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Servizi di investimento, obblighi di informazione e tutela del cliente

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Servizi di investimento, obblighi di informazione e tutela del cliente
CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
SCUOLA SUPERIORE DELL’AVVOCATURA
IV Congresso nazionale di aggiornamento professionale
SERVIZI DI INVESTIMENTO, OBBLIGHI DI INFORMAZIONE E TUTELA DEL
CLIENTE
Prof. Avv. Michele Sesta
Ordinario di diritto civile dell’Università di Bologna
SOMMARIO: 1. I contratti tra intermediario finanziario e cliente in generale. 2. La
responsabilità dell’intermediario. 3. La qualificazione del cliente professionale su
richiesta tra normativa attuale e previgente.
***
1. I contratti tra intermediario finanziario e cliente in generale
I servizi e le attività di investimento sono individuati all’art. 1, comma 5, T.U.F.
Tale norma dispone che ”per ‘servizi e attività di investimento’ si intendono i seguenti,
quando hanno per oggetto strumenti finanziari: a) negoziazione per conto proprio; b)
esecuzione di ordini per conto dei clienti; c) sottoscrizione e/o collocamento con
assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei confronti dell'emittente; cbis) collocamento senza assunzione a fermo né assunzione di garanzia nei confronti
dell'emittente; d) gestione di portafogli; e) ricezione e trasmissione di ordini; f)
consulenza in materia di investimenti; g) gestione di sistemi multilaterali di
negoziazione”.
In particolare, qui ci si intende riferire a quegli specifici servizi che vengono
identificati col nome di “contratti finanziari”, i quali ricevono, nella regolamentazione
di settore, una disciplina in parte comune e in parte specifica, con l’ulteriore
avvertenza, - necessaria poiché nei contratti finanziari le controparti degli intermediari
ricevono una tutela diversificata in ragione della categoria di clientela nella quale sono
inserite – che in questa sede, ci si occuperà prevalentemente della disciplina dettata per
la conclusione di contratti con clienti al dettaglio.
Le disposizioni comuni che disciplinano la materia dei contratti finanziari
possono essere divise in norme che dettano particolari vincoli di forma e di contenuto e
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norme che impongono una serie di obblighi in capo all’intermediario.
Per quanto attiene alla forma, l’art. 23 T.U.F. dispone che i contratti relativi alla
prestazione di servizi d’investimento, eccezion fatta per quelli di consulenza, devono
essere redatti per iscritto e che una copia deve essere consegnata al cliente. Nei
contratti di prestazione di servizi finanziari, dunque, sussiste un vincolo di forma scritta
accompagnato da un obbligo di consegna. Tale obbligo di consegna rende evidente che,
nelle fattispecie in esame, la forma scritta è prevista, oltre che per garantire una
generica tutela del cliente, allo specifico fine di veicolare le informazioni. Ai sensi
della norma, non possono essere inserite nel contratto pattuizioni di rinvio agli usi per
la determinazione del corrispettivo dovuto all’intermediario.
L’art. 37 del Regolamento intermediari limita la necessità della forma scritta,
prevista dal T.U.F. indistintamente, ai soli contratti stipulati con clientela al dettaglio e
dispone, altresì, una sorta di contenuto minimo necessario dei contratti di fornitura di
servizi d’investimento: devono essere descritti analiticamente l’oggetto, la durata, le
modalità di esecuzione del contratto e la remunerazione spettante all’intermediario per
le proprie prestazioni. Dubbi di legittimità potrebbero sorgere con riferimento alla
circostanza che un regolamento Consob limiti l’ambito di applicazione soggettivo di
una norma di protezione posta da una fonte primaria quale l’art. 23 T.U.F.: in un’ottica
di ricostruzione sistematica, tuttavia, tali dubbi possono essere fugati dall’art. 39, primo
comma della direttiva MiFID (Direttiva 2004/39/CE del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 21 aprile 2004, MiFID – Markets in Financial Instruments Directive), ai
sensi del quale la richiesta di forma scritta è limitata ai clienti al dettaglio.
Quanto agli obblighi dell’intermediario di carattere informativo essi sono regolati
innanzitutto all’art. 21, lett. B, T.U.F., che richiede che l’intermediario acquisisca le
informazioni necessarie dai clienti e operi in modo che essi siano sempre
adeguatamente informati. Si tratta quindi di informazioni che vengono trasmesse
dall’investitore all’intermediario e, per altro verso, che vengono trasmesse
dall’intermediario all’investitore. Ulteriori profili attinenti gli obblighi informativi sono
disciplinati nel Libro terzo del Regolamento intermediari (delibera Consob 29 ottobre
2007 n. 16190), dedicato alla prestazione dei servizi e della attività di investimento e
dei servizi accessori, ed in particolare, dalla parte seconda intitolata “Trasparenza e
correttezza nella prestazione dei servizi/attività di investimento e dei servizi accessori”.
Tutti i comportamenti che gli intermediari devono assumere nei rapporti con il cliente
costituiscono specificazioni del generale dovere di trasparenza e correttezza,
riconducibile alle clausole di buona fede nelle trattative e nell’esecuzione del contratto
di cui agli artt. 1337 e 1375 c.c., che, data la peculiarità del rapporto in esame, viene
declinato dal legislatore in obblighi tipici. La ratio di tali obblighi - come si evince
dalla lettura dell’art. 27, primo comma, Regolamento intermediari – è quella di ridurre
l’asimmetria informativa tra intermediario e cliente, in modo che quest’ultimo sia
messo in grado di scegliere con consapevolezza quali rischi assumere in relazione ai
propri obiettivi d’investimento.
I comportamenti cui è tenuto l’intermediario possono essere suddivisi in obblighi
di informare ed obblighi di informarsi (art. 21 T.U.F.).
Per quanto attiene gli obblighi di informare (artt. 29, 30, 31, 32 Reg. int.),
l’intermediario, come si è accennato, deve fornire al cliente – o al potenziale cliente –
una serie di notizie riguardanti, per quanto qui interessa, l’intermediario stesso (nome,
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indirizzo, recapiti, modalità di comunicazione, estremi dell’autorizzazione a fornire
servizi finanziari, natura, frequenza e date della documentazione di rendiconto ecc.), la
tipologia dei servizi prestati, le misure adottate per la salvaguardia degli strumenti
finanziari e delle somme di denaro della clientela, gli strumenti finanziari trattati
(natura e rischi), i costi e gli oneri connessi alla prestazione dei servizi finanziari. Tali
informazioni devono essere corrette, chiare e non fuorvianti (art. 27 Reg. int.). A tal
fine, la Consob si preoccupa di specificare in dettaglio i criteri contenutistici alla
stregua dei quali tali condizioni possano dirsi rispettate (art. 28 Reg. int.). Le
informazioni possono essere fornite in formato standardizzato (art. 27, secondo comma,
Reg. int.), purché su supporto duraturo, o tramite il sito Internet dell’intermediario (art.
34, quinto comma, Reg. int.). La possibilità di utilizzare il sito Internet per fornire le
informazioni al cliente è subordinata dalla Consob ad alcune condizioni, previo in ogni
caso specifico consenso espresso dal cliente. Il sito Internet, inoltre, deve essere
costantemente aggiornato e le informazioni devono essere continuamente accessibili e
reperibili per tutto il tempo in cui, ragionevolmente, il cliente può avere necessità di
acquisirle. Qualora non siano rispettate tali condizioni, l’unica possibilità, per
l’intermediario, sarà quella di utilizzare documenti cartacei ovvero, previa scelta
preventiva ed espressa del cliente, altro supporto duraturo non cartaceo (per esempio,
CD-ROM o altri mezzi di archiviazione elettronica, art. 36, primo comma, Reg. int.). Il
Regolamento intermediari si preoccupa anche di disciplinare il tempo in cui le
informazioni devono essere fornite, disponendo, in particolare, che quelle concernenti i
termini del contratto devono essere date prima della stipulazione, mentre le altre prima
che il servizio oggetto del contratto sia prestato. L’obbligo di informazione, permane
per tutta la durata del rapporto, trattandosi di contratti di durata. A tal proposito, gli
intermediari devono comunicare in tempo utile al cliente qualsiasi modifica rilevante
delle informazioni precedentemente fornite (art. 34, sesto comma, Reg. int.).
Quanto agli obblighi di informarsi, inoltre, l’intermediario ha lo specifico dovere
di indagare quali siano le disponibilità economiche del proprio cliente e quali i suoi
obiettivi d’investimento, al fine di raccomandare i servizi d’investimento, nonché quale
sia la conoscenza ed esperienza del cliente sul settore di investimento rilevante (art.39),
e gli strumenti finanziari adatti. Per fare ciò, egli deve acquisire dal cliente stesso
alcune informazioni, che variano a seconda del servizio finanziario oggetto del
contratto. Gli obblighi sono, in particolare, differenziati a seconda che si tratti di fornire
servizi di consulenza e di gestione del portafogli (art. 39), ovvero servizi diversi. La
ratio della differenziazione si basa, evidentemente, sulla maggiore discrezionalità
attribuita all’intermediario nella prestazione dei primi servizi di cui si è detto.
Specifiche obbligazioni sono poi previste in relazione ai singoli contratti (art. 37,
38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, Reg. intermediari).
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La responsabilità dell’intermediario.
Negli ultimi anni, anche a seguito dei crack Cirio e Parmalat e del default dei
bond argentini, si è sviluppato un rilevante contenzioso tra clienti ed intermediari.
Dopo un iniziale periodo di oscillazione della dottrina e della giurisprudenza di merito
circa l’apparato rimediale posto dall’ordinamento a disposizione del cliente che si
assume danneggiato, allo stato attuale, anche a seguito di due sentenze della
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Cassazione, paiono acquisiti alcuni punti fermi, relativamente alle conseguenze
contrattuali della violazione da parte dell’intermediario di disposizioni legali o
regolamentari.
In alcune ipotesi, è pacifico che possa addivenirsi alla declaratoria di nullità del
contratto. Così è, innanzitutto, nel caso di inosservanza dell’obbligo di forma scritta
prescritto per i contratti finanziari ex art. 23, primo comma, del T.U.F., il quale
espressamente ricollega all’ipotesi di violazione la nullità del contratto. Trattasi di
nullità ex art. 1418, secondo comma, per mancanza di uno dei requisiti essenziali del
contratto, sebbene la nullità in questione possa essere fatta valere solo dal cliente, come
precisato dal successivo terzo comma del citato articolo 23 del T.U.F. Con riferimento
alla norma in esame, i problemi di maggiore rilievo si sono posti in relazione al
contratto di negoziazione.
Nella normativa speciale sono previste altre ipotesi di nullità espressa che
devono, quindi, farsi rientrare nel novero delle nullità ex art. 1418, terzo comma, c.c.
Innanzitutto, lo stesso articolo 23 T.U.F., al secondo comma, stabilisce che “è nulla
ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal
cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi, nulla è dovuto”. Anche per tale
ipotesi, il comma successivo specifica che si tratta di nullità relativa. E da nullità
relativa, azionabile solo dal cliente, sono affetti, giusta il disposto dell’articolo 24
T.U.F., anche i patti in deroga alle relative disposizioni, cioè alla facoltà, per il cliente,
di impartire direttive vincolanti; alla disciplina del recesso ed alla previsione in tema di
conferimento all’impresa di investimento del potere di rappresentanza.
Si è discusso in dottrina circa le conseguenze della violazione delle norme con le
quali la Consob ha dettagliatamente disciplinato il contenuto minimo dei contratti
finanziari in generale. Le tesi prospettate, in particolare, sono due. La prima afferma
che la mancanza di qualcuno dei requisiti contenutistici previsti dalla Consob non possa
invalidare il contratto, a meno di volere vedere in essa una mancanza di (parte)
dell’oggetto del contratto dalla quale fare discendere un’ipotesi di nullità ex art. 1418,
secondo comma, c.c.. La seconda tesi, invece, che la previsione di un contenuto
minimo per i contratti finanziari non risponda solo ad esigenze di tutela del cliente, ma
stia a presidio anche dell’interesse – generale e di rilevanza pubblicistica – del buon
andamento dei mercati finanziari, concludendo, coerentemente, per la nullità virutale
ex art. 1418, primo comma, codice civile. Questa seconda ricostruzione sembra,
peraltro, oggi smentita dalla limitazione, da parte del nuovo Regolamento intermediari,
delle prescrizioni in tema di contenuto contrattuale ai soli contratti stipulati con clienti
al dettaglio, prospettiva che ne evidenzia le finalità di protezione del contraente.
Occorre ora dar conto del vivace dibattito, tanto dottrinale quanto
giurisprudenziale, sviluppatosi negli ultimi anni circa le conseguenze da riconnettere
alla violazione, da parte dell’intermediario, dei doveri di informazione e di
comportamento che lo riguardano, stante la mancanza di un’espressa disposizione
normativa al riguardo. Le posizioni espresse sono riconducibili a due orientamenti
principali. La prima opinione è quella di chi ha sostenuto che le violazioni in parola
comporterebbero nullità virtuale del contratto per violazione di norma imperativa ex
art. 1418, primo comma, codice civile. Su altro piano, invece, si è sostenuto che, a
fronte delle irregolarità sopra menzionate, vengano in rilievo gli istituti della
responsabilità precontrattuale o contrattuale, a seconda dei casi, e, quindi, che il
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contratto sia in linea di principio valido ed efficace, salva la sua risoluzione e/o il
risarcimento del danno.
La tesi della nullità, prevalente in un primo momento e oggi minoritaria a seguito
dell’intervento della Suprema Corte, muove dal primo comma dell’articolo 1418 c.c. ed
in particolare della rilevanza pubblicistica delle norme contenute nel T.U.F. e nel
Regolamento intermediari, affermata sul presupposto che le stesse tutelino, prima e più
ancora dell’interesse del singolo risparmiatore, quello generale alla trasparenza ed al
buon andamento dei mercati, dato, questo, indiscusso, desumibile tanto dal sistema
quanto dalla lettera dell’articolo 21, primo comma, lettera a) del T.U.F., come
recentemente sottolineato anche dalla Cassazione a Sezioni Unite. Sulla scorta delle
premesse di cui sopra, è stata ripetutamente dichiarata la nullità dei contratti in
questione.
Questa impostazione è stata criticata da quella dottrina che ha sottolineato come
per aversi nullità del contratto non basti la violazione di una norma imperativa ma
occorra, altresì, che tale violazione sia idonea ad incidere sugli elementi costitutivi o
sulla legittimità del contratto. In questo senso, si suole distinguere tra norme c.d. di
validità, la cui violazione comporta la nullità del contratto e norme c.d. di
comportamento, la cui violazione importa solo possibilità di chiedere la risoluzione del
contratto e/o il risarcimento del danno.
In quest’ottica, gli obblighi di informazione e, in generale, di comportamento
imposti dal T.U.F. all’intermediario, sono certamente ascrivibili nel novero delle norme
imperative, ma di comportamento, inidonee quindi, a dar luogo ad invalidità del
contratto. Ne consegue che, a fronte della violazione di detti obblighi da parte
dell’intermediario il cliente possa agire solo per ottenere una tutela risolutoria e/o
risarcitoria. A sostegno di tale tesi è stato portato anche un dato sistematico di natura
processuale: si è, infatti, sottolineato come l’ammissione della possibilità di far
discendere una declaratoria di nullità dall’accertamento della violazione di regole di
comportamento stravolgerebbe la visione classica del giudizio di nullità come giudizio
prevalentemente di diritto e non di fatto. L’impostazione sopra menzionata è stata fatta
propria dalla Suprema Corte in due sentenze, n.19.024 del 2005 e la seconda – a
Sezioni Unite – n. 26.725 del 2007. Nella pronuncia del 2005 si legge: “la
<<contrarietà>> a norme imperative, considerata dall’art. 1418, primo comma, c.c.,
quale <<causa di nullità>> del contratto, postula, infatti, che essa attenga ad elementi
<<intrinseci>> della fattispecie negoziale, che riguardino, cioè, la struttura o il
contenuto del contratto. I comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o
durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale e
s’intende, allora, che la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme
violate, non può dar luogo alla nullità del contratto (omissis), a meno che tale incidenza
non sia espressamente prevista dal legislatore (omissis)”. Specificando ulteriormente, la
sentenza del 2007, dopo aver precisato che “gli obblighi di comportamento (omissis) si
collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto (omissis) ed in
altra parte nella fase esecutiva dello stesso”, afferma che “si deve certamente convenire
sul fatto che le norme (omissis) hanno carattere imperativo, nel senso che esse, essendo
dettate non solo nell’interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma
anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari (omissis) si impongono
inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti”, ma, prosegue, “questo rilievo
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(omissis) non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più di dette
norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall’intermediario col cliente”. La
Corte affronta, poi, l’analisi della sentenza del 2005, il cardine della quale “è costituito
dalla riaffermazione della tradizionale distinzione tra norme di comportamento dei
contraenti e norme di validità del contratto: la violazione delle prime (omissis), ove non
sia diversamente stabilito dalla legge, genera responsabilità e può esser causa di
risoluzione del contratto, ove si traduca in una forma di non corretto adempimento del
generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul
contraente, ma non incide sulla genesi dell’atto negoziale, quanto meno nel senso che
non è idonea a provocarne la nullità”. Dopo aver così riassunto il principio enunciato
dalla pronuncia del 2005, aver affermato che il radicamento della distinzione tra norme
di comportamento e norme di validità nel nostro ordinamento è “difficilmente
contestabile” e, anche ammesso che tale distinzione tenda a sbiadire nella legislazione
contemporanea, “un conto è una tendenza altro conto è un’acquisizione”, aver escluso
che, nello specifico settore del diritto dei mercati finanziari viga una regola diversa da
quella generale, la Corte conclude dichiarando che la violazione degli obblighi di
comportamento da parte dell’intermediario danno luogo a responsabilità precontrattuale
quando l’obbligo che si assume violato attiene alla fase precedente o contestuale alla
stipulazione del contratto ed a responsabilità contrattuale (da inadempimento) nel caso
in cui attenga alla fase esecutiva del contratto.
Questa ricostruzione della fattispecie, già adottata da numerose corti di merito
dopo la sentenza del 2005, risulta prevalente dopo la sentenza a Sezioni Unite del 2007
ed è probabilmente destinata a diventare maggioritaria.
Da quanto esposto, a fronte dell’inadempimento da parte dell’intermediario dei
propri obblighi di comportamento, il cliente potrà seguire due strade: agire soltanto per
il risarcimento del danno e lasciare in vita il contratto, ovvero, purché l’inadempimento
non sia di scarsa importanza, agire per la risoluzione del contratto, con i conseguenti
effetti restitutori e risarcitori. Circa la prova dell’inadempimento, vige una deroga alla
disciplina generale di cui all’art. 1218 c.c.: l’art. 23, quinto comma, T.U.F., infatti,
dispone che “Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello
svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati
l'onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”. Per percorrere la
prima strada, invece, quella del risarcimento, il cliente si troverà nella necessità di
dimostrare, con prova tutt’altro che semplice, tanto l’esistenza e l’ammontare di un
danno, quanto il nesso causale. Dal punto di vista del cliente, quindi, l’esperimento del
rimedio restitutorio prevede un indubbio vantaggio di ordine pratico: una volta
dimostrata l’esistenza del presupposto dell’azione di risoluzione egli avrà ipso iure
diritto alla restituzione dell’intera somma impiegata, oltre al risarcimento del danno.
Una notazione merita un aspetto evidenziato da autorevole dottrina. Nella prassi,
a fronte del vittorioso esperimento di azioni ad effetti restitutori, è spesso capitato che i
clienti ottenessero il ripristino dello status quo ante mediante condanna
dell’intermediario finanziario all’integrale restituzione della somma investita, senza il
favore dell’intermediario, tuttavia, venisse pronunciata la correlativa condanna
dell’investitore a restituire gli strumenti finanziari acquistati per il tramite del contratto
risolto. Questo perché gli intermediari, spesso, dimenticavano di inserire nelle proprie
conclusioni domande riconvenzionali subordinate con le quali chiedere tali restituzioni,
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col risultato arricchire i clienti oltre i limiti che l’ordinamento imporrebbe.
3. Qualificazione del cliente professionale a richiesta tra normativa attuale e
previgente.
Come specificato, la trattazione che precede è riferita all’ipotesi di contratto
stipulato tra intermediario finanziario e cliente al dettaglio. La clientela degli
intermediari finanziari è, infatti, suddivisa in diverse categorie: oggi, con l’attuazione
della direttiva MiFID, che ha modificato il T.U.F. ed ha indotto la Consob a riscrivere
il Regolamento intermediari, è stata superata la previgente bipartizione tra clienti al
dettaglio ed operatori qualificati per giungere alla tripartizione tra clienti al dettaglio,
clienti professionali (privati e pubblici; di diritto o su richiesta) e controparti
qualificate. L’idea di fondo che sta dietro ad entrambe le classificazioni è la medesima
e consiste in un progressivo spoglio di tutele per l’investitore mano a mano che questi
sia più esperto. Per ciascuna categoria è, dunque, prevista una differente intensità degli
obblighi di condotta dell’intermediario: massima nei confronti della clientela al
dettaglio, essi si affievoliscono nei confronti della clientela professionale, fino a
scomparire quasi del tutto nei confronti delle controparti qualificate.
Essere esclusi dal novero della clientela al dettaglio, quindi, comporta per gli
investitori conseguenze di non poco momento: si pensi, ad esempio, per quanto
riguarda il tema del presente lavoro, alla disapplicazione dell’articolo 38 Regolamento
intermediari, relativo ai requisiti contenutistici specificamente dettati per il contratto di
gestione di portafogli, ovvero al disposto dell’articolo 40, comma secondo, giusta il
quale “quando forniscono il servizio di consulenza in materia di investimenti o di
gestione di portafogli ad un cliente professionale gli intermediari possono presumere
che, per quanto riguarda gli strumenti, le operazioni e i servizi per i quali tale cliente è
classificato nella categoria dei clienti professionali, egli abbia il livello necessario di
esperienze e di conoscenze (omissis)” per comprendere i rischi inerenti all’operazione o
alla gestione del suo portafoglio.
A seguito del recepimento della direttiva MiFID, il nuovo art. 6, secondo comma
quinquies, del T.U.F. attribuisce alla Consob, sentita la Banca d’Italia, il compito di
individuare la clientela professionale privata ed i criteri alla stregua dei quali
determinati soggetti possono richiedere di essere trattati come tali. La Consob ha quindi
emanato il nuovo Regolamento intermediari, che adegua la disciplina secondaria al
mutato quadro normativo, il cui allegato 3 identifica i clienti professionali, in generale,
in quei soggetti che possiedono “l’esperienza, le conoscenze e la competenza
necessaria per prendere consapevolmente le proprie decisioni in materia di investimenti
e per valutare la correttezza dei rischi che assumono”. La categoria della clientela
professionale privata è, in particolare, quella che presenta le maggiori analogie con la
vecchia categoria delle controparti qualificate, come identificate dall’art. 31, secondo
comma, del precedente Regolamento.
In virtù della delega contenuta nel T.U.F., la Consob ha articolato tale clientela in
due tipologie: i clienti professionali di diritto e su richiesta. Nella prima categoria
rientrano le imprese di maggiori dimensioni, cioè quelle “che presentano a livello di
singola società, almeno due dei seguenti requisiti professionali: totale di bilancio
20.000.000 EUR, fatturato netto 40.000.000 EUR, fondi propri 2.000.000 EUR”. Nella
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seconda categoria possono, invece, essere classificate, a richiesta e con conseguente
equiparazione di trattamento ai clienti professionali di diritto, tutte le altre società (così
come le persone fisiche), ma solo a fronte di esperienza e competenza effettivamente
esistenti e da valutarsi caso per caso da parte dell’intermediario. In particolare, perché
possa operarsi tale equiparazione, la normativa vigente richiede la sussistenza di due
ordini di requisiti, uno di natura sostanziale ed un altro di natura procedurale. Per
quanto riguarda i requisiti sostanziali, la Consob consente che le regole poste a tutela
della clientela al dettaglio siano disapplicate quando “dopo aver effettuato una
valutazione adeguata delle competenza dell’esperienza e delle conoscenze del cliente,
l’intermediario possa ragionevolmente ritenere, tenuto conto della natura e delle
operazioni o dei servizi previsti, che il cliente sia in grado di adottare consapevolmente
le proprie decisioni in materia di investimenti e di comprendere i rischi che assume”.
Per i clienti professionali su richiesta, dunque, non è in alcun modo dato presumere che
essi possiedano conoscenze ed esperienze di mercato comparabili a quelle dei clienti
professionali di diritto, ma occorre che l’intermediario raccolga (e conservi) dati
oggettivi che le comprovino.
Fermo restando l’accertamento sostanziale dei requisiti di cui sopra, sul piano
procedurale è stato disciplinato minuziosamente l’iter da seguire affinché i clienti
possano rinunciare alle protezioni previste. Non basta più una semplice dichiarazione
inserita nel corpo del contratto, ma occorre seguire una procedura articolata in tre
momenti e volta, evidentemente, ad attirare l’attenzione dell’investitore sull’importanza
dell’atto che compie. I clienti devono, innanzitutto, esprimere la propria volontà di
essere “trattati come investitori professionali”; a fronte di tale manifestazione di
volontà, l’intermediario deve avvertire i clienti per iscritto delle tutele alle quali
rinunciano optando per l’applicazione di tale regime ed i clienti devono, a loro volta
per iscritto, dichiarare di essere consapevoli delle conseguenze derivanti dalla perdita di
tali protezioni.
La breve sintesi rende evidente come il nuovo Regolamento intermediari, in
attuazione della MiFID, abbia ampliato le tutele sostanziali e procedimentali a
beneficio dei clienti professionali su richiesta, attraverso la drastica limitazione della
loro facoltà di dichiararsi tali. E’ ben chiara, attualmente, la sussistenza dell’obbligo
dell’intermediario di valutare il cliente e le sue competenze, in mancanza delle quali la
disapplicazione delle regole previste per i clienti non professionali non è consentita;
quindi, se attuata impropriamente, detta disapplicazione configura inadempimento
dell’intermediario, cui non gioverà in alcun modo la mera richiesta del cliente. Anzi, in
detta ipotesi, l’intermediario, conclusa negativamente l’indagine relativa all’effettiva
sussistenza dei presupposti di cui all’Allegato 3 del Regolamento intermediari, dovrà
senz’altro respingere la richiesta del cliente.
Sotto la vigenza del precedente Regolamento intermediari i presupposti
dell’inserimento dell’investitore in una categoria diversa dalla clientela al dettaglio
hanno dato origine ad un rilevante contenzioso circa la sussistenza delle condizioni per
classificare le controparti dei soggetti abilitati all’attività di intermediazione nella
categoria degli operatori qualificati. In particolare, le decisioni intervenute sul punto si
sono concentrate sull’identificazione dei presupposti all’epoca necessari per la
classificazione dell’investitore persona giuridica come operatore qualificato.
Nonostante tali presupposti siano, oggi, radicalmente mutati in seguito al recepimento
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della direttiva MiFID, le problematiche affrontate da tali decisioni continuano a
rivestire un grande interesse pratico, perché la maggior parte dei casi litigiosi che si
presentano è tuttora regolata dalla normativa previgente, e separatamente dall’art. 31
del Regolamento Consob n.11522/1998.
I presupposti di fatto delle liti possono così riassumersi. Una società
commerciale, conclude con un intermediario finanziario un contratto avente ad oggetto
strumenti finanziari. In sede di stipulazione, il legale rappresentante della società
sottoscrive la dichiarazione, talvolta contenuta in scrittura separata, ovvero nel corpo
stesso del contratto quadro, con la quale egli attesta che la società è in possesso di una
specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari.
Le previsioni sull’andamento degli strumenti finanziari sottoscritti effettuate dalle
parti vengono, poi, disattese ed i contratti finanziari si rivelano estremamente onerosi
per le società clienti, le quali li impugnano, invocandone, spesso cumulativamente, in
quello che è stato definito l’ambaradan dei rimedi contrattuali, la nullità, annullabilità,
inefficacia e risoluzione. In tale contesto, viene impugnata specificamente la
dichiarazione a suo tempo sottoscritta dal legale rappresentante, in quanto
asseritamente non rispondente al vero e sul presupposto che l’intermediario avrebbe
dovuto controllare che quanto dichiarato fosse conforme alla effettiva competenza ed
esperienza della società.
La conclusione cui, per vie a volte diverse, le società giungono è la medesima:
poiché l’intermediario non ha verificato se, in concreto, la cliente fosse specificamente
competente ed esperta in materia di operazioni in strumenti finanziari, la dichiarazione
sarebbe invalida o inefficace, con conseguente “reviviscenza” dei normali obblighi di
informazione previsti in favore degli operatori non qualificati, obblighi rispetto ai quali
l’istituto di credito si troverebbe inadempiente.
La ricostruzione della fattispecie nei termini da ultimo prospettati è condivisa da
una parte consistente della dottrina, in base alla constatazione che l’asimmetria
informativa tra intermediari e clientela non potesse, in casi simili, dirsi colmata e che la
tutela all’epoca garantita dal T.U.F. e dalla normativa di attuazione dovesse essere
sempre effettiva e non affidata a meri strumenti formali. In questo contesto, molti
autori, argomentando variamente, hanno sostenuto che una mera “dichiarazione
autoreferenziale” non esonerasse l’intermediario finanziario dai propri obblighi. A
sostegno di tale affermazione sono stati addotti, per lo più, argomenti sistematici: in
particolare, si è sottolineato che la ratio delle disposizioni in rassegna, rinvenuta nella
protezione di colui che non abbia sufficiente consapevolezza dell’investimento,
avrebbe richiesto che la conoscenza ed esperienza necessarie, richieste affinché la
dichiarazione della società potesse essere considerata efficace, fossero effettive. Più
nello specifico, vi è chi ha individuato, all’interno della fattispecie di cui all’art. 31, la
necessaria contemporanea presenza di due elementi, uno soggettivo (essere società o
persona giuridica) ed uno oggettivo (possesso della competenza ed esperienza in
materia finanziaria), onde, in mancanza di uno dei due, le condizioni richieste dalla
norma non avrebbero potuto dirsi integrate. Più spesso, è stato lo stesso carattere
negoziale della dichiarazione a venire revocato in dubbio, affermandosi che essa avesse
natura di dichiarazione di scienza e richiedesse quindi, per essere efficace, una
corrispondenza tra quanto dichiarato e la realtà, che quindi avrebbe dovuto sempre
essere oggetto di accertamento da parte dell’intermediario. Vi è, infine, chi ha
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affermato che la Consob, nella stesura dell’ultima parte dell’art. 31, relativa, appunto,
all’attribuzione dello status di operatore qualificato in capo alle società ed alle persone
giuridiche diverse dagli intermediari, non abbia rispettato i limiti dei poteri delegati ad
essa attribuiti dall’art. 6, secondo comma, del T.U.F. (testo ante MiFID), il quale
disponeva: “la Consob, sentita la Banca d’Italia, tenuto conto delle differenti esigenze
di tutela degli investitori connesse con la qualità e l’esperienza professionale dei
medesimi, disciplina con regolamento, fra le altre cose, il comportamento da osservare
nei rapporti con gli investitori, nonché gli obblighi informativi nella prestazione dei
servizi”.
Le ricostruzioni dottrinali sopra esaminate sono accolte da uno dei due
orientamenti che si rinvengono in giurisprudenza ed, in particolare, da quello di recente
seguito dalla giurisprudenza piemontese, che si contrappone a quello della
giurisprudenza milanese, secondo la quale, invece, la dichiarazione sottoscritta dal
legale rappresentate della società non richiede, da parte della Banca, alcuna attività di
verifica, cosicché, a fronte di una dichiarazione rivelatasi, poi, non veritiera,
l’intermediario, anche se non abbia svolto alcuna attività diretta ad accertarne la
veridicità – salvo il limite dell’exceptio doli –va comunque esente da responsabilità. In
tali casi, la società potrà far valere il diritto al risarcimento nei confronti del suo legale
rappresentante, secondo le norme che disciplinano la responsabilità degli
amministratori.
La prima pronuncia in grado di appello in materia aderisce a questa seconda
corrente interpretativa. La Corte d’Appello di Milano osserva, infatti, che l’art. 31
individuava tre distinte categorie di clienti, cui corrispondevano tre distinte modalità di
inclusione nella categoria degli operatori qualificati: a) persone e società presunte tali
in forza della specifica attività esercitata; b) persone fisiche che documentassero il
possesso di determinati requisiti di professionalità; c) società e persone giuridiche che
dichiarassero per iscritto, a mezzo del proprio legale rappresentante, il possesso di una
specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari. A
differenza di quanto statuito per le persone fisiche, quindi, era espressamente previsto
dalla norma che, per le società e le persone giuridiche diverse dagli intermediari
finanziari, tale inclusione originasse automaticamente dalla dichiarazione fatta dal
legale rappresentante della società. In altri termini, secondo l’opinione dei giudici, il
dato testuale non lasciava dubbi in ordine all’indagine relativa ai requisiti
dell’investitore qualora si trattasse di persona giuridica: la qualificazione soggettiva
valeva, quindi, ad escludere la configurazione di qualsiasi obbligo in capo
all’intermediario di verificare l’effettivo possesso della specifica esperienza dichiarata
da parte del rappresentante della società.
Altre sentenze che pervengono alle medesime conclusioni si spingono addirittura
oltre nell’argomentare. Cosi, il Tribunale di Milano giunge ad affermare: “quanto, poi,
all’osservazione di parte attrice, secondo cui competerebbe all’intermediario
finanziario anche un onere di controllo sulla veridicità della dichiarazione, tale onere
deve ritenersi non ricorrere sulla base della mera lettera della norma, che richiede solo
la dichiarazione del legale rappresentante della società e non anche la verificazione
della sua veridicità svuotandosi altrimenti il significato dell’art. 31 con conseguente
esclusione della responsabilità proprio del sottoscrittore della dichiarazione”, lasciando
intendere che una lettura della norma diversa da quella data dalle decisioni che si
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analizzano sarebbe, in qualche modo, contraria alla disciplina della responsabilità degli
amministratori.
A prescindere da ogni valutazione in merito all’interessante spunto offerto
dall’inciso del Tribunale di Milano testè riportato, pare utile richiamare l’attenzione sul
fatto che, come sottolineato da un’attenta giurisprudenza, affermare l’esistenza di un
obbligo, in capo all’intermediario, di verificare la veridicità delle dichiarazioni del
legale rappresentante della persona giuridica significherebbe, tra l’altro, sminuire il
ruolo attribuito a quest’ultimo. Il legale rappresentante è, infatti, il soggetto
maggiormente titolato a garantire a terzi “la competenza ed esperienza in materia di
strumenti finanziari”.
Ulteriori considerazioni a sostegno della soluzione seguita dalla giurisprudenza
milanese meritano poi, in questa sede, di essere svolte. Nel commentare criticamente la
sentenza della Corte d’Appello sopra citata, un’autrice segue il diverso percorso indicato dal Tribunale di Torino, secondo il quale la normativa, ai fini della classificazione
della persona giuridica quale operatore qualificato, nel prescrivere il rilascio di apposita
dichiarazione, esigerebbe che la stessa “non sia indeterminata e contenga l’elencazione
di fatti (non di opinioni) effettivamente indicativi di tale competenza e di tale esperienza”. Ne deriverebbe che una dichiarazione dal contenuto stereotipato, meramente riproduttivo della norma regolamentare, non sia sufficiente allo scopo di garantire il rispetto
degli obblighi di informazione della clientela. In conclusione, in tale caso, l’intermediario, avendo raccolto una dichiarazione generica avrebbe violato l’art. 21 T.U.F., “non
avendo […] correttamente applicato la previsione di cui all’art. 31 […] e ciò per l’appunto sul presupposto che quest’ultima previsione indichi le modalità procedurali per
assolvere agli obblighi di informazione passiva in ipotesi di cliente corporate”.
Pare a chi scrive che la tesi, apparentemente suggestiva, cada in un circolo vizioso, dando per dimostrato ciò che era da dimostrare. Lo stesso Tribunale di Torino, nel
formulare la premessa da cui muove la commentatrice – la dichiarazione dovrebbe contenere fatti e non opinioni – è smentito dal tenore letterale delle disposizioni che prevedevano distinte modalità per la qualificazione delle persone fisiche e di quelle giuridiche. Anche il richiamo al dovere di acquisire informazioni (passive) di cui all’art. 21 ,
lett. a) e b) T.U.F., dal quale l’a. pretende di ricavare i contenuti della dichiarazione di
cui si è detto, non è probante; infatti è la stessa normativa che all’art. 31 – il cui contenuto è speciale rispetto a quello dell’art. 21 – si “accontentava” della dichiarazione del
legale rappresentante di essere in possesso delle competenze per ritenere adempiuto il
predetto onere informativo.
Il problema resta, in definitiva, quello del valore giuridico della predetta dichiarazione, che la normativa consentiva ‘secca’ – se si vuole “stereotipata” – e priva di dati
concreti di riferimento, secondo un chiaro criterio di autoresponsabilità, all’epoca evidentemente ritenuto appropriato alla persona giuridica e non a quella fisica. Viene in risalto, dunque, la questione della rilevanza dell’eventuale non rispondenza al vero della
dichiarazione.
Al riguardo deve concordarsi con l’opinione che ne esclude il carattere negoziale
anche perché una manifestazione di volontà, che prescindesse dall’effettiva competenza, si risolverebbe in una dichiarazione contraria a norme imperative (quelle che così si
pretenderebbe di derogare). La qualificazione più appropriata è quella di dichiarazione
di scienza, con la quale, un soggetto non dispone (per il futuro) di un proprio interesse
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ma dà atto di una situazione già verificatasi, con effetti essenzialmente sul piano probatorio. Il dichiarante infatti subisce le conseguenze che derivano dalla assunzione di responsabilità in ordine alla verità di quanto da lui affermato.
Si tratta allora di stabilire quale sia il regime giuridico di una consimile dichiarazione, cioè di essere in possesso di specifiche competenze in materia. Sulla base di
quanto deciso dalla Suprema Corte in tutt’altro genere di fattispecie può fondatamente
ritenersi che, in ogni caso, la dichiarazione di scienza resa in un contesto contrattuale
possa essere contestata solo invocando l’errore di fatto o la violenza, cioè nei limiti in
cui ciò è consentito per la confessione, cui può equipararsi il riconoscimento di una situazione giuridica. Né pare potersi affermare in contrario che una dichiarazione quale
quella di cui trattasi abbia ad oggetto opinioni e non fatti, i quali soli sono suscettibili di
costituire oggetto di confessione.
Alla base della dichiarazione c’è esclusivamente il “fatto” della sussistenza di
competenza ed esperienza, “fatto” che, pur richiedendo un apprezzamento critico da
parte del dichiarante, non per questo degrada ad opinione. Una simile considerazione
risulta del resto avvalorata dallo stesso mutato contesto normativo, il quale, come si vedrà più diffusamente, oggi prevede, in riferimento ai cosiddetti clienti professionali su
richiesta, il dovere dell’intermediario di effettuare una valutazione adeguata della loro
competenza ed esperienza, con ciò dando chiaramente per presupposto che le stesse costituiscano fatti obiettivamente accertabili, ancorché attraverso un giudizio critico che
oggi è a carico della banca e che prima era a carico del dichiarante.
In linea generale, l’efficace dichiarazione di un fatto non richiede per nulla che ne
sia provata la verità all’atto in cui essa viene resa (basti pensare al riconoscimento del
figlio naturale). Il problema è, piuttosto, quello di stabilire che valore abbia la dichiarazione una volta che ne fosse accertata la falsità e, prima ancora, entro quali limiti si
possa indagare nell’ambito di un giudizio civile in ordine alla pretesa falsità di una consimile dichiarazione resa da un contraente.
Sotto un primo profilo di carattere sostanziale, pare a chi scrive che in giudizi
quali quelli di cui trattasi una simile indagine sia preclusa dall’applicazione del generale principio nemo potest contra factum proprium venire, autorevolmente ribattezzato,
con riferimento all’ordinamento italiano, “dovere di coerenza”.
In forza di detto generale principio – della cui vigenza nel nostro sistema la giurisprudenza di legittimità non dubita, avendolo addirittura applicato con riferimento alle
azioni di stato e dunque in materia di diritti indisponibili – può ritenersi infatti operante
la regola per cui, allorché un soggetto, con una propria dichiarazione volontaria e consapevole – che, nel caso che ci occupa, risulta per di più resa in forma scritta – induca
altri a credere nell’esistenza di una determinata situazione di fatto e ad agire sulla base
della medesima, il dichiarante, alterando la propria posizione iniziale, non sia successivamente ammesso ad allegare nei confronti di chi ha confidato in detta dichiarazione
che la medesima non era veritiera. Sul piano pratico, colui che agisca in violazione della regola richiamata, può vedersi a ragione opporre l’ exceptio doli generalis seu praesentis.
Ebbene, le fattispecie che si analizzano paiono emblematiche a riguardo, dal momento che in esse, a fronte di un’iniziale dichiarazione scritta di competenza e capacità
in materia finanziaria, viene successivamente intentata un’azione il cui esplicito fondamento è proprio la falsità di detta dichiarazione. In altri termini, è addirittura lo stesso
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attore a dare manifestamente conto di venire contra factum proprium, anzi, addirittura,
cntro un proprio atto.
Sotto altro riguardo, è opportuno aggiungere, sempre sulla base dei principi generali, che, anche a prescindere dal profilo sostanziale illustrato, deve ritenersi che in ogni
caso la dichiarazione di scienza resa in un contesto contrattuale possa essere contestata
solo invocando l’errore di fatto o la violenza, cioè nei limiti in cui ciò è consentito per
la confessione, cui può equipararsi il riconoscimento di una situazione giuridica.
In definitiva, la dichiarazione del cliente, pur non avendo carattere negoziale, è
pur sempre atto giuridico volontario e consapevole, con valenza di testimonianza privilegiata, avente l’effetto di una presunzione iuris et de iure della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità della disciplina riservata agli operatori qualificati ed inibisce
quindi ogni indagine sulla sua veridicità, salvo siano allegati l’errore di fatto o la violenza.
Pare a chi scrive che la migliore riprova della correttezza dell’orientamento
giurisprudenziale milanese, sia rappresentata, in ultima analisi, dalle recenti
modificazioni del Regolamento intermediari di cui si è detto, essendo palese che la
contraria opinione finisce per porre a carico dell’intermediario un potere-dovere di
sindacato della veridicità della dichiarazione del cliente che – in mancanza, appunto, di
un fondamento normativo – non poteva dirsi sussistesse vigente la regolamentazione
ante MiFID. In altri termini, l’esplicita previsione di un tale potere-dovere a carico
dell’intermediario è stata ora introdotta proprio perché si è inteso innovare la scena
delle contrattazioni: prima, clienti e intermediari erano collocati su un piano di
sostanziale parità, alla stregua dei principi classici del contratto, e ciascuno soggiaceva
alle conseguenze delle proprie dichiarazioni secondo il criterio di autoresponsabilità
che contraddistingue la disciplina codicistica del contratto in generale. Oggi, per
contro, i ruoli sono stati diversificati: il cliente non è più arbitro delle proprie decisioni,
la cui conformità al dettato normativo va preventivamente apprezzata dall’altro
contraente, il quale, nel dubbio, deve astenersi dal contrarre, salvo incorrere nelle
conseguenze del suo inadempimento per aver disapplicato le regole di condotta
prescritte nei confronti dei clienti al dettaglio.
E’ ovvio che senza un esplicito dato normativo, così fortemente limitativo della
autonomia dei contraenti, non si sarebbe ragionevolmente potuta pretendere
dall’intermediario una condotta che supera di gran lunga gli ordinari doveri gravanti sui
contraenti in base ai principi comuni, compresi quelli di buona fede e correttezza; anzi,
rovesciando la prospettiva, il cliente avrebbe potuto lamentare, in caso di negato
accesso al trattamento previsto per gli operatori qualificati, di essere stato
ingiustificatamente posto “sotto tutela” dall’intermediario, senza che nessuna norma
investisse quest’ultimo di un siffatto potere.
Paiono, pertanto, criticabili le pronunce che, nell’anticipare gli effetti della
recente riforma del T.U.F. e della normativa regolamentare, recano interpretazioni che,
inevitabilmente, forzano il quadro normativo previgente.
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