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La Pedagogia dei Popcorn

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La Pedagogia dei Popcorn
Roberto Gris
La pedagogia
dei popcorn
Il cinema come strumento formativo
Erickson
Indice
Premessa
Prima parte: Il comune senso del popcorn
La funzione formativa del cinema
7
11
Il cinema come letteratura
Il testo cinematografico
Il senso della forma
Scheda 1: Metacognizione e narrazione cinematografica
Verbi da coniugare per una buona educazione
cinematografica
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Comprare il biglietto
Credere a una testa alta 3 metri e larga 2
Inferire: prima, dopo, infine
Trasformare il testo
Scheda 2: Esercizi di buona educazione cinematografica
Costretti a partecipare: la dimensione politica
del cinema
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Partecipazione cinematografica e partecipazione politica
Cinema d’intrattenimento o cinema impegnato?
Tra montaggi e montature
La pedagogia del dibattito tra «fatti realmente accaduti»
e sensibilità personali
Cittadini al festival
Seconda parte: Popcorn per tutti (ma a ciascuno il suo)
Quando i bambini capiscono il cinema
Una mente cinematografica
Fenomenologia dello storyboard
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Rievocare la narrazione cinematografica: una pratica metacognitiva
e di ricerca
Pipì, Pupù e Rosmarina: note sulla ricezione del primo episodio Il pescetto
nel laghetto
Riflessione conclusiva sui diritti dell’infanzia e sui diritti d’autore
Scheda 3: Per un laboratorio sullo storyboard nella scuola dell’infanzia
Scheda 4: Kit per la ricostruzione dell’episodio di «Pipì, Pupù
e Rosmarina: Il pescetto nel laghetto»
Scheda 5: AIUTO ovvero come si inferisce il pericolo
Scheda 6: L’ABC della ricerca metacognitiva e narrativa: mappa
concettuale metodologica
L’ottavo anno d’età tra Jean Piaget e Roger Rabbit
119
Dallo stadio preoperatorio allo stadio operatorio
Chi ha incastrato Jean Piaget
Inquadrature e punti di vista
Scriviamo un film!
Scheda 7: Un’idea per un laboratorio cinematografico nella scuola
primaria
La fabbrica degli incubi: adolescenti tra cinema e scuola 133
Il regno narrativo del rischio e della paura
«Una scorpacciata di ultraviolenza!»
La fabbrica degli incubi (e dell’ironia)
Per un laboratorio cinematografico nella scuola secondaria
Tre (ulteriori) passi nella metacognizione
Scheda 8: Pensiero plastico e produzione audiovisiva
Scheda 9: Glossario cinematografico per un percorso nella scuola
secondaria
Scheda 10: Da graphic novel a film, da film a graphic novel
Film per adulti
167
Formazione continua e formazione fuori orario
La filmografia personale
L’immortale lezione di King Kong
Scheda 11: La formativa passione per i B-movie
Bibliografia e filmografia
193
La funzione formativa del cinema
La funzione formativa
del cinema
Il cinema come letteratura
Siamo a cena, è una cena tra amici, in una qualsiasi città,
con i piatti già imbanditi e le forchette già in azione.
Tutti parlano con tutti e tra un «Mi passeresti il grana?»
e un «Lo sai che stai proprio bene con i capelli così…» una
ragazza chiede: «Com’era il film che hai visto giovedì?».
«Ah sì, Gran Torino di Clint Eastwood. Mah! Ti dirò…»
risponde un ragazzo. E comincia con il commento al film.
A seconda della buona stella dei commensali, un commento a un film visto precedentemente può essere dettagliato e noioso, oppure molto avvincente, può far venire la
voglia di correre al cinema oppure può far piombare in uno
stato d’ansia mista a depressione per il fatto di non sentirsi
critici cinematografici all’altezza della tavolata o dell’interlocutore.
Ma, al di là degli esiti della conversazione e degli effetti
sul clima della serata, possiamo notare che ognuno dei commensali porta con sé un immaginario che si basa su una rete
di film, di libri, di storie, di narrazioni.
Perché la socievole attività mondana di parlare a cena
di film abbia luogo, è necessario che si conoscano storie e
si sappia di che tipo di storie si tratta, ci servono cioè una
conoscenza intertestuale e una certa dimestichezza con i
linguaggi e i codici dei singoli testi.
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La pedagogia dei popcorn
Per esemplificare l’idea di immaginario e la «funzione
educativa della letteratura», Umberto Eco utilizza una rete
di citazioni:
Jurij Lotman, nella Cultura e l’esplosione, riprende la famosa raccomandazione di Cechov, per cui se in un racconto
o un dramma viene mostrato all’inizio un fucile appeso alla
parete, prima della fine quel fucile dovrà sparare. Lotman
ci lascia capire che il vero problema non è se poi il fucile
sparerà davvero. Proprio il non sapere se sparerà o no conferisce significatività all’intreccio. Leggere un racconto vuol
anche dire essere presi da una tensione, da uno spasimo.
Scoprire alla fine che il fucile ha sparato o meno non assume il semplice valore di una notizia. È la scoperta che le
cose sono andate, e per sempre, in un certo modo, al di là
dei desideri del lettore. Il lettore deve accettare questa frustrazione, e attraverso di essa provare il brivido del Destino.
Se si potesse decidere del destino dei personaggi, sarebbe come andare al banco di una agenzia di viaggi: «Allora
dove vuole andare la Balena, alle Samoa o alle Aleutine? E
quando? E vuole ucciderla lei, o lascia fare a Quiqueg?».
La vera lezione di Moby Dick è che la balena va dove vuole.
(Eco, 2002, p. 21)
L’ironia di Umberto Eco ci fa capire che il libero e creativo esercizio dell’intertestualità sul quale si basano la strutturazione e la costruzione dell’immaginario fa da contrappunto alle necessità di coerenza narrativa che ogni storia
porta con sé. Come nel romanzo di Melville, così gli eventi e
i personaggi di un film hanno ruoli e compiti ineludibili perché la storia funzioni: anche spaziando su finali alternativi
e variazioni sul tema è fondamentale che ne Gli intoccabili
Al Capone (Robert De Niro) urli grottescamente: «Sei solo
12
La funzione formativa del cinema
chiacchiere e distintivo… Solo chiacchiere e distintivo!!!»,
dopo aver perso in tribunale la causa che porrà fine alla sua
delittuosa carriera; è necessario che Sandy Olsson (Olivia
Newton-John) civilizzi, attraverso l’innamoramento, il bulletto Danny Zuko (John Travolta) e le sue smargiassate tra le
canzoni di Grease; è tragicamente inevitabile che il malcapitato e la malcapitata di turno si bacino in un luogo appartato
proprio lì dove c’è Jason, il serial killer di Venerdì 13.
Attraverso il suo potenziale intertestuale e la coerenza
interna dei suoi testi che si esauriscono in un paio d’ore, il
cinema ha persino più gioco della letteratura nella creazione
dell’immaginario, non per il fatto che si fa prima a vedere
un film che a leggere un libro, ma perché il cinema è più
popolare. La popolarità del cinema è di certo più strutturale
della popolarità della letteratura: ogni film deve tenere conto
delle esigenze percettive medie e tutti si devono illudere di
aver capito almeno la trama nel suo dipanarsi, mentre un
romanzo o un racconto possono avere non solo tematiche
ma anche ritmi e cadenze di più difficile fruizione e decisamente più esoterici, più adatti agli «iniziati» che ai lettori
occasionali.
La querelle su questa popolarità che oscilla tra apertura
al pubblico e successo di massa ha segnato la critica cinematografica, basti ricordare che persino Alfred Hitchcock
fu accusato dai cineasti e dai critici europei di essere troppo
attento alle esigenze dello spettatore e, in particolare, gli
veniva rimproverato di utilizzare artifici e trucchetti per captare l’attenzione piuttosto che dare messaggi culturali, come
ricordano lui stesso e François Truffaut in un passaggio del
loro celebre dialogo-intervista intitolato Il cinema secondo
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La pedagogia dei popcorn
Hitchcock: «François Truffaut. Questi film […] fanno dire
ad alcuni critici: Hitchcock non ha niente da dire e, a questo
proposito, credo che la sola risposta sia “Un regista non ha
niente da dire, deve mostrare”. Alfred Hitchcock. Esatto»
(Truffaut, 1999, p. 114).
Mentre la relazione libro-lettore ha più variabili, prima
fra tutte il tempo di lettura, la strada di un film è, per così
dire, più segnata, la fruizione è incanalata in modo che tutti
vedano le stesse cose nello stesso modo, salvo poi dare allo
spettatore la facoltà di interpretare in modo attivo a seconda dei propri riferimenti estetici e culturali e delle proprie
conoscenze.
Inoltre, film come il classico Fino all’ultimo respiro di
Jean-Luc Godard e il recente Grindhouse: A prova di morte
di Quentin Tarantino ostentano addirittura i loro riferimenti
stilistici tanto ai generi, alle forme narrative più basse e più
commerciali, quanto alle tecniche di ripresa e alle dinamiche narrative più ricercate e più istituzionalizzate. In questo
modo fanno inferire allo spettatore i possibili collegamenti
(«Ma questa musica dove l’ho già sentita?» o «Questa è come
la pubblicità di quella automobile») e gettano le basi per
l’intertestualità e la costruzione di un immaginario popolare. Tale decisione nell’uso dell’intertestualità e la suddetta
essenzialità testuale forse ci spiegano il motivo per il quale
nella famosa cena immaginata a inizio capitolo è possibile
non conoscere la trama di Anna Karenina, ma è uno scandalo non aver visto Frankenstein Junior.
Tuttavia, tra il cinema e la letteratura esiste anche una
complementarità davvero sorprendente, secondo Slavoj
Žižek:
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La funzione formativa del cinema
Un’intera serie di procedure narrative dei romanzi del XIX
secolo preannuncia non solo le forme narrative classiche
del cinema (l’intricato uso del «flashback» in Emily Brontë
o delle «dissolvenze incrociate» e dei «primi piani» in Dickens), ma qualche volta anche il cinema contemporaneo
(l’uso del «fuoricampo» in Madame Bovary) — come se
una nuova percezione della vita fosse già presente, ma fosse
ancora alla ricerca dei propri mezzi di articolazione, e alla
fine li avesse trovati nel cinema. Ci troviamo così di fronte
alla storicità di una sorta di futuro anteriore: solo quando
ha preso piede il cinema e ha sviluppato le sue procedure è
stato davvero possibile comprendere la logica narrativa dei
grandi romanzi di Dickens o di Madame Bovary. (Žižek,
2001, p. 181)
Il filosofo sloveno interpreta il cinema come uno sviluppo
delle nostre consapevolezze narrative, cullate per secoli dalla
letteratura, cosicché un libro o un film sono un bel regalo in
quanto ci permettono di giocare al pensiero complesso e di
affinare le nostre capacità narrative, sia nel momento della
fruizione sia nel momento della produzione delle stesse.
Al pari della letteratura, il cinema è nettamente distinto
dagli eventi della vita quotidiana, eppure la letteratura e il
cinema generano in noi vissuti significativi e forniscono stimoli per i personaggi (per le figure che vengono identificate)
e per la trama, per la sequenza degli eventi.
La sequenza è termine eminentemente cinematografico,
ma ha anche una funzione regolativa e fornisce matrici e
modelli per ogni discorso e per ogni strategia retorica: ad
esempio, se qualcuno alla ormai famosa cena decide di raccontare una barzelletta, per farlo si baserà su una retorica
e su un ordine narrativo che con un’agnizione finale stupi-
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La pedagogia dei popcorn
ranno, renderanno evidente un paradosso, faranno ridere
gli altri.
La rivelazione finale determina la costruzione dei tasselli
precedenti: come nei film gialli (termine che il cinema mutua
della letteratura), che prima ci forniscono gli ingredienti e i
singoli elementi che comporranno logicamente l’esito finale
(ovvero la scoperta del colpevole che si salva o che non la fa
franca), la nostra attenzione è almeno in parte interessata
a mettere insieme gli elementi per anticipare la soluzione o
per poter esclamare mentre scorrono i titoli di coda: «Ma
certo, è ovvio che era lui il colpevole!».
In molte altre forme narrative il finale non è così determinante, ci sono sottotrame o trame parallele inscritte nella
trama principale: nella critica letteraria, in particolare nella
critica del romanzo (Bachtin, 1986; Kundera, 1988), si parla
di polifonia, intendendo con questo termine la complessa
trama dei romanzi e l’intreccio di più storie sotto lo stesso
tetto narrativo.
Da allora, da quando cioè la critica ha riconosciuto questa polifonia,1 possiamo leggere grandi narrazioni quali le
1
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Nella narrazione cinematografica, la polifonia riguarda intrinsecamente le tecniche
audiovisive e la loro configurazione espressiva sia diacronica che sincronica: «La poetica del contrappunto audiovisivo, che si preciserà, sempre sul modello musicale,
come orchestrazione polifonica dei piani espressivi mobilitati dal film, sarà invece
sviluppata da Ejzenštejn […]. Quello che vediamo emergere nella concezione polifonica di Ejzenštejn è la precedenza del montaggio verticale su quello orizzontale.
Il rapporto tra suono e immagine visiva deve riportare gli elementi dell’immagine
cinematografica, proprio perché sia possibile una loro compatibilità e quindi un loro
“montaggio”, a una sfera originaria comune. Una dimensione più originaria di cui già
parlava nel 1929 in Čertvërtoe izmerenie v kino (La quarta dimensione del cinema),
quella dell’“io sento”, comune denominatore che permette il rapporto e la compara-
La funzione formativa del cinema
tragedie classiche o la commedia dantesca attraverso l’intreccio di trame e di piccole storie, godendo dell’armonia
complessiva dell’opera oppure scegliendo ciò che più ci
colpisce o appassiona e creando un percorso interpretativo
particolare.
Questa scoperta della critica ha legittimato diverse modalità di decostruzione e ricostruzione dei testi in differenti
ambiti culturali, a partire dalla filosofia postmoderna fino
alle sperimentazioni teatrali, alla pop art e alle arti visive,
che decontestualizzano i singoli elementi per poi renderli
provocatoriamente autonomi in quanto portatori di senso.
Il caos determinato dalla nostra capacità di intendere la
decostruzione e la decontestualizzazione, di ricombinare gli
elementi e di ricostruire è al giorno d’oggi supportato (è la
parola giusta) da tecnologie audiovisive di riproduzione e
montaggio, e dall’enorme quantità di filmati che possiamo
reperire attraverso Google o YouTube.
Oggi, la riproducibilità tecnica, che Walter Benjamin
(2000) considerava una caratteristica così saliente dell’arte
contemporanea e delle sue manifestazioni da poter persino
dare il nome a un’epoca, è estesa a qualsiasi immagine ed è
alla portata di chiunque: sono passati poco più di dieci anni
da quando abbiamo iniziato a cimentarci con la posta elettronica e con le prime fotocamere e videocamere digitali, e
ora ognuno di noi può usufruire di connessioni ultraveloci
per scaricare filmati, può guardare l’amata anche a sei ore
zione tra l’“io vedo” e l’“io ascolto” e su cui tornerà nella terza parte di Montaž (Teoria
generale del montaggio, 1937). Non il lavoro su due sistemi distinti, ma l’esplorazione di un territorio che permetteva di raggiungere la radice comune del visivo e del
sonoro (e degli altri piani espressivi coinvolti)» (Scarlato, 2005, pp. 22-23).
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La pedagogia dei popcorn
di fuso orario di distanza, può fotografare con il telefono,
può «taroccare» le immagini degli amici per farsi quattro
risate.
Questo immenso potere di guardare e di vedere, di fissare momenti e di documentare inquieta tanto i moralisti,
che accusano la nostra società di inguaribile voyeurismo,
quanto i teorici del complotto, che denunciano un disegno
cospirativo occulto che tutto e tutti vorrebbe controllare, ma
stando a quello che si vede, in un’ottica più fenomenologica
che ideologica, sembra che il rischio sia quello di smarrirsi
nel bosco (più simile al paese dei balocchi che alla selva oscura) e di uniformare a modelli predefiniti se stessi, il proprio
partner, il proprio gruppo sociale più per overloading e per
pigrizia che per coercizione.
In questo caos che si autoriproduce, nel regno delle brevi
narrazioni audiovisive, la letteratura e il cinema, l’intertestualità e le storie che abbiamo definito polifoniche forse
possono aiutarci a gestire con consapevolezza il flusso delle
immagini: provando a partire dai modelli impliciti, dagli
schemi che rendono le storie a noi fruibili, dal pluralismo
delle pratiche di decostruzione, possiamo valorizzare lo sviluppo cognitivo di ognuno di noi, sviluppo cognitivo che ha
bisogno di forme narrative sempre più complesse e ricche
e di spazi per commentare, condividere e dibattere con gli
altri.
È bene ricordarsi che il cinema, come la letteratura, prima di essere evasione dal mondo è specchio, rappresentazione e modello dello stesso e aumenta la qualità della conversazione e della vita.
Perlomeno a cena.
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La funzione formativa del cinema
Scheda 1
Metacognizione e narrazione
cinematografica
A differenza della teoria della mente o, meglio, delle differenti teorie che rispondono alle domande attorno al concetto di mente e allo sviluppo delle teorie della mente, la
metacognizione e gli studi metacognitivi si connettono ai
processi cognitivi e in particolare si focalizzano sulle strategie dell’apprendimento.
Gli studi sulla metacognizione partono storicamente dalle
ricerche sulla metamemoria (Flavell, 1970; 1979), che destano tuttora un diffuso interesse (Lockl e Scheider, 2006),
per poi estendersi fino alle tecniche e al metodo di studio
(Schneider e Pressley, 1989; De Beni e Zamperlin, 1993).
Più recentemente, gli studi sulla metacognizione hanno
dedicato molta attenzione alla matematica e al problem solving (Mevarech e Fridkin, 2006) e la metacognizione stessa è
diventata il concetto chiave per gli studi sull’autoriflessione e
il monitoraggio dei soggetti sulle modalità di apprendimento
di singole discipline (Nietfeld, Cao e Osborne, 2006).
In Metacognizione ed educazione Ottavia Albanese, Pierre-André Doudin e Daniel Martin individuano nel controllo e
nella consapevolezza due tematiche costanti nell’eterogenea
produzione di lavori sulla metacognizione:
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La pedagogia dei popcorn
Dagli anni Settanta a oggi la letteratura specifica ha offerto
un vasto panorama di ipotesi e modelli, a volte congruenti,
a volte meno, e soltanto a partire dagli anni Ottanta si è
arrivati alla costruzione di modelli metacognitivi più complessi e articolati, che indicano tra le componenti principali
della metacognizione sia il controllo che la consapevolezza.
(Albanese, Doudin e Martin, 1998, p. 13)
Oltre al controllo e alla consapevolezza, lo studio dei
processi metacognitivi inevitabilmente coinvolge la dimensione di riflessione sui propri processi sia come strategia
di monitoraggio (Schunk e Zimmerman, 1994) che come
pratica autobiografica e identitaria (Demetrio, 1996; Dallari, 2000).
Ma l’autoriflessività non è solo una caratteristica dell’apprendimento individuale in senso stretto, anzi, mi sembra
più credibile che sia la stessa attenzione ai processi cognitivi a richiedere una dimensione meta-, come sostiene Edgar
Morin, con un notevole uso retorico di paradossi, a proposito de La conoscenza della conoscenza:
Se si passerà dalla nozione di scienze cognitive (associazione di discipline che conservano la loro sovranità)
all’idea, proposta da Jean-Louis Le Moigne, di «scienza
della cognizione» (scienza sovrana che regge le discipline
associate), non ci si limiterà a facilitare gli scambi tra discipline differenti ma si arriverà a fare della conoscenza
un oggetto di conoscenza. La scienza occidentale effettuerà
allora la sua ultima conquista introducendo la conoscenza
nel suo obiettivo e nella sua obiettività. Ma questa conquista sarebbe contemporaneamente una disfatta per la
conoscenza, se quest’ultima divenisse soltanto un oggetto
come gli altri.
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La funzione formativa del cinema
Infatti la conoscenza non può essere un oggetto come gli
altri, perché è appunto ciò che serve a conoscere gli altri
oggetti e a conoscere se stessa. (Morin, 2007, p. 15)
Dunque, la «conoscenza metacognitiva» (Cornoldi, 1995,
p. 31) richiede e consente al soggetto di controllare, di avere
consapevolezza e di riflettere sui propri processi cognitivi e
sulle proprie conoscenze.
La distinzione tra controllo, consapevolezza e «riflessione su» qui adottata semplifica di certo l’eterogeneità degli
studi sulla metacognizione, ma permette di descrivere sinteticamente che ogni conoscenza metacognitiva ha bisogno di
processi di controllo, fa crescere la propria consapevolezza
e consente di riflettere sulla conoscenza e sul proprio modo
di conoscere.
A partire da questo orizzonte di metacognizione, Cesare
Cornoldi nota che il rapporto realtà-finzione ha conseguenze
sulla metamemoria (cioè sul controllo, sulla consapevolezza
e sulla riflessione sulla memoria), come si evince dalle ricerche e da esperienze di vita quotidiana.
Noice e Noice (1996) hanno però dimostrato che gli artisti
(ad esempio gli attori) sviluppano delle strategie personali
e sofisticate di memorizzazione che in parte si basano sulla
particolare sensibilità e penetrazione psicologica. L’impressione dello spettatore è quella che l’artista abbia una memoria perfetta, anche quando la copia non è esatta. E lo stesso
fruitore può trasformarsi in un memorizzatore, ricordando
o credendo di ricordare con esattezza (Kezich, 1994) quello
che ha sentito o visto.
In effetti, è stato osservato (Larsen in Cornoldi, 1995) che la
gente ricorda meglio gli episodi che ha visto personalmente,
e ad essi associa anche un’impressione di maggiore memo-
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La pedagogia dei popcorn
rabilità perché li ritiene più «notevoli» (vedi Lieury et al.,
1978) e gli sembra che siano più chiari, vividi, precisi. Ma
il ricordo semplicemente riferito può essere noioso, ripetuto, poco interessante (si pensi alle notizie «standard» dei
telegiornali), mentre il ricordo riferito alla presentazione
di un grande artista può essere più vivido e memorabile
della realtà. Almeno questa è un’impressione che si ricava
dal piacere provato a leggere certi romanzi o a vedere certi
film di particolare bellezza e questo è, presumo, uno degli
obiettivi dell’artista. Tuttavia, nessuno ha mai cercato di
operare questo confronto fra realtà sperimentata e realtà
immaginata e quindi bisogna rimanere sul piano delle intuizioni di… metamemoria. (Cornoldi, 1995, p. 166)
Queste considerazioni di Cesare Cornoldi su «metamemoria e arte», che partono dal punto di vista classico degli
studi metacognitivi, evidenziano un aspetto di una certa importanza anche metodologica: per la riflessione sui processi
cognitivi e sull’apprendimento è importante considerare che
ciò che si conosce (l’oggetto della conoscenza) condiziona i
processi stessi non solo a livello procedurale, ma anche per
la forma comunicativa e per il modello di conoscenza che
porta con sé.
Quanto al «confronto tra realtà sperimentata e realtà immaginata», nella narrazione cinematografica, i soggetti che
sperimentano la realtà immaginata partecipano alla narrazione grazie e attraverso le tecniche cinematografiche e gli
artifici pensati da registi e attori e condivisi nella fruizione
dagli spettatori.
Per studiare secondo un approccio metacognitivo la
«realtà immaginata», ci dobbiamo avvalere degli specifici
congegni del pensiero umano che ci consentono di produrre
34
La funzione formativa del cinema
e comprendere narrazioni, congegni che tutti noi sperimentiamo perlomeno nella vita quotidiana.
Dunque, per capire come elaboriamo le informazioni
complesse di una narrazione, occorre declinare l’approccio
metacognitivo sulla narrazione e connettere le strategie metacognitive (controllo, consapevolezza e «riflessione su») con
il pensiero narrativo.
In orizzonte educativo, l’idea di soggetto rappresentazionale di Jerome Bruner (Bruner, 1993; Liverta Sempio, 1998)
e le ricerche sul pensiero narrativo (Smorti, 1994) hanno
dato un decisivo contributo sia per storicizzare i linguaggi
che il soggetto acquisisce, sia per rendere conto di situazioni
di apprendimento complesse.
Se il soggetto rappresentazionale e il pensiero narrativo non vengono separati dal soggetto logico e dal pensiero
analitico, se non si eccede cioè con la naturalizzazione della
psiche (Husserl, 1997; Bertolini, 1988; Galimberti, 1999), lo
studio delle strategie e dei meccanismi di controllo, di consapevolezza e di riflessione (metacognizione) è estendibile
anche alla narratività umana.
Le funzioni della metacognizione narrativa sono sette:
funzione metaforica, funzione inferenziale, funzione enfatica, contratto di finzione, funzione esemplificativa, funzione
intertestuale e funzione mitopoietica.
Nei prossimi capitoli, in particolare nel capitolo sesto,
vedremo come tali funzioni e la metacognizione in generale interessino la narrazione trattata in questo libro, ovvero
quella cinematografica.
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L’ottavo anno d’età tra Jean Piaget e Roger Rabbit
L’ottavo anno d’età tra
Jean Piaget e Roger Rabbit
Dallo stadio preoperatorio allo stadio operatorio
Jean Piaget, influenzato dal suo primo amore per i molluschi di mare ma anche dalla scientificità psicopedagogica europea di inizio Novecento che faceva capo all’Istituto
Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, dal paradigma biologico
e dal darwinismo, pensava che gli esseri viventi si inserissero
nell’ambiente attraverso meccanismi di adattamento. Sulla
base di questo sfondo epistemologico e culturale, Piaget osservò che l’interazione complementare di assimilazione e di
accomodamento (Piaget, 1966) consentiva ai bambini di organizzare la propria visione di mondo attraverso il linguaggio, passando per quattro stadi distinti: il sensomotorio, il
preoperatorio, l’operatorio concreto e l’operatorio formale.
Secondo la teoria stadiale, nello stadio preoperatorio, che
va dai 2 ai 7 anni, i bambini interiorizzano le conoscenze e i
linguaggi, pur avendo il pensiero condizionato da egocentrismo e irreversibilità ed essendo in questo in difetto rispetto
alle fasi successive. In questo stadio, i bambini esperiscono
e testano i linguaggi e acquisiscono le forme che diventano
modello e base per le acquisizioni stesse: in questa fase della
loro vita, imparano e imparano a imparare e, anche se lo
sviluppo cognitivo porta nuove capacità e nuove strutture, lo
stadio preoperatorio lascia in tutti loro (e in tutti noi) la capacità di dare al mondo un senso attraverso il linguaggio.
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