40 anni di volontari SVI DOSSIER Speciale 40 anni SVI
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40 anni di volontari SVI DOSSIER Speciale 40 anni SVI
Pubblicazione trimestrale del servizio volontario internazionale - Anno XXII - Giugno 2009 - Sped. in abb. post.art. 20/c. - L. 662/96 - Fil. di Brescia Autorizz. del Tribunale di Brescia n° 64/89 del 12/02/1989 In caso di mancata consegna rinviare all’UFFICIO POSTALE DI BRESCIA CMP detentore del conto per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa. Servizio Volontario Internazionale esserci 03 DOSSIER Speciale 40 anni SVI Ne è valsa la pena? Il mondo dopo il G20 di Londra 40 anni di volontari SVI esserci 03 Editoriale Ne è valsa la pena? 04 Dossier “Speciale 40 anni SVI” 04 Storia - È nato lo SVI 05 Quadro sinottico – Progetti SVI 1969-2009 06 Burundi – Il seme [Kiremba] 07 Burundi – Per la salute integrale [Mubuga] 08 Burundi – Nelle strutture [Gitega] 09 Rwanda – In mezzo alla gente [Nyabimata] 10 Rwanda – La mia vita coi volontari SVI [ Nyabimata] 10 Rwanda – Il tempo necessario per i cambiamenti [Kibeho] 11 Rwanda – Piani nazionali, esigenze locali [Nyarulema] 12 Tanzania – Emergenza o sviluppo? [Lumasi] 13 Zambia – A distanza... [Meheba] 14 Uganda – Un approccio pragmatico [Namalu e Iriiri] 16 Congo – La voglia di cambiare [Ango] 18 Senegal – Gestire o animare? [Parcelles Assainies] 19 Brasile – Per un mondo più fraterno [Medina] 21 Brasile – Una benedizione di Dio [Viseu] 22 Brasile - Elogio della leggerezza [S. Luzia] 23 Venezuela – La relazione al centro [S. Felix] 25 Venezuela – Una vita rinnovata [S. Felix] 26 Venezuela – Ci siamo lanciati a camminare [Moscù] 28 Perù – A scuola di cittadinanza [Zurite] 29 Nota metodologica al numero 29 21 giugno – Il programma 30 Globalizzazione Il mondo dopo il G20 di Londra Gino Filippini, durante il suo servizio in Rwanda. [ph arch. Kiremba] 31 Suggestioni CD – Bowmboï Libri – Armi, un’occasione da perdere Film – Tiziano Terzani Web – Myfootprint 32 40 anni di volontari SVI In copertina L’eterno è un bambino che gioca a dadi: di un bambino è il regno. [Eraclito di Efeso] Esserci a cura del Servizio Volontario Internazionale S.V.I. V.le Venezia, 116 25123 Brescia tel. 030 3367915 fax 030 3361763 http://www.svibrescia.it email: [email protected] Gruppo di redazione Direttore responsabile: Claudio Donneschi; Coordinamento di redazione: Sandro De Toni; Gruppo di redazione: Cyprien Bakara, Federico Bonzi, Lia Guerrini, Rosario Manisera, Caterina Pedrana, Claudia Pisano, Terry Rizzini, Gabriele Scalmana, Gabriele Smussi, Jacopo Tronconi, Aldo Ungari. Realizzazione grafica: Arianna Caldera, Daniela Mena, Dominique Palumbo (impaginazione), Valentina Botturi, Alessandro Cucinelli, Elena Viscardi (progetto grafico), ddt (imaging). Tipografia: 2 GAM - Rudiano (Bs) Come collaborare: CCP: 10236255 CC bancario n° 000000504030 Banca Etica - filiale di Brescia IBAN: IT02L0501811200000000504030 EDITORIALE NE È VALSA LA PENA? Festeggiare un anniversario può sembrare un esercizio autocelebrativo, oppure può essere l’occasione per una sorta di esame di coscienza; sta di fatto che la domanda di fondo che mi pongo in questi giorni è “Ne è valsa la pena?” È valso la pena impegnare risorse, economiche e non, per quarant’anni, allo scopo di cercare di dar fiato ad un’associazione che si prefiggeva e si prefigge di ricercare, formare e inviare volontari nel sud del mondo, giovani e meno giovani, tutte persone con in testa l’idea che cambiare questo mondo è possibile? É valsa la pena di rimanere fermi nella consapevolezza che, per raggiungere l’obiettivo di giustizia che ci siamo posti, è necessaria una volontà forte di reciproca conoscenza fra i popoli e le nazioni, la disponibilità a lasciarci coinvolgere anche a costo di qualche rinuncia, di “esserci” e mettersi in gioco in un’esperienza di dialogo, condivisione e collaborazione fra culture diverse, con il desiderio di attivare nelle comunità con le quali abbiamo avviato il dialogo - quei processi di sviluppo autentico e autoctono che possono contribuire a ridurre il divario sempre più pesante fra la società occidentale e il resto del pianeta? quelle della diocesi di Aracuai, in Brasile, del Karamoja in Uganda, della regione di Ciudad Gujana in Venezuela, della diocesi di Bondo in Zaire [oggi Congo], ancora con quelle del Parà in Brasile, della zona del Cusco in Perù, della città di Dakar in Senegal, per finire con i profughi rwandesi e le comunità kaonde del nord dello Zambia, senza scordarci le esperienze del campo profughi in Tanzania, dell’accompagnamento all’esperienza di Gino Filippini nella baraccopoli di Nairobi, o a quella di padre Zanardini in Paraguay. Non è facile oggi dar conto di tutto questo in termini dettagliati, anche perché ci siamo sempre preoccupati più delle attività “sul campo” che della raccolta e della catalogazione dei dati; ma l’esercizio di analisi svolto per preparare l’evento del 21 giugno prossimo mi dice che sì, ne è valsa la pena, e che questo impegno merita tutto il nostro sforzo perché continui, per offrire ancora a nuovi volontari e a nuove comunità del sud del mondo la possibilità di vivere un’esperienza di scambio e di crescita in comune. In questo numero speciale della nostra rivista cerchiamo allora di dar conto di questa esperienza con alcune testimonianze, che non possono contemplare tutte le esperienze vissute ma ci aiutano a seguire un percorso ideale che ci porta dalle origini all’attualità; e da questa in avanti... C’è ancora spazio per molte nuove entusiasmanti esperienze. Mario Rubagotti Allo SVI abbiamo vissuto, e stiamo tutt’ora vivendo, un’esperienza molto ricca ed entusiasmante, nel corso della quale non abbiamo ricercato l’apparenza fine a se stessa, non ci siamo cimentati nella realizzazione di grandi strutture o di progetti faraonici, ma sempre abbiamo cercato di costruire ponti fra la comunità italiana, e bresciana in particolare, e le comunità dei molti sud del mondo che in questi quarant’anni abbiamo incrociato nella nostra esperienza. Abbiamo in questo modo costruito rapporti con alcune comunità del Burundi, il primo Paese nel quale lo SVI ha iniziato a operare, poi con alcune comunità del Rwanda, a seguire con Maria Teresa Cobelli mentre assiste un bambino. [ph arch. Kiremba] 3 È NATO LO SVI A SERVIZIO DEI GIOVANI STORIA (SE RV IZ IO VO LONTA R I O I NTER NA Z I ONA LE) Così si apriva, a firma del redattore Gianmichele Portieri, l’articolo a p. 1 di Kiremba 12/1969 nel quale si annunciava la nascita dell’organismo. Riportiamo in forma integrale l’intervento della storica rivista dell’Ufficio Missionario Diocesano di Brescia. Da leggere e meditare. Il 21 giugno scorso, in occasione del sesto anniversario dell’incoronazione di Paolo VI, e quindi il VI anniversario della fondazione di Kiremba, un gruppo di dirigenti del Glam, alcuni membri della Commissione per l’ospedale di Kiremba e altri amici in rappresentanza di associazioni bresciane si sono riuniti davanti al notaio Angelini per firmare l’atto costitutivo dell’Associazione Servizio Volontario Internazionale (S.V.I.). Il gruppo era guidato dall’attuale Presidente del Glam, Geom. Mario Dioni, e dal direttore dell’Ufficio Missionario, Sac. Renato Monolo. Tra i soci fondatori figurano due parlamentari bresciani, gli onorevoli Franco Salvi e Pietro Padula, e alcuni reduci da un servizio in Africa già noti ai nostri lettori: Aldo Ungari, Fausto Lonati, Savina Cadei [ora signora Brunelli], Laura Ungari e Gianmichele Portieri [redattore di questo notiziario]. Del Glam, oltre al presidente, c’era l’assistente Don Gianbattista Targhetti e il Rag. Edoardo Donati, in rappresentanza anche del gruppo Campo Emmaus, e Giambi Anni, per il gruppo Mogadiscio. Della commissione per l’ospedale c’erano la Dott. Brunelli [che ne è presidente], la signorina Pollastri e Don Felice Bonomi. L’Assemblea dei fondatori ha anche provveduto ad eleggere le cariche sociali; ed è giusto che il nostro notiziario ne dia notizia. Presidente è stato fatto il Geom. Dioni, Vicepresidente il Dott. Ungari, Segretario Gianmichele Portieri e ConKiremba fu esperienza fondante per lo SVI. Nell’immagine, da sx, Aldo Ungari, Umberto Vergine, don Renato Monolo, don Felice Bonomi, Gino Filippini, don Giovanni Arrigotti, don Giovanni Belotti, padre Paolo Treccani e Fausto Lonati in una foto di gruppo durante il loro servizio presso la missione [ph arch. Kiremba]. 4 siglieri don Monolo e l’On. Salvi. Revisori dei conti sono le signorine Ungari e Pollastri. Direttore del centro di formazione, che sarà il fulcro del nuovo organismo, Don Giambattista Targhetti. Sostanzialmente sono stati lasciati invariati gli incarichi rispetto al Glam. Infatti la nascita del Servizio Volontario Internazionale non modifica nulla. Solamente si è voluto dare veste giuridica a ciò che il Glam fa per l’invio di personale. Ci è sembrato giusto che chi parte rischiando parecchi anni della sua vita abbia dietro di sé una organizzazione seria e che risponda anche davanti alla legge degli impegni presi. I volontari d’ora in poi firmeranno un contratto nel quale sarà specificato il trattamento fatto loro. Una cosa seria, insomma, che testimonia come il Glam abbia saputo in pochi anni raggiungere un grado di maturità molto elevato. Ciò nonostante non si è voluto lasciare il Glam. La veste giuridica è sempre una veste scomoda e lenta da indossare. Il Glam perciò continuerà a funzionare senza verbali e scartoffie fornendo poi i suoi giovani migliori allo S.V.I. perché provveda al loro invio e al loro mantenimento. I giovani perciò continueranno a frequentare il Glam come prima e a cercare in esso le forme più libere e spregiudicate per esprimere il loro impegno e il loro amore per il terzo mondo. La redazione di Kiremba PROGETTI SVI TI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SV VI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PR BURUNDI IL SEME Un dono della comunità bresciana a Paolo VI, papa bresciano, e, allo stesso tempo, un modo per dare voce alle istanze di cambiamento presenti nella Chiesa e nella società; questo fu il progetto di Kiremba nel ricordo di Massimo Pagani, volontario SVI in Burundi dal 1977 al 1979. 1. Come nacque l’esperienza di Kiremba, in assoluto il primo progetto SVI? L’esperienza di Kiremba nacque negli anni ‘70, in occasione del pontificato di Paolo VI, il nostro Papa bresciano; la tradizione dice che volle essere un regalo della comunità bresciana, ecclesiale e laica insieme, al suo pontefice. Ma è altrettanto vero che lo spirito di quegli anni guardava con fiducia all’apostolato dei laici, che, nel contesto di una generale presa di coscienza del problema “terzo mondo”, spingeva giovani e meno giovani a impegnarsi e a partecipare a qualsiasi attività di appoggio per la soluzione delle gravi difficoltà dei Paesi impoveriti. E cosi, anche se in sordina, partì questa nuova missione, che pian piano cresceva sempre più nel senso di un rapporto di fratellanza fra Brescia e il Burundi. 2. Quale fu il compito del primo gruppo di volontari? I primi volontari si occuparono delle costruzioni a supporto del progetto: della chiesa, dell’ospedale, dell’atelier. Al loro completamento, si partì con energia nelle attività locali. 3. E il vostro compito, quale fu? Come si inseriva nel più ampio intervento SVI? La nostra presenza, dal ‘77 al ‘79, ci vide lavorare in ambito sanitario, io come medico, e mia moglie Angiola Baitelli, come insegnante, infermiera, economa, tuttofare insomma. Nel nostro periodo di servizio, dopo anni di assistenza sanitaria pura e semplice, si cominciava a respirare aria nuova, a Kiremba: ci si rendeva pian piano conto della necessità di imboccare un nuova strada, facendo sì che gli interventi, un po’ alla volta, fossero rivolti più alla prevenzione che alla mera e semplice cura dei malati. Nasceva cioè quello spirito di animazione che con gli anni sarebbe divenuto la principale caratteristica della presenza SVI nel terzo mondo. 4. Quali risultati ottenne il progetto? Parlare di risultati è difficile: tutti abbiamo lavorato sodo per favorire lo sviluppo, l’autonomia di questi popoli; ma quanto davvero abbiamo potuto incidere è difficile da sapere. Viceversa, per noi che abbiamo vissuto una simile esperienza, è sicuro che ci siamo arricchiti moltissimo, 6 conoscendo la loro cultura, il loro modo di accettare la vita, il profondo senso di Dio che è in loro. Noi sappiamo che, una volta rientrati dall’esperienza africana, ci rendiamo davvero conto di quanta fortuna abbiamo avuto a vivere in quella realtà. 5. Quali furono le ricadute nella comunità bresciana al vostro rientro? Rientrati, ci sorprese positivamente il numero di persone che ci aveva conosciuto attraverso il giornalino Kiremba [il notiziario del CMD Brescia], ma soprattutto la spinta che convinse poi altri giovani a ripetere la nostra esperienza. A questo proposito, ricordiamo che in quel periodo, dopo la partenza di Lucio Benedetti, vero apripista per noi volontari, vissero un’esperienza africana con lo SVI Valerio Belotti, con la moglie Daniela Sala [Rwanda], Sergio Belotti e Maura Agosti [Brasile], Mino Baitelli e Stefania Vezzoli, tutti apparenenti al Gruppo Palazzolo. E se - come dice il proverbio - buon sangue non mente, ricordiamo che Francesca Belotti [in Burundi con Damiano, suo marito], attualmente volontaria SVI nel progetto di Mivo, è nata a Kiremba, figlia di volontari!!! In questi ultimi anni i 4 figli che abbiamo avuto non ci hanno permesso un impegno molto continuativo con lo SVI. Ora sono cresciuti. E noi possiamo finalmente riattivarci in appoggio ai volontari che idealmente proseguono il cammino da noi intrapreso, molti anni fa ormai. Massimo Pagani Kiremba - Massimo Pagani visita un paziente. [ph arch. Kiremba] BURUNDI PER LA SALUTE INTEGRALE Laura Ungari, volontaria a Mubuga dal 1967 al 1976, racconta del progetto socio-sanitario da lei seguito nel Burundi in uno dei periodi più travagliati della storia del Paese. 1. Quando e come nacque il progetto? L’intervento ebbe inizio nel 1970 su richiesta della popolazione tramite la costituenda parrocchia dei Padri Bianchi di Mubuga [provincia di Kayanza], ed era rivolto alla popolazione tutta che reclamava un intervento sanitario che togliesse la dipendenza della comunità dai centri sanitari di Gatara e Rukago, distanti e raggiungibili solo a piedi. Si realizzarono alcune strutture: un dispensario, un centro nutrizionale, una maternità, un laboratorio di analisi di base [per verminosi, malaria, TBC…] A ciò si affiancò ben presto anche un servizio di formazione, in concomitanza con la nascita del centro sociale [foyer social] che inizialmente si rivolgeva a donne e ragazze e poi aprì anche ai giovani. 2. Quali erano i vostri obiettivi? Sotto il profilo sanitario la formazione del personale inserito nei vari settori, nella prospettiva del passaggio di gestione ai responsabili locali. Sotto il profilo sociale, invece, il supporto alla scolarizzazione e la formazione professionale. 3. E quali le attività del progetto? In ambito sanitario seguivamo la formazione permanente del personale, di concerto con il settore sociale; svolgevamo un’azione educativa/preventiva con svolgimento sistematico e programmato di incontri per gruppi di popolazione tramite metodiche di sensibilizzazione che favorissero una partecipazione attiva, con materiale didattico adatto allo scopo [cartelloni, radio, audiocassette, diapositive]; accompagnavamo i malnutriti con lezioni di corretta alimentazione a partire da alimenti in loro possesso; ci occupavamo anche di controllo della crescita di lattanti e bambini [fino ai 5 anni], di vaccinazioni, di visite prenatali per le donne con gravidanze a rischio, garantivamo visite ambulatoriali e terapie [dispensario], assistenza al parto [maternità], il ricovero per casi gravi [reparto degenze del dispensario]. Nel sociale, oltre alla formazione permanente delle insegnanti, davamo supporto all’alfabetizzazione. Inoltre l’orto/frutteto ci permetteva di sperimentare come arricchire l’alimentazione quotidiana. Offrivamo anche corsi di cucito, grazie al piccolo laboratorio che il Centro gestiva a scopo di autofinanziamento. Erogavamo anche altre proposte formative: falegnameria [fabbricazione porte, finestre, sedie e tavoli], elementi base di muratura, apicoltura, ricerca e gestione delle sorgenti. Infine effettuavamo visite periodiche sulle colline per riscontri sulle attività proposte dal Centro. Col tempo dislocammo le attività in due zone nuove [Gitwe-Remera]. 4. Come si concluse l’azione? E con quali esiti? Nel 1984 il progetto venne consegnato alle suore polacche che operavano nella vicina parrocchia di Gatara. Per circa un anno alcune volontarie, a turno, affiancarono le suore nell’accompagnamento del progetto. Nel 1992 a seguito della “statalizzazione” [operata per ragioni politiche] di buona parte dei Centri Sanitari privati, le suore polacche lasciarono il Centro. A tutt’oggi, pur ridimensionato nei mezzi, il Centro continua il suo servizio alla popolazione, con lo stesso personale formato nel tempo dalle volontarie che si sono succedute nell’arco di quattordici anni. Laura Ungari Mubuga – Da sx Maria Belleri, Laura Ungari e Vigilia Bettinsoli con alcuni barundi presso la sede del progetto. [ph arch. Kiremba] Semina presso la scuola ECRAMA. 7 BURUNDI NELLE STRUTTURE... Silvano Boschi, a Gitega [Burundi] con la moglie Enrica Radici dal 1969 al 1972, rilegge l’esperienza del suo servizio: appoggio tecnico alla Chiesa locale e formazione professionale, alla ricerca di un rapporto più diretto con la popolazione. 1. La presenza a Gitega nella storia dei progetti SVI in Burundi... La scelta di un impegno diocesano in campo missionario in Burundi è stata legata alla presenza a Roma di Mons. Makarakiza, a qual tempo Vescovo della Diocesi di Ngozi e poi divenuto primate del Burundi, con sede a Gitega, la vecchia capitale. Per capire la presenza dell’impegno missionario occorre anche richiamare l’atmosfera che si respirava a quei tempi, sia in ambito ecclesiale che civile, legata ai profondi cambiamenti che avvenivano con la politica di Kennedy e il Concilio Vaticano II; soprattutto quest’ultimo apriva alla Chiesa Diocesana la possibilità dell’azione missionaria diretta, prima riservata alla Congregazioni. Il primo legame della Diocesi di Brescia fu con la Diocesi di Ngozi, dove dal 1965 si stava realizzando la missione di Kiremba; ma anche con Mons. Makarakiza si era mantenuto un profondo legame affettivo, concretizzatosi nella presenza di Congregazioni laiche e di volontari a Gitega. Il personale europeo era richiesto perlopiù per l’apporto tecnico di competenze e conoscenze non reperibili in loco. Si chiedeva anche una presenza che non contrastasse con l’ambiente ecclesiale in cui si operava. Quale la natura dell’intervento? La presenza del GLAM/SVI a Gitega ebbe inizio con l’invio di insegnanti presso il locale college e al seminario minore di Mugera, ma fu sempre una presenza ridotta, se confrontata con il numero dei volontari in Diocesi di Ngozi [Kiremba, Mubuga, Nyamurenza, ecc..]: non credo abbia mai superato le due/tre persone. La presenza si interruppe nel 1972. I volontari operavano come: - insegnanti negli istituti superiori e nei seminari; - personale gestionale/amministrativo [economo] in strutture scolastiche; - personale tecnico al servizio dell’economato della Diocesi. In Burundi la Chiesa aveva una forte componente di gestione di servizi sociali [scuole, sanità] che le erano stati delegati formalmente dall’Amministrazione civile al tempo del Protettorato belga, ma aveva pure un gran numero di servizi tecnici, per sé ma anche per terzi [fabbriche di mattoni, cave, atelier di meccanica e falegnameria, trasporti, imprese edili, ecc.]. C’era un rapporto tra le varie azioni condotte dallo SVI nel Paese? La presenza di personale laico era legata a compiti tecnici, sia in campo sanitario che in altri ambiti: i progetti non necessitavano di un coordinamento operativo. Quindi i vari progetti SVI in Burundi non erano raccordati a livello globale, ma si muovevano entro una griglia fissata dalla normativa locale e dalle consuetudini [Congregazioni]. 8 Proprio per superare questo limite, dato anche dalla ridotta conoscenza dell’ambito sociale in cui operavamo [lingua, cultura, ecc...], da un lato si chiese un periodo di servizio più lungo, dall’altro i volontari iniziarono a frequentare corsi di lingua locale. C’era però un coordinamento dei volontari in servizio, con un responsabile locale che si preoccupava delle diverse situazioni in cui si viveva e che organizzava incontri periodici di riflessione sul senso della nostra presenza, con l’intervento di persone burundesi come esperti. Quali gli esiti della prima fase di presenza SVI in Burundi [quella che si concluse con la guerra civile del 1972]? Valutare l’esito di una presenza così limitata nel tempo, in un contesto così altro, non ha molto senso. Penso che l’esito più evidente sia stata la maturazione dei volontari, la riflessione su di una realtà che solo la presenza fisica in loco permette di avvicinare e, in parte, capire, e la trasmissione che se ne è fatta a Brescia. Se si vuole comunque fare una valutazione, si può dire che: - si sono realizzate strutture, soprattutto sanitarie ed ecclesiali, di cui la popolazione usufruisce ancora oggi; - è stato formato personale sotto il profilo professionale e in più settori; - si assicurano ancora oggi alcuni servizi essenziali in ambito sanitario ed ecclesiale. Tutto questo è importante; ma di certo non va nella direzione di un progressivo sviluppo economico locale che, solo, dà la possibilità di avere le risorse necessarie a fornire servizi sociali senza dover ricorrere all’aiuto esterno. Silvano Boschi Da sx mons. Giambattista Targhetti, Silvano Boschi, Battista Dassa, Cecilia Zardetto, mons. Luigi Morstabilini, Anna Maria Guareschi, Mauro Serventi, don Franco Benedini, mons. Renato Monolo. [ph arch. Kiremba] RWANDA In mezzo alla GENTE I primi progetti SVI in Rwanda nacquero dal desiderio di tre giovani volontari [Gino Filippini, Maria Teresa Cobelli, Lucio Benedetti] di realizzare azioni più vicine alle esigenze delle persone e delle comunità coinvolte e in accordo con le autorità locali. Per quali motivi lo SVI, dal Burundi, passò in Rwanda? Gino Filippini, Maria Teresa Cobelli ed io avevamo svolto la nostra esperienza di volontariato in Burundi, dove avevamo maturato la volontà di realizzare un progetto che fosse di animazione allo sviluppo, con una nostra presenza in mezzo alla gente e il più possibile a contatto col loro modo di vivere. Stante il clima politico creatosi in seguito al tentativo di ribellione degli hutu ed alla durissima e sanguinaria repressione del governo tutsi in carica, il nostro progetto non poteva essere realizzato in Burundi. E allora prendemmo la decisione di guardarci attorno e di cercare un altro Paese dove avremmo potuto esporre la nostra idea alle autorità locali, verificare con loro la condivisione dei punti qualificanti il progetto e procedere all’attuazione della nostra azione di animazione. Insieme ad Aldo Ungari, che per l’occasione ci accompagnava, con una vecchia VW iniziammo un tour di 5.0006.000 km che ci portò a visitare il Rwanda, l’Uganda, il Kenya e la Tanzania. La scelta cadde sul Rwanda per due ragioni principali: la prima, l’incontro con padre Vleugels, anche lui animato dai nostri stessi ideali e desideri progettuali; la seconda l’atmosfera politica e il clima socio culturale favorevoli riscontrati. L’apertura di nuovi progetti in Rwanda, oltre che all’impossibile clima sociale originatosi in seguito alla guerra civile, fu dovuta anche all’esigenza di sperimentare nuovi approcci rispetto a quelli adottati in alcuni progetti burundesi... Il progetto di Nyabimata prima e di Kibeho dopo si basavano su alcune considerazioni maturate da ognuno di noi Lucio Benedetti con un gruppo di giovani a Kibeho. [ph arch. Kiremba] a partire dallo svolgimento della propria opera di volontariato. Considerazioni che evidenziavano il limite e le carenze di una presenza troppo lontana dal vivere della gente. Nelle nostre parrocchie, nei nostri dispensari, nei nostri centri sociali, nelle nostre scuole noi, i volontari, eravamo sì al servizio della gente, ma sempre un po’ distanti dalla loro vita, dalle loro difficoltà, dai loro momenti di gioia e di dolore. Era nostra convinzione che fosse indispensabile andare a vivere in mezzo alla gente, la comunità rurale, per capire dal di dentro, per conoscere da vicino, per condividere i momenti di vita ordinaria e poi eventualmente proporre, stimolare, animare, progettare insieme. Hai parlato di Nyabimata e Kibeho. Come nacquero i due progetti? Chi vi coinvolse? Quali ne furono le caratteristiche? I due progetti, Nyabimata prima e Kibeho dopo sei-otto mesi, nacquero seguendo lo stesso processo metodologico: a) contatto progettuale con il comune e la parrocchia; b) installazione abitativa in mezzo al bananeto; c) partecipazione alle attività e alle riunioni della collina e del comune; d) iniziative di buon vicinato; e) riunioni propositive e di ricerca-azione con gruppi di persone; f) lancio di iniziative di sviluppo in forma di microprogetti e cooperative di vario tipo, basate sulla partecipazione e il coinvolgimento di leader naturali e figure già socialmente attive [animatori, catechisti, insegnanti, ecc.]. E quali risultati conseguiste? Piano piano vennero alla luce varie aggregazioni, trasformatesi in cooperative organizzate e funzionanti, con tanto di organigramma e statuto. Cooperative di consumo di beni alimentari primari, cooperative di produzione agricola, di artigianato e di servizi di base, ecc.. Il nuovo approccio metodologico adottato suscitò dibattito nell’organismo? Se sì, come si svolse e con quali esiti? Da allora sono trascorsi quasi 40 anni; e dire quanto questi progetti abbiano inciso sullo SVI e sui progetti successivi non è facile. Di certo questo desiderio di vicinanza e condivisione è entrato nel DNA di tutti. Tutti abbiamo capito che, essendo vicini, potevamo ascoltare, capire e proporre meglio. Anche oggi come allora è indispensabile verificare che la nostra proposta di servizio sia veramente richiesta e condivisa. Lucio Benedetti 9 IL TEMPO NECESSARIO PER I CAMBIAMENTI RWANDA La distanza temporale è forte [sono rientrato 28 anni fa] e la tragedia che ha colpito il Ruanda nel 1994 relativizza gli eventi e le azioni che abbiamo accompagnato a Kibeho e mette sotto un’altra luce anche la memoria di fatti e persone. Se posso cercare di sintetizzare alcune delle caratteristiche e gli insegnamenti del nostro lavoro a Kibeho ricorderei... LA MIA VITA COI VOLONTARI SVI P. Jef Vleugels fu tra coloro che condivisero con i primi volontari Svi in Rwanda l’apertura di un progetto nel Paese. Riportiamo un suo breve ricordo di come nacque e si sviluppò un’amicizia particolare. “Dal frutto si conosce l’albero”... Lavoravo già in Rwanda da parecchi anni, ma non conoscevo lo SVI. Nel luglio 1972 il caso - o fu la Provvidenza? - mi fece incontrare Gino Filippini, Maria Teresa Cobelli e Lucio Benedetti; ci scoprimmo con un identico sogno: cominciare un progetto di sviluppo in un angolo sperduto del Rwanda, da realizzare davvero con la popolazione, inserendoci più possibile nel contesto di intervento a cominciare dall’apprendimento della lingua locale. La capacità spontanea dei volontari - quelli che ho citato e i loro successori - di essere vicini ai contadini e alle contadine più poveri mi ha stimolato molto. Ho ammirato la loro applicazione metodica al lavoro, il loro spirito inventivo... e soprattutto la loro fede nella capacità delle persone semplici di essere i soli veri attori del loro proprio sviluppo. E ho potuto godere anche della vita comune, familiare, con le coppie ed i celibi del SVI. Ne abbiamo conservato solidi legami di amicizia. E che dire di tutti i nostri amici comuni a Nyabimata? Risultato: il progetto di Nyabimata è diventato una associazione ed è tuttora attivo. È cresciuto enormemente, ma ha conservato lo spirito dalle sue origini. “Dal frutto si conosce l’albero”; e il seme di questo albero è senza dubbio dello SVI. Padre Jef [Vleugels] Semushi 10 Il tempo La nostra esperienza a Kibeho è stata di impegno nel tempo: due équipe che grosso modo hanno coperto ciascuna 4 anni. Avere il progetto [e l’ambizione] di accompagnare lo sviluppo nel settore agricolo e sociale di comunità locali richiede tempo. Tempo per la conoscenza del contesto e della lingua, tempo per stabilire relazioni di fiducia, tempo per accompagnare processi che hanno bisogno di accettazione e maturazione, tempo per ri-orientare e modificare azioni che non si sono rivelate esattamente rispondenti ai bisogni e alle possibilità di quella comunità. Alle luce di questa esperienza resto sempre esterrefatto di fronte alla “deriva dell’emergenza” che molte realtà della cooperazione allo sviluppo attuale hanno adottato: cooperanti che passano pochi mesi nei progetti spesso spostandosi da un continente all’altro. Il rischio condiviso La capacità di introdurre innovazione è passata in buona parte attraverso lo strumento delle cooperative. La cooperativa è strumento de- Enzo Pezzini riceve la croce da Mons. Morstabilini durante la celebrazione di Pentecoste del 1977. [ ph arch. Kiremba] licato e complesso, ma si è rivelata essenziale per superare la pressione del contesto di fronte ai cambiamenti. Il poter affrontare non singolarmente, ma in modo associato, in cooperativa, sperimentazioni e tecniche agricole ha facilitato molte iniziative. Inoltre ha potuto generare attività economica che ha contribuito allo sviluppo del territorio e non dei commercianti della città. Questo primo contatto con l’esperienza cooperativa ha poi determinato tutta la mia vita professionale. Dalla Chiesa al Comune La Chiesa in Africa ha svolto e continua a svolgere un ruolo essenziale nello sviluppo e nella promozione umana. Il nostro stesso progetto, pur con riconoscimento del Ministero Affari Esteri italiano, era di fatto espressione della cooperazione tra la diocesi di Brescia e quelle di Butare. Fu scelta operativa nel progetto affiancarsi all’autorità comunale per sostenerne la necessaria assunzione di responsabilità nel campo dell’indirizzo e della guida dello sviluppo locale. Enzo Pezzini RWANDA PIANI NAZIONALI, ESIGENZE LOCALI Questa la duplice attenzione prestata dai volontari SVI che operarono in Rwanda nelle parole di Nunzio Giubertoni, volontario a Nyarulema dal 1988 al 1990. Quale filo rosso collega il progetto di Nyarulema e i precedenti progetti SVI nell’area [Rwanda e Burundi]? Essenzialmente la promozione e il sostegno di attività che rispettavano programmi di sviluppo nazionale, attraverso il massimo coinvolgimento e la responsabilizzazione di autorità locali e popolazione. Quindi, che si trattasse di educazione e alfabetizzazione degli adulti o di sensibilizzazione e prevenzione sanitaria, scopo dell’intervento era cercare di rispondere a quelle necessità locali inizialmente e formalmente presentate e concordate con le istituzioni [Comuni/Ministeri], mantenendo forte l’attenzione a bisogni più precisi e concreti espressi con sempre maggior intensità e fermezza dalla popolazione stessa e dalle proprie associazioni [es. cooperative]. Un progetto socio-sanitario con un duplice fronte d’azione: erogazione di servizi e prevenzione nelle comunità. Quali i vantaggi e gli svantaggi di un approccio così differenziato? La sicurezza di poter garantire servizi ha sicuramente supportato ed agevolato il successo di processi di coscientizzazione [ad es. il facile reperimento di sementi selezionate, la disponibilità di un mulino per ottenere farina di soia ad alto valore nutrizionale, la possibilità di vaccinare i figli nei giorni stabiliti per il controllo della crescita, ecc.]: la coerenza tra il messaggio e l’azione conseguente si è dimostrata spesso una strategia vincente per il successo di taluni programmi. D’altronde la necessità di erogare servizi regolari ha comportato un importante impegno per i volontari che spesso erano identificati più come datori di lavoro che come agenti di sviluppo, animatori, compagni di viaggio, con conseguente nascita di incomprensioni, delusioni ed amarezza che hanno talvolta accompagnato l’intera esperienza. In tal modo il ruolo di centralità rivestito all’interno del progetto ha assorbito energie fisiche e motivazionali che sarebbero probabilmente potute essere diversamente ed a mio parere meglio spese. Per quale motivo lo SVI concluse la propria presenza nel Paese? L’inizio dell’instabilità politica ed una situazione di insicurezza generata dall’ingresso dei ribelli INKOTANYI provenienti dalla vicina Uganda nell’ottobre 1990 causarono un’iniziale congelamento delle attività del progetto e la loro definitiva chiusura per l’instaurarsi di condizioni ambientali e umane drammatiche e incontrollabili. Hai notizia degli esiti a lungo termine del progetto, a 18 anni dalla sua conclusione? Il settore sanitario del progetto subì un inglobamento nelle opere diocesane attraverso l’acquisizione del servizio da parte di una congregazione religiosa; con amarezza i volontari scoprirono che tale piano esisteva celato nella mente della controparte e che esso prescindeva dal loro diverso orientamento a un maggior coinvolgimento della popolazione nella gestione dell’attività con la creazione di un comitato ad hoc. La guerra ha distrutto strutture che poi sono state recuperate, ma anche disperso operatori e una comunità che aveva intrapreso un cammino di coscientizzazione e di sperimentazione delle proprie risorse e della propria capacità di affrontare i pro- blemi. Alcuni partner/amici sono morti, altri sono finiti altrove [es. Maria Goretti in Zambia] o scomparsi senza lasciare notizie; una parte di loro ha ripreso le proprie attività originarie in ambiti che rientravano nel progetto; ma le informazioni sono sempre state vaghe, estremamente discrete nei contenuti e diradate nel tempo [da vari anni non ricevo più risposte alle lettere inviate]. Le autorità politiche insediatesi recentemente sembrano sfruttare e alimentare un clima generale di sospetto, di insicurezza e instabilità che poco pare favorire il rispetto degli elementari diritti, punto determinante e intransigibile per la ripresa di un nuovo cammino di sviluppo condivisibile. Nunzio Giubertoni Nunzio Giubertoni e due collaboratori rwandesi a Nyarulema. 11 TANZANIA EMERGENZA O SVILUPPO? Paolo Bonzi, in servizio presso il campo profughi di Lumasi [Tanzania] per due mesi nell’estate 1995, racconta questa esperienza molto particolare per lo SVI, a diretto contatto con persone ridotte in condizioni subumane e in rapporto con le grandi organizzazioni internazionali. Lo SVI in un campo profughi... Come accadde? Come SVI eravamo usciti dal Rwanda già nel 1990, chiudendo l’ultimo progetto SVI nel nord del Paese, a Nyarulema, perché ormai il clima era reso insicuro dai venti di guerra. Dopo il dramma del genocidio, che avevamo seguito con trepidazione e costernazione per la nostra impotenza, noi ex-volontari [che, negli anni ’70, avevamo dato con entusiasmo il nostro servizio nei progetti del Sud Rwanda a Kibeho e Nyabimata], ritenevamo che qualcosa dovevamo comunque fare per quella gente che avevamo conosciuto e amato. C’erano profughi dappertutto oltre i confini del Rwanda. Il grosso era vicino a Goma in Zaire, altri in Burundi, altri ancora in Tanzania. In quell’emergenza, decidemmo di intervenire, insieme ad alcune organizzazioni umanitarie che operavano a Lumasi, un campo in Tanzania, con prevalenza di profughi rwandesi e burundesi. Era un intervento anomalo per lo SVI, che non aveva mai partecipato ad azioni in situazioni di emergenza. Occorrevano certo volontari già sperimentati e che conoscessero la realtà del Rwanda e del Burundi. Ecco allora che il consiglio SVI ci diede l’ok per lavorare in quel campo. Assieme all’organismo Amici dei Popoli di Bologna e alla partecipazione di alcune suore mariste e di un sacerdote di Milano, alcuni di noi diedero la disponibilità di un mese o due, così che, dandoci il turno, potessimo assicurare una presenza continuativa per almeno un anno, finché la situazione si normalizzasse e, così pensavamo, i profughi potessero poi rientrare in patria al più presto. Purtroppo così non fu e i campi durarono diversi anni. 12 Quali vantaggi e gli svantaggi dell’approccio, insolito per l’organismo? Là si era sotto l’egida dell’agenzia dell’ONU per i rifugiati [UNHCR]; per questo non avevamo piena libertà d’azione. Dipendevamo più direttamente dalla ONG norvegese NPA, i cui manager avevano una mentalità piuttosto rigida, e ci sentivamo a volte un po’ loro succubi, anche perché nessuno di noi conosceva perfettamente l’inglese, lingua ufficiale dell’ONU e delle grandi agenzie internazionali. In compenso però le grandi agenzie erano un po’ distaccate dalla gente, mentre il nostro vantaggio era di avere un rapporto più immediato, grazie alla nostra conoscenza della loro lingua. La vita dei rifugiati nel campo comportava per loro notevoli cambiamenti di abitudini di vita, causa l’assembramento, la promiscuità e l’impossibilità di svolgere un lavoro o qualsiasi attività per mantenersi. In che cosa consisteva l’azione? Gli obiettivi del nostro progetto a Lumasi erano rivolti principalmente ai giovani, ma anche al problema dei molti bambini non accompagnati e delle donne sradicate dalla loro realtà. Organizzavamo incontri formativi sulla salute e sulle loro tradizioni, avevamo costituito una piccola biblioteca, corsi di cucito, attività di mutuo aiuto con un gruppo scout, che proponeva alcune attività teatrali sotto i tendoni. Tentavamo così di recuperare la loro dignità e di aiutarli a conservare la propria identità culturale e morale; l’identità di un popolo disperso, bambini terrorizzati da quanto avevano visto, molto spesso orfani e senza nessuno. Soprattutto i giovani erano a rischio, tentati dal desiderio di vendetta o dalla criminalità, dovuta alla disperazione e al senso di frustrazione cui erano precipitati in tre mesi di massacri. Come proseguì l’azione? La nostra presenza durò circa due anni. Ci servì a conoscere meglio come operano le grandi agenzie e come spendono i soldi... Ci fu molto utile per essere pronti, due anni dopo, a immergerci in un’altra realtà di rifugiati, quelli scampati e decimati dal genocidio e giunti stremati nel campo di Meheba in Zambia, dove ora abbiamo iniziato un nuovo, vero progetto SVI, con l’aiuto proprio di alcuni di loro, tra cui Maria Goretti, nostra collaboratrice già a Nyarulema, in Rwanda. Paolo Bonzi Lumasi – Paolo Bonzi in visita a una famiglia del campo profughi. A DISTANZA... 1. Come nacque la presenza SVI in Zambia, ancora in una zona di ricollocamento di profughi? Dal 1990 si erano mantenuti contatti con alcuni leader rwandesi con cui i nostri volontari avevano collaborato in Rwanda, e - tra questi – in particolare con con Maria Goretti Gahimbare; ciò permise alla commissione Rwanda di seguire le vicende di un gruppo di rifugiati in fuga dalla guerra attraverso l’Africa centro-occidentale. Dopo mesi di immani sofferenze la comunità, decimata, riuscì ad attraversare la frontiera zambiana sotto la protezione dell’ACNUR, trovando rifugio nel 1998 presso Mwinilunga. Qui G. Filippini e N.Giubertoni incontrarono i superstiti riportando a Brescia impressioni e richieste. Quando i rappresenti SVI si recarono in visita nel campo profughi di Maheba, furono i responsabili della comunità rwandese a proporre un cammino fattivo comune. 2. Accompagnamento a distanza. Che cosa vi indusse a seguire questo approccio? La comunità mostrò di sapersi organizzare grazie ai suoi leader, at- traverso i quali esponeva richieste, obiettivi, paure. E aveva maturato un metodo che ci impressionò in positivo: assistenzialismo iniziale tramite richieste di aiuto, finalizzato a raggiungere l’autonomia alimentare, per darsi nel più breve tempo possibile una rappresentanza autopromotiva di matrice solidale. I rappresentanti della comunità chiesero fin da subito un affiancamento reale a distanza. MRCU e SVI si accordarono sul senso generale della collaborazione lasciando alla cooperativa la facoltà di gestire progetti autonomi. SVI si rapportò a MRCU proponendosi come ponte: tramite la commissione Rwanda, la cooperativa avrebbe indirizzato ai bresciani le istanze della sua gente, le sue paure e speranze, e i suoi ringraziamenti. Molti benefattori, più di 350, ci accompagnarono in questo arricchente cammino. 3. In che cosa si concretizzò l’azione? L’azione può essere così schematizzata: a. una prima fase [aiuti economici per viveri e sementi, pozzi e medicine Maria Gahimbare Goretti, promotrice della coop. MRCU, e Lucio Merzi durante una visita di valutazione a Meheba. ZAMBIA Il progetto SVI nel campo-profughi di Maheba, Zambia: un’azione che si fonda sulle positive esperienze di volontariato succedutesi negli anni ’70 e ’80 in Rwanda, il cui frutto sono stati - più che durature opere - legami di amicizia e fiducia, di valori comuni che nel momento del bisogno hanno generato il loro frutto: impegno, solidarietà, testimonianza. per i casi più gravi, per permettere la stabilizzazione della comunità sui nuovi territori]; b. una seconda fase [borse di studio, biblioteca, microcredito per sementi e animali da cortile, un fondo per medicine e cibo a favore dei più poveri e dei nuovi arrivati; formazione dei leader comunitari]; c. la terza fase [consulenza gestionale, acquisto di una decorticatrice per il riso, promozione di borse di studio, biblioteca e fondo solidale per i casi sociali]. Ora stiamo accompagnando con borse di studio l’ultimo gruppo di giovani, sosteniamo il fondo per i casi sociali e assicuriamo un contributo per la biblioteca del campo. 4. Che cosa portò a uscire dal campo profughi e a pensare un progetto con la presenza di volontari? Nel 2003 G. Smussi e S. Savardi furono accolti nel campo dalle massime autorità tradizionali zambiane, i re Mumena e Matebo, che espressero apprezzamento per i risultati conseguiti dalla comunità rifugiata appoggiata dallo SVI. Mumena e Matebo, in un periodo caratterizzato da forti pressioni da parte del governo rwandese per l’espulsione dei rifugiati, assicurarono loro protezione e chiesero allo SVI ed ai rifugiati di prendersi carico dello sviluppo delle comunità zambiane limitrofe. Per tale compito si richiedeva la presenza in loco di volontari SVI in affiancamento a leader e a tecnici MRCU. Nel giro di tre anni questo fu possibile grazie a Lidia, Maurizio e Alberto che con Maria Goretti avviarono il progetto di Mutanda. Stefano Luciano Savardi 13 UN APPROCCIO PRAGMATICO UGANDA È quello che propone Claudio Chiappa, attuale project manager dell’azione SVI in Uganda, e in servizio a Iriir dal 1997 al 2002, come soluzione vincente per favorire lo sviluppo delle comunità [non solo] africane. Lo SVI in Uganda. Una cronistoria... Lo SVI si presenta in Uganda verso la fine del 1984, invitato dai responsabili dei servizi sociali della Chiesa cattolica locale, rappresentata da missionari italiani. L’inizio difficile a causa della diffidenza mostrata dalla comunità dei pastori karimojong, specie nei confronti dell’utilizzo per il traino degli animali [considerati quasi sacri], lascia un po’ alla volta il posto ad una collaborazione voluta dagli stessi aspiranti agricoltori. Un popolo di pastori seminomadi si trova, a causa della moria di animali e della prolungata siccità che colpisce le zone aride della regione, a dover utilizzare le risorse naturali delle esigue foreste per poter sopravvivere. In quel momento allo SVI è chiesto di organizzare le attività agro-zootecniche, e in una seconda fase, quelle di conservazione ambientale. A Namalu prima e, dal 1996 anche ad Iriir, lo SVI alterna la presenza di équipe di volontari che svolgono compiti differenti con lo stesso spirito e le medesime motivazioni: cercare di trovare, assieme alle comunità ospitanti, una via sostenibile che permetta un equilibrio duraturo nello sfruttamento e nell’utilizzo di risorse naturali, nel rispetto dell’ambiente e della cultura. Dopo venticinque anni di costante presenza SVI in Karamoja, i progetti di Namalu e Iriir rappresentano, anche grazie alle capacità di adattamento e di autocritica dei volontari susseguitisi, esempi di coerenza con valori basilari quali la condivisione, l’autopromozione e la solidarietà. Una presenza nella quale si sperimentarono più approcci. Puoi 14 descriverceli? Per capire i motivi degli approcci adottati nei Paesi africani si deve comprendere la condizione socioculturale del continente e le dinamiche che ne scaturiscono, impregnate di pragmatismo, di identità territoriale e solidarietà di clan, di spiritualità. In considerazione di ciò non esiste un approccio unico e costante che permetta di entrare nella vita delle comunità rurali africane nelle quali lo SVI opera. Funziona meglio l’adattamento in base al momento, al contesto specifico e all’attività che si intende attuare. L’animazione è lo strumento primario ed essenziale per far emergere problemi e analizzare le risorse da attivare. Poi subentra la sensibilizzazione che, attraverso la formazione, spiega perché certe scelte operative e tecniche migliorino le condizioni di vita. Se trattiamo di agricoltura o zootecnia, dobbiamo affidarci ai risultati di anni di sperimentazioni che tengono prioritariamente in considerazione il contesto climatico e le tecniche appropriate. Se parliamo di gestione delle risorse idriche o se il coinvolgimento è nei settori sanitario e educativo, è sempre necessario l’utilizzo di competenze specifiche. La ricerca della sostenibilità di ogni azione è un pensiero costante che deve tradursi in indipendenza finanziaria e tecnica da parte della comunità locale. Si tratta sempre di mediare e diversificare l’utilizzo di strumenti che ci condurranno al raggiungimento del fine prestabilito. Quali i vantaggi e gli svantaggi dei principali approcci che avete adottato? Come si collegano tra loro? L’utilizzo dello strumento animativo è essenziale se si vuole avere un Luigi Bezzi [a sx] e Giuliano Consoli [a dx] con due collaboratori karimojong controllano la crescita delle piante in un frutteto di Namalu. Quali gli esiti della presenza SVI in Karamoja? Dopo venticinque anni di presenza SVI in Uganda possiamo concludere che le tecniche applicate nei settori agro-zootecnico e ambientale in Karamoja si sono rivelate corrette e sostenibili. La consapevolezza della forza espressa da gruppi organizzati e riconosciuti dai governi locali e nazionali, anche se di recente acquisizione, ha già portato organizzazioni locali ad un passo dall’autosostenibilità, resa possibile da parecchie attività generatrici di reddito, che non precludono uno degli obiettivi all’origine dell’istituzione dei primi centri dimostrativi e di addestramento: l’erogazione di servizi essenziali agli agricoltori karimojong. Somiglianze e differenze tra approccio SVI in Africa e approccio SVI in America Latina, dal tuo punto di vista... Non conosco molto bene l’America Latina, quindi, non credo di essere in grado di fare paragoni. La differenza sostanziale - che, in qualche modo, viene rilevata da chi ha sperimentato entrambi i continenti - sta nella diversa parte- cipazione delle comunità alla vita politica. In Africa i movimenti collettivi sono pochi e quasi ovunque motivati da obiettivi specifici e a termine. La società civile è spesso assente sui grandi temi che riguardano processi di democratizzazione, anche perché spesso in Africa il concetto di democrazia appare lontano dalla tradizione tribale. I partiti politici, laddove esistono, anche se lottano per l’affermazione di valori morali imprescindibili, lo fanno spesso strumentalizzando i concetti di base, con l’obiettivo di sostituire al potere chi ha usufruito a sufficienza delle risorse economiche del Paese, per poterne godere a sua volta. E ciò avviene anche nei contesti delle comunità rurali. Tuttavia aggregare individui funziona se l’obiettivo è un bene comune ben delineato e concreto nel breve o medio termine, e viene favorito dall’uso dagli stessi strumenti animativi utilizzati nei contesti rurali dell’America Latina. UGANDA impatto decisivo sulla comunità, a patto che lo si usi come tale e che non diventi un obiettivo. L’animazione, la sensibilizzazione, la formazione portano vantaggi solo se abilmente usate, come dimostra il loro impiego in Uganda e in altri Paesi africani. Per individuare problemi e soluzioni la partecipazione della comunità è stata fondamentale; per capire che cosa fare correttamente in agricoltura, nella conservazione dei raccolti, nell’allevamento e la trazione animale, nella conservazione ambientale è stato necessario sensibilizzare gli agricoltori e formarli sulle tecniche appropriate. La flessibilità nell’uso di più strumenti è la chiave di volta di ogni progetto. Gli obiettivi, di qualsivoglia genere, possono variare, mentre non vengono mai meno gli strumenti utilizzati, che si configurano come essenziali nel percorso di sviluppo delle attività, al fine di ottenere i risultati attesi. Claudio Chiappa Claudio Chiappa e uno strumento indispensabile per i volontari di oggi: il computer. 15 CONGO LA VOGLIA DI CAMBIARE Questi gli esiti del progetto di Ango [RdCongo, ex Zaire] nel ricordo di Pietro Manerba, in servizio nell’area dal 1988 al 1992. Quando e come nacque il progetto? Ad Ango era presente il comboniano p. Gianni Nobili [poi con p. Zanotelli a Korogocho]. P. Gianni aveva lavorato con Gino Filippini in Burundi. Chiese allo SVI un intervento ad Ango. Gino realizzò un sopralluogo e lanciò l’idea del preprogetto: volontari fissi, presenti per 2 anni nel contesto per comprenderlo e capire che cosa fare. Nel 1986 partirono per Ango Nicola Desantis e Lina Visini. Dopo una formazione linguistica [francese e lingala, la lingua veicolare dello Zaire nord-occidentale], Lina e Nicola iniziarono la loro ricerca. Lina si occupò dell’ambito sanitario [e, a questo riguardo, le cose erano semplici: si trattava di garantire il funzionamento dell’ospedale locale]. Nicola invece, in seguito con l’aiuto di Gino, dovette cominciare da zero. La loro intuizione fu di alimentare l’economia locale, aprendola al mondo esterno, in modo da consentire alla popolazione di vendere i propri surplus agricoli sui mercati della città di Isiro e di acquistare là beni di prima necessità da portare ad Ango. Inoltre i ricavi dell’attività commerciale sarebbero serviti alla popolazione per pagarsi il servizio sanitario e la scolarizzazione dei figli. Quindi, in sintesi, in che cosa consisteva il progetto? Ango è isolata. Per arrivarci, oltre ad attraversare un grandissimo fiume [l’Uele] bisogna percorrere una strada all’epoca indistinguibile dalla foresta, perché mai percorsa. E se non c’è strada, non c’è commercio. Il primo passo del progetto consistette nel rendere la strada percorribile, riparandola. Ad Ango non si 16 potevano portare mezzi pesanti. Quindi ripristinammo un lavoro che già promuovevano i belgi: il lavoro di cantonieri. La strada fu divisa in sezioni di 5 km, furono individuate équipe di lavoratori locali cui fu fatta una formazione specifica, furono loro date pale e picconi e a ciascuna équipe fu assegnata una sezione di strada da risistemare. Fu necessario trovare anche un modo per superare i numerosi corsi d’acqua che tagliavano le vie di comunicazione senza ricorrere alle tradizionali travi di legno. Infatti le precarie passerelle ricavate da tronchi marcivano con facilità e ogni anno anni si dovevano cambiare... E questo comportava radunare minimo 50 persone, abbattere gli alberi nel folto della foresta [sempre più lontano], portarli sul posto, rifinirli e metterli in posizione. A volte l’autorità locale era costretta a usare l’esercito per forzare le comunità a collaborare. Così, verso la fine del mio servizio, realizzammo ponti in pietra, con materiali del posto, ma su un modello architettonico... classico: ponti ad arco romano! La comunità contribuiva col cemento e lavoro manuale. Per gli azande fu una liberazione: niente più lavori forzati. E si azzerò anche l’esbosco di essenze pregiate. Adesso nella zona su quel modello sono stati costruiti più di 30 ponti, uno dei quali di 16 arcate... Vi occupaste solo di strade e ponti? No, si creò anche la cooperativa agricola ADERA. Furono coinvolte perlopiù persone istruite [maestri, professori] che furono formate all’economia cooperativa. Il gruppo gestiva un punto di vendita con magazzino, nel quale i contadini locali avevano la garanzia di piazzare surplus produttivi e di acquistare beni di prima necessità [zucchero, sale, vestiti, sapone, camere d’aria per le bici]. Da principio fu difficile far capire agli azande il valore e il senso della cooperativa. Inoltre un banale malinteso a base culturale ci complicò molto la vita: noi europei acquistiamo e vendiamo i prodotti agricoli a chili. E ave- Ponti, primo amore.. vamo proposto lo stesso approccio anche ad ADERA. Ma gli azande sembravano restii a servirsi alla cooperativa, nonostante i nostri prezzi molto vantaggiosi. Solo una volta che fummo entrati in confidenza con gli azande, questi ci dissero che sbagliavamo: “Qui le cose si vendono a bicchieri, a sacchi...” Loro, a chili, non si fidavano: i vecchi commercianti, nelle compravendite, erano soliti frodare i contadini alterando le pesate. Nella successiva campagna d’acquisto comprammo a misura. Arrivarono tonnellate di merci. Parliamo anche di sanità... Ad Ango c’è un grande ospedale in prefabbricato, che era sul punto di essere concluso [da un ingegnere italiano] poco prima dell’Indipendenza dello Zaire: i muri esterni c’erano; suppellettili, attrezzature e arredamento interno non arrivarono mai. I malati giacevano per terra. C’era solo un medico. E la farmacia poteva essere gestita solo dalle suore. Le nostre ragazze [Adele Ballola e Carla Petrillo] sostituirono il vecchio personale, poco competente e demotivato, con giovani volonterosi e formati. Il pagamento del personale era a carico dello SVI, a scalare entro la conclusione del progetto. Obiettivo era che l’ospedale si sostenesse con le proprie entrate [in Zaire, come ora in Congo, le spese sanitarie non erano pagate dallo Stato]. Finché fummo presenti nel progetto le persone potevano pagare le prestazioni sanitarie con crediti accumulati vendendo prodotti ad ADERA. Poi questa forma di pagamento è venuta meno. Il progetto promosse anche la creazione di pozzi, per garantire acqua potabile alle comunità. Tutti bevevano l’acqua del fiume o di pozzi non protetti... Noi insistemmo molto per far capire l’importanza dell’acqua potabile, ma senza esito. Per loro l’acqua è acqua... Lo stesso infermiere incaricato di condurre la campagna di sensibilizzazione sull’acqua potabile beveva tranquillamente l’acqua del fiume. Solo quando l’economia della comunità partì e generò ricchezza, alcuni, costruita una casa di mattoni cotti, ci chiedevano di realizzare un pozzo domestico protetto; ma questo come segno di status, per la comodità di avere l’acqua in casa. E come si concluse il progetto? In Zaire, dal 1996, vi furono due guerre. “Due guerre” significa “quattro passaggi di eserciti”. E gli eserciti, quando passano, razziano. Il popolo azande, che è un popolo di foresta, in queste occasioni si ritira ancor più nel folto. Lì le comunità sopravvivono coltivando quel poco che riescono, ma perdono i contatti col mondo esterno. Loro per 4 anni vissero così. L’ADERA fu la prima ad essere presa d’assalto. Dopo la seconda razzia la cooperativa riuscì a rialzarsi. Ma il terzo passaggio fu letale. I leader locali salvarono solo alcune attrezzature... E sono in attesa di ricominciare... CONGO Antonia Simionato e Nicola Desantis durante un momento di relax presso la casa dei volontari. Ci sono state più visite ad Ango, dopo la conclusione del progetto, da parte di Antonia Simionato [poi tornata ad Isiro per un ulteriore periodo di servizio con la Diocesi e scomparsa nel 2004] e da parte tua. Che cosa è rimasto nel progetto? Che cosa hai trovato? Sono rimaste le persone... E hanno voglia di ricominciare... Anche se, provate dalla guerra, non sanno come. Tutto è da ricostruire, a cominciare dalla vita sociale. Loro, con il progetto SVI, avevano constatato che, camminando sulle proprie gambe, ce la potevano fare. Per due-tre anni dopo la conclusione della nostra presenza, avevano sperimentato che cosa vuol dire commerciare, creare opportunità per sé e per gli altri... E avevano capito che potenziare l’agricoltura di Ango sarebbe stato un ulteriore volano per l’economia. Ormai gli sbocchi sul mercato erano creati... La guerra ha bloccato un processo di evoluzione che si era innescato e stava proseguendo in modo autonomo. L’ultima mia visita [nel 2006] è stata fatta solo per dimostrare che lo SVI era ancora presente. Tre settimane di viaggio e due soli giorni di permanenza ad Ango. Purtroppo i collegamenti sono tornati a condizioni disastrose. La nostra auto era la prima a passare da un anno... Anche se c’era lo spirito per fare di più, la gente, in queste condizioni, per chi coltivava? Comunque, se prima del progetto, questa parola... sviluppo... per loro non aveva alcun significato, alla fine l’hanno capita. Ed è sulla bocca di tutti. Ecco che cosa è rimasto ad Ango: questa voglia di cambiare. Pietro Manerba 17 SENEGAL GESTIRE O ANIMARE? Il fatto di trovarsi, nell’ambito di un progetto, a gestire strutture può rendere difficile il lavoro di raff orzamento di una comunità, scrivono Romina Rinaldi e Cinzia Tarletti, che hanno chiuso l’intervento SVI a Parcelles Assainies [Senegal] nell’estate 2008. Come nacque il progetto SVI a Parcelles Assainies? Lo SVI fu invitato a operare in Senegal dai padri Oblati, che lavoravano nella comunità di Parcelles Assainies già da molti anni. Operare in un centro sociale. Quali i punti di forza e quali i punti di debolezza dell’approccio? Lavorare in una struttura come un centro sociale ci ha permesso di conoscere le realtà aggregative della comunità in cui vivevamo [giovani, donne, bambini]. In un centro sociale si organizzano attività per tutti, dai piccoli ai grandi. Questo permette ai volontari di farsi conoscere e di avere un quadro della realtà in cui si opera abbastanza completo. Del resto proprio il fatto di lavorare in una struttura [e vivere nella struttura stessa, come abbiamo fatto noi nei primi sei mesi] ha fatto sì che la gente del posto ci considerasse come i gestori del centro e di conseguenza ci ha impedito di svolgere il nostro ruolo di animatori. Abbiamo dovuto lavorare molto con la comunità per farci conoscere e per far capire il nostro ruolo. Il volontario come gestore, il volontario come animatore... Noi volontari in Senegal siamo stati visti come gestori della struttura in cui lavoravamo, il centro sociale, e non come animatori di una comunità, come invece avrebbe dovuto essere. Questo è successo sia per i Cinzia Tarletti, Romina Rinaldi e un collaboratore senegalese sgombrano il centro sociale dall’acqua in seguito a un allagamento. Gestire una struttura significa farlo “dalla A alla... Z”! 18 vari problemi causati dall’avvicendamento dei volontari, sia per la poca chiarezza nei confronti della controparte locale. Abbiamo fatto enormi sforzi per far capire alla comunità qual è il ruolo dei volontari SVI, per far capire alla gente che un volontario non è una tecnico che fa per conto suo, ma una persona che vive e lavora con la gente. Del resto un volontario è un animatore quando ha veramente una controparte che lo sostiene e lo aiuta a capire la realtà in cui è inserito. Senza il coinvolgimento della controparte locale e della comunità il volontario non può essere animatore, è costretto a fare in prima persona, gestire, organizzare, con il rischio di portare avanti attività inte- Durante il vostro servizio lo SVI organizzò, a Kampala, un incontro con gli altri volontari in servizio in Africa. Ritenete l’esperienza utile? Quali lezioni ne avete tratto? L’incontro di tutti i volontari impegnati in Africa è stato uno dei momenti più significativi della nostra esperienza. Lo scambio è fondamentale sia per il fatto che si ha bisogno di un confronto con persone che fanno lo stesso lavoro, sia per il fatto che si ha l’esigenza di mettersi in discussione per poter verificare dove e come si sta lavorando. Anche se si lavora in Paesi diversi [dal Senegal, all’Uganda, al Burundi] e in progetti diversi [dai progetti in ambito agricolo a quelli in ambito culturale], le dinamiche che i volontari vivono sono le stesse; quindi confrontarsi è essenziale. Dall’incontro di Kampala, inoltre, è emerso quanto sia importante avere come referente per l’organismo in Italia una persona per ogni progetto: una persona che abbia già fatto un’esperienza di volontariato e che conosca bene le dinamiche che caratterizzano un progetto di animazione comunitaria. Quali i risultati del progetto? Il progetto in Senegal è ora concluso; nessun volontario SVI è presente. Il risultato più significativo è stato sicuramente l’essere riusciti a coinvolgere la comunità. È stato in- fatti creato un comitato di gestione formato dai rappresentanti dei vari gruppi, le donne, i giovani, il consiglio pastorale... Tutti volontari. I rappresentanti hanno scelto un direttore che controlla i lavori e gestisce la nuova équipe. È stato addirittura scritto uno statuto con tanto di obiettivi e finalità sociali della struttura. Le attività che il centro sociale ha proposto durante i 3 anni in cui noi siamo state presenti possono aver avuto un impatto più o meno grande; a nostro avviso l’azione più importante è stata quella di dare potere decisionale alla comunità, dare ai rappresentanti dei vari gruppi l’opportunità di decidere che cosa organizzare e in che modo. In futuro si faranno probabilmente meno attività, ma per lo meno saranno volute dalla comunità. BRASILE ressantissime e bellissime, ma non percepite come necessarie e utili dalla gente. Noi abbiamo dovuto precisare più volte il nostro ruolo, a volte rischiando di essere percepite come persone che non vogliono fare o che si tirano indietro. Ci ha aiutato molto il fatto di avere un ufficio SVI al di fuori del centro sociale e il fatto di rapportarci ai vari gruppi comunitari non in nome del centro sociale, ma in nome dello SVI. Romina Rinaldi Cinzia Tarletti PER UN MONDO PIÙ FRATERNO Animazione pura e lavoro con le comunità di base. Un approccio con una progettualità leggera per aiutare persone e comunità a prendere gusto per il cambiamento, nella testimonianza di Mimma Benelli ed Enrico Fantoni, volontari SVI a Medina [Brasile] dal 1976 al 1979. Come giunse lo SVI a operare in Brasile? Lo SVI arrivò in Brasile grazie alla presenza di missionari bresciani nella diocesi di Araçuaì. In particolare furono chiamati, sostenuti e accompagnati da don Gigi Bonfadini per un lavoro nella diocesi, ma localizzato nelle sue parrocchie. In che cosa consisteva il progetto? Il progetto si svolgeva nell’ottica della formazione delle Comunità di Base e in questo senso seguiva parallelamente il lavoro del sacerdote sul versante della promozione umana. Il nostro compito era di incontrare le persone delle singole Comunità, far prendere coscienza dei loro bisogni e aiutarle ad orga- nizzarsi per trovare soluzioni ai loro problemi che fossero alla loro portata in modo che potessero proseguirle con le loro forze, anche dopo la nostra partenza. Lavoravate in ambito sociale e pastorale, senza particolari griglie progettuali a orientarvi. Quali secondo voi i vantaggi e gli svantaggi dell’approccio? I primi volontari avevano effettuato, insieme al sacerdote, una lettura dei bisogni primari delle comunità, classificandoli in tre categorie: salute, lavoro, educazione. Il nostro lavoro si è quindi inserito all’interno di questi tre ambiti. È chiaro che una griglia rigida facilita il lavoro, ma lo rende meno creativo, meno attento alle esigenze della gente con cui stai lavorando, perché quello che conta è il progetto. L’avere una griglia meno rigida ci ha permesso di adeguarci ai bisogni della gente, che variano a seconda del momento storico: democrazia/dittatura, politico: elezioni/non-elezioni, sociale: ricchi/poveri, meteorologico: siccità/ pioggia… Questo approccio ci ha responsabilizzato di più, costringendoci a verificare continuamente il nostro operato non soltanto con la sede di Brescia, ma anche con i movimenti ecclesiali e popolari del Brasile e con altri organismi nazionali e internazionali presenti sul territorio: diocesi, MLAL, volontari di altre na19 “Il condividere problemi e soluzioni è stata sicuramente la loro più grande conquista.” BRASILE zionalità… Vi furono occasioni di confronto con i volontari SVI impegnati in Africa? Con quali esiti? Sono stati occasionali e a livello di amicizia, grazie agli stretti rapporti che due anni di corso SVI creavano tra i corsisti. Va sottolineato tuttavia che alla fine degli anni ’70 l’approccio era molto diverso tra Africa e America Latina. In Africa si era più attenti all’aspetto tecnico, mentre in America Latina si privilegiava l’animazione. Solo al rientro si è potuto approfondire meglio l’argomento in incontri a Brescia. Quali furono i risultati della vostra presenza? Che cosa cambiò per le persone e le comunità con cui collaboraste, alla conclusione del progetto? E per voi? Bisogna premettere che noi siamo stati solo l’anello di congiunzione tra le coppie che ci hanno preceduto e quelle che ci hanno seguito e che hanno concluso il progetto spostandolo in un’altra zona della Diocesi. Ciò che ha spinto sia lo SVI che la Diocesi a spostare il progetto in altro luogo è stato l’aver costatato che le Comunità di Base delle nostre parrocchie avevano acquisito un metodo di lavoro e che si sapevano organizzare autonomamente; avevano costruito solide collaborazioni con Enti statali preposti all’agricoltura ed alla sa20 nità; avevano creato collegamenti con movimenti ecclesiali e popolari brasiliani, il sindacato, ecc.. Per le persone è cambiato il modo di rapportarsi con la realtà: al fatalismo si sono sostituiti prima il gusto di conoscere la propria storia, poi la voglia di riflettere su quello che li circonda. È aumentato il desiderio di confrontarsi tra di loro, rendendosi conto che i problemi di una comunità erano identici a quelli di un’altra e poi a quelli di un’altra ancora… Il condividere problemi e soluzioni è stata sicuramente la loro più grande conquista. Tutto questo nello spirito della fraternità cristiana. Per noi è difficile immaginare quello che saremmo stati senza l’esperienza in Brasile. Sicuramente siamo tornati molto diversi da quelli che eravamo prima! Oltre ai valori che abbiamo vissuto e imparato insieme alla gente e dei quali abbiamo parlato prima, due sono le cose che hanno segnato la nostra esistenza: la centralità della persona umana, dei suoi bisogni, ma anche del rispetto dei suoi tempi di crescita e di maturazione e di conseguenza una nuova gerarchia di valore da dare alle cose materiali, semplici strumenti per realizzare un mondo più fraterno. Mimma Benelli Enrico Fantoni Mimma Benelli ed Enrico Fantoni durante il loro servizio a Medina. BRASILE UNA BENEDIZIONE DI DIO Così riassume i suoi cinque anni in Brasile, Giacomo Morandini, che, assieme alla moglie Marizete De Oliveira, prestò servizio con lo SVI a Viseu dal 1989 al 1994. L’esperienza cooperativa in Brasile. Una risposta allo strapotere di fazendeiros e multinazionali... Il cooperativismo, in Brasile, rimane ancora oggi una valida soluzione organizzativa per i piccoli contadini, soprattutto per quelli lontani dai centri di commercializzazione. L’accesso al credito, alle nuove pratiche agricole, alla meccanizzazione dell’agricoltura, all’acquisto di sementi e concimi è possibile solo se i contadini sono uniti e organizzati. I singoli, perché privi di un minimo capitale di riserva sia esso in denaro o in produzione, sono ancora vittime di un sistema di sfruttamento antico. Chiedono al commerciante o al fazendeiro del luogo un anticipo sul prodotto che coltiveranno; e quando arriva l’ora di vendere il raccolto, gli interessi esosi del prestito e la scarsa capacità di contrattazione fanno sì che si ritrovino al punto di partenza, se non peggio. Più che una risposta ai poteri forti direi che è una questione di sopravvivenza. Da soli si è più vulnerabili: a volte basta davvero poco, una malattia in famiglia, un imprevisto, ... e la famiglia si trova sul lastrico. La cooperativa è in grado di fare da ammortizzatore sociale e, con il contributo di tutti, può operare anche come una piccola banca. re il suo prodotto. Passare da una gestione in proprio a una gestione associata non è facile. Presuppone molta fiducia nei compagni e rispetto delle regole condivise. Non è semplice. continuano trovarsi e a realizzare attività insieme. Il punto di forza, per noi, è stato poter lavorare in stretta sinergia con le comunità di base coniugando fede e impegno civile e sociale. Lavoro sociale e approccio progettuale risultarono coniugabili nella vostra esperienza? Con quali risultati? A nostro parere un progetto di sviluppo ha senso se ha una forte connotazione sociale. Deve essere un’occasione di cambiamento in meglio della vita economica, famigliare e comunitaria. Quindi la società tutta ne rimane coinvolta Se un contadino produce di più e vende meglio il suo prodotto, la famiglia si alimenterà meglio, avrà meno malattie, i figli potranno studiare, la moglie potrà dedicarsi anche ad altre attività sociali e non solo curare la casa o i campi. Nella nostra esperienza possiamo dire che il lavoro sociale svolto, in modo particolare con le donne, ha dato risultati estremamente positivi: ancora oggi dopo quasi 16 anni dalla nostra partenza, le donne Quali cambiamenti operò la vostra presenza nel contesto di intervento? Ci piace evidenziare alcune cose interessanti che sono emerse a distanza di anni. L’apicoltura che abbiamo avviato all’interno del progetto come attività complementare è diventata un’attività rilevante nell’economica di molte famiglie; i genitori hanno imparato e trasmesso ai propri figli nuove tecniche agricole e vivono in case migliori grazie ai proventi del loro lavoro; le donne sono diventate protagoniste della loro vita e hanno migliorato la loro capacità di lottare per una vita migliore per sé e la propria famiglia. Per non parlare della nostra famiglia che ancora oggi ricorda quei cinque anni trascorsi a Viseu come una benedizione di Dio. Giacomo Morandini Giacomo Morandini con la figlia Sara, benedizione di Dio. Quali i vantaggi e gli svantaggi dell’approccio? I vantaggi di lavorare in cooperativa sono evidenti; tutti li riconoscono. La difficoltà più grossa sta nella mentalità. Il contadino, non solo quello brasiliano, ha molta difficoltà a lavorare e a pianificare insieme ad altri, a condividere i mezzi di produzione. È abituato, il contadino, a lavorare la sua terra, con i suoi animali, con i suoi attrezzi, a vende21 ELOGIO DELLA LEGGEREZZA BRASILE Pochi investimenti e strutture ridotte all’osso, o assenti; questo, secondo Umberto Bosetti, volontario SVI in Brasile dal 2003 al 2007, lo stile ideale di intervento. Puoi descriverci in breve le caratteristiche del progetto in cui eri inserito? Nel 1996, al termine di un biennio di preparazione, il primo volontario a S. Luzia do Parà e 35 piccoli agricoltori fondavano la cooperativa COOMAR. Per lo SVI non era la prima volta; infatti nei 10 anni precedenti erano state fondate, relativamente vicino, altre due cooperative di agricoltori. L’intento originale era migliorare le condizioni di vita degli agricoltori, delle loro famiglie e delle loro comunità attraverso la partecipazione alla vita e alla conduzione di una cooperativa, dove i singoli potessero trovare conforto e appoggio nel mutuo aiuto, affrontando assieme le moltissime difficoltà che s’incontrano vivendo in una zona così povera, priva d’infrastrutture, assolutamente orfana dello Stato, sostituito dai grandi e ricchi proprietari terrieri che decidono e comandano sull’intera comunità. Il primo volontario e i due successivi hanno cercato, ognuno con il suo stile, di accompagnare la cooperativa avendo come obiettivo finale che, al termine del progetto, gli agricoltori potessero gestire autonomamente l’attività. A fianco della cooperativa, è stata fondata negli anni una scuola per giovani agricoltori nella quale, richiamandosi alla scuola di P. Freire, si cerca di formare persone che, rispettando l’ambiente, possano contribuire a uno sviluppo sostenibile della zona. Il progetto della scuola prosegue con la presenza di un ex volontario SVI che si è trasferito in quelle zone e che continua il lavoro con l’appoggio di svariate istituzioni italiane. Concludere una presenza di lungo periodo. Che cosa comporta? Comporta molti grossi dubbi: su 22 che cosa è stato fatto e come. Se chi ti ha preceduto avesse fatto diversamente… Se tu stesso non ti fossi comportato così, ecc. ecc.. Dal mio punto di vista, anche a distanza di più di due anni, credo sia stato un bene che il progetto sia finito e che ora la gente stia tentando di portare avanti il progetto, senza dubbio molto difficile e impegnativo. Come si dice, la semina è stata fatta e i frutti verranno; poi come si è seminato e che frutti saranno si saprà solo più avanti. Quali gli esiti effettivi del tuo lavoro? Nei 10 anni del progetto è passata molta gente; e ognuno qualcosa si è portato con se. È pubblicamente riconosciuto che molte famiglie, con l’appoggio del progetto, hanno migliorato la propria situazione economica e si sono viste allargare la propria visione del mondo. Al momento della chiusura del progetto, circa 15 persone lavoravano in pianta stabile negli uffici e nei magazzini della cooperativa, e più di 70 famiglie di agricoltori partecipavano alla vita della cooperativa. In Italia vivono circa 10 persone che vi sono arrivate grazie a chi hanno conosciuto durante questo periodo di scambio, e altre due o tre hanno fatto il percorso inverso. Personalmente ho vissuto tre anni veramente ricchi di ogni tipo di emozioni e di insegnamenti e in più ho anche avuto la fortuna di incontrare la donna che sarebbe poi diventata mia moglie. Quali lezioni ritieni si possa trarre - in termini di stile di intervento - dall’esperienza di S. Luzia? Mi pare di poter dire che il lavoro semplice, di animazione e senza molti investimenti possa essere la maniera migliore di agire. L’esperienza di S. Luzia ci può insegnare che sono necessari interventi leggeri, che stabiliscano subito con chiarezza un rapporto forte di condivisione, e che stabiliscano da subito meccanismi attraverso i quali chi partecipa [cooperatori e cooperanti] abbia più obblighi che diritti cercando di non creare l’illusione di essere privilegiati, ma che si guadagna solo con con il lavoro e/o con la partecipazione. Umberto Bosetti Ripulitura manuale del terreno dalle erbe infestanti presso la scuola agraria di S. Luzia: meno attrezzi, più sostenibilità. VENEZUELA LA RELAZIONE AL CENTRO Gianluca Bassani e Luca Rigoni, in Venezuela il primo dal 1986 al 1989 e il secondo dal 1989 al 1991, ripercorrono la storia della presenza SVI nel Paese, individuandone il filo conduttore nella facilitazione di processi organizzativi di base. Lo SVI in Venezuela... Primi passi... La prima équipe di volontari SVI in Venezuela, composta da Maria, Rosanna e Giuseppina, iniziò a lavorare nei quartieri marginali della zona sud di San Felix [Ciudad Guayana] nel triennio 1983-86. In questa prima fase del progetto le volontarie presero contatto con gli abitanti della zona, cominciando a individuare i bisogni emergenti, gli ambiti di intervento e i processi formativi e organizzativi di partecipazione. Negli anni 1986-89 proseguirono il progetto Giuseppina con Pio e Gianluca [provenienti dalla Diocesi di Fidenza] nella nascente parrocchia di San Martin de Porres assieme a Don Damiano e a Giuliano e Daniela [volontari SVI di Brescia]. Nel triennio1989-91 Luca e Giovanna [fidentini anch’essi], lo portarono a conclusione, mentre Brasellina incominciava un preprogetto nella vicina zona rurale di El Pao. Quasi fin dalle origini l’azione nel Paese fu il frutto di una collaborazione tra la diocesi di Fidenza e lo SVI. Come nacque la partnership? Quali scopi aveva? Fu una collaborazione efficace? In quel periodo, a Fidenza, la Diocesi, attraverso il Centro Missionario e la Caritas, proponeva sul territorio esperienze di volontariato locale e internazionale. L’esperienza di Giuseppina e altre precedenti esperienze di volontari SVI fidentini sia in Brasile che in Burundi, portarono alla reciproca conoscenza e collaborazione nel progetto a San Felix. La partnership si rivelò efficace permetten- Gianluca Bassani in Gran Sabana. Riflessione... do da un lato, alla Diocesi, di dare continuità ad un progetto missionario e di promozione umana, creando i presupposti per uno scambio culturale ed ecclesiale, dall’altro, all’organismo, di avere una controparte in Italia con cui confrontarsi circa obiettivi, metodi e stili di presenza. Quali erano le caratteristiche della vostra presenza in Venezuela? Ci inserivamo in un determinato contesto, andandovi ad abitare, e facilitavamo la creazione di relazioni tra vicini e l’analisi della realtà, valorizzando risposte ai bisogni che sorgessero dal sapere popolare, in modo da suscitare autostima tra le persone e condividere insieme le speranze di un cambiamento possibile. I volontari vissero il proprio ruolo mediandolo nel dinamico evolversi delle situazioni. Infatti, se in un deter- minato ambito erano i propositori di un processo, in un altro erano interlocutori comuni assieme ad altri partecipanti come a essere parte coesa del processo stesso che stavano promuovendo. D’altra parte l’obiettivo del progetto era suscitare una duratura organizzazione popolare di base che coniugasse la sfida alla dura realtà con la cultura, le capacità e i ritmi delle persone. Quindi l’intervento non poteva strutturarsi sulla figura del volontario SVI a scadenza triennale, bensì su quella di leader locali che garantivano continuità di partecipazione. Quali risultati ottenevano le vostre iniziative? Un esito costante era la coesione tra le persone coinvolte nei gruppi di base su specifici indirizzi [salute, giovani, comunità ecclesiali di base], che, a distanza di 20 anni persistono nella loro azione molti23 VENEZUELA plicatrice in vari quartieri e zone. Inoltre la professionalità raggiunta dai leader locali interpellati in questi anni ci stimola anche oggi a condividere una ricerca comune, a partire dal basso, sulle alternative possibili agli effetti del mondo globalizzato. Come a dire, siamo ancora coinvolti sia a livello personale che istituzionale nel relazionarci con le realtà conosciute durante le nostre esperienze di volontariato, ma in uno scenario allargato che comprende anche i nostri confini. SVI in America Latina e SVI in Africa. Somiglianze e differenze dal vostro punto di vista... L’ormai venticinquennale esperienza SVI in Venezuela può dirsi caratterizzata da un approccio basato sull’ascolto e sulla lettura della realtà locale, sulla ricerca-azione, sulla partecipazione dal basso, in un reciproco processo di coscientizzazione e di invito all’impegno per il cambiamento nell’ottica di logiche di rete, di cooperazione, di solidarietà locale e internazionale. Non si caratterizza per interventi strutturali o di forte impatto economico, piuttosto per micro-progetti di sostegno a gruppi o leader locali in grado di favorire, o accelerare un poco, processi già in atto o latenti nel contesto in cui si opera. Il successo di tale approccio ci stimolerebbe a vederlo applicato anche in altri contesti in cui opera l’organismo, come quelli africani o di altri paesi latinoamericani: fatte le ovvie distinzioni e non dimenticando particolari situazioni di emergenza o carenza in cui si opera, né le maggiori distanze linguistiche e culturali che separano spesso volontari e popolazione, si potrebbe tentare, anche in questi contesti, di aprire strade analoghe per stile di presenza e approccio alla realtà locale. Luca Rigoni e Gianluca Bassani 24 1. Volontari on the air Contrariamente a quanto riportato nel numero precedente, Laura Crawford, Massimo Ginammi, e Marina Moreni e Mario De Carolis hanno concluso il loro servizio in Venezuela i primi il 21 maggio e i secondi il 2 giugno 2009. Nella seconda metà di giugno è previsto il rientro in Italia anche di Lucia Cancarini, che, nei suoi due anni di presenza in Uganda, ha svolto un servizio di supporto organizzativo, amministrativo e logistico ai progetti SVI in Karamoja, e di Fausto Conter, da 4 anni in servizio ad Iriir. 2. Gruppo scuola Mercoledì 20 maggio 2009 si è tenuto l’evento conclusivo di “Ecoscuole”, il progetto di educazione ambientale finanziato da A2A, Assessorati alla PI e all’Ambiente e Circoscrizione Centro del Comune di Brescia, Fondazione A2A, MOICA. L’azione, che consisteva in una ricerca-azione volta a far scegliere e realizzare alle classi al- cune attività per la riduzione dei consumi di elettricità, riscaldamento e acqua, ha coinvolto 20 classi [450 alunni e 20 insegnanti circa] appartenenti al centro città. Nel corso dell’evento tutte le classi hanno ricevuto un riconoscimento [gadget A2A e una selezione di libri] per i risparmi conseguiti, nell’approssimativo ordine del 4% per l’acqua e del 5% per l’elettricità. A causa del rigido e piovoso inverno 2009, non sono purtroppo stati ottenuti risparmi sotto il versante del riscaldamento. Negli stessi giorni si è concluso anche il parallelo progetto “Scuole Verdi” che ha visto partecipare 8 classi della provincia. Per il 2009-2010 il Gruppo Scuola, in collaborazione con l’ass. SOFRAPO e il CMD Brescia, ha richiesto alla Fondazione della Comunità Bresciana un finanziamento per “Ascan”, un progetto di educazione interculturale rivolto alle scuole di Brescia e provincia. Info – Francesca Albasini Pereira – email: grupposcuola@ svibrescia.it. ... e partecipazione, le due parole-chiave degli interventi SVI in Venezuela. A dx Luca Rigoni durante un compartir, a San Felix. VENEZUELA UNA VITA RINNOVATA “Operare in un contesto che richiede una continua disponibilità alla relazione cambia l’esistenza”, sostiene Giacomo Signoroni, a San Felix [Venezuela] dal 2000 al 2003. La seconda fase della presenza SVI in Venezuela: fasi cruciali e caratteristiche. L’inizio della seconda fase [a partire dal 1996] si caratterizza per la presenza dei volontari Marco Bo e Jazmina Silva e con il ritorno alla periferia della città, dopo una breve parentesi campesina nella zona di Rio Claro. La controparte locale aveva infatti richiesto un intervento nel settore agricolo alla periferia della città: l’approccio si era però rivelato insostenibile, anche perché, all’arrivo dei volontari, la controparte non era più presente in zona. A questo punto divenne obbligatorio legare meglio il lavoro dei volontari alla base sociale per dare continuità agli interventi, cercando agganci tra i promotori e le associazioni locali. In questo periodo iniziò uno sforzo sistematico per fare rete, un lavoro simile a quello che già stava facendo Sapagua, ma esteso anche a settori diversi dalla salute. Da qui, dal germe dei contatti con gli artigiani dell’argilla, con le esperienze culturali degli abitanti della zona del Rosario, con l’esperienza del progetto dei bambini di strada, si è concretizzata una prima rete di enti e associazioni di base che poi, seppure tra alti e bassi, è cresciuta negli anni. In realtà non sono state solo le nostre intenzionalità ad accelerare il processo di crescita delle comunità locali: nel ‘98 è cambiato lo scenario del Paese con l’arrivo di Chàvez e della Rivoluzione Bolivariana. Questa è stata una sorta di primavera che ha fatto germogliare molteplici iniziative che hanno potuto trovare, in alcuni momenti, nell’impostazione del lavoro dello SVI un valido e riconosciuto alleato. procci o stereotipo? Stereotipo! La nostra esperienza dice che c’è una tensione comune tra tutte le persone che, con competenza e passione, si mettono a disposizione per promuovere cambiamenti a misura delle comunità; ma questo vale su scala globale e non solo in America Latina. Nello specifico è necessario incarnare quest’idea nell’esatto contesto in cui si opera che, per storia e soprattutto per cultura, è specifico. Inoltre riteniamo che per persone come i volontari SVI che emigrano in altri Paesi per fare lavoro sociale è fondamentale l’aspetto culturale, più che quello del metodo. Tra Paesi latinoamericani esistono tratti comuni; ma è più interessante approfondire le specificità; e, così facendo, spesso si scopre che queste ultime sono molto profonde. Il contesto urbano venezuelano è caratterizzato da una condizione di continuo cambiamento. Come conciliare approccio progettuale e approccio partecipativo, che prevede si rispettino esigenze e propensioni all’azione delle persone e delle comunità con cui si opera? Con l’intuizione, fatta realtà, di un’équipe permanente di progetto composta non solo dai volontari italiani, ma anche da rappresentanti locali che sono “militanti” e non consulenti, come quella attualmente attiva nei nostri progetti venezuelani. Inoltre è fondamentale mantenere e approfondire la relazione istituzionale con i vari partner locali che hanno, come noi, o meglio di noi, chiaro il delicato rapporto tra i due approcci. Quali sono stati e quali sono gli esiti del vostro lavoro? A livello personale diremmo: la vita rinnovata, un nuovo paio di occhiali per osservare la realtà, la doppia appartenenza, Italia e Venezuela, e il vedere la continuità del progetto fino ad ora. A livello di organizzazione gli esiti sono naturalmente molto più ampi; ma questo potrebbe essere oggetto di un’altra intervista! Giacomo Signoroni Giacomo Signoroni, Marilena Valvano, Marina Moreni, Elena Matteucci e alcune promotrici di Sapagua durante una recente visita al progetto. Il lavoro sociale in America Latina: stile comune, famiglia di ap25 CI SIAMO LANCIATI VENEZUELA A CAMMINARE… Hendrick Torres, venezuelano e collaboratore del progetto SVI a San Felix- Moscù, racconta l’organismo visto dall’“altra parte”, quella di coloro che con i volontari operano e lottano per un mondo migliore. Quale idea ti sei fatto dello SVI in Venezuela? La mia relazione con lo SVI è iniziata nel 2002: in quel momento lavoravamo insieme ai gruppi di giovani nel barrio Altamira; è stata un’esperienza significativa: i ragazzi e le ragazze iniziavano a conoscere la propria realtà e a intervenire in essa nella misura delle proprie capacità. Poi mi sono allontanato dal coinvolgimento diretto con lo SVI per un paio d’anni; infine, dal 2006, è iniziata una nuova fase di collaborazione. Confrontando passato e presente della presenza SVI, posso dire che oggi vedo un organismo più forte nel proprio operato; e non mi riferisco all’impatto numerico, ma alla sostanza delle sue proposte, specie per quanto riguarda l’esperienza del Gruppo di Donne Produttive di Altamira [San Felix] e l’esperienza dell’orto organico comunitario al Porvenir II [Las Amazonas]. I processi di lavoro comunitario dell’orto e delle donne di Altami- Hendrick Torres. 26 ra vanno controcorrente a ciò che [purtroppo] è diventata un’abitudine. Viviamo in una realtà [l’attuale Venezuela] nella quale si formano consigli comunali e cooperative la maggior parte dei quali lavora per ottenere fondi dagli enti governativi: la loro sopravvivenza dipende da tali fondi. Invece queste esperienze [l’orto e il gruppo produttivo] camminano con le proprie forze dimostrando che non è il denaro a risolvere i problemi della gente, ma la crescita della coscienza, e che questo è possibile solo camminando insieme a chi vive nelle stesse situazioni. Inoltre i contenuti delle azioni, produzione a base sociale e cura dell’ambiente, hanno un gran significato morale per il cammino verso l’altro mondo necessario, il nostro mondo. Nel sistema di valori del mondo capitalista si antepone la produzione privata, che implica speculazione e sfruttamento, alla produzione associata, e l’utilizzo predatorio dell’am- biente al rispetto della madre terra; l’azione dello SVI sta vivendo con la gente ciò che deve essere questo nuovo, imprescindibile mondo. Qual è il contributo che lo SVI ha dato e sta dando al cambiamento? Lo SVI dà il suo contributo proprio nel “Processo” [nel percorso per la creazione di un mondo migliore, NdR], accompagnando la gente nel cammino di generazione di nuova conoscenza e di progressivo cambiamento di ciò che ci circonda. Questo è possibile solo con un affiancamento da presso delle persone nelle loro vite; è un lavoro quotidiano di conoscenza di sé e dell’altro nella stessa realtà delle comunità con cui collaboriamo, un modo di fare che è di rottura rispetto al consueto intervento lampo [nell’ambito del quale si costruiscono case, o pozzi d’acqua...] e che rispetta quanto le persone stesse possono fare per cambiare la propria realtà. La realtà attuale è complessa, e in Venezuela è ancora più complessa. Secondo me, oggi noi venezuelani ci siamo proposti di cambiare il nostro sistema di vita che ci aveva portato solo miseria; ma ciò che deve morire non finisce di morire e ciò che deve nascere è ancora in un complesso parto. In questo contesto opera lo SVI; questo dà ancora più senso e pertinenza all’azione; però aumenta anche il numero delle sfide e delle minacce. In Venezuela si sta sperimentando la formula dell’équipe di progetto, costituita da tutti i responsabili, venezuelani e italiani, delle varie attività condotte nell’ambito dell’azione. A quale scopo vi siete dati questo strumento di confronto? Trovate che funzioni? Quali risultati permette di raggiungere? VENEZUELA Riunione di donne a Moscù, sede del futuro progetto SVI. Avere più progetti nella zona e due nuclei di volontari ha di per sé portato alla formazione di un’équipe di coordinamento. Lo SVI opera secondo rigorosi standard d’azione; e deve anche rispondere agli esigenti parametri dei progetti scritti, correndo – nel fare questo - il rischio di perdersi nel raggiungimento di risultati prefissati da indicatori oggettivi che, per quanto stabiliti con le comunità, sono aridi e non tengono conto della necessità di accompagnare le persone e i gruppi nel loro cammino, non sempre lineare. L’équipe di coordinamento aiuta tutti gli operatori ad avere ben cosciente il nostro ruolo nell’animazione socio comunitaria, che va svolta con responsabilità e senza quei paternalismi che impediscono che i processi camminino con le proprie gambe. Inoltre ogni tre anni arriva una nuova équipe di volontari; e questo mette sempre a rischio i processi innescati: ognuno apporta il proprio stile al lavoro. Contare sull’équipe di coordinamento garantisce continuità ai processi; inoltre l’accumulazione delle esperienze è una scuola per i nuovi volontari e facilita il loro inserimento nei progetti. Questi sono i maggiori punti di forza dell’équipe di coordinamento. La principale sfida per i volontari è l’inserimento in una nuova cultura, in una nuova visione di vita: quando il loro grado di inserimento nella nostra realtà è accettabile, è per loro già il momento di tornare in Italia. Ecco perché questa capacità già diventata patrimonio non deve andare sprecata. Qui in Venezuela o in Italia si deve apprendere dall’esperienza. Come farlo è una sfida per tutti noi. Come costruire partenariato tra realtà del sud e realtà del nord del mondo? Cerchiamo di costruire alleanze tra organizzazioni del nord e del sud a partire dalla nostra esperienza come CFG [Centro de Formaciòn Guayana]. Abbiamo camminato insieme e oggi abbiamo una buona relazione istituzionale che rafforza tanto lo SVI quanto il CFG. Dobbiamo riproporre questo cammino anche con altre organizzazioni. Ci si conosce meglio venendo allo scoperto non solo con il dialogo, ma anche con la coerenza del detto con i fatti; questo consente di stabilire una relazione chiara, reale, un’unione che ci anima a continuare la lotta, a partire dal concreto, per il cambiamento del mondo con la gente, a partire dalla gente. Quale contributo potete dare voi, che vi impegnate per il cambiamento in America Latina a chi si impegna per il cambiamento in Europa? Collaboratori e volontari, CFG e SVI, abbiamo fatto passi avanti verso una relazione di mutuo beneficio perché ci unisce un proposito comune, la causa della costruzione di una realtà diversa da quella attuale; noi in Venezuela, questa realtà, la chiamiamo “socialismo”, un nuovo socialismo passato attraverso la nostra esperienza come popolo. Qui è rinata la speranza che è possibile cambiare: abbiamo un Paese e un continente che ardono di desiderio di avere un futuro degno per le proprie genti e di costruire una nuova cittadinanza, che non assomigli alla cittadinanza individualista consumista del capitalismo. Ci manca ancora molto cammino da fare; però ci siamo lanciati a camminare. Se qualcosa possiamo apportare ai nostri fratelli europei, è la nostra speranza che si traduce ogni giorno nell’impulso di fare la rivoluzione. Hendrick Torres Venezuela, America del Sud 27 A SCUOLA DI CITTADINANZA PERÙ Michela Vergine e Alessando Simini, con lo SVI a Zurite [Perù] dal 1998 al 2001 e nel Paese latinoamericano anche in seguito, sempre in collaborazione con lo IER, tracciano una storia della presenza dell’organismo nell’area andina. Come ebbe inizio la presenza SVI in Perù? Il progetto SVI di Zurite-Cusco è nato dell’incontro abbastanza casuale tra Gianni Lorigliola e il parroco di una importante parrocchia della città di Cusco, padre Nicanor Acuna. Quest’ultimo era uno dei rappresentanti e fondatori dello IER [Instituto de Educaciòn Rural], persona molto sensibile alle problematiche sociali, in particolare della gente campesina. Un anno prima con un piccolo gruppo di giovani padre Nicanor aveva avviato una nuova centrale di formazione dello IER a Zurite, un paesino rurale a circa un’ora da Cusco. La forza di volontà e l’entusiasmo non mancavano; però, come in tutti i progetti, non si poteva trascurare l’aspetto finanziario. L’incontro tra Nicanor e Gianni e poi con altri componenti dello IER Nazionale fece emergere una proposta di intervento cui lo SVI diede seguito, dando il via al progetto di Zurite: i primi volontari partirono nell’aprile del ‘98. In che cosa consisteva l’azione? Obiettivo dello IER è offrire formazione in ambito agro-zootecnico ai campesinos che spesso, per fattori socio-economici, non hanno l’opportunità di studiare e di prepararsi tecnicamente. I corsi realizzati sono pratici, per offrire una formazione adeguata alla realtà campesina e per non escludere chi non sa leggere e scrivere. Per questo motivo la scuola attrezzò aree produttive dimostrative per il tirocinio degli alunni: stalle per allevamento bovini, suini e cuyes [porcellini d’India], orto, serre, forno, laboratorio di trasformazione del latte e della frutta, mulini, falegnameria, laboratorio di maglieria. I corsi sono definiti di “formazione integrale”, perché non solo toccano l’aspetto tecnico-produttivo, ma approfondiscono anche tematiche socioeconomiche e di formazione umana. Considerata il vostro servizio pluriennale nel Paese, potete riportarci una breve storia del progetto? I primi volontari si inserirono nell’équipe di tecnici peruviani che da Alessandro Simini... 28 due anni cercava di avviare questa scuola con le proprie risorse. Subito si dedicarono a consolidare il gruppo, poco coeso a motivo della diversità di storie e interessi di coloro che ne facevano parte, si implementarono le aree produttive e si idearono piani d’azione più sistematici: all’inizio tutto era ancora condotto in modo spontaneo e confuso. Dal quarto anno, con l’arrivo della seconda coppia di volontari, si aprirono più attività verso l’esterno cercando collaborazioni con il municipio e altre realtà locali. Infine, negli ultimi tre anni, con l’arrivo di due coppie di volontari e con l’approvazione del finanziamento da parte del Ministero degli Affari Esteri italiano, si consolidarono le attività di formazione e di produzione e si ristrutturò parte degli edifici del Centro. Nell’ultimo anno si cercò di ridurre gradualmente l’appoggio dello SVI in modo da permettere all’Istituto di camminare con le proprie forze. Diverse fasi dell’azione, diversi volontari, diversi stili d’approccio... Ogni periodo è stato caratterizzato da volontari con proprie storie di vita, propri valori e propri orientamenti. Queste diversità hanno segnato il progetto con la loro presenza. Da un certo punto di vista hanno costituito una ricchezza: ognuno ha portato il proprio contributo personale al progetto; d’altro lato abbiamo percepito la difficoltà da parte della controparte di capire i nuovi volontari e di adeguarsi allo stile di presenza di ciascuno; illuminante fu la richiesta da parte di uno dei fondatori dello IER di poter conoscere prima le caratteristiche del futuro volontario e di poter decidere se accettare la sua presenza. 21 giugno PERÙ Il programma 09:00 – Accoglienza 09:45 – Saluto del presidente e apertura dei lavori E Michela Vergine... A conclusione della presenza SVI nell’area, quali i cambiamenti realizzati nel contesto? Il progetto SVI-Zurite ha operato per più di 9 anni in collaborazione con lo IER che già lavorava sul territorio; durante questo periodo con le diverse attività sono state raggiunte centinaia di persone; credo che nella zona di intervento si sia comunque forgiata una generazione di leader comunitari, anche perché la formazione offerta era integrale e toccava aspetti tecnici, umano-sociali e spirituali. Riteniamo che la filosofia di intervento dello IER, così come è stata pensata, sia veramente valida; e lo SVI ha dato alla centrale di Zurite la possibilità di renderla operativa. Michela Vergine Alessandro Simini 10:00 – Tavola rotonda “40 anni SVI – Storia e possibili sviluppi” Coordina: C. Donneschi Intervengono: A. Ungari [La genesi], M. Piazza [La formazione], Volontari rientrati [I progetti], S. De Toni [L’attività in Italia], L. Bisceglia [Il futuro]. 12:00 – Discussione plenaria e conclusioni. 12:45 – Pranzo [menù: risotto, tagliata di chianina con caponata di verdure al forno, insalata fresca, dolce, acqua, vino, caffè] 15:00 – Intrattenimento musicale RADIO CLOCHART 16:30 – Premiazione concorso fotografico ed estrazione premi lotteria 17:00 – Santa Messa officiata da Mons. Battista Targhetti Nota metodologica al numero I lettori avranno notato che il numero di Esserci che hanno tra le mani non contiene una trattazione sistematica dei progetti SVI: sono stati esclusi aggiornamenti sulle azioni in atto [già esposte sui numeri ordinari di Esserci] e non sono stati nemmeno considerati i progetti SVI in Kenya e in Paraguay [questo per banali problemi di spazio e per contingenze che hanno impedito alla redazione di reperire testimoni]. Inoltre, in merito ai Paesi in cui lo SVI è presente, queste pagine non raccolgono una storia esaustiva di tutte le azioni che l’organismo vi ha condotto. Infine mancano gli scritti di testimoni che sarebbe stato necessario coinvolgere. Purtroppo un numero che avesse riportato testimonianze su tutti i progetti SVI coinvolgendo un volontario per progetto avrebbe avuto costi e richiesto tempi esorbitanti, almeno per le limitate possibilità della redazione. Ho comunque seguito un ordine nella compilazio- ne delle testimonianze. Per dare almeno un’idea del senso soggiacente allo sviluppo storico della presenza SVI nel sud del mondo ho usato un triplice criterio: storico, causale e geografico. Ho presentato prima i progetti che, nella realtà, hanno avuto inizio prima [criterio di priorità storica], mantenendo collegati, in questo flusso di sviluppo cronologico, progetti che, per quanto in Paesi diversi da quello originario, ne costituiscano filiazioni [criterio di connessione causale]. Ho infine puntato a tenere separati progetti africani e progetti latinoamericani per le particolarità d’approccio che si riscontrano nelle azioni condotte nei due continenti e per facilitare un confronto. Le testimonianze sono precedute da un quadro sinottico dei progetti SVI nel mondo per aiutare i lettori a orientarsi nel dedalo. Il coordinatore di redazione 29 GLOBALIZZAZIONE IL MONDO DOPO IL G20 DI LONDRA Recessione, disoccupazione… La crisi è tale da provocare, fatto unico nella storia, ben tre riunioni dei venti Capi di Stato e di governo più potenti nel mondo in meno di un anno. Il summit del G20 di Londra svoltosi il 2 aprile 2009 ha messo sul tavolo somme favolose, adottato alcune buone risoluzioni, riconosciuto il peso di numerosi Paesi emergenti e dato alla Cina l’occasione di porre la propria candidatura per un’associazione con gli Stati Uniti che non hanno negato il proprio accordo. Ciononostante, nessuno ha proposto uno scenario convincente per uscire dalla crisi. Ricordava su Le Monde l’ex direttore del quotidiano parigino André Fontaine che Balzac, alcuni anni prima della Rivoluzione del 1848, aveva scritto Le illusioni perdute; il titolo si sarebbe ben applicato, continuava Fontaine, tanto alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 quanto al famoso venerdì nero del 1929 a Wall Street, del quale la crisi attuale ricorda sotto molti aspetti le origini e lo svolgimento. Soltanto nel 1932, con l’elezione alla Casa Bianca di Franklin Roosvelt e grazie al suo New Deal, gli Stati Uniti si rimisero in marcia; ma fu la guerra – con i suoi terribili massacri e le distruzioni – a creare bisogni colossali, generatori di piena occupazione. Il suolo degli Stati Uniti era stato risparmiato dalle operazioni belliche; e le perdite riportate furono di gran lunga inferiori sia a quelle dei loro alleati che dei nemici; gli USA non potevano non diventare leader, garanti, fornitori e banchieri del nuovo ordine mondiale, concretizzato dalle Nazioni Unite con gli accordi monetari di Bretton Woods e con il patto atlantico per la creazione della “Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economici” [OCSE]. Ci si sarebbe dovuti accorgere [come fecero Keynes e pochi altri] del carattere congiunturale, e pertanto eccezionale, della ripresa e non si sarebbe dovuto prendere per oro colato il preteso automatismo degli aggiustamenti della meccanica libero-scambista cara ad Adam Smith e alla sua “mano invisibile dei mercati”. La perfezione non è di questo mondo: i bisogni crescenti delle popolazioni che si moltiplicavano rimettevano in discussione equilibri secolari. Si pensi alla crisi petrolifera degli anni ’70. O a quando Nixon, per ripianare il debito pubblico USA salito alle stelle dopo la rovinosa guerra del Vietnam, decise, nel 1971, di sopprimere la libera convertibilità del dollaro: tutta la costruzione liberale venne messa in discussione. Nel 1989 il naufragio economico ed ideologico dell’URSS e dei suoi satelliti ridaranno vigore al liberalismo. Mikhail Gorbaciov, duecento anni dopo la caduta della Bastiglia e 72 anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, non dovrà soltanto lasciar distruggere il Muro di Berlino ma, in visita a Bonn nel luglio 1989, dovrà chiedere ad un Helmut Kohl, troppo felice di accettare, di inviare d’urgenza a Mosca aerei militari tedeschi per aiutare la popolazione a fronteggiare una situazione di grave penuria alimentare: il modello economico e politico dello statalismo leninista e stalinista si dissolveva in un nulla e non era in grado di garantire il pacificato mondo post-rivoluzionario prefigurato da Marx. Così in quegli anni Francis Fukuyama profetizzerà la prossima fine della Storia, per “l’esaurimento delle alternative sistematiche al liberalismo occidentale”. Gli Stati Uniti si vanteranno di essere “la sola superpotenza” o, per usare la terminologia di Ronald Reagan, “il faro di speranza per tutta l’umanità”: trader superdotati esploreranno tutte le possibilità della matematica per creare, partendo dal nulla, come nelle evangeliche Nozze di Cana, decine di migliaia di dollari. Se ne sono visti gli esiti. Barack Obama - l’intelligenza, il coraggio, l’eleganza morale - è manifestamente agli antipodi delle fantasticherie dei suoi predecessori. Chiamato a svolgere, per il peso essenziale del suo Paese sullo scacchiere globale, un ruolo principale a proposito della crisi mondiale, è giustificato nell’affermare la sua leadership; ma vi riuscirà soltanto se saprà contemporaneamente rispettare e farsi rispettare, ascoltare e farsi ascoltare. In ogni caso, comunque, l’accompagnano gli auguri della grande maggioranza. Gabriele Smussi Sospetto verso le irrealistiche ricette dei bianchi bianchi.. 30 SUGGESTIONI Playing. RECENSIONI ASCOLTARE ROKIA TRAORÈ Bowmboï Nonesuch 2003 LEGGERE OPAL [A CURA DI] Armi, un’occasione da perdere. II annuario OPAL Bologna EMI 2009 VEDERE LEANDRO MANFRINI WILLY BAGGI Tiziano Terzani. Il Kamikaze della pace Italia 2007 51’ NAVIGARE www.myfootprint.org La cantante maliana Rokia Traoré con tre album e centinaia di concerti fra Africa, Europa e America si è conquistata un posto di primo piano fra gli artisti africani di fama internazionale. Conosce a fondo la tradizione del suo Paese d’origine, sia dal punto di vista dell’uso degli strumenti sia per le citazioni del patrimonio dei cantastorie griot. Musica africana contemporanea, che abbraccia anche influenze folk, rock ed elettroniche. E proprio in Bowmboï, il suo terzo album, l’artista dimostra la sua maturità espressiva, affermando: “Per me è fondamentale il dialogo tra culture”; per questo scrive i testi in francese e in bamanan, la lingua della sua etnia, facendo arrivare così il suo messaggio al pubblico sia africano che europeo. La musica di Rokia è musica di storie semplici, di consapevolezza, di riscoperta delle proprie origini, una sorta di folk-roots, un disco riflessivo, intenso, introspettivo, a tratti malinconico, ma che non rinuncia a canzoni con veri e propri crescendo supportati da magistrali percussioni, strumenti classici affiancati agli strumenti tradizionali. Fra i temi affrontati la difficile condizione dei bambini e della donna in Africa, la fragilità dei rapporti d’amore, i conflitti fra civiltà diverse. In un convegno svoltosi nell’Auditorium dell’Istituto Artigianelli di Brescia il 18 aprile 2009 è stato presentato alla cittadinanza il 2° Annuario di OPAL, “Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa”, dal titolo Armi, un’occasione da perdere. Ad OPAL, quale membro di “Brescia Solidale”, aderisce anche lo SVI. Nella presentazione si è insistito tanto sull’incremento delle ingenti spese militari nel nostro Paese [che i cittadini continuano a sopportare], in netto contrasto con il ruolo di secondo piano dell’Italia nella collocazione internazionale, quanto sulla sempre minor trasparenza degli investimenti militari. È proprio vero, come si sostiene, che le spese militari assicurino la crescita economica e l’occupazione o piuttosto i fondi stanziati impediscono invece investimenti più produttivi in altri settori che sarebbero prioritari, quali educazione e sanità? Quale ruolo potrebbe giocare la Chiesa cattolica in tale contesto? E come la produzione di armi interpella la coscienza dei cristiani? “Ancor più che fuori le cause della guerra sono dentro di noi... Sono in passioni come il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità... Lentamente bisogna liberarcene... Cambiare atteggiamento... Cominciamo a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri sulla base di una maggiore moralità e di minor interesse...” Inizia così questo documento, straordinario per la forza e la profondità del suo messaggio. In modo asciutto e sobrio, il film Tiziano Terzani. Il Kamikaze della pace racconta il “pellegrinaggio di pace” che Terzani fece nel 2002 nelle scuole italiane, in cui con semplicità affrontò grandi temi quali la guerra, la spiritualità, l’ambiente, la morte, la condizione femminile. 51’ minuti di amore, di esperienze, di pace; 51’ minuti che restano dentro anche dopo aver spento il lettore dvd e il giorno dopo e quello dopo ancora... Boccata d’aria fresca in un momento storico e sociale così inquinato. Terzani, con le sue parole, lascia un’eredità inestimabile: la voglia di sperare e cambiare il mondo, a partire da noi stessi. Claudia Pisano L’impronta ecologica è il “peso” che sopporta il pianeta per sostentare lo stile di vita di una persona, di una famiglia o di una nazione intera. Il concetto sta avendo presa sul grande pubblico per la possibilità di misurare il proprio impatto sull’ecosistema. Esistono varie risorse web per calcolarlo. Redefining Progress è un think tank californiano che elabora strategie di crescita economica sostenibili e in grado di sfidare i modelli convenzionali, incapaci di tenere conto dei danni che lo sviluppo arreca all’ambiente. All’interno del sito collegato a RP, myfootprint.org, inserendo le proprie abitudini quotidiane, è possibile calcolare il proprio impatto espresso in Ettari Globali [gha]: la superficie di terra e oceano necessari per sostenere il nostro stile di vita. Ognuno di noi dispone in media di 1,8 gha, ma ne consuma [sempre in media] molti di più. Questo signifi- ca che, soprattutto a causa dei modelli di produzione e consumo dei paesi del Nord del mondo, ogni anno l’umanità depaupera il pianeta di risorse che non saranno disponibili per le generazioni future. Sempre allo stesso indirizzo web è possibile attingere a consigli per ridurre il proprio impatto, prevedibilmente alto se state leggendo dall’Italia. Una versione in italiano del test è disponibile sul network della Rete Lilluput [http://www.retelilliput. it/modules/DownloadsPlus/uploads/Documenti_Tematici/ie2004manuale.pdf]. Nicoletta Quartini Gabriele Smussi Jacopo Tronconi Rubrica curata in collaborazione con: CSAM (Centro Saveriano di Animazione Missionaria) - Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia - www.saveriani.bs.it 40 ANNI DI VOLONTARI SVI Maura Agosti – Sergio Belotti – Luigi Gardin – Patrizia Minazzato in Gardin – Claudio Bianchi – Rosanna Zappa – Roberto Bobbo – Antonella Barboni in Cattaneo – Maurizio Cattaneo – Battista Dassa – Anna Maria Guareschi – Mauro Serventi – Cecilia Zardetto – Enrico Fantoni – Emilia Benelli – Teresa Fenaroli in Pasotti – Salvatore Pasotti – Ivana Schiavi in Tavelli – Gianni Tavelli – Egle Donatella Castrezzati in Sberna – Mario Sberna – Rosetta Caldana – Maria Daria Dessì – Alessandra Viviani – Socorro Dos Santos – Vincenzo Ghirardi – Giovanni Gillini – Stella Pietropaolo – Umberto Bosetti – Giuseppe Bignotti – Marcello Alghisi – Marisete De Oliveira – Giacomo Morandini – Giacomo Sorlini – Gloriana Sorlini – Silvano Boschi – Enrica Radici in Boschi – Alessio Gabrielli – Pietro Gelfi – Paolo Belleri – Neris Coati – Nara Giannessi – Giuseppe Cadei – Claudio Gasparini – Vincenzo Bettoni – Bruno Cottinelli – Mario Finocchio – Luigi Melgari – Raabe Gunter – Aldo Ungari – Antonio Della Fiore – Gianmichele Portieri – Achille Frusca Boeris – Gianfranco Anni – Franco Cattaneo – Luigi Zenier – Ernesto Mazzolari – Umberto Vergine – Fausto Lonati – Luigi Filippini – Piero Zacquini – Dora Zacquini – Tullio Zearo – Letizia Miriam Pasolini – Guido Marinoni – Gianbenedetto Colombo – Imelda Tralli – Giambi Anni – Nicola Bonvicini – Edoardo Bernardi – Roberto Brunelli – Savina Cadei in Brunelli – Evelina Uberti in Zearo – Gino Villa – Gianfranco Craighero – Giovanni Gobbi – Mario Rubagotti – Doriana Zamboni in Gobbi – Mauro Arizzi – Carolina Visini – Paolo Marelli – Maria Zamolo in Bortolotti – Mario Bortolotti – Massimo Pagani – Angiola Baitelli in Pagani – Carlo Meroni – Firmo Temponi – Beatrice Venturini in Temponi – Piero Bianchi – Aurelio Valentini – Francesco Dall’Olio – Abbondanza Agrusto – Aureliano Becchetti – Daniela Pasini in Craighero – Guglielmino Baitelli – Fabrizia Baronchelli – Stefania Vezzoli in Baitelli – Giuseppe Gerri – Giuseppina Cunial – Roberta Pasin – Rosetta Rubert – Antonietta Sperandio – Lucia Colombo – Ida Bernardi – Vania Vettoretti – Bruno Pierasco – Lucio Merzi – Teresa Zearo – Tania Tagliaferro – Carolina Visini – Gabriele Febbrari – Marco Bazoli – Damiano Rossi – Francesca Belotti – Angela Bresciani in Vergine – Carla Cerri – Savina Cadei – Maria Belleri – Laura Ungari – Margherita Verzeletti – Claudia Rivoli – Teresa Quagliata – Giuseppina Abastanotti – Marilena Angelini – Vigilia Bettinsoli – Carolina Cimonetti – Maria Rosa Chiesa – Maria Carolina Dellanoce – Laura Fenato – Gianna Marchetto – Enrico Cabra – Rachele Sangalli – Chiara Bresciani – Elio Pitozzi – Tarcisio Moreschi – Lucio Benedetti – Gianni Marini – Cecilia Cadeo in Marini – Maria Rita De Momi in Fini – Bruno Fini – Giorgio Munegato – Maria Teresa Cobelli – Oliviero Davolio – Zemira Vaglia – Virginia Rota – Maria Visentin – Luigi Filippini – Luigi Esposito – Alessandro Simini – Michela Vergine in Simini – Alberto Birocco – Claudia Gamba – Michele Vezzoli – Bruno Iukich – Roberto Ronca – Flavia Bianchi – Gianni Lorigliola – Gabriella Tosetto – Giampietro Firmo – Rino Franceschi – don Luigi Spaltro – Alberto Facella – Gianfranco Marcoli – Paolo Bonzi – David Vervroegen – Anna Bertoli in Ghidini – Sergio Ghidini – Enzo Pezzini – Valerio Belotti – Daniela Sala in Belotti – don Gabriele Scalmana – Lucio Benedetti – Giuseppe Marini – Paolo Giorgi – Gabriella Maccarana in Giorgi – Laura Ungari – Ernestina Cornacchia – Pasqualina Di Filippo – Sergio Terzi – Giulia Cherubini – Nunzio Giubertoni – Michele Scarazzato – Renata Trivella in Scarazzato – Maria Carolina Dellanoce – Elena Mandora – Luciano Savardi – Giovanni Battista Albertini – Gabriele Smussi – Sandro Cigolini – Andrea Omodei – Amelia Rota – Fabio Gatti – Cinzia Tarletti – Romina Rinaldi – Luigi Consonni – Cristina Giustozzi – Teresa Lonardini – Roberta Brusaferri – Carla Cerri – Rino Franceschi – Fausto Dreos – Paolo Bonzi – Mauro Modena – Claire Rheaume – Loredana Sabbatucci – Franca Mondini – Lucia Cancarini – Giuliano Consoli – Andrea Moneta – Evardo Rota – Maria Poloni – Pierluigi Sinibaldi – Giuliano Consoli – Luigi Bezzi – Giovanna Ferretti – Marilena Terzi – Renzo Pertile – Angela Briarava – Isabella Sacchella – Tullio Rubinelli – Gabriele Devoti – Massimo Biagetti – Claudio Chiappa – Alessandro Bettoli – Samuele Saleri – Luca Ruggeri – Roberto Beschi – Elvio Basotti – Fausto Conter – Vittoria Foglia – Enrica Cavalleri – Giampietro Gambirasio – Turelli Luca – Fabio Poli – Federica Nassini in Signoroni – Giacomo Signoroni – Isabella Sacchella – Marilena Valvano – Riccardo Sudati – Luisa Picchieri – Armanda Ravelli – Jazmina Silva Martha in Bo’ – Manuela Giovanna Bonacina in Peverata – Gianluigi Peverata – Marco Bo’ – Romano Cagni – Elena Matteucci in Cagni – Massimo Ginammi – Laura Crawford – Massimo Tanghetti – Marina Moreni – Mario De Carolis – Maria Veronesi – Rosanna Micheletti – Maria Giuseppina Capanni – Carla Ficola in Tintorri – Fabrizio Tintorri – Pio Baistrocchi – Gianluca Bassani – Giuliano Pizzoni – Daniela Silvestri in Pizzoni – Giovanna Paini in Rigoni – Luca Rigoni – Brasellina Brustolin – Nicola Desantis – Carolina Visini – Vincenza Carbè – Paola Giovanna Tobanelli – Pietro Manerba – Antonia Simionato – Rosanna Cavarero – Carmen Zurlo – Assunta Marcandelli – Laura Fenato – Sergio Vezzola – Giuliana Zuliani – Adele Carli Ballola – Carla Petrillo – Giuseppe Alessandrini – Rosaria Migliorati in Alessandrini – Antonia Simionato – Lidia Calì – Maurizio Pedercini – Alberto Rocco – Irene Lorandi Albino Franzoni – Maria Goretti Gahimbare GRAZIE!