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IL DEBITO COME VIA ALLA SCHIAVITU` MODERNA NEL
Patrizia Testaì* IL DEBITO COME VIA ALLA SCHIAVITU’ MODERNA NEL DISCORSO SULLA “TRATTA A SCOPO DI SFRUTTAMENTO SESSUALE”: MITO O REALTA’? *[email protected] Tel. + 39 095 436876 1 Abstract Questo articolo affronta il tema del debito come via verso la riduzione in schiavitù. Esso si inserisce nel contesto italiano della tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Basato su una ricerca di campo intrapresa nella primavera del 2004 in quattro città italiane (Catania, Palermo, Lecce e Roma), esso esplora il concetto di debito e di schiavitù sia storicamente che sociologicamente, per esaminarne l’uso fatto da attori chiave e professionisti che lavorano nei programmi di protezione sociale per le vittime di tratta nei contesti locali italiani. Le rappresentazioni sociali del debito e della schiavitù nell’ambito dell’industria del sesso vengono confrontate con le storie raccontate dalle donne immigrate circa le loro esperienze di indebitamento, prostituzione e migrazione, in modo tale che la schiavitù da debito e la schiavitù in generale emergono come metafore usate nella letteratura sulla tratta e nel settore di volontariato sociale ad essa connesso, per delineare particolari soggetti marginali, notoriamente le donne e le ragazze che emigrano dal Sud del mondo verso i paesi del ricco Nord al fine di lavorare nella prostituzione. Si argomenterà che l’uso della schiavitù e della schiavitù da debito come metafore si rifanno ad una visione coloniale del mondo come popolato da un lato da (in)civiltà arretrate e povere e, dall’altro, da popoli civili e avanzati. Questa visione non permette una lettura realistica delle migrazioni contemporanee e dello sfruttamento del lavoro migrante in generale e all’interno dell’industria del sesso in particolare. 2 Introduzione La definizione della schiavitù come opposizione di poli opposti implicante la totale mancanza di scelta è stata messa in discussione dagli storici dei rapporti sindacali, i quali hanno confutato l’idea di schiavitù come un sistema di lavoro separato consistente nella completa soggezione e coercizione fisica dello schiavo. Ad esempio, con riferimento all’opposizione binaria lavoro libero-lavoro non libero ed alla questione della scelta e della forza all’interno dei rapporti di lavoro, Robert Steinfeld (2001) scrive: Quando parliamo della maggior parte delle forme di lavoro forzato, parliamo di situazioni dove la parte costretta si trova a dover scegliere tra alternative sgradevoli e sceglie la meno brutta.1 Sia la schiavitù che il lavoro libero salariato, continua a dire Steinfeld, si trovano di fronte a quest’ultimo tipo di costrizione, la differenza stando solo nella natura e nella gamma di alternative spiacevoli esistenti nei due casi. Egli porta i concetti di costrizione e consenso ad un paradosso, citando l’affermazione di John Dawson che “[I] tribunali [sono] stati lenti a comprendere che le istanze dove la pressione era più estrema erano precisamente quelle in cui il consenso espresso era più reale; più spiacevole l’alternativa, più reale l’accettazione di un percorso che la eviterebbe”2. L’argomentazione di Steinfeld suggerisce che demarcare un confine tra lavoro libero e lavoro non libero è una questione di giudizio morale o politico, piuttosto che una questione di distinzione naturale tra tipologie di lavoro completamente diverse. Una ulteriore distinzione tra costrizione legale e costrizione economica come modalità per stabilire un confine tra lavoro libero e lavoro non libero tende a mascherare il fatto che sia la costrizione pecuniaria (cioè la costrizione soggetta alle forze del mercato) che la costrizione non pecuniaria (costrizione soggetta all’uso della violenza fisica), possono condurre ad una esecuzione di lavoro forzato in determinate circostanze. Inoltre, la costrizione economica, che normalmente viene associata al lavoro libero, non si basa su alcune leggi naturali che regolerebbero i mercati, ma su un insieme di norme artificiali riguardanti la proprietà e su regole riguardanti i rapporti di lavoro costruite ad hoc. A seconda delle circostanze, la pressione economica può dunque comportare forme di coercizione che sono non meno dure della costrizione o prigionia fisica, poiché “la minaccia di morire di fame può certamente funzionare in modo più potente che un sconfinamento di breve periodo”3. In questo articolo focalizzerò l’attenzione sul ‘debito come mezzo di riduzione in schiavitù’, così come appare nella letteratura sul traffico a scopo di sfruttamento sessuale. Il contesto della ricerca è l’Italia, dove ho recentemente intrapreso uno studio di campo sull’uso della 3 schiavitù come metafora all’interno del discorso sul traffico. Lo studio si basava su interviste approfondite con testimoni privilegiati e professionisti impegnati nei programmi di protezione sociale per le vittime di tratta in quattro città italiane e su interviste con donne migranti che lavorano come prostitute e con donne migranti che hanno usufruito dei servizi offerti dai suddetti programmi. Per lo scopo che mi propongo qui, mostrerò sia gli estratti di interviste con attori privilegiati come rappresentanti delle forze di polizia, coordinatori di progetti anti-tratta e psicologi, così come i racconti di donne immigrate relativi alle loro esperienze di migrazione e prostituzione. Prima di cominciare con l’analisi delle interviste, tuttavia, vorrei fare una breve introduzione al tema del debito rivisitando la letteratura sul debito come mezzo di riduzione in schiavitù e sui problemi intorno a questo concetto, che la storia e la sociologia legano al tema della schiavitù, della povertà e dei processi migratori ad essi associati. La particolare attenzione verso le donne immigrate che lavorano nella prostituzione e di solito rappresentate come ‘vittime speciali’ della tratta darà una inquadratura di genere alla tematica del debito e all’articolo stesso. 1. Debito, schiavitù e rappresentazioni simboliche di povertà La schiavitù da debito è una delle forme di schiavitù che sono normalmente incluse all’interno del discorso sul traffico. Un breve sguardo alla letteratura sulla schiavitù, tuttavia, rivela che la questione della schiavitù da debito e del debito come mezzo di auto-riduzione in schiavitù è centrale negli studi storici sulle società schiavistiche.4 Due storici della schiavitù in Africa, in particolare, Toyin Falola e Paul Lovejoy, considerano il tema di importanza centrale per una comprensione delle “questioni relative all’indebitamento, al controllo della manodopera, al genere ed ai flussi di capitale in società che erano imperfettamente connesse con i mercati mondiali”5. Analizzando l’istituzione del peonage6 in Africa, essi ne studiano la trasformazione da meccanismo di riparazione del debito a sistema di riduzione in schiavitù di persone libere durante il periodo della tratta degli schiavi attraverso l’Atlantico e della penetrazione del capitalismo in Africa. Dalla loro ricerca sembra che durante il XIX secolo le persone indebitate offrivano se stessi o membri della loro famiglia come peon (cioè come manodopera servile) con il rischio o la consapevolezza più o meno conscia che prima o poi sarebbero stati venduti come schiavi. Come osserva Toyin Falola nella sua analisi della schiavitù e del sistema di peonage nell’economia yoruba, durante il commercio degli schiavi, e persino dopo la sua abolizione, quando gli schiavi della regione Yoruba dell’Africa occidentale continuavano ad essere esportati in Brasile e a Cuba, il sistema di peonage divenne inestricabilmente legato alla domanda di manodopera servile in Africa, prodotta dalla intensificazione della produzione orientata all’esportazione. Sia la schiavitù che il sistema di peonage, in quanto ‘istituzioni servili’, “si svilupparono ampiamente in una delle aree più importanti da cui gli schiavi venivano esportati nelle Americhe”7. Scrivendo sulle connessioni tra il sistema di peonage, il colonialismo ed i rapporti di genere in Africa, la storica Jean Allman osserva che, dopo la sua abolizione agli inizi del XX secolo, il sistema di peonage 4 continuò a sopravvivere negli anni 40’ nella forma del matrimonio, sottolineando che il sistema di peonage durante il dominio coloniale “declinò in modo discontinuo, ambiguo e in forte connessione con i rapporti di genere, il che ebbe un impatto profondo sui rapporti coniugali”8. Altri antropologi e storici hanno dimostrato che, in Nigeria, il sistema di peonage detto iwofa si intrecciava in modo particolare con i rapporti di genere e con l’istituto del matrimonio, esso stesso un meccanismo di riparazione dei debiti attraverso il sistema del ‘prezzo della sposa’9. L’analisi storica dei collegamenti tra il sistema di peonage e la schiavitù, mentre in se stessa testimonia delle continuità esistenti tra la schiavitù e le altre forme di lavoro servile, è importante anche per capire il rapporto tra debito e stigma, e come questo rapporto dipende dal modo in cui cambiano le percezioni di ciò che costituiscono modalità lecite e moralmente giustificate di superare le difficoltà economiche, come vedremo qui di seguito. Essa è utile anche per la comprensione delle interconnessioni tra il mondo economico e quello socio-culturale, tra i rapporti astratti di mercato e i rapporti personali di potere, e di come il significato di debito possa cambiare a seconda delle diverse combinazioni di condizioni strutturali, valori sociali prevalenti e di persone coinvolte, sia quelle indebitate che quelle che offrono servizi di credito illegali. Più in generale, la questione del debito può essere analizzata dalla prospettiva del denaro e del suo significato socio-culturale. Viviane Zelizer, ad esempio, nella sua analisi dei vari aspetti relazionali dello scambio monetario nelle società capitalistiche avanzate, osserva che l’introduzione del denaro in una data società non trasforma quest’ultima in un mondo fatto di relazioni più razionali, impersonali, o astratti. Il denaro, ben lontano dall’essere un fenomeno puramente numerico, è soggetto ad essere contrassegnato, in modo tale che si possa distinguere tra denaro “sporco o pulito, domestico o destinato alla beneficenza, mancia o salario”, differenziazioni che costituiscono “una caratteristica centrale delle economie capitalistiche avanzate”10. Uno degli aspetti della monetizzazione dei rapporti sociali consiste non soltanto nel fatto che gli scambi sociali sono mercificati ed influenzati dal denaro, ma anche che il denaro stesso acquista diversi valori e significati a seconda dei contesti sociali in cui esso viene scambiato, dei modi in cui viene usato, dei beni che esso acquista, della sua provenienza e delle persone che lo posseggono. La differenziazione del denaro, allora, è parte integrante della società consumistica moderna, dove spendere diventa una pratica economica centrale e “un’attività culturale e sociale dinamica e complessa”11. Inoltre, è proprio nella sfera privata che contrassegnare denaro acquista maggior significato, in quanto Le persone si sforzano di creare denaro designato a gestire rapporti sociali complessi che esprimono intimità ma anche disuguaglianza, amore ma anche potere, cura ma anche controllo, solidarietà ma anche conflitto. Il punto non è che queste aree della vita sociale hanno coraggiosamente resistito alla mercificazione. Al contrario, essi hanno prontamente assorbito il denaro, trasformandolo per adattarlo ad una varietà di valori e rapporti sociali.12 5 Mentre il genere, come variabile che attraversa i vari setting sociali, è di particolare importanza in questo processo, altri elementi, come l’età, la razza e l’etnia, sono menzionati dalla Zelizer come altrettanti variabili che danno forma agli usi, ai significati ed all’allocazione del denaro. La pratica di contrassegnare il denaro, comunque, non è limitata alla sfera sociale privata, ma riguarda anche l’area del mercato, dove agli sforzi governativi di dar vita ad un progetto di moneta legale uniforme si aggiungono sistemi di scambio sempre più creativi, dalla carta di credito ai trasferimenti elettronici di denaro, depositi bancari diretti, shopping domestico computerizzato, e così via. La Zelizer conclude riconoscendo che, dal momento che il denaro si moltiplica e penetra in tutti gli aspetti della vita umana, le persone si sforzano di gestire i loro complicati legami sociali e rapporti a lunga distanza, ed uno dei modi per farlo è attraverso la differenziazione del denaro per soddisfare i loro complessi bisogni sociali. Uno dei modi in cui il denaro è costantemente creato e moltiplicato in una società consumistica è attraverso la creazione di sistemi di credito. Già negli anni ’70, Daniel Bell legava la creazione delle banche commerciali negli Stati Uniti attraverso il Banking Act del 1933, e l’istituzione di compagnie finanziarie che incoraggiavano il credito per i consumatori, ai modi in cui i governi occidentali in generale dovevano gestire economie capitalistiche avanzate caratterizzate da pressioni inflazionistiche persistenti, carenza cronica di capitale e ricorrenti crisi di liquidità13. La sua analisi è ancora valida nella misura in cui l’impegno verso la crescita economica continua a creare una serie di aspettative economiche e culturali. Questo porta sia le famiglie che l’economia in generale a vivere al di là dei propri mezzi attraverso il prestito, con la conseguenza che il perseguimento dei piaceri e della felicità è sempre più raggiunto subordinando l’interesse pubblico ai desideri privati del singolo, che nelle società occidentali moderne si esprimono sia attraverso interessi economici di accumulazione da perseguire nel mercato, che attraverso l’accrescimento egotistico permesso da stili di vita specifici presi dal “repertorio delle culture del mondo”14. Naturalmente, l’accrescimento egoistico e il perseguimento del benessere economico vanno molto spesso insieme e possono prendere forme lecite e illecite, poiché la ricchezza e il perseguimento della proprietà possono essere ottenuti attraverso canali legali o illegali. Questo ci porta di nuovo al problema del debito e dello stigma, che sono così importanti nel discorso sulla tratta e in contesti di migrazioni in generale. Il debito, come il denaro, può avere diversi significati a seconda dei contesti culturali ed economici dove esso prende luogo. Per spostare l’attenzione nell’Italia contemporanea, Alessandro Dal Lago ed Emilio Quadrelli, nell’analizzare i sistemi di credito illegali e processi di indebitamento, fanno dei collegamenti tra sistemi di credito illegali, l’economia di sussistenza e le ineguaglianze strutturali nel mondo contemporaneo15. L’indebitamento, quando ha luogo in contesti marginali, acquista un significato negativo perché esso rivela la debolezza delle vittime che devono ricorrere al credito illegale, e in generale lo stigma legato al debito e ai mercati del credito in contesti 6 di povertà vuol dire che, mentre la maggior parte degli attori coinvolti rimane invisibile, nascosto nell’economia informale e sommerso nella lotta quotidiana per la sopravvivenza, altri attori, come i lavoratori immigrati irregolari, attraggono l’attenzione pubblica, poiché essi sono particolarmente a rischio di scivolare nel lavoro servile e in situazioni simili alla schiavitù16. Mentre ciò è vero in molti casi di lavoratori immigrati senza documenti, da un punto di vista sociologico, un lavoratore immigrato irregolare che è costretto a lavorare per una paga estremamente bassa per paura di essere espulso, non è diverso dal piccolo imprenditore italiano che perde il controllo della sua azienda perché si è indebitato con gli usurai ed è costretto a lavorare per questi ultimi17. La ragion d’essere di tutti i sistemi di credito illegale è l’appropriazione della proprietà, e quando la proprietà coincide con la persona fisica, come quando il debitore non ha altri mezzi di pagamento se non il suo corpo, l’indebitamento porta alla servitù. Ciò è vero per l’imprenditore italiano che perde il controllo della sua azienda e diventa dipendente dai suoi usurai come è vero per la figlia di una donna indebitata che è costretta a vendere servizi sessuali per ripagare gli usurai, due casi riportati da Dal Lago e Quadrelli. Ciò non ci dovrebbe indurre a concludere che tutte le forme di scambio che non hanno come oggetto la persona fisica come proprietà sono preferibili a quelli che hanno come oggetto la persona fisica, e particolarmente le parti più intime del corpo, come nel caso dei servizi sessuali. A dire il vero, la cessione di manodopera in cambio di servizi ha luogo in molti contesti sociali che non sono legati a situazioni di indebitamento, e Dal Lago e Quadrelli forniscono l’esempio del lavoro volontario e del sistema di apprendistato all’interno delle aziende. Comunque sia, gli aspetti personali e simbolici impliciti negli scambi lavoro-servizi diventano particolarmente visibili nel mondo illegale, notoriamente quando esiste un’associazione con grosse organizzazioni mafiose e con immigrati irregolari che cedono il loro lavoro per ottenere servizi come biglietti di viaggio e visto; e questo è un aspetto che emerge chiaramente dalle interviste con attori che descrivono l’indebitamento delle prostitute immigrate, come vedremo nella prossima sezione. 2. Rappresentazioni del debito nella tratta per sfruttamento sessuale Nelle narrative fornite dagli attore chiave che lavorano nei programmi di protezione sociale per le vittime di tratta, l’indebitamento sembra acquistare un ulteriore significato che va oltre le questioni di domanda e offerta, siano esse legate a diversi sistemi di credito o a servizi di emigrazione. L’effetto di questo significato tradizionale del debito nel contesto delle migrazioni illegali e nel discorso sulla tratta è visto come parte di un meccanismo di riduzione in schiavitù che intrappola la vittima e la sua famiglia in una situazione di sfruttamento: Il debito fa parte del sistema della tratta. Il debito è il primo meccanismo che innesca l’intero processo della tratta. Esso è, come la mancanza di passaporto, uno di quegli elementi che mantiene la vittima legata ai suoi sfruttatori. Se non è il debito è il passaporto, se non è il passaporto dicono ‘se scappi uccideremo i tuoi figli’.18. 7 Il debito è un mezzo usato dai trafficanti per mantenerli sotto controllo … Perché anche dopo che le ragazze finiscono di pagare il loro debito loro [i trafficanti] direbbero sempre che devono ancora dare soldi… C’e sempre un debito, altrimenti chi li porterebbe qui? È un aspetto economico che viene usato come minaccia, è che semplicemente vogliono continuare a sfruttarli19. Ti indebiti comunque, e devi pagare grandi somme di denaro, che puoi ripagare solo se lavori parecchie ore al giorno. Una volta in Italia si ritrovano a lavorare in circostanze brutali, nelle strade, nelle macchine o appoggiata ad un lampione stradale … è molto più degradante, non puoi scegliere i tuoi clienti, come quando scegli consapevolmente di lavorare come prostituta20. Il tipo di debito che emerge dalle narrative sulla tratta sembrano oltremodo rimosse dalla maggior parte delle forme di indebitamento che hanno luogo in molti paesi occidentali e non occidentali, e, ancora una volta, il genere è un aspetto importante che incide sulla stigmatizzazione del debito in contesti dove migrazione e sessualità sono implicate. Ciò che più di ogni altra cosa distinguerebbe l’indebitamento delle donne immigrate è il loro essere soggette ad una forma coatta di lavoro e la mancanza di protezione giuridica che, a quanto pare, lascerebbe le donne senza alcun controllo sul loro tempo, il lavoro e la loro stessa vita. Si consideri la distinzione che fa questo poliziotto tra gli italiani che devono lavorare perché indebitati e le prostitute immigrate indebitate: Se debbo lavorare perché devo dare dei soldi agli usurai posso sempre andare al cinema la sera, posso sempre denunciare gli usurai. Le prostitute sono picchiate, sono chiuse a chiave. Si indebitano perché hanno bisogno di soldi per partire in primo luogo. Naturalmente tutti quelli che emigrano spesso si indebitano, il problema è come paghi il debito. Una cosa è pagarlo attraverso un normale lavoro, un’altra cosa è essere costretti a pagare attraverso la prostituzione. Nel caso di queste donne, una volta arrivate in Italia, gli viene detto ‘adesso devi lavorare per noi’. Alla fine lavorano per mesi, anni, forse non per anni poiché riescono sempre a scappare una volta che familiarizzano con il luogo in cui si trovano … 21 Mentre, come Dal Lago e Quadrelli mostrano nella loro etnografia sul crimine, la perdita della proprietà e del controllo sul proprio lavoro e sul proprio tempo è qualcosa che succede anche a cittadini italiani che vengono colti da improvvisa crisi economica (come fu il caso in Italia durante gli anni ’90), credo che la ragione per cui questo ultimo intervistato considera l’indebitamento degli italiani e quello delle donne immigrate come due problemi completamente diversi ha a che fare con il modo in cui i processi di stigmatizzazione e di marginalizzazione sono costruiti secondo nozioni di cittadinanza che tengono conto del genere e della sessualità delle persone considerate schiave per via del debito. Il legame tra indebitamento e schiavitù sessuale è evidente nelle narrative sulla tratta e la schiavitù sessuale presentate dagli intervistati. Queste narrative suggeriscono che l’indebitamento, come la schiavitù medesima, è utilizzata come metafora per gruppi di donne la cui 8 Alterità viene costruita a partire dal loro lavoro sessuale e dal fatto che vengono da contesti poveri. Mentre molti tra gli intervistati riconoscono che altri lavoratori immigrati hanno contratto un qualche debito, e che il debito fa parte dell’esperienza migratoria, c’è una distinzione che viene fatta tra i lavoratori immigrati indebitati e le prostitute indebitate, e tra diversi gruppi di lavoratrici immigrate: Nei casi di domestiche brasiliane queste potevano uscire, la loro libertà di movimento non era limitata. Se non uscivano era perché non avevano i documenti e avevano paura della polizia… se venivano scoperte dalla polizia e mandate in Brasile prima che pagavano il loro debito non avrebbero saputo come ripagarlo… Ma queste donne avevano scelto di lavorare in questo modo… Una volta pagato il debito erano libere di andare dove volevano. Nel caso della prostituzione il debito non poteva essere ripagato, perché i loro sfruttatori prendevano tutto il denaro. Questo accade in tutti i casi di prostituzione… Per le nigeriane è diverso. Queste lasciano il loro paese con un’altra donna che ha anche lavorato come prostituta precedentemente. Contrattano un debito con questa donna, ma non sanno a quanto ammonta il loro debito. Solo quando arrivano in Italia scoprono quanto denaro debbono dare alla donna. Così sono costrette a lavorare come prostitute fino all’estinzione del debito, poi sono libere di lavorare indipendentemente se vogliono22. Alle ragazze [nigeriane]viene promesso un buon lavoro in Italia, si indebitano per pagare le spese di viaggio e visto. Spesso quelle che sono venute attraverso il debito diventano anch’esse sfruttatrici23. In queste narrative, come in molte narrative sulla nuova schiavitù delle donne che lavorano nella prostituzione, troviamo tensioni e contraddizioni tra resoconti che dipingono l’indebitamento come un meccanismo di coercizione e controllo che vale solo per le prostitute immigrate e resoconti che ammettono che le donne immigrate che lavorano nella prostituzione, in particolare le donne nigeriane, riescono a pagare i loro debiti e a lavorare indipendentemente nella prostituzione, o persino a mettersi in proprio reclutando altre donne dopo che saldano il loro debito. Adesso vorrei spostare l’attenzione a come le donne immigrate stesse percepiscono e raccontano la loro esperienza di indebitamento e di lavoro nell’industria del sesso. 3. Il debito raccontato dalle donne immigrate La tensione tra racconti che dipingono il debito come riduzione in schiavitù e perdita di controllo e racconti che lasciano spazi di libertà e di azione è più marcata quando spostiamo lo sguardo ai resoconti forniti dalle donne sulle loro esperienze di indebitamento. Mentre nei racconti degli attori chiave la questione del debito veniva usata per dipingere una situazione che era considerata, in modo quasi uniforme, come schiavitù, nel leggere le storie che raccontano le donne immigrate circa i loro debiti possiamo trovare un quadro con più sfumature riguardante le loro esperienze e le relazione stabilite tra loro ed i loro sfruttatori/creditori. Nei loro racconti, il debito non assume più le caratteristiche della schiavitù da debito, o di un fenomeno che comunque è diverso dal debito cui le persone comuni incorrono nella 9 maggior parte del mondo. Al contrario, esso appare come qualcosa di più ordinario, una situazione difficile che esse possono e vogliono affrontare nella maggior parte dei casi. Ad esempio, le intervistate nigeriane, le quali tipicamente usano l’assistenza di terzi verso i quali si indebitano, esprimono chiaramente un misto di sentimenti circa le persone che le hanno aiutate con il viaggio e i documenti, come possiamo vedere da questo estratto di intervista con una donna nigeriana inserita in un programma di protezione sociale a Palermo: Noi ragazze della Nigeria sappiamo che soffriamo, ecco perchè veniamo qui. Ma la ‘madam’ ci chiede troppi soldi … 40 mila Euro. Tutti loro ti chiedono un sacco di soldi. Ma è buono che ci hanno portate qui. In un modo ci hanno aiutato. Sono secondi solo a Gesù…24 La relazione con coloro che le hanno ‘portate’ in Italia è percepita in particolare dalle mie intervistate nigeriane in termini molto pratici; si può dire che il tipo di ‘contratto’ stabilito tra loro e coloro che hanno facilitato la loro migrazione sia di natura imprenditoriale. Ciò non è in contraddizione con una ricerca svolta nel 1996 dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) sul traffico in Italia, la quale indicava che la maggior parte delle donne trafficate per sfruttamento sessuale avevano stabilito un minimo di accordo con i loro trafficanti, mentre un solo caso di rapimento veniva segnalato25. Lo stesso studio trovava che nel 1995, sia le donne nigeriane che le donne albanesi che arrivavano in Italia erano al corrente del fatto che, una volta in Italia, avrebbero dovuto lavorare come prostitute per ripagare I debiti che avevano contratto alla partenza. Ciò vuol dire che queste donne danno un senso alla loro situazione, invece di rimanere totalmente passive di fronte al destino; ciò anche in un contesto che lascia ampio spazio per abusi e sfruttamento, come nel seguente caso riguardante una donna nigeriana di 25 anni che lavora sulla strada: È normale che le persone che ti aiutano a venire qui vogliono soldi, e non possono chiedere la stessa somma che spendono… capisci … se compri qualcosa non lo puoi vendere per lo stesso prezzo. Se dovessi aiutare mia sorella a venire qui la porterei gratis, non chiederei soldi, ma ci sono persone che portano ragazze che non sono della loro famiglia, non sono sorelle perciò chiedono dei soldi … chiedono i soldi che spendono per portarle qui… Questi soldi che usano per portarle qui le useranno per pagare per altre cinque (ragazze), ma dopo che tu paghi il debito possono trovare un modo per farti pagare ancora più soldi, e questo non è giusto. Se non paghi ti minacciano … dicono che uccideranno tua madre, e lo faranno … alcune persone sono oneste ma altre sono cattive, e le cattive sono più delle oneste … per me, ci è voluto un anno per pagare i miei debiti. Non devo pagare nessuno adesso. Posso lavorare ancora per un po’ e poi smettere.26. In molta letteratura sulla tratta, le condizioni relative alla migrazione su lunghe distanze, il conseguente debito, ed il lavoro nel mercato del sesso, tendono ad essere uniformemente equiparate a situazioni di schiavitù da debito. Liz Kelly, ad esempio, rende problematica la nozione di ‘scelta’ in contesti dove le donne difficilmente si possono “permettere di viaggiare da un continente all’altro”27. Secondo lei, il 10 solo fatto che le donne arrivino con considerevoli debiti e che “trovino lavoro nei mercati del sesso migliaia di miglia distanti” attraverso “facilitazioni, o addirittura il diretto reclutamento”, significa che le loro circostanze non possono essere molto “diverse da quelle di donne schiavizzate e trafficate attraverso il debito”28. Eppure, le interviste con le donne migranti rivelano che, persino nei contesti più limitanti menzionati dalla Kelly, l’indebitamento non può essere letto solamente in termini di schiavitù da debito, e non possiamo ignorare l’impatto positivo della capacità di agire in quei contesti. In particolare, il fatto stesso che le “reti” nigeriane sono formate principalmente da donne che hanno il ruolo sia di reclutatrici che di prostitute in un’organizzazione gerarchica che permette un avanzamento di “carriera”, squalifica l’argomentazione della Kelly che le estreme ineguaglianze strutturali e la violenza di genere “riduce lo spazio di azione delle donne, mentre simultaneamente incrementa quello degli uomini”29. Le donne vedono la loro situazione di debito in termini molto realistici, cosicché spesso possono stabilire per quanto tempo lavoreranno per restituire il denaro ai loro agenti, sono nelle condizioni di resistere i tentativi di questi ultimi di estorcere tassi di interessi estremamente alti, e possono persino scappare se lo vogliono: La donna [sfruttatrice] diceva che se volevo potevo ritornare a casa ma che prima dovevo restituire i soldi [45,000 Euro]. Cosa potevo fare? Le ho dato metà dei soldi che mi ha chiesto, poi sono scappata perché ero determinate a non scopare tutti questi uomini mentre lei stava seduta comodamente e mangiava a casa 30. Tutto questo pone attenzione al modo semplicistico in cui, nell’ambito del discorso sulla tratta, vengono fatti collegamenti tra il crimine organizzato e la schiavitù da debito ogni qualvolta le donne si spostano attraverso i continenti. Da un lato, come viene osservato da Julia O’Connell Davidson, esiste una varietà di modelli di pratica di business da parte degli agenti intermediari che offrono servizi, i quali non sono tutti interessati allo sfruttamento a oltranza o all’uso della violenza, e possono semplicemente desiderare di “recuperare le loro spese in viaggi e documenti e le quote spese per i servizi”31. Dall’altro canto, le storie di migrazione e prostituzione raccontate dalle mie intervistate nigeriane – e, come vedremo, colombiane – che si sono mosse su grandi distanze, riflettono nel complesso ciò che dice Allison Murray circa le donne tailandesi che vanno in Australia per lavorare nell’industria del sesso, e cioè che “la maggior parte di queste donne contrattano liberamente, e, se riescono a ripagare i loro debiti, possono a loro volta reclutare ragazze o gestire bordelli”32. Nel loro insieme, questi casi, espongono la natura problematica dell’espressione “schiavitù da debito” (o debt-bondage), che è spesso usata nella letteratura sulla tratta di esseri umani per rendere patologico il debito per alcuni gruppi di migranti e, a dire della Murray, per perpetuare lo stereotipo della vittima indifesa. L’estratto di intervista con una donna colombiana di 38 anni che rifiuta di essere aiutata con l’articolo 18, illustra come l’indebitamento può avere diverse forme, ed anche quando implica l’estorsione, può essere accettato come onere temporaneo: 11 In Colombia lavoravo per una donna che forniva i clienti, un’amica mi ha anche prestato dei soldi per venire in Italia, cosicché parte dei soldi li ho guadagnati da sola, parte li ho presi in prestito. Li ho restituiti senza interesse perché era un’amica. Era così tra noi donne colombiane, ci aiutavamo a vicenda, perché c’erano un sacco tra noi che volevano partire. Adesso non so se è ancora così…Forse è cambiato perché ci sono un sacco di persone che sono invidiose, che vogliono solo approfittare…Qui a Catania la gente non ne approfitta, lavori per te stessa. Mi ricordo che una volta mi hanno preso [i poliziotti]. Mi hanno mandato al mio paese, cosicché mi ritrovai lì senza soldi, non sapevo come ritornare in Italia. Un’amica mi ha detto che conosceva una persona che mi avrebbe prestato dei soldi che avrei potuto restituire una volta in Italia…l’ammontare che dovevo restituire era il doppio, un sacco…quell’uomo faceva un sacco di soldi in quel modo. Quindi sì, suppongo che sono stata vittima di questo usuraio, ho dovuto pagare un sacco di soldi…Comunque ho fatto una scelta, ho acconsentito di essere una vittima…Ho lavorato per un anno per pagare quei soldi…33 Ciò che sul debito ha da dire un’altra intervistata colombiana che lavora in strada alla periferia di Catania accanto alle donne nigeriane, illustra la complessità e la diversità del debito: Succede anche alle donne sudamericane. È vero. Si indebitano per venire in Italia. Se abbiamo una casa la dobbiamo ipotecare, o dobbiamo indebitarci con la banca. Costa 3-4000 Euro per venire in Italia, perché se non hai documenti altre persone devono fornirti le carte…Sono cose che non si dicono, ma è così, è la vita…C’è corruzione. Ma voglio che sia chiaro. Sono le persone con i colletti bianchi che lavorano nelle varie ambasciate che sono veramente corrotte, non quelle che cercano di partire per sostenere le loro famiglie… è la burocrazia, i politici che sono corrotti… noi siamo solo atomi, non abbiamo alcun potere, non possiamo fare niente e non abbiamo niente che fare con loro. Quando penso all’Africa, a quei bambini che muoiono di fame, alle donne malate, penso che questa è corruzione, come quelle ragazze africane che vedo lavorare in strada con me…34 Conclusioni Lo studio dell’esperienza migratoria e del lavoro sessuale delle donne migranti rivela alcuni dei problemi connessi alle teorie sulla scelta e sul lavoro libero e coatto, e su come queste teorie sono spesso astratte, non inserite cioè nei vari contesti sociali, economici e politici. I resoconti di quelle esperienze mostrano come nel contesto della “tratta a scopo di sfruttamento sessuale” possiamo ben ritrovarci di fronte al paradosso di Dawson riguardo al consenso, cui ho fatto riferimento nell’introduzione a questo articolo. Ciò vuol dire che l’uso della metafora sulla schiavitù per queste donne migranti presenta in termini sociali ed economici gli stessi problemi e le stesse contraddizioni che troviamo nei resoconti tradizionali della schiavitù come “morte sociale”35, e che, come rileva Julie Saville, 12 Solo come simboli astratti, strappati dai contesti sociali, possono la schiavitù e la libertà essere costruite per denotare condizioni opposte e prive di relazioni tra loro. Sia essa analizzata come fenomeno globale, come processo sociale, o come un modello dei rapporti di potere, la storia della schiavitù e della libertà è una questione di interrelazioni piuttosto che di antagonismi fissi36. I dati di interviste esplorati in questo articolo indicano anche che i discorsi sulla schiavitù e sulla tratta connessi al debito non sono adeguati a spiegare le condizioni delle donne migranti che lavorano nel mercato del sesso in Italia. D’altro canto, le narrative fornite dagli attori chiave che lavorano nei programmi di protezione sociale riflettono una concezione della “nuova schiavitù” che, così come elaborata negli ultimi dieci anni dai media, dal volontariato sociale nonché in ambiti accademici, rimane focalizzata sulla tratta/migrazione forzata di persone che si muovono dai paesi poveri alle regioni ricche occidentali, sul crimine transnazionale e sulla prostituzione come settore speciale dove hanno luogo abusi e pratiche simili alla schiavitù, dove le vittime sono prevalentemente donne e ragazze. Questa visione, credo sia basata sull’assunto di una fondamentale dicotomia tra paesi ricchi/civili/occidentali/democratici/moderni e paesi poveri/incivili/non-occidentali/non-democratici/tradizionali. Il materiale raccolto sul campo che presenta i punti di vista degli attori chiave circa le questioni di tratta, schiavitù, prostituzione e debito rivelano un’interpretazione simile dello sfruttamento contemporaneo del lavoro migrante nei termini dei summenzionati dualismi. I dati di interviste con donne migranti, tuttavia, suggeriscono nel loro complesso che le donne immigrate non vivono la prostituzione come “schiavitù” nè in un senso economico (come sfruttamento del lavoro) nè in un senso sociale, nè tanto meno come “morte sociale”, nel senso inteso da Patterson. Mentre le donne immigrate che si prostituiscono sono socialmente stigmatizzate come immigrate senza documenti, come prostitute e come individui che vengono spesso fatte oggetto di razzismo in quanto membri di culture “inferiori”, l’evidenza empirica suggerisce che la prostituzione, ben lontano dall’essere il principale problema delle donne immigrate, è un mezzo che in molti casi, e talvolta a duro prezzo, permette alle donne (sia quelle che ancora lavorano nella prostituzione che quelle che ne sono uscite tramite i programmi di protezione sociale) di cambiare le loro circostanze materiali sia nel paese di destinazione che nei loro paesi di origine, aprendo opportunità per i loro bambini e per se stesse. 1 Robert Steinfeld, Coercion, Contract, and Free Labor in the Nineteenth Century (Cambridge: Cambridge University Press, 2001), 14. 2 Ibid., 15-16. 3 Ibid., 25. 4 Orlando Patterson (1982) osserva, ad esempio, che, mentre la schiavitù da debito deve essere distinta dalla vera schiavitù, “il fatto rimane che in tutte le società dove 13 esisteva la schiavitù da debito, la possibilità che lo schiavo per debito cadesse nella schiavitù permanente era sempre presente”. Vedi Orlando Patterson, Slavery and Social Death. A comparative study (Cambridge, M.A.: Harvard University Press, 1982), 124. 5 Toyin Falola e Paul E. Lovejoy, “Pawnship in Historical Perspective,” in Pawnship, Slavery, and Colonialism in Africa, Ed. Paul E. Lovejoy e Toyin Falola. (Trenton and Asmara: Africa World Press, 2003), 2. 6 Termine intraducibile che si riferisce al sistema di lavoro servile a cui sono sottoposti i peon ( o anche pawns, da cui pawnship), cioè coloro la cui manodopera viene usata come collaterale per estinguere un debito. 7 Toyin Falola, “Slavery and Pawnship in the Yoruba Economy of the Nineteenth Century,” in Pawnship, Slavery, and Colonialism in Africa, Ed. Paul E. Lovejoy e Toyin Falola (Trenton and Asmara: Africa World Press, 2003), 130-131. 8 Jean Allman, “Rounding up Spinsters: gender chaos and unmarried women in colonial Asante,” in “Wicked” Women and the Reconfiguration of Gender in Africa, ed. Dorothy L. Hodgson e Shirley A. McCurdy (Portsmouth, Oxford, Cape Town: Social History of Africa, 2001), 145, n. 18. 9 Judith Byfield, “Women, Marriage, Divorce and the Emerging Colonial State in Abeokuta (Nigeria) 1892-1904,” in “Wicked” Women and the Reconfiguration of Gender in Africa, ed. Dorothy L. Hodgson e Shirley A. McCurdy (Portsmouth, Oxford, Cape Town: Social History of Africa, 2001). Vedi anche Falola e Lovejoy (2003). 10 Viviane Zelizer, The Social Meaning of Money (New York: Basic Books, 1994), 200-201. 11 Ibid., 201. 12 Ibid., 204. 13 Daniel Bell, The Cultural Contradictions of Capitalism (New York: Basic Books, 1976). 14 Ibid., 255. 15 Alessandro Dal Lago e Emilio Quadrelli, La Città e le Ombre. Crimini, criminali, cittadini (Milano: Feltrinelli, 2003). 16 Ibid. 17 Ibid. 18 Psicologa3, Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM), Roma. 19 Ufficiale carabinieri1, Roma. 20 Coordinatrice progetto protezione sociale1e, Catania. 21 Ufficiale polizia1, Lecce 22 Ufficiale polizia2, Lecce. 23 Ufficiale polizia donna1, Catania. 24 Vittima di tratta1, Palermo. 25 OIM, Trafficking in Women to Italy for Sexual Exploitation (Budapest: Migration Information Programme. International Organisation for Migrations, 1996). 26 Lavoratrice sessuale4, Catania. 27 Liz Kelly, “The wrong debate: reflections on why force is not the key issue with respect to trafficking in women for sexual exploitation,” Feminist Review 73 (2003), pp. 139-144, 141. Vedi anche della stessa autrice “The perils of inclusion and exclusion: international debates on the status of trafficked women as victims,” International Review of Victimology 11 (2004), pp. 33-47. 28 Kelly, 2003, 141. 29 Ibid., 143. 30 Vittima di tratta3, Catania. 31 Julia O’Connell Davidson, Children in the Global Sex Trade (Cambridge: Polity Press, 2005), 77. 32 Alison Murray, “Debt-Bondage and Trafficking. Don’t Believe the Hype,” in Global Sex Workers. Rights, Resistance, and Redefinition, ed. Kamala Kempadoo e Jo Doezema (New York and London: Routledge, 1998), 57. 33 Lavoratrice sessuale1, Catania. 34 Lavoratrice sessuale2, Catania. 35 Patterson, op. cit. 36 Julie Saville, “Rites and Power: Reflections on Slavery, Freedom and Political Ritual,” Slavery & Abolition 20 (1999), pp. 81-102, 81. 14