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La Pedagogia dei Popcorn
Roberto Gris La pedagogia dei popcorn Il cinema come strumento formativo Erickson Indice Premessa Prima parte: Il comune senso del popcorn La funzione formativa del cinema 7 11 Il cinema come letteratura Il testo cinematografico Il senso della forma Scheda 1: Metacognizione e narrazione cinematografica Verbi da coniugare per una buona educazione cinematografica 37 Comprare il biglietto Credere a una testa alta 3 metri e larga 2 Inferire: prima, dopo, infine Trasformare il testo Scheda 2: Esercizi di buona educazione cinematografica Costretti a partecipare: la dimensione politica del cinema 57 Partecipazione cinematografica e partecipazione politica Cinema d’intrattenimento o cinema impegnato? Tra montaggi e montature La pedagogia del dibattito tra «fatti realmente accaduti» e sensibilità personali Cittadini al festival Seconda parte: Popcorn per tutti (ma a ciascuno il suo) Quando i bambini capiscono il cinema Una mente cinematografica Fenomenologia dello storyboard 79 Rievocare la narrazione cinematografica: una pratica metacognitiva e di ricerca Pipì, Pupù e Rosmarina: note sulla ricezione del primo episodio Il pescetto nel laghetto Riflessione conclusiva sui diritti dell’infanzia e sui diritti d’autore Scheda 3: Per un laboratorio sullo storyboard nella scuola dell’infanzia Scheda 4: Kit per la ricostruzione dell’episodio di «Pipì, Pupù e Rosmarina: Il pescetto nel laghetto» Scheda 5: AIUTO ovvero come si inferisce il pericolo Scheda 6: L’ABC della ricerca metacognitiva e narrativa: mappa concettuale metodologica L’ottavo anno d’età tra Jean Piaget e Roger Rabbit 119 Dallo stadio preoperatorio allo stadio operatorio Chi ha incastrato Jean Piaget Inquadrature e punti di vista Scriviamo un film! Scheda 7: Un’idea per un laboratorio cinematografico nella scuola primaria La fabbrica degli incubi: adolescenti tra cinema e scuola 133 Il regno narrativo del rischio e della paura «Una scorpacciata di ultraviolenza!» La fabbrica degli incubi (e dell’ironia) Per un laboratorio cinematografico nella scuola secondaria Tre (ulteriori) passi nella metacognizione Scheda 8: Pensiero plastico e produzione audiovisiva Scheda 9: Glossario cinematografico per un percorso nella scuola secondaria Scheda 10: Da graphic novel a film, da film a graphic novel Film per adulti 167 Formazione continua e formazione fuori orario La filmografia personale L’immortale lezione di King Kong Scheda 11: La formativa passione per i B-movie Bibliografia e filmografia 193 La funzione formativa del cinema La funzione formativa del cinema Il cinema come letteratura Siamo a cena, è una cena tra amici, in una qualsiasi città, con i piatti già imbanditi e le forchette già in azione. Tutti parlano con tutti e tra un «Mi passeresti il grana?» e un «Lo sai che stai proprio bene con i capelli così…» una ragazza chiede: «Com’era il film che hai visto giovedì?». «Ah sì, Gran Torino di Clint Eastwood. Mah! Ti dirò…» risponde un ragazzo. E comincia con il commento al film. A seconda della buona stella dei commensali, un commento a un film visto precedentemente può essere dettagliato e noioso, oppure molto avvincente, può far venire la voglia di correre al cinema oppure può far piombare in uno stato d’ansia mista a depressione per il fatto di non sentirsi critici cinematografici all’altezza della tavolata o dell’interlocutore. Ma, al di là degli esiti della conversazione e degli effetti sul clima della serata, possiamo notare che ognuno dei commensali porta con sé un immaginario che si basa su una rete di film, di libri, di storie, di narrazioni. Perché la socievole attività mondana di parlare a cena di film abbia luogo, è necessario che si conoscano storie e si sappia di che tipo di storie si tratta, ci servono cioè una conoscenza intertestuale e una certa dimestichezza con i linguaggi e i codici dei singoli testi. 11 La pedagogia dei popcorn Per esemplificare l’idea di immaginario e la «funzione educativa della letteratura», Umberto Eco utilizza una rete di citazioni: Jurij Lotman, nella Cultura e l’esplosione, riprende la famosa raccomandazione di Cechov, per cui se in un racconto o un dramma viene mostrato all’inizio un fucile appeso alla parete, prima della fine quel fucile dovrà sparare. Lotman ci lascia capire che il vero problema non è se poi il fucile sparerà davvero. Proprio il non sapere se sparerà o no conferisce significatività all’intreccio. Leggere un racconto vuol anche dire essere presi da una tensione, da uno spasimo. Scoprire alla fine che il fucile ha sparato o meno non assume il semplice valore di una notizia. È la scoperta che le cose sono andate, e per sempre, in un certo modo, al di là dei desideri del lettore. Il lettore deve accettare questa frustrazione, e attraverso di essa provare il brivido del Destino. Se si potesse decidere del destino dei personaggi, sarebbe come andare al banco di una agenzia di viaggi: «Allora dove vuole andare la Balena, alle Samoa o alle Aleutine? E quando? E vuole ucciderla lei, o lascia fare a Quiqueg?». La vera lezione di Moby Dick è che la balena va dove vuole. (Eco, 2002, p. 21) L’ironia di Umberto Eco ci fa capire che il libero e creativo esercizio dell’intertestualità sul quale si basano la strutturazione e la costruzione dell’immaginario fa da contrappunto alle necessità di coerenza narrativa che ogni storia porta con sé. Come nel romanzo di Melville, così gli eventi e i personaggi di un film hanno ruoli e compiti ineludibili perché la storia funzioni: anche spaziando su finali alternativi e variazioni sul tema è fondamentale che ne Gli intoccabili Al Capone (Robert De Niro) urli grottescamente: «Sei solo 12 La funzione formativa del cinema chiacchiere e distintivo… Solo chiacchiere e distintivo!!!», dopo aver perso in tribunale la causa che porrà fine alla sua delittuosa carriera; è necessario che Sandy Olsson (Olivia Newton-John) civilizzi, attraverso l’innamoramento, il bulletto Danny Zuko (John Travolta) e le sue smargiassate tra le canzoni di Grease; è tragicamente inevitabile che il malcapitato e la malcapitata di turno si bacino in un luogo appartato proprio lì dove c’è Jason, il serial killer di Venerdì 13. Attraverso il suo potenziale intertestuale e la coerenza interna dei suoi testi che si esauriscono in un paio d’ore, il cinema ha persino più gioco della letteratura nella creazione dell’immaginario, non per il fatto che si fa prima a vedere un film che a leggere un libro, ma perché il cinema è più popolare. La popolarità del cinema è di certo più strutturale della popolarità della letteratura: ogni film deve tenere conto delle esigenze percettive medie e tutti si devono illudere di aver capito almeno la trama nel suo dipanarsi, mentre un romanzo o un racconto possono avere non solo tematiche ma anche ritmi e cadenze di più difficile fruizione e decisamente più esoterici, più adatti agli «iniziati» che ai lettori occasionali. La querelle su questa popolarità che oscilla tra apertura al pubblico e successo di massa ha segnato la critica cinematografica, basti ricordare che persino Alfred Hitchcock fu accusato dai cineasti e dai critici europei di essere troppo attento alle esigenze dello spettatore e, in particolare, gli veniva rimproverato di utilizzare artifici e trucchetti per captare l’attenzione piuttosto che dare messaggi culturali, come ricordano lui stesso e François Truffaut in un passaggio del loro celebre dialogo-intervista intitolato Il cinema secondo 13 La pedagogia dei popcorn Hitchcock: «François Truffaut. Questi film […] fanno dire ad alcuni critici: Hitchcock non ha niente da dire e, a questo proposito, credo che la sola risposta sia “Un regista non ha niente da dire, deve mostrare”. Alfred Hitchcock. Esatto» (Truffaut, 1999, p. 114). Mentre la relazione libro-lettore ha più variabili, prima fra tutte il tempo di lettura, la strada di un film è, per così dire, più segnata, la fruizione è incanalata in modo che tutti vedano le stesse cose nello stesso modo, salvo poi dare allo spettatore la facoltà di interpretare in modo attivo a seconda dei propri riferimenti estetici e culturali e delle proprie conoscenze. Inoltre, film come il classico Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard e il recente Grindhouse: A prova di morte di Quentin Tarantino ostentano addirittura i loro riferimenti stilistici tanto ai generi, alle forme narrative più basse e più commerciali, quanto alle tecniche di ripresa e alle dinamiche narrative più ricercate e più istituzionalizzate. In questo modo fanno inferire allo spettatore i possibili collegamenti («Ma questa musica dove l’ho già sentita?» o «Questa è come la pubblicità di quella automobile») e gettano le basi per l’intertestualità e la costruzione di un immaginario popolare. Tale decisione nell’uso dell’intertestualità e la suddetta essenzialità testuale forse ci spiegano il motivo per il quale nella famosa cena immaginata a inizio capitolo è possibile non conoscere la trama di Anna Karenina, ma è uno scandalo non aver visto Frankenstein Junior. Tuttavia, tra il cinema e la letteratura esiste anche una complementarità davvero sorprendente, secondo Slavoj Žižek: 14 La funzione formativa del cinema Un’intera serie di procedure narrative dei romanzi del XIX secolo preannuncia non solo le forme narrative classiche del cinema (l’intricato uso del «flashback» in Emily Brontë o delle «dissolvenze incrociate» e dei «primi piani» in Dickens), ma qualche volta anche il cinema contemporaneo (l’uso del «fuoricampo» in Madame Bovary) — come se una nuova percezione della vita fosse già presente, ma fosse ancora alla ricerca dei propri mezzi di articolazione, e alla fine li avesse trovati nel cinema. Ci troviamo così di fronte alla storicità di una sorta di futuro anteriore: solo quando ha preso piede il cinema e ha sviluppato le sue procedure è stato davvero possibile comprendere la logica narrativa dei grandi romanzi di Dickens o di Madame Bovary. (Žižek, 2001, p. 181) Il filosofo sloveno interpreta il cinema come uno sviluppo delle nostre consapevolezze narrative, cullate per secoli dalla letteratura, cosicché un libro o un film sono un bel regalo in quanto ci permettono di giocare al pensiero complesso e di affinare le nostre capacità narrative, sia nel momento della fruizione sia nel momento della produzione delle stesse. Al pari della letteratura, il cinema è nettamente distinto dagli eventi della vita quotidiana, eppure la letteratura e il cinema generano in noi vissuti significativi e forniscono stimoli per i personaggi (per le figure che vengono identificate) e per la trama, per la sequenza degli eventi. La sequenza è termine eminentemente cinematografico, ma ha anche una funzione regolativa e fornisce matrici e modelli per ogni discorso e per ogni strategia retorica: ad esempio, se qualcuno alla ormai famosa cena decide di raccontare una barzelletta, per farlo si baserà su una retorica e su un ordine narrativo che con un’agnizione finale stupi- 15 La pedagogia dei popcorn ranno, renderanno evidente un paradosso, faranno ridere gli altri. La rivelazione finale determina la costruzione dei tasselli precedenti: come nei film gialli (termine che il cinema mutua della letteratura), che prima ci forniscono gli ingredienti e i singoli elementi che comporranno logicamente l’esito finale (ovvero la scoperta del colpevole che si salva o che non la fa franca), la nostra attenzione è almeno in parte interessata a mettere insieme gli elementi per anticipare la soluzione o per poter esclamare mentre scorrono i titoli di coda: «Ma certo, è ovvio che era lui il colpevole!». In molte altre forme narrative il finale non è così determinante, ci sono sottotrame o trame parallele inscritte nella trama principale: nella critica letteraria, in particolare nella critica del romanzo (Bachtin, 1986; Kundera, 1988), si parla di polifonia, intendendo con questo termine la complessa trama dei romanzi e l’intreccio di più storie sotto lo stesso tetto narrativo. Da allora, da quando cioè la critica ha riconosciuto questa polifonia,1 possiamo leggere grandi narrazioni quali le 1 16 Nella narrazione cinematografica, la polifonia riguarda intrinsecamente le tecniche audiovisive e la loro configurazione espressiva sia diacronica che sincronica: «La poetica del contrappunto audiovisivo, che si preciserà, sempre sul modello musicale, come orchestrazione polifonica dei piani espressivi mobilitati dal film, sarà invece sviluppata da Ejzenštejn […]. Quello che vediamo emergere nella concezione polifonica di Ejzenštejn è la precedenza del montaggio verticale su quello orizzontale. Il rapporto tra suono e immagine visiva deve riportare gli elementi dell’immagine cinematografica, proprio perché sia possibile una loro compatibilità e quindi un loro “montaggio”, a una sfera originaria comune. Una dimensione più originaria di cui già parlava nel 1929 in Čertvërtoe izmerenie v kino (La quarta dimensione del cinema), quella dell’“io sento”, comune denominatore che permette il rapporto e la compara- La funzione formativa del cinema tragedie classiche o la commedia dantesca attraverso l’intreccio di trame e di piccole storie, godendo dell’armonia complessiva dell’opera oppure scegliendo ciò che più ci colpisce o appassiona e creando un percorso interpretativo particolare. Questa scoperta della critica ha legittimato diverse modalità di decostruzione e ricostruzione dei testi in differenti ambiti culturali, a partire dalla filosofia postmoderna fino alle sperimentazioni teatrali, alla pop art e alle arti visive, che decontestualizzano i singoli elementi per poi renderli provocatoriamente autonomi in quanto portatori di senso. Il caos determinato dalla nostra capacità di intendere la decostruzione e la decontestualizzazione, di ricombinare gli elementi e di ricostruire è al giorno d’oggi supportato (è la parola giusta) da tecnologie audiovisive di riproduzione e montaggio, e dall’enorme quantità di filmati che possiamo reperire attraverso Google o YouTube. Oggi, la riproducibilità tecnica, che Walter Benjamin (2000) considerava una caratteristica così saliente dell’arte contemporanea e delle sue manifestazioni da poter persino dare il nome a un’epoca, è estesa a qualsiasi immagine ed è alla portata di chiunque: sono passati poco più di dieci anni da quando abbiamo iniziato a cimentarci con la posta elettronica e con le prime fotocamere e videocamere digitali, e ora ognuno di noi può usufruire di connessioni ultraveloci per scaricare filmati, può guardare l’amata anche a sei ore zione tra l’“io vedo” e l’“io ascolto” e su cui tornerà nella terza parte di Montaž (Teoria generale del montaggio, 1937). Non il lavoro su due sistemi distinti, ma l’esplorazione di un territorio che permetteva di raggiungere la radice comune del visivo e del sonoro (e degli altri piani espressivi coinvolti)» (Scarlato, 2005, pp. 22-23). 17 La pedagogia dei popcorn di fuso orario di distanza, può fotografare con il telefono, può «taroccare» le immagini degli amici per farsi quattro risate. Questo immenso potere di guardare e di vedere, di fissare momenti e di documentare inquieta tanto i moralisti, che accusano la nostra società di inguaribile voyeurismo, quanto i teorici del complotto, che denunciano un disegno cospirativo occulto che tutto e tutti vorrebbe controllare, ma stando a quello che si vede, in un’ottica più fenomenologica che ideologica, sembra che il rischio sia quello di smarrirsi nel bosco (più simile al paese dei balocchi che alla selva oscura) e di uniformare a modelli predefiniti se stessi, il proprio partner, il proprio gruppo sociale più per overloading e per pigrizia che per coercizione. In questo caos che si autoriproduce, nel regno delle brevi narrazioni audiovisive, la letteratura e il cinema, l’intertestualità e le storie che abbiamo definito polifoniche forse possono aiutarci a gestire con consapevolezza il flusso delle immagini: provando a partire dai modelli impliciti, dagli schemi che rendono le storie a noi fruibili, dal pluralismo delle pratiche di decostruzione, possiamo valorizzare lo sviluppo cognitivo di ognuno di noi, sviluppo cognitivo che ha bisogno di forme narrative sempre più complesse e ricche e di spazi per commentare, condividere e dibattere con gli altri. È bene ricordarsi che il cinema, come la letteratura, prima di essere evasione dal mondo è specchio, rappresentazione e modello dello stesso e aumenta la qualità della conversazione e della vita. Perlomeno a cena. 18 La funzione formativa del cinema Scheda 1 Metacognizione e narrazione cinematografica A differenza della teoria della mente o, meglio, delle differenti teorie che rispondono alle domande attorno al concetto di mente e allo sviluppo delle teorie della mente, la metacognizione e gli studi metacognitivi si connettono ai processi cognitivi e in particolare si focalizzano sulle strategie dell’apprendimento. Gli studi sulla metacognizione partono storicamente dalle ricerche sulla metamemoria (Flavell, 1970; 1979), che destano tuttora un diffuso interesse (Lockl e Scheider, 2006), per poi estendersi fino alle tecniche e al metodo di studio (Schneider e Pressley, 1989; De Beni e Zamperlin, 1993). Più recentemente, gli studi sulla metacognizione hanno dedicato molta attenzione alla matematica e al problem solving (Mevarech e Fridkin, 2006) e la metacognizione stessa è diventata il concetto chiave per gli studi sull’autoriflessione e il monitoraggio dei soggetti sulle modalità di apprendimento di singole discipline (Nietfeld, Cao e Osborne, 2006). In Metacognizione ed educazione Ottavia Albanese, Pierre-André Doudin e Daniel Martin individuano nel controllo e nella consapevolezza due tematiche costanti nell’eterogenea produzione di lavori sulla metacognizione: 31 La pedagogia dei popcorn Dagli anni Settanta a oggi la letteratura specifica ha offerto un vasto panorama di ipotesi e modelli, a volte congruenti, a volte meno, e soltanto a partire dagli anni Ottanta si è arrivati alla costruzione di modelli metacognitivi più complessi e articolati, che indicano tra le componenti principali della metacognizione sia il controllo che la consapevolezza. (Albanese, Doudin e Martin, 1998, p. 13) Oltre al controllo e alla consapevolezza, lo studio dei processi metacognitivi inevitabilmente coinvolge la dimensione di riflessione sui propri processi sia come strategia di monitoraggio (Schunk e Zimmerman, 1994) che come pratica autobiografica e identitaria (Demetrio, 1996; Dallari, 2000). Ma l’autoriflessività non è solo una caratteristica dell’apprendimento individuale in senso stretto, anzi, mi sembra più credibile che sia la stessa attenzione ai processi cognitivi a richiedere una dimensione meta-, come sostiene Edgar Morin, con un notevole uso retorico di paradossi, a proposito de La conoscenza della conoscenza: Se si passerà dalla nozione di scienze cognitive (associazione di discipline che conservano la loro sovranità) all’idea, proposta da Jean-Louis Le Moigne, di «scienza della cognizione» (scienza sovrana che regge le discipline associate), non ci si limiterà a facilitare gli scambi tra discipline differenti ma si arriverà a fare della conoscenza un oggetto di conoscenza. La scienza occidentale effettuerà allora la sua ultima conquista introducendo la conoscenza nel suo obiettivo e nella sua obiettività. Ma questa conquista sarebbe contemporaneamente una disfatta per la conoscenza, se quest’ultima divenisse soltanto un oggetto come gli altri. 32 La funzione formativa del cinema Infatti la conoscenza non può essere un oggetto come gli altri, perché è appunto ciò che serve a conoscere gli altri oggetti e a conoscere se stessa. (Morin, 2007, p. 15) Dunque, la «conoscenza metacognitiva» (Cornoldi, 1995, p. 31) richiede e consente al soggetto di controllare, di avere consapevolezza e di riflettere sui propri processi cognitivi e sulle proprie conoscenze. La distinzione tra controllo, consapevolezza e «riflessione su» qui adottata semplifica di certo l’eterogeneità degli studi sulla metacognizione, ma permette di descrivere sinteticamente che ogni conoscenza metacognitiva ha bisogno di processi di controllo, fa crescere la propria consapevolezza e consente di riflettere sulla conoscenza e sul proprio modo di conoscere. A partire da questo orizzonte di metacognizione, Cesare Cornoldi nota che il rapporto realtà-finzione ha conseguenze sulla metamemoria (cioè sul controllo, sulla consapevolezza e sulla riflessione sulla memoria), come si evince dalle ricerche e da esperienze di vita quotidiana. Noice e Noice (1996) hanno però dimostrato che gli artisti (ad esempio gli attori) sviluppano delle strategie personali e sofisticate di memorizzazione che in parte si basano sulla particolare sensibilità e penetrazione psicologica. L’impressione dello spettatore è quella che l’artista abbia una memoria perfetta, anche quando la copia non è esatta. E lo stesso fruitore può trasformarsi in un memorizzatore, ricordando o credendo di ricordare con esattezza (Kezich, 1994) quello che ha sentito o visto. In effetti, è stato osservato (Larsen in Cornoldi, 1995) che la gente ricorda meglio gli episodi che ha visto personalmente, e ad essi associa anche un’impressione di maggiore memo- 33 La pedagogia dei popcorn rabilità perché li ritiene più «notevoli» (vedi Lieury et al., 1978) e gli sembra che siano più chiari, vividi, precisi. Ma il ricordo semplicemente riferito può essere noioso, ripetuto, poco interessante (si pensi alle notizie «standard» dei telegiornali), mentre il ricordo riferito alla presentazione di un grande artista può essere più vivido e memorabile della realtà. Almeno questa è un’impressione che si ricava dal piacere provato a leggere certi romanzi o a vedere certi film di particolare bellezza e questo è, presumo, uno degli obiettivi dell’artista. Tuttavia, nessuno ha mai cercato di operare questo confronto fra realtà sperimentata e realtà immaginata e quindi bisogna rimanere sul piano delle intuizioni di… metamemoria. (Cornoldi, 1995, p. 166) Queste considerazioni di Cesare Cornoldi su «metamemoria e arte», che partono dal punto di vista classico degli studi metacognitivi, evidenziano un aspetto di una certa importanza anche metodologica: per la riflessione sui processi cognitivi e sull’apprendimento è importante considerare che ciò che si conosce (l’oggetto della conoscenza) condiziona i processi stessi non solo a livello procedurale, ma anche per la forma comunicativa e per il modello di conoscenza che porta con sé. Quanto al «confronto tra realtà sperimentata e realtà immaginata», nella narrazione cinematografica, i soggetti che sperimentano la realtà immaginata partecipano alla narrazione grazie e attraverso le tecniche cinematografiche e gli artifici pensati da registi e attori e condivisi nella fruizione dagli spettatori. Per studiare secondo un approccio metacognitivo la «realtà immaginata», ci dobbiamo avvalere degli specifici congegni del pensiero umano che ci consentono di produrre 34 La funzione formativa del cinema e comprendere narrazioni, congegni che tutti noi sperimentiamo perlomeno nella vita quotidiana. Dunque, per capire come elaboriamo le informazioni complesse di una narrazione, occorre declinare l’approccio metacognitivo sulla narrazione e connettere le strategie metacognitive (controllo, consapevolezza e «riflessione su») con il pensiero narrativo. In orizzonte educativo, l’idea di soggetto rappresentazionale di Jerome Bruner (Bruner, 1993; Liverta Sempio, 1998) e le ricerche sul pensiero narrativo (Smorti, 1994) hanno dato un decisivo contributo sia per storicizzare i linguaggi che il soggetto acquisisce, sia per rendere conto di situazioni di apprendimento complesse. Se il soggetto rappresentazionale e il pensiero narrativo non vengono separati dal soggetto logico e dal pensiero analitico, se non si eccede cioè con la naturalizzazione della psiche (Husserl, 1997; Bertolini, 1988; Galimberti, 1999), lo studio delle strategie e dei meccanismi di controllo, di consapevolezza e di riflessione (metacognizione) è estendibile anche alla narratività umana. Le funzioni della metacognizione narrativa sono sette: funzione metaforica, funzione inferenziale, funzione enfatica, contratto di finzione, funzione esemplificativa, funzione intertestuale e funzione mitopoietica. Nei prossimi capitoli, in particolare nel capitolo sesto, vedremo come tali funzioni e la metacognizione in generale interessino la narrazione trattata in questo libro, ovvero quella cinematografica. 35 L’ottavo anno d’età tra Jean Piaget e Roger Rabbit L’ottavo anno d’età tra Jean Piaget e Roger Rabbit Dallo stadio preoperatorio allo stadio operatorio Jean Piaget, influenzato dal suo primo amore per i molluschi di mare ma anche dalla scientificità psicopedagogica europea di inizio Novecento che faceva capo all’Istituto Jean-Jacques Rousseau di Ginevra, dal paradigma biologico e dal darwinismo, pensava che gli esseri viventi si inserissero nell’ambiente attraverso meccanismi di adattamento. Sulla base di questo sfondo epistemologico e culturale, Piaget osservò che l’interazione complementare di assimilazione e di accomodamento (Piaget, 1966) consentiva ai bambini di organizzare la propria visione di mondo attraverso il linguaggio, passando per quattro stadi distinti: il sensomotorio, il preoperatorio, l’operatorio concreto e l’operatorio formale. Secondo la teoria stadiale, nello stadio preoperatorio, che va dai 2 ai 7 anni, i bambini interiorizzano le conoscenze e i linguaggi, pur avendo il pensiero condizionato da egocentrismo e irreversibilità ed essendo in questo in difetto rispetto alle fasi successive. In questo stadio, i bambini esperiscono e testano i linguaggi e acquisiscono le forme che diventano modello e base per le acquisizioni stesse: in questa fase della loro vita, imparano e imparano a imparare e, anche se lo sviluppo cognitivo porta nuove capacità e nuove strutture, lo stadio preoperatorio lascia in tutti loro (e in tutti noi) la capacità di dare al mondo un senso attraverso il linguaggio. 119