Comunicazione di Pierre Vesperini (Docente all\\\\\\\`école française de
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Comunicazione di Pierre Vesperini (Docente all\\\\\\\`école française de
CERTAMEN COLLEGII ROMANI ENNIO QUIRINO VISCONTIO DICATUM 17 Marzo 2010 Gli interventi dei relatori nella giornata della premiazione Docente presso l’ École française di Roma Il mondo sparito di Ennio Quirino Visconti Dirigente scolastico Rosario Salamone, Professoressa Nota Onorevole Stella, Dott. Giunta La Spada Egregi professori, Carissimi alunni, L'idea di affidare un piccolo discorso su Visconti ad un Francese il cui italiano è ancora peggiore del francese di Visconti, non sarebbe dispiaciuto, mi sembra, al grande uomo non solo perché il suo spirito non era per nulla privo di malizia e buon umore, ma anche perché appartenne a quelle élites italiane che fecero ciò che si potrebbe chiamare un sogno francese, sogno che si è spezzato con lo scempio del conte Prina nel 1814. Questo sogno spezzato mi dà il primo elemento del suo mondo sparito. Visconti viveva nel momento in cui nascevano le coscienze nazionali, ma lui stesso era ancora un uomo del settecento. Non si sentiva italiano. Si sentiva parte della civiltà europea delle corte e dei salotti, il cui punto di riferimento era la Francia, ossia Parigi. Di conseguenza, quando Napoleone lo nominò direttore della sezione Antichità del Louvre, dove si trovavano tanti capolavori che erano stati presi al Museo Pio Clementino, di cui suo padre era stato il primo direttore e di cui Visconti stesso aveva scritto il famoso catalogo, Visconti non visse questo come un tradimento, Napoleone era per lui il successore dei grandi papi del Rinascimento, dei grandi imperatori e generali romani, cioè : l'artefice di un impero europeo, che era per Visconti la forma più alta dell'agire- storico. Eppure, Visconti viveva in quel momento a cavallo tra due epoche, dove questo tipo di atteggiamento cominciò ad essere percepito come un atto di tradimento nazionale. Questo spiega per esempio perché Leopardi, in una lettera a Giordani, dichiarò di non amarlo affatto, accusandolo di essersi scordato dell'Italia, di aver dimenticato la sua patria e la sua lingua. E questo spiega sopratutto l'oblio che ha colpito il suo nome in Italia, come lo dimostra il fallimento del progetto di monumento sul Pincio nel 1840. Se aggiungiamo che Visconti, che non doveva mai rivedere l'Italia, fu sempre oggetto di odio e di invidia da parte degli studiosi francesi, i suoi rivali, ci sembra di toccare una sua ferita che non si poteva guarire perché forse non si poteva ancora capire. Peraltro, nel suo rapporto con la Francia e, più precisamente, con Napoleone, c'è un'altra cosa che ci sfugge. Voglio parlare di una relazione tra lo studioso ed il potere che non esiste più. In questa relazione, che risale all'antica repubblica romana, il potere era uno spettacolo. Questo spettacolo era il contrario perfetto di quell'esibizione quotidiana che i potenti di oggi chiamano «comunicazione» e che invade schermi e cervelli. Si trattava di una messinscena della gloria : i trionfi della repubblica romana, gli ingressi del Rinascimento, le feste di Versailles, dovevano mostrare quanto il potente non era un uomo come gli altri. In questo quadro, la funzione dello studioso era di mettere il suo sapere al servizio della gloria del potere. Qui non posso fare a meno di notare che il nome di Visconti, Ennio, era il nome di un grandissimo studioso e poeta latino, che quasi inaugurò questa pratica a Roma. Il suo padrone Fulvio Nobiliore aveva spogliato la Grecia come Napoleone stava spogliando Roma e le corti europee e Ennio celebrava il suo glorioso padrone come Visconti celebrava Napoleone : sostenendo l'erezione della colonna Vendòme, di un monumento al Colle del Moncenisio, dirigendo la commissione di storia metallica dell'Imperatore, consigliando Denon nella selezione di opere d'arte nei paesi conquistati, organizzando la sezione Antichità del Museo Napoleone (oggi Le Louvre), che si riempiva di opere d'arte a misura che Napoleone vinceva battaglie. Ma la sua azione più importante nella celebrazione di Napoleone fu la concezione dell’ Iconograf ìa antica che Napoleone gli aveva commissionato. Questo monumento proponeva al pubblico una straordinaria galleria degli uomini illustri, degli imperatori, dei re sin dal tempo di Omero. Ora il primo volume si apriva con un'immagine di Napoleone, accompagnato da questa citazione di Plinio : « Non c'è maggior riprova della felicità di un mortale che il desio che ispira a tutti uomini di conoscere il suo ritratto ». Dunque la cultura era legata alla guerra, alla vittoria, alla preda, e questo legame lo accettavano tutti, a cominciare dai vinti. Perciò il papa Pio VII non fu per niente offeso quando nel 1804 un Visconti un po' imbarazzato gli fece visitare la galleria delle Antichità del Louvre. "Questi prodigi della scultura, disse il papa, furono involati ai Greci dai Romani. A questi li ha tolti la vittoria. Non può sapersi se col tempo dovrà corrersi fin sulla Senna per rivederli". Fatto sta che dopo Waterloo tutte queste sculture tornarono a Roma. E’ questo legame tra guerra e cultura che ispirò Walter Benjamin, quando scrisse che ciò che si chiama cultura porta sempre la marca della barbarie. Ma va subito aggiunto che anche questo legame fa parte di un mondo scomparso, come si vide per esempio nella seconda guerra del Golfo, quando gli Americani non si mostrarono oltremodo interessati dai tesori dei musei e delle biblioteche di Baghdad. Oggi non possiamo immaginare l'importanza della cultura nella politica di questo tempo. Lo spettacolo della cultura era efficace in quanto tutti portavano nell'anima il culto del sapere e la conoscenza dei modelli della storia. Eccone un esempio. Fu dopo una rappresentazione di Esther tragedia di Racine che racconta un tentativo mancato di sterminio degli Ebrei in Persia, che Napoleone, a cena con il grande attore Talma, domandò : « ma cosa sono questi Ebrei ? », e chiese subito al ministro dell'interno un rapporto su di essi, rapporto che completò l'emancipazione degli Ebrei cominciata dalla Rivoluzione francese. Non c'è dunque da stupirsi se vediamo Napoleone, quando progettava di sbarcare in Inghilterra, domandare a Visconti di scrivere un commento dell'arazzo di Bayeux, che racconta la conquista dell'Inghilterra da Guglielmo il conquistatore. 400 copie furono distribuite agli ufficiali che stazionavano nei campi di Bruges e di Saint-Omer. Oggi si considera spesso che la funzione dell'intellettuale sia di stare indipendente dal potere, anzi di criticarlo, non di aiutarlo nelle sue imprese. Va aggiunto che questo ideale rimane troppo spesso lontano dalla realtà. Ma al tempo di Visconti non era ancora nata questa figura dell'intellettuale, simboleggiata per noi da personaggi come Piero Gobetti o Antonio Gramsci, cervelli cui il potere vuole impedire di funzionare, per usare la malfamata formula del procuratore fascista. E' anche sparito il sapere di Visconti. Visconti sapeva tutto. A 14 mesi, scrive l'abate Amaduzzi, professore di greco alla Sapienza, sapeva parte della storia romana e conosceva le facce delle medaglie antiche. A tredici anni traduceva in versi l'Ecuba di Euripide. L'abate Amaduzzi temeva che il fanciullo prodigio diventasse un'idiota, come era avvenuto a due ragazzi oltralpe. Come sappiamo, questo pronostico non si doveva avverare. A vent'anni Visconti era celebrato da abati e preti versificatori per il suo sapere universale, che comprendeva storia sacra e profana, antiquaria, geometria, aritmetica, diritto. Così lo salutava un verso dell'abate Petrosellini. Tutto, o grand’ Ennio, ai tuoi pensier presente. Oggi non c'è uno studioso che come Visconti conosca tutti i testi letterali dell'Antichità nonché i loro commenti antichi, per non parlare della Bibbia né del Dante, uno studioso che conosca tutto il repertorio iconografico che si trova nelle pitture, le statue, i mosaici, i vasi, i rilievi, che sappia interpretare ed emendare un'iscrizione, che abbia una preparazione ineguagliabile anche per quanto riguarda le tecniche ed i materiali con cui si fanno gli oggetti d'arte. Fu grazie a questa scienza che Visconti poté per esempio identificare il Pasquino come una rappresentazione di Menelao che solleva Patroclo ferito a morte. Oggi ci sono specialisti : filologi, archeologi, epigrafisti, numismatici, e via seguitando. Questo fenomeno, che pretende di imitare la tecnicità delle scienze dette « dure », è la cosa più tremenda che possa accadere alle scienze umane, perché si perde subito il loro scopo, che consiste nel cogliere la vita, cogliere l'uomo nella sua vita. Per giunta, il sapere sterminato di Visconti era un modo di vivere. Aveva acquistato le sue conoscenze sul cantiere del museo Pio Clementino, nelle botteghe degli scultori, dai mercanti, negli scavi. Non voglio dire soltanto che il sapere faceva parte della sua vita, voglio dire che viveva il suo sapere, come quando, dopo la presa di Roma dai Napoletani, sulla nave che lo salvava dalla morte e lo portava esule in Francia, recitò ai suoi compagni dei versi d'Orazio. Cosa significa vivere il sapere ? Significa che il sapere ti procura il piacere, ciò che gli antichi Romani chiamavano delectatio. E per questo non ci sono delimitazioni, perché il piacere non conosce limiti, ciò che comporta anche dei rischi, come tutte le passioni. Questa esperienza del sapere Visconti la condivideva con i più grandi studiosi del suo tempo, per esempio William Herschel, il più famoso astronomo del suo tempo, che era innanzitutto un musicista, o Alexander von Humboldt, altro studioso universale, altro amatore della Francia, che, reduce dall'Amazzonia, dedicò a Visconti il suo.libro sulla cordigliera delle Ande e sui monumenti aztechi. Era anche lui innamorato del sapere e quasi ne divenne pazzo. Qui di nuovo vediamo che Visconti vive in un momento a cavallo tra due epoche, prima che il sapere fosse organizzato in discipline drasticamente isolate le une dalle altre. C'è infine una dimensione del sapere di Visconti che non può che stupire un uomo di oggi. Non era solo un scienziato, un esperto. Era anche, nello stesso tempo, un critico, un giudice del buon gusto, del bello, e a questo titolo era l'interlocutore di Canova. Ma cosa era bello secondo Visconti ? Il primo criterio era ciò che è adatto, conveniente. Visconti doveva rispondere a tali domande : una statua di Letizia, madre di Napoleone, che imita une statua di Agrippina, è conveniente o no ? E' conveniente rappresentare Napoleone nudo come si usava nell'antichità? Il secondo criterio era l'imitazione della vita. L'arte era per Visconti ciò che chiama «arte d'imitazione». Questa concezione del bello non esiste più oggi. Come lo dichiarò esplicitamente Paul Klee, l'invenzione della macchina fotografica rese obsoleto l'impresa di imitare la vita. Per giunta, non crediamo più che la bellezza esista solo nell'arte greca. Per Visconti, la rivalutazione dell'arte romana non era altro che mostrare « la grecità evidente di tutti i monumenti italici ». Per ciò, l'arte egizia non esisteva. Era soltanto la testimonianza di una civiltà che Visconti definiva « stravagante », Anche l'arte etrusca per lui non era per niente arte, in quanto « alquanto egizia ». Questo disprezzo per l'Oriente si vede anche quando Visconti approva Lord Elgin per aver spogliato Atene dei marmi del Partenone. Eppure già si udivano delle voci che si rivoltarono contro questo atto di rapina, come Lord Byron, che più tardi avrebbe combattuto per l'indipendenza della Grecia, Anche qui una nuova era incominciava, in cui viviamo ancora oggi. Si scopriva la bellezza dell'Oriente, la poesia della Persia, la saggezza dell'India. Così nasceva quello che il vecchio Goethe chiamava Weltliteratur, letteratura mondiale. Il viso dell'umanesimo cambiava. Non si trattava più di far continuare a vivere la Grecia attraverso Roma, bensì di capire, di apprezzare, di gioire di ciascuna cultura. Ebbene, concludendo, direi che tentare, di vivere questo nuovo umanesimo, senza ascoltare le rozze sirene della politica identitaria che oggi risuonano in entrambi i lati delle Alpi, accettare con coraggio e curiosità la sfida di un mondo più complesso di ciò che si credeva, rimane, mi sembra, il miglior modo di essere fedele all'eredità di Visconti. Vi ringrazio.