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La Convenzione di Ginevra sullo STATUS dei rifugiati

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La Convenzione di Ginevra sullo STATUS dei rifugiati
Flussi Migratori e Fruizione dei Diritti
Fondamentali
VII Convegno Nazionale Istruttori DIU
15-17 settembre 2006
Campobasso
LA CONVENZIONE DI GINEVRA SULLO
STATUS DEI RIFUGIATI
Prof. Paolo Benvenuti
Ordinario, Facoltà di Giurisprudenza, Università di Roma Tre
133
La Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati
Paolo Benvenuti
1. La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati: prime considerazioni
La Convenzione relativa allo status dei rifugiati (da ora in poi Convenzione) adottata a
Ginevra il 28 luglio 19511 (in vigore dal 22 aprile 1954) è lo strumento fondamentale di riferimento
per la protezione di colui che,
“(…) owing to well-founded fear of being persecuted for reasons of race, religion, nationality, membership of
a particular social group or political opinion, is outside the country of his nationality and is unable or, owing to
such fear, is unwilling to avail himself of the protection of that country; or who, not having a nationality and
being outside the country of his former habitual residence (…) is unable or, owing to such fear, is unwilling to
return to it” (art. 1.A.2).
La Convenzione è stata integrata da un Protocollo adottato il 31 gennaio 19672 (da ora in poi
Protocollo) che impegna gli Stati parti ad applicare la Convenzione a prescindere dalle limitazioni
temporale e geografica da questa previste. Invero, la Convenzione, ai sensi dell’art. 1, indica un
limite del suo ambito di applicazione consistente negli “avvenimenti verificatisi anteriormente al 1°
gennaio 1951 in Europa”, e nello stesso tempo concede agli Stati l’opzione di far cadere il limite
geografico e, pertanto, di fare applicazione della Convenzione agli avvenimenti verificatisi anche
“altrove”. Il Protocollo mira a far cadere per l’appunto il limite geografico e temporale.
La tutela internazionale dei rifugiati, nel primo periodo post-bellico, aveva fatto già alcuni
passi significativi. A prescindere dalla breve parentesi dell’International Refugee Organization
(IRO), la cui istituzione fu decisa nel 1946 per gestire la protezione di categorie particolari di
rifugiati, con risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite 428 (V) del 14 dicembre
1950, si era pervenuti alla decisione di sostituire questa istituzione con l’Ufficio dell’Alto
Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). L’UNHCR veniva istituito, nella veste
di organo sussidiario dell’Assemblea generale, per adempiere un compito che i Governi
immaginavano allora limitato a tre anni (al 31 dicembre 1953): per risolvere i problemi di
protezione e di integrazione nei Paesi di asilo di circa 1.2000.000 rifugiati europei lasciati in eredità
dai rivolgimenti politico-sociali connessi al II conflitto mondiale (attraverso il rimpatrio volontario,
l’integrazione nel Paese di asilo, o il reinsediamento da questo in un Paese terzo). I Governi
ritennero allora di non firmare – così qualcuno di essi si espresse - un “assegno in bianco” rispetto a
situazioni future, e preferirono limitare lo scopo della Convenzione soprattutto ai rifugiati in Europa
e agli “avvenimenti verificatisi anteriormente al 1° gennaio 1951”. Però, le successive crisi che
hanno fatto dei rifugiati un problema globale, e, purtroppo, endemico per la comunità
internazionale, ha condotto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a prorogare il mandato
dell’UNHCR di scadenza in scadenza triennale, fino ad attribuire a esso, in virtù di una risoluzione
del dicembre 2003, un mandato permanente, fintanto che i problemi dei rifugiati nel mondo non
abbiano trovato soluzione.
Si calcola che, nel corso di oltre mezzo secolo, l’Agenzia per i rifugiati, avendo come
parametro della sua azione i principi del proprio Statuto e della Convenzione, abbia dato sostegno a
oltre 50 milioni di persone. Al momento attuale, con uno staff superiore a 6.000 persone, essa è
impegnata a offrire, in circa 120 Stati, l’aiuto approssimativamente a 19 milioni di richiedenti asilo
o rifugiati (tra i 9 e i 10 milioni sono i rifugiati riconosciuti ai sensi della Convenzione del 1951; nel
2003 sono state presentate 809.000 domande di asilo ai sensi della Convenzione di Ginevra). Si
calcola, invece che, parallelamente al fenomeno dei rifugiati, nel mondo si ponga l’emergenza di 25
milioni di sfollati, cioè di persone che, sradicate dai loro luoghi di origine, non hanno attraversato,
1
UNTS, vol. 189, p. 137 ss. L’Italia ha ratificato la Convenzione il 15 novembre 1954. Il provvedimento di esecuzione
è contenuto nella legge n. 722 del 24 luglio 1954, in Gazz. Uff. n. 196 del 27 agosto 1954.
2
UNTS, vol. 606, p. 267 ss. L’Italia ha depositato lo strumento di ratifica il 26 gennaio 1972. Il provvedimento di
esecuzione è contenuto nella legge n. 95 del 14 febbraio 1970, in Gazz. Uff. n. 79 del 28 marzo 1970.
134
nella loro fuga, i confini del proprio Stato e sono pertanto estranee al campo di applicazione della
Convenzione. Di molti di questi sfollati, circa 4.500.000 persone, attualmente l’UNHCR si interessa
con azioni umanitarie, di protezione e di assistenza, intraprese su richiesta del Segretario generale o
dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e con il consenso dello Stato coinvolto: si pensi alla
Colombia, un caso – con oltre 2.000.000 di sfollati - sicuramente tra i più gravi a questo riguardo.
Pertanto, dagli elementi messi in luce emerge che il sistema di protezione internazionale dei
rifugiati, sorto nella prospettiva della ricerca di una soluzione (geograficamente e temporalmente)
limitata dei problemi, si sviluppa poi, nella sua dimensione sia strumentale costituita dall’UNHCR,
sia dei principi sostanziali fissati nella Convenzione, secondo una logica della universalità dei
valori, dei fini, dell’azione, che in verità è insita in ogni sistema volto alla tutela dei diritti
fondamentali della persona.
2. La finalità umanitaria della Convenzione
Nel procedere all’esame più specifico del sistema di protezione internazionale dei rifugiati
che trova fondamento nella Convenzione, si deve aver presente che esso ha una finalità
essenzialmente umanitaria, della quale occorre tener conto nell’interpretazione delle regole e che
impedisce di riconnettere al riconoscimento dello status di rifugiato valutazioni di natura politica
che potrebbero creare tensioni fra Stati. Il sistema di Ginevra non è volto a contrastare le cause
politico/sociali in cui trova le radici il fenomeno della fuga (compito che spetta ad altri campi del
diritto), quanto piuttosto ad alleviarne le conseguenze sotto il profilo umanitario, offrendo alle
vittime della persecuzione protezione internazionale e assistenza in attesa di un ritorno volontario
nel Paese di origine allorché questo sia tornato sicuro. Esso mira anche, eventualmente, a offrire un
aiuto a iniziare una nuova vita definitivamente integrata nella comunità dello Stato di rifugio o in
altro Stato che sia disposto all’accoglienza. Invero, numerosi sono gli individui che ricadono e
possono ricadere in futuro tra i richiedenti asilo, sia perché fuggono da una persecuzione
individuale, sia per un esodo forzato da problemi di carattere ora politico, ora religioso, ora militare
nel Paese di origine: il sistema internazionale istituito per la protezione dei rifugiati certo
contribuisce, con l’approccio umanitario, a facilitare il perseguimento di soluzioni complessive, ma
- come dimostra la crescita drammatica dei rifugiati negli ultimi decenni, peraltro rallentatasi negli
anni più recenti – lo strumento umanitario, pur irrinunciabile (così che può dirsi che un mondo
privo dell’UNHCR e della Convenzione non è immaginabile), non deve essere concepito come
sostituto della responsabilità e dell’azione politica degli Stati nell’evitare o nel risolvere alla radice
crisi future.
3. La relazione della Convenzione con il sistema di protezione internazionale dei diritti umani
La Convenzione, successivamente integrata dal Protocollo, si inserisce, all’indomani del
secondo conflitto mondiale, nel più ampio sviluppo della normativa internazionale volta a
proteggere i diritti fondamentali della persona. Questo sviluppo si articola in più indirizzi: 1) quello
del diritto internazionale umanitario, di cui sono espressione le fondamentali quattro Convenzioni di
Ginevra del 1949 sulla protezione delle vittime dei conflitti armati; 2) quello dei diritti umani che,
al momento della elaborazione della Convenzione sullo status dei rifugiati, trovava già espressione
(a prescindere dai fondamenti inseriti nella Carta delle Nazioni Unite) nella Convenzione per la
prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 9 dicembre 19483, nonché nella
Dichiarazione universale dei diritti umani del 10 dicembre 1948; e infine, per l’appunto, 3) quello
relativo alla protezione dei rifugiati.
Il rapporto tra normativa posta a tutela dei diritti umani e la normativa posta a tutela dei
rifugiati appare evidente. Per molti aspetti, il secondo assetto di regole può essere considerato
strumentale rispetto al primo, nel senso che la Convenzione del 1951 mira ad assicurare ai rifugiati
3
UNTS, vol. 78, p. 277 ss.
135
il più ampio esercizio dei diritti e delle libertà sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla
Dichiarazione universale. Il preambolo della Convenzione, giustamente, si apre con il richiamo al
principio che gli esseri umani senza distinzione debbono godere dei diritti e delle libertà
fondamentali come affermati nella Carta delle Nazioni Unite e nella Dichiarazione universale; e,
d’altra parte, tale Dichiarazione già sanciva che “Everyone has the right to seek and enjoy in other
countries asylum from persecution” (art. 14.1). Il diritto di cercare asilo dalle persecuzioni si
arricchisce, a cominciare dalla Convenzione del 1951, dell’obbligo a carico degli Stati – che è insito
all’intero sistema convenzionale - di concedere accoglienza, sul proprio territorio, ai richiedenti
asilo che ivi ne facciano richiesta (divieto di espulsione o di respingimento (refoulement)), nonché
di attribuire loro un livello minimo di trattamento che copra i fondamentali aspetti della loro vita.
La Convenzione, accanto alla regola fondamentale che vieta il refoulement, enuncia a favore del
rifugiato un assetto di diritti primari che, in approssimazione, può dirsi siano equivalenti a quelli di
cui godono i cittadini stranieri che vivono legittimamente in un dato Paese e in molti casi
corrispondono a quelli dei cittadini dello Stato di accoglienza.
4. La capacità di adattamento della Convenzione a nuove situazioni
La Convenzione di Ginevra (ratificata da 143 Stati4) e il Protocollo (ratificato da 143 Stati5),
a distanza di vari decenni dalla loro adozione, restano il punto di riferimento della protezione dei
rifugiati a livello “universale”. Alcune disposizioni, come la stessa definizione di rifugiato e il
principio di non-refoulement, sono riconosciuti ormai elementi del diritto internazionale
consuetudinario6.
A partire dalla Convenzione, si sono sviluppate iniziative regionali portatrici di notevoli
contributi al sistema di protezione: al riguardo va ricordata sia la Convenzione che regola gli aspetti
specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, adottata il 10 settembre 19697 nel quadro
dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA, oggi sostituita dall’Unione Africana (UA)), sia, in
America Latina, la Dichiarazione di Cartagena de Indias del 22 novembre 19848. L’una e l’altra
meritano una citazione per l’estensione del concetto di rifugiato a favore di persone obbligate a
cercare rifugio fuori del Paese di origine o di cittadinanza
“(…) owing to external aggression, occupation, foreign domination or events seriously disturbing public order”
(Convenzione dell’OUA, art. 1.2)
o
“(…) because their lives, safety or freedom have been threatened by generalized violence, foreign aggression,
internal conflicts, massive violation of human rights or other circumstances which have seriously disturbed
public order” (Dichiarazione di Cartagena, par. 3).
Per quanto riguarda il quadro regionale europeo – in funzione del quale, in sostanza, la
Convenzione del 1951 prende origine -, merita sottolineare che l’art. 63 del Trattato istitutivo della
Comunità europea ha provveduto a vincolare la normativa europea derivata al rispetto della
Convenzione e del Protocollo, cuore della tutela internazionale dei rifugiati, nonché degli altri
trattati pertinenti. In altri termini, questi trattati internazionali operano come limite di legittimità
della legislazione comunitaria derivata. Si tratta di soluzione del tutto logica, perché quella
normativa convenzionale già obbliga gli Stati membri e non è concepibile che essi possano avere
trasferito competenze alla Comunità europea in materia di richiedenti asilo e rifugiati senza
cautelarsi che siffatte competenze siano gestite dalle istituzioni della Comunità nel pieno rispetto
4
Dati aggiornati al settembre 2005.
Dati aggiornati al settembre 2005; gli Stati contemporaneamente parti dei due strumenti normativi sono 140.
6
SIR LAUTHERPACHT e BETHLEEM, The Scope and Content of the Principle of Non-Refoulement: Opinion, in FELLER,
TÜRK e NICHOLSON (a cura di), Refugee Protection in International Law. UNHCR s Global Consultations on
International Protection, Cambridge, 2003, p. 87 ss.
7
UNTS, vol. 45, p. 1001 ss. La Convenzione è entrata in vigore sul piano internazionale il 20 giugno 1974.
8
Il testo della Dichiarazione è disponibile sul sito <http:/www1.umn.edu/humanrts/instree/cartagena1984html>.
5
136
degli obblighi da essi assunti: se tale rispetto non si realizzasse, gli Stati membri non sarebbero
posti al riparo dalla eventuale responsabilità internazionale a loro carico.
Negli oltre cinquanta anni di vita la Convenzione non ha perso attualità e ha mostrato anzi
capacità di adattamento a nuove situazioni. Oggi, però, un dibattito è in corso su un eventuale
adeguamento della sua disciplina al mutato contesto storico-sociale: alcuni dubbi sono stati espressi
sulla efficacia della Convenzione nel quadro delle relazioni umane globalizzate, soprattutto in
funzione della esigenza di contrastare i forti flussi di immigrazione illegale e i fenomeni criminosi
che a questa possono essere connessi (contrabbando e traffico di esseri umani, nonché terrorismo).
In particolar modo in Europa, regione di origine della Convenzione, alcuni Stati si sono mostrati
preoccupati che il sistema di protezione possa costituire fonte di abusi e rappresentare un anello
debole nel contrasto. Hanno così tentato di allentare quegli obblighi di accoglienza, espressione di
civiltà, a suo tempo solennemente assunti: ad esempio, hanno elaborato nozioni (come quelle di
“Stato di origine sicuro” o di “Stato terzo sicuro”) atte a legittimare e semplificare il respingimento
del richiedente asilo, o hanno escogitato varie forme di protezione alternativa con l’effetto, in certi
casi, di deviare le persone in pericolo verso forme più deboli di tutela rispetto a quelle della
Convenzione. L’UNHCR ha così lanciato iniziative per riconfermare e rafforzare la Convenzione,
per trovare con nuova determinazione soluzioni permanenti e sicure per le persone che sono di forza
sradicate dai luoghi di origine, e per evitare che il loro bisogno di protezione sia messo in ombra e
sacrificato a interessi di altra natura. Mi riferisco al processo delle Global Consultations
sviluppatesi tra il 2001 e il 2002, che ha portato alla elaborazione di una Agenda for Protection
(maggio 2003). Tale Agenda indica all’UNHCR, agli Stati, nonché alle altre organizzazioni
governative e non governative impegnate sul tema dei rifugiati, una serie di obiettivi che
riconfermano nel contesto contemporaneo i principi della Convenzione, senza tralasciare le
preoccupazioni per la sicurezza espresse dagli Stati: rafforzamento dell’attuazione della
Convenzione del 1951 e del Protocollo del 1967; protezione dei rifugiati all’interno dei più ampi
movimenti migratori; ripartizione più equa degli oneri e delle responsabilità; costruzione delle
capacità di ricezione e protezione dei rifugiati; maggiore efficacia nell’affrontare le preoccupazioni
relative alla sicurezza; intensificazione della ricerca di soluzioni permanenti; soddisfacimento dei
bisogni di protezione delle donne e dei bambini.
5. I requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato: a) il fondato timore di persecuzione
Come risulta già dalle considerazioni precedenti, il riconoscimento dello status di rifugiato è
legato al ricorrere di una serie di condizioni indicate in modo generale e astratto nella Convenzione.
Queste costituiscono, nel loro insieme, la definizione di rifugiato. La loro verifica nel caso concreto
viene chiamata “eleggibilità”. A questi requisiti di eleggibilità si contrappongono le situazioni che
conducono alla cessazione dello status di rifugiato, da un lato, e quelle situazioni la cui presenza
esclude la possibilità del riconoscimento dello status, d’altro lato.
Le clausole di inclusione si riconnettono a tre requisiti: 1) il fondato timore di persecuzione
sulla base dei motivi elencati nell’art. 1.A della Convenzione; 2) l’allontanamento dal Paese di
origine; 3) la mancanza di protezione da parte dello Stato di origine.
A proposito del primo requisito, il “fondato timore di persecuzione”, può dirsi che in esso
emerge un aspetto “soggettivo”: un ruolo centrale nella valutazione della posizione dell’interessato
è assunto dall’esame delle sue dichiarazioni, dalla sua percezione del timore. Vengono considerate
la personalità del richiedente, si tiene conto dei suoi precedenti personali e familiari, della sua
appartenenza a un gruppo razziale, religioso, nazionale, sociale o politico, della ricostruzione della
sua situazione ed esperienza personale. All’elemento soggettivo del timore si aggiunge la
“fondatezza”. Il timore è quindi valutato con criteri di obiettività e vengono in considerazione
alcuni elementi di verifica: la prova ragionevole (talvolta trattasi di dato notorio) che la vita nel
Paese di origine è divenuta intollerabile per le ragioni indicate nella definizione, o che lo sarebbe in
caso di ritorno; la verifica della sorte subita da parenti, amici o altri membri dello stesso gruppo
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razziale o sociale. In tale contesto, è pur sempre necessario condurre una valutazione autonoma di
ciascuna situazione individuale, anche se non è esclusa una determinazione collettiva di status:
quest’ultima evenienza si realizza allorché interi gruppi di persone abbiano lasciato la propria
residenza in circostanze per le quali i membri del gruppo possano essere considerati
individualmente come rifugiati, e, per ragioni pratiche, allorché – provvisoriamente - non è
possibile procedere alla determinazione caso per caso.
Alcune considerazioni ad hoc merita il termine “persecuzione”. Se la Convenzione non ne
fornisce una definizione, alcuni elementi sono tuttavia desumibili dall’art. 33.1, secondo cui gli
Stati contraenti non potranno espellere o respingere un rifugiato verso le frontiere dei luoghi ove la
sua vita e la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua
nazionalità, della sua appartenenza a una determinata categoria sociale o delle sue opinioni
politiche. Da questa disposizione si deduce che ogni minaccia alla vita o alla libertà della persona
per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinione politica, appartenenza a un gruppo sociale può
costituire persecuzione. Ma può aggiungersi che oggi una interpretazione dell’art. 33 non prescinde
dalla considerazione degli ulteriori strumenti internazionali rilevanti in materia di tutela dei diritti
umani (nonché dalla considerazione degli statuti dei tribunali penali internazionali9), ciò che
conduce a ritenere che costituisce “persecuzione” la privazione intenzionale e grave di diritti
fondamentali della persona per le stesse ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a una
determinata categoria sociale, opinioni politiche.
Un ulteriore aspetto delicato relativo alla nozione di persecuzione, che dà titolo alla
eleggibilità, riguarda la determinazione del suo confine rispetto alla nozione di atto di
discriminazione. Questo confine è generalmente tracciato secondo il criterio per il quale la persona
oggetto di trattamento deteriore è vittima di persecuzione nel caso in cui le misure discriminatorie a
suo carico implichino conseguenze gravi, pregiudizievoli per la sua persona. Ne sono esempi le
ipotesi di gravi restrizioni del diritto di provvedere alle necessità essenziali della vita, di praticare la
proprie credenze religiose o di avere accesso alle strutture educative, disponibili invece per la
generalità dei cittadini.
Vale la pena anche osservare che, nell’ambito della discussione del termine persecuzione, si
è posto il problema, che la Convenzione non affronta specificamente, dei civili che fuggono da
situazioni di conflitto. E’ un punto tanto più importante nella misura in cui nel periodo storico più
recente i maggiori flussi di rifugiati sono stati creati proprio da guerre civili, da violenze etniche,
tribali e religiose. In proposito si può osservare che l’UNHCR ritiene che le persone che fuggono da
situazioni di conflitto in cui lo Stato sia “unwilling” o “unable” di proteggerli, possono a certe
condizioni ricadere nel campo di applicazione della Convenzione10. D’altra parte, si è già osservato
che alcuni strumenti normativi regionali (la Convezione africana dell’OUA e la Dichiarazione di
Cartagena in America Latina) danno sostegno a questa visione.
6. Segue: allontanamento dal Paese di origine
Ulteriore elemento di inclusione è costituito dall’allontanamento dal Paese di origine.
Certamente gli Stati sono tenuti a considerare ammissibile la domanda di asilo presentata: a) dalla
persona che abbia fatto ingresso nel territorio dello Stato nel quale ha motivo di ritenersi sicuro; o
b) dalla persona che, si trova in uno Stato estero, quando si determinano nel Paese di origine le
condizioni per le quali vi sarebbe un fondato timore di persecuzione in caso di ritorno (rifugiati sur
place).
9
Lo Statuto della Corte penale internazionale inserisce fra i crimini contro l’umanità la “persecution against any
identifiable group or collectivity on political, racial, national, ethnic, cultural, religious, gender (…), or other grounds
that are universally recognized as impermissible under international law, in connection with any act referred to in this
paragraph or any crime within the jurisdiction of the Court (art. 7.1.h). Lo Statuto precisa, inoltre, che “per
‘persecuzione’ si intende “(…) the intentional and severe deprivation of fundamental rights contrary to international law
by reason of the identity of the group or collectivity” (art. 7.2.g).
10
Executive Committee, Conclusion No. 68 (XLIII), 1992.
138
Questo diritto di chi si trovi nel territorio dello Stato estero di presentare richiesta di asilo
risulta rafforzato dall’art. 31 della Convenzione che prende in considerazione i richiedenti asilo in
situazione irregolare nel Paese di accoglimento e, al par. 1, dispone che gli Stati
“(…) shall not impose penalties, on account of their illegal entry or presence, on refugees who, coming directly
from a territory where their life or freedom was threatened (…) enter or are present in their territory without
authorization, provided they present themselves without delay to the authorities and show good cause for their
illegal entry or presence”.
Si tratta di una disposizione che oggi ha assunto importanza ancor maggiore per l’esplodere
della immigrazione illegale quale effetto della adozione da parte di molti Stati industrializzati di
politiche restrittive di immigrazione (esigenza di visti, sanzioni ai vettori, accordi di riammissione,
collocazione degli uffici di immigrazione all’estero). Vale notare anche che, per interpretazione
corrente, il concetto di provenienza diretta non va inteso in senso letterale, e non rileva dunque il
precedente mero transito del richiedente asilo in altro Stato, o il passaggio intermedio attraverso il
territorio di Stati che non sono in grado di offrire una protezione effettiva.
A siffatta regola, che esenta dalla sanzione penale per ingresso e soggiorno illegale, in
qualche misura si collega concettualmente il par. 2 dell’art. 31: questo impone agli Stati contraenti
di non applicare “(…) restrictions other than those which are necessary”. Si tratta di un obbligo che
è formulato in modo tale da poter essere declinato in piena consonanza con il diritto di libertà di
circolazione affermato nei trattati di tutela dei diritti umani. Pertanto, deve concludersi – con una
parafrasi dell’art. 2.3 del Protocollo n. 4 alla Convenzione europea sui diritti umani – che nessuna
restrizione può essere posta se non quelle previste dalla legge e che costituiscono, in una società
democratica, misure necessarie (opera il criterio di proporzionalità) alla sicurezza nazionale, alla
pubblica sicurezza, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali,
alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Eventuali
misure di detenzione dei richiedenti asilo sono dunque del tutto eccezionali e devono trovare
applicazione, secondo una valutazione individuale, quando la loro necessità sia accertata da una
autorità (giudiziaria) appropriata alla luce delle circostanze del caso.
Talvolta è stato discusso se la domanda di asilo sia ammissibile e dunque il non-refoulement
possa operare a favore di persone che non hanno ancora fatto ingresso nel territorio dello Stato. In
altri termini, ci si è domandato se esista un obbligo dei governi di ammettere nel territorio, e di non
respingere verso il luogo di provenienza o altrove, colui che presentatosi alla frontiera faccia
domanda di asilo alle autorità lì dislocate. Si tratta di dubbi che hanno avuto origine nella
circostanza che, mentre la Dichiarazione universale del 1948 menziona il diritto a cercare e godere
dell’asilo, la Convenzione non è esplicita al riguardo. Questa lettura restrittiva (per la quale il diritto
di chiedere l’asilo non scatta fintanto che la persona non si trovi nel territorio dello Stato ove ritenga
di potere essere sicuro) è alla origine del fenomeno dei “rifugiati in orbita”, cioè di quelle persone
che sono respinte dalle autorità di frontiera dalla “zona di transito” di porti e di aeroporti verso altro
Stato, le cui autorità di frontiera a loro volta impediscono di oltrepassare siffatta “zona
internazionale” e chiedere asilo nel “territorio dello Stato”: si realizza in tal modo un gioco di rinvii
che, in ultima analisi, potrebbe condurre alla violazione del divieto di refoulement.
In verità, una simile interpretazione restrittiva in merito alla richiesta di asilo in frontiera è
del tutto fuori luogo, sia perché contraria allo spirito della Convenzione, sia perché non conforme a
una lettura sistematica delle sue regole. Queste non giustificano alcuna discriminazione fra colui
che si trova a contatto con le autorità statali in frontiera rispetto a coloro che sono riusciti a entrare
nel territorio dello Stato, e per di più illegalmente. La Convenzione si limita a individuare la
persona eleggibile per lo status di rifugiato con quella “che si trova fuori del Paese di cui è
cittadino” o in cui ha “residenza abituale”. Pertanto, è obbligo degli Stati ammettere alla valutazione
di eleggibilità le domande di asilo di coloro che si presentano in frontiera e perciò stesso si pongono
in contatto con l’autorità (e dunque con la giurisdizione) dello Stato, anche se non sono in possesso
di documenti idonei all’ingresso regolare. Al riguardo merita ricordare la formulazione dell’art. 1
della Dichiarazione sull’asilo territoriale adottata alla unanimità dall’Assemblea generale delle
139
Nazioni Unite con ris. 2132 (XXII) del 14 dicembre 1967: nessuna persona che cerchi asilo da
persecuzione
“(…) shall be subjected to measures such as rejection at the frontier or, if he has already entered the territory
in which he seeks asylum, expulsion or compulsory return to any State where he may be subjected to
persecution”11.
Inoltre, si può altresì osservare che il Comitato esecutivo dell’UNHCR nella Conclusione n.
6 (XXVIII) del 1977 ha affermato
“the fundamental importance of the principle of non-refoulement – both at the border and within the territory
of the State”12.
Insomma, il principio di non respingimento è di fondamentale importanza anche nella
circostanza in cui il richiedente asilo si presenta in frontiera: il respingimento che gli Stati pongano
in essere alla frontiera, così come altre forme di respingimento pre-ammissione, appaiono
incompatibili con l’obbligo sancito dall’art. 33.1 della Convenzione.
7. Segue: assenza di protezione da parte dello Stato di origine
Il terzo elemento di inclusione è costituito dall’assenza di protezione da parte dello Stato di
origine. A questo proposito, si può cogliere l’occasione per sottolineare che appare dubbia la
legittimità di soluzioni quale quella contenuta nella direttiva della Comunità europea n. 2004/83 del
29 aprile 2004 relativa alla qualificazione di rifugiato, in virtù della quale si ipotizza che lo status di
rifugiato possa essere negato quando la protezione dell’individuo, invece che dallo Stato, possa
essere offerta “dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che
controllano lo Stato o una parte consistente del territorio”13. E’ chiaro che queste autorità non
statali, genericamente indicate, non sono una garanzia adeguata, per la ragione assorbente che non
sono parti dei trattati internazionali in tema di tutela della persona e non possono essere considerate
eventualmente responsabili per il mancato adempimento dei trattati sulla protezione dei rifugiati e
sulla tutela dei diritti umani. Pertanto, nel considerare se un richiedente asilo abbia accesso alla
protezione nel suo Paese di origine, gli Stati membri non dovrebbero negare automaticamente la
protezione in base alla circostanza che una organizzazione è presente e opera sul territorio, ma
dovrebbero almeno verificare attentamente se, e in quale misura, la singola persona, al momento in
cui si manifesta il bisogno, abbia accesso a una protezione effettiva.
Quanto alla individuazione dell’agente di persecuzione rispetto al quale la persona risulta
priva di protezione, questo è costituito anzitutto dallo stesso apparato statale, cioè dagli agenti
statali che, secondo l’approccio tipico del diritto internazionale in tema di attribuzione della
responsabilità allo Stato, possono essere tanto organi de jure formalmente inseriti nella struttura
organica statale, quanto agenti de facto che operano, in concreto, per la struttura di governo. Ma,
secondo una lettura della Convenzione ormai definitivamente affermata, l’agente di persecuzione
rilevante può essere costituito altresì da un “agente terzo non statale” – quale un movimento ribelle,
una milizia locale, o anche eventualmente un gruppo criminale – che opera all’interno del territorio
dello Stato e non identificabile con questo, rispetto alla cui azione di persecuzione nei confronti di
persone lo Stato è compiacente, oppure è incapace di opporsi. E’ opinione dell’UNHCR (ma è
affermato anche nella direttiva della Comunità europea sulla qualificazione già citata (art. 6)) che
l’origine della persecuzione non deve essere decisiva nel determinare lo status di rifugiato, quanto,
piuttosto, è rilevante la circostanza che una persona necessita, in fatto, di protezione - non ottenibile
nello Stato di origine - nei confronti di un qualunque agente di persecuzione, anche se trattasi di
entità non statuale.
8. Le cause di persecuzione
11
Corsivo aggiunto.
Corsivo aggiunto.
13
GU L304 del 30 settembre 2004, p. 12 ss.
12
140
Qualche osservazione merita il punto delle cause di persecuzione che gli artt. 1 e 33 della
Convenzione indicano nella razza, nella religione, nella nazionalità, nelle opinioni politiche, nella
appartenenza a una determinata categoria sociale. Questa ultima causa merita particolare attenzione.
Essa ha assunto rilievo peculiare in virtù della sua formulazione elastica, che ha permesso una
lettura man mano più aperta dei confini protettivi della Convenzione, utilizzando ora il richiamo
alle caratteristiche protette del gruppo, ora al gruppo come percezione sociale:
“(…) a group of persons who share a common characteristic other that their risk of being persecuted, or who
are perceived as group by society. The characteristic will often be one which is innate, unchangeable, or which
is otherwise fundamental to identity, conscience or the exercise of one’s human rights”14.
A questo riguardo, il punto forse più significativo cui conviene fare riferimento è costituito
dalla persecuzione per causa di genere. Siffatta causa, che non è presa in specifica considerazione
dalla Convenzione, è stata recuperata proprio nell’ambito concettuale di “appartenenza a una
determinata categoria sociale”. Il concetto di persecuzione di genere fece la sua comparsa nel corso
degli anni ’80 durante la prima decade proclamata dalle Nazioni Unite a favore della donna. Nel
1984 il Parlamento europeo approvò una importante risoluzione, per la quale le donne che
subiscono un trattamento crudele e inumano per la trasgressione degli usi sociali e religiosi debbono
essere considerate un particolare gruppo sociale al fine del riconoscimento dello status di rifugiato.
Ma la svolta decisiva di siffatto riconoscimento si è realizzata nel corso degli anni ’90, quando è
emerso un consensus adeguatamente ampio sul fatto che certe richieste di asilo basate sulla
persecuzione di genere possano ben ricadere nel campo di applicazione della Convenzione. Lo
Statuto della Corte penale internazionale poi, nel riconoscere i crimini di genere nel novero dei
crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, nonché la rilevanza criminale della persecuzione
per motivi sessuali, ha dato un ulteriore possente suggello nella direzione indicata. L’UNHCR ha
ormai elaborato fin dal 1991 delle Guidelines on the Protection of Refugee Women15 e, in parallelo,
si è manifestata una interessante prassi degli Stati (Canada, Germania, Paesi Bassi, Stati Uniti,
Svizzera) sia giurisprudenziale, sia di criteri guida, nell’ambito dei quali, ad esempio, è stato
riconosciuto che la mutilazione sessuale rappresenta una forma di persecuzione idonea a giustificare
l’eleggibilità.
Alcuni aspetti problematici si pongono però, sul punto, nella determinazione del diritto
all’asilo. Essi riguardano il rilievo – già sopra considerato - da riconoscersi agli agenti non statali,
sovente presenti nella situazione di persecuzione della donna che non si conformi a stringenti codici
sociali; il rilievo dell’intento malizioso nel ledere la vittima, poiché in situazioni come quello delle
mutilazioni sessuali questo è sovente assente. Inoltre, si pone il problema di individuare il limite
fino al quale può spingersi il concetto di genere come particolare gruppo sociale, se è tale da
riguardare eventualmente anche il fenomeno degli abusi familiari.
Va osservato che una evoluzione per certi aspetti analoga a quella di genere si è realizzata
con riguardo alla persecuzione avente causa nelle tendenze sessuali. Così, anche gli omosessuali
possono essere eleggibili per lo status di rifugiato, sulla base della persecuzione per la loro
appartenenza a un particolare gruppo sociale: è ormai politica di condotta dell’UNHCR che le
persone che subiscono attacchi, trattamento inumano o seria discriminazione a causa della loro
omosessualità e i cui governi sono incapaci o non vogliono proteggerli, debbano essere riconosciuti
come rifugiati.
Nel chiudere su questo profilo, un ultimo cenno può riguardare ancora i disertori. Al
riguardo può dirsi che, se ogni Stato ha il diritto di chiedere ai propri cittadini di portare le armi in
periodo di emergenza nazionale, a questi peraltro dovrebbe essere riconosciuto un diritto
all’obiezione di coscienza. In casi in cui il diritto all’obiezione di coscienza è disconosciuto o
quando un conflitto armato è condotto dalle parti nel disprezzo delle norme del diritto
14
UNHCR, Guidelines on International Protection: Membership of a Particular Group within the Context of Article
1A(2) of the 1951 Convention, doc. HCR/GIP/02/02 del 7 maggio 2002, par. 11.
15
Queste sono state riviste poi con Guidelines on International Protection: Gender-Related Persecution within the
Context of Article 1A(2) of the 1951 Convention, doc. HCR/GIP/02/01 del 7 maggio 2002.
141
internazionale umanitario, coloro che disertano e temono persecuzioni a seguito della loro condotta
“non patriottica” sono eleggibili quali rifugiati.
9. Le cause di esclusione dalla protezione
Vi sono alcune categorie di persone che sono escluse dal possibile riconoscimento dello
status di rifugiato. Si tratta di quelle comprese nelle categorie indicate all’art. 1.F della
Convenzione che nega l’estensione del trattamento di protezione a quegli individui nei confronti dei
quali si hanno serie ragioni di ritenere: a) che abbiano commesso un crimine contro la pace, un
crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, come definito negli strumenti internazionali
elaborati per stabilire disposizioni riguardo a questi crimini; b) che abbiano commesso un crimine
grave di diritto comune al di fuori del Paese di accoglimento e prima di esservi ammesse in qualità
di rifugiati; c) che si siano rese colpevoli di azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Da questa disposizione bene emerge come il diritto internazionale dei rifugiati, ben lontano
dall’essere uno schermo dietro il quale i criminali e gli autori di azioni odiose e anche di terrore
possano nascondersi, esclude invece esplicitamente la protezione di coloro che hanno violato i
diritti umani o hanno altrimenti commesso reati molto gravi. Il genocidio nazista, i crimini di guerra
e contro l’umanità erano ben presenti ai rappresentanti dei governi che negoziarono – con grande
equilibrio di soluzioni e realismo - la nuova intelaiatura dei diritti umani e del diritto dei rifugiati
negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Essi ritennero che, in siffatti
casi “non meritevoli” di tutela, avrebbe dovuto essere esclusa la rivendicazione dello status di
rifugiato. D’altra parte, la stessa Dichiarazione universale dei diritti umani, all’art. 14, mentre al par.
1 afferma il diritto di ogni individuo di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni, al
par. 2 pone il limite secondo cui il diritto di asilo non può essere invocato quando l’individuo è
ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.
Pertanto, la ratio delle clausole di esclusione, da tener presente quando se ne consideri
l’applicazione, è di impedire che la protezione internazionale del rifugiato sia posta a vantaggio di
coloro che siano responsabili di atti odiosi come i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità, o di
crimini di diritto comune di particolare gravità, e di garantire che siffatte persone non abusino
dell’istituzione dell’asilo al fine di sfuggire alla responsabilità per i loro atti criminosi. In questo
modo la stessa finalità e credibilità dell’asilo viene salvaguardata a vantaggio di coloro che siano
effettivamente bisognosi e “meritevoli” di tutela.
Vale cogliere subito l’occasione per evidenziare che le clausole di esclusione hanno natura
di “eccezione” rispetto alla prevalente finalità umanitaria della Convenzione. Pertanto, devono
essere applicate in modo scrupoloso per proteggere l’integrità dell’istituto dell’asilo16, con grande
cautela e soltanto dopo piena valutazione delle circostanze individuali del caso, in ragione delle
serie conseguenze connesse. Insomma, le clausole di esclusione dovrebbero seguire una
interpretazione restrittiva, del resto insita nel carattere nominativo, e non già esemplificativo, della
elencazione. Inoltre, la gravità delle conseguenze a carico dell’individuo dovrebbe indurre a una
loro verifica che sia realizzata nel corso di una procedura di asilo ordinaria e non già accelerata. E,
d’altra parte, anche l’iter logico che conduce a prenderle in considerazione per deciderne la
rilevanza deve rispondere a questo loro carattere. In particolare, i profili relativi all’inclusione, in
via di principio, devono essere valutati prioritariamente, nel corso della procedura, rispetto ai profili
che potrebbero condurre invece alla esclusione. Ciò permette di evitare un atteggiamento che, nel
prescindere da ogni valutazione sostanziale, si risolva in una questione di mera ammissibilità della
domanda: si aggiunga che un approccio limitato alla mera ammissibilità tenderebbe a favorire uno
spirito di criminalizzazione nei confronti di coloro che chiedono l’asilo.
Pertanto, deve criticarsi una tendenza che si è manifestata in tempi recenti nella prassi di
alcuni Stati (rafforzata dopo l’“11 settembre”) a fare una applicazione slabbrata delle clausole di
esclusione: la sensazione di vulnerabilità generata dagli attacchi terroristici, da un lato, e la
16
Così si esprime la Conclusione n. 82 (XLVIII), 1997 del Comitato esecutivo dell’UNHCR.
142
percezione che i responsabili degli attacchi abbiano potuto sfruttare società aperte e liberali per
commetterli, da altro lato, hanno rafforzato – nel nome della sicurezza - un clima, che in verità già
cominciava a manifestarsi, restrittivo quanto alla ammissibilità della persona a usufruire delle
procedure regolari di riconoscimento dello status di rifugiato.
10. La procedura di riconoscimento dello status di rifugiato
A questo punto va evidenziato che il concreto accertamento della qualità di rifugiato ai sensi
della Convenzione spetta allo Stato contraente nel cui territorio si trova la persona nel momento in
cui chiede il riconoscimento di status. La Convenzione non definisce e tanto meno provvede a
organizzare le procedure per la verifica della eleggibilità: la Convenzione è un quadro giuridico
entro il quale gli Stati costruiscono la propria politica di asilo e adempiono alla loro responsabilità
di protezione dei rifugiati. Ogni Stato, dunque, in siffatto quadro agisce in conformità con il proprio
sistema di diritto e secondo la procedura che si è data.
La circostanza per la quale spetta agli Stati darsi la procedura necessaria per verificare il
titolo che una persona abbia al riconoscimento dello status di rifugiato, non sta a significare che
l’UNHCR non possa offrire consulenza e svolgere quel ruolo di sorveglianza che le è riconosciuto
dall’art. 35 della Convenzione, intervenendo se necessario per assicurare che ai rifugiati di buona
fede sia assicurato l’asilo e non siano respinti forzosamente verso Paesi dove la loro vita potrebbe
essere in pericolo. L’UNHCR ha invitato così i Governi all’adozione di procedure eque, rapide,
flessibili e non restrittive in tema di asilo, che tengano conto di quanto sia difficile in certi casi
documentare la persecuzione. In questo contesto il Comitato esecutivo ha provveduto alla
elaborazione di linee guida inserite nello Handbook on Procedures and Criteria for Determining
Refugee Status. Merita osservare, inoltre, che in varie esperienze nazionali (così accade in Italia con
la nuova disciplina delle commissioni territoriali) la collaborazione dell’UNHCR nelle procedure si
spinge al punto che i suoi rappresentanti sono inseriti negli organi nazionali che provvedono a
valutare il timore di persecuzione del richiedente asilo.
Si capisce come il profilo della correttezza, della equità delle procedure sia un problema
essenziale sul quale si gioca il buon funzionamento, l’effettività del sistema di asilo. Si spiega
pertanto la costante attenzione dell’UNHCR sul punto e la preoccupazione per la tendenza
manifestatasi verso l’adozione di procedure accelerate per “casi manifestamente infondati” o
relativi a persone che provengano da “Paesi terzi sicuri” o da “Paesi di origine sicuri”. Invero, anche
per quanto concerne Stati dove non c’è in generale un serio rischio di persecuzione, le richieste dei
loro cittadini devono essere adeguatamente e individualmente considerate e, pur ammesso che si
possano seguire “procedure accelerate”, ciò peraltro non esclude che colui che ricerca asilo debba
sempre disporre di una corretta procedura per far valere le proprie ragioni sostanziali.
Nell’ambito di questi rilievi si può osservare che la prassi che si è andata sviluppando di più
stringenti controlli alla frontiera e di misure rafforzate di intercettazione in particolare contro gli
immigranti irregolari debbano includere, quale contrappeso, meccanismi garanti dell’identificazione
sicura sotto il profilo sostanziale di coloro che necessitano della protezione internazionale.
Conseguentemente, come già si è osservato, è importante che le procedure di ammissibilità non si
sostituiscano alle valutazioni di carattere sostanziale, poiché siffatte scorciatoie potrebbero condurre
alla mancata identificazione di colui che si trova in una situazione di bisogno di protezione.
Una sottolineatura merita ancora il fatto – per la verità già emerso nella trattazione fin qui
svolta - che le persone che fanno domanda di asilo hanno diritto a che il loro caso sia trattato su
base individuale. Il diniego di protezione in assenza di una verifica ad personam delle circostanze
nelle quali l’individuo è fuggito sarebbe contrario al principio del divieto di respingimento. Negli
esodi di massa, siffatta valutazione individuale potrebbe non essere possibile e può rendersi
necessaria in queste circostanze una determinazione di gruppo, o una determinazione provvisoria –
prima facie - di protezione alternativa che peraltro non può essere preclusiva (perché la
143
Convenzione non lo ammette) della richiesta dell’individuo a ottenere l’eleggibilità a rifugiato ai
sensi della Convenzione.
Va infine osservato, come sostiene insistentemente l’UNHCR, che le procedure devono
inoltre garantire il diritto all’appello a organi indipendenti. Di siffatto diritto deve essere data
informazione al richiedente asilo, tanto più che sovente, proprio in sede di appello, in significativa
percentuale, avviene il riconoscimento dello status di rifugiato. D’altra parte, all’appello deve
riconoscersi effetto sospensivo, in ragione delle conseguenze irreparabili cui il refoulement può
condurre.
11. Il principio del non-refoulement e la sua portata prescrittiva
L’esito positivo della procedura porta anzitutto al riconoscimento del diritto, fondamentale,
di non-refoulement. Si fa divieto, in altri termini, allo Stato di respingere il richiedente asilo verso i
luoghi dove vi è rischio che la sua vita e la sua libertà sia minacciata in ragione della sua razza,
religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinioni politiche.
Il principio del non-refoulement, sancito dall’art. 33.1, ha una collocazione centrale
all’interno della Convenzione: esso sintetizza l’essenza umanitaria della Convenzione. D’altra parte,
di siffatto principio si afferma altresì oggi, senza ombra di dubbio, il carattere consuetudinario17. Al
tempo stesso, si riconosce che gli obblighi a questo connessi sono caratterizzati dalla particolare
forza della inderogabilità18. Nella logica essenzialmente umanitaria che è propria della
Convenzione, ben si comprende, inoltre, come l’art. 42.1 precluda agli Stati che procedono alla
ratifica la possibilità di apporre riserve alla regola in questione.
Vale la pena precisare che se, da un lato, l’esito positivo della valutazione di eleggibilità
impone nel caso di specie alle autorità statali il divieto di refoulement, d’altro canto l’esito della
procedura che neghi invece i presupposti della protezione internazionale non porta automaticamente
al respingimento nel Paese di origine o altrove. Il principio di non-refoulement ha in diritto
internazionale una portata più ampia rispetto a quanto non dica la Convenzione, cosicché potrebbe
operare in virtù di altre regole (convenzionali e consuetudinarie) in materia di diritti umani (ad
esempio le regole relative alla protezione dell’individuo contro la tortura e altri trattamenti o pene
crudeli, inumani o degradanti, per le quali il divieto di refoulement è assoluto). Oppure, potrebbe
accadere che la persona possa rientrare nell’ambito di forme alternative di protezione umanitaria,
come l’UNHCR chiede quando si tratti di procedere a espulsione in direzione di Paesi caratterizzati
da conflitti armati o da violenza generalizzata.
Il principio del divieto di respingimento si applica al richiedente asilo - non diversamente da
come si applica a colui al quale sia stato riconosciuto lo stato di rifugiato - come tutela prodromica
rispetto all’esito della procedura. A prescindere dalla circostanza che ogni diversa soluzione sarebbe
incongruente con una interpretazione coerente del sistema, ciò si spiega con la circostanza che la
decisione relativa all’asilo non è costitutiva dello status, bensì ricognitiva di uno status che si
acquista ex tunc in relazione alla presenza dei requisiti per l’eleggibilità. In altri termini, la
Convenzione del 1951 definisce rifugiato, non già colui che è stato formalmente riconosciuto come
tale, bensì una persona che soddisfi le condizioni previste a prescindere dalla circostanza che non
sia stato (ancora) formalmente riconosciuto come tale ai sensi di una procedura di diritto interno.
L’operare del principio del non-refoulement a favore del richiedente l’asilo costituisce, sotto altro
profilo, una necessaria misura cautelare rispetto al pericolo imminente di un danno grave, ingiusto,
irreparabile per la persona.
Il rifugiato ha diritto a un asilo sicuro, il che significa – si è più volte osservato - che non
può essere “in nessun modo” (in questi termini assoluti si esprime l’art. 33.1) respinto verso il Paese
che costituisce per lui serio pericolo di persecuzione. La responsabilità degli Stati comprende
pertanto una qualsiasi loro azione che conduca in modo diretto o indiretto a un refoulement,
17
18
Executive Committee, Conclusion No. 17 (XXXI), 1980.
Executive Committee, Conclusion No. 25 (XXXIII), 1982.
144
qualunque sia la descrizione formale dell’atto (espulsione, deportazione, ritorno, respingimento,
estradizione, ecc.) e deve ritenersi che includa certe pratiche di intercettazione realizzate anche al di
fuori dei confini dello Stato. La responsabilità dello Stato in tema di non-refoulement non è limitata
a ciò che accade sul proprio territorio. Si può sostenere, secondo un indirizzo affermatosi in tema di
tutela della persona umana, che gli individui rientrano nella giurisdizione dello Stato in circostanze
nelle quali essi sono sotto l’effettivo controllo dello Stato, o sono “lese” da coloro che agiscono per
conto dello Stato, dovunque ciò accada. Ne segue che il principio di non refoulement si applica alla
condotta degli agenti statali o di altri che agiscano per conto dello Stato, dovunque questo avvenga:
all’interno del territorio dello Stato, ai posti di frontiera o in altri luoghi di ingresso, in zona
internazionale, ai punti di transito, ecc.19.
12.
eccezione del pericolo per la sicurezza dello Stato e della comunità dello Stato
Il beneficio del divieto di espulsione e di respingimento potrebbe subire una eccezione
nell’ipotesi contemplata dall’art. 33.2: la regola del non-refoulement non potrà essere invocata da
un rifugiato, già riconosciuto come tale, quando vi siano gravi motivi per considerare la persona un
pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova; oppure da un rifugiato il quale, essendo stato
oggetto di condanna già passata in giudicato per un crimine o delitto particolarmente grave,
rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato. La disposizione trova il suo presupposto
razionale nell’art. 2 della Convenzione ai sensi del quale
“Every refugee has duties to the country in which he finds himself, which require in particular that he conform
to its laws and regulations as well as measures taken for the maintenance of public order”.
E’ evidente che i rifugiati, se da un lato sono una categoria certo particolare di stranieri, da
altro lato sono comunque tenuti, come qualsiasi altra persona che viva sul territorio, a rispettare le
leggi dello Stato. Questo significa per l’appunto che a un rifugiato possa essere impedito di restare
nel territorio dello Stato quando ricorrano due motivi: a) in caso di serio pericolo alla sicurezza
dello Stato ospite; b) nel caso che la sua provata e grave condotta criminale costituisca un
perdurante pericolo per la comunità (in principio, però, l’esecuzione di condanne penali non incide
sullo status di rifugiato). Ogni elemento descrittivo della fattispecie indica che vi deve essere una
connessione stretta tra l’allontanamento del rifugiato e l’eliminazione del pericolo, che deve trattarsi
di uno strumento utilizzabile in ultima istanza. I vari elementi di queste estreme ed eccezionali
circostanze devono essere ricostruiti in modo restrittivo, tenendo conto altresì dell’insieme degli
altri obblighi che derivano a carico dello Stato dalle norme internazionali poste a tutela dei diritti
umani. E’ evidente, inoltre che i rifugiati che si ritiene rientrino nelle fattispecie dell’art. 33.2
possono essere espulsi solo a seguito di decisione raggiunta in conformità a una corretta procedura
giudiziaria che verifichi il caso individuale secondo il criterio generale di garanzia posto dall’art.
32.2 per quanto concerne l’espulsione.
13. Il trattamento del rifugiato
La persona cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato ha titolo a una protezione
internazionale più ampia della mera sicurezza fisica che scaturisce dal fondamentale principio del
non-refoulement. La Convenzione mira a garantire al rifugiato una soglia di godimento di diritti
che, a seconda della loro tipologia, lo possono equiparare, ora allo stesso cittadino dello Stato
ospite, ora alla posizione dello straniero che vive legalmente all’interno del territorio. A
quest’ultimo proposito, è previsto dalla Convenzione (art. 7) che si possa prescindere dal requisito
della reciprocità.
Un primo obbligo di trattamento posto a carico dello Stato di asilo è di non discriminare fra
rifugiati a seconda di quale sia il loro Paese di provenienza (art. 3). Altri obblighi riguardano il
19
Cfr. i rilievi precedentemente svolti con riferimento al divieto di respingimento in frontiera.
145
riconoscimento del suo statuto personale (art. 12), il diritto del rifugiato a ottenere documenti di
identità (art. 27) e di viaggio (art. 28).
Lo Stato di asilo deve poi garantire un trattamento favorevole, almeno quanto quello
accordato ai cittadini, per quanto concerne la libertà di praticare la religione e la libertà di istruzione
religiosa dei figli (art. 4). Lo stesso criterio lo Stato deve seguire quanto alla protezione della
proprietà industriale, particolarmente quella relativa a invenzioni, disegni, marchi di fabbrica, nome
commerciale e riguardo alla protezione letteraria, artistica, e scientifica (art.13). Lo stesso avviene
per ciò che concerne il libero accesso alla giustizia (art. 16), alla istruzione pubblica (art. 22),
all’assistenza pubblica (art. 23), all’applicazione della legislazione concernente il lavoro e le
assicurazioni sociali.
Lo Stato di asilo deve poi garantire un trattamento non meno favorevole di quello accordato
allo straniero in generale per quanto concerne l’acquisto di beni mobili e immobili e i diritti
connessi, la locazione e gli altri contratti relativi ai beni mobili e immobili (art. 13). Lo stesso
criterio vale per il diritto di partecipazione ad associazioni politiche e non lucrative e ai sindacati
professionali (art. 15); per l’accesso alle attività salariate (art. 17), alle attività autonome (art. 18) e
alle libere professioni (art. 19). Il trattamento non meno favorevole di quello accordato nelle stesse
circostanze agli stranieri in generale è poi previsto in materia di accesso all’alloggio (art. 21),
nonché in materia di libertà di circolazione (art. 26).
A prescindere da quanto stabilito espressamente nella Convenzione, l’art. 5 della stessa
opportunamente riconosce che nessuna sua disposizione può ledere i diritti e i vantaggi accordati al
rifugiato indipendentemente dalla Convenzione stessa. Si tratta di disposizione che assume un
particolare rilievo con riferimento ai trattati posti a tutela dei diritti umani il cui ampio sviluppo si è
realizzato nel periodo successivo alla elaborazione della Convenzione e che svolgono dunque un
importante e positivo ruolo di inseminazione incrociata con la disciplina posta a tutela dei rifugiati.
14. Le cause di cessazione
Lo status di rifugiato, come è ben evidente dalle considerazioni fin qui svolte, opera in una
logica di temporaneità. La Convenzione contempla, non già una protezione permanente, bensì una
condizione di protezione destinata prima o poi a risolversi. Una persona termina di essere rifugiato
quando gli elementi che stanno a fondamento del riconoscimento del suo status vengono meno e,
dunque, si realizzano quelle cause di cessazione sulle quali l’UNHCR ha fatto chiarezza con il
documento Cessation of the Refugee Status under Article 1C(5) and (6) of the 1951 Convention20.
Le cause di cessazione sono solitamente suddivise secondo due aree. La prima di queste
riguarda i cambiamenti nella condizione personale del rifugiato. Ai sensi dell’art.1.C della
Convenzione si tratta: a) della riassunzione volontaria della protezione nazionale, b) del riacquisto
volontario della cittadinanza, c) dell’acquisto di una nuova cittadinanza, d) del ristabilimento
volontario della residenza nel Paese rispetto al quale sussisteva il timore di persecuzione.
La seconda area di cause di cessazione è rappresentata dal venir meno delle circostanze
oggettive in seguito alle quali la persona è stata riconosciuta rifugiato. In altri termini, accade che
gli elementi sui quali si basava il timore non sussistano più (ad esempio, a seguito di cambiamento
di regime all’interno dello Stato), cosicché la persona rifugiata e) non può continuare a rifiutare di
avvalersi della protezione del Paese di cui ha la cittadinanza; o, f) nel caso di persona senza
nazionalità, è in grado di tornare nel Paese di cui possedeva la residenza abituale.
Naturalmente, il venir meno del titolo allo status di rifugiato per la ricorrenza di queste
cause oggettive – venir meno che va verificato con procedura individuale non diversamente da
quanto accade per il riconoscimento di status - non significa che la persona possa essere costretta
automaticamente al ritorno: la stessa disciplina in tema di cause di cessazione contenuta nella
Convenzione precisa che queste non si applicheranno a chi possa invocare motivi imperiosi
20
Doc. HCR/GIP/03/03 del 10 febbraio 2003.
146
derivanti da precedenti persecuzioni per rifiutare di avvalersi del Paese di origine. Inoltre, può
aggiungersi, che è necessario che il ritorno sia realizzato in sicurezza, con dignità e deve, altresì
essere assistito, così da risultare sostenibile per la persona. Non è poi escluso che il ritorno possa
essere impedito da regole di diritto internazionale, altre rispetto alla Convenzione.
La disciplina delle cause di cessazione ci indica che lo status di rifugiato, per sua natura
provvisorio, mira a risolversi in una soluzione di lungo termine. La soluzione di lungo termine
preferita, è certo il rimpatrio volontario. Peraltro, poiché a causa del prolungarsi nel tempo del
timore di persecuzione, o per altre ragioni, una persona può trovarsi nella condizione di non poter
rimpatriare in tempi ragionevoli, altra soluzione che pone termine alla provvisorietà della
condizione esistenziale del rifugiato è la sua integrazione definitiva nella comunità dello Stato
ospite che è favorita dall’art. 34 della Convenzione:
“The contracting States shall as far as possible facilitate the assimilation and naturalization of refugees. They
shall in particular make every effort to expedite naturalization proceedings and to reduce as far as possible the
charges and costs of such proceedings”.
Una terza possibilità di por termine alla condizione di provvisorietà è il reinsediamento della
persona in uno Stato terzo (dal quale ottenga il passaporto o la residenza). Alcuni Stati (in verità,
non più di 16 Stati), ai fini di permettere il reinsediamento prevedono quote, la cui utilizzazione non
è però sempre facile a causa della frapposizione di requisiti che sono richiesti per parteciparvi, quali
potrebbe essere il possesso di certe qualifiche professionali. Molto più spesso gli Stati prendono in
considerazione, sovente su richiesta del UNHCR, le richieste di reinsediamento secondo la logica
del caso per caso, magari giustificate con esigenze di ricongiungimento familiare o per la presenza
di significativi legami culturali.
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147
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