Cassazione: divorzio non rende nulla donazione al genero
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Cassazione: divorzio non rende nulla donazione al genero
Cassazione: divorzio non rende nulla donazione al genero Con sentenza n. 19529 del 9 novembre 2012, la Cassazione ha affermato che il divorzio non rende inefficace l'atto di liberalità nei confronti del genero, anche se la casa familiare è stata regalata dai genitori di lei. La seconda sezione civile ha così respinto il ricorso di una ex moglie contraria alla divisione di un immobile, regalato dal padre di lei alla coppia, prima che intervenisse il divorzio. In linea con una precedente decisione della Corte d'Appello di Bologna, la Cassazione ha ribadito che «il divorzio non è sufficiente a invalidare il negozio di liberalità». Pertanto, la dichiarata mancanza dello spirito di liberalità da parte del padre di lei in favore del genero era smentita dalla non contestata consapevolezza del donante dell'intestazione dell'immobile anche al genero. E ancora. All'invocata sopravvenuta inefficacia della donazione per il venir meno della causa (ravvisabile nel fallimento dell'unione tra coniugi donatari), l'ordinamento non riconnette, alla situazione dedotta, un'invalidità o inefficacia della donazione stessa. La donna dovrà ora pagare anche le spese di giudizio. (01/12/2012 - Alba Mancini) Cassazione: colpito al viso da una pallonata durante una partita di calcio? nessuna responsabilità della società sportiva "Deve escludersi che all'attività sportiva riferita al gioco del calcio possa essere riconosciuto il carattere di particolare pericolosità, trattandosi di disciplina che privilegia l'aspetto ludico, pur consentendo, con la pratica, l'esercizio atletico, tanto che è normalmente praticata nelle scuole di tutti i livelli come attività di agonismo non programmatico finalizzato a dare esecuzione ad un determinato esercizio fisico, sicchè la stessa non può configurarsi come pericolosa a norma dell'art. 2050 c.c.". Sulla base di tale principio la Corte di Cassazione, con sentenza n. 20982 del 27 novembre 2012, ha rigettato il ricorso di un ragazzo, all'epoca dei fatti minorenne, i cui genitori avevano chiamato in giudizio una società sportiva lamentando che nel corso di uno stage multisportivo, in particolare nel corso di una partitella di calcio, il figlio era stato colpito al viso da una pallonata, riportando danni ai denti incisivi chiedendo la condanna della società al risarcimento del danno. Il giudice territoriale - affermano i giudici di legittimità -, nel ricostruire analiticamente i fatti, ha condivisibilmente affermato che nella specie non poteva che trattarsi di un "normale incidente di gioco determinato da caso fortuito, per il quale - attesa l'assenza di qualsiasi elemento idoneo a dimostrare la violazione di obblighi e cautele da parte della società sportiva, ovvero il verificarsi di un'azione anomala e/o in contrasto con le regole del gioco - nessuna responsabilità poteva attribuirsi nè alla società sportiva nè al danneggiante." (02/12/2012 - L.S. Cassazione: tutti i medici dell'equipe sono responsabili. Anche in relazione alla fase post-operatoria Il mondo della medicina, e della sanità in generale, è un ambito in cui dare giudizi, o sputar sentenze, è difficile e delicato. Lo è perché entrano in gioco parecchie variabili: la salute, e spesso anche la vita, dei pazienti, la scienza empirica e non sempre esatta della medicina e il medico stesso, che per sua natura umana infallibile ed onnisciente non è, e mai potrà esserlo. Detto ciò, che per molti suonerà banale, spesso capita che gli errori commessi dai medici, che purtroppo a volte finiscono con il costare la vita del paziente, siano frutto di omissioni dovute a grossolane valutazioni del caso. Un atteggiamento professionale troppo superficiale. Come nel caso che sto per raccontare. Un signore, affetto da obesità fu sottoposto ad un intervento di bypass bilointestinale, un intervento di per sé non rischiosissimo. A renderlo tale però era la compresenza di altre patologie correlate, e cioè diabete, patologie cardiache e gravi apnee notturne. Un quadro clinico abbastanza compromesso in partenza. Il signore venne operato da un' equipe di tre medici, il Dott. N. in veste di primo operatore chirurgico, il Dott. L. secondo operatore chirurgico ed infine il Dott. F. anestesista e rianimatore. Purtroppo dopo l'intervento il paziente ebbe una crisi respiratoria così grave da entrare in coma, e venne trasferito in un altro ospedale (maggiormente attrezzato) per poterlo aiutare. Purtroppo dopo quattro giorni di agonia il paziente morì. I familiari denunciarono i tre medici e in primo grado il Tribunale di Taranto, sezione distaccata di Martina Franca, riconobbe la responsabilità penale dei tre professionisti per omicidio colposo. Condannandoli anche al risarcimento in favore delle parti civili costituite. Il giudice non riconobbe ai tre imputati l'attenuante data dal cosiddetto Principio di affidamento, che vige in ambito medico. Principio secondo il quale, data la complessità dello scibile medico, ciascuno specialista in un'equipe medica diventa un agente modello, cioè colui il quale tutto dovrebbe sapere in un certo ambito medico. E soprattutto colui che si comporta in rispetto delle regole e delle procedure necessarie e adottabili nel ramo di sua competenza. In medicina, secondo tale principio, un medico che lavora in un'equipe è dispensato dall'aver certezza che il proprio collega stia operando in maniera corretta, anche perché è necessario che si concentri sul suo di operato. In secondo grado la Corte d'Appello riformò solo in parte la sentenza, riducendo la pena e concedendo le attenuanti generiche. Anche per la Corte però non poteva essere applicato il Principio di Affidamento. La logica ci porterebbe a pensare che il solo ed unico responsabile fosse l'anestesista. Invece la realtà dei fatti spinse i giudici ad un diverso giudizio (scusate il gioco di parole). Tutti i medici erano a modo loro responsabili, il primo operatore chirurgico perché responsabile dell'intervento. Il secondo perché in qualità anche di direttore del reparto doveva avere una visione generale dell'operato dei suoi colleghi, nonché collaboratori, l'anestesista infine, per le sue competenze specifiche. A questo punto il ricorso in Cassazione non ha fatto altro che confermare le due sentenze. La Quarta sezione penale della Corte Suprema, con sentenza n.44830 dell' 11 otobre 2012, ha così ribadito la colpevolezza dei tre, rimarcando che "I componenti di un'equipe medica sono tenuti a programmare adeguatamente non solo la fase di intervento, ma anche quella post operatoria, in modo da fronteggiare adeguatamente i rischi tipici delle operazioni effettuate; quando si tratti di rischi gravi ed evidenti, tutti i sanitari ne sono responsabili, e ciò a prescindere dalle specifiche competenze di ognuno". (02/12/2012 - Barbara LG Sordi) Cassazione: non è valida la multa presa con l'autovelox se la presenza dell'apparecchiatura è comunicata solo attraverso gli organi di stampa locale In materia di accertamento di violazioni delle norme sui limiti di velocità, compiuta a mezzo di apparecchiature di controllo, l'art. 4, comma 1 del DL n. 121 del 2002, convertito in legge n. 168 del 2002, dispone che della installazione dei dispositivi o mezzi tecnici di controllo deve essere data preventiva informazione agli automobilisti. Tale norma, secondo costante giurisprudenza, è finalizzata ad informare gli automobilisti della presenza di dispositivi di controllo, al fine di orientarne la condotta di guida e preavvertirli del possibile accertamento di infrazioni, con la conseguenza che la violazione di tale previsione cagiona la nullità della sanzione eventualmente irrogata. La Corte di Cassazione, sulla base di tali premesse, con ordinanza n. 21199 del 28 novembre 2012, ha affermato che nel caso di specie, il Tribunale ha dato atto della mancanza di segnaletica indicante la presenza dell'apparecchiatura elettronica di rilevamento di velocità sul tratto di strada in cui è stata riscontrata l'infrazione. Tuttavia il Tribunale, "nell'attribuire credito all'assunto della Prefettura, secondo cui la presenza dell'apparecchiatura sarebbe stata comunicata attraverso gli organi di stampa locale, ha ritenuto valida tale forma di comunicazione richiamando la Circolare del 3 ottobre 2002 del Ministero dell'Interno, Dipartimento della pubblica sicurezza, che al punto 7 (informazioni all'utenza) stabilisce che l'avviso dell'utilizzazione dei dispositivi può essere dato con qualsiasi strumento di comunicazione disponibile, e cioè attraverso pannelli a messaggio variabile, comunicati scritti o volantini consegnati all'utenza, annunci radiofonici o attraverso i media, come è avvenuto nel caso in esame". Il giudizio espresso dal Tribunale affermano i giudici di legittimità - ha avuto illegittimamente come parametro di riferimento non la norma di legge che disciplina la materia bensì una circolare ministeriale e, cioè, un atto che non costituisce fonte di diritto. (30/11/2012 - L.S.) Cassazione: biglietto prego? Se il passeggero non lo ha o è falso, attenzione caro controllore a non ingiuriarlo. Potrebbe costarLe caro! Molti si ricorderanno una scena di uno sketch divertentissimo di Aldo, Giovanni e Giacomo, in cui un uomo senza biglietto (Aldo) cerca di farla ad un controllore (Giovanni), agguerrito e acerrimo nemico dei furbetti, nonché supportato da un vecchietto alquanto impiccione (Giacomo). Aldo alias Ajeje Brazorf prova a giocarsi tutte le carte possibili con il controllore, che arriva addirittura ad inseguirlo per le vie di Milano, finendo con l'essere multato da un collega su un tram. Riguardatevelo su internet e sono certa vi farà ridere, e non poco. E forse avrebbe dovuto guardarselo anche un conducente di autobus, che si sarebbe così evitato una bella multa per...eccesso di zelo. Unito ad un comportamento un po' troppo sopra le righe. La vicenda ha per protagonista il signor Osvaldo M. di Brindisi, conducente di autobus per l'appunto, che nel lontano 11 dicembre 2004 aggredì verbalmente un minorenne, reo di voler salire sul mezzo nonostante un biglietto che per l'autista era falso. Dopo l'ennesimo tentativo del ragazzo di salire sul bus il signor Osvaldo iniziò a dare letteralmente in escandescenza, rivolgendo al giovane una serie di improperi, sul genere: "O sei stupido o non capisci niente. Ti ho detto che questo biglietto e' falso, scendi e comprati un altro biglietto se vuoi salire, altrimenti resti a terra". E finendo con il fare a brandelli il biglietto. Un atteggiamento che i genitori del ragazzo non gradirono affatto, denunciando così il conducente. Il Tribunale di Brindisi, con sentenza del 28 settembre 2009, gli diede ragione, condannando l'autista per ingiuria e appioppandogli una multa di 180 euro a titolo di risarcimento. Il conducente ha tentato la via della Cassazione, sperando che gli venisse data ragione, puntando come motivazione del ricorso sul fatto che "le caratteristiche anomale del biglietto erano state accertate dagli stessi giudici di merito", e che nonostante il suo comportamento non meritava alcun tipo di condanna. Of course! (Di corsa! Direbbe il mitico Ajeje). E invece la Quinta sezione penale, con sentenza 44968, ha confermato la decisione del Tribunale di Brindisi, sottolineando l' "assoluta sproporzione della condotta offensiva dell'imputato, esorbitante dai limiti dell'esercizio della propria funzione e non giustificata da alcun fatto ingiusto del soggetto passivo". Gli Ermellini hanno dunque bocciato il ricorso del conducente di bus, e lo hanno inoltre condannato a farsi carico delle spese processuali sostenute dalla famiglia del ragazzo ingiuriato, pari a ben 5.230 euro. Se gli dovesse ricapitare forse potrebbe tentare la via del "lei è un imbecille perché imbelle" e sperare in un po' di senso dell'umorismo. (28/11/2012 - Barbara LG Sordi) Cassazione: Feste in piazza? Si, se i decibel non sfondano i timpani! Una sentenza della Cassazione, che mi ha riempito di gioia, lo devo ammettere. Per una mia personale battaglia contro il frastuono prodotto dalla musica, spesso techno, di un centro sociale storico milanese, ormai non più abusivo bensì legalizzato dal Comune stesso. Quello che leggerete mi dà speranza, se non altro per far valere i miei diritti di cittadino non nottambulo. E dare un valore alle mie notti passate in bianco. Sfogo a parte, i protagonisti della vicenda finita in Cassazione sono i componenti di una famiglia di Castrocaro Terme, residente proprio nella città dove lo storico Festival canoro, oltre a molte altre manifestazioni musicali, si tiene da anni. La famiglia del signor R.R. rivendica di aver subito danni durante le lontane edizioni del 1998-99, che si tennero proprio nella piazza dove si trovava la loro casa, cioè Piazza Machiavelli. Un incubo che spinse la famiglia a denunciare il Comune stesso, richiedendo il risarcimento per i danni dovuti ai disagi subiti. La famiglia venne da subito riconosciuta come parte effettivamente danneggiata, tanto che al Comune di Castrocaro Terme venne inflitto un risarcimento di tremila euro. Forse non una cifra che ti cambia la vita, ma che almeno qualche giorno in un resort di grande relax, quello si te lo concede. Il Comune ovviamente non gradì per nulla la decisione, temendo soprattutto in un'ondata continua di richieste, e pertanto decise di fare appello alla Corte di Bologna. I giudici d'appello, però, nel 2008 confermarono la sentenza. Il Comune a questo punto si è rivolto in Cassazione, per tentare un'ultima via per non risarcire un bel niente LaTerza sezione civile, con sentenza 20592, ha invece dato ragione alla famiglia di Roberto R., ribadendo che le feste organizzate in piazza devono garantire "quel minimo di tolleranza che la convivenza civile ci impone". Bando quindi ai decibel a palla perché in caso contrario, il Comune che ha organizzato la manifestazione può essere (giustamente) chiamato in giudizio per risarcire i danni arrecati. Gli ermellini hanno convalidato la condanna al risarcimento di tremila euro, "per il danno da compromissione alla sfera personale e di vita accertata la intollerabilità delle immissioni di rumore". Ed ha aumentato la posta, condannando il Comune a tirar fuori altri duemiladuecento euro di onorari. Forse sarebbe meglio tenere le manifestazioni un po' più in sordina. Meno grane... e grana da sborsare! P.s.: potrei provaci anch'io? A chiedere un risarcimento, non ad organizzare un festival. (27/11/2012 - Barbara LG Sordi) Cassazione: legittimo il licenziamento della dipendente statale che collabora nell'azienda familiare durante il periodo di malattia La Corte di Cassazione, con sentenza n. 20857 del 26 novembre 2012, ha affermato la legittimità del licenziamento intimato ad una dipendente statale per violazione del divieto di cumulo di impieghi ed incarichi lavorativi in costanza di rapporto di lavoro subordinato con la P.A. In particolare la Suprema Corte, respingendo il ricorso proposto dalla lavoratrice, sottolinea come la Corte territoriale aveva rilevato che, ai sensi dell'art. 53 del d.Igs. 165/2001, che richiamava il disposto degli artt. 60 e ss. del d.p.r. 3/1957, "la disposizione di incompatibilità prevista nell'interesse del buon andamento dell'amministrazione prescriveva l'esclusività della prestazione resa dal dipendente in favore dell'ente datore di lavoro e che anche il CCNL del personale dipendente Comparto Regione - Autonomie locali prevedeva analogo divieto (art. 23), onde la accertata presenza della lavoratrice all'interno del negozio della sorella, intenta a svolgere mansioni di commessa ed attività di vendita, anche durante il normale orario di lavoro in giornate di assenza dal lavoro giustificate dallo stato di malattia, integrava la fattispecie sanzionata. "In realtà, ciò che la ricorrente assume di avere sempre contestato non è la circostanza di avere effettivamente dato una mano alla sorella nella gestione del negozio in fase di liquidazione, ma lo svolgimento di attività lavorativa continuativa e retribuita. Tuttavia - afferma la Corte di Cassazione - "il rilievo si rivela inconferente ai fini considerati, atteso che sia l'art. 23 del c.c.n.l. per il personale dipendente del comparto Regioni ed autonomie Locali, alla lettera g) pone il divieto di attendere ad occupazioni estranee al servizio, sia l'art. 60 del Testo Unico 3/1957, relativo alla disciplina delle incompatibilità, richiamato dall'art. 53, 1 comma del d. Igs. 165/2001, prevede che l'impiegato non possa esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione, senza alcun riferimento ad attività retribuita, onde il divieto deve ritenersi assoluto, a prescindere dalla sussistenza o meno di una remunerazione, ovvero di una continuità della prestazione lavorativa diversa da quella espletata alle dipendenze della P.A." (29/11/2012 - L.S.) Cassazione: legittimo esercizio dello 'ius variandi' da parte del datore di lavoro La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 20569 del 21 novembre 2012, ha affermato, ribadendo quanto statuito da giurisprudenza consolidata, che "ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ius variandi da parte del datore di lavoro deve essere valutata dal giudice di merito - con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato - la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente nella pregressa fase del rapporto e nella precedente attività svolta". La Suprema Corte, rigettando il ricorso di un lavoratore volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto dalla datrice di lavoro, nonché il risarcimento del danno da demansionamento e da mobbing, precisa che la Corte d'Appello ha accertato in modo adeguato - dandone congrua motivazione - la natura non demansionante dei compiti lavorativi attribuiti al lavoratore nel reparto gastronomia, rispetto a quelli in precedenza svolti presso il reparto merci, appurando non solo che il livello retributivo è rimasto quello proprio della qualifica di appartenenza, ma anche che non sono emersi elementi probatori dai quali desumere che il lavoratore aveva svolto funzioni di "responsabile effettivo della gestione del reparto merci", sicché doveva escludersi una dequalificazione, salvo restando che lo spostamento del lavoratore è stato attuato nell'ambito di una movimentazione del personale riguardante una pluralità di dipendenti. (01/12/2012 - L.S.) Cassazione: c'è concorso di colpa se non si indossano le cinture di sicurezza La quarta sezione penale della Corte di Cassazione con sentenza n. 42492/2012, si è pronunciata in materia di concorso di colpa del danneggiato nei sinistri stradali. Anche questa volta la corte ammette la rilevanza del mancato utilizzo della cintura di sicurezza da parte della vittima di incidente stradale: un comportamento che va considerato, appunto, sotto il profilo del concorso di colpa. Nella fattispecie, la Suprema Corte ha preso in esame il caso di un sinistro stradale mortale, censurando la sentenza della Corte d'Appello di Catania nella parte in cui, condannando l'imputato per il reato di omicidio colposo, ha omesso di prendere nella giusta considerazione - escludendo qualunque valutazione e motivazione in merito - il fatto che la vittima non indossasse correttamente la cintura di sicurezza. La Corte di Cassazione ha ritenuto, da un lato, che la circostanza del mancato utilizzo dei dispositivi di sicurezza obbligatori non possa giustificare, di per se', l'esonero dalla responsabilità dell'imputato nel caso in cui tanto la colpa (generica o specifica, in relazione alla violazione delle norme in materia di circolazione stradale) quanto il nesso di causalità possano ritenersi provati. Al fine di poter escludere la responsabilità, infatti, dovrebbe essere positivamente accertata la sussistenza di un cosiddetto evento interruttivo del nesso di causalità (tale può essere considerato, ad esempio, un accadimento abnorme o assolutamente imprevedibile, il quale, secondo il dettato del codice penale, sia da solo sufficiente a determinare il verificarsi dell'evento). Secondo la Suprema Corte, tuttavia, il comportamento negligente della vittima del reato - nella fattispecie quello di non aver allacciato la cintura di sicurezza costituisce una concausa che, in quanto tale, contribuisce alla realizzazione dell'evento nei termini in cui si è verificato e con le conseguenze che lo stesso ha prodotto ma, non potendo considerarsi causa diretta ed esclusiva dello stesso, non può assumere rilevanza ai fini dell'esclusione della responsabilità. D'altro canto, sostengono i giudici di legittimità, il mancato utilizzo della cintura di sicurezza da parte della persona offesa, ove rigorosamente accertato, non può non riversare le sue conseguenze in capo a quest'ultima sotto il profilo di una diminuzione del risarcimento accordatole. All'imputato, parallelamente, potrà essere riconosciuta una proporzionale diminuzione della pena inflitta, in rapporto con il grado di colpa accertato in capo a ciascuna delle parti, in ossequio al dettato dell'art. 133, comma I, cod. pen.. (21/11/2012 - A.V.) Insidie: Cassazione, Comune risarcisca chi cade nella buca durante la festa di paese Con la sentenza 19154 del 6 novembre 2012 la Corte di Cassazione, tornando a pronunciarsi in materia di 'insidie', ha affermato che il cittadino che cade nella buca durante la festa nella piazza del paese ha diritto al risarcimento da parte dell'ente locale, a meno che non sia provato che il dissesto si è verificato in modo improvviso e imprevedibile o se il danneggiato abbia avuto una condotta imprudente. La terza sezione civile ha così confermato la decisione dei giudici di merito che avevano condannato il Comune al risarcimento dei danni cagionati a un bimbo che era inciampato in una buca profonda determinata dalle cattive condizioni della piazza, durante la festa del Capodanno. Piazza Cavour ha ribadito che «la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia (articolo 2051 Cc) prescinde dall'accertamento del carattere colposo dell'attività o del comportamento del custode (in questo caso il Comune, nda) e presenta una natura oggettiva, necessitando del mero rapporto eziologico tra la cosa e l'evento verificatosi». Ovviamente, continuano gli Ermellini che tale responsabilità prescinde anche dall'accertamento della pericolosità della cosa e sussiste in relazione a tutti i danni cagionati, a meno che non intervenga un evento del tutto fortuito. «Evento che si verifica nei seguenti casi: quando il dissesto si manifesta in modo del tutto improvviso e imprevedibile, per cui l'attività di controllo e la diligenza dell'ente non garantiscono un tempestivo intervento oppure quando il danneggiato sia stato particolarmente disattento e imprudente». Dunque, nel resto delle circostanze, c'è sempre la responsabilità dell'ente proprietario o concessionario del bene demaniale che, in quanto "custode", è tenuto a sorvegliarlo, modificarne le condizioni di fruibilità ed evitare che altri possano apportare cambiamenti. (26/11/2012 - Alba Mancini)