Molti Stati hanno istituito un “giorno della memoria”. L`Italia lo ha
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Molti Stati hanno istituito un “giorno della memoria”. L`Italia lo ha
Molti Stati hanno istituito un “giorno della memoria”. L’Italia lo ha fissato al 27 gennaio: la data in cui fu liberato il campo di sterminio di Auschwitz. In effetti altri ebrei, d’Italia e d’Europa, vennero uccisi nelle settimane seguenti. Ma la data della Liberazione di quel campo è stata giudicata più adatta di altre a simboleggiare la Shoah e la sua fine. Il periodo a cui si riferisce generalmente è quello che va dal 30 gennaio 1933, quando Hitler salì al potere diventando Cancelliere della Germania, fino alla fine della guerra in Europa, l’8 maggio 1945. Il Terzo Reich considerava nemici e quindi perseguitava Ebrei, Sinti, socialdemocratici, comunisti, dissidenti politici, oppositori al Nazismo, testimoni di Geova, criminali abituali, e “asociali” (ad esempio: mendicanti, vagabondi e venditori ambulanti), omosessuali, malati di mente e disabili. Ogni individuo che poteva essere considerato una minaccia per il Nazismo correva il rischio di essere perseguitato. Gli Ebrei, comunque, era l’unico gruppo destinato a un totale e sistematico annientamento. I campi di sterminio erano luoghi in cui i deportati venivano uccisi, spesso tra atroci sofferenze, per la fame e le atrocità a cui venivano sottoposti; i corpi delle persone morte venivano bruciati o sepolti in fosse comuni. Nel contesto della Shoah, i medici tedeschi eseguirono esperimenti pseudoscientifici utilizzando come cavie migliaia di deportati nei campi. Molto spesso queste pratiche portavano alla morte degli stessi dopo atroci sofferenze e mutilazioni fisiche. Tristemente famosi sono gli esperimenti del dottor Josef Mengeler che ad Auschwitz sottoponeva i deportati, in particolare i gemelli. MAUTHAUSEN Gli elementi della vita quotidiana in questo campo erano: fame, violenze, brutalità e punizioni La zona fu scelta come sede per la sua vicinanza a una cava di granito. La DEST, società posseduta dalle SS, acquistò le cave per sfruttarle commercialmente, anche in previsione del forte incremento nell’utilizzo di granito nei giganteschi monumenti progettati nelle “città del Führer”. AUSCHWITZ Per cinque anni il nome di Auschwitz destò sentimenti di terrore fra gli uomini dei paesi invasi dagli hitleriani. Auschwitz fu il campo più grande, nel quale il nazismo realizzò le sue feroci parole per sterminare i suoi oppositori. Circa quattro milioni di persone perirono in questo campo che era vasto circa 40Km2 ed era distante circa 3Km da Birkenau. RAVENSBRÜCK In questo campo la ferocia delle aguzzine ha superato ogni immaginazione. Il primo contingente di 867 donne arriva a Ravensbrück già nel maggio 1939. Si tratta in gran parte di comuniste, socialdemocratiche e testimoni di Geova tedesche. Nel settembre dello stesso anno si aggiunge alla popolazione presente un trasporto di zingare con i rispettivi bambini. OSVALDO CORAZZA: EX DEPORTATO Mi chiamo Osvaldo Corazza e sono nato il 9 gennaio del 1927. Fui arrestato nel dicembre del 1944 come collaboratore dei Partigiani. La sera del 6 gennaio ci caricarono sui vagoni bestiame di un lungo convoglio: destinazione Mauthausen. Il viaggio durò cinque notti e quattro giorni, diedero da mangiare una sola volta, quando rimanemmo fermi per qualche ora in una stazione isolata, non era grande ed intorno c’era la neve, lo ricordo bene perché quel giorno compivo 18 anni. Arrivammo a Mauthausen la mattina presto dell’11 gennaio; finalmente aprirono le porte e scendemmo, lasciando il fetore del carro e con l’aria gelida, ma pura, sembrò che tornasse la vita. Appena varcato il portone del campo, ci misero incolonnati tra l’alto muro del recinto ed il capannone dove erano gli spogliatoi e le docce, una ventina per volta scendevamo nello scantinato dove ci fecero spogliare e lasciavamo i nostri indumenti a mucchietti sparsi per terra. Entrammo nella sala dove c’erano le docce e ci rasarono completamente. Il secondo e il terzo giorno ci portarono a gruppi nelle “stube” di un’altra baracca per il cambio dell’immatricolazione: uno alla volta ci sedevamo e appoggiavamo sul nostro petto un aggeggio sul quale veniva impresso il numero di matricola, il mio era 115.453, poi scattavano la fotografia… Fui liberato nel campo di Gusen il 5 maggio 1945 da soldati americani. Al ricovero dell’Ospedale di Sant’Orsola pesavo 35 chili. Sono ritornato in famiglia, a Bologna, il 26 maggio 1945. Armando Gasiani: ex deportato Mi chiamo Armando Gasiani, sono nato a Castel di Serravalle, in provincia di Bologna, il 23 gennaio del 1927. Un giorno, verso la fine dell’estate del 1944, con mio fratello Serafino che era tornato dalla Francia,dopo l’8 settembre del’43,decidemmo di andare a lavorare nella Tods per portare a casa qualche soldo. Era questa un’organizzazione paramilitare tedesca che scavava fortini sugli argini del canale del Martignone. Ci pagavano pochi soldi ma,con il documento di riconoscimento che ci avevano dato,potevamo muoverci liberamente e passare informazioni ai partigiani….. Il mattino del 5 dicembre 1944 improvvisamente fummo circondati dai nazisti,armati fino ai denti. Cercavano partigiani già famosi per le loro azioni in quelle campagne, assieme a loro i sostenitori e collaboratori della Resistenza. Ad Anzola Emilia fummo catturati in settanta. Il 10 dicembre 1944 ci trasferirono alle carceri di S. Giovanni in monte,dove aspettammo la sentenza. Per alcune decine di arrestati, fu emessa la sentenza di morte e furono subito fucilati sui calanchi di Sabbiuno di Paterno e i loro corpi vennero ritrovati nella primavera del 1945,quando si sciolse la neve. Per noi fu decisa la deportazione. Il 23 dicembre caricati su un camion partimmo per Bolzano,dove ci rinchiusero in un campo di concentramento. Fummo immatricolati e messi in una baracca. Dopo circa 10 giorni di fame e maltrattamenti,ripartimmo con altre centinaia di persone,su un treno merci. Il viaggio durò cinque giorni, ci fecero ancora conoscere la fame, la sete ed ogni altro tipo di privazione. Arrivammo di mattina alla stazione di Mauthausen e quando finalmente ci fecero scendere, respirammo un po’ di aria fresca e pulita. Quando varcai il portone …vidi quegli uomini: magri, tristi, malvestiti, e nei loro occhi le risposte alle nostre domande. Mi tolsi i vestiti li appoggiai per terra e nudo entrai nella seconda stanza dove fui rapato e depilato in tutto il corpo. Dopo alcune ore, incominciarono a gridare; ci fu data una divisa di tela a righe e un braccialetto di latta con un numero stampato. Ero il numero 115.523. Finito le consegne,ci portarono alla baracca 20,dove trascorremmo il periodo di quarantena. Finita la quarantena venni separato definitivamente da mio fratello Serafino: lui fu mandato a Gusen 1 ed io a Gusen 2. Le nostre vite da quel giorno non s’incontrarono più e se per me alla fine vi fu la salvezza, per lui ci fu la morte. Rimanemmo prigionieri in quell’inferno fino al 5 maggio 1945, quando finalmente fummo liberati dai soldati americani. Sono ritornato a casa il 23 giugno del 1945. Nei primi anni successivi a quella tragedia, il trauma subito non mi permetteva di raccontare agli altri ciò che avevo visto e vissuto: un blocco di dolore,misto a paura e rabbia,stava nella mia mente. E ho taciuto per cinquant’anni. Ora finalmente ho trovato la forza di raccontare, e….continuerò finché avrò VOCE…. Elvia Bergamasco: Ex deportata Elvia Bergamasco,nata il 18 agosto del 1927 a Manzano,in provincia di Udine . Tutto cominciò alle 10 di mattina del 4 giugno 1944,quando si presentarono sul posto di lavoro le SS tedesche con i mitra spianati,con in mano una sua fotografia,si avvicinarono intimando di seguirli. Così dovette salire su un camion e condotta a Carmons,in una caserma militare. Lì trovò altri suoi paesani anche loro arrestati . Da Carmons li trasferirono nelle carceri di Gorizia dove subirono cinque processi con torture psicologiche .I suoi compagni subirono numerose torture. Dopo quaranta giorni di prigione li condannarono a i lavori forzati in Germania. Un giorno dei primi di agosto li prelevarono dalle carceri e furono,sempre scortati alla stazione ferroviaria di Gorizia. Là erano pronti carri bestiame chiusi e piombati .All’interno del carro su cui Sali c’èra un pò di paglia e due mostelle una piena d’acqua e l’atra vuota. Si contarono ed erano centoventi,il viaggio durò dodici giorni. Quando finalmente giunsero a destinazione era notte fonda,nessuno sapeva dove fossero. Improvvisamente il silenzio venne spezzato da urla e dall’abbaiare dei cani:i vagoni vennero aperti e subito vennero colpiti dai fasci di luce abbaglianti,il luogo si chiamava Auschwitz. La vita nel campo. La sveglia era alle quattro. Ci si doveva mettere in fila per cinque e uscire dalla baracca perfettamente incolonnati. Si doveva raggiungere il piazzale dell’appello e li attendere con qualsiasi tempo e temperatura il comandante del campo che provvedeva ad effettuare la conta. Bisognava attendere,sempre in fila per cinque,anche delle ore. Se faceva freddo non potevano avvicinarsi l’un l’altro ,dovevano rimanere distanti tra di loro da tutti i lati per la lunghezza delle braccia. Il lavoro incominciava alle sei del mattino per poi terminare alle sei di sera consisteva nel costruire strade e fossati nel campo di Birckenau. Altro lavoro era quello della pulizia delle latrine. Queste erano sistemate in una baracca che conteneva un centinaio di buche disposte in modo tale che si facevano i bisogni seduti schiena contro schiena e tutti insieme. Il campo di Auschwitz venne liberato dall’Armata Rossa il 27 Gennaio. Franco Cosmar Ero tornato in Italia nel 1943, perché la mia famiglia era emigrata in Francia per motivi politici. Il primo a partire fu mio padre e una volta sistematosi noi lo raggiungemmo. Nel 1939 i Tedeschi occuparono la Francia. Noi abitavamo a un paesino a pochi km da Parigi, qui i Tedeschi trovarono molta resistenza e mentre i Francesi scappavano noi, ci rifugiammo nei rifugi antiaerei, qui, le truppe tedesche ci trovarono… Tornati in Italia, ci stabilimmo in Friuli, a Orzano di Remanzacco, però, non possedevamo né casa ne lavoro… Pochi mesi dopo ci fu la firma dell’armistizio e l’esercito italiano si disgregò, si ebbe l’inizio dell’occupazione tedesca e la nascita della Repubblica di Salò. In quei giorni si formarono le prime formazioni partigiane. I Tedeschi per combattere quest’ultime trasferirono sulle montagne dei reparti di Cosacchi della Russia bianca, a questi diedero carta bianca e il compito di annientarle. Noi vivevamo nel terrore perché pensavamo che i partigiani fossero dei banditi, perché cosi, li chiamavano. Un mio paesano mi convinse ad andare con loro, il problema però, era trovarli, perché si spostavano continuamente dopo ogni scontro. Una domenica mattina ci incamminammo verso la montagna senza parlarne con nessuno. Camminammo un giorno intero, solo verso sera incontrammo degli uomini con il berretto alla garibaldina e il fazzoletto rosso che camminavano in fila indiana e dopo averli fermati gli dicemmo che volevamo unirci a loro. L’uomo ci guardò ci disse: ”Ragazzi pensateci su” però, noi già avevamo deciso e ci incamminammo con loro…. Dopo sette mesi passati da partigiano, dopo aver superato battaglie, sofferto la fame e il freddo, i Tedeschi mi fecero prigioniero. Era circa una settimana che eravamo chiusi nei vagoni treno quando entrammo in Austria. Arrivammo alla stazione di Mauthausen che già era sera, scendemmo dal vagone scortati dalle SS che ci portarono verso la fortezza. Ci fecero fermare davanti a un portone con una grande aquila e una croce uncinata e 2 riflettori che illuminavano ai lati del portone,in alto due postazioni che avevano due fucili mitragliatori. Il portone si aprì e vedemmo un grande piazzale… Il campo era coperto di neve e ghiaccio, ci fecero scendere per una scala e ci ordinarono di spogliarci per fare la doccia poi ci spinsero in un'altra sala con le docce. Prima arrivò l’acqua calda, poi ghiacciata e poi di nuovo calda… Finito il bagno, i nostri vestiti non c’erano più e ci ordinarono di consegnare tutti i nostri effetti personali e chi cercava di nascondere qualcosa anche in bocca, “erano botte date senza riguardo”. Solo un prete si ribellò perche non voleva consegnare una catenina, un ricordo di sua madre ma, i Tedeschi non lo ascoltarono e gliela strapparono senza pietà. L’uomo che sapeva il tedesco incomincio a insultare i soldati, questi lo circondarono e lo riempirono di botte, finché non stramazzò a terra più morto che vivo…... Sono rientrato in Italia il 28 giugno, e ricoverato immediatamente all’ospedale di Udine pesavo 28-29 chili. Romolo Tintorri : ex deportato Mi chiamo Romolo Tintorri, sono nato il 18.03.1928 a Sestola (MD), un piccolo paese dove il Fascismo non era mai stato profondamente sentito, per questo partecipò all’ondata di entusiasmo che percorse,come un brivido, l’Italia il 25 luglio 1943, data che segnò la caduta del dittatore fascista. Un’altra ondata di entusiasmo prese il popolo la sera dell’8 settembre 1943, allorchè la radio comunicò inaspettatamente che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli amici alleati. Cortei festosi per il paese, suono di campane, funzioni religiose, cori patriottici salutarono la fine di una guerra impopolare. Ma presto il giubilo si trasformò in un’amara delusione, quando ci si rese conto che in realtà la situazione, invece di evolversi si era estremamente aggravata. Arrivarono anche a Sestola, le truppe hitleriane,che si stabilirono in tutta la provincia di Modena. Sui nostri monti cominciarono ad agire i primi partigiani, che si aggiravano intorno al migliaio in distinte formazioni; giunsero incerte e frammentarie le notizie delle loro gesta. Poi il 4 luglio, nelle prime ore del mattino, raffiche di mitra, colpi di fucile ruppero il silenzio, urla di gente che scappava; alcuni partigiani sparavano dalle finestre di un albergo, altri si ritiravano sparando all’impazzata. E a sorpresa avevano accerchiato il paese… ci siamo vestiti alla meglio, poi all’improvviso abbiamo sentito battere con violenza sul portone del nostro negozio urla, pugni, calci, mio padre che aveva tardato ad aprire fu spintonato, gettato a terra e colpito col calcio del fucile ,che gli procurò la frattura di alcune costole. Alcuni tedeschi piombarono in cucina e tra la disperazione di mia madre mi tralasciarono per la strada. Per la mia giovane età pensavo che non mi avrebbero preso, invece insieme ad altri uomini fui messo in fila lungo il muro della piazza centrale. Confidavamo nella liberazione, invece fummo caricati su un camion per una ignota destinazione. Ad un tratto vidi mio padre, che non era stato preso, correre verso il camion dove ero io e, nonostante il dolore provocato dalle percosse, salire per seguirmi tra lo stupore mio e degli stessi tedeschi. Uno fra i tanti eroismi sconosciuti, ma per me un atto indimenticabile, se ho superato l’inferno del lager, molto lo devo al suo sacrificio. Fummo trasportati a Fossoli di Carpi, insieme a noi c’era anche il parroco Don Provetti. Arrivati al campo ci rasarono a zero con la macchinetta; una sommaria visita medica, doccia e disinfestazione dei vestiti, poi tutti in segreteria per la consegna del triangolo rosso dei politici e l’immatricolazione: 2548 il mio numero 2546 quello di mio padre, poi fummo alloggiati nella baracca numero 18. Poi la nostra vita e quella di tutti i prigionieri del campo fu sconvolta dalla tragica alba del 12 luglio. La sera prima durante la solita adunata per l’appello, era arrivato il maresciallo Hans delle SS con un gran foglio in mano, invitando coloro che fossero chiamati di lasciare le file e a inquadrarsi a parte. Lo stesso maresciallo lesse ad alta voce i numeri di matricola dei prescelti; 71 furono i chiamati. Mio padre, quasi prevedesse il loro tragico destino, mi disse “Se chiamano il tuo numero non muoverti, vado io al tuo posto!”. Tutti i chiamati furono rinchiusi in una baracca e al mattino dopo furono portati al poligono di Cibeno e uccisi; buttati nella fossa scavata dagli ebrei, poi coperti da uno strato di calce viva, perché si decomponessero più velocemente… Verso la fine di luglio, all’alba dopo l’appello, partimmo in corriera accompagnati dai nostri “guardiani” armati di mitragliatori, ci accompagnarono fino a Verona, dove fummo rinchiusi in una grande caserma. Dalla stazione di Verona, rinchiusi in vagoni bestiame, in condizioni disumane, senza bere, senza poter provvedere ai bisogni corporali, iniziammo il nostro viaggio verso una destinazione ignota. Viaggiammo due giorni e due notti, e dopo soste snervanti, dovute ai mitragliamenti alleati, arrivammo nel primo campo di smistamento alla periferia di Berlino: un campo immenso con un umanità disperata proveniente da tutte le parti d’Europa; intere famiglie russe e polacche anche con bambini. Berlino era quasi tutta distrutta. Il nostro gruppo, in partenza per una nuova destinazione, era composta da deportati di tutte le nazionalità. Raggiungemmo in treno un campo di 30 chilometri da Amburgo…In seguito seppi che si trattava di Neuengamme, un campo di concentramento sotto il controllo delle SS. Sotto le SS tutto era programmato in una forma feroce e maniacale: il sonno, la sveglia , il lavarsi, il lavoro, il tempo per i bisogni corporali, il “riposo”, l’appello del mattino e della sera,il rifarsi il letto e…guai a non osservare questi ordini, ma il momento peggiore della mia deportazione fu quando il nostro campo, fu distrutto da un bombardamento alleato, e quando già si udivano i primi colpi di cannone dei russi che avanzavano, fummo incolonnati in famosa “ marce della morte”. Durante la marcia, le guardie schierate come angeli della morte malmenavano gli internati, sparando a chiunque vacillasse, si trascinasse o cadesse. Una notte, ammassati nelle stalle e nei fienili di una fattoria abbandonata, io e mio padre riuscimmo a fuggire. Era proprio scritto nel destino che ci dovessimo salvare. Poi “il gran giorno”, la liberazione da parte delle truppe russe: erano le ore 10 del mattino di mercoledì 2 maggio 1945. Siamo ritornati a Bologna nel settembre del 1945. Romolo Tintorri è deceduto a fine febbraio del 2009. Vittoriano Zaccherini: ex deportato Mi chiamo Vittorio Zaccherini, sono un ex deportato nato a Dazza il 28 novembre 1927, lavoravo come meccanico a Cogne. La mia famiglia era una famiglia normale, mio padre lavorava come muratore e mia madre era casalinga. Io come altri giovani della mia età ero renitente, cioè non mi presentai alla chiamata dell’esercito. Ho fatto prima il partigiano sia in collina che in montagna e il gappista e operavo nell’ imolese. I gappisti erano dei gruppi di azione patriottica delle Brigate Garibaldi. Essi furono istituite nel 1943 e denominati GAP (Gruppi Azione Patriottica) , nacquero su iniziativa della Resistenza Italiana, sulla base dell’esperienza della Resistenza Francese. Questi gruppi non diedero mai tregua al nemico, lo colpivano sempre e in ogni circostanza: di giorno e di notte. Un’azione dei GAP molto clamorosa avvenne il 25 gennaio 1944 quando essi riuscirono a liberare Sandro Pertini e Giuseppe Saragat catturati nel 1943 dalle SS e condannati a morte. Il 20 novembre 1944 le Brigate Nere mi catturarono in seguito ad una spia, prima mi rinchiusero nelle carceri di Imola e poi in quelle di Bologna e in seguito le SS mi portarono a Bolzano. A Bolzano mi fecero salire su un treno diretto a Mauthasen, il viaggio durò sei giorni. Nella stessa carrozza eravamo settantanove persone. Quando riaprirono le porte del treno, eravamo arrivati a Mauthasen dove vi erano delle guardie delle SS con i cani, ci hanno incolonnati quattro a quattro e ci portarono dentro il campo. La prima esperienza terribile fu a causa del numero di matricola: avevo il 115.778 e al primo appello siccome era un russo che chiamava io non sapevo niente e non ho risposto. La sera quando siamo ritornati mi ha chiamato e mi hanno dato venti gommate per non aver risposto all’ appello. Il giorno seguente durante l’appello mi ha aiutato un francese. Dopo 10giorni che lavoravo a Mauthasen mi hanno inviato a Gusen1 a lavorare in una galleria dove si costruivano armi. Dopo circa un mese mi hanno rimandato a Mauthasen, dove lavorai in una cava per tre mesi, quella fu la mia più grande tragedia. La distanza fra il campo e la cava era di un chilometro e mezzo e c’era anche una scala con 186 scalini. Questa distanza la dovevamo percorrere con una pesante pietra sulle spalle e in oltre le SS giocavano con noi facendo scivolare le ultime persone della fila cos’ cadendo travolgevano tutti gli altri. Io sono stato liberato il 5 maggio 1945 dalle truppe americane e dopo essere stato in un ospedale da campo, sono tornato a casa il 30 luglio 1945. Le donne di Ravensbrùck La singolare tragedia dell’intera famiglia Barboncini, come si evince dal racconto della superstite, ci da la percezione esatta del clima di sospetto, di pericolo e di terrore in cui era precipitata l’Italia dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943 e, in particolar modo in quelle zone occupate dai nazisti, ed il ruolo delle spie fasciste al servizio delle famigerate SS. Sono Nella Baroncini, io e la mia famiglia abitavamo in una casa popolare e tra i nostri inquilini c’erano forse dei fascisti. Non dimenticherò mai quel giorno. Era di Giovedì, 24 febbraio 1944, quando di primo mattino, una squadra di SS bussò all’appartamento dei Barboncini. Io stavo facendo colazione prima di andare a lavorare da commessa in un negozio, Jole mia sorella era a casa perché l’ufficio era stato sfollato ad Altedo. C’erano poi la mamma e Lina: “fu un dramma spaventoso”. Andai a d aprire e vidi mio padre in mezzo a due SS e sentii la parola “perquisizione”. Da quel momento tutto crollò e finì la prima parte della nostra vita. La casa era una base per la riproduzione di stampa clandestina della Resistenza. Cercavamo ciclostile e matrici. Trovarono tre macchine da scrivere ed alcuni volantini, nonché una carta d’identità trattata con la scolorina intestata ad un capo comunista che loro conoscevano molto bene. A causa di questa carta d’identità ci presero tutti, ci caricarono e ci portarono al comando delle SS di viale Risorgimento, a Porta Saragozza. Qui venimmo separati: io, la mamma e una mia sorella fummo portate, la sera stessa, al carcere di San Giovanni in Monte. Mio padre e l0altra mia sorella furono trattenuti, picchiati e torturati per un mese al comando delle SS e loro due furono quelli che soffrirono di più… Siccome mia sorella era disoccupata si prese la responsabilità di tutta l’attività clandestina che svolgevamo in casa. Ma le SS sapevano già tutto, sapevano che l’intera famiglia lavorava a quel materiale. Poi il comando delle SS fu bombardato, quindi, portarono anche mio padre e mia sorella al carcere di San Giovanni al Monte. Di lì, ci portarono a Fossoli, dove rimanemmo per tre mesi, ed era, praticamente l’anticamera dei campi di concentramento veri e propri. Nel luglio del 1944 partì l’ultimo contingente di uomini e fra questi c’era anche mio padre che avevamo rivisto a Fossoli. Non sapevamo dove fosse finito venimmo a sapere, dopo, che l’avevamo portato a Mauthausen. Il nostro fu l’ultimo contingente di donne a partire, a parte un gruppo di malati, 45 donne di cui la metà erano quelle chiamate miste-ebree e dovevamo portare un triangolo metà rosso e metà giallo. Fermato il convoglio furono aperti i portelloni del carro bestiame e le SS che ci attendevano ci portarono a Verona dove rimanemmo un giorno e una notte, e trovammo molta altra gente. Lì cominciarono le prime selezioni e separazioni, specialmente le ebree venivano separate dai figli, dai genitori, e cos’via. Credo fosse il 2 agosto quando ci caricarono sul carro bestiame, tutte stipate, da Fossili ci eravamo portate un po’ di roba da mangiare e lì, dentro quel carro, alcune ebree cominciarono a parlare dei forni crematori in Germania… Sul carro siamo state quattro giorni; una volta al giorno ci facevano uscire per andare dietro un albero… (era il massimo dei “servizi igienici”) poi una mattina arrivammo ad una piccola stazione su cui c’era scritto “Ravensbrùck”. Ci fecero scendere e incolonnare sulla banchina con urla, grida di sollecitazione in quella terribile lingua a noi sconosciuta, alle più lente giù botte; il tutto condito da un abbaiare minaccioso dei cani lupi che ci aizzavano contro… noi non eravamo ancora abituate… Poi, il giorno dopo toccò a noi ci fecero consegnare tutto, ci fecero spogliare nude e ci diedero degli stracci da metterci addosso eravamo diventate “un niente”, dei numeri. Ci avevano spogliate non solo dei vestiti, ma privati della nostra personalità del nostro pudore, della nostra forza morale… Sono stata liberata il 30 aprile 1945 a Ravensbrùk, dell’armata rossa sono tornata a Bologna a fine ottobre 1945. Della mia famiglia: mio padre e morto al castello di Hertheim nel gennaio 1945. mia madre è deceduta a Ravensbrùck nel gennaio 1945. mia sorella Jole, la maggiore delle tre, stremata nelle forze, venne ricoverata in una infermeria, la lurida baracca n°10, era il 2 marzo 1945, qualche giorno dopo, finì nel forno, e finì così la sua gran voglia di vivere. Mia sorella Lina è stata rimpatriata nel settembre del 1945. L’ultimo dei tre biglietti scritti da Jole Barboncini alla sorella Nella in data 2 marzo 1945, due giorni dopo , il 4 marzo, era una domenica con uno dei “trasporti” è stata condotta alla camera a gas e quindi ai forni. Carissima Nella, …Mi dice Ostenda che ti è tornata febbre alta speriamo nulla di grave, sta in riguardo, non prendere freddo, è ormai tanto tempo che hai quella febbre e non so capire da cosa dipenda. Proprio si vede che noi abbiamo fortuna, ci diamo continuamente il turno. Io sto bene, troppo bene per la fame che patisco. Appena arriva il pane me lo mangio tutto in una volta, cosa che non ho mai fatto, ma ora non resisto proprio! Tutte le notti mi sogno piatti di tagliatelle e maccheroni fumanti, e papà seduto a tavola che mangia tutto, poveretto, chissà che fame farà anche lui se la salute e la fortuna lo assiste! Sempre, sempre lo sogno! Quando finirà dunque questa maledetta guerra, quando verrà quel giorno che ci troveremo alla nostra sgangherata tavola, ma ben apparecchiata di ogni ben di Dio? Vedere ancora papà là seduto con la sua tuta da lavoro, che era di domenica ci urtava tanto, mangiare i sui due o tre piatti di minestra, vedere la mamma sempre in piedi e pronta a farci trovare la pietanza subito dopo la minestra, perché noi sempre impazienti e sempre con buon appetito… Veramente se avremo fortuna di ritornare tutti, la mamma e papà non dovranno più lavorare no, noi siamo giovani, ci rimetteremo presto e lavoreremo, essi avranno tanto bisogno di riposo! Neppure in casa mamma dovrà più lavorare. Oh, se sapessi Nella quando penso io a questo! Che soddisfazione fare per loro un po’ di sacrificio, dopo che loro hanno fatto tanto per noi! –Spero non ti annoierò, in fondo la nostra famiglia (eccettuata qualche piccola baruffa) era ed è ancora molto unita e sono certa che anche tu come la Lina penserete tanto a queste cose. Ecco stanno arrivando le tagliatelle, un momento…Purtroppo non erano tagliatelle, ma una mescola di rape amare che però ho fatto sparire in un momento. Sono le tre, non ho più pane, ho già mangiato la zuppa, ed ho più fame di prima. Fino a domani non si parla più di “essen” (mangiare). Pazienza; tutto finirà. Basta però che non finiamo prima noi! Già un anno e ancora passeremo la seconda Pasqua in prigione! È certo, chissà se potremo almeno passare il Natale 1945 a casa! Pazienza pure!... Ho approfittato della carta che gentilmente Ostenda mi ha portato per scrivere e questa sera approfitterò ancora di lei per consegnarle questo biglietto. Sarà ricompensata. Ciao Nella Guarisci presto e vieni a trovarmi, se non mi faranno uscire prima di te. Ora ne mancano molte in blocco anche qua. Speriamo per il momento di non dividerci ancora. ……..Baci,Jole. Settimia Spizzichini:ex deportata Prima del ’38 anche noi abitavamo a Tivoli. Ma erano arrivate le leggi razziali: a mio padre avevano tolto la licenza con cui gestiva il negozio, poi gli avevano fissato un orario per uscire di casa. Sulla nostra porta erano apparse scritte antisemite. Cosi eravamo tornate a Roma dove stavano le mie sorelle con le famiglie. Il 26 settembre Herbert Kappler, comandante della piazza di Roma, chiese alla Comunità 50 chili d’oro per garantire l’incolumità degli ebrei romani. La notizia da un lato ci preoccupò, 50 chili d’oro! Ma dall’altro ci rassicurò: se avessimo trovato l’oro, pensammo, saremmo stati tranquilli. Cinquanta chili d’oro erano tanti per una Comunità i cui membri erano stati privati del lavoro, e il tempo concesso - 2 giorni - era pochissimo. Ma in qualche modo raccogliemmo 50 chili d’oro e li portammo ai tedeschi. La gente nel Ghetto era sollevata. Diceva: “ I tedeschi sono gente seria, ora ci lasceranno in pace”. Non tutti la pensavano cosi. Venne in Comunità un’ antifascista, il colonnello Forti, con alcuni suoi uomini. Ci avvertì: “ Non consegnate l’oro ai tedeschi. Comperate invece armi per difendervi”. Ma non fu ascoltato. La piazza era tranquilla. Arrivò ottobre. La vita scorreva come sempre. La tranquillità durò quindici giorni. Il 16 ottobre, all’alba, ci stavamo svegliando tutti. Bisognava alzarsi presto per mettersi in fila per trovare da mangiare. C’era silenzio per le strade poiché con il coprifuoco non si poteva uscire. Mia sorella e i miei cognati uscirono. Io e il resto della famiglia rimanemmo a casa. Sentimmo passare dei camion e poi dei passi pesanti, passi militari. Pensammo ad una esercitazione. Non sapevamo che stavano circondando il Ghetto. All’improvviso la piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni. Ci affacciamo alla finestra. Vedemmo i soldati tedeschi che spingevano la gente fuori dalle case e le avviavano in lunghe file. “ Prendono gli ebrei!” sussurrò mio padre. Scappare non si poteva, i tedeschi arrivavano in direzione della nostra casa. Allora papà ci fece entrare in una stanza e ci disse di stare in silenzio, poi andò a spalancare la porta di casa lasciandola aperta. “ Penseranno che siamo scappati” disse piano, tornando. Forse ce l’avremmo fatta. Ma Giuditta, udendo i passi dei tedeschi per le scale, perse la testa: scappò via, si diresse proprio verso i tedeschi. Se li trovò davanti, si voltò, e tornò al nostro nascondiglio. Ci fecero uscire dalla stanza, ci dettero un biglietto d’istruzioni: avevamo 20 minuti per prepararci e prendere tutta la nostra roba. Uscimmo in mezzo ai tedeschi, ci ammassarono con tutti gli altri a S. Angelo in Pescheria. I camion grigi arrivarono e ci caricarono tutti a spintoni portandoci al Collegio Militare. Ci restammo per due giorni. Poi, un mattino ci caricarono di nuovo sui camion grigi. Ci fecero scendere alla stazione Tiburtina. Fummo spinti su un treno che stava su un binario morto, ci caricarono sui carri bestiame. E quando fummo saliti li chiusero e li piombarono. A sera il convoglio si mosse. Per dove non sapevamo. Tutto questo accadde sotto gli occhi indifferenti di Roma e del Vaticano! Ricordare, dunque, non solo per capire i pericoli e riconoscere le ingiustizie, ma per combatterle, perché discriminazione razziale, fanatismo politico e religioso, violenza e arbitrio, guerra, fame, sottosviluppo, sfruttamenti e malattie mietono ancora vittime in tante parti del mondo.