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40 anni di volontari SVI DOSSIER Speciale 40 anni SVI
Pubblicazione trimestrale del servizio volontario internazionale - Anno XXII - Giugno 2009 - Sped. in abb. post.art. 20/c. - L. 662/96 - Fil. di Brescia Autorizz. del Tribunale di Brescia n° 64/89 del 12/02/1989
In caso di mancata consegna rinviare all’UFFICIO POSTALE DI BRESCIA CMP detentore del conto per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tariffa.
Servizio Volontario Internazionale
esserci
03
DOSSIER
Speciale
40 anni SVI
Ne è
valsa
la pena?
Il mondo
dopo il G20
di Londra
40 anni
di volontari
SVI
esserci
03 Editoriale
Ne è valsa la pena?
04 Dossier “Speciale 40 anni SVI”
04 Storia - È nato lo SVI
05 Quadro sinottico – Progetti SVI 1969-2009
06 Burundi – Il seme [Kiremba]
07 Burundi – Per la salute integrale [Mubuga]
08 Burundi – Nelle strutture [Gitega]
09 Rwanda – In mezzo alla gente [Nyabimata]
10 Rwanda – La mia vita coi volontari SVI [ Nyabimata]
10 Rwanda – Il tempo necessario per i cambiamenti
[Kibeho]
11 Rwanda – Piani nazionali, esigenze locali [Nyarulema]
12 Tanzania – Emergenza o sviluppo? [Lumasi]
13 Zambia – A distanza... [Meheba]
14 Uganda – Un approccio pragmatico [Namalu e Iriiri]
16 Congo – La voglia di cambiare [Ango]
18 Senegal – Gestire o animare? [Parcelles Assainies]
19 Brasile – Per un mondo più fraterno [Medina]
21 Brasile – Una benedizione di Dio [Viseu]
22 Brasile - Elogio della leggerezza [S. Luzia]
23 Venezuela – La relazione al centro [S. Felix]
25 Venezuela – Una vita rinnovata [S. Felix]
26 Venezuela – Ci siamo lanciati a camminare [Moscù]
28 Perù – A scuola di cittadinanza [Zurite]
29 Nota metodologica al numero
29 21 giugno – Il programma
30 Globalizzazione
Il mondo dopo il G20 di Londra
Gino Filippini, durante il suo servizio in
Rwanda. [ph arch. Kiremba]
31 Suggestioni
CD – Bowmboï
Libri – Armi, un’occasione da perdere
Film – Tiziano Terzani
Web – Myfootprint
32 40 anni di volontari SVI
In copertina
L’eterno è un bambino
che gioca a dadi:
di un bambino è il regno.
[Eraclito di Efeso]
Esserci a cura del
Servizio Volontario Internazionale
S.V.I.
V.le Venezia, 116
25123 Brescia
tel. 030 3367915
fax 030 3361763
http://www.svibrescia.it
email: [email protected]
Gruppo di redazione
Direttore responsabile: Claudio Donneschi;
Coordinamento di redazione: Sandro De
Toni; Gruppo di redazione: Cyprien Bakara,
Federico Bonzi, Lia Guerrini, Rosario Manisera, Caterina Pedrana, Claudia Pisano,
Terry Rizzini, Gabriele Scalmana, Gabriele
Smussi, Jacopo Tronconi, Aldo Ungari.
Realizzazione grafica: Arianna Caldera, Daniela Mena, Dominique Palumbo (impaginazione), Valentina Botturi, Alessandro
Cucinelli, Elena Viscardi (progetto grafico),
ddt (imaging).
Tipografia:
2
GAM - Rudiano (Bs)
Come collaborare:
CCP: 10236255
CC bancario n° 000000504030
Banca Etica - filiale di Brescia
IBAN: IT02L0501811200000000504030
EDITORIALE
NE È VALSA LA PENA?
Festeggiare un anniversario può sembrare un esercizio autocelebrativo,
oppure può essere l’occasione per una sorta di esame di coscienza;
sta di fatto che la domanda di fondo che mi pongo in questi giorni è “Ne è valsa la pena?”
È valso la pena impegnare risorse,
economiche e non, per quarant’anni, allo scopo di cercare di dar fiato
ad un’associazione che si prefiggeva
e si prefigge di ricercare, formare e
inviare volontari nel sud del mondo,
giovani e meno giovani, tutte persone con in testa l’idea che cambiare
questo mondo è possibile?
É valsa la pena di rimanere fermi nella
consapevolezza che, per raggiungere l’obiettivo di giustizia che ci siamo
posti, è necessaria una volontà forte
di reciproca conoscenza fra i popoli
e le nazioni, la disponibilità a lasciarci
coinvolgere anche a costo di qualche
rinuncia, di “esserci” e mettersi in gioco in un’esperienza di dialogo, condivisione e collaborazione fra culture
diverse, con il desiderio di attivare nelle comunità con le quali abbiamo
avviato il dialogo - quei processi di
sviluppo autentico e autoctono che
possono contribuire a ridurre il divario sempre più pesante fra la società
occidentale e il resto del pianeta?
quelle della diocesi di Aracuai, in Brasile, del Karamoja in Uganda, della regione di Ciudad Gujana in Venezuela,
della diocesi di Bondo in Zaire [oggi
Congo], ancora con quelle del Parà
in Brasile, della zona del Cusco in
Perù, della città di Dakar in Senegal,
per finire con i profughi rwandesi e
le comunità kaonde del nord dello
Zambia, senza scordarci le esperienze del campo profughi in Tanzania,
dell’accompagnamento all’esperienza di Gino Filippini nella baraccopoli
di Nairobi, o a quella di padre Zanardini in Paraguay.
Non è facile oggi dar conto di tutto
questo in termini dettagliati, anche
perché ci siamo sempre preoccupati
più delle attività “sul campo” che della raccolta e della catalogazione dei
dati; ma l’esercizio di analisi svolto
per preparare l’evento del 21 giugno
prossimo mi dice che sì, ne è valsa la
pena, e che questo impegno merita
tutto il nostro sforzo perché continui,
per offrire ancora a nuovi volontari e
a nuove comunità del sud del mondo
la possibilità di vivere un’esperienza
di scambio e di crescita in comune.
In questo numero speciale della nostra rivista cerchiamo allora di dar
conto di questa esperienza con alcune testimonianze, che non possono
contemplare tutte le esperienze vissute ma ci aiutano a seguire un percorso ideale che ci porta dalle origini
all’attualità; e da questa in avanti...
C’è ancora spazio per molte nuove
entusiasmanti esperienze.
Mario Rubagotti
Allo SVI abbiamo vissuto, e stiamo
tutt’ora vivendo, un’esperienza molto ricca ed entusiasmante, nel corso
della quale non abbiamo ricercato
l’apparenza fine a se stessa, non ci
siamo cimentati nella realizzazione
di grandi strutture o di progetti faraonici, ma sempre abbiamo cercato di costruire ponti fra la comunità
italiana, e bresciana in particolare, e
le comunità dei molti sud del mondo
che in questi quarant’anni abbiamo
incrociato nella nostra esperienza.
Abbiamo in questo modo costruito
rapporti con alcune comunità del Burundi, il primo Paese nel quale lo SVI
ha iniziato a operare, poi con alcune
comunità del Rwanda, a seguire con
Maria Teresa Cobelli mentre assiste
un bambino. [ph arch. Kiremba]
3
È NATO LO SVI
A SERVIZIO DEI GIOVANI
STORIA
(SE RV IZ IO VO LONTA R I O I NTER NA Z I ONA LE)
Così si apriva, a firma del redattore Gianmichele Portieri,
l’articolo a p. 1 di Kiremba 12/1969 nel quale si annunciava la nascita dell’organismo.
Riportiamo in forma integrale l’intervento della storica rivista dell’Ufficio Missionario Diocesano di Brescia.
Da leggere e meditare.
Il 21 giugno scorso, in occasione del sesto anniversario dell’incoronazione di Paolo VI, e quindi il VI anniversario della fondazione di Kiremba, un gruppo di
dirigenti del Glam, alcuni membri della Commissione
per l’ospedale di Kiremba e altri amici in rappresentanza di associazioni bresciane si sono riuniti davanti al
notaio Angelini per firmare l’atto costitutivo dell’Associazione Servizio Volontario Internazionale (S.V.I.).
Il gruppo era guidato dall’attuale Presidente del Glam,
Geom. Mario Dioni, e dal direttore dell’Ufficio Missionario, Sac. Renato Monolo.
Tra i soci fondatori figurano due parlamentari bresciani, gli onorevoli Franco Salvi e Pietro Padula, e alcuni
reduci da un servizio in Africa già noti ai nostri lettori:
Aldo Ungari, Fausto Lonati, Savina Cadei [ora signora
Brunelli], Laura Ungari e Gianmichele Portieri [redattore di questo notiziario].
Del Glam, oltre al presidente, c’era l’assistente Don
Gianbattista Targhetti e il Rag. Edoardo Donati, in
rappresentanza anche del gruppo Campo Emmaus, e
Giambi Anni, per il gruppo Mogadiscio. Della commissione per l’ospedale c’erano la Dott. Brunelli [che ne è
presidente], la signorina Pollastri e Don Felice Bonomi.
L’Assemblea dei fondatori ha anche provveduto ad
eleggere le cariche sociali; ed è giusto che il nostro
notiziario ne dia notizia.
Presidente è stato fatto il Geom. Dioni, Vicepresidente
il Dott. Ungari, Segretario Gianmichele Portieri e ConKiremba fu esperienza
fondante per lo SVI.
Nell’immagine, da sx, Aldo
Ungari, Umberto Vergine,
don Renato Monolo, don
Felice Bonomi, Gino Filippini,
don Giovanni Arrigotti, don
Giovanni Belotti, padre Paolo
Treccani e Fausto Lonati in
una foto di gruppo durante
il loro servizio presso la
missione [ph arch. Kiremba].
4
siglieri don Monolo e l’On. Salvi.
Revisori dei conti sono le signorine Ungari e Pollastri.
Direttore del centro di formazione, che sarà il fulcro
del nuovo organismo, Don Giambattista Targhetti.
Sostanzialmente sono stati lasciati invariati gli incarichi rispetto al Glam. Infatti la nascita del Servizio Volontario Internazionale non modifica nulla. Solamente
si è voluto dare veste giuridica a ciò che il Glam fa per
l’invio di personale. Ci è sembrato giusto che chi parte
rischiando parecchi anni della sua vita abbia dietro di
sé una organizzazione seria e che risponda anche davanti alla legge degli impegni presi. I volontari d’ora in
poi firmeranno un contratto nel quale sarà specificato
il trattamento fatto loro. Una cosa seria, insomma, che
testimonia come il Glam abbia saputo in pochi anni
raggiungere un grado di maturità molto elevato. Ciò
nonostante non si è voluto lasciare il Glam. La veste
giuridica è sempre una veste scomoda e lenta da indossare. Il Glam perciò continuerà a funzionare senza
verbali e scartoffie fornendo poi i suoi giovani migliori
allo S.V.I. perché provveda al loro invio e al loro mantenimento.
I giovani perciò continueranno a frequentare il Glam
come prima e a cercare in esso le forme più libere e
spregiudicate per esprimere il loro impegno e il loro
amore per il terzo mondo.
La redazione di Kiremba
PROGETTI SVI
TI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SV
VI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PROGETTI SVI PR
BURUNDI
IL SEME
Un dono della comunità bresciana a Paolo VI, papa bresciano, e,
allo stesso tempo, un modo per dare voce alle istanze di cambiamento
presenti nella Chiesa e nella società; questo fu il progetto di Kiremba
nel ricordo di Massimo Pagani, volontario SVI in Burundi dal 1977 al 1979.
1. Come nacque l’esperienza di Kiremba, in assoluto il primo progetto SVI?
L’esperienza di Kiremba nacque negli anni ‘70, in occasione del pontificato di Paolo VI, il nostro Papa bresciano; la tradizione dice che volle essere un regalo
della comunità bresciana, ecclesiale e laica insieme, al
suo pontefice.
Ma è altrettanto vero che lo spirito di quegli anni guardava con fiducia all’apostolato dei laici, che, nel contesto di una generale presa di coscienza del problema
“terzo mondo”, spingeva giovani e meno giovani a
impegnarsi e a partecipare a qualsiasi attività di appoggio per la soluzione delle gravi difficoltà dei Paesi
impoveriti.
E cosi, anche se in sordina, partì questa nuova missione, che pian piano cresceva sempre più nel senso di
un rapporto di fratellanza fra Brescia e il Burundi.
2. Quale fu il compito del primo gruppo di volontari?
I primi volontari si occuparono delle costruzioni a supporto del progetto: della chiesa, dell’ospedale, dell’atelier. Al loro completamento, si partì con energia
nelle attività locali.
3. E il vostro compito, quale fu? Come si inseriva
nel più ampio intervento SVI?
La nostra presenza, dal ‘77 al ‘79, ci vide lavorare in ambito sanitario, io come medico, e mia moglie Angiola
Baitelli, come insegnante, infermiera, economa, tuttofare insomma.
Nel nostro periodo di servizio, dopo anni di assistenza sanitaria pura e semplice, si cominciava a respirare
aria nuova, a Kiremba: ci si rendeva pian piano conto
della necessità di imboccare un nuova strada, facendo sì che gli interventi, un po’ alla volta, fossero rivolti
più alla prevenzione che alla mera e semplice cura dei
malati.
Nasceva cioè quello spirito di animazione che con gli
anni sarebbe divenuto la principale caratteristica della
presenza SVI nel terzo mondo.
4. Quali risultati ottenne il progetto?
Parlare di risultati è difficile: tutti abbiamo lavorato
sodo per favorire lo sviluppo, l’autonomia di questi
popoli; ma quanto davvero abbiamo potuto incidere
è difficile da sapere.
Viceversa, per noi che abbiamo vissuto una simile
esperienza, è sicuro che ci siamo arricchiti moltissimo,
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conoscendo la loro cultura, il loro modo di accettare la
vita, il profondo senso di Dio che è in loro.
Noi sappiamo che, una volta rientrati dall’esperienza
africana, ci rendiamo davvero conto di quanta fortuna abbiamo avuto a vivere in quella realtà.
5. Quali furono le ricadute nella comunità bresciana al vostro rientro?
Rientrati, ci sorprese positivamente il numero di persone che ci aveva conosciuto attraverso il giornalino
Kiremba [il notiziario del CMD Brescia], ma soprattutto la spinta che convinse poi altri giovani a ripetere la
nostra esperienza.
A questo proposito, ricordiamo che in quel periodo,
dopo la partenza di Lucio Benedetti, vero apripista per
noi volontari, vissero un’esperienza africana con lo SVI
Valerio Belotti, con la moglie Daniela Sala [Rwanda],
Sergio Belotti e Maura Agosti [Brasile], Mino Baitelli e
Stefania Vezzoli, tutti apparenenti al Gruppo Palazzolo.
E se - come dice il proverbio - buon sangue non mente, ricordiamo che Francesca Belotti [in Burundi con
Damiano, suo marito], attualmente volontaria SVI nel
progetto di Mivo, è nata a Kiremba, figlia di volontari!!!
In questi ultimi anni i 4 figli che abbiamo avuto non ci
hanno permesso un impegno molto continuativo con
lo SVI. Ora sono cresciuti. E noi possiamo finalmente
riattivarci in appoggio ai volontari che idealmente
proseguono il cammino da noi intrapreso, molti anni
fa ormai.
Massimo Pagani
Kiremba - Massimo Pagani visita un paziente.
[ph arch. Kiremba]
BURUNDI
PER LA SALUTE INTEGRALE
Laura Ungari, volontaria a Mubuga dal 1967 al 1976, racconta del progetto socio-sanitario
da lei seguito nel Burundi in uno dei periodi più travagliati della storia del Paese.
1. Quando e come nacque il progetto?
L’intervento ebbe inizio nel 1970
su richiesta della popolazione tramite la costituenda parrocchia dei
Padri Bianchi di Mubuga [provincia di Kayanza], ed era rivolto alla
popolazione tutta che reclamava
un intervento sanitario che togliesse la dipendenza della comunità dai centri sanitari di Gatara e
Rukago, distanti e raggiungibili
solo a piedi.
Si realizzarono alcune strutture: un
dispensario, un centro nutrizionale, una maternità, un laboratorio
di analisi di base [per verminosi,
malaria, TBC…]
A ciò si affiancò ben presto anche un servizio di formazione, in
concomitanza con la nascita del
centro sociale [foyer social] che
inizialmente si rivolgeva a donne
e ragazze e poi aprì anche ai giovani.
2. Quali erano i vostri obiettivi?
Sotto il profilo sanitario la formazione del personale inserito nei
vari settori, nella prospettiva del
passaggio di gestione ai responsabili locali.
Sotto il profilo sociale, invece, il
supporto alla scolarizzazione e la
formazione professionale.
3. E quali le attività del progetto?
In ambito sanitario seguivamo la
formazione permanente del personale, di concerto con il settore
sociale; svolgevamo un’azione
educativa/preventiva con svolgimento sistematico e programmato di incontri per gruppi di popolazione tramite metodiche di sensibilizzazione che favorissero una
partecipazione attiva, con materiale didattico adatto allo scopo
[cartelloni, radio, audiocassette,
diapositive]; accompagnavamo i
malnutriti con lezioni di corretta
alimentazione a partire da alimenti in loro possesso; ci occupavamo
anche di controllo della crescita di
lattanti e bambini [fino ai 5 anni], di
vaccinazioni, di visite prenatali per
le donne con gravidanze a rischio,
garantivamo visite ambulatoriali
e terapie [dispensario], assistenza
al parto [maternità], il ricovero per
casi gravi [reparto degenze del dispensario].
Nel sociale, oltre alla formazione permanente delle insegnanti,
davamo supporto all’alfabetizzazione. Inoltre l’orto/frutteto ci
permetteva di sperimentare come
arricchire l’alimentazione quotidiana. Offrivamo anche corsi di
cucito, grazie al piccolo laboratorio che il Centro gestiva a scopo di
autofinanziamento.
Erogavamo anche altre proposte
formative: falegnameria [fabbricazione porte, finestre, sedie e tavoli], elementi base di muratura,
apicoltura, ricerca e gestione delle
sorgenti.
Infine effettuavamo visite periodiche sulle colline per riscontri sulle
attività proposte dal Centro.
Col tempo dislocammo le attività
in due zone nuove [Gitwe-Remera].
4. Come si concluse l’azione? E
con quali esiti?
Nel 1984 il progetto venne consegnato alle suore polacche che
operavano nella vicina parrocchia
di Gatara. Per circa un anno alcune
volontarie, a turno, affiancarono le
suore nell’accompagnamento del
progetto.
Nel 1992 a seguito della “statalizzazione” [operata per ragioni politiche] di buona parte dei Centri
Sanitari privati, le suore polacche
lasciarono il Centro.
A tutt’oggi, pur ridimensionato
nei mezzi, il Centro continua il suo
servizio alla popolazione, con lo
stesso personale formato nel tempo dalle volontarie che si sono
succedute nell’arco di quattordici
anni.
Laura Ungari
Mubuga – Da sx Maria Belleri, Laura Ungari e Vigilia Bettinsoli con alcuni barundi
presso la sede del progetto. [ph arch. Kiremba]
Semina presso la scuola ECRAMA.
7
BURUNDI
NELLE STRUTTURE...
Silvano Boschi, a Gitega [Burundi] con la moglie Enrica Radici dal 1969 al 1972,
rilegge l’esperienza del suo servizio: appoggio tecnico alla Chiesa locale e formazione professionale,
alla ricerca di un rapporto più diretto con la popolazione.
1. La presenza a Gitega nella storia dei progetti SVI in Burundi...
La scelta di un impegno diocesano in campo missionario in Burundi è stata legata alla presenza a Roma di Mons. Makarakiza, a
qual tempo Vescovo della Diocesi di Ngozi e poi divenuto primate
del Burundi, con sede a Gitega, la vecchia capitale.
Per capire la presenza dell’impegno missionario occorre anche richiamare l’atmosfera che si respirava a quei tempi, sia in ambito
ecclesiale che civile, legata ai profondi cambiamenti che avvenivano con la politica di Kennedy e il Concilio Vaticano II; soprattutto
quest’ultimo apriva alla Chiesa Diocesana la possibilità dell’azione
missionaria diretta, prima riservata alla Congregazioni.
Il primo legame della Diocesi di Brescia fu con la Diocesi di Ngozi,
dove dal 1965 si stava realizzando la missione di Kiremba; ma anche con Mons. Makarakiza si era mantenuto un profondo legame
affettivo, concretizzatosi nella presenza di Congregazioni laiche e
di volontari a Gitega.
Il personale europeo era richiesto perlopiù per l’apporto tecnico
di competenze e conoscenze non reperibili in loco.
Si chiedeva anche una presenza che non contrastasse con l’ambiente ecclesiale in cui si operava.
Quale la natura dell’intervento?
La presenza del GLAM/SVI a Gitega ebbe inizio con l’invio di insegnanti presso il locale college e al seminario minore di Mugera,
ma fu sempre una presenza ridotta, se confrontata con il numero
dei volontari in Diocesi di Ngozi [Kiremba, Mubuga, Nyamurenza,
ecc..]: non credo abbia mai superato le due/tre persone.
La presenza si interruppe nel 1972.
I volontari operavano come:
- insegnanti negli istituti superiori e nei seminari;
- personale gestionale/amministrativo [economo] in strutture
scolastiche;
- personale tecnico al servizio dell’economato della Diocesi.
In Burundi la Chiesa aveva una forte componente di gestione di
servizi sociali [scuole, sanità] che le erano stati delegati formalmente dall’Amministrazione civile al tempo del Protettorato belga, ma aveva pure un gran numero di servizi tecnici, per sé ma
anche per terzi [fabbriche di mattoni, cave, atelier di meccanica e
falegnameria, trasporti, imprese edili, ecc.].
C’era un rapporto tra le varie azioni condotte dallo SVI nel
Paese?
La presenza di personale laico era legata a compiti tecnici, sia in
campo sanitario che in altri ambiti: i progetti non necessitavano di
un coordinamento operativo.
Quindi i vari progetti SVI in Burundi non erano raccordati a livello
globale, ma si muovevano entro una griglia fissata dalla normativa locale e dalle consuetudini [Congregazioni].
8
Proprio per superare questo limite, dato anche dalla ridotta conoscenza dell’ambito sociale in cui operavamo [lingua, cultura,
ecc...], da un lato si chiese un periodo di servizio più lungo, dall’altro i volontari iniziarono a frequentare corsi di lingua locale.
C’era però un coordinamento dei volontari in servizio, con un responsabile locale che si preoccupava delle diverse situazioni in
cui si viveva e che organizzava incontri periodici di riflessione sul
senso della nostra presenza, con l’intervento di persone burundesi come esperti.
Quali gli esiti della prima fase di presenza SVI in Burundi
[quella che si concluse con la guerra civile del 1972]?
Valutare l’esito di una presenza così limitata nel tempo, in un contesto così altro, non ha molto senso.
Penso che l’esito più evidente sia stata la maturazione dei volontari, la riflessione su di una realtà che solo la presenza fisica in loco
permette di avvicinare e, in parte, capire, e la trasmissione che se
ne è fatta a Brescia.
Se si vuole comunque fare una valutazione, si può dire che:
- si sono realizzate strutture, soprattutto sanitarie ed ecclesiali, di
cui la popolazione usufruisce ancora oggi;
- è stato formato personale sotto il profilo professionale e in più
settori;
- si assicurano ancora oggi alcuni servizi essenziali in ambito sanitario ed ecclesiale.
Tutto questo è importante; ma di certo non va nella direzione di
un progressivo sviluppo economico locale che, solo, dà la possibilità di avere le risorse necessarie a fornire servizi sociali senza
dover ricorrere all’aiuto esterno.
Silvano Boschi
Da sx mons. Giambattista Targhetti, Silvano Boschi, Battista Dassa,
Cecilia Zardetto, mons. Luigi Morstabilini, Anna Maria Guareschi,
Mauro Serventi, don Franco Benedini, mons. Renato Monolo. [ph
arch. Kiremba]
RWANDA
In mezzo alla GENTE
I primi progetti SVI in Rwanda nacquero dal desiderio di tre giovani volontari [Gino Filippini,
Maria Teresa Cobelli, Lucio Benedetti] di realizzare azioni più vicine alle esigenze delle persone
e delle comunità coinvolte e in accordo con le autorità locali.
Per quali motivi lo SVI, dal Burundi, passò in Rwanda?
Gino Filippini, Maria Teresa Cobelli ed io avevamo svolto la
nostra esperienza di volontariato in Burundi, dove avevamo maturato la volontà di realizzare un progetto che fosse di animazione allo sviluppo, con una nostra presenza
in mezzo alla gente e il più possibile a contatto col loro
modo di vivere.
Stante il clima politico creatosi in seguito al tentativo di ribellione degli hutu ed alla durissima e sanguinaria repressione del governo tutsi in carica, il nostro progetto non
poteva essere realizzato in Burundi.
E allora prendemmo la decisione di guardarci attorno e di
cercare un altro Paese dove avremmo potuto esporre la
nostra idea alle autorità locali, verificare con loro la condivisione dei punti qualificanti il progetto e procedere all’attuazione della nostra azione di animazione.
Insieme ad Aldo Ungari, che per l’occasione ci accompagnava, con una vecchia VW iniziammo un tour di 5.0006.000 km che ci portò a visitare il Rwanda, l’Uganda, il Kenya e la Tanzania.
La scelta cadde sul Rwanda per due ragioni principali: la
prima, l’incontro con padre Vleugels, anche lui animato
dai nostri stessi ideali e desideri progettuali; la seconda
l’atmosfera politica e il clima socio culturale favorevoli riscontrati.
L’apertura di nuovi progetti in Rwanda, oltre che all’impossibile clima sociale originatosi in seguito alla
guerra civile, fu dovuta anche all’esigenza di sperimentare nuovi approcci rispetto a quelli adottati in
alcuni progetti burundesi...
Il progetto di Nyabimata prima e di Kibeho dopo si basavano su alcune considerazioni maturate da ognuno di noi
Lucio Benedetti con un gruppo di giovani a Kibeho.
[ph arch. Kiremba]
a partire dallo svolgimento della propria opera di volontariato. Considerazioni che evidenziavano il limite e le carenze di una presenza troppo lontana dal vivere della gente.
Nelle nostre parrocchie, nei nostri dispensari, nei nostri
centri sociali, nelle nostre scuole noi, i volontari, eravamo
sì al servizio della gente, ma sempre un po’ distanti dalla
loro vita, dalle loro difficoltà, dai loro momenti di gioia e
di dolore.
Era nostra convinzione che fosse indispensabile andare a
vivere in mezzo alla gente, la comunità rurale, per capire
dal di dentro, per conoscere da vicino, per condividere i
momenti di vita ordinaria e poi eventualmente proporre,
stimolare, animare, progettare insieme.
Hai parlato di Nyabimata e Kibeho. Come nacquero i
due progetti? Chi vi coinvolse? Quali ne furono le caratteristiche?
I due progetti, Nyabimata prima e Kibeho dopo sei-otto
mesi, nacquero seguendo lo stesso processo metodologico: a) contatto progettuale con il comune e la parrocchia;
b) installazione abitativa in mezzo al bananeto; c) partecipazione alle attività e alle riunioni della collina e del comune; d) iniziative di buon vicinato; e) riunioni propositive e
di ricerca-azione con gruppi di persone; f) lancio di iniziative di sviluppo in forma di microprogetti e cooperative di
vario tipo, basate sulla partecipazione e il coinvolgimento
di leader naturali e figure già socialmente attive [animatori, catechisti, insegnanti, ecc.].
E quali risultati conseguiste?
Piano piano vennero alla luce varie aggregazioni, trasformatesi in cooperative organizzate e funzionanti, con tanto di organigramma e statuto. Cooperative di consumo di
beni alimentari primari, cooperative di produzione agricola, di artigianato e di servizi di base, ecc..
Il nuovo approccio metodologico adottato suscitò dibattito nell’organismo? Se sì, come si svolse e con quali esiti?
Da allora sono trascorsi quasi 40 anni; e dire quanto questi
progetti abbiano inciso sullo SVI e sui progetti successivi
non è facile. Di certo questo desiderio di vicinanza e condivisione è entrato nel DNA di tutti. Tutti abbiamo capito
che, essendo vicini, potevamo ascoltare, capire e proporre
meglio.
Anche oggi come allora è indispensabile verificare che la
nostra proposta di servizio sia veramente richiesta e condivisa.
Lucio Benedetti
9
IL TEMPO NECESSARIO PER I CAMBIAMENTI
RWANDA
La distanza temporale è forte [sono rientrato 28 anni fa] e la tragedia che ha colpito il Ruanda nel 1994 relativizza gli eventi e le
azioni che abbiamo accompagnato a Kibeho e mette sotto un’altra luce anche la memoria di fatti e persone.
Se posso cercare di sintetizzare alcune delle caratteristiche e gli insegnamenti del nostro lavoro a Kibeho ricorderei...
LA MIA VITA COI
VOLONTARI SVI
P. Jef Vleugels fu tra coloro che condivisero con i primi volontari Svi in Rwanda l’apertura di un progetto nel Paese.
Riportiamo un suo breve ricordo di
come nacque e si sviluppò un’amicizia
particolare.
“Dal frutto si conosce l’albero”...
Lavoravo già in Rwanda da parecchi anni, ma non conoscevo lo SVI.
Nel luglio 1972 il caso - o fu la Provvidenza? - mi fece incontrare Gino
Filippini, Maria Teresa Cobelli e Lucio Benedetti; ci scoprimmo con
un identico sogno: cominciare un
progetto di sviluppo in un angolo
sperduto del Rwanda, da realizzare
davvero con la popolazione, inserendoci più possibile nel contesto
di intervento a cominciare dall’apprendimento della lingua locale.
La capacità spontanea dei volontari - quelli che ho citato e i loro
successori - di essere vicini ai contadini e alle contadine più poveri
mi ha stimolato molto. Ho ammirato la loro applicazione metodica
al lavoro, il loro spirito inventivo... e
soprattutto la loro fede nella capacità delle persone semplici di essere i soli veri attori del loro proprio
sviluppo.
E ho potuto godere anche della vita
comune, familiare, con le coppie ed i
celibi del SVI. Ne abbiamo conservato solidi legami di amicizia.
E che dire di tutti i nostri amici comuni a Nyabimata?
Risultato: il progetto di Nyabimata
è diventato una associazione ed è
tuttora attivo. È cresciuto enormemente, ma ha conservato lo spirito
dalle sue origini.
“Dal frutto si conosce l’albero”; e
il seme di questo albero è senza
dubbio dello SVI.
Padre Jef [Vleugels] Semushi
10
Il tempo
La nostra esperienza a Kibeho è stata di impegno nel tempo: due équipe che grosso modo hanno coperto
ciascuna 4 anni. Avere il progetto
[e l’ambizione] di accompagnare
lo sviluppo nel settore agricolo e
sociale di comunità locali richiede
tempo. Tempo per la conoscenza
del contesto e della lingua, tempo per stabilire relazioni di fiducia,
tempo per accompagnare processi
che hanno bisogno di accettazione
e maturazione, tempo per ri-orientare e modificare azioni che non si
sono rivelate esattamente rispondenti ai bisogni e alle possibilità di
quella comunità.
Alle luce di questa esperienza resto
sempre esterrefatto di fronte alla
“deriva dell’emergenza” che molte
realtà della cooperazione allo sviluppo attuale hanno adottato: cooperanti che passano pochi mesi nei
progetti spesso spostandosi da un
continente all’altro.
Il rischio condiviso
La capacità di introdurre innovazione è passata in buona parte attraverso lo strumento delle cooperative. La cooperativa è strumento de-
Enzo Pezzini riceve la croce da Mons.
Morstabilini durante la celebrazione di
Pentecoste del 1977. [ ph arch. Kiremba]
licato e complesso, ma si è rivelata
essenziale per superare la pressione
del contesto di fronte ai cambiamenti. Il poter affrontare non singolarmente, ma in modo associato,
in cooperativa, sperimentazioni e
tecniche agricole ha facilitato molte
iniziative. Inoltre ha potuto generare attività economica che ha contribuito allo sviluppo del territorio e
non dei commercianti della città.
Questo primo contatto con l’esperienza cooperativa ha poi determinato tutta la mia vita professionale.
Dalla Chiesa al Comune
La Chiesa in Africa ha svolto e continua a svolgere un ruolo essenziale
nello sviluppo e nella promozione
umana. Il nostro stesso progetto,
pur con riconoscimento del Ministero Affari Esteri italiano, era di fatto espressione della cooperazione
tra la diocesi di Brescia e quelle di
Butare. Fu scelta operativa nel progetto affiancarsi all’autorità comunale per sostenerne la necessaria
assunzione di responsabilità nel
campo dell’indirizzo e della guida
dello sviluppo locale.
Enzo Pezzini
RWANDA
PIANI NAZIONALI,
ESIGENZE LOCALI
Questa la duplice attenzione prestata dai volontari SVI che operarono in Rwanda
nelle parole di Nunzio Giubertoni, volontario a Nyarulema dal 1988 al 1990.
Quale filo rosso collega il progetto
di Nyarulema e i precedenti progetti SVI nell’area [Rwanda e Burundi]?
Essenzialmente la promozione e il
sostegno di attività che rispettavano
programmi di sviluppo nazionale, attraverso il massimo coinvolgimento
e la responsabilizzazione di autorità
locali e popolazione.
Quindi, che si trattasse di educazione e alfabetizzazione degli adulti o
di sensibilizzazione e prevenzione
sanitaria, scopo dell’intervento era
cercare di rispondere a quelle necessità locali inizialmente e formalmente presentate e concordate con le
istituzioni [Comuni/Ministeri], mantenendo forte l’attenzione a bisogni
più precisi e concreti espressi con
sempre maggior intensità e fermezza
dalla popolazione stessa e dalle proprie associazioni [es. cooperative].
Un progetto socio-sanitario con
un duplice fronte d’azione: erogazione di servizi e prevenzione
nelle comunità. Quali i vantaggi e
gli svantaggi di un approccio così
differenziato?
La sicurezza di poter garantire servizi ha sicuramente supportato ed
agevolato il successo di processi di
coscientizzazione [ad es. il facile reperimento di sementi selezionate, la
disponibilità di un mulino per ottenere farina di soia ad alto valore nutrizionale, la possibilità di vaccinare i
figli nei giorni stabiliti per il controllo
della crescita, ecc.]: la coerenza tra il
messaggio e l’azione conseguente
si è dimostrata spesso una strategia
vincente per il successo di taluni programmi.
D’altronde la necessità di erogare
servizi regolari ha comportato un importante impegno per i volontari che
spesso erano identificati più come
datori di lavoro che come agenti di
sviluppo, animatori, compagni di
viaggio, con conseguente nascita di
incomprensioni, delusioni ed amarezza che hanno talvolta accompagnato l’intera esperienza.
In tal modo il ruolo di centralità rivestito all’interno del progetto ha
assorbito energie fisiche e motivazionali che sarebbero probabilmente
potute essere diversamente ed a mio
parere meglio spese.
Per quale motivo lo SVI concluse la
propria presenza nel Paese?
L’inizio dell’instabilità politica ed una
situazione di insicurezza generata
dall’ingresso dei ribelli INKOTANYI
provenienti dalla vicina Uganda nell’ottobre 1990 causarono un’iniziale
congelamento delle attività del progetto e la loro definitiva chiusura per
l’instaurarsi di condizioni ambientali
e umane drammatiche e incontrollabili.
Hai notizia degli esiti a lungo termine del progetto, a 18 anni dalla
sua conclusione?
Il settore sanitario del progetto subì
un inglobamento nelle opere diocesane attraverso l’acquisizione del
servizio da parte di una congregazione religiosa; con amarezza i volontari
scoprirono che tale piano esisteva
celato nella mente della controparte e che esso prescindeva dal loro
diverso orientamento a un maggior
coinvolgimento della popolazione
nella gestione dell’attività con la
creazione di un comitato ad hoc.
La guerra ha distrutto strutture che
poi sono state recuperate, ma anche
disperso operatori e una comunità
che aveva intrapreso un cammino
di coscientizzazione e di sperimentazione delle proprie risorse e della
propria capacità di affrontare i pro-
blemi.
Alcuni partner/amici sono morti, altri sono finiti altrove [es. Maria Goretti in Zambia] o scomparsi senza
lasciare notizie; una parte di loro ha
ripreso le proprie attività originarie
in ambiti che rientravano nel progetto; ma le informazioni sono sempre
state vaghe, estremamente discrete
nei contenuti e diradate nel tempo
[da vari anni non ricevo più risposte
alle lettere inviate].
Le autorità politiche insediatesi recentemente sembrano sfruttare e
alimentare un clima generale di sospetto, di insicurezza e instabilità che
poco pare favorire il rispetto degli
elementari diritti, punto determinante e intransigibile per la ripresa di
un nuovo cammino di sviluppo condivisibile.
Nunzio Giubertoni
Nunzio Giubertoni e due collaboratori
rwandesi a Nyarulema.
11
TANZANIA
EMERGENZA O SVILUPPO?
Paolo Bonzi, in servizio presso il campo profughi di Lumasi [Tanzania] per due mesi nell’estate 1995,
racconta questa esperienza molto particolare per lo SVI, a diretto contatto con persone ridotte
in condizioni subumane e in rapporto con le grandi organizzazioni internazionali.
Lo SVI in un campo profughi...
Come accadde?
Come SVI eravamo usciti dal Rwanda già nel 1990, chiudendo l’ultimo
progetto SVI nel nord del Paese, a
Nyarulema, perché ormai il clima era
reso insicuro dai venti di guerra.
Dopo il dramma del genocidio, che
avevamo seguito con trepidazione e
costernazione per la nostra impotenza, noi ex-volontari [che, negli anni
’70, avevamo dato con entusiasmo il
nostro servizio nei progetti del Sud
Rwanda a Kibeho e Nyabimata], ritenevamo che qualcosa dovevamo
comunque fare per quella gente che
avevamo conosciuto e amato.
C’erano profughi dappertutto oltre i
confini del Rwanda. Il grosso era vicino a Goma in Zaire, altri in Burundi,
altri ancora in Tanzania.
In quell’emergenza, decidemmo di
intervenire, insieme ad alcune organizzazioni umanitarie che operavano a Lumasi, un campo in Tanzania,
con prevalenza di profughi rwandesi
e burundesi.
Era un intervento anomalo per lo
SVI, che non aveva mai partecipato
ad azioni in situazioni di emergenza.
Occorrevano certo volontari già sperimentati e che conoscessero la realtà del Rwanda e del Burundi. Ecco
allora che il consiglio SVI ci diede l’ok
per lavorare in quel campo. Assieme
all’organismo Amici dei Popoli di Bologna e alla partecipazione di alcune suore mariste e di un sacerdote
di Milano, alcuni di noi diedero la
disponibilità di un mese o due, così
che, dandoci il turno, potessimo assicurare una presenza continuativa per
almeno un anno, finché la situazione
si normalizzasse e, così pensavamo,
i profughi potessero poi rientrare in
patria al più presto.
Purtroppo così non fu e i campi durarono diversi anni.
12
Quali vantaggi e gli svantaggi dell’approccio, insolito per l’organismo?
Là si era sotto l’egida dell’agenzia
dell’ONU per i rifugiati [UNHCR]; per
questo non avevamo piena libertà
d’azione. Dipendevamo più direttamente dalla ONG norvegese NPA, i
cui manager avevano una mentalità
piuttosto rigida, e ci sentivamo a volte un po’ loro succubi, anche perché
nessuno di noi conosceva perfettamente l’inglese, lingua ufficiale dell’ONU e delle grandi agenzie internazionali.
In compenso però le grandi agenzie
erano un po’ distaccate dalla gente,
mentre il nostro vantaggio era di
avere un rapporto più immediato,
grazie alla nostra conoscenza della
loro lingua.
La vita dei rifugiati nel campo comportava per loro notevoli cambiamenti di abitudini di vita, causa
l’assembramento, la promiscuità e
l’impossibilità di svolgere un lavoro
o qualsiasi attività per mantenersi.
In che cosa consisteva l’azione?
Gli obiettivi del nostro progetto a Lumasi erano rivolti principalmente ai
giovani, ma anche al problema dei
molti bambini non accompagnati e
delle donne sradicate dalla loro realtà.
Organizzavamo incontri formativi
sulla salute e sulle loro tradizioni,
avevamo costituito una piccola biblioteca, corsi di cucito, attività di
mutuo aiuto con un gruppo scout,
che proponeva alcune attività teatrali sotto i tendoni.
Tentavamo così di recuperare la loro
dignità e di aiutarli a conservare la
propria identità culturale e morale; l’identità di un popolo disperso,
bambini terrorizzati da quanto avevano visto, molto spesso orfani e
senza nessuno.
Soprattutto i giovani erano a rischio,
tentati dal desiderio di vendetta o
dalla criminalità, dovuta alla disperazione e al senso di frustrazione cui
erano precipitati in tre mesi di massacri.
Come proseguì l’azione?
La nostra presenza durò circa due
anni. Ci servì a conoscere meglio
come operano le grandi agenzie e
come spendono i soldi...
Ci fu molto utile per essere pronti, due anni dopo, a immergerci
in un’altra realtà di rifugiati, quelli
scampati e decimati dal genocidio e
giunti stremati nel campo di Meheba
in Zambia, dove ora abbiamo iniziato un nuovo, vero progetto SVI, con
l’aiuto proprio di alcuni di loro, tra
cui Maria Goretti, nostra collaboratrice già a Nyarulema, in Rwanda.
Paolo Bonzi
Lumasi – Paolo Bonzi in visita a
una famiglia del campo profughi.
A DISTANZA...
1. Come nacque la presenza SVI in
Zambia, ancora in una zona di ricollocamento di profughi?
Dal 1990 si erano mantenuti contatti
con alcuni leader rwandesi con cui i
nostri volontari avevano collaborato
in Rwanda, e - tra questi – in particolare con con Maria Goretti Gahimbare;
ciò permise alla commissione Rwanda di seguire le vicende di un gruppo
di rifugiati in fuga dalla guerra attraverso l’Africa centro-occidentale.
Dopo mesi di immani sofferenze la
comunità, decimata, riuscì ad attraversare la frontiera zambiana sotto
la protezione dell’ACNUR, trovando
rifugio nel 1998 presso Mwinilunga.
Qui G. Filippini e N.Giubertoni incontrarono i superstiti riportando a Brescia impressioni e richieste.
Quando i rappresenti SVI si recarono in visita nel campo profughi di
Maheba, furono i responsabili della
comunità rwandese a proporre un
cammino fattivo comune.
2. Accompagnamento a distanza.
Che cosa vi indusse a seguire questo approccio?
La comunità mostrò di sapersi organizzare grazie ai suoi leader, at-
traverso i quali esponeva richieste,
obiettivi, paure. E aveva maturato un
metodo che ci impressionò in positivo: assistenzialismo iniziale tramite
richieste di aiuto, finalizzato a raggiungere l’autonomia alimentare,
per darsi nel più breve tempo possibile una rappresentanza autopromotiva di matrice solidale.
I rappresentanti della comunità chiesero fin da subito un affiancamento
reale a distanza.
MRCU e SVI si accordarono sul senso generale della collaborazione
lasciando alla cooperativa la facoltà di gestire progetti autonomi. SVI
si rapportò a MRCU proponendosi
come ponte: tramite la commissione
Rwanda, la cooperativa avrebbe indirizzato ai bresciani le istanze della
sua gente, le sue paure e speranze, e
i suoi ringraziamenti. Molti benefattori, più di 350, ci accompagnarono
in questo arricchente cammino.
3. In che cosa si concretizzò l’azione?
L’azione può essere così schematizzata:
a. una prima fase [aiuti economici per
viveri e sementi, pozzi e medicine
Maria Gahimbare Goretti, promotrice della coop. MRCU, e
Lucio Merzi durante una visita di valutazione a Meheba.
ZAMBIA
Il progetto SVI nel campo-profughi di Maheba, Zambia: un’azione che si fonda
sulle positive esperienze di volontariato succedutesi negli anni ’70 e ’80 in Rwanda,
il cui frutto sono stati - più che durature opere - legami di amicizia e fiducia, di valori comuni
che nel momento del bisogno hanno generato il loro frutto: impegno, solidarietà, testimonianza.
per i casi più gravi, per permettere
la stabilizzazione della comunità sui
nuovi territori];
b. una seconda fase [borse di studio,
biblioteca, microcredito per sementi e animali da cortile, un fondo per
medicine e cibo a favore dei più poveri e dei nuovi arrivati; formazione
dei leader comunitari];
c. la terza fase [consulenza gestionale, acquisto di una decorticatrice per
il riso, promozione di borse di studio,
biblioteca e fondo solidale per i casi
sociali].
Ora stiamo accompagnando con
borse di studio l’ultimo gruppo di
giovani, sosteniamo il fondo per i
casi sociali e assicuriamo un contributo per la biblioteca del campo.
4. Che cosa portò a uscire dal campo profughi e a pensare un progetto con la presenza di volontari?
Nel 2003 G. Smussi e S. Savardi furono accolti nel campo dalle massime
autorità tradizionali zambiane, i re
Mumena e Matebo, che espressero
apprezzamento per i risultati conseguiti dalla comunità rifugiata appoggiata dallo SVI.
Mumena e Matebo, in un periodo caratterizzato da forti pressioni da parte del governo rwandese per l’espulsione dei rifugiati, assicurarono loro
protezione e chiesero allo SVI ed ai
rifugiati di prendersi carico dello sviluppo delle comunità zambiane limitrofe. Per tale compito si richiedeva
la presenza in loco di volontari SVI
in affiancamento a leader e a tecnici
MRCU.
Nel giro di tre anni questo fu possibile grazie a Lidia, Maurizio e Alberto
che con Maria Goretti avviarono il
progetto di Mutanda.
Stefano Luciano Savardi
13
UN APPROCCIO PRAGMATICO
UGANDA
È quello che propone Claudio Chiappa, attuale project manager dell’azione SVI in Uganda,
e in servizio a Iriir dal 1997 al 2002, come soluzione vincente per favorire lo sviluppo
delle comunità [non solo] africane.
Lo SVI in Uganda. Una cronistoria...
Lo SVI si presenta in Uganda verso la fine del 1984, invitato dai responsabili dei servizi sociali della
Chiesa cattolica locale, rappresentata da missionari italiani. L’inizio
difficile a causa della diffidenza
mostrata dalla comunità dei pastori karimojong, specie nei confronti
dell’utilizzo per il traino degli animali [considerati quasi sacri], lascia
un po’ alla volta il posto ad una
collaborazione voluta dagli stessi aspiranti agricoltori. Un popolo
di pastori seminomadi si trova, a
causa della moria di animali e della
prolungata siccità che colpisce le
zone aride della regione, a dover
utilizzare le risorse naturali delle
esigue foreste per poter sopravvivere. In quel momento allo SVI
è chiesto di organizzare le attività
agro-zootecniche, e in una seconda fase, quelle di conservazione
ambientale. A Namalu prima e, dal
1996 anche ad Iriir, lo SVI alterna la
presenza di équipe di volontari che
svolgono compiti differenti con lo
stesso spirito e le medesime motivazioni: cercare di trovare, assieme
alle comunità ospitanti, una via
sostenibile che permetta un equilibrio duraturo nello sfruttamento
e nell’utilizzo di risorse naturali,
nel rispetto dell’ambiente e della
cultura. Dopo venticinque anni di
costante presenza SVI in Karamoja,
i progetti di Namalu e Iriir rappresentano, anche grazie alle capacità
di adattamento e di autocritica dei
volontari susseguitisi, esempi di
coerenza con valori basilari quali la
condivisione, l’autopromozione e
la solidarietà.
Una presenza nella quale si sperimentarono più approcci. Puoi
14
descriverceli?
Per capire i motivi degli approcci
adottati nei Paesi africani si deve
comprendere la condizione socioculturale del continente e le dinamiche che ne scaturiscono, impregnate di pragmatismo, di identità
territoriale e solidarietà di clan, di
spiritualità.
In considerazione di ciò non esiste un approccio unico e costante
che permetta di entrare nella vita
delle comunità rurali africane nelle
quali lo SVI opera. Funziona meglio
l’adattamento in base al momento,
al contesto specifico e all’attività
che si intende attuare. L’animazione è lo strumento primario ed essenziale per far emergere problemi
e analizzare le risorse da attivare.
Poi subentra la sensibilizzazione
che, attraverso la formazione, spiega perché certe scelte operative e
tecniche migliorino le condizioni
di vita. Se trattiamo di agricoltura
o zootecnia, dobbiamo affidarci ai
risultati di anni di sperimentazioni
che tengono prioritariamente in
considerazione il contesto climatico e le tecniche appropriate. Se
parliamo di gestione delle risorse
idriche o se il coinvolgimento è
nei settori sanitario e educativo,
è sempre necessario l’utilizzo di
competenze specifiche. La ricerca
della sostenibilità di ogni azione è
un pensiero costante che deve tradursi in indipendenza finanziaria e
tecnica da parte della comunità locale. Si tratta sempre di mediare e
diversificare l’utilizzo di strumenti
che ci condurranno al raggiungimento del fine prestabilito.
Quali i vantaggi e gli svantaggi
dei principali approcci che avete
adottato? Come si collegano tra
loro?
L’utilizzo dello strumento animativo è essenziale se si vuole avere un
Luigi Bezzi [a sx] e Giuliano Consoli [a dx] con due collaboratori karimojong
controllano la crescita delle piante in un frutteto di Namalu.
Quali gli esiti della presenza SVI
in Karamoja?
Dopo venticinque anni di presenza
SVI in Uganda possiamo concludere che le tecniche applicate nei settori agro-zootecnico e ambientale
in Karamoja si sono rivelate corrette e sostenibili. La consapevolezza
della forza espressa da gruppi organizzati e riconosciuti dai governi
locali e nazionali, anche se di recente acquisizione, ha già portato
organizzazioni locali ad un passo
dall’autosostenibilità, resa possibile da parecchie attività generatrici
di reddito, che non precludono uno
degli obiettivi all’origine dell’istituzione dei primi centri dimostrativi
e di addestramento: l’erogazione
di servizi essenziali agli agricoltori
karimojong.
Somiglianze e differenze tra approccio SVI in Africa e approccio
SVI in America Latina, dal tuo
punto di vista...
Non conosco molto bene l’America Latina, quindi, non credo di
essere in grado di fare paragoni.
La differenza sostanziale - che, in
qualche modo, viene rilevata da
chi ha sperimentato entrambi i
continenti - sta nella diversa parte-
cipazione delle comunità alla vita
politica. In Africa i movimenti collettivi sono pochi e quasi ovunque
motivati da obiettivi specifici e a
termine. La società civile è spesso
assente sui grandi temi che riguardano processi di democratizzazione, anche perché spesso in Africa
il concetto di democrazia appare
lontano dalla tradizione tribale. I
partiti politici, laddove esistono,
anche se lottano per l’affermazione di valori morali imprescindibili,
lo fanno spesso strumentalizzando
i concetti di base, con l’obiettivo di
sostituire al potere chi ha usufruito
a sufficienza delle risorse economiche del Paese, per poterne godere
a sua volta. E ciò avviene anche nei
contesti delle comunità rurali.
Tuttavia aggregare individui funziona se l’obiettivo è un bene comune ben delineato e concreto
nel breve o medio termine, e viene
favorito dall’uso dagli stessi strumenti animativi utilizzati nei contesti rurali dell’America Latina.
UGANDA
impatto decisivo sulla comunità, a
patto che lo si usi come tale e che
non diventi un obiettivo. L’animazione, la sensibilizzazione, la formazione portano vantaggi solo se
abilmente usate, come dimostra il
loro impiego in Uganda e in altri
Paesi africani. Per individuare problemi e soluzioni la partecipazione della comunità è stata fondamentale; per capire che cosa fare
correttamente in agricoltura, nella
conservazione dei raccolti, nell’allevamento e la trazione animale,
nella conservazione ambientale è
stato necessario sensibilizzare gli
agricoltori e formarli sulle tecniche
appropriate. La flessibilità nell’uso
di più strumenti è la chiave di volta di ogni progetto. Gli obiettivi,
di qualsivoglia genere, possono
variare, mentre non vengono mai
meno gli strumenti utilizzati, che
si configurano come essenziali nel
percorso di sviluppo delle attività,
al fine di ottenere i risultati attesi.
Claudio Chiappa
Claudio Chiappa e uno strumento indispensabile
per i volontari di oggi: il computer.
15
CONGO
LA VOGLIA DI CAMBIARE
Questi gli esiti del progetto di Ango [RdCongo, ex Zaire] nel ricordo
di Pietro Manerba, in servizio nell’area dal 1988 al 1992.
Quando e come nacque il progetto?
Ad Ango era presente il comboniano p. Gianni Nobili [poi con p.
Zanotelli a Korogocho]. P. Gianni
aveva lavorato con Gino Filippini
in Burundi. Chiese allo SVI un intervento ad Ango. Gino realizzò un
sopralluogo e lanciò l’idea del preprogetto: volontari fissi, presenti
per 2 anni nel contesto per comprenderlo e capire che cosa fare.
Nel 1986 partirono per Ango Nicola Desantis e Lina Visini.
Dopo una formazione linguistica
[francese e lingala, la lingua veicolare dello Zaire nord-occidentale], Lina e Nicola iniziarono la loro
ricerca. Lina si occupò dell’ambito
sanitario [e, a questo riguardo, le
cose erano semplici: si trattava di
garantire il funzionamento dell’ospedale locale]. Nicola invece, in
seguito con l’aiuto di Gino, dovette
cominciare da zero. La loro intuizione fu di alimentare l’economia locale, aprendola al mondo esterno,
in modo da consentire alla popolazione di vendere i propri surplus
agricoli sui mercati della città di Isiro e di acquistare là beni di prima
necessità da portare ad Ango.
Inoltre i ricavi dell’attività commerciale sarebbero serviti alla popolazione per pagarsi il servizio sanitario e la scolarizzazione dei figli.
Quindi, in sintesi, in che cosa
consisteva il progetto?
Ango è isolata.
Per arrivarci, oltre ad attraversare
un grandissimo fiume [l’Uele] bisogna percorrere una strada all’epoca
indistinguibile dalla foresta, perché
mai percorsa. E se non c’è strada,
non c’è commercio.
Il primo passo del progetto consistette nel rendere la strada percorribile, riparandola. Ad Ango non si
16
potevano portare mezzi pesanti.
Quindi ripristinammo un lavoro
che già promuovevano i belgi: il lavoro di cantonieri. La strada fu divisa in sezioni di 5 km, furono individuate équipe di lavoratori locali cui
fu fatta una formazione specifica,
furono loro date pale e picconi e a
ciascuna équipe fu assegnata una
sezione di strada da risistemare.
Fu necessario trovare anche un
modo per superare i numerosi corsi d’acqua che tagliavano le vie di
comunicazione senza ricorrere alle
tradizionali travi di legno. Infatti le
precarie passerelle ricavate da tronchi marcivano con facilità e ogni
anno anni si dovevano cambiare...
E questo comportava radunare minimo 50 persone, abbattere gli alberi nel folto della foresta [sempre
più lontano], portarli sul posto, rifinirli e metterli in posizione. A volte
l’autorità locale era costretta a usare l’esercito per forzare le comunità
a collaborare.
Così, verso la fine del mio servizio,
realizzammo ponti in pietra, con
materiali del posto, ma su un modello architettonico... classico: ponti ad arco romano!
La comunità contribuiva col cemento e lavoro manuale.
Per gli azande fu una liberazione:
niente più lavori forzati. E si azzerò
anche l’esbosco di essenze pregiate.
Adesso nella zona su quel modello
sono stati costruiti più di 30 ponti,
uno dei quali di 16 arcate...
Vi occupaste solo di strade e
ponti?
No, si creò anche la cooperativa
agricola ADERA.
Furono coinvolte perlopiù persone
istruite [maestri, professori] che furono formate all’economia cooperativa. Il gruppo gestiva un punto di
vendita con magazzino, nel quale i
contadini locali avevano la garanzia di piazzare surplus produttivi e
di acquistare beni di prima necessità [zucchero, sale, vestiti, sapone,
camere d’aria per le bici].
Da principio fu difficile far capire
agli azande il valore e il senso della
cooperativa.
Inoltre un banale malinteso a base
culturale ci complicò molto la vita:
noi europei acquistiamo e vendiamo i prodotti agricoli a chili. E ave-
Ponti, primo amore..
vamo proposto lo stesso approccio
anche ad ADERA. Ma gli azande
sembravano restii a servirsi alla
cooperativa, nonostante i nostri
prezzi molto vantaggiosi. Solo una
volta che fummo entrati in confidenza con gli azande, questi ci dissero che sbagliavamo: “Qui le cose
si vendono a bicchieri, a sacchi...”
Loro, a chili, non si fidavano: i vecchi commercianti, nelle compravendite, erano soliti frodare i contadini alterando le pesate.
Nella successiva campagna d’acquisto comprammo a misura. Arrivarono tonnellate di merci.
Parliamo anche di sanità...
Ad Ango c’è un grande ospedale in
prefabbricato, che era sul punto di
essere concluso [da un ingegnere
italiano] poco prima dell’Indipendenza dello Zaire: i muri esterni
c’erano; suppellettili, attrezzature
e arredamento interno non arrivarono mai. I malati giacevano per
terra. C’era solo un medico. E la
farmacia poteva essere gestita solo
dalle suore.
Le nostre ragazze [Adele Ballola e
Carla Petrillo] sostituirono il vecchio personale, poco competente
e demotivato, con giovani volonterosi e formati. Il pagamento del
personale era a carico dello SVI, a
scalare entro la conclusione del
progetto. Obiettivo era che l’ospedale si sostenesse con le proprie
entrate [in Zaire, come ora in Congo, le spese sanitarie non erano pagate dallo Stato].
Finché fummo presenti nel progetto le persone potevano pagare
le prestazioni sanitarie con crediti
accumulati vendendo prodotti ad
ADERA. Poi questa forma di pagamento è venuta meno.
Il progetto promosse anche la creazione di pozzi, per garantire acqua
potabile alle comunità. Tutti bevevano l’acqua del fiume o di pozzi
non protetti... Noi insistemmo molto per far capire l’importanza dell’acqua potabile, ma senza esito.
Per loro l’acqua è acqua... Lo stesso
infermiere incaricato di condurre la
campagna di sensibilizzazione sull’acqua potabile beveva tranquillamente l’acqua del fiume.
Solo quando l’economia della comunità partì e generò ricchezza,
alcuni, costruita una casa di mattoni cotti, ci chiedevano di realizzare
un pozzo domestico protetto; ma
questo come segno di status, per la
comodità di avere l’acqua in casa.
E come si concluse il progetto?
In Zaire, dal 1996, vi furono due
guerre. “Due guerre” significa “quattro passaggi di eserciti”. E gli eserciti, quando passano, razziano.
Il popolo azande, che è un popolo
di foresta, in queste occasioni si ritira ancor più nel folto. Lì le comunità sopravvivono coltivando quel
poco che riescono, ma perdono i
contatti col mondo esterno. Loro
per 4 anni vissero così.
L’ADERA fu la prima ad essere presa
d’assalto. Dopo la seconda razzia
la cooperativa riuscì a rialzarsi. Ma
il terzo passaggio fu letale. I leader
locali salvarono solo alcune attrezzature... E sono in attesa di ricominciare...
CONGO
Antonia Simionato e Nicola Desantis
durante un momento di relax presso la casa dei volontari.
Ci sono state più visite ad Ango,
dopo la conclusione del progetto, da parte di Antonia Simionato [poi tornata ad Isiro per un ulteriore periodo di servizio con la
Diocesi e scomparsa nel 2004] e
da parte tua. Che cosa è rimasto
nel progetto?
Che cosa hai trovato?
Sono rimaste le persone... E hanno
voglia di ricominciare... Anche se,
provate dalla guerra, non sanno
come.
Tutto è da ricostruire, a cominciare
dalla vita sociale.
Loro, con il progetto SVI, avevano
constatato che, camminando sulle
proprie gambe, ce la potevano fare.
Per due-tre anni dopo la conclusione della nostra presenza, avevano
sperimentato che cosa vuol dire
commerciare, creare opportunità
per sé e per gli altri... E avevano
capito che potenziare l’agricoltura
di Ango sarebbe stato un ulteriore
volano per l’economia. Ormai gli
sbocchi sul mercato erano creati...
La guerra ha bloccato un processo
di evoluzione che si era innescato
e stava proseguendo in modo autonomo.
L’ultima mia visita [nel 2006] è stata fatta solo per dimostrare che lo
SVI era ancora presente. Tre settimane di viaggio e due soli giorni di
permanenza ad Ango. Purtroppo i
collegamenti sono tornati a condizioni disastrose. La nostra auto era
la prima a passare da un anno...
Anche se c’era lo spirito per fare di
più, la gente, in queste condizioni,
per chi coltivava?
Comunque, se prima del progetto,
questa parola... sviluppo... per loro
non aveva alcun significato, alla
fine l’hanno capita. Ed è sulla bocca di tutti.
Ecco che cosa è rimasto ad Ango:
questa voglia di cambiare.
Pietro Manerba
17
SENEGAL
GESTIRE O ANIMARE?
Il fatto di trovarsi, nell’ambito di un progetto, a gestire strutture può rendere difficile il lavoro
di raff orzamento di una comunità, scrivono Romina Rinaldi e Cinzia Tarletti, che hanno chiuso
l’intervento SVI a Parcelles Assainies [Senegal] nell’estate 2008.
Come nacque il progetto SVI a
Parcelles Assainies?
Lo SVI fu invitato a operare in Senegal dai padri Oblati, che lavoravano
nella comunità di Parcelles Assainies già da molti anni.
Operare in un centro sociale. Quali i punti di forza e quali i punti di
debolezza dell’approccio?
Lavorare in una struttura come un
centro sociale ci ha permesso di conoscere le realtà aggregative della
comunità in cui vivevamo [giovani,
donne, bambini]. In un centro sociale si organizzano attività per tutti, dai piccoli ai grandi. Questo permette ai volontari di farsi conoscere
e di avere un quadro della realtà in
cui si opera abbastanza completo.
Del resto proprio il fatto di lavorare in una struttura [e vivere nella
struttura stessa, come abbiamo
fatto noi nei primi sei mesi] ha fatto sì che la gente del posto ci considerasse come i gestori del centro
e di conseguenza ci ha impedito di
svolgere il nostro ruolo di animatori. Abbiamo dovuto lavorare molto
con la comunità per farci conoscere
e per far capire il nostro ruolo.
Il volontario come gestore, il volontario come animatore...
Noi volontari in Senegal siamo stati
visti come gestori della struttura in
cui lavoravamo, il centro sociale, e
non come animatori di una comunità, come invece avrebbe dovuto
essere. Questo è successo sia per i
Cinzia Tarletti, Romina Rinaldi e un collaboratore senegalese
sgombrano il centro sociale dall’acqua in seguito a un allagamento.
Gestire una struttura significa farlo “dalla A alla... Z”!
18
vari problemi causati dall’avvicendamento dei volontari, sia per la
poca chiarezza nei confronti della
controparte locale. Abbiamo fatto
enormi sforzi per far capire alla comunità qual è il ruolo dei volontari
SVI, per far capire alla gente che un
volontario non è una tecnico che fa
per conto suo, ma una persona che
vive e lavora con la gente.
Del resto un volontario è un animatore quando ha veramente una
controparte che lo sostiene e lo aiuta a capire la realtà in cui è inserito.
Senza il coinvolgimento della controparte locale e della comunità il
volontario non può essere animatore, è costretto a fare in prima persona, gestire, organizzare, con il rischio di portare avanti attività inte-
Durante il vostro servizio lo SVI
organizzò, a Kampala, un incontro con gli altri volontari in servizio in Africa. Ritenete l’esperienza utile? Quali lezioni ne avete
tratto?
L’incontro di tutti i volontari impegnati in Africa è stato uno dei
momenti più significativi della
nostra esperienza. Lo scambio è
fondamentale sia per il fatto che
si ha bisogno di un confronto con
persone che fanno lo stesso lavoro,
sia per il fatto che si ha l’esigenza di
mettersi in discussione per poter
verificare dove e come si sta lavorando. Anche se si lavora in Paesi
diversi [dal Senegal, all’Uganda, al
Burundi] e in progetti diversi [dai
progetti in ambito agricolo a quelli
in ambito culturale], le dinamiche
che i volontari vivono sono le stesse; quindi confrontarsi è essenziale.
Dall’incontro di Kampala, inoltre, è
emerso quanto sia importante avere come referente per l’organismo
in Italia una persona per ogni progetto: una persona che abbia già
fatto un’esperienza di volontariato
e che conosca bene le dinamiche
che caratterizzano un progetto di
animazione comunitaria.
Quali i risultati del progetto?
Il progetto in Senegal è ora concluso; nessun volontario SVI è presente. Il risultato più significativo è
stato sicuramente l’essere riusciti a
coinvolgere la comunità. È stato in-
fatti creato un comitato di gestione
formato dai rappresentanti dei vari
gruppi, le donne, i giovani, il consiglio pastorale... Tutti volontari.
I rappresentanti hanno scelto un
direttore che controlla i lavori e
gestisce la nuova équipe. È stato
addirittura scritto uno statuto con
tanto di obiettivi e finalità sociali
della struttura. Le attività che il centro sociale ha proposto durante i 3
anni in cui noi siamo state presenti possono aver avuto un impatto
più o meno grande; a nostro avviso l’azione più importante è stata
quella di dare potere decisionale
alla comunità, dare ai rappresentanti dei vari gruppi l’opportunità
di decidere che cosa organizzare e
in che modo.
In futuro si faranno probabilmente
meno attività, ma per lo meno saranno volute dalla comunità.
BRASILE
ressantissime e bellissime, ma non
percepite come necessarie e utili
dalla gente. Noi abbiamo dovuto
precisare più volte il nostro ruolo, a
volte rischiando di essere percepite come persone che non vogliono
fare o che si tirano indietro. Ci ha
aiutato molto il fatto di avere un ufficio SVI al di fuori del centro sociale
e il fatto di rapportarci ai vari gruppi
comunitari non in nome del centro
sociale, ma in nome dello SVI.
Romina Rinaldi
Cinzia Tarletti
PER UN MONDO PIÙ FRATERNO
Animazione pura e lavoro con le comunità di base. Un approccio con una progettualità leggera
per aiutare persone e comunità a prendere gusto per il cambiamento, nella testimonianza
di Mimma Benelli ed Enrico Fantoni, volontari SVI a Medina [Brasile] dal 1976 al 1979.
Come giunse lo SVI a operare in
Brasile?
Lo SVI arrivò in Brasile grazie alla
presenza di missionari bresciani
nella diocesi di Araçuaì. In particolare furono chiamati, sostenuti e
accompagnati da don Gigi Bonfadini per un lavoro nella diocesi, ma
localizzato nelle sue parrocchie.
In che cosa consisteva il progetto?
Il progetto si svolgeva nell’ottica
della formazione delle Comunità
di Base e in questo senso seguiva
parallelamente il lavoro del sacerdote sul versante della promozione umana. Il nostro compito era di
incontrare le persone delle singole
Comunità, far prendere coscienza
dei loro bisogni e aiutarle ad orga-
nizzarsi per trovare soluzioni ai loro
problemi che fossero alla loro portata in modo che potessero proseguirle con le loro forze, anche dopo
la nostra partenza.
Lavoravate in ambito sociale e
pastorale, senza particolari griglie progettuali a orientarvi.
Quali secondo voi i vantaggi e gli
svantaggi dell’approccio?
I primi volontari avevano effettuato, insieme al sacerdote, una lettura dei bisogni primari delle comunità, classificandoli in tre categorie:
salute, lavoro, educazione. Il nostro
lavoro si è quindi inserito all’interno di questi tre ambiti.
È chiaro che una griglia rigida facilita il lavoro, ma lo rende meno
creativo, meno attento alle esigenze della gente con cui stai lavorando, perché quello che conta è il
progetto. L’avere una griglia meno
rigida ci ha permesso di adeguarci
ai bisogni della gente, che variano a seconda del momento storico: democrazia/dittatura, politico:
elezioni/non-elezioni, sociale: ricchi/poveri, meteorologico: siccità/
pioggia…
Questo approccio ci ha responsabilizzato di più, costringendoci a
verificare continuamente il nostro
operato non soltanto con la sede di
Brescia, ma anche con i movimenti ecclesiali e popolari del Brasile e
con altri organismi nazionali e internazionali presenti sul territorio:
diocesi, MLAL, volontari di altre na19
“Il condividere problemi e soluzioni è stata sicuramente
la loro più grande conquista.”
BRASILE
zionalità…
Vi furono occasioni di confronto
con i volontari SVI impegnati in
Africa? Con quali esiti?
Sono stati occasionali e a livello di
amicizia, grazie agli stretti rapporti che due anni di corso SVI creavano tra i corsisti. Va sottolineato
tuttavia che alla fine degli anni ’70
l’approccio era molto diverso tra
Africa e America Latina. In Africa si
era più attenti all’aspetto tecnico,
mentre in America Latina si privilegiava l’animazione. Solo al rientro
si è potuto approfondire meglio
l’argomento in incontri a Brescia.
Quali furono i risultati della vostra presenza? Che cosa cambiò
per le persone e le comunità con
cui collaboraste, alla conclusione
del progetto? E per voi?
Bisogna premettere che noi siamo
stati solo l’anello di congiunzione
tra le coppie che ci hanno preceduto e quelle che ci hanno seguito
e che hanno concluso il progetto
spostandolo in un’altra zona della Diocesi. Ciò che ha spinto sia lo
SVI che la Diocesi a spostare il progetto in altro luogo è stato l’aver
costatato che le Comunità di Base
delle nostre parrocchie avevano
acquisito un metodo di lavoro e
che si sapevano organizzare autonomamente; avevano costruito solide collaborazioni con Enti statali
preposti all’agricoltura ed alla sa20
nità; avevano creato collegamenti
con movimenti ecclesiali e popolari brasiliani, il sindacato, ecc..
Per le persone è cambiato il modo
di rapportarsi con la realtà: al fatalismo si sono sostituiti prima il gusto
di conoscere la propria storia, poi la
voglia di riflettere su quello che li
circonda. È aumentato il desiderio
di confrontarsi tra di loro, rendendosi conto che i problemi di una
comunità erano identici a quelli
di un’altra e poi a quelli di un’altra
ancora… Il condividere problemi
e soluzioni è stata
sicuramente la loro
più grande conquista. Tutto questo
nello spirito della
fraternità cristiana.
Per noi è difficile
immaginare quello
che saremmo stati
senza l’esperienza
in Brasile. Sicuramente siamo tornati molto diversi da
quelli che eravamo
prima! Oltre ai valori
che abbiamo vissuto e imparato insieme alla gente e dei
quali abbiamo parlato prima, due
sono le cose che hanno segnato la
nostra esistenza: la centralità della
persona umana, dei suoi bisogni,
ma anche del rispetto dei suoi tempi di crescita e di maturazione e di
conseguenza una nuova gerarchia
di valore da dare alle cose materiali, semplici strumenti per realizzare
un mondo più fraterno.
Mimma Benelli
Enrico Fantoni
Mimma Benelli ed Enrico Fantoni durante il loro servizio a Medina.
BRASILE
UNA BENEDIZIONE DI DIO
Così riassume i suoi cinque anni in Brasile,
Giacomo Morandini, che, assieme alla moglie Marizete De Oliveira,
prestò servizio con lo SVI a Viseu dal 1989 al 1994.
L’esperienza cooperativa in Brasile. Una risposta allo strapotere
di fazendeiros e multinazionali...
Il cooperativismo, in Brasile, rimane
ancora oggi una valida soluzione
organizzativa per i piccoli contadini, soprattutto per quelli lontani
dai centri di commercializzazione. L’accesso al credito, alle nuove
pratiche agricole, alla meccanizzazione dell’agricoltura, all’acquisto
di sementi e concimi è possibile
solo se i contadini sono uniti e organizzati. I singoli, perché privi di
un minimo capitale di riserva sia
esso in denaro o in produzione,
sono ancora vittime di un sistema
di sfruttamento antico. Chiedono
al commerciante o al fazendeiro del
luogo un anticipo sul prodotto che
coltiveranno; e quando arriva l’ora
di vendere il raccolto, gli interessi
esosi del prestito e la scarsa capacità di contrattazione fanno sì che
si ritrovino al punto di partenza, se
non peggio. Più che una risposta ai
poteri forti direi che è una questione di sopravvivenza. Da soli si è più
vulnerabili: a volte basta davvero
poco, una malattia in famiglia, un
imprevisto, ... e la famiglia si trova sul lastrico. La cooperativa è in
grado di fare da ammortizzatore
sociale e, con il contributo di tutti,
può operare anche come una piccola banca.
re il suo prodotto. Passare da una
gestione in proprio a una gestione
associata non è facile. Presuppone
molta fiducia nei compagni e rispetto delle regole condivise. Non
è semplice.
continuano trovarsi e a realizzare
attività insieme. Il punto di forza,
per noi, è stato poter lavorare in
stretta sinergia con le comunità di
base coniugando fede e impegno
civile e sociale.
Lavoro sociale e approccio progettuale risultarono coniugabili nella vostra esperienza? Con
quali risultati?
A nostro parere un progetto di
sviluppo ha senso se ha una forte
connotazione sociale. Deve essere
un’occasione di cambiamento in
meglio della vita economica, famigliare e comunitaria. Quindi la
società tutta ne rimane coinvolta
Se un contadino produce di più e
vende meglio il suo prodotto, la
famiglia si alimenterà meglio, avrà
meno malattie, i figli potranno
studiare, la moglie potrà dedicarsi anche ad altre attività sociali e
non solo curare la casa o i campi.
Nella nostra esperienza possiamo
dire che il lavoro sociale svolto, in
modo particolare con le donne, ha
dato risultati estremamente positivi: ancora oggi dopo quasi 16 anni
dalla nostra partenza, le donne
Quali cambiamenti operò la vostra presenza nel contesto di intervento?
Ci piace evidenziare alcune cose
interessanti che sono emerse a
distanza di anni. L’apicoltura che
abbiamo avviato all’interno del
progetto come attività complementare è diventata un’attività
rilevante nell’economica di molte
famiglie; i genitori hanno imparato e trasmesso ai propri figli nuove
tecniche agricole e vivono in case
migliori grazie ai proventi del loro
lavoro; le donne sono diventate
protagoniste della loro vita e hanno migliorato la loro capacità di
lottare per una vita migliore per sé
e la propria famiglia. Per non parlare della nostra famiglia che ancora
oggi ricorda quei cinque anni trascorsi a Viseu come una benedizione di Dio.
Giacomo Morandini
Giacomo Morandini con la figlia Sara, benedizione di Dio.
Quali i vantaggi e gli svantaggi
dell’approccio?
I vantaggi di lavorare in cooperativa sono evidenti; tutti li riconoscono. La difficoltà più grossa sta nella
mentalità. Il contadino, non solo
quello brasiliano, ha molta difficoltà a lavorare e a pianificare insieme
ad altri, a condividere i mezzi di
produzione. È abituato, il contadino, a lavorare la sua terra, con i suoi
animali, con i suoi attrezzi, a vende21
ELOGIO DELLA LEGGEREZZA
BRASILE
Pochi investimenti e strutture ridotte all’osso, o assenti;
questo, secondo Umberto Bosetti, volontario SVI in Brasile dal 2003 al 2007,
lo stile ideale di intervento.
Puoi descriverci in breve le caratteristiche del progetto in cui eri
inserito?
Nel 1996, al termine di un biennio
di preparazione, il primo volontario
a S. Luzia do Parà e 35 piccoli agricoltori fondavano la cooperativa
COOMAR. Per lo SVI non era la prima volta; infatti nei 10 anni precedenti erano state fondate, relativamente vicino, altre due cooperative
di agricoltori. L’intento originale era
migliorare le condizioni di vita degli
agricoltori, delle loro famiglie e delle loro comunità attraverso la partecipazione alla vita e alla conduzione
di una cooperativa, dove i singoli
potessero trovare conforto e appoggio nel mutuo aiuto, affrontando assieme le moltissime difficoltà
che s’incontrano vivendo in una
zona così povera, priva d’infrastrutture, assolutamente orfana dello
Stato, sostituito dai grandi e ricchi
proprietari terrieri che decidono e
comandano sull’intera comunità.
Il primo volontario e i due successivi hanno cercato, ognuno con il suo
stile, di accompagnare la cooperativa avendo come obiettivo finale
che, al termine del progetto, gli
agricoltori potessero gestire autonomamente l’attività. A fianco della
cooperativa, è stata fondata negli
anni una scuola per giovani agricoltori nella quale, richiamandosi alla
scuola di P. Freire, si cerca di formare persone che, rispettando l’ambiente, possano contribuire a uno
sviluppo sostenibile della zona. Il
progetto della scuola prosegue con
la presenza di un ex volontario SVI
che si è trasferito in quelle zone e
che continua il lavoro con l’appoggio di svariate istituzioni italiane.
Concludere una presenza di lungo periodo. Che cosa comporta?
Comporta molti grossi dubbi: su
22
che cosa è stato fatto e come. Se chi
ti ha preceduto avesse fatto diversamente… Se tu stesso non ti fossi
comportato così, ecc. ecc.. Dal mio
punto di vista, anche a distanza di
più di due anni, credo sia stato un
bene che il progetto sia finito e che
ora la gente stia tentando di portare avanti il progetto, senza dubbio
molto difficile e impegnativo. Come
si dice, la semina è stata fatta e i frutti verranno; poi come si è seminato
e che frutti saranno si saprà solo più
avanti.
Quali gli esiti effettivi del tuo lavoro?
Nei 10 anni del progetto è passata
molta gente; e ognuno qualcosa si
è portato con se. È pubblicamente
riconosciuto che molte famiglie,
con l’appoggio del progetto, hanno migliorato la propria situazione
economica e si sono viste allargare la propria visione del mondo. Al
momento della chiusura del progetto, circa 15 persone lavoravano
in pianta stabile negli uffici e nei
magazzini della cooperativa, e più
di 70 famiglie di agricoltori partecipavano alla vita della cooperativa.
In Italia vivono circa 10 persone che
vi sono arrivate grazie a chi hanno
conosciuto durante questo periodo
di scambio, e altre due o tre hanno
fatto il percorso inverso. Personalmente ho vissuto tre anni veramente ricchi di ogni tipo di emozioni e
di insegnamenti e in più ho anche
avuto la fortuna di incontrare la
donna che sarebbe poi diventata
mia moglie.
Quali lezioni ritieni si possa trarre
- in termini di stile di intervento
- dall’esperienza di S. Luzia?
Mi pare di poter dire che il lavoro
semplice, di animazione e senza
molti investimenti possa essere la
maniera migliore di agire. L’esperienza di S. Luzia ci può insegnare
che sono necessari interventi leggeri, che stabiliscano subito con
chiarezza un rapporto forte di condivisione, e che stabiliscano da subito meccanismi attraverso i quali
chi partecipa [cooperatori e cooperanti] abbia più obblighi che diritti
cercando di non creare l’illusione di
essere privilegiati, ma che si guadagna solo con con il lavoro e/o con la
partecipazione.
Umberto Bosetti
Ripulitura manuale del terreno dalle erbe infestanti
presso la scuola agraria di S. Luzia: meno attrezzi, più sostenibilità.
VENEZUELA
LA RELAZIONE AL CENTRO
Gianluca Bassani e Luca Rigoni, in Venezuela il primo dal 1986 al 1989 e il secondo dal 1989 al 1991,
ripercorrono la storia della presenza SVI nel Paese, individuandone il filo conduttore nella facilitazione
di processi organizzativi di base.
Lo SVI in Venezuela...
Primi passi...
La prima équipe di volontari SVI
in Venezuela, composta da Maria,
Rosanna e Giuseppina, iniziò a lavorare nei quartieri marginali della zona sud di San Felix [Ciudad
Guayana] nel triennio 1983-86. In
questa prima fase del progetto le
volontarie presero contatto con gli
abitanti della zona, cominciando
a individuare i bisogni emergenti,
gli ambiti di intervento e i processi
formativi e organizzativi di partecipazione. Negli anni 1986-89 proseguirono il progetto Giuseppina
con Pio e Gianluca [provenienti
dalla Diocesi di Fidenza] nella nascente parrocchia di San Martin de
Porres assieme a Don Damiano e a
Giuliano e Daniela [volontari SVI di
Brescia]. Nel triennio1989-91 Luca
e Giovanna [fidentini anch’essi], lo
portarono a conclusione, mentre
Brasellina incominciava un preprogetto nella vicina zona rurale
di El Pao.
Quasi fin dalle origini l’azione
nel Paese fu il frutto di una collaborazione tra la diocesi di Fidenza e lo SVI. Come nacque la
partnership? Quali scopi aveva?
Fu una collaborazione efficace?
In quel periodo, a Fidenza, la
Diocesi, attraverso il Centro Missionario e la Caritas, proponeva
sul territorio esperienze di volontariato locale e internazionale.
L’esperienza di Giuseppina e altre
precedenti esperienze di volontari SVI fidentini sia in Brasile che in
Burundi, portarono alla reciproca
conoscenza e collaborazione nel
progetto a San Felix. La partnership si rivelò efficace permetten-
Gianluca Bassani in Gran Sabana. Riflessione...
do da un lato, alla Diocesi, di dare
continuità ad un progetto missionario e di promozione umana,
creando i presupposti per uno
scambio culturale ed ecclesiale,
dall’altro, all’organismo, di avere
una controparte in Italia con cui
confrontarsi circa obiettivi, metodi e stili di presenza.
Quali erano le caratteristiche
della vostra presenza in Venezuela?
Ci inserivamo in un determinato
contesto, andandovi ad abitare,
e facilitavamo la creazione di relazioni tra vicini e l’analisi della
realtà, valorizzando risposte ai
bisogni che sorgessero dal sapere popolare, in modo da suscitare
autostima tra le persone e condividere insieme le speranze di un
cambiamento possibile. I volontari vissero il proprio ruolo mediandolo nel dinamico evolversi delle
situazioni. Infatti, se in un deter-
minato ambito erano i propositori
di un processo, in un altro erano
interlocutori comuni assieme ad
altri partecipanti come a essere
parte coesa del processo stesso
che stavano promuovendo. D’altra parte l’obiettivo del progetto
era suscitare una duratura organizzazione popolare di base che
coniugasse la sfida alla dura realtà
con la cultura, le capacità e i ritmi
delle persone. Quindi l’intervento
non poteva strutturarsi sulla figura del volontario SVI a scadenza
triennale, bensì su quella di leader
locali che garantivano continuità
di partecipazione.
Quali risultati ottenevano le vostre iniziative?
Un esito costante era la coesione
tra le persone coinvolte nei gruppi di base su specifici indirizzi [salute, giovani, comunità ecclesiali
di base], che, a distanza di 20 anni
persistono nella loro azione molti23
VENEZUELA
plicatrice in vari quartieri e zone.
Inoltre la professionalità raggiunta dai leader locali interpellati in
questi anni ci stimola anche oggi
a condividere una ricerca comune, a partire dal basso, sulle alternative possibili agli effetti del
mondo globalizzato. Come a dire,
siamo ancora coinvolti sia a livello
personale che istituzionale nel relazionarci con le realtà conosciute
durante le nostre esperienze di
volontariato, ma in uno scenario
allargato che comprende anche i
nostri confini.
SVI in America Latina e SVI in
Africa. Somiglianze e differenze
dal vostro punto di vista...
L’ormai venticinquennale esperienza SVI in Venezuela può dirsi
caratterizzata da un approccio basato sull’ascolto e sulla lettura della realtà locale, sulla ricerca-azione,
sulla partecipazione dal basso, in
un reciproco processo di coscientizzazione e di invito all’impegno
per il cambiamento nell’ottica di
logiche di rete, di cooperazione, di
solidarietà locale e internazionale.
Non si caratterizza per interventi
strutturali o di forte impatto economico, piuttosto per micro-progetti di sostegno a gruppi o leader
locali in grado di favorire, o accelerare un poco, processi già in atto
o latenti nel contesto in cui si opera. Il successo di tale approccio ci
stimolerebbe a vederlo applicato
anche in altri contesti in cui opera
l’organismo, come quelli africani
o di altri paesi latinoamericani:
fatte le ovvie distinzioni e non dimenticando particolari situazioni
di emergenza o carenza in cui si
opera, né le maggiori distanze linguistiche e culturali che separano
spesso volontari e popolazione, si
potrebbe tentare, anche in questi
contesti, di aprire strade analoghe
per stile di presenza e approccio
alla realtà locale.
Luca Rigoni
e Gianluca Bassani
24
1.
Volontari on the air
Contrariamente a quanto riportato nel numero precedente, Laura Crawford, Massimo
Ginammi, e Marina Moreni
e Mario De Carolis hanno
concluso il loro servizio in Venezuela i primi il 21 maggio e i
secondi il 2 giugno 2009.
Nella seconda metà di giugno
è previsto il rientro in Italia anche di Lucia Cancarini, che,
nei suoi due anni di presenza
in Uganda, ha svolto un servizio di supporto organizzativo,
amministrativo e logistico ai
progetti SVI in Karamoja, e di
Fausto Conter, da 4 anni in
servizio ad Iriir.
2.
Gruppo scuola
Mercoledì 20 maggio 2009 si
è tenuto l’evento conclusivo
di “Ecoscuole”, il progetto
di educazione ambientale finanziato da A2A, Assessorati
alla PI e all’Ambiente e Circoscrizione Centro del Comune
di Brescia, Fondazione A2A,
MOICA.
L’azione, che consisteva in una
ricerca-azione volta a far scegliere e realizzare alle classi al-
cune attività per la riduzione
dei consumi di elettricità, riscaldamento e acqua, ha coinvolto 20 classi [450 alunni e 20
insegnanti circa] appartenenti
al centro città. Nel corso dell’evento tutte le classi hanno
ricevuto un riconoscimento
[gadget A2A e una selezione
di libri] per i risparmi conseguiti, nell’approssimativo ordine del 4% per l’acqua e del
5% per l’elettricità. A causa del
rigido e piovoso inverno 2009,
non sono purtroppo stati ottenuti risparmi sotto il versante del riscaldamento.
Negli stessi giorni si è concluso anche il parallelo progetto
“Scuole Verdi” che ha visto
partecipare 8 classi della provincia.
Per il 2009-2010 il Gruppo Scuola, in collaborazione
con l’ass. SOFRAPO e il CMD
Brescia, ha richiesto alla Fondazione della Comunità Bresciana un finanziamento per
“Ascan”, un progetto di educazione interculturale rivolto
alle scuole di Brescia e provincia.
Info – Francesca Albasini Pereira – email: grupposcuola@
svibrescia.it.
... e partecipazione, le due parole-chiave degli interventi SVI in Venezuela.
A dx Luca Rigoni durante un compartir, a San Felix.
VENEZUELA
UNA VITA RINNOVATA
“Operare in un contesto che richiede una continua disponibilità alla relazione
cambia l’esistenza”, sostiene Giacomo Signoroni, a San Felix [Venezuela] dal 2000 al 2003.
La seconda fase della presenza
SVI in Venezuela: fasi cruciali e
caratteristiche.
L’inizio della seconda fase [a partire dal 1996] si caratterizza per la
presenza dei volontari Marco Bo e
Jazmina Silva e con il ritorno alla
periferia della città, dopo una breve
parentesi campesina nella zona di
Rio Claro. La controparte locale aveva infatti richiesto un intervento nel
settore agricolo alla periferia della
città: l’approccio si era però rivelato
insostenibile, anche perché, all’arrivo dei volontari, la controparte non
era più presente in zona.
A questo punto divenne obbligatorio legare meglio il lavoro dei
volontari alla base sociale per dare
continuità agli interventi, cercando
agganci tra i promotori e le associazioni locali. In questo periodo iniziò
uno sforzo sistematico per fare rete,
un lavoro simile a quello che già
stava facendo Sapagua, ma esteso
anche a settori diversi dalla salute.
Da qui, dal germe dei contatti con
gli artigiani dell’argilla, con le esperienze culturali degli abitanti della
zona del Rosario, con l’esperienza
del progetto dei bambini di strada,
si è concretizzata una prima rete di
enti e associazioni di base che poi,
seppure tra alti e bassi, è cresciuta
negli anni.
In realtà non sono state solo le nostre intenzionalità ad accelerare il
processo di crescita delle comunità
locali: nel ‘98 è cambiato lo scenario
del Paese con l’arrivo di Chàvez e
della Rivoluzione Bolivariana. Questa è stata una sorta di primavera
che ha fatto germogliare molteplici
iniziative che hanno potuto trovare,
in alcuni momenti, nell’impostazione del lavoro dello SVI un valido e
riconosciuto alleato.
procci o stereotipo?
Stereotipo! La nostra esperienza
dice che c’è una tensione comune
tra tutte le persone che, con competenza e passione, si mettono a
disposizione per promuovere cambiamenti a misura delle comunità;
ma questo vale su scala globale e
non solo in America Latina.
Nello specifico è necessario incarnare quest’idea nell’esatto contesto
in cui si opera che, per storia e soprattutto per cultura, è specifico.
Inoltre riteniamo che per persone
come i volontari SVI che emigrano
in altri Paesi per fare lavoro sociale
è fondamentale l’aspetto culturale,
più che quello del metodo. Tra Paesi latinoamericani esistono tratti
comuni; ma è più interessante approfondire le specificità; e, così facendo, spesso si scopre che queste
ultime sono molto profonde.
Il contesto urbano venezuelano è
caratterizzato da una condizione
di continuo cambiamento. Come
conciliare approccio progettuale e approccio partecipativo, che
prevede si rispettino esigenze e
propensioni all’azione delle persone e delle comunità con cui si
opera?
Con l’intuizione, fatta realtà, di
un’équipe permanente di progetto
composta non solo dai volontari
italiani, ma anche da rappresentanti locali che sono “militanti” e
non consulenti, come quella attualmente attiva nei nostri progetti venezuelani.
Inoltre è fondamentale mantenere
e approfondire la relazione istituzionale con i vari partner locali che hanno, come noi, o meglio di noi, chiaro il
delicato rapporto tra i due approcci.
Quali sono stati e quali sono gli
esiti del vostro lavoro?
A livello personale diremmo: la vita
rinnovata, un nuovo paio di occhiali per osservare la realtà, la doppia
appartenenza, Italia e Venezuela, e
il vedere la continuità del progetto
fino ad ora. A livello di organizzazione gli esiti sono naturalmente
molto più ampi; ma questo potrebbe essere oggetto di un’altra intervista!
Giacomo Signoroni
Giacomo Signoroni, Marilena Valvano, Marina Moreni, Elena Matteucci
e alcune promotrici di Sapagua durante una recente visita al progetto.
Il lavoro sociale in America Latina: stile comune, famiglia di ap25
CI SIAMO LANCIATI
VENEZUELA
A CAMMINARE…
Hendrick Torres, venezuelano e collaboratore del progetto SVI a San Felix- Moscù,
racconta l’organismo visto dall’“altra parte”,
quella di coloro che con i volontari operano e lottano per un mondo migliore.
Quale idea ti sei fatto dello SVI in
Venezuela?
La mia relazione con lo SVI è iniziata
nel 2002: in quel momento lavoravamo insieme ai gruppi di giovani nel
barrio Altamira; è stata un’esperienza significativa: i ragazzi e le ragazze
iniziavano a conoscere la propria
realtà e a intervenire in essa nella
misura delle proprie capacità. Poi
mi sono allontanato dal coinvolgimento diretto con lo SVI per un paio
d’anni; infine, dal 2006, è iniziata
una nuova fase di collaborazione.
Confrontando passato e presente
della presenza SVI, posso dire che
oggi vedo un organismo più forte
nel proprio operato; e non mi riferisco all’impatto numerico, ma alla
sostanza delle sue proposte, specie
per quanto riguarda l’esperienza
del Gruppo di Donne Produttive di
Altamira [San Felix] e l’esperienza
dell’orto organico comunitario al
Porvenir II [Las Amazonas].
I processi di lavoro comunitario
dell’orto e delle donne di Altami-
Hendrick Torres.
26
ra vanno controcorrente a ciò che
[purtroppo] è diventata un’abitudine. Viviamo in una realtà [l’attuale
Venezuela] nella quale si formano
consigli comunali e cooperative la
maggior parte dei quali lavora per
ottenere fondi dagli enti governativi: la loro sopravvivenza dipende da
tali fondi.
Invece queste esperienze [l’orto e il
gruppo produttivo] camminano con
le proprie forze dimostrando che
non è il denaro a risolvere i problemi della gente, ma la crescita della
coscienza, e che questo è possibile
solo camminando insieme a chi vive
nelle stesse situazioni.
Inoltre i contenuti delle azioni, produzione a base sociale e cura dell’ambiente, hanno un gran significato morale per il cammino verso l’altro
mondo necessario, il nostro mondo.
Nel sistema di valori del mondo capitalista si antepone la produzione
privata, che implica speculazione e
sfruttamento, alla produzione associata, e l’utilizzo predatorio dell’am-
biente al rispetto della madre terra;
l’azione dello SVI sta vivendo con la
gente ciò che deve essere questo
nuovo, imprescindibile mondo.
Qual è il contributo che lo SVI ha
dato e sta dando al cambiamento?
Lo SVI dà il suo contributo proprio
nel “Processo” [nel percorso per la
creazione di un mondo migliore,
NdR], accompagnando la gente nel
cammino di generazione di nuova
conoscenza e di progressivo cambiamento di ciò che ci circonda. Questo è possibile solo con un affiancamento da presso delle persone nelle loro vite; è un lavoro quotidiano
di conoscenza di sé e dell’altro nella
stessa realtà delle comunità con cui
collaboriamo, un modo di fare che
è di rottura rispetto al consueto
intervento lampo [nell’ambito del
quale si costruiscono case, o pozzi d’acqua...] e che rispetta quanto
le persone stesse possono fare per
cambiare la propria realtà.
La realtà attuale è complessa, e in
Venezuela è ancora più complessa.
Secondo me, oggi noi venezuelani ci
siamo proposti di cambiare il nostro
sistema di vita che ci aveva portato
solo miseria; ma ciò che deve morire
non finisce di morire e ciò che deve
nascere è ancora in un complesso
parto. In questo contesto opera lo
SVI; questo dà ancora più senso e
pertinenza all’azione; però aumenta
anche il numero delle sfide e delle
minacce.
In Venezuela si sta sperimentando la formula dell’équipe di progetto, costituita da tutti i responsabili, venezuelani e italiani, delle
varie attività condotte nell’ambito dell’azione. A quale scopo
vi siete dati questo strumento di
confronto? Trovate che funzioni?
Quali risultati permette di raggiungere?
VENEZUELA
Riunione di donne a Moscù, sede del futuro progetto SVI.
Avere più progetti nella zona e due
nuclei di volontari ha di per sé portato alla formazione di un’équipe
di coordinamento. Lo SVI opera secondo rigorosi standard d’azione; e
deve anche rispondere agli esigenti
parametri dei progetti scritti, correndo – nel fare questo - il rischio di
perdersi nel raggiungimento di risultati prefissati da indicatori oggettivi che, per quanto stabiliti con le
comunità, sono aridi e non tengono
conto della necessità di accompagnare le persone e i gruppi nel loro
cammino, non sempre lineare.
L’équipe di coordinamento aiuta tutti gli operatori ad avere ben cosciente il nostro ruolo nell’animazione
socio comunitaria, che va svolta con
responsabilità e senza quei paternalismi che impediscono che i processi
camminino con le proprie gambe.
Inoltre ogni tre anni arriva una nuova équipe di volontari; e questo
mette sempre a rischio i processi innescati: ognuno apporta il proprio
stile al lavoro. Contare sull’équipe di
coordinamento garantisce continuità ai processi; inoltre l’accumulazione delle esperienze è una scuola per
i nuovi volontari e facilita il loro inserimento nei progetti. Questi sono
i maggiori punti di forza dell’équipe
di coordinamento.
La principale sfida per i volontari è
l’inserimento in una nuova cultura,
in una nuova visione di vita: quando il loro grado di inserimento nella nostra realtà è accettabile, è per
loro già il momento di tornare in
Italia. Ecco perché questa capacità
già diventata patrimonio non deve
andare sprecata. Qui in Venezuela
o in Italia si deve apprendere dall’esperienza.
Come farlo è una sfida per tutti noi.
Come costruire partenariato tra
realtà del sud e realtà del nord del
mondo?
Cerchiamo di costruire alleanze tra
organizzazioni del nord e del sud a
partire dalla nostra esperienza come
CFG [Centro de Formaciòn Guayana].
Abbiamo camminato insieme e oggi
abbiamo una buona relazione istituzionale che rafforza tanto lo SVI
quanto il CFG. Dobbiamo riproporre questo cammino anche con altre
organizzazioni.
Ci si conosce meglio venendo allo
scoperto non solo con il dialogo, ma
anche con la coerenza del detto con
i fatti; questo consente di stabilire
una relazione chiara, reale, un’unione che ci anima a continuare la lotta, a partire dal concreto, per il cambiamento del mondo con la gente, a
partire dalla gente.
Quale contributo potete dare voi,
che vi impegnate per il cambiamento in America Latina a chi si
impegna per il cambiamento in
Europa?
Collaboratori e volontari, CFG e SVI,
abbiamo fatto passi avanti verso
una relazione di mutuo beneficio
perché ci unisce un proposito comune, la causa della costruzione di
una realtà diversa da quella attuale;
noi in Venezuela, questa realtà, la
chiamiamo “socialismo”, un nuovo
socialismo passato attraverso la nostra esperienza come popolo.
Qui è rinata la speranza che è possibile cambiare: abbiamo un Paese
e un continente che ardono di desiderio di avere un futuro degno per
le proprie genti e di costruire una
nuova cittadinanza, che non assomigli alla cittadinanza individualista
consumista del capitalismo.
Ci manca ancora molto cammino da fare; però ci siamo lanciati a
camminare. Se qualcosa possiamo
apportare ai nostri fratelli europei,
è la nostra speranza che si traduce
ogni giorno nell’impulso di fare la
rivoluzione.
Hendrick Torres
Venezuela, America del Sud
27
A SCUOLA DI CITTADINANZA
PERÙ
Michela Vergine e Alessando Simini, con lo SVI a Zurite [Perù] dal 1998 al 2001
e nel Paese latinoamericano anche in seguito, sempre in collaborazione con lo IER,
tracciano una storia della presenza dell’organismo nell’area andina.
Come ebbe inizio la presenza SVI
in Perù?
Il progetto SVI di Zurite-Cusco è nato
dell’incontro abbastanza casuale tra
Gianni Lorigliola e il parroco di una
importante parrocchia della città di
Cusco, padre Nicanor Acuna. Quest’ultimo era uno dei rappresentanti e fondatori dello IER [Instituto
de Educaciòn Rural], persona molto
sensibile alle problematiche sociali,
in particolare della gente campesina.
Un anno prima con un piccolo gruppo di giovani padre Nicanor aveva
avviato una nuova centrale di formazione dello IER a Zurite, un paesino rurale a circa un’ora da Cusco.
La forza di volontà e l’entusiasmo
non mancavano; però, come in tutti
i progetti, non si poteva trascurare
l’aspetto finanziario. L’incontro tra
Nicanor e Gianni e poi con altri componenti dello IER Nazionale fece
emergere una proposta di intervento cui lo SVI diede seguito, dando il
via al progetto di Zurite: i primi volontari partirono nell’aprile del ‘98.
In che cosa consisteva l’azione?
Obiettivo dello IER è offrire formazione in ambito agro-zootecnico ai
campesinos che spesso, per fattori
socio-economici, non hanno l’opportunità di studiare e di prepararsi
tecnicamente. I corsi realizzati sono
pratici, per offrire una formazione
adeguata alla realtà campesina e
per non escludere chi non sa leggere e scrivere.
Per questo motivo la scuola attrezzò
aree produttive dimostrative per il
tirocinio degli alunni: stalle per allevamento bovini, suini e cuyes [porcellini d’India], orto, serre, forno, laboratorio di trasformazione del latte
e della frutta, mulini, falegnameria,
laboratorio di maglieria. I corsi sono
definiti di “formazione integrale”,
perché non solo toccano l’aspetto
tecnico-produttivo, ma approfondiscono anche tematiche socioeconomiche e di formazione umana.
Considerata il vostro servizio pluriennale nel Paese, potete riportarci una breve storia del progetto?
I primi volontari si inserirono nell’équipe di tecnici peruviani che da
Alessandro Simini...
28
due anni cercava di avviare questa
scuola con le proprie risorse. Subito si dedicarono a consolidare il
gruppo, poco coeso a motivo della
diversità di storie e interessi di coloro che ne facevano parte, si implementarono le aree produttive
e si idearono piani d’azione più sistematici: all’inizio tutto era ancora
condotto in modo spontaneo e confuso. Dal quarto anno, con l’arrivo
della seconda coppia di volontari, si
aprirono più attività verso l’esterno
cercando collaborazioni con il municipio e altre realtà locali.
Infine, negli ultimi tre anni, con l’arrivo di due coppie di volontari e con
l’approvazione del finanziamento
da parte del Ministero degli Affari
Esteri italiano, si consolidarono le
attività di formazione e di produzione e si ristrutturò parte degli edifici
del Centro. Nell’ultimo anno si cercò
di ridurre gradualmente l’appoggio
dello SVI in modo da permettere
all’Istituto di camminare con le proprie forze.
Diverse fasi dell’azione, diversi
volontari, diversi stili d’approccio...
Ogni periodo è stato caratterizzato
da volontari con proprie storie di
vita, propri valori e propri orientamenti. Queste diversità hanno segnato il progetto con la loro presenza. Da un certo punto di vista hanno
costituito una ricchezza: ognuno ha
portato il proprio contributo personale al progetto; d’altro lato abbiamo percepito la difficoltà da parte
della controparte di capire i nuovi
volontari e di adeguarsi allo stile di
presenza di ciascuno; illuminante fu
la richiesta da parte di uno dei fondatori dello IER di poter conoscere
prima le caratteristiche del futuro
volontario e di poter decidere se accettare la sua presenza.
21 giugno
PERÙ
Il programma
09:00 – Accoglienza
09:45 – Saluto del presidente e apertura dei
lavori
E Michela Vergine...
A conclusione della presenza SVI nell’area, quali i cambiamenti realizzati nel contesto?
Il progetto SVI-Zurite ha operato per più di 9 anni in collaborazione con lo IER che già lavorava sul territorio; durante questo
periodo con le diverse attività sono state raggiunte centinaia
di persone; credo che nella zona di intervento si sia comunque forgiata una generazione di leader comunitari, anche
perché la formazione offerta era integrale e toccava aspetti
tecnici, umano-sociali e spirituali. Riteniamo che la filosofia di
intervento dello IER, così come è stata pensata, sia veramente
valida; e lo SVI ha dato alla centrale di Zurite la possibilità di
renderla operativa.
Michela Vergine
Alessandro Simini
10:00 – Tavola rotonda
“40 anni SVI – Storia e possibili sviluppi”
Coordina:
C. Donneschi
Intervengono:
A. Ungari [La genesi],
M. Piazza [La formazione],
Volontari rientrati [I progetti],
S. De Toni [L’attività in Italia],
L. Bisceglia [Il futuro].
12:00 – Discussione plenaria e conclusioni.
12:45 – Pranzo [menù: risotto, tagliata di
chianina con caponata di verdure al forno,
insalata fresca, dolce, acqua, vino, caffè]
15:00 – Intrattenimento musicale
RADIO CLOCHART
16:30 – Premiazione concorso fotografico
ed estrazione premi lotteria
17:00 – Santa Messa
officiata da Mons. Battista Targhetti
Nota metodologica al numero
I lettori avranno notato che il numero di Esserci che
hanno tra le mani non contiene una trattazione sistematica dei progetti SVI: sono stati esclusi aggiornamenti sulle azioni in atto [già esposte sui numeri
ordinari di Esserci] e non sono stati nemmeno considerati i progetti SVI in Kenya e in Paraguay [questo
per banali problemi di spazio e per contingenze che
hanno impedito alla redazione di reperire testimoni]. Inoltre, in merito ai Paesi in cui lo SVI è presente,
queste pagine non raccolgono una storia esaustiva
di tutte le azioni che l’organismo vi ha condotto. Infine mancano gli scritti di testimoni che sarebbe stato
necessario coinvolgere. Purtroppo un numero che
avesse riportato testimonianze su tutti i progetti SVI
coinvolgendo un volontario per progetto avrebbe
avuto costi e richiesto tempi esorbitanti, almeno per
le limitate possibilità della redazione.
Ho comunque seguito un ordine nella compilazio-
ne delle testimonianze. Per dare almeno un’idea
del senso soggiacente allo sviluppo storico della
presenza SVI nel sud del mondo ho usato un triplice
criterio: storico, causale e geografico.
Ho presentato prima i progetti che, nella realtà, hanno avuto inizio prima [criterio di priorità storica],
mantenendo collegati, in questo flusso di sviluppo
cronologico, progetti che, per quanto in Paesi diversi da quello originario, ne costituiscano filiazioni
[criterio di connessione causale]. Ho infine puntato
a tenere separati progetti africani e progetti latinoamericani per le particolarità d’approccio che si riscontrano nelle azioni condotte nei due continenti
e per facilitare un confronto.
Le testimonianze sono precedute da un quadro sinottico dei progetti SVI nel mondo per aiutare i lettori a orientarsi nel dedalo.
Il coordinatore di redazione
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GLOBALIZZAZIONE
IL MONDO DOPO IL G20 DI LONDRA
Recessione, disoccupazione… La crisi è tale da provocare, fatto unico nella storia, ben tre riunioni dei venti Capi di Stato
e di governo più potenti nel mondo in meno di un anno. Il summit del G20 di Londra svoltosi il 2 aprile 2009 ha messo
sul tavolo somme favolose, adottato alcune buone risoluzioni, riconosciuto il peso di numerosi Paesi emergenti e dato
alla Cina l’occasione di porre la propria candidatura per un’associazione con gli Stati Uniti che non hanno negato
il proprio accordo. Ciononostante, nessuno ha proposto uno scenario convincente per uscire dalla crisi.
Ricordava su Le Monde l’ex direttore del quotidiano parigino
André Fontaine che Balzac, alcuni anni prima della Rivoluzione
del 1848, aveva scritto Le illusioni perdute; il titolo si sarebbe ben
applicato, continuava Fontaine, tanto alla Rivoluzione d’Ottobre
del 1917 quanto al famoso venerdì nero del 1929 a Wall Street,
del quale la crisi attuale ricorda sotto molti aspetti le origini e lo
svolgimento.
Soltanto nel 1932, con l’elezione alla Casa Bianca di Franklin
Roosvelt e grazie al suo New Deal, gli Stati Uniti si rimisero in
marcia; ma fu la guerra – con i suoi terribili massacri e le distruzioni – a creare bisogni colossali, generatori di piena occupazione. Il suolo degli Stati Uniti era stato risparmiato dalle operazioni
belliche; e le perdite riportate furono di gran lunga inferiori sia a
quelle dei loro alleati che dei nemici; gli USA non potevano non
diventare leader, garanti, fornitori e banchieri del nuovo ordine
mondiale, concretizzato dalle Nazioni Unite con gli accordi monetari di Bretton Woods e con il patto atlantico per la creazione
della “Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economici”
[OCSE].
Ci si sarebbe dovuti accorgere [come fecero Keynes e pochi
altri] del carattere congiunturale, e pertanto eccezionale, della
ripresa e non si sarebbe dovuto prendere
per oro colato il preteso automatismo
degli aggiustamenti della meccanica libero-scambista cara
ad Adam Smith e alla sua
“mano invisibile dei mercati”. La perfezione non è di
questo mondo: i bisogni
crescenti delle popolazioni che si moltiplicavano rimettevano in discussione
equilibri secolari. Si pensi
alla crisi petrolifera degli
anni ’70. O a quando
Nixon, per ripianare il
debito pubblico USA
salito alle stelle dopo la rovinosa guerra del Vietnam, decise, nel
1971, di sopprimere la libera convertibilità del dollaro: tutta la
costruzione liberale venne messa in discussione.
Nel 1989 il naufragio economico ed ideologico dell’URSS e dei
suoi satelliti ridaranno vigore al liberalismo.
Mikhail Gorbaciov, duecento anni dopo la caduta della Bastiglia
e 72 anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, non dovrà soltanto lasciar distruggere il Muro di Berlino ma, in visita a Bonn nel luglio 1989, dovrà chiedere ad un Helmut Kohl, troppo felice di
accettare, di inviare d’urgenza a Mosca aerei militari tedeschi
per aiutare la popolazione a fronteggiare una situazione di grave penuria alimentare: il modello economico e politico dello
statalismo leninista e stalinista si dissolveva in un nulla e non
era in grado di garantire il pacificato mondo post-rivoluzionario
prefigurato da Marx.
Così in quegli anni Francis Fukuyama profetizzerà la prossima
fine della Storia, per “l’esaurimento delle alternative sistematiche
al liberalismo occidentale”. Gli Stati Uniti si vanteranno di essere
“la sola superpotenza” o, per usare la terminologia di Ronald Reagan, “il faro di speranza per tutta l’umanità”: trader superdotati
esploreranno tutte le possibilità della matematica per creare,
partendo dal nulla, come nelle evangeliche Nozze di Cana, decine di migliaia di dollari. Se ne sono visti gli esiti.
Barack Obama - l’intelligenza, il coraggio, l’eleganza morale - è manifestamente agli antipodi delle fantasticherie dei suoi predecessori. Chiamato a svolgere, per
il peso essenziale del suo Paese sullo scacchiere
globale, un ruolo principale a proposito della crisi mondiale, è giustificato nell’affermare la sua
leadership; ma vi riuscirà soltanto se saprà contemporaneamente rispettare e farsi rispettare,
ascoltare e farsi ascoltare. In ogni caso, comunque, l’accompagnano gli auguri della grande
maggioranza.
Gabriele Smussi
Sospetto verso le irrealistiche ricette dei bianchi
bianchi..
30
SUGGESTIONI
Playing.
RECENSIONI
ASCOLTARE
ROKIA TRAORÈ
Bowmboï
Nonesuch
2003
LEGGERE
OPAL [A CURA DI]
Armi, un’occasione
da perdere.
II annuario OPAL
Bologna
EMI
2009
VEDERE
LEANDRO MANFRINI
WILLY BAGGI
Tiziano Terzani.
Il Kamikaze della pace
Italia
2007
51’
NAVIGARE
www.myfootprint.org
La cantante maliana Rokia Traoré con tre album e centinaia di
concerti fra Africa, Europa e America si è conquistata un posto
di primo piano fra gli artisti africani di fama internazionale.
Conosce a fondo la tradizione del suo Paese d’origine, sia dal
punto di vista dell’uso degli strumenti sia per le citazioni del
patrimonio dei cantastorie griot. Musica africana contemporanea, che abbraccia anche influenze folk, rock ed elettroniche.
E proprio in Bowmboï, il suo terzo album, l’artista dimostra la
sua maturità espressiva, affermando: “Per me è fondamentale
il dialogo tra culture”; per questo scrive i testi in francese e in
bamanan, la lingua della sua etnia, facendo arrivare così il suo
messaggio al pubblico sia africano che europeo.
La musica di Rokia è musica di storie semplici, di consapevolezza, di riscoperta delle proprie origini, una sorta di folk-roots,
un disco riflessivo, intenso, introspettivo, a tratti malinconico, ma che non rinuncia a canzoni con veri
e propri crescendo supportati da magistrali percussioni, strumenti classici affiancati agli strumenti
tradizionali.
Fra i temi affrontati la difficile condizione dei bambini e della donna in Africa, la fragilità dei rapporti
d’amore, i conflitti fra civiltà diverse.
In un convegno svoltosi nell’Auditorium dell’Istituto Artigianelli di Brescia il 18 aprile 2009 è stato presentato
alla cittadinanza il 2° Annuario di OPAL, “Osservatorio
Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza
e Difesa”, dal titolo Armi, un’occasione da perdere.
Ad OPAL, quale membro di “Brescia Solidale”, aderisce
anche lo SVI.
Nella presentazione si è insistito tanto sull’incremento
delle ingenti spese militari nel nostro Paese [che i cittadini continuano a sopportare], in netto contrasto con
il ruolo di secondo piano dell’Italia nella collocazione
internazionale, quanto sulla sempre minor trasparenza
degli investimenti militari. È proprio vero, come si sostiene, che le spese militari assicurino la crescita
economica e l’occupazione o piuttosto i fondi
stanziati impediscono invece investimenti più
produttivi in altri settori che sarebbero prioritari, quali educazione e sanità? Quale ruolo potrebbe giocare la Chiesa cattolica in tale contesto? E come la produzione di armi interpella la
coscienza dei cristiani?
“Ancor più che fuori le cause della guerra sono dentro di
noi... Sono in passioni come il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, l’orgoglio, la vanità... Lentamente bisogna liberarcene... Cambiare atteggiamento... Cominciamo a prendere le decisioni che ci riguardano e che riguardano gli altri
sulla base di una maggiore moralità e di minor interesse...”
Inizia così questo documento, straordinario per la forza e la
profondità del suo messaggio.
In modo asciutto e sobrio, il film Tiziano Terzani. Il Kamikaze
della pace racconta il “pellegrinaggio di pace” che Terzani
fece nel 2002 nelle scuole italiane, in cui con semplicità affrontò grandi temi quali la guerra, la spiritualità, l’ambiente,
la morte, la condizione femminile.
51’ minuti di amore, di esperienze, di pace; 51’ minuti che restano
dentro anche dopo aver spento
il lettore dvd e il giorno dopo
e quello dopo ancora... Boccata
d’aria fresca in un momento storico e sociale così inquinato. Terzani, con le
sue parole, lascia un’eredità inestimabile: la
voglia di sperare e cambiare il mondo, a partire
da noi stessi.
Claudia Pisano
L’impronta ecologica è il “peso” che sopporta il pianeta per
sostentare lo stile di vita di una persona, di una famiglia
o di una nazione intera. Il concetto sta avendo presa sul
grande pubblico per la possibilità di misurare il proprio
impatto sull’ecosistema. Esistono varie risorse web per
calcolarlo. Redefining Progress è un think tank californiano
che elabora strategie di crescita economica sostenibili e in
grado di sfidare i modelli convenzionali, incapaci di tenere
conto dei danni che lo sviluppo arreca all’ambiente. All’interno del sito collegato a RP, myfootprint.org, inserendo le
proprie abitudini quotidiane, è possibile calcolare il proprio impatto espresso in Ettari Globali [gha]: la superficie
di terra e oceano necessari per sostenere il nostro stile di
vita. Ognuno di noi dispone in media di 1,8 gha, ma ne
consuma [sempre in media] molti di più. Questo signifi-
ca che, soprattutto a causa dei modelli di produzione e
consumo dei paesi del Nord del mondo, ogni anno l’umanità depaupera il pianeta di risorse che non
saranno disponibili per le generazioni future.
Sempre allo stesso indirizzo web è possibile
attingere a consigli per ridurre il proprio impatto,
prevedibilmente alto se state leggendo dall’Italia.
Una versione in italiano del test è disponibile sul
network della Rete Lilluput [http://www.retelilliput.
it/modules/DownloadsPlus/uploads/Documenti_Tematici/ie2004manuale.pdf].
Nicoletta Quartini
Gabriele Smussi
Jacopo Tronconi
Rubrica curata in collaborazione con: CSAM (Centro Saveriano di Animazione Missionaria) - Via Piamarta, 9 - 25121 Brescia - www.saveriani.bs.it
40 ANNI DI VOLONTARI SVI
Maura
Agosti
– Sergio Belotti – Luigi
Gardin – Patrizia Minazzato in Gardin
– Claudio Bianchi – Rosanna Zappa – Roberto
Bobbo – Antonella Barboni in Cattaneo – Maurizio
Cattaneo – Battista Dassa – Anna Maria Guareschi
– Mauro Serventi – Cecilia Zardetto – Enrico Fantoni
– Emilia Benelli – Teresa Fenaroli in Pasotti – Salvatore
Pasotti – Ivana Schiavi in Tavelli – Gianni Tavelli – Egle Donatella
Castrezzati in Sberna – Mario Sberna – Rosetta Caldana – Maria Daria
Dessì – Alessandra Viviani – Socorro Dos Santos – Vincenzo Ghirardi –
Giovanni Gillini – Stella Pietropaolo – Umberto Bosetti – Giuseppe Bignotti
– Marcello Alghisi – Marisete De Oliveira – Giacomo Morandini – Giacomo
Sorlini – Gloriana Sorlini – Silvano Boschi – Enrica Radici in Boschi – Alessio Gabrielli
– Pietro Gelfi – Paolo Belleri – Neris Coati – Nara Giannessi – Giuseppe Cadei – Claudio Gasparini – Vincenzo
Bettoni – Bruno Cottinelli – Mario Finocchio – Luigi Melgari – Raabe Gunter – Aldo Ungari – Antonio Della Fiore
– Gianmichele Portieri – Achille Frusca Boeris – Gianfranco Anni – Franco Cattaneo – Luigi Zenier – Ernesto Mazzolari
– Umberto Vergine – Fausto Lonati – Luigi Filippini – Piero Zacquini – Dora Zacquini – Tullio Zearo – Letizia Miriam
Pasolini – Guido Marinoni – Gianbenedetto Colombo – Imelda Tralli – Giambi Anni – Nicola Bonvicini – Edoardo
Bernardi – Roberto Brunelli – Savina Cadei in Brunelli – Evelina Uberti in Zearo – Gino Villa – Gianfranco Craighero
– Giovanni Gobbi – Mario Rubagotti – Doriana Zamboni in Gobbi – Mauro Arizzi – Carolina Visini – Paolo Marelli
– Maria Zamolo in Bortolotti – Mario Bortolotti – Massimo Pagani – Angiola Baitelli in Pagani – Carlo
Meroni – Firmo Temponi
– Beatrice Venturini in Temponi – Piero Bianchi – Aurelio
Valentini – Francesco Dall’Olio – Abbondanza Agrusto
– Aureliano Becchetti – Daniela Pasini in
Craighero – Guglielmino Baitelli – Fabrizia
Baronchelli – Stefania Vezzoli in Baitelli
– Giuseppe Gerri – Giuseppina Cunial – Roberta
Pasin – Rosetta Rubert – Antonietta Sperandio
– Lucia Colombo – Ida Bernardi – Vania Vettoretti
– Bruno Pierasco – Lucio Merzi – Teresa Zearo
– Tania Tagliaferro – Carolina Visini – Gabriele
Febbrari – Marco Bazoli – Damiano Rossi
– Francesca Belotti – Angela Bresciani in Vergine
– Carla Cerri
– Savina Cadei – Maria Belleri – Laura Ungari – Margherita Verzeletti
– Claudia Rivoli – Teresa Quagliata – Giuseppina Abastanotti – Marilena
Angelini – Vigilia Bettinsoli – Carolina Cimonetti – Maria Rosa Chiesa – Maria
Carolina Dellanoce – Laura Fenato – Gianna Marchetto – Enrico Cabra – Rachele
Sangalli – Chiara Bresciani – Elio Pitozzi – Tarcisio Moreschi – Lucio Benedetti – Gianni
Marini – Cecilia Cadeo in Marini – Maria Rita De Momi in Fini – Bruno Fini – Giorgio Munegato
– Maria Teresa Cobelli – Oliviero Davolio – Zemira Vaglia – Virginia Rota – Maria Visentin – Luigi
Filippini – Luigi Esposito – Alessandro Simini – Michela Vergine in Simini – Alberto Birocco
– Claudia Gamba – Michele Vezzoli – Bruno Iukich – Roberto Ronca – Flavia Bianchi – Gianni
Lorigliola – Gabriella Tosetto – Giampietro Firmo – Rino Franceschi – don Luigi Spaltro – Alberto
Facella – Gianfranco Marcoli – Paolo Bonzi – David Vervroegen – Anna Bertoli in Ghidini
– Sergio
Ghidini – Enzo Pezzini – Valerio Belotti – Daniela Sala in Belotti – don Gabriele Scalmana
– Lucio Benedetti
– Giuseppe Marini – Paolo Giorgi – Gabriella Maccarana in Giorgi – Laura Ungari – Ernestina
Cornacchia – Pasqualina Di
Filippo – Sergio Terzi – Giulia Cherubini – Nunzio Giubertoni – Michele Scarazzato – Renata
Trivella in Scarazzato – Maria
Carolina Dellanoce – Elena Mandora – Luciano Savardi – Giovanni Battista Albertini
– Gabriele Smussi – Sandro
Cigolini – Andrea Omodei – Amelia Rota – Fabio Gatti – Cinzia Tarletti – Romina Rinaldi
– Luigi Consonni – Cristina
Giustozzi – Teresa Lonardini – Roberta Brusaferri – Carla Cerri – Rino Franceschi – Fausto
Dreos – Paolo Bonzi – Mauro Modena
– Claire Rheaume – Loredana
Sabbatucci – Franca Mondini – Lucia Cancarini – Giuliano
Consoli – Andrea Moneta – Evardo
Rota – Maria
Poloni – Pierluigi Sinibaldi – Giuliano Consoli – Luigi Bezzi
– Giovanna Ferretti – Marilena Terzi
– Renzo Pertile – Angela Briarava – Isabella Sacchella – Tullio
Rubinelli – Gabriele Devoti – Massimo
Biagetti – Claudio Chiappa – Alessandro Bettoli – Samuele
Saleri – Luca Ruggeri – Roberto
Beschi – Elvio Basotti – Fausto Conter – Vittoria
Foglia – Enrica Cavalleri
– Giampietro Gambirasio – Turelli Luca – Fabio
Poli – Federica Nassini in
Signoroni – Giacomo Signoroni – Isabella Sacchella
– Marilena Valvano
– Riccardo Sudati – Luisa Picchieri – Armanda
Ravelli – Jazmina Silva
Martha in Bo’ – Manuela Giovanna Bonacina in Peverata – Gianluigi Peverata
– Marco Bo’ – Romano Cagni – Elena Matteucci in Cagni – Massimo
Ginammi – Laura Crawford – Massimo Tanghetti – Marina Moreni
– Mario De Carolis – Maria Veronesi – Rosanna Micheletti – Maria
Giuseppina Capanni – Carla Ficola in Tintorri – Fabrizio Tintorri – Pio
Baistrocchi – Gianluca Bassani – Giuliano Pizzoni – Daniela Silvestri
in Pizzoni – Giovanna Paini in Rigoni – Luca Rigoni – Brasellina
Brustolin – Nicola Desantis – Carolina Visini – Vincenza
Carbè – Paola Giovanna Tobanelli – Pietro Manerba
– Antonia Simionato – Rosanna Cavarero
– Carmen Zurlo – Assunta Marcandelli –
Laura Fenato – Sergio Vezzola – Giuliana
Zuliani – Adele Carli Ballola – Carla Petrillo
– Giuseppe Alessandrini – Rosaria
Migliorati in Alessandrini
– Antonia Simionato –
Lidia Calì – Maurizio
Pedercini – Alberto
Rocco – Irene Lorandi
Albino
Franzoni
– Maria Goretti
Gahimbare
GRAZIE!
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