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La scrittura clinica e il pensiero dell`analista
Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32, 4, 263-274 IL CASO CLINICO E LE OPERAZIONI DI SICUREZZA DELL’ANALISTA Gian Luca Barbieri Parlare di narrazione in ambito clinico significa riferirsi a ciò che viene espresso oralmente dal paziente e dallo psicoterapeuta nel corso di alcuni momenti del trattamento ritenuti significativi. Ogni approccio teorico considera questa dimensione secondo una prospettiva specifica a seconda dei riferimenti epistemologici impliciti ed espliciti che assume. Nel contesto psicoanalitico, al quale facciamo riferimento in queste pagine, una lettura interessante della costruzione narrativa che si genera nella stanza di analisi è quella effettuata da Madeleine e Willy Baranger (1990). Il concetto di fondo attorno al quale ruotano le loro osservazioni è quello di “campo bipersonale”, al cui interno tutto ciò che accade e viene narrato va fatto risalire non al paziente o all’analista, ma alla coppia analitica come entità inscindibile. Le emozioni, le resistenze, le fantasie inconsce, le dinamiche di transfert e controtransfert, le narrazioni sono coprodotte dalla coppia nel campo analitico a seguito dell’intreccio di reciproche identificazioni e controidentificazioni proiettive e introiettive. In queste pagine però non osserveremo la relazione tra il paziente e l’analista durante la “diretta” del trattamento, ma sposteremo il focus su un testo scritto realizzato in “differita”: il caso clinico. Lo studieremo in un’ottica diversa da quella tradizionale per due aspetti: - non ne considereremo gli aspetti di contenuto, ma solo quelli formali e strutturali; - lo analizzeremo non in relazione al trattamento, ma come uno strumento che può aiutare a capire il funzionamento mentale dell’analista e in particolare a intercettare le sue difese e le sue resistenze (o, come le chiameremo più avanti, le sue “operazioni di sicurezza”). Non si propone ovviamente questo approccio come alternativo a quello “tradizionale”, ma se ne suggerisce semplicemente un “uso” diverso, che può fornire informazioni interessanti all’analista su se stesso nella relazione con il paziente, con il suo mondo interno e con ciò che emerge nel campo bipersonale dell’analisi. La scrittura clinica e il pensiero dell’analista Una domanda forse non del tutto scontata è: perché si scrive un caso clinico (o una vignetta)? In altre parole: perché si ritorna su un trattamento, o su alcuni suoi snodi, a distanza di tempo? La risposta più immediata e intuitiva è: per rifletterci, per ripensarci, per mettere a fuoco alcuni dettagli di un percorso clinico che non quadrano fino in fondo, sui quali il pensiero si sofferma, oppure che cerca di evitare, e che per entrambi i motivi meritano attenzione. In primo luogo va precisato che non tutti i casi clinici sono concepiti secondo identiche coordinate di pragmatica della comunicazione. In particolare se ne possono individuare almeno SOTTOMESSO MAGGIO 2013, ACCETTATO DICEMBRE 2013 © Giovanni Fioriti Editore s.r.l. 263 Gian Luca Barbieri tre categorie: - la prima comprende quelli che vengono annotati in privato e che non varcano la porta dello studio del clinico; spesso sono abbozzati, frammentari, schematici, redatti come appunti poco strutturati e aperti; sono simili al bozzetto di un pittore che non verrà mai trasposto su una parete per diventare un affresco a disposizione di appassionati e studiosi; - la seconda riguarda i casi clinici che vengono condivisi su alcuni siti internet per un confronto con i colleghi; in queste scritture l’autore tende a limitare la rigidità argomentativa e si pone in una condizione di apertura nei confronti di altri punti di vista; non vuole affrontare alcune questioni da solo e così si affida ai suggerimenti altrui, per accoglierli in tutto o in parte oppure per respingerli; evidenzia comunque il bisogno di un dialogo, di una verifica; - la terza è quella dei casi clinici pubblicati, che possono essere letti da tutti e che costituiscono una redazione (almeno in apparenza) definitiva. Una scrittura clinica può collocarsi in una delle precedenti categorie oppure può attraversarne due o anche tutte e tre, trasformandosi di conseguenza. Le tre tipologie si differenziano soprattutto per due variabili interconnesse: la prima è la presenza di una forma di pensiero che Bion (1970), sulla scorta di Keats, ha definito “capacità negativa”, intesa come la disponibilità a non saturare il proprio pensiero, a permanere nel dubbio e a non voler fare subito chiarezza ad ogni costo; la seconda è lo spazio riservato all’argomentazione e all’interpretazione. Sono due componenti di solito inversamente proporzionali l’una rispetto all’altra. L’argomentazione serrata orientata all’interpretazione ostacola la capacità negativa e viceversa. La rigidità dell’argomentazione è in genere più elevata nella terza categoria di casi clinici e più impercettibile nella prima, mentre la capacità negativa è maggiore nella prima e minore nell’ultima. È un orientamento che si nota spesso, ma non costituisce una regola. A questo punto è opportuno riflettere in modo meno intuitivo sul senso e sulla funzione della scrittura clinica. Facciamo un breve riferimento alla teoria del pensiero di Bion (1962, 1992) per inquadrare meglio il problema. Secondo questo autore, alla base di ogni attività di pensiero si trovano esperienze emotive e impressioni sensoriali non elaborate, non ancora pensabili. Se queste emozioni e sensazioni vengono filtrate dalla “funzione alfa”, una componente della personalità che elabora le emozioni in direzione della loro pensabilità, esse danno origine agli “elementi alfa”, immagini inconsce, prevalentemente visive, che costituiscono la prima tappa verso la formazione del pensiero. Non sono ancora pensieri veri e propri, ma ne sono, per così dire, il presupposto. Le emozioni e le sensazioni che non si trasformano in elementi alfa, vengono espulse, evacuate sotto forma di “elementi beta”, dati non pensabili, posti al confine tra il somatico e lo psichico, in una sfera definita “protomentale”. Per il momento ci fermiamo. Secondo l’approccio bioniano, le emozioni e le sensazioni grezze o vengono elaborate dalla funzione alfa e accedono al pensiero, oppure vengono respinte, espulse. La logica è quella dell’aut-aut. Tertium non datur: o dentro o fuori. In base alle nostre osservazioni, invece, le cose non vanno sempre così. Tra l’elaborazione completa di un’emozione-sensazione (elemento alfa) e la sua mancata trasformazione (elemento beta), esiste una terza possibilità. In alcuni casi un’emozione-sensazione grezza viene passata al vaglio 264 Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 Il caso clinico e le operazioni di sicurezza dell’analista dalla finzione alfa, ma rimane in una fase di elaborazione parziale, incompleta, non diventa un elemento alfa ma nemmeno viene espulsa come elemento beta. È un fenomeno che abbiamo osservato, ad esempio, nell’ambito artistico (Barbieri 2010, 2011) e nella poesia (Barbieri 2007). In queste situazioni, tra l’elemento alfa (elaborato) e l’elemento beta (non elaborato ed evacuato) si può ipotizzare l’esistenza di un’entità intermedia, che abbiamo definito “residuo beta”. La distinzione tra elemento beta e residuo beta corrisponde alla differenza tra ciò che non è tollerato e viene espulso, rimanendo del tutto non-pensabile, e ciò che invece viene elaborato solo in parte e si aggira nella mente come nucleo oscuro di senso, non eliminato, ma nemmeno reso del tutto accessibile al pensiero. L’elemento beta è il non-pensabile rigettato fuori di noi, mentre il residuo beta è il non-ancora-pensabile che si trova, benché in parte occultato, nella nostra mente, in particolare nel Preconscio. La ri-narrazione che costituisce il testo del caso clinico si centra sull’individuazione di questi residui beta preconsci, che vengono ripresi, osservati, elaborati e, quando possibile, resi accessibili al pensiero dell’analista. Ci sono due aspetti del caso clinico che facilitano l’attuazione di questo obiettivo: - Si tratta di un testo scritto, e la scrittura è particolarmente efficace in questa prospettiva, per tre sue caratteristiche (Barbieri 2004): la permanenza del segnale, che favorisce l’attivazione di un processo di pensiero più lento, circolare, meno contingente; la correggibilità, che rende il pensiero meno definitivo e più duttile; il maggiore grado di pianificazione rispetto all’oralità, che consente di strutturare il materiale secondo un ordine variabile, dotando di nuove prospettive la mente del clinico. Dunque la scrittura non conduce a una presunta verità sfuggita in precedenza, ma attiva il pensiero in modi meno vincolati alla linearità temporale e rende accessibile una dimensione psichica più complessa, stratificata, dialettica. - La pagina scritta produce uno sdoppiamento dell’autore che si può vedere dal di fuori, nella prospettiva dell’après coup, come soggetto e come oggetto, come autore e come personaggio, e questo distanziamento facilita una maggiore apertura del pensiero e un accesso alla dimensione “meta”. Se riprendiamo il discorso teorico precedente e lo applichiamo alla narrazione nella stanza di analisi, seguiamo Antonino Ferro (1996, 1999, 2002), che parla a questo proposito di “derivati narrativi”, sequenze verbali prodotte dal paziente, attraverso le quali egli trasforma narrativamente gli elementi alfa generati dalla sua funzione alfa in un momento preciso dell’analisi e li rende comunicabili. Come dice lo stesso autore (1996, 53), i derivati narrativi “partecipano della natura dell’elemento alfa, di cui sono una versione ‘in prosa’, mentre l’elemento alfa è conoscibile nella sua ‘poesia’ solamente nei flash visivi e nella rêverie”. Consideriamo quindi il caso clinico come la ripresa distanziata nel tempo e modificata prospetticamente di alcuni derivati narrativi del paziente e dell’analista, ristrutturati in una nuova narrazione e ripensati alla luce di un’attivazione della funzione alfa variata rispetto alla diretta del trattamento e centrata su alcuni nuclei di senso oscuri (residui beta) da elaborare. Riportiamo di seguito tre aspetti che verranno considerati in queste pagine in riferimento al caso clinico: la struttura narrativa, la posizione del narratore e la focalizzazione. In sintesi: - la struttura narrativa è il modo in cui viene costruito il testo, indipendentemente dai suoi contenuti; Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 265 Gian Luca Barbieri - il narratore, che non va confuso con l’autore, è la “voce” che racconta la vicenda; può essere interno o esterno, palese oppure occulto e può narrare in prima o in terza persona; - la focalizzazione è il punto di vista attraverso cui il narratore racconta la storia; in letteratura esistono tre tipi di focalizzazione (Genette 1972): la focalizzazione zero è quella del narratore onnisciente, che conosce il presente, il passato e il futuro dei personaggi, i loro pensieri e sentimenti; la focalizzazione interna è quella in cui il narratore coincide con un personaggio e quindi la sua conoscenza è limitata a quella del soggetto in questione; la focalizzazione esterna appartiene a un narratore che racconta solo ciò che vede, quindi non conosce i pensieri dei personaggi, le loro emozioni, il loro passato né il loro futuro; è un semplice cronista. Nel caso clinico, come in parte vedremo, compaiono anche altri tipi di focalizzazione, a causa della sua struttura narrativa en abîme, costruita su cornici concentriche corrispondenti ciascuna a un diverso narratore. La specola transizionale: il caso di Dora Iniziamo dal caso di Dora (Freud 1901). La sua struttura (figura 1), che costituisce la forma di riferimento del caso clinico “classico”, è articolata su tre livelli, schematizzabili in questo modo: Spazio A Spazio B Spazio C ------ I livello: narrazione dell’analista ------ II livello: narrazione del paziente ------ III livello: narrazione dei personaggi secondari Figura 1. Struttura narrativa del caso clinico di Dora Al I livello il narratore Freud narra una “storia” clinica, al cui interno (II livello) la narratrice Dora narra una storia, al cui interno (III livello) altri personaggi narrano, in maniera più o meno frammentaria, ulteriori segmenti di storie. La paziente, narratrice di secondo livello, si appropria delle narrazioni dei personaggi subordinati, posti al terzo livello, e le filtra secondo il proprio punto di vista. L’analista, narratore di primo livello, si appropria della narrazione di Dora e di quelle dei personaggi subordinati e le colloca in un ulteriore contenitore narrativo sintonico con il processo ermeneutico per mezzo del quale viene interpretato il materiale analitico trasposto sulla pagina. La cornice narrativa corrispondente al I livello ha una funzione strutturante, nel senso che ricostruisce e dà un ordine e un senso alla narrazione di Dora, la quale a sua volta riorganizza e dà un senso alle narrazioni degli altri personaggi del III livello. La cornice narrativa del II livello è una membrana narrativa autodefinitoria, nel senso che le 266 Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 Il caso clinico e le operazioni di sicurezza dell’analista parole di Dora contribuiscono a dotare quest’ultima di una propria identità narrativa. La cornice narrativa del III livello, corrispondente ai personaggi minori, è una membrana narrativa eterodefinitoria: “etero”, non “auto” come al II livello, perché le parole dei personaggi e i fatti che li riguardano sono riportati da Dora (narratrice di II livello) soprattutto per rappresentare se stessa. I tre spazi contenuti dalle tre cornici narrative comprendono il punto di vista dei diversi narratori, cioè la loro focalizzazione. Nello spazio C la focalizzazione non ha particolare importanza e può venire trascurata, anche per lo scarso spazio narrativo concesso ai personaggi minori. Nello spazio B si trova la focalizzazione di Dora, che è interna, in quanto racconta i fatti dal proprio punto di vista; è un personaggio che funge anche da narratore. Più interessante è la focalizzazione del narratore di I livello, cioè Freud. Per taluni aspetti richiama la focalizzazione zero del narratore onnisciente, alla quale però non è assimilabile. Freud è una sorta di “narratore-demiurgo” (Segre 1984) che tiene sotto controllo i propri personaggi e ne sa più di loro, però il suo sapere non è paragonabile all’onniscienza del narratore letterario, perché quest’ultimo è stato creato da un autore che conosce tutto della vicenda e dei personaggi che egli stesso ha creato. Ciò non si riscontra ovviamente nella narrazione freudiana, perché da un lato non si tratta di un’invenzione e dall’altro la conoscenza analitica non è rapportabile a quella letteraria. La focalizzazione di Freud-narratore si basa su una prospettiva interna basata sull’empatia con i personaggi, ma anche su un’ottica esterna, in nome dei dettami tecnici ed epistemologici dell’analisi, quali l’astinenza e il ruolo di specchio riflettente dell’analista. In base a queste osservazioni ci sembra opportuno, ricorrendo a una nota categoria di Winnicott (1951), parlare di focalizzazione transizionale. Transizionale perché è allo stesso tempo interna ed esterna; interna sia perché Freud è un personaggio della storia clinica, sia in base alla sua disponibilità mentale; esterna per i motivi teorici ed epistemologici esposti sopra. È una focalizzazione complessa in cui il punto di vista interno e quello esterno vengono superati in una sintesi nuova e originale. L’osservazione dall’alto: il caso del piccolo Hans Se ora osserviamo il caso del piccolo Hans (1908), notiamo che Freud si basa su presupposti clinici e narrativi diversi rispetto a quelli del caso di Dora: infatti l’analista è il padre di Hans e Freud è il supervisore. Questo caso clinico è un commento a un testo scritto preesistente, costituito dagli appunti che il padre di Hans ha consegnato a Freud e che sono rimasti a un livello provvisorio di elaborazione. Di riflesso anche la tecnica narrativa è ben differente, tanto da rassomigliare a un collage di note redatte (anche in forma dialogica) dal padre di Hans, e da osservazioni e interpretazioni di quest’ultimo, alle quali si sovrappongono quelle di Freud. La struttura del testo del piccolo Hans (figura 2) è simile a quella del caso di Dora per quanto riguarda le tre cornici interne. A queste è aggiunta una cornice esterna che contiene le altre tre. Per il secondo, il terzo e il quarto livello narrativo vale quanto osservato per i tre livelli del caso di Dora. La novità riguarda il primo livello, delimitato da una membrana narrativa ristrutturante, che ingloba quella più interna (strutturante) del narratore-analista (il padre di Hans). Il supervisore-Freud, narratore di primo livello, riporta un trattamento in cui l’analista Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 267 Gian Luca Barbieri Spazio A Spazio B Spazio C Spazio D ------ I livello: narrazione del supervisore ------ II livello: narrazione dell’analista ------ III livello: narrazione del paziente ------ IV livello: narrazione dei personaggi secondari Figura 2. Struttura narrativa del caso clinico del piccolo Hans (secondo livello) descrive l’analisi di suo figlio, il quale racconta (terzo livello) storie in cui ci sono dei personaggi subordinati che narrano (quarto livello) qualcosa a loro volta. L’edificio narrativo di questo caso clinico è dotato di un duplice perimetro: quello realizzato dal padre di Hans (II livello), giudicato dal supervisore non del tutto adeguato e per questo reso più stabile da un confine narrativo ulteriore (I livello), costituito dalle porzioni testuali e soprattutto dallo sguardo e dal pensiero di Freud. Quest’ultimo, grazie alla specola privilegiata dalla quale osserva il trattamento e il modo in cui è stato riportato e ricostruito dall’analista, gode di una focalizzazione simile, pur con alcune ineliminabili differenze, a quella zero del narratore letterario onnisciente. Il narratore Freud infatti ne sa più di tutti, conosce nei dettagli, in avanti e all’indietro, la storia del trattamento e dei suoi personaggi e si concede il lusso di ricorrere a due artifici tipici della focalizzazione zero: le prolessi (o anticipazioni) e l’uso retorico del dubbio e dell’incertezza. Il controllo psichico della narrazione, già elevato nel caso di Dora, qui aumenta ulteriormente. L’analista come esploratore: il caso dell’uomo dei topi Osserviamo ora il caso dell’uomo dei topi (1909), il più interessante perché è l’unico di cui sono pervenuti gli appunti manoscritti dello stesso Freud, disponibili anche in un’edizione critica, purtroppo non tradotta in italiano (Ribeiro Hawelka 1974). Gli appunti dapprima sono annotati con precisione e regolarità dopo ogni seduta, poi secondo modalità più sommarie, e si interrompono dopo tre mesi e mezzo circa dall’inizio della cura. Il testo definitivo del caso clinico comprende una prima parte in cui Freud riporta gli appunti delle prime sette sedute in ordine cronologico, con poche varianti rispetto al manoscritto, rispettandone la frammentarietà e la strutturazione approssimativa. La prima porzione del testo quindi presenta, per quanto possibile, ciò che è accaduto nel corso del trattamento, alternando la narrazione del paziente e i primi abbozzi di interpretazione dell’analista senza strutturare ulteriormente i materiali. Nella seconda parte del testo, invece, Freud, nel ruolo di narratore, si sgancia dalla successione ordinata delle sedute e presenta il materiale prescindendo dall’andamento cronachistico iniziale e organizzandolo in modo simile a quello del caso di Dora. 268 Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 Il caso clinico e le operazioni di sicurezza dell’analista Va precisato che l’andamento della prima parte del caso clinico rispecchia la difficoltà di analizzare un paziente affetto da nevrosi ossessiva, patologia che Freud non conosce sufficientemente a livello clinico, tanto che ne considera le manifestazioni come un “dialetto del linguaggio isterico”. Nella prima parte l’analista-narratore riporta i “frammenti di conoscenza faticosamente raccolti” e, necessariamente, non può assumere il ruolo di demiurgo come nei testi precedenti; la componente narrativa è più estesa e l’inquadramento teorico e interpretativo rimane spesso in secondo piano. Nella seconda parte il narratore riprende il suo ruolo canonico, assume un peso specifico superiore e la componente espositivo-argomentativa torna ad essere preminente. La seconda parte, come si è accennato, è simile al caso di Dora anche a livello strutturale; perciò non la consideriamo e ci soffermiamo solo sulla prima, che presenta alcune interessanti specificità. Spazio A Spazio B Spazio C ------ I livello: narrazione dell’analista ------ II livello: narrazione del paziente ------ III livello: narrazione dei personaggi secondari Figura 3. Struttura narrativa del caso clinico dell’uomo dei topi Il punto di vista del narratore riproduce quello dell’analista durante il trattamento, quindi è in medias res e lo sguardo analitico non si eleva in modo significativo né viene effettuato da un vertice distaccato. Freud riporta, quasi in diretta, le sue impressioni, le sue intuizioni, e abbozza semplici ipotesi interpretative. Siamo dunque in presenza di una focalizzazione diversa da quelle finora osservate, che definiamo esplorativa, in quanto i materiali grezzi non sono ancora integrati in modo organico, e lo sguardo del narratore si aggira tra quanto emerge di volta in volta alla ricerca di un senso possibile. Anche la struttura testuale della prima porzione del caso clinico dell’uomo dei topi va considerata sulla base di queste osservazioni. Pur essendo articolata su tre livelli, come nel caso di Dora, mostra alcune particolarità. Il livello narrativo più esterno non ha una funzione ordinatrice e va considerato come una membrana narrativa mimetica, non “strutturante” (Dora) né “ristrutturante” (piccolo Hans), in quanto ripropone appunto la mimesis di ciò che accade durante la seduta; l’abbiamo rappresentato (figura 3) con un tratto discontinuo per segnalare il carattere aperto e non definitivo della narrazione. Le due membrane narrative più interne invece sono rese con la linea continua per segnalare che hanno una permeabilità inferiore rispetto ai due casi precedenti (dove si era usato il tratteggio). Il narratore del primo livello, a causa della Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 269 Gian Luca Barbieri natura del materiale, non attraversa i livelli narrativi sottostanti per appropriarsi delle parole e dei pensieri del paziente e degli altri personaggi, come accadeva nei casi clinici precedenti, dove li presentava attraverso il discorso diretto, indiretto o indiretto libero a seconda delle esigenze retoriche ed espositivo-argomentative che governavano quella sezione del testo; ora, almeno in apparenza, la diretta viene rispettata maggiormente, e quindi ciò che si legge dà l’impressione di riflettere con una certa precisione ciò che è effettivamente accaduto tra analista e paziente. La narrazione ha una funzione meno ancillare nei confronti delle componenti teoriche ed ermeneutiche del testo. Contenere l’entropia: il caso dell’uomo dei lupi Concludiamo questo breve excursus tralasciando il caso del presidente Schreber (1910), anomalo in quanto tratto dal libro autobiografico dello stesso Schreber, Memorie di un malato di nervi (1903), e osserviamo il caso clinico dell’uomo dei lupi (1914), il più complesso. Com’è noto, si tratta della ricostruzione di una nevrosi infantile attraverso il trattamento di un paziente in età adulta, che si caratterizza per “un esasperante sminuzzamento dell’analisi e [per] una corrispettiva incompiutezza espositiva”. Anche in questo testo i materiali sono frammentari, come nel caso clinico precedente, ma la loro rielaborazione è effettuata all’interno di una struttura del tutto diversa da quella che si osserva nella prima parte dell’uomo dei topi. Differenza che si riflette anche sull’elaborazione del pensiero. Il materiale è talmente ricco e complesso da richiedere un contenitore rigido. Di conseguenza la presenza del narratore è capillare e insistente, fino dall’incipit: “Il caso clinico che mi accingo a riferire…”. Gli interventi in prima persona sono frequentissimi e collocano la componente narrativa in secondo piano a favore di quella espositiva e argomentativa. L’“io” spiega, collega, orienta, procede in avanti e all’indietro, interpreta oppure rimanda l’interpretazione. Il rigido controllo dei materiali si nota anche nel ricorso molto limitato al discorso diretto a favore dell’indiretto, che consente al narratore-analista di appropriarsi della parola altrui e di plasmarla in base ai propri percorsi ermeneutici. Lo schema strutturale del testo è ancora articolato sui classici tre livelli, ma i due più interni diventano virtuali, perdono la loro funzione, poiché le istanze narrative del paziente e degli altri personaggi (che avremmo dovuto rendere graficamente con un tratto quasi invisibile) sono assorbite da quella autocratica del narratore-analista del livello più esterno, che le attraversa appropriandosi delle voci narranti e dei punti di vista degli altri narratori. Di conseguenza anche la focalizzazione si modifica in modo interessante. La comprensione di un materiale tanto ricco richiede una logica altrettanto complessa, circolare, duttile, atemporale. Illuminante a questo proposito è un’affermazione di Freud: “Il medico […] se vuole imparare qualche cosa o raggiungere qualche risultato deve comportarsi, di fronte a un caso del genere, con la stessa ‘atemporalità’ dell’inconscio”. In altre parole: se il materiale è difficilmente inquadrabile sulla base dei parametri del processo secondario, l’analista deve sintonizzarsi sulla logica del processo primario. Così il narratore di primo livello ricorre a una focalizzazione circolare ricorsiva, sintonica, per quanto possibile, con i processi inconsci. Anche nella prima parte del caso dell’uomo dei topi il materiale era frammentario, ma mentre 270 Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 Il caso clinico e le operazioni di sicurezza dell’analista in quest’ultimo testo la frammentarietà riguardava anche la struttura testuale, nel caso dell’uomo dei lupi questa caratteristica è riferibile solo al materiale, mentre la struttura, pur nella sua articolazione complessa, tende a essere compatta e rigorosa. La focalizzazione esplorativa della prima parte dell’uomo dei topi consente all’analista di aggirarsi tra i materiali senza imporre loro un ordine; quella circolare ricorsiva dell’uomo dei lupi si è lasciata alle spalle la fase di esplorazione e realizza nel testo una struttura, per quanto possibile, chiara e coerente: condizione imprescindibile per potersi affidare alla logica dell’inconscio senza perdersi. Conclusioni Freud, in ciascuno dei suoi casi clinici che abbiamo analizzato, ha utilizzato un diverso sguardo, che si è incarnato nelle varie focalizzazioni che abbiamo individuato, e ha dotato di una logica e di un senso i materiali emersi nei trattamenti secondo modalità variabili, che hanno preso forma nei tratti strutturali dei testi e nelle relazioni tra componenti narrative ed espositivoargomentative. Questa constatazione richiede che si faccia un passo più in là per comprenderne la portata. Le diverse strategie di costruzione dei casi clinici sono riconducibili a difese e resistenze dell’analista, o meglio a quelle che Gill (1954), Shektman e Harty (1986) e Del Corno e Lang (2009), ispirandosi a Sullivan, hanno definito “operazioni di sicurezza” del clinico. Concetto che noi utilizziamo non in riferimento al trattamento e alla relazione con il paziente, ma all’elaborazione del caso clinico. Se osserviamo queste “operazioni di sicurezza”, le troviamo applicate secondo gradienti e modalità differenti da un caso all’altro e riflesse nei modi in cui l’autore-narratore di primo livello fa i conti con il dubbio (capacità negativa) e con le (possibili) certezze, con le componenti sospese e insature e con quelle saturanti del pensiero, con gli aspetti narrativi e con quelli argomentativo-interpretativi, con l’articolazione strutturale del testo aperta oppure compatta e rigorosa, con la propria dimensione “ermeneutica”, intesa come paradigma teorico personale, e con la sfera “proairetica” (Barthes 1970) relativa a quanto emerso nel corso del trattamento. Il caso del Piccolo Hans evidenzia il livello di saturazione più elevato, quello dell’uomo dei topi (nella prima parte) il più ridotto, quello di Dora, con la sua focalizzazione transizionale, è un riferimento intermedio. In questi tre testi la duttilità o la rigidità dello sguardo (focalizzazione) e le caratteristiche strutturali (e quindi del pensiero) sono sintoniche tra loro; nel caso dell’uomo dei lupi invece il rapporto è meno univoco e addirittura, per alcuni aspetti, oppositivo: il pensiero può essere duttile se la struttura testuale è ordinata e percorribile con relativa chiarezza. Se usiamo le categorie bioniane, possiamo considerare la questione in questo modo: il processo di conoscenza nel caso clinico è un legame K orientato ad O, perciò è in relazione al modo in cui K incontra L e H (Love e Hate) che si determinano particolari atteggiamenti mentali, in buona parte inconsci, che si possono tradurre in aperture o in scelte difensive e di controllo del materiale e delle emozioni che vi sono connesse (Bion 1963). Tutto ciò può favorire od ostacolare la trasformazione dei residui beta in elementi alfa. Questo processo psichico vede l’analista addentrarsi in una “nube dell’incertezza” (Meltzer e Harris 1988) che non consente itinerari né approdi certi; si tratta di un percorso di conoscenza per definizione interminabile Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 271 Gian Luca Barbieri in cui il testo del caso clinico costituisce una tappa solo in apparenza conclusiva. La O come oggetto del legame K è un limite accostabile ma non raggiungibile. Se il testo è un “contenitore” (♀) di “contenuti” mentali (♂) in costante evoluzione, l’oscillazione PS↔D che dà forma al caso clinico troverà un assetto in D che non può non essere provvisorio (Bion 1963). Se si osservano in questa prospettiva altri casi clinici (tra i più noti suggeriamo Winnicott 1977, 1978; Klein 1961; Bion 1950; Yalom e Elkin 1974) e alcune vignette (per le quali l’analisi testuale dovrebbe comprendere anche altri aspetti significativi quali il lessico, la sintassi, la retorica, la distanza e il genere letterario di riferimento), si noterà come la disposizione psichica dell’analista lasci trasparire operazioni di sicurezza variabili che si intercettano a livello testuale. Si osserverà anche come la struttura non sia, se non raramente o di riflesso, agganciata allo schema a scatole cinesi di Freud, ma diventi più complessa (e interessante). In ogni caso l’approccio qui proposto offre un vertice di osservazione che aiuta a cogliere le modalità inconsce di pensiero dell’analista con le quali egli affronta ed elabora le zone del trattamento rimaste in ombra. Il tutto trasponendo il campo bipersonale dell’analisi in un laboratorio psichico virtuale in cui la presenza dell’altro è solo evocata. È superfluo evidenziare come la prospettiva di osservazione suggerita in queste pagine sia utile non solo sulle scritture altrui, ma forse soprattutto sulle proprie, per individuare le operazioni di sicurezza che sarebbe opportuno elaborare ulteriormente. Riassunto Parole chiave: psicoanalisi, caso clinico, difese, resistenze, mentalizzazione Obiettivo del testo è presentare un’analisi al caso clinico centrata non sui suoi contenuti ma sugli aspetti formali, in particolare sulla “forma del contenuto” che comprende la struttura narrativa, la posizione del narratore e la focalizzazione. Chiedersi non solo cosa l’autore riporta nel suo testo, ma anche come lo racconta fornisce informazioni interessanti relative al pensiero dell’analista, al suo processo di mentalizzazione, alle sue difese e alle sue resistenze. Il modello utilizzato è la teoria del pensiero di Bion, integrata dal concetto di “residuo beta” elaborato dall’autore. Le esemplificazioni sono effettuate sui quattro principali casi clinici di Freud. THE CLINICAL CASE FORMULATION AND THE SECURITY OPERATIONS Abstract Key words: psychoanalysis, clinical case, defense mechanisms, resistances, mentalization The aim of this text is to make an analysis of the clinical case. It is focused not on the content, but on the form, and in particular on the “form of content”, that includes the narrative structure, the role of the narrator and the focalization. If we observe not only what, but also how the author narrates, we can have interesting information about the thought of the psychoanalyst, his process of mentalization, his defense mechanisms and his resistances. We use Bion’s theory of thinking, integrated by the concept of “beta remains” theorised by the author. The observations focuses on Freud’s four most important clinical cases. 272 Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32,4 Il caso clinico e le operazioni di sicurezza dell’analista Bibliografia Baranger M, Baranger W (1990). La situazione analitica come campo bipersonale. Raffaello Cortina, Milano. Barbieri GL (2004). Il segno ristrutturante. Piacere e funzione terapeutica della scrittura. La società degli individui 19, 103-118. Barbieri GL (2007). Tra testo e inconscio. Strategie della parola nella costruzione dell’identità. FrancoAngeli, Milano. Barbieri GL (2010). Il pensiero e lo spazio estetico. Osservazioni sull’opera pittorica del caregiver di una persona affetta dal morbo di Alzheimer. Psicoart 1, 1-43. Barbieri GL (2011). La zona d’ombra dell’oggetto estetico. Costruzioni psicoanalitiche 22, 159-176. Barthes R (1970). S/Z. Editions du Seuil, Paris. Tr. it. S / Z. Einaudi, Torino 1972. Bion WR (1950). The imaginary twin. In WR Bion (1967). 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