte
VF: Beh, si tratta di un altro
punto di vista. Io personalmente non ho visto questa saga,
nemmeno per curiosità… quindi non posso neanche esprimere la mia opinione su di essa,
forse perché l’estetica non mi
ispira del tutto e nemmeno è il
tipo di vampiro che io immagino. Diciamo che sono molto più
vicina alle Cronache dei vampiri
di Anne Rice, ai racconti gotici
di tutti i tempi che possiamo
trovare in Bram Stoker, Le Fanu,
151
Traduzione dallo spagnolo
di Adriana Beatriz Carriero
15
visioni artistiche che più lo affascinano. Per questo ho deciso
di non adottare un unico stile
e di provare altri registri. Tutto
questo arricchisce la tua opera
e ti fa anche conoscere da un
altro tipo di pubblico e ciò diventa molto gratificante. In ogni
caso, benché essi sembrino diversi per forma e soggetto, non
lo sono nella sostanza. Tutta la
mia opera ha un’essenza comune e parte da alcune premesse
molto concrete. Questo è qualcosa che non perderò mai.
S: Quali sono i tuoi progetti futuri?
VF: Proprio adesso sto per
pubblicare un nuovo libro che
s’intitolerà “El lamento del
océano” la cui protagonista
principale sarà una sirena.
Inoltre sto realizzando il terzo
volume della collezione “Misty
Circus” che avrà come titolo “El
vampiro de las nieves”. Poi ho
un altro progetto molto interessante che per adesso non posso
svelare…
S: Chiediamo sempre agli
artisti che intervistiamo
una citazione o una frase
personale che condensi la
propria idea di Arte. Vuole
dirci la sua?
VF: La mia sarà sempre un
piccolo frammento estratto dal
leggendario romanzo di Dracula di Bram Stoker: “Persino
nell’oscurità si vedeva la luce,
come quella che c’è sempre
sulla neve; e sembrava che le
raffiche di neve e i veli di nebbia
adottassero la forma di donne
con lunghi vestiti fluttuanti…”
arte
152
la rappresentazione per antonomasia di figure femminili gotico/dark; quali sono
stati gli elementi, secondo
te, che hanno decretato il
successo di queste tue rappresentazioni?
VF: Penso che abbia a che
fare con la ricerca dello stereotipo classico del vampiro. Personalmente scavo nello spirito
romantico del vampiro, nei suoi
desideri, passioni e tormenti. E
sembra che nelle mie illustrazioni il mio pubblico capti
proprio quello che voglio
rappresentare. In misura
diversa tutti ci siamo identificati con questo tipo
di sentimenti. Per natura
l’uomo è attratto dal concetto dell’amore eterno,
della perdita, della solitudine, della vita e della
morte…
S: Dopo la pubblicazione della prima
trilogia di “Favole”,
hai lavorato su altri
progetti molto diversi tra
loro per stile
e scelte narrative, mi riferisco a “El
corazón de Arlene” e “Misty
Circus”. Come
sono nati questi progetti?
VF:
Sinceramente sono
nate dalla mia
esigenza di creare qualcosa di
nuovo. Credo
che ogni artista
abbia bisogno
di sperimentare
e di dare libero
sfogo a tutte le
No, è un Cinecomic!
di ROBERTO GERILLI
I
mmaginate una serata di gala a cui partecipano
tutti i generi cinematografici. C'è Lord CinemaImpegnato, che cammina impettito nel suo
smoking da cerimonia, c'è Miss Commedia-Romantica che fa gli occhi dolci al muscoloso Mr. Action
Movie, c'è quella cassandra di Film-Catastrofico,
secondo cui la fine del mondo è sempre imminente
e, in giro da qualche parte, c'è anche il signor B.
Movie, un tipo volgarotto e un po' coatto che fa
ridere tutti ma che nessuno ammette mai d'aver
visto. Poi all'improvviso le note degli AC/DC, un
gran frastuono ed ecco che nella sala irrompe…
lui. Muscoli ipertrofici, divisa attillata e sorriso sardonico: il Cinecomic.
È l’eroe del 2012 (The Avengers, The Amazing
Spiderman, Batman – Il Cavaliere Oscuro: Il Ritorno), ma soprattutto è il salvatore del carrozzone
dorato targato Hollywood. Già, perché guardando
la programmazione cinematografica sembra di assistere alla caduta di Fantàsia narrata da Micheal
Ende ne La storia infinita. Il Nulla imperversa sul
mondo del cinema, divora, distrugge. Dopo il suo
passaggio non rimangono che pellicole insipide e
sale deserte. Gli sceneggiatori sanno scrivere solo
reboot o remake, i produttori pensano al franchise
e agli incassi, il 3D viene usato per truffare il pubblico con promesse di spettacolarità mai realmente
rispettate, il prezzo dei biglietti continua a salire.
156
volo emozionanti e una regia coinvolgente firmata da Richard Donner (poi regista di altri film cult
come I Goonies e la serie Arma Letale), Superman
inaugurò, di fatto, il primo franchise fumettistico
della storia del cinema, ma, soprattutto, inventò
un genere longevo e remunerativo.
La via tracciata dal film di Donner non risultò,
tuttavia, subito chiara e in tutto l’arco degli anni
’80 si segnalarono numerosi flop cinematografici
legati ad adattamenti di fumetti. Colpa di produzioni pressapochiste ma soprattutto colpa di
budget limitati e progetti mal curati. Una serie di
insuccessi fortunatamente interrotta nel 1989 da
un nuovo colossal targato dal dinamico duo DC
157
elicottero sopra l’oceano e uno squalo di gommapiuma ti scambia per un'esca). Un film assurdamente trash che ben rappresenta l’idea che il cinema aveva dei supereroi: nulla più che saltimbanchi
in maschera adatti a strappare qualche risata.
Un esordio infausto che riuscì a essere dimenticato (almeno in parte) solo grazie all’intervento di
un altro eroe di casa DC Comics: Superman. Nel
1974 la Warner Bros comprò i diritti della trasposizione e iniziò una produzione colossale che definì,
di fatto, la “ricetta” dei futuri cinecomic: budget
elevato, ampio utilizzo degli effetti speciali, tante
scene d’azione, colonne sonore indimenticabili e
un pizzico di umorismo. Il risultato fu un blockbuster leggendario che, all’epoca, divenne il maggior
successo di casa Warner, piazzandosi al sesto posto nella classifica dei maggior incassi. Con il soggetto scritto da Mario Puzo (autore del romanzo Il
Padrino), la presenza di Marlon Brando, scene di
Comics-Warner Bros: Batman di Tim Burton.
Sfruttando la propensione dark del regista
americano, produttori e sceneggiatori decisero di
portare sul grande schermo una versione cupa e
gotica di Gotham City, distante anni luce da quella carnevalesca del precedente adattamento. La
“ricetta” cinecomic venne rispettata e, grazie soprattutto alla straordinaria interpretazione di Jake
Nicholson nei panni del Joker, il film divenne un
must che fece sognare un’intera generazione di
ragazzini. Al film di Burton seguirono, purtroppo,
altri tre film della stessa serie e un'altra lunga sequenza di flop che si trascinò fino alla fine degli
anni ’90. Di questi film, che sarebbe bene dimenticare, si salvano Il Corvo (1994) divenuto celebre
per la sfortunata morte durante le riprese del protagonista, Brandon Lee, e Blade (1998) che segna
la discesa in campo dei Marvel Studios.
L’entrata in scena della divisione cinematografica
cinema & serie tv
È un film? È un fumetto?
Un panorama apocalittico che ha bisogno di un
eroe, qualcuno capace di richiamare gli spettatori,
di guidarli fino alle sale, di esaltarli. “Un eroe. Non
l'eroe che meritavamo ma quello di cui avevamo
bisogno.” Il Cinecomic.
La sua storia sul grande schermo inizia in modo
tutt’altro che dignitoso. Il primo lungometraggio
tratto da un fumetto è, infatti, Batman – The Movie, datato 1966. Direttamente dalla famosa serie
televisiva arrivarono al cinema Adam West con
pancia e tutina attillata, Robin (Burt Ward) tanto
ingenuo da sfociare nell’idiozia e una serie infinita
di bat-accessori che includevano il bat-spray repellente per squali (molto utile se sei appeso a un
di un universo cinematografico Marvel in cui ambientare tutti i futuri cinecomic basati sui propri
supereroi. Questo, oltre a permettere divertenti
riferimenti incrociati tra i film, ha consentito la realizzazione della cosiddetta Fase 1, culminata con
The Avengers. Prendendo spunto dalla struttura tipica degli albi a fumetti, dove le storie dei singoli
personaggi convergono annualmente in una serie
de I Vendicatori, nel 2008 i Marvel Studios inaugurarono un progetto cinematografico complesso
e rischioso. Cinque film, interconnessi tra loro tramite easter egg e scene post-titoli di coda, per lanciare una pellicola corale divenuta evento anche
prima dell’uscita ufficiale: The Avengers.
A differenza della trilogia su Batman creata da
Nolan, il film di Joss Whedon non cerca di allontanarsi dal tono fumettistico dei suoi personaggi,
ma anzi lo sviluppa e lo esalta. Il regista ha attinto
alle tradizioni della Marvel e a quelle degli actionmovie hollywoodiani, creando un perfetto mix di
azione, spacconeria e divertimento. Il risultato è
stato una pellicola che ha esaltato il pubblico e
sbancato i botteghini.
L’uscita a distanza di pochi mesi di Batman: Il
Cavaliere Oscuro – Il Ritorno e di The Avengers ha
catalizzato l’attenzione del pubblico rinvigorendo
la storica rivalità tra Marvel e DC Comics. Meglio
la trilogia dell’uomo pipistrello o il film sui Vendicatori? Meglio Nolan o Whedon?
Un confronto tanto inevitabile quanto sciocco e
privo di senso. Le qualità dei due registi sono molto
diverse tra loro e così non può che essere anche
per i loro lavori. Molto più interessante è sottolineare quello che entrambi rappresentano per il
genere “tratto da un fumetto”.
Nolan e Whedon hanno il merito di aver obbligato gli spettatori e i critici a rivedere la loro posizione riguardo ai cinecomic. Il primo ha dimostrato
che a partire da un fumetto si può realizzare una
saga seria, complessa, drammaticamente attuale
e commovente. Il secondo ha provato che anche
essendo popolari, commerciali e un po’ carnevaleschi si può realizzare una pellicola che rimarrà
nella storia del cinema. Insieme hanno dato dignità
e credibilità all’unico genere che non soffre la crisi
che sta colpendo tutto il mondo dietro al grande
schermo.
A sentire queste parole Lord Cinema-Impegnato
si alza da tavola stizzito e urla: “ORA BASTA! Voi
siete inferiori a me! Sono un dio, creatura ottusa!
Non subirò angherie da parte…” A questo punto
il Cinecomic lo afferra saldamente, lo sbatte una
manciata di volte sul pavimento e poi lo lascia lì,
in fin di vita.
“Un dio gracile”, mormora andandosene sorridendo.
159
cinema & serie tv
158
della famosa casa editrice è un evento fondamentale nella storia dei cinecomic. La prima conseguenza fu l’inizio di una vera e propria invasione
dei supereroi Marvel, rimasti fino ad allora relegati
a occasionali produzioni low-budget (ricordate solo
dagli appassionati maniacali). Nel giro di otto anni
(dal 2000 al 2007) vennero prodotte ben quindici
pellicole tratte dai fumetti Marvel tra cui si distinguono ottimi film, come la serie degli X-Men di Bryan Singer e quella di Spiderman di Sam Raimi, ma
anche colossali insuccessi come Daredevil, Hulk e
Ghost Rider.
In questa valanga di adattamenti il vero punto
di svolta fu però il reboot di una saga dedicata a
un personaggio DC Comics: Batman. Dopo il disastroso Batman & Robin di Joel Schumacher, ultimo
capitolo della saga degli anni ’90, l’uomo pipistrello
era diventato una sorta di paria, ma visto l’imbarazzante risultato di Catwoman, la Warner Bros
aveva bisogno di un film che gli permettesse di
fronteggiare il successo dei cinecomic rivali. Nacque così il progetto di Batman Begins affidato a un
giovane e promettente regista, Christopher Nolan.
Partendo dal soggetto di David Goyer, Nolan
scrisse una sceneggiatura che si staccava nettamente sia dai precedenti film dell’uomo pipistrello
che dai recenti prodotti di casa Marvel. Il regista
inglese scrisse una trama dai toni cupi in cui il personaggio di Bruce Wayne/Batman era finalmente
il protagonista. L’ambientazione fu privata di ogni
aspetto surreale o fumettistico, e Gotham City divenne una metropoli moderna e realistica. L'abbandono dei tratti pop in favore di una visione molto
più verosimile fu una delle caratteristiche principali del nuovo corso. Niente più bat-accessori ma
attrezzatura militare tecnologicamente avanzata,
niente più bat-mobile ma un mezzo militare corrazzato, niente più siparietti comici ma dialoghi ben
costruiti che affrontano in maniera approfondita il
tema della battaglia tra bene e male. Se Batman –
The Movie aveva rischiato di rovinare per sempre il
genere cinecomic, Batman Begins fu capace di ridargli dignità, iniziando una trilogia che ha cambiato la percezione degli spettatori e dei critici verso
gli adattamenti fumettistici.
I Marvel Studios accusarono il colpo ma risposero mettendo in piedi un progetto a lunga scadenza senza precedenti. Nel corso degli anni ’80
e ’90 la casa editrice americana aveva venduto i
diritti dei propri personaggi a numerosi studi cinematografici. A partire dal 2004, però, i Marvel
Studios iniziarono a raccogliere le varie opzioni di
sfruttamento rendendo così possibile la creazione
di ROBERTO GERILLI
Quando il vero giornalismo torna a far notizia
THE NEWSROOM
L
’estate della tv americana è stata sconvolta da una nuova serie tv: The Newsroom.
Ambientata nella redazione giornalistica di
ACN, una fittizia televisione americana, la serie
segue le vicende di un gruppo di giovani redattori
stanchi dei dati d’ascolto e desiderosi di tornare a fare del vero giornalismo. Il volto di questa
missione è quello di Will McAvoy , interpretato
da Jeff Daniels (Speed, Scemo & Più Scemo, Debito di Sangue), anchorman del notiziario serale,
inizialmente noto per la sua riluttanza a prendere qualsiasi tipo di posizione. Dopo un’esplosione emotiva in diretta tv (strepitoso il monologo
dell’episodio pilota), la sua carriera sembra a
un passo dalla fine quando il direttore della rete
ingaggia un nuovo produttore esecutivo: Mackenzie McHale. La donna, interpretata da Emily
Mortimer (Quell’idiota di nostro fratello, Hugo
Cabret), è una giornalista idealista nonché ex fidanzata di McAvoy. Superando i dissapori iniziali,
Oltre questo, però, The Newsroom è anche
un serial di grande qualità che, attraverso le
storie dei personaggi, appassiona e coinvolge
lo spettatore. Tralasciando il lato civico, infatti,
la trama della serie è impreziosita dal rapporto
conflittuale tra McAvoy e la McHale, innamorati e pur sentimentalmente molto lontani, e dal
triangolo amoroso tra i membri della redazione
Jim, Maggie e Don. Un intreccio narrativo perfettamente equilibrato tra intrattenimento e riflessione che viene supportato dalle eccezionali
interpretazioni del cast che, oltre a Daniels e
alla Mortimer, comprende il veterano Sam Waterston (candidato all'Oscar come miglior attore protagonista per Urla del silenzio e celebre
per il ruolo del Vice procuratore Jack McCoy in
Law & Order), Alison Pill (Scott Pilgrim vs. the
World, Midnight in Paris, To Rome with Love),
Dev Patel (The Millionaire, L'ultimo dominatore dell'aria, Marigold Hotel), Olivia Munn (Ma
come fa a far tutto?, Magic Mike) e Jane Fonda,
nel ruolo ricorrente di Leona Lansing, l'amministratrice delegata di Atlantis World Media, la
società madre di ACN.
The Newsroom è una serie prodotta dalla HBO, emittente televisiva via cavo degli Stati Uniti che negli ultimi anni è diventata sinonimo di grande qualità. Dopo i recenti successi di Boardwalk Empire – L'impero del crimine e de Il Trono di Spade,
il network americano ha conquistato ancora una volta i telespettatori americani con una serie il cui successo era tutt’altro
che scontato. La prima stagione di The Newsroom è composta
da dieci episodi di circa sessanta minuti che sono stati trasmessi dal 24 giugno al 26 agosto. Dopo solo due puntate la
serie si è guadagnata la riconferma per una seconda stagione
la cui premiere è prevista per giugno 2013. Non si hanno ancora notizie riguardo alla possibile prima tv italiana.
cinema & serie tv
160
la donna riesce a coinvolgere l’anchorman nella
sua missione di purificazione e grazie all’aiuto di
valenti giovani redattori inaugura un nuovo tipo
di notiziario improntato sul giornalismo e non
sullo scalpore.
The Newsroom segna il ritorno sul piccolo
schermo di Aaron Sorkin, talentuoso sceneggiatore americano divenuto un punto di riferimento
per i suoi dialoghi serrati e brillanti. Dopo un esordio leggendario con lo script di Codice D’Onore,
Sorkin è divenuto celebre come creatore del serial West Wing – Tutti gli uomini del Presidente
(andato in onda dal 1999 al 2006) e come autore
dei recenti successi cinematografici The Social
Network (per cui ha vito l’Oscar per la sceneggiatura non originale) e The Money Ball. In The
Newsroom l’autore americano dà libero sfogo al
suo talento, creando una serie che fa divertire e
riflettere. Grazie ai dialoghi straordinari e a dei
ai personaggi estremamente realistici, Sorkin
si è inventato una serie in cui il giornalismo è il
vero protagonista.
The Newsroom è, infatti, una critica feroce verso quei programmi sensazionalistici che
troppo spesso vengono scambiati per notiziari
(piaga che affligge anche i palinsesti italiani),
ma soprattutto è un invito a non accontentarsi del simil-giornalismo che viene spacciato sul
piccolo schermo. Prendendo spunto dagli avvenimenti reali accaduti tra il 2010 e il 2011,
la serie mostra la differenza tra quello che dei
professionisti avrebbero dovuto annunciare e
quello che è invece stato annunciato nei network reali, in un continuo e affascinante parallelo tra finzione e realtà.
161
L
a stagione autunnale televisiva è nuovamente cominciata, ricca di soprese e
di liete conferme. Sons of Anarchy rappresenta una di queste.
Se in Italia ancora non si hanno notizie certe sulla messa in
onda della quarta stagione, tutti i fan – compresi quelli italiani
– si stanno godendo le puntate
americane della quinta serie,
in onda dall’11 settembre, che
hanno già avuto entusiastiche
recensioni dalla critica.
Sons of Anarchy, comunemente chiamato SoA, è una
serie tv della Fx che stagione
dopo stagione ha conquistato
pubblico e critica.
SoA si basa su due pilastri
fondamentali: onore e famiglia,
ma siamo ben lontani dalle famigliole felici che affrontano
i piccoli e assillanti problemi
quotidiani; il concetto stesso di
famiglia e di problema in questa serie vengono sovvertiti,
prendono forme diverse e ben
più articolate.
Ambientato nella cittadina
da Charming (California), Sons
of Anarchy, attraverso la storia
e le vicissitudini di Jackson Jax
Teller (Charlie Hunnam), narra
le vicende di un club di motociclisti, i SamCrow. Jax, figlio del
defunto John Teller, fondatore
del club, è stato cresciuto dalla
madre Gemma Teller (Katey Sagal) e dal patrigno Clay Marrow
di ELENA BIGONI
(Ron Perlman), attuale presidente del club. La sua vita sono
i Samcrow: non ha mai messo
in discussione la scelta del club
di dedicarsi alla gestione di un
traffico illegale di armi e all’uso
dell’ intimidazione, della violenza e corruzione per mantenere
il controllo sulla cittadina di
Charming e le altre bande rivali. Ma la nascita prematura
del figlio e il ritrovamento di un
manoscritto con le riflessioni e
le speranze del padre spingono
Jackson a domandarsi se la
direzione scelta da Clay sia la
più saggia e giusta per il club.
A complicare la vita e i turbamenti di Jax, l’arrivo in città
della dottoressa Tara Knowles
(Maggie Siff) sua ex-fiamma.
Nato da un’idea di Kurt Sutter (The shields), Sons of Anarchy, grazie a un cast tecnico (i
consulenti e la presenza di veri
Hell’s angels) e artistico di altissimo livello, rappresenta una
serie affascinante che trova il
suo punto di forza nello sviluppo narrativo in grado di tenere
incollato lo spettatore sin dalle
prime puntate; in quattro stagioni SoA non ha mai avuto un
reale calo come spesso accade
ad altre serie tv di successo.
Le varie stagioni sono sempre molto articolate, ma ogni
singolo elemento è talmente
di vendicare le persone che amiamo, la
giustizia personale
si scontra con quella sociale e quella
divina. Diventiamo
giudici, facciamo le
veci della giuria e ci
improvvisiamo Dio.
Da questa scelta
deriva una responsabilità spaventosa. Alcuni di noi
soccombono sotto
il peso di quella responsabilità, altri
invece ne abusano.
John Thomas Teller
162
Illustrazione© Dan Panosian
di vista etico e morale.
Parole come onore, rispetto,
giusto o sbagliato assumono
declinazioni diverse rispetto al
vivere comune, la legge non è
quella istituita dalle autorità
ma quella del club. La violenza
e l’intimidazione diventano il
mezzo per mantenere l’ordine
e la Legge un ostacolo con cui
fare i conti. Nell'universo di SoA
non esistono vittime, ma solo
personaggi che compiono delle
scelte, talvolta estreme, talvolta opinabili, altre volte condivisibili forse. Nemmeno le protagoniste femminili sono esenti
dal meccanismo causa/effetto
che anima il serial: spesso sono
elementi chiave, l’ombra dietro
al trono che mantiene le redini
della storia.
Sebbene i personaggi, e le
avversità alle quali vanno incontro, possano talvolta risultare eccessivamente caricati
ed esasperati, è impossibile
non apprezzare la qualità della
storia e della sceneggiatura che
fidelizzano lo spettatore portandolo a vivere una realtà priva di
filtri e veli, così diversa da quella alla quale è abituato – fatta
eccezione, forse, per le notizie
di cronaca nera.
163
cinema & serie tv
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storia e
Quando decidiamo
bilanciato da non lasciare mai lo
spettatore deluso o perplesso. Il
realismo delle vicende, complici
anche le scelte registiche, musicali e fotografiche molto pulite
e prive di qualunque apparente
artificio tecnico, diventa la colonna portante del serial.
Sons of Anarchy cavalca
sicuramente l’onda di relativismo: gli eroi senza macchia
non esistono più, si mostra il
tormento, le difficoltà e le scelte dei protagonisti. La vita dei
personaggi non è più bianca o
nera ma una combinazione di
entrambe. In Sons of Anarchy
questo elemento diventa ancora più potente e intrigante. I
suoi personaggi non potrebbero mai essere etichettati come
buoni, non sono buoni e non si
comportano come tali eppure
lo spettatore entra in empatia
con il loro modo di vivere e non
può fare a meno di parteggiare
per loro, sebbene le loro scelte,
il modo di agire risulti spesso
difficile da accettare dal punto
IL FASCINO DELL'ECCESSO
ovvero perché amiamo
di BARBARA DI MAIO
V
ampiri, vampiri e ancora vampiri. Se c’è
un tema che ha segnato – e segna tuttora – gli anni Duemila, quello del nonmorto è, sicuramente, il più resistente e caratterizzante. Tra cinema, letteratura e televisione, i
vampiri hanno invaso le nostre vite, rinverdendo
un mito che ha sempre mescolato orrore a romanticismo (Dracula docet).
In questo grande calderone rientra anche True
Blood. La serie televisiva di Alan Ball è stata la
più attesa nella stagione 2008 e quella di punta
per il lancio della nuova programmazione HBO.
Racconta le avventure di Sookie Stackhouse
(l’attrice Anna Paquin, premio Oscar nel 1993 per
Lezioni di piano) che vive nella cittadina di Bon
Temps in Louisiana. In questo contesto, i vampiri
vivono tra gli umani, reclamano diritti civili, lottano per la loro emancipazione, si nutrono della bevanda “Tru Blood” – un sangue artificiale – e Soo-
kie si innamora di Bill Compton (Stephen Moyer),
vampiro reduce della Guerra di Secessione prima, e di Eric (Alexander Skarsgård) poi.
La storia poi si evolve con amori e tradimenti,
magia e morte, fantasmi e streghe, licantropi e
spiriti tribali, e ogni possibile variazione sul tema.
La produzione di True Blood avviene in un momento particolare di HBO. Terminata nel 2007 I
Sopranos, il network deve trovare la forza di superare la fine di quello che fino a quel momento
aveva rappresentato il suo prodotto di punta per
qualità stilistica e scrittura. La scelta è azzardata e ponderata allo stesso tempo. Infatti, da un
lato si ricorre al genio creativo di Alan Ball che
ha dato vita all’altro prodotto di eccellenza del
network, Six Feet Under; dall’altro, si sceglie un
tema rischioso come il fantasy a tema vampiresco che negli ultimi anni, a torto o a ragione,
è stato associato al teen drama, da Buffy the
Vampire Slayer alla saga letteraria, e ora cinematografica, di Twilight.
Lo spunto iniziale di True Blood deriva dai libri della scrittrice Charlaine Harris, The Southern
Vampire Mysteries, e Ball mantiene quasi tutti gli
elementi presenti nella saga: Sookie è una cameriera che può leggere nella mente degli altri,
eccetto che in quella di Bill, motivo questo che la
avvicina al bel vampiro tenebroso; l’atmosfera è,
appunto, quella del sud degli Stati Uniti, location
“calda” e avvolgente. Il cast è ricco e vario. È
presente una forte componente omosessuale e
il sesso in generale è uno dei temi principali della
storia. Ball comunque inserisce il suo tocco personale andando ad ampliare la potenzialità dei
personaggi secondari espandendoli nell’universo
narrativo della protagonista. Una costruzione corale assicura la possibilità di sviluppare più storie anche in maniera autonoma, garantendo linfa
vitale potenzialmente infinta.
A una prima lettura, la cifra stilistica della serie è il forte uso della metafora: l’integrazione
dei vampiri tra gli umani viene rappresentata come quella di ogni minoranza etnica:
essi si battono nelle aule dei
tribunali, nei luoghi deputati
allo scontro politico e, più di
tutto, nei media, per ottenere il giusto riconoscimento. Il
sangue dei vampiri, il cosiddetto V, è una potente droga
afrodisiaca e costruisce una
strada a doppio senso sulla
fenomenologia del nutrimento dei vampiri: se, infatti, i
vampiri debbono succhiare il
sangue degli umani per vivere – e la bevanda Tru Blood è
solo un povero sostituto non
del tutto soddisfacente –, gli
umani scoprono il vantaggio
di bere sangue di vampiri, che
agisce come un allucinogeno
e amplifica la potenza sessuale.
La scelta della fotografia
sfrutta pienamente le atmosfere del profondo sud con
toni caldi e avvolgenti. La
sigla di apertura mostra già
165
appieno le tante sfumature della serie: immagini
di afose paludi accanto ad animali in decomposizione; scene di battesimi poco ortodossi si avvicendano a interni fumosi di locali scarsamente
illuminati dove si balla e si beve a ritmo di Bad
Things di Jace Everett, voce che bene incarna lo
spirito del profondo sud.
Questa saturazione delle atmosfere, oltre a
essere una scelta dovuta alla location, è anche
una precisa volontà di Ball che ha più volte dichiarato di volersi allontanare dallo stile algido
di tanti prodotti simili. Sempre in questa ottica
l’autore abbandona anche tutto l’immaginario
gotico che solitamente accompagna i vampiri:
musica operistica, vestiti retrò, architettura del
dodicesimo secolo. I vampiri della serie sono in
tutto e per tutto assimilati agli umani, nei gusti e
nelle abitudini. Eppure, nella serie i vampiri sono
sempre evidenziati come tali. Non vi è mutamento di forma, in pipistrelli o altro. Non ci sono
vampiri che tentano di nascondersi tra gli umani.
La serie mescola continuamente amore e
morte, eros e thanatos e,
neanche tanto velatamente,
anche una forte componente trash; contestualmente,
emerge con forza tutta l’ironia di Ball, quasi che stesse
giocando (provocando?) con
lo spettatore. Vi è qui un
eccesso della visione, una
necessaria convergenza di
mitologia, tradizione popolare e sub-cultura vampiresca. Tutto si fonde per
mettere in scena una visione neo-barocca, ma la dialettica utilizzata dall’autore
con il pubblico è fondata su
un patto fiduciario nel quale
quest’ultimo deve credere
nel mondo creato da Ball
sapendo che esso utilizzerà
un linguaggio iperbolico e
volutamente eccessivo.
La forma narrativa rifugge dai tanti escamotage
postmodernisti in atto nella
tv contemporanea: non vi è
esplosione narrativa, non ci
sono tracce di citazionismo
cinema & serie tv
164
continuamente le carte in tavola, di rovesciare
stereotipi e luoghi comuni del genere, come fa
con i tre protagonisti che si trovano invischiati
nel più classico dei triangoli amorosi che, però,
vive di continui scambi di ruolo. Così, i buoni non
sono mai così buoni e i cattivi ci riservano sorprese.
True Blood viene spesso indicato come un
“guilty pleasure”, cioè un prodotto lontano dai
classici canoni artistici e culturali ma che, comunque, ci piace, ci avvince, ci affascina e fa sognare. Ma non dobbiamo farci ingannare dall’apparenza così camp della serie poiché già solo la
firma di Ball e il marchio HBO assicurano al prodotto una consistenza che pochi possono vantare. E se è vero che spesso la serie è schizofrenica
nei suoi continui cambi di rotta e nelle storyline
multiple che possono magari creare confusione,
siamo di fronte a un (divertente) affresco umano
(sì, umano), che veicola sotto la sua apparente
semplicità tanti dilemmi esistenziali. Non a caso,
proprio il precedente lavoro di Ball, Six Feet Under, faceva della vicinanza con la morte un mezzo
per esplorare i vivi, così come i vampiri diventa
specchio della razza umana. Così si vuole di più
da una serie di mezza estate?
167
cinema & serie tv
166
come pratica fine a sé stessa, non troviamo una
continua metareferenzialità a prodotti precedenti, pur se True Blood non nasce ovviamente
dal nulla. Non c’è neanche un utilizzo di effetti
speciali digitali in misura rilevante: l’uccisione di
un vampiro si risolve con una esplosione splatter
di sangue e viscere, facendo ricorso a tecniche
“artigianali”.
Ed è qui la forza di True Blood, questa voglia di
non prendersi mai troppo sul serio, di cambiare
Six
Feet
Under
e la sepoltura
della morte
sei piedi
sottoterra
di Elisa Emiliani
S
ix Feet Under è una serie tv della HBO girata da Alan Ball. Pur essendo pensata per
un pubblico di massa si dimostra essere
un testo in controtendenza in quanto tratta degli
argomenti che oggi sembrano essere diventati
tabù, come la morte e il cordoglio.
Il titolo si riferisce alla profondità a cui vengono sepolti i cadaveri così come, secondo l’interpretazione di Shoshana e Teman1, all’attitudine
moderna nei confronti del trapasso, per cui la società seppellisce la morte “sei piedi sottoterra”.
Le vicende narrate ruotano attorno alla famiglia Fisher, che gestisce una Funeral Home
nell’assolata California. La storia prende avvio
alla morte di Nathaniel Fisher, padre di David
(che con lui gestiva l’attività di famiglia), di Nate
(che da tempo vive altrove) e di Claire (un’adolescente ribelle). La famiglia, riunita per il giorno
di Natale, si trova ad affrontare il lutto avviando
una serie di trame che coinvolgono anche Ruth
(la vedova) e Brenda (la ragazza di Nate), oltre a
una serie di personaggi minori.
Oltre le peculiari reazioni dei personaggi, che
propongono da molte differenti angolazioni una
serie di spunti di riflessione, sono caratteristiche
della serie una sceneggiatura e una regia che
privilegiano agli aspetti tipici del dramma o della
commedia familiare quelli di un indefinito amalgama di generi la cui risultante è un’atmosfera
surreale, che sfumata di humor nero sconfina nel
grottesco.
“Tipi vitali” e “Tipi mortuari” sono due categorie che si applicano perfettamente ai personaggi
di Six Feet Under (nonché agli esseri umani in
generale). Nell’articolo Coming Out of the Coffin,
Shoshana e Teman propongono la tesi secondo
cui la rappresentazione simbolica di vita e morte
occupa una posizione centrale nella logica dei
personaggi, che interpretano le loro stesse
realtà in termini di vita e morte. I protagonisti, infatti, percepiscono se stessi e gli
altri in termini di life-types e death-types.
Il lavoro identitario dei personaggi consiste allora nel tentativo di associarsi a
persone e luoghi che ritengono appartenere alla categoria del “vitale” e distanziarsi invece da ciò che considerano
“mortuario”.
I personaggi di Six Feet Under sembrano essere costruiti per rappresentare i due opposti tipi
identitari, il life-self e il death-self. In particolare,
Nate e Claire rappresentano il life-self e sono
liberi e passionali; non seguono i dettami della
società quanto piuttosto un loro proprio percorso basato sulla curiosità, lo spirito d’avventura
e l’apertura alla sperimentazione. Non temono di vivere e divertirsi, esprimere le emozioni
apertamente, sperimentare l’intimità e dire ciò
che pensano. Ruth e David invece rappresentano il death-self e sono personaggi freddi, sessualmente repressi e ansiosi. Si avvicinano al
“tipo-Vittoriano” in termini di standard morali,
per cui valorizzano il sacrificio e la modestia,
la devozione e talvolta l’ipocrisia2. Non
sono mai completamente a proprio
agio ma ansiosi e spaventati, soffocati e nascosti. Questi personaggi giocano secondo le regole svolgendo i
loro ruoli sociali di moglie laboriosa
e figlio obbediente. Frequentano
regolarmente la chiesa, utilizzano
un linguaggio decoroso e vestono
uno stile conservatore e castigato.
Entrambi si rendono conto che il loro
atteggiamento è dettato dall’inibizione e
capiscono che la chiesa è un luogo soffocante
che li vede come peccatori (adultera lei e omosessuale lui), ma non smettono di frequentarla.
Sacrificano costantemente i propri sogni per il
bene della famiglia.
Al di là delle loro differenze, però, alla base
dei comportamenti di tutti i personaggi c'è una
morale disinteressata, sviluppata in forme diffe-
169
renti ma sempre indirizzata all’utilità di chi è in
lutto.
Six Feet Under propone una morale dettata
dalla compassione (da intendere come un patire-con) e dalla consapevolezza, in ultima analisi, che la morte più che ogni altra cosa riguarda
tutti.
La suddivisione dei personaggi in Life types
e Death types non deve essere troppo rigida. La
tesi fondante dell’articolo di Shoshana e Teman
si può riassumere così: non esiste una relazione
dicotomica tra i tipi identitari, quanto piuttosto
un movimento costante tra l’uno e l’altro.
La società americana propone un percorso
unilaterale di crescita personale (dalla distruzione al rinnovamento, dalla repressione alla libertà, dal death-self al life-self) e i personaggi
tentano proprio una trasformazione unilaterale
verso il raggiungimento o il mantenimento del
life-self, andando però incontro a un fallimento
che porta in primo piano un concetto sovversivo
delle promesse della società moderna: non c’è
un percorso unilaterale e l’identità non è sinonimo di stabilità.
Se il solo modo di vivere un’esistenza significativa fosse quello di abbracciare il life-self,
allora bisognerebbe aspettarsi che David si trasformasse in una persona estroversa dopo aver
dichiarato la propria omosessualità, e che Ruth
divenisse una persona felice e comunicativa.
Anche per questo motivo Six Feet Under propone un messaggio forte che va in controten-
cinema & serie tv
168
dall'altro ci mostra come i suoi personaggi si
rapportano alla morte. L’essere umano per natura cerca di scoprire il come. Nei confronti
dell’azione quotidiana, di quella razionale e di
quella morale ha bisogno di sapere come fare.
Gli individui della società odierna non sanno più
fare le condoglianze perché nessuno insegna
loro come. Non sanno più come piangere su una
tomba perché probabilmente non l’hanno mai visto fare. Non sanno come sbarazzarsi di quella
sensazione che ci sia qualcosa di non fatto, non
compiuto.
Six Feet Under fa un tentativo per mostrarci
come, discostandosi così dalla tendenza generale a rimanere in silenzio di fronte alla morte, ponendosi in controtendenza rispetto alla società
delle comunicazioni che tende a “seppellire” la
morte come fatto reale.
note
171
1 in Coming Out of the Coffin:
Life-Self and Death-Self in
Six Feet Under (Symbolic Interaction Vol. 29, Issue 4, pp.
557–558)
2 E. Illouz, Oprah Winfrey
and the Glamour of Misery:
An Essay on Popular Culture
(Columbia University Press,
NewYork, 2003)
cinema & serie tv
170
denza nell'economia della produzione culturale
attuale. Shoshana e Teman sostengono che un
concetto centrale della sociologia della morte
sia la sepoltura della morte stessa, in quanto la
morte mina la logica della modernità che celebra
il controllo, il progresso e la guarigione.
Se la società indica come unica via di crescita
un percorso lineare, Six Feet Under mostra invece come sia perfettamente naturale l'oscillazione
tra le due categorie di vita e morte. Affrontando
in modo estremamente esplicito il dolore del lutto, un tema che nella società è diventato un tabù
tanto da essere “sepolto”, Six Feet Under ci dice
che tutti dobbiamo morire. I personaggi adattano il proprio agire in funzione di questa consapevolezza. In questo modo Six Feet Under si
caratterizza da un lato come memento mori,
di CARLO LANNA
caccia alla spia
Q
uando si tratta di consigliare una serie
tv, l’impresa a volte è davvero ardua.
Non tutti hanno i miei stessi gusti, e
quindi lo spassionato consiglio, potrebbe risultare vano. Se si tratta però di presentare una serie
come Homeland, tutti dovrebbero guardarla con
un occhio diverso, e dare una chance a questo
gioiello della serialità americana. Lo show è ancora giovane, ha alle spalle solo un anno di programmazione e appena 12 episodi, eppure dopo
aver visto il pilot non si può far altro che divorare
in men che non dica il resto degli episodi. Grazie
ad una vicenda intrigante e sul filo del rasoio, Homeland si candida per essere la serie tv che tutti
gli “addicted di telefilm” dovrebbero vedere.
Trasmessa dal settembre del 2011 sulla rete
Showtime, Homeland è arrivata qui in Italia sulle
frequenze di Sky. Anche se la serie è ispirata a
un format brasiliano dal titolo Hatufim, i produttori sono riusciti a distanziarsi nettamente dal
prodotto originale, dando vita ad una vicenda
molto attuale condita con doppi giochi, rovesci di
fortuna e una buona dose di pathos.
Tutto ha inizio quando il marine Nicholas Brody, scomparso per 8 anni dal suolo americano,
viene ritrovato vivo e vegeto in una prigione in
Iraq. Ritornato in patria come un eroe di guerra,
l’agente speciale Carrie Mathison comincia ad
avere qualche sospetto nei confronti del marine.
Lei, infatti, è l’unica a pensare che Nick Brody
possa essere una minaccia per gli Stati Uniti.
Cercando di trovare una prova plausibile per incastrare il marine, Carrie mette sotto sorveglianza l’abitazione di Brody contro la volontà del suo
mentore Saul Berenson. A quanto pare, però,
l’ex prigioniero non ha nulla da nascondere e
173
Però non solo la vicenda e le atmosfere degne di uno spy-drama con tinte old fashion hanno
reso così interessante questa nuova serie tv. I
personaggi sono il piatto forte. Se non fosse stato per la loro caratterizzazione così inusuale, forse Homeland non avrebbe avuto tanto successo.
Prima fra tutti c’è Carrie. L’attrice Claire Danes
dà un volto molto particolare alla protagonista
indiscussa della vicenda. Energica, impulsiva e a
tratti quasi logorroica, Carrie è un personaggio
inconsueto per una serie tv. I suoi modi di fare
così ossessivi e assillanti la trasformano da eroina in un personaggio anticonvenzionale e decisamente poco ammaliatore. Nicholas Brody che
ha il volto del brillante Damien Lewis già visto
in tv nella serie Life, qui è il classico cattivo per
antonomasia. Bello e affascinante, con quei modi
di fare così seducenti, diventa un villan atipico.
Benché sedotto dal lato oscuro della forza, Brody
si tiene ben stretti i suoi ideali, e tutto questo lo
portano ad essere titubante verso lo scopo finale
del suo ritorno. Punto fermo è anche la carismatica Jessica, moglie di Brody. Morena Baccarin
dopo i fasti di V, dà un volto impacciato e sensuale alla classica casalinga disperata d’America. Per finire non può essere omesso Saul Berenson; l’attore Mandy Patinkin dopo aver lasciato il
cast di Criminal Minds, dà un volto tormentato al
mentore di Carrie.
Cosa potrei aggiungere in conclusione?
Nient’altro che: Buona visione.
cinema & serie tv
172
sembrerebbe un cittadino modello e un soldato
fedele alla sua nazione. Carrie continua a essere divorata dal sospetto, fino a quando dopo un
torbido gioco fatto di sesso, bugie e videotape
scoprirà una sconcertante verità...
Una vicenda quindi che arriva al cuore del pubblico fin da subito. Grazie alla miscela ben congeniata di spy-drama e romance, Homeland porta
ad un livello superiore la serialità d’oltre oceano.
Intensa, politicamente scorretta e appassionante, Homeland trasporta lo spettatore in un mondo fatto di inganni e torbide cospirazioni, con uno
sguardo rivolto alla società odierna. Il punto di
forza della serie tv, infatti, risiede proprio in questa ultima caratteristica. Prendendo spunto dai
fatti di “cronaca terroristica”, i produttori hanno
dato vita a una vicenda più vicina alla realtà che
alla finzione. Ogni personaggio segnato da quanto accaduto quel fatidico 11 settembre, mette
anima e corpo in questa indagine, pur di evitare
che l’intero paese finisca nel panico. Tutto questo trasparisce dai modi di fare di Carrie e del
poliedrico Saul. Quello che i due personaggi non
sanno è che il ritorno di Brody al mondo civilizzato non è dovuto per uno scopo malvagio, anzi
tutti gli avvenimenti sono legati ad un sentimento di pura e semplice vendetta. Dopo l’episodio
9, infatti, anche se cala un po’ la tensione pian
piano riusciamo a ricongiungere i tasselli dell’intricato puzzle, mentre dentro di noi serpeggia il
dubbio: Nick Brody è veramente il nemico della
situazione?
La fine di un'epoca, la morte degli ideali:
Parade's End
di STEFANIA AUCI
(più di cento) ai costumi, è stato curato nei dettagli: così come l’Inghilterra
edoardiana è descritta nello splendore e
nei fasti del crepuscolo, la rappresentazione delle trincee ricostruite in Belgio dà
la misura concreta dell’orrore della Prima
Guerra mondiale. La prospettiva offerta allo spettatore è disincantata, priva di
sentimentalismi o di giudizi morali, proprio come accade nell’opera dell’autore
inglese.
La sottile critica sociale, il cinismo, l’ironia che impregnano lo stile di Madox Ford
sono stati valorizzati da una sceneggiatura
che risolve in maniera brillante i frequenti
cambi di scenario presenti nel romanzo e
che delinea in maniera efficace la dolorosa evoluzione psicologica dei personaggi
che vedono crollare certezze, sicurezza
economica e valori ritenuti immutabili.
L’adattamento di Stoppard è stato magistrale: la fedeltà all’opera di Ford rasenta
l’intransigenza. I dialoghi taglienti, lo
sviluppo dei character e le soluzioni escogitate per gestire la
difficile scansione temporale data da Madox Ford
all’opera rendono questo sceneggiato un
autentico gioiello.
174
cinema & serie tv
U
n matrimonio in crisi, una giovane suffragetta, un’antica magione
nel cuore dell’Inghilterra, il massacro della Prima Guerra mondiale, la fine
dell’era edoardiana e delle illusioni legate
al positivismo. Sono questi i punti salienti
del nuovo drama della BBC, Parade’s end.
Tratto dal romanzo in quattro parti di
Ford Madox Ford, Parade’s end è la serie
più importante della season autunnale
inglese, un’opera raffinata che emoziona e coinvolge lo spettatore. Girata tra
la Gran Bretagna, la Francia e il Belgio, la
serie vede come protagonisti Benedict
Cumberbatch nella parte di Christopher,
Rebecca Hall nel difficile ruolo di Sylvia e
Adelaide Clemens in quello di Valentine.
Tutto il cast, in cui compaiono anche Rupert Everett e Miranda Richardson, è di altissimo livello. L’adattamento per il piccolo schermo è firmato da Sir Tom Stoppard
e alla regia vi è Suzanne White. La serie
è stata designata dalla critica quale antagonista di Downton Abbey, altro esempio
di ottima televisione made in Britain e, a
buon diritto, può ambire a scalzarla dal
trono di serie storica più apprezzata da
critica e pubblico.
Parade's end ha una potenza visiva ed
emotiva straordinaria: è sontuosa, passionale, talvolta malinconica e struggente, e insieme ironica. Riesce a trasmettere
attraverso una regia sapiente l’emozione
dei grandi cambiamenti sociali e personali affrontati dai protagonisti. Come di
consueto, i drama della BBC sono caratterizzati dalla cura per i dettagli e fedeltà
storica; nel caso di Parade’s end, l’apporto economico della HBO ha garantito la
realizzazione di un prodotto di altissimo
livello anche per gli aspetti tecnici. Tutto, dalla fotografia e le luci, dalle location
175
il libro
176
cinema & serie tv
Parade’s end descrive un mondo alla fine dell’esistenza tramite la vicenda di un uomo e della
perdita delle sue illusioni. Attraverso lunghe digressioni, il lettore ricostruisce la vicenda come
un puzzle, fino alla morte violenta dell’Inghilterra edoardiana per mano della Grande Guerra. La
psicologia dei personaggi è raffinata e dolorosamente realistica: il protagonista, Christopher Titjens, si definisce l’ultimo dei Tories. Funzionario
del Governo intriso di Britishness e saldi principi,
è sposato con Sylvia, una donna turbolenta che
lo tradisce in continuazione. D’altro canto, Sylvia
non sopporta la sua affidabilità, che rasenta la
noia. Ultimo vertice del triangolo è la suffragetta
Valentine. Con lei Christopher istaura un legame
basato su una forte affinità psicologica che l’uomo teme e insieme anela.
Ma la Prima Guerra mondiale è alle porte e disintegra gli equilibri tra i personaggi. L’uomo si arruola per difendere l’Inghilterra, ma viene ferito
gravemente. Al ritorno in patria, scopre che ciò in
cui credeva è stato spazzato via; perde la magione di famiglia e il lavoro, è separato da Valentine.
Caratterizzato da uno stile forbito, intriso di
uno humour sottile, il romanzo di Ford – mai
tradotto in Italia – è un’opera particolare e affascinante che ricorda i lunghi flussi di pensiero di
Joyce e la complessità di Henry James. La narrazione non segue un percorso lineare e la lettura
richiede concentrazione, ma è uno sforzo che viene ripagato.
177
Parade's End
di Alexia Bianchini
Tim
Burton,
macabro
e malinconico
menestrello
T
imoty William Barton nasce a Burbank
il 25 Agosto del 1958.
Figlio di un impiegato e di una
commessa, si appassiona a
cartoni animati e film horror
già da bambino. Spesso rimane chiuso fra le mura domestiche, dimostrando fin da
subito la sua poca predisposizione alla socializzazione.
Il primo approccio al mondo
dell’arte avviene grazie alla
passione per il disegno, con
cui vince un concorso indetto
nella sua città da una ditta di
smaltimento rifiuti.
La capacità e l’estro di
questo personaggio d’eccezione viene esaltata attraverso scenari inimmaginabili,
dove personaggi astrusi, fuori
dagli schemi, rapiscono l’attenzione, scatenando emozioni contrastanti. Non puoi
mai sapere se il mostro sarà
vittima o carnefice.
“Grazie
al
cinema posso
esplorare rapporti complessi
di cui mi sarebbe
difficile parlare
con chiunque. Il
cinema è catartico. La sua forza sta nell’analizzare i sogni
offrendo a ciascun spettatore
aspetti inusuali,
in cui riconoscersi. Mi piace
l’assurdità del
cinema.”
179
Burton esprime il concetto
semplice che il
cinema può essere vissuto come una sorta
di terapia, una specie di sostegno di gruppo in cui poter
dare libero sfogo alle molte
personalità che sussistono in
un unico individuo.
“In un certo senso per me
raccontare una storia è sempre una sorta di viaggio spirituale, dove però rimani te
stesso, cresci, impari qualcosa, passi al livello successivo.
È questo quello che conta per
me, e lo applico al cinema e
nella vita personale.”
In queste parole dimostra
il suo rispetto per l’anima e
la sua capacità di rinascere,
evolvere, ampliando i sensi,
raggiungendo ogni spirito inquieto. Non è solo un regista
dietro la macchina da presa,
Burton vive di emozioni e in
ogni sua creazione lascia il
segno.
L’inizio di una carriera
strepitosa.
Già negli anni del liceo
inizia a girare cortometraggi
con la sua Super8, vincendo
una borsa di studio per frequentare il corso di animazione alla California Institute of
the Arts. Firma con la Disney
alla sola età di 21 anni, alcuni
cortometraggi. È il disegnatore di Red e Toby nemici amici
nel 1981 e della pellicola Tron
nel 1982. Nello stesso anno
è il regista di Luau e della
versione televisiva di Hansel
and Gretel.
Nel 1985 conclude la sua
esperienza alla Disney, coronando la possibilità di
lavorare a progetti personali,
cinema & serie tv
178
Quando decidi di dar
vita a un’idea devi
veramente ripulire
l’anima per poter
sentire profondamente
qualcosa dentro, come
fosse tuo e poterlo
esprimere.
La velocità con cui si viene catapultati nell’immaginario è vincolata a un senso
della morale e del riscatto
capaci di lasciarti frastornato e sazio allo stesso tempo.
Le atmosfere dark, legate a
quel meraviglioso senso del
romanticismo, rendono cupe
e mistiche le storie di questo grande artista, in grado
di spingere sull’acceleratore
della follia del male, quando
l’intento è di sottolineare la
malvagità dell’umanità.
Veste i panni di paladino
del mondo fantastico e delle
diversità, gioca con astuzia
per mandare un messaggio
intrinseco a chi viene rapito
dai suoi lavori.
Le favole e le poesie, da
cui spesso prende spunto,
sono fonte d’ispirazione, ma
si avverte, per chi conosce il
genere, che le atmosfere gotiche derivano dalla sua passione per Edgar Allan Poe.
Il suo estro non si esprime
solo dietro la macchina da ripresa, come produttore o nel
disegno. Compone ballate e
liriche al rintocco del suo stile inimitabile che poi illustra
con il suo tratto.
Durante il completamento
di Beetlejuice, sposa la pittrice Lena Gieseke. La successiva storia d’amore dura
ben dieci anni, con Lisa Marie. Ora il suo legame è con
la bravissima attrice Helena
Bonham Carter, conosciuta al
mondo intero come Bellatrix
Lestrange nel film di Harry
Potter.
ventare Burton popolare.
È nel 1988 che dimostra
quanto la sua vena artistica
sia fuori dall’ordinario e in
grado di evolvere in una produzione che non avrà eguali.
Nasce Beetlejuice, spiritello
porcello, ghost-story interpretata da un cast d’eccezione,
dove l’horror si miscela alla
satira, dando vita a un film
grottesco sorprendente.
Nel 1989 esce Batman,
ulteriore primato d’incassi.
Burton riesce a trasporre sul
grande schermo il celebre
fumetto, facendo accorrere
milioni di fan nelle sale. Nello stesso anno fonda la “Tim
Burton Production”.
Da Edward mani di forbice,
dove inizia la sua collaborazione
con l’attore Johnny Depp, ai
181
sequel di Batman, è sempre
un successo, alternando produzioni in stop-motion come
Nightmare Before Christmas
e la Sposa Cadavere. Film irriverenti quali Mars Attacks!,
parodia senza eguali sulle invasioni aliene, riempiono le
sale.
Johnny Depp, considerato
il suo feticcio per eccellenza,
interpreta diversi ruoli, da Ed
Wood al film oscuro Il mistero
di Sleepy Hollow. Lo rivediamo nei panni del cioccolataio
in La fabbrica di cioccolato,
come cappellaio matto in Alice in Wonderland e nel ruolo
del terribile barbiere in Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street.
Nel 2001 dirige il remake
de Il pianeta delle scimmie.
Film stroncato dalla critica,
non piacque agli appassionati
della prima versione sebbene
il finale sia più fedele al romanzo.
Nel 2003 esce Big Fish – Le
storie di una vita incredibile,
tratto dal romanzo di Daniel
Fallace, una favola magica intrisa del suo stile unico, dove
il protagonista vive in bilico
fra realtà e fantasia.
Nel 2007 Tim Burton si
aggiudica il Leone d’Oro alla
carriera alla Mostra del cinema di Venezia.
Instancabile, oltre all’arrivo di Frankenweenie, con
cui porterà lo stile classico a
un nuovo livello, ha da poco
riscosso successo con il film
Dark Shadows, un ritorno al
gotico sorprendente, con attori capaci che hanno dato
spessore a una storia macabra a tratti grottesca.
Instancabile Menestrello.
Irriverente, sorprendente, plasma le sue visioni rendendole
squisite per ogni palato, difficile non lasciarsi travolgere
dalle emozioni.
cinema & serie tv
180
più consoni al suo modo di vedere il cinema. Mette in pratica la stop-motion (chiamata
anche ripresa a passo uno)
proprio sui famosi sei minuti
in bianco e nero sul suo mito
d’infanzia, Vincent, la storia
di un bambino che sogna di
essere Vincent Price.
Frankenweenie (letteralmente l’unione della parola
Frankenstein con weenie, che
vuol dire sfigato) è un film
corto prodotto dalla Disney,
di cui a breve vedremo un
nuovo adattamento in stop
motion e 3D, a cui Burton ci
tiene particolarmente, avendolo arricchito con dinamiche
sociali dell’universo infantile.
Nel 1985 il film Pee-Wee’s
Big Adventure ottiene un
enorme successo facendo di-
cantastorie
per i piccoli, sensei per i grandi
di VALENTINA COLUCCELLI
D
opo l’Orso d’Oro e l’Oscar
per Sen to Chihiro no
Kamikakushi (La città incantata, 2001), la nomination
all’Oscar per Hauru no ugoku
shiro (Il castello errante di Howl,
2004) e il Leone d’Oro alla carriera nel 2005, il mondo occidentale ha spalancato gli occhi
meravigliati sull’incredibile – per
quantità, ma soprattutto per
qualità – produzione di Hayao
Miyazaki, poliedrico cineasta
182
nipponico (regista, sceneggiatore, animatore e produttore) e
insieme mangaka.
Come cercatori che hanno
appena scoperto una pepita
d’oro di dimensioni impensate prima, questi nuovi estimatori hanno esplorato e setacciato l’intera vena aurifera
miyazakiana, speranzosi di scovare altrettanti tesori, e trovando quelli stessi che gli amanti
dell’animazione giapponese già
pluralità sfoggia storie delicate
apparentemente per i più piccoli
(come Il mio vicino Totoro e Ponyo sulla scogliera), altre impegnative destinate a un pubblico
adulto (Nausicaä della Valle del
Vento, Mononoke Hime, Porco
Rosso, Laputa. Castello nel cielo) e altre che potremmo definire di emancipazione (La città incantata, Kiki’s delivery service, Il
castello errante di Howl); realtà
steampunk, post-apocalittiche,
distopiche, fiabesche, storiche,
alternative, quotidiane; paesaggi naturali rappresentati nella
loro maestosità e ambienti
antropizzati descritti nei
dettagli, umani come
alienanti; una schiera
di personaggi indelebili, credibili, assolutamente tridimensionali; una sfilata
di creature fantastiche originali, nate
dall’immaginazione dell’autore, o
rielaborate dalla
tradizione shintoista o favolistica
giapponese, o di
natura meccanica
e robotica: i kami
della foresta e dei
fiumi, i Totoro, i
Makkuro-kurosuke, lo Shishigami, il Nekobasu, i
Kodama, i robotguardiani di Laputa e decine di
altri.
La lucida visione
del mondo e dell’uomo di Miyazaki e la
sua capacità di darle forma attraverso le
sue opere sono tali da
renderlo un ottimo “rilettore”, profondo, acuto,
autonomo, quando si tratta di
riprodurre – nel suo caso, reinventare e reimprontare – storie
scritte da altri. Chiunque legga
The incredibile tide di Alexander
Key, Howl’s moving castle di Diana Wynne Jones o Kiri no Muko
no Fushigina Machi di Sachiko
Kashiwaba – che hanno ispirato
rispettivamente Conan, il ragazzo del futuro, Il castello errante
di Howl e La città incantata –
può rilevare come, nonostante
si tratti di validissimi e originali libri, abbiano acquisito nella
183
cinema & serie tv
Miyazaki
conoscevano (e veneravano)
da anni, custodendone gelosamente le copie in lingua originale (solo in rari casi fortunati
accessoriate da sottotitoli in
inglese). Eppure, quanti tra i
neofiti avevano già fatto esperienza del talento di Miyazaki
senza saperlo, cresciuti facendo
merenda davanti a capolavori
meisaku (serie anime ispirate
alla letteratura per ragazzi occidentale) di cui lui ha curato
progetto e animazione, come
Alps no shōjo Heidi (da Heidi
di Johanna L. Spyri), Akage no
Anne (Anna dai capelli rossi, dal
romanzo di Lucy Maud Montgomery), Haha o Tazunete Sanzenri (Marco, dal racconto Dagli
Appennini alle Ande in Cuore
di De Amicis), o quello che già
nel 1978 contiene la summa in
nuce di tutti gli argomenti cari
al regista e del suo stile, Mirai
shonen Conan (Conan, il ragazzo
del futuro, tratto da The incredibile tide di Alexander Key), che
ha regia, sceneggiatura e storyboard firmate da lui.
La filmografia miyazakiana è
immensa e quindi difficilmente
esplorabile in un semplice articolo; è sufficiente dare una sbirciata alla lunga lista delle opere
prodotte dallo Studio Ghibli, da
lui fondato e diretto col compagno di sempre Isao Takahata,
per scoprire che in ognuna (o
quasi) ha avuto un ruolo determinante.
Anche limitando l’indagine ai
soli lungometraggi di cui è stato
regista, ci si trova davanti a ben
dieci piccoli inestimabili gioielli,
talmente ricchi, stratificati, diversi tra loro eppure simili nello
stile, nella poetica, nei contenuti
più profondi, da meritare ciascuno un libro di approfondimento a sé. Questa straordinaria
fortemente ecologista Tenkū no
Shiro Laputa (Laputa. Castello
nel cielo) e, infine e soprattutto,
in quello che forse può considerarsi il manifesto della concezione miyazakiana – forse perché
realizzato con la convinzione sarebbe stato l’ultimo dal regista
– e l’apice della sua creazione:
Mononoke Hime (La principessa
Mononoke). Prendendo come
modello di riferimento questo
meraviglioso e complesso film,
è possibile tracciare le tappe di
uno dei percorsi diegetici maggiormente frequentati dal regista, riscontrabile – anche se in
forme e peso differenti – in tutte le sue opere.
Il tema portante di Mononoke Hime è il baratro che l’uomo
con la sua ambizione e il suo
desiderio di emancipazione ha
184
creato tra se stesso e la Natura,
allontanandosi così dalla dimensione sacrale della sua essenza
e dalla condizione armoniosa
della sua esistenza sulla Terra e
declassando la Natura da divinità (si rammenti che la religione
tradizionale del Giappone, lo
Shinto, è una raffinata forma di
animismo panteistico) a fonte di
risorse da sfruttare.
Ambientata nell’epoca Muromachi (1336-1573), la storia
racconta i primi strappi che questo cammino verso l’autonomia
e la laicizzazione ha provocato:
gli uomini, rappresentati dalla
Città del Ferro Tarabata, sono in
guerra con i kami della foresta,
verso i quali non provano più
venerazione o rispetto, ma solo
un vago ed egoistico timore.
Particolare interessante è che
solo gli esemplari più antichi, sia
degli Inugami (dei cane) sia degli Inoshishigami (dei cinghiale),
hanno la capacità di parlare la
lingua degli umani e grosse dimensioni (per contenere grandi
spiriti): lo strappo tra Natura e
Umanità è tale che sono andate
perdute le possibilità di comunicazione e sono stati demitizzati
gli agenti del Sacro; come dice
Okkotonushi, il signore dei cinghiali, essi diventano “sempre
più piccoli e stupidi”.
Eppure, in quest’ottica che
appare dichiaratamente ecologistica, Miyazaki non demonizza
185
completamente l’atteggiamento
dell’uomo: gli uomini della Città
di Ferro, così come la loro padrona Lady Eboshi, sono parzialmente giustificati e più volte il
regista pone l’accento sull’animo
caritatevole di uno, generoso di
un altro, collaborativo e volenteroso di tutti. Questo perché la visione etica miyazakiana rifugge
ogni tipo di manicheismo: ogni
scelta ha alle spalle una sua motivazione, che non è totalmente
giusta o totalmente sbagliata,
così come ogni personaggio
buono non è privo di difetti e
debolezze e ogni personaggio
cattivo non lo è tout court (cioè
ha le sue ragioni, spesso valide)
e soprattutto non è destinato a
cinema & serie tv
loro forma animata solidità, poesia, magia, profondità. Ma ancor più, il regista esprime la sua
incisiva e penetrante poetica e
la sua cifra spirituale (intesa in
senso strettamente laico) nelle
opere originali nate interamente
dalla sua creatività; in particolare, nel post-apocalittico e quasi
mistico Kaze no tani no Naushika (Nausicaa della Valle del Vento), nell’intenso e dal carattere
I lungometraggi
1979 – Rupan Sansei. Kariosutoro no Shiro (Lupin III. Il castello di Cagliostro)
1984 – Kaze no Tani no Naushika (Nausicaa della Valle del Vento)
1986 – Tenkū no Shiro Laputa (Laputa. Castello nel cielo)
1988 – Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro)
1989 – Majo no Takkyubin(Kiki consegne a domicilio)
1992 – Kurenai no Buta (Porco rosso)
1997 – Mononoke Hime (Principessa Mononoke)
2001 – Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata)
2004 – Hauru no Ugoku Shiro (Il castello errante di Howl)
2008 – Gake no Ue no Ponyo (Ponyo sulla scogliera)
186
comunicazione, dalla mediazione e dalla comprensione. Non a
caso sono proprio la protagonista San e Ashitaka (nelle opere di Miyazaki le protagoniste
sono tutte femminili, mentre i
loro compagni sono relegati al
ruolo di deuteragonisti), che per
motivi differenti
appartengono a
entrambi i mondi
– quello dei kami
e quello umano
– eppure a nessuno dei due, a
compiere la missione di mediazione, a guardare
i contendenti e
gli eventi “con
occhi non velati dall’odio”, e
ad assistere alla
reciproca distruzione delle parti,
così come alla
loro
rinascita.
Infatti, dopo la
distruzione della Città di Ferro, Lady Eboshi
promette ai suoi
uomini superstiti
che insieme ricostruiranno un
buon villaggio; e
nondimeno l’ultima parola spetta
alla Natura, che
sul terreno devastato, dove un
tempo lussureggiava la foresta
dello Shishigami,
inizia subito a riconquistare i suoi
spazi con nuovi
germogli e mantenere viva, a dispetto dell’uomo,
187
la sua sacralità: compare infatti
inaspettato un piccolo kodama (i minuti spiriti degli alberi).
La guerra, dunque, non è stata
vinta e non è stata persa. E non
potrà che riprendere a breve.
Rispetto per la Natura, Sacralità della Vita, antimilitarismo,
comprensione della diversità,
importanza della comunicazione, un’etica delle ragioni che non
cristallizza azioni e cuori in rigide categorie. Tutto questo – e si
tratta comunque solo di una selezione parziale e assolutamente ridotta dei temi, dei contenuti
e degli intenti dell’opera miyazakiana – espresso in capolavori
dell’animazione, che accostano
a questa complessa profondità
un’affascinante qualità estetica
e tecnica e una fruibilità universale, grazie sia alla forma animata, sia alla narrazione sapientemente pedagogica del regista.
Converrà allora concludere
affermando che Miyazaki, con
la grandezza delle sue opere, ha
saputo abbattere i muri di genere (quelli che confinavano l’animazione in una sorta di serie B
della cinematografia), di cultura
(quelli che rendevano i prodotti
orientali pregiudizievolmente di
difficile godibilità per gli occidentali), e di target (quelli che
limitavano l’animazione ai bambini); tutti quelli, insomma, che
avevano impedito per anni che i
suoi lavori arrivassero dignitosamente in Occidente e che lui venisse riconosciuto per il regista
che è: uno dei migliori da che il
cinema ha mosso i primi passi.
cinema & serie tv
esserlo per sempre.
Non c’è, dunque, alcuna vittoria auspicabile del Bene sul
Male, nessun dualismo superabile, ma piuttosto una continua
e viva dialettica la cui unica
soluzione è rappresentata dalla
Il mondo di
e l'animazione che arriva da ovest
di PIA FERRARA
189
mondo di Avatar. Aang aveva solamente dodici
anni quando il sovrano della Nazione del Fuoco
riuscì ad attuare il suo disegno di conquista totale e non fu in grado di fermarlo: il ragazzino,
infatti, era fuggito dal monastero in cui viveva
proprio alcuni giorni prima che esso venisse distrutto, sopraffatto dalle responsabilità che il
ruolo di Avatar comportava.
Questo non è che l’antefatto di Avatar – L’ultimo dominatore dell’aria: sono trascorsi già
cento anni quando Aang, che aveva dormito
per un secolo in un blocco di ghiaccio congelato, viene risvegliato insieme al suo cane volante Appa da Katara e Sokka, due fratelli che
fanno parte della Tribù dell’Acqua del Sud. I
tre ragazzini diventeranno inseparabili e sarà
proprio Katara, l’unica dominatrice della tribù, a insegnare a Aang il dominio dell’acqua.
188
L’apprendistato di Aang si preannuncia lungo,
perché il giovane Avatar è in grado di dominare solamente l’aria. Ben presto Katara e Sokka
decidono di aiutare Aang a diventare un perfetto Avatar e di partire con lui in groppa ad Appa
per un viaggio che li porterà, attraverso il Paese della Terra, nel cuore pulsante della Nazione
del Fuoco, dove li attendono numerosi pericoli.
Sulle tracce dell’Avatar, durante tutto il viaggio,
c’è la nave del principe in esilio della Nazione
del Fuoco, Zuko, in compagnia dello zio Hiro.
Zuko, con il volto parzialmente sfigurato da
un’ustione, è un dominatore del fuoco e deve
catturare l’Avatar per riscattarsi agli occhi del
padre, il terribile Ozai, e della sorella, la feroce
Azula. Un altro personaggio molto importante
è una ragazzina cieca, la più abile dominatrice
della terra del Paese omonimo: Toph Beifong,
cinema & serie tv
V
i diamo un piccolo indizio: la serie animata
di cui stiamo per parlare contiene un alto
tasso di arti marziali, è diretta principalmente ai ragazzi ma non proviene dal Giappone. Avete capito bene: perché Avatar – L’ultimo dominatore dell’aria è una serie animata
statunitense andata in onda su Nickelodeon (in
Italia su Rai Gulp) e progettata da due giovani
di nome Bryan Konietzko e Michael Dante DiMartino.
Cresciuti a pane e immaginazione, Bryan e
Michael hanno costruito un mondo modellato
sull’immaginario collettivo orientaleggiante,
il mondo di Avatar, nel quale alcuni individui
si differenziano dagli altri per la facoltà di dominare uno dei quattro elementi. La geografia
politica si suddivide di conseguenza in: le Tribù
dell’Acqua (una del Nord e una del Sud), il Paese della Terra e la Nazione del Fuoco, a seconda della tipologia di dominazione prevalente.
Un tempo, prima che iniziasse la storia narrata in Avatar – L’ultimo dominatore dell’aria,
esistevano i Monasteri dei Nomadi dell’Aria,
ma furono tutti distrutti dal sovrano della
Nazione del Fuoco che approfittò del passaggio di una cometa per incrementare a dismisura i poteri dei fire bender e conquistare il
Paese della Terra. La distruzione dei Nomadi
dell’Aria faceva parte di un piano ben preciso.
Tra di essi c’era un ragazzino di nome Aang,
l’Avatar: un dominatore in grado di controllare
tutti e quattro gli elementi; da questo potere
derivava il compito di mantenere in armonia il
dominare lo stato dell’Avatar, in cui scatena una
terribile forza distruttiva senza alcun controllo.
Se Aang è un personaggio un po’ naif, a
volte insicuro, l’Avatar seguente, Korra, è di
tutt’altra stoffa. Korra è la protagonista di The
Legend of Korra, una serie animata ambientata
nel mondo di Avatar settanta anni dopo la fine
delle avventure narrate nel corso della Legend
of Aang. Korra è la nuova Avatar, e fa parte della Tribù dell’Acqua del Sud. Esiste, infatti, un
ciclo di reincarnazioni dell’Avatar in cui all’Aria
191
segue l’Acqua, poi c’è la
Terra e per finire il Fuoco. Korra è una sedicenne decisa e impaziente di
affrontare i doveri che il
ruolo di Avatar comporta.
Quando si apre la serie, è già in grado di dominare acqua, fuoco e terra. Solo l’aria le crea
qualche problema, e proprio per questo motivo
seguirà a Republic City, risorta capitale della
vecchia Nazione del Fuoco, un maestro dominatore dell’aria di nome Tenzin, che cercherà di
insegnarle a dominare l’aria ma soprattutto a
comprendere che a volte nella vita è necessaria un po’ di pazienza, qualità che mal si sposa
con il carattere impulsivo di Korra. A Republic
City conoscerà alcuni amici ma dovrà misurarsi
con tante insidie da parte dei non dominatori,
che iniziano a sentirsi oppressi dalla forza dei
dominatori. Korra incontra in particolare una
coppia di fratelli di nome Mako e Bolin, il primo
dominatore del fuoco e il secondo dominatore
della terra, ed entrerà a far parte del loro team
di Pro-Bender, dominatori professionisti: nel
Pro-Bending, infatti, due squadre di dominatori
composte da tre elementi (fuoco, acqua e terra) si scontrano in un’arena. Al trio si aggiunge presto la bella Asami Sato, un’amica e allo
stesso tempo rivale in amore di Korra.
A un’animazione dalla qualità eccezionale
si unisce una storia curata nei minimi dettagli,
con un’ambientazione originale e dei personaggi freschi e ben delineati. Avatar ammalia
e commuove, fa ridere tanto e racconta un processo di crescita continuo, che trova l’equilibrio
proprio nel suo essere non finito. Consigliato a
tutti, non solo ai più giovani.
cinema & serie tv
che sarà maestra di Aang per l’earth bending.
La serie di Avatar si sviluppa in tre stagioni,
o più precisamente in tre “libri”, il primo intitolato “Acqua”, il secondo “Terra” e il terzo “Fuoco”, per un totale di più di sessanta episodi. Il
progresso di Aang non è soltanto fisico – ogni
dominazione è ispirata a una differente arte
marziale, il Tai Chi per l’acqua, lo stile Hung Gar
per la terra, lo stile Shaolin per il fuoco e lo stile
Ba Gua Zhang per l’aria – ma anche spirituale:
Aang deve accettare il suo ruolo e imparare a
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DOn't talk.
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Speechless Magazine ©2012 - anno 1 - numero 2 - www.speechlessmagazine.com
© Victoria Francés
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