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Racconti in breve

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Racconti in breve
Racconti in breve
Harry
La vicenda di Harry, il mendicante sul ponte del Tamigi, è la storia di un successo.
(La sappiamo da un conoscente di Harry, direttore alle vendite di un grosso gruppo
internazionale).
Sopra un ponte del Tamigi, a Londra, c’era un giovane disoccupato (chiamato Harry). Ciò
avveniva durante gli anni della crisi. Harry aveva tentato di tutto, ma inutilmente.
Nessuno aveva lavoro per lui e, per non morire di fame, si era visto costretto a scegliere
l’ultimo espediente e si era messo sul ponte del Tamigi a chiedere l’elemosina.
Un giorno qualcuno gli toccò una spalla. Era un giovane elegante dall’aspetto dell’uomo
d’affari che gli disse: “Io non le darò neppure un penny giovanotto, in cambio le do un
consiglio che vale più dei soldi: Si renda utile!” Senza nemmeno salutarlo, il giovane
elegante proseguì per la sua strada.
Possiamo facilmente immaginare quello che poteva aver pensato il mendicante. “rendermi
utile? Lo vorrei bene, se solo ci riuscissi. Se potessi almeno servire a qualcuno”.
Mentre Harry era ancora preso dai suoi pensieri e meditava sulla portata del “rendersi
utile”, passò sul ponte una vecchietta. Trascinava un carretto carico di cassette. Spesso
si fermava per sistemare quelle che rischiavano di cadere. Proprio in quel momento Harry
ebbe un lampo di genio: “rendermi utile? Non sarebbe questa l’occasione buona? Alla fine
dei conti ho sempre cercato un lavoro, ma non ho mai pensato a rendermi utile. Ho
cercato un impiego per il mio sostentamento.”
Detto fatto, Harry raggiunse la donna, la aiutò a spingere il carretto, saltando una volta a
destra, una volta a sinistra per assicurarsi che le cassette non cadessero.
Poco dopo però, la donna si fermò e si portò dietro al carretto.
“Con le lacrime agli occhi ringrazia, commossa, di tanta premura”. È così che vi
immaginate il seguito della storia? Purtroppo non è questo. Tutt’altro. La vecchia invitò
Harry a lasciarla in pace. Perché?
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Perché la premura disinteressata è forse quello che meno ci aspettiamo dal nostro
prossimo. E ne diffidiamo. È triste, ma vero.
Harry non si rassegnò. Riuscì a tranquillizzare la donna, rassicurandola: “Faccio la sua
stessa strada e vorrei soltanto rendermi utile”. A malincuore la donna si lasciò convincere
a proseguire. Finalmente i due raggiunsero un magazzino dove, con cortese sollecitudine,
Harry aiutò a scaricare le cassette.
Nel magazzino Harry notò che diversi manovali caricavano dei vagoni. Accorgendosi di
uno che faceva fatica a maneggiare una cassa, mise di nuovo in pratica il consiglio di quel
giovane di prima e diede una mano agli altri.
Poco dopo passò un capo squadra e notò un viso nuovo tra i lavoratori: “Non ti abbiamo
chiamato” - gli disse - “Vattene“. Poi vide l’espressione del giovane e, preso da uno
slancio d’altruismo, gli chiese: “Da quando è che aiuti qui? Non siamo poi così ingrati.
Vieni con me alla cassa e ti daremo il compenso che ti spetta. Dopo però smammare. Non
abbiamo lavoro per te”.
Harry ritornò a casa sopra pensiero, meravigliato della recente esperienza. Da tempo non
aveva in tasca tanto denaro. Il principio si era dimostrato valido, almeno per il momento.
Il giorno dopo Harry si destò pieno di intraprendenza e pensò di applicare il nuovo
principio appreso, anche quel giorno. Non gli venne altro in mente che di ritornare in quel
magazzino per vedere se c’era forse, ancora qualche vagone da caricare. Purtroppo non
era così. Nelle settimane seguenti ritornò tutti i giorni al magazzino, sperando di poter dare
una mano almeno per qualche ora. Un giorno il capo operaio, che oramai lo conosceva, lo
avvicinò e gli disse che, essendosi ritirato uno dei lavoratori anziani, se lo desiderava
avrebbe potuto avere un posto. Harry accettò di buon grado ed al nuovo lavoro cercò di
conformarsi applicando il principio appreso: “Renditi comunque e sempre utile”.
Il resto della vicenda ve lo risparmio. Non vi meraviglierà venire a sapere che Harry, il
mendicante sul ponte del Tamigi, è diventato direttore generale di una delle più grandi
imprese di trasporto e stoccaggio di Londra.
La stessa azienda dove era entrato di straforo con l’intenzione di “rendersi utile”.
Con la stessa chiave del “rendersi utile”, si è aperta la porta dell’ufficio di capo squadra,
poi dell’ufficio di capo reparto, di direttore, di direttore generale.
La morale di questa storia ?
Rendiamoci utili, prima che qualcuno ce lo chieda.
Mark Twain ha detto: “Non andare in giro a dire che il mondo ti deve mantenere. Non ti è
debitore di nulla. Esisteva prima di te”.
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Rendersi utile. Certo: è già bene eseguire in modo ineccepibile ciò che ci viene richiesto.
Ma, al di la di questo, sforzarsi in ogni modo e sempre di rendersi utile agli altri significa
scatenare la forza che scioglie gli iceberg, spegne i vulcani e smuove le montagne.
Non credete che sia più alta la possibilità di riuscita di un uomo che si vuole rendere utile
rispetto a quella di uno che pensa solo al suo interesse personale? Sentite questa...
Un ammalato di stomaco andò a farsi visitare da due medici. Tutti e due fecero la stessa
diagnosi e diedero al paziente il medesimo consiglio, ma le diagnosi erano formulate in
modo diverso.
Il medico A: “Non è il caso che stiate in pensiero. Il vostro disturbo allo stomaco può
essere curato con farmaci, oppure eliminato con una piccola operazione. Io penso che voi
propendiate per l’eliminazione del male alla radice e togliersi il pensiero per sempre.
Io vi consiglio l’operazione. In tre settimane sarete guarito e di nuovo a casa e, per quanto
umanamente prevedibile, sarete liberato per sempre dal vostro male”.
Il medico B: “Non è il caso di stare in pensiero. Il vostro disturbo allo stomaco può essere
curato con farmaci, oppure eliminato con una piccola operazione.
Io vi consiglio l’operazione. Inoltre, fra parentesi, avrei un interesse personale alla cosa,
dato che nella nostra clinica ci necessita sempre del tessuto gastrico ammalato, per motivi
di ricerca”.
Credete che vi domanderò ora a quale dei due medici affidereste il vostro mal di stomaco?
No: vorrei ritornare sul concetto del rendersi utili e, se pensate che è ovvio che l’abbiate
sempre pensata così, vi farò i miei complimenti. Non prendetevela però troppo con me se,
nel corso della vostra vita, accerterete che credevate soltanto di pensarla in quel modo.
Quello di rendersi utile è un atteggiamento tutt’altro che ovvio e naturale ed è proprio per
questo che, a chi sa farlo veramente suo ed agire di conseguenza, si aprono prospettive
insospettate.
A chi vi siete resi utili, oggi, coscientemente?
-Felice Futuro-
I chiodi nella palizzata
C'era una volta un ragazzo con un carattere irascibile. Un giorno decise di recarsi
dal saggio del villaggio per chiedere il suo aiuto. “Saggio, aiutami. Non riesco ad avere
degli amici. La gente non ama stare in mia compagnia perché sono spesso critico e
irascibile”.
Il saggio gli disse: ”Prendi questa scatola di chiodi. Pianta un chiodo nella palizzata
ogni volta che ti renderai conto di aver dato un giudizio troppo severo, di aver criticato
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qualcuno ingiustamente, di aver perso le staffe, di aver fatto una battuta troppo sarcastica
o di aver detto qualunque altro tipo di cosa spiacevole verso un'altra persona. Quando
riuscirai a non piantare nemmeno un chiodo torna da me”.
Il giovane annuì e se ne andò. I primi giorni furono un disastro: arrivò a piantare fino
a 37 chiodi. Poi gradualmente il numero diminuì. Il giovane diventava sempre più
consapevole delle sue reazioni e riusciva a controllarle. Scoprì anche che era più facile
mantenere la calma che piantare chiodi nella palizzata.
Finalmente arrivò il giorno in cui il giovane non piantò alcun chiodo. Tornò dal
saggio fiero del suo risultato. “È stato difficile ma ci sono riuscito. Eccoti i chiodi che
restano”. Il saggio gli sorrise. “Bravo” gli disse. Ora sei pronto per la seconda parte. Torna
dalle persone che hai accusato, giudicato o offeso in qualche modo e chiedi scusa in
modo sincero per il tuo comportamento. Togli un chiodo dallo steccato per ognuna delle
volte che lo farai. Quando avrai tolto tutti i chiodi torna da me”.
Il giovane annuì e se ne andò. Questo gli sembrava un compito davvero difficile ma
decise di andare fino in fondo. Dopo diverse settimane il giovane tolse anche l'ultimo
chiodo dalla palizzata.
Ritornò dal saggio e gli porse la scatola dei chiodi con fierezza “Ecco, questi sono
tutti i chiodi che ho tolto dalla palizzata, non ne è rimasto nemmeno uno”.
“Bravo”, disse il saggio, “Ora vieni con me”. Il saggio lo portò davanti alla palizzata e
il giovane fu contento di dimostrare che effettivamente non ci fossero chiodi rimasti. Il
saggio disse “Che cosa vedi ora?”. “Uno steccato con i buchi dei chiodi che ho tolto”.
“Ecco, questo è il punto. La palizzata non tornerà mai come prima. Quando dici delle cose
preso dalla rabbia, esse lasciano una ferita, proprio come questi buchi. Non puoi piantare
un coltello nella carne di un uomo e poi estrarlo. Non ha importanza quante volte dirai “mi
dispiace”, la ferita sarà ancora lì. Anche se hai chiesto scusa ad una persona che hai
ferito, il buco rimane. Le nostre parole restano nel tempo. È molto meglio comunicare con
parole d'amore e di comprensione per poter vedere i frutti nel tempo”.
La fierezza sul viso del giovane si spense rapidamente, il saggio proseguì: “Ecco,
prendi questi semi. Ogni volta che dirai parole d'amore e di comprensione pianta un seme
nel tuo giardino. Non dovrai più tornare da me, ma ricordati di ringraziare Dio quando
potrai godere della compagnia dei tuoi amici all'ombra delle piante che saranno cresciute”.
“Le nostre parole continuano a vivere dopo di noi, nelle azioni che sono generate nelle
persone che ci hanno ascoltato, che abbiamo ispirato. Possono essere fiori o veleno,
siamo noi a deciderlo. Noi stessi siamo il risultato di tante parole che abbiamo sentito e
ascoltato da diverse persone. I nostri valori, le nostre credenze derivano da altre persone
che ce li hanno trasferiti in modo più o meno consapevole. Dentro di noi portiamo la vita
delle persone con cui siamo entrati in contatto”.
Miranda Sorgente
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Il messaggio a Garcia
Nell’anno 1899, durante la guerra ispano-americana, un generale degli Stati Uniti,
Garcia, venne assediato con le sue truppe sull’isola di Cuba.
Garcia fu obbligato a nascondersi nell’interno della giungla. Nessuno sapeva dove.
Non aveva nessun contatto con il mondo esterno. Né lettere, né telegrammi potevano
raggiungerlo, ma il presidente degli Stati Uniti, McKinley, doveva in tutti i modi prendere
rapidamente contatto con lui.
Che fare?
Uno dei collaboratori del Presidente diede un consiglio: “Io conosco un uomo che riuscirà
a trovare Garcia. Il suo nome è Rowan.”
Il presidente fece venire questo Rowan, gli porse una lettera dicendogli: “Consegnate
questo scritto al generale Garcia e portatemi una sua risposta. ” Rowan rispose: “Sì,
signor presidente, sarà fatto!“.
Come Rowan avesse sigillato lo scritto in seta oleata e se lo legasse al petto, come
avesse raggiunto, in barca, dopo quattro notti di nebbia, le coste cubane, scomparendo
nella giungla, come avesse portato a termine la sua missione, sono particolari sui quali
non staremo a dilungarci.
Rowan non fece domande, le risposte se le cercò da sé.
Importante resta per noi il fatto che Rowan, prendendo in consegna la lettera, aveva detto:
“Sì, signor presidente, sarà fatto!”. Questo era tutto! Non aveva fatto domande sciocche:
dov’è Garcia? Come arriverò sull’isola? Dovrò affittare o comperare una barca? Come farò
a ricercare un uomo nella giungla, come attraverserò le linee nemiche senza farmi
scoprire? Da chi riceverò i soldi per pagare il viaggio?
McKinley gli aveva dato un incarico e lo lasciava rispondere a tutte le eventuali domande
che il caso gli avrebbe sottoposto durante la sua missione. McKinley sapeva
perfettamente che non era possibile prevedere tutte le situazioni.
Questa vicenda dall’aspetto tanto ovvio e comune, è stata pubblicata anni fa in una rivista
con il commento che riassumiamo più avanti.
Fino ad oggi “Il messaggio a Garcia” è stato tradotto in quasi tutte le lingue del mondo ed
è stato stampato in più di 40 milioni di copie.
Ed ecco il commento.
La figura di Rowan dovrebbe essere molto più nota; dovrebbe essere messa, come
monumento, in molte università e scuole. I nostri giovani non hanno bisogno di scienza
attinta dai libri, di cognizioni su ogni materia. Quello che necessita loro è acciaio nella
colonna vertebrale e midollo nelle ossa; è quella forza di carattere che permette loro di
restare fedeli al loro compito, che li pone in grado di concentrare le proprie energie, di
affrontare gli eventi, di trasmettere il messaggio a Garcia.
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Chi si impegna a cimentarsi in un’impresa qualsiasi e che per questo necessita del lavoro
delle mani altrui si spaventerà sempre constatando l’ottusità dell’uomo medio, la sua
incapacità o malavoglia a concentrarsi su qualcosa e portarlo a termine.
Indifferenza imperdonabile, negligenza, sbadataggine e scarso rendimento sono all’ordine
del giorno, tanto che, spesso, l’impresa è destinata a fallire.
Volete che ve lo dimostri con un esempio?
Siete seduti alla vostra scrivania con sei impiegati a portata di voce.
Chiamate chi vi è seduto più vicino e gli dite: “Per favore consulti un'enciclopedia, e mi
faccia una breve relazione sulla vita del Correggio”.
Il vostro uomo risponderà: “Sissignore!” e si metterà subito al lavoro? Certamente no! Vi
guarderà stupefatto e vi porrà senz’altro varie domande di questo tipo: “Chi è Correggio?
Dove la trovo l’enciclopedia? Quale enciclopedia? Fa parte dei miei compiti? Non si
tratterà di Bismarck? Non potrebbe farlo il Carletto? Non sarebbe meglio che le portassi
l’enciclopedia in modo che lei possa cercarsi personalmente le notizie? A cosa le serve?”.
Se anche voi rispondeste pazientemente a tutte queste domande e gli spiegaste
dettagliatamente dove trovare l’informazione e a quale scopo vi serve, scommetto uno
contro dieci che andrebbe diritto filato a chiedere aiuto al collega più vicino e, come
conclusione, verrebbe a dirvi che Correggio non esiste.
Ho perso la mia scommessa?
Se siete furbi non vi prenderete neppure la briga di spiegare al vostro “assistente” che
nell’indice Correggio si trova sotto la lettera “C” e non “K”; anzi, sorridendo dolcemente gli
direte: “Già fatto”, e andrete a cercarvi da solo quello che vi serve.
Questa incapacità ad agire autonomamente, questa ottusità di spirito, questo non volersi
dare da fare, è ciò che allontana nel tempo il vero socialismo. Gente che non si vuole dare
da fare neppure per il proprio interesse come potrà agire per gli altri? Cosa faremo quando
i frutti del loro lavoro dovranno andare a vantaggio di tutti?
“Guardi il mio contabile”, mi ha detto un giorno il direttore di una grossa impresa.
“Sì, e allora?“.
“Indubbiamente, quest’uomo è un abile contabile. Immagini, però, che io gli affidi una
commissione da fare in piazza. Lei pensa che la eseguirebbe in modo soddisfacente?
Forse, o forse si fermerebbe al bar e, giunto in piazza non si ricorderebbe neppure il
motivo del suo incarico”.
Chi potrebbe affidare, a quest’uomo, un messaggio per Garcia?
Io conosco un uomo sotto molti aspetti veramente brillante, ma che non avrebbe la
capacità di dirigere una propria impresa. Anche come impiegato vale poco, perché vive
con il sospetto che il suo padrone lo opprima o che nutra l’intenzione di opprimerlo. Non sa
impartire ordini, né riceverli. Se si dovesse affidargli il messaggio per Garcia, molto
probabilmente risponderebbe: “Lo porti lei!“.
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Perciò, in un mondo sempre più difficile, voglio spezzare una lancia in favore dell’uomo
capace che si accanisce contro gli ostacoli e dirige gli altri.
Nella mia vita ho fatto lavori umili e mi sono guadagnato il pane con difficoltà, ma sono
stato anche a capo di operai. Sì, io conosco le due facce della medaglia e posso affermare
che in tutti e due i casi c’è da dire qualche cosa; tra l’altro anche questo: non
necessariamente ogni datore di lavoro è altezzoso e avido di guadagno, così come non è
detto che ogni povero debba essere virtuoso. Il mio amore e rispetto va a coloro che
svolgono il proprio lavoro, indipendentemente che il capo sia presente o no; a coloro che
prendono in consegna il messaggio a Garcia senza formulare sciocche domande e
recondite intenzioni di gettare la lettera nel più vicino tombino o, sa Dio che altro ancora,
ma tutto per non doverla recapitare.
L’uomo al quale penso non viene licenziato, né ha bisogno di mercanteggiare e, men che
meno, di scioperare per un aumento di stipendio. Ciò che egli esige, gli viene concesso. Di
lui si ha bisogno in ogni regione, in ogni città, in ogni paese, in ogni ufficio, in negozi,
aziende e fabbriche. Il mondo lo cerca, lo chiama, ha bisogno urgentemente di lui. È
l’uomo che porterà il messaggio a Garcia.
Riconoscete nella vostra attività un impegno personale o vi limitate ad eseguire?
Non so quale significato abbia per voi questa storia, ed il commento della rivista che l’ha
pubblicata, che è riportato qui. È una storia vecchia, antiquata? O ci vuole forse dire
questo: anche oggigiorno, chi vuole fare cose eccezionali deve essere pronto ad assolvere
il suo incarico con ostinazione, nonostante difficoltà, contrarietà, insuccessi, deve
assolvere la propria missione.
Cosa vuol dire?
Darsi da fare da soli.
Significa essere pronti a ragionare da soli, decidere da soli, agire da soli, assumersi la
responsabilità di abbattere ogni ostacolo che incontriamo lungo il nostro cammino.
Jerry
Era sempre di buon umore ed aveva sempre qualcosa di positivo da dire. Quando
qualcuno gli domandava come stava, rispondeva: "Se stessi meglio, scoppierei!".
Era un manager unico, con un gruppo di camerieri che lo seguivano ogni volta che
prendeva la gestione di un nuovo ristorante. Il motivo per cui i camerieri lo seguivano era
che Jerry aveva un grande atteggiamento positivo. Era un motivatore naturale: se un
dipendente aveva la luna storta, Jerry era li a spiegargli come guardare al lato positivo
della situazione.
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Trovavo il suo stile molto strano e quindi un giorno gli dissi "Adesso basta!
Spiegami come fai ad essere sempre così positivo, qualunque cosa succeda!" Lui mi
rispose: "Vedi, io sono così: quando mi sveglio la mattina mi dico: “Oggi posso scegliere di
essere di buon umore o di cattivo umore” e scelgo di essere di buon umore; tutti i giorni mi
capita qualcosa di spiacevole, posso fare la vittima oppure imparare qualcosa dai
problemi: io scelgo di imparare.
Ogni giorno qualcuno viene da me a lamentarsi, io posso scegliere di subire
passivamente le sue lamentele o di trovare il lato positivo della cosa: io scelgo sempre il
lato positivo della vita”. "Sì, va bé, dissi io, "ma non è sempre cosi facile!". "Sì invece,"
disse Jerry, "la vita è tutta fatta di scelte. A parte le necessità più o meno fisiologiche, in
ogni situazione c'è una scelta da fare.
Sei tu a scegliere come reagire in tutte le situazioni, a decidere come la gente può
influire sul tuo umore. Sei tu che scegli se essere di buon umore o di cattivo umore e
quindi, in definitiva, come vivere la tua vita".
Per molto tempo dopo quell'incontro ripensai a quello che Jerry aveva detto. Poi un
giorno lasciai il business della ristorazione e mi dedicai ad un'altra attività in proprio; mi
persi di vista con Jerry. Spesso ripensai a lui quando mi trovavo nella situazione di dover e
poter scegliere nella vita, invece che subire la scelta altrui.
Diversi anni dopo, venni a sapere che Jerry aveva commesso un errore
imperdonabile per un gestore di ristorante: una mattina aveva lasciato aperta la porta
posteriore del ristorante, ed era stato attaccato da tre rapinatori armati; mentre cercava di
aprire la cassaforte, le sue mani sudate e tremanti dalla paura non riuscivano a trovare la
combinazione ed i rapinatori, presi dal panico, gli avevano sparato ferendolo gravemente.
Fortunatamente Jerry era stato soccorso rapidamente e portato immediatamente al
pronto soccorso. Dopo 18 ore di intervento chirurgico ed alcune settimane di
osservazione, Jerry era stato dimesso dall'ospedale con frammenti di pallottole ancora nel
suo corpo.
Incontrai Jerry circa sei mesi dopo l'incidente, e quando gli chiesi come andava mi
disse: "Se stessi meglio, scoppierei! Vuoi dare un'occhiata alle cicatrici?". Declinai l'invito,
ma gli chiesi che cosa gli era passato per la testa durante la terribile esperienza.
"La prima cosa che pensai fu che avrei dovuto chiudere la porta posteriore del
ristorante," mi disse Jerry, "poi, quando ero già stato colpito e mi trovavo per terra, mi
ricordai che avevo due scelte: potevo scegliere di vivere o di morire". "Ma non avevi
paura? Non sei svenuto?".
Jerry continuò: "Gli infermieri furono bravissimi. Continuavano a dirmi che andava
tutto bene. Fu quando mi portarono sulla barella in sala operatoria e vidi le espressioni
sulle facce dei dottori e degli assistenti che mi spaventai veramente; potevo leggere nei
loro occhi, dovevo assolutamente fare qualcosa".
"E cosa hai fatto?" gli domandai.
"C'era questa infermiera, veramente grassa, che continuava a farmi domande, e mi
chiese se ero allergico a qualche cosa". "Io..." risposi a quel punto, mentre tutti i dottori e
le assistenti si fermarono ad aspettare che finissi la mia risposta, "Io", presi un respiro
profondo e con tutte le mie forze le gridai: "SONO ALLERGICO ALLE PALLOTTOLE"!.
Mentre ancora ridevano aggiunsi "Voglio vivere, operatemi come se fossi un vivo, non
come fossi già morto".
Jerry è sopravvissuto grazie alle capacità dei chirurghi, ma anche grazie al suo
atteggiamento positivo.
Ho imparato da lui che tutti i giorni abbiamo la scelta di vivere pienamente.
Un atteggiamento positivo, alla fine, vale più di tutto il resto.
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La gara dei castelli
C’era una volta, anzi c’era ancor prima, una bella principessa che si chiamava Asa
e che viveva nei paesi del nord, nel regno di Hrolf.
Asa aveva molti pretendenti, ma di gran lunga i più ostinati erano due nobili principi:
Agnay e Volund.
Non sapendo chi scegliere, Asa si consigliò col padre. “Sono tutti e due principi”, disse,
“tutti e due bravi cavalieri, e anche belli. Come faccio a scegliere?”.
Allora, re Hrolf convocò a corte i due principi. Disse loro: “A guardia della frontiera
settentrionale e di quella meridionale del mio regno ci sono due colline identiche. Desidero
che ciascuno di voi prenda una collina e ci costruisca in cima un castello degno di una
principessa. Quello che finirà per primo sposerà la principessa Asa. Ma attenti, c’è una
condizione: dovete terminare il vostro castello senza spendere più di questo”. E così
dicendo il re diede a ciascuno dei principi mille monete d’oro: quasi una fortuna per quei
tempi. I due principi si misero subito al lavoro, ma con criteri molto diversi.
Il principe Agnay pensò: ”Essendo una gara, la rapidità è la cosa più importante.
Prenderò molti manovali, che dovranno accontentarsi di lavorare per un basso salario.
Useremo pietra locale per comodità e perché costa poco, anche se è un pò difficile da
lavorare. Non perderemo tempo a costruire vere e proprie impalcature, dormiremo
all’aperto e mangeremo le bacche selvatiche che crescono sulla collina”.
Il principe Volund invece la pensava diversamente: ”Costruire un castello è un
lavoro lungo, faticoso e anche pericoloso. Prenderò soltanto gli operai che potrò pagare
bene. Porteremo la pietra da oltre le montagne perché è di qualità più facile da lavorare.
Taglieremo i pini delle foreste per fare le impalcature e per costruire gli alloggi degli operai,
prenderemo anche dei cacciatori che ci riforniscano di cervi e cinghiali per mangiare.
Inoltre tutti gli uomini che lavoreranno alla costruzione del castello ne saranno in parte
proprietari, questo vuol dire che avranno diritto di rifugiarvisi con la famiglia in tempi
difficili”.
Alla fine della prima estate, re Hrolf andò a vedere come procedevano i lavori. Il
castello di Agnay era già mezzo costruito mentre quello del povero Volund era appena
cominciato. La gente rideva. “Sarà senz’altro un bellissimo castello, quando sarà finito”
diceva, beffandosi di Volund. “Peccato che non ci sarà la principessa ad abitarci”. Re Hrolf
non ne era altrettanto sicuro.
Venne l’inverno, e come sapete, l’inverno è molto rigido nei paesi del nord. Con le
mani gelate la pietra di Agnay era ancora più difficile da lavorare. Gli incidenti per la
mancanza di impalcature si triplicarono. Le bacche sparirono dai fianchi della collina, e
dove una volta c’era l’erba su cui dormire ora c’era la neve.
Le lagnanze e i mugugni fatti in sordina diventarono poi aperta protesta, e uno dopo
l’altro gli uomini di Agnay posarono gli attrezzi di lavoro, se così si potevano chiamare, e si
chiesero: “Perché dobbiamo lavorare in queste condizioni?”. Gli operai di Volund, invece,
sapevano che una volta finito il castello avrebbero avuto sicurezza per sé e per le loro
famiglie per tutta la vita. Andarono perciò da Volund e gli dissero: “Visto che siamo così
indietro, ci siamo guardati intorno e abbiamo scoperto vari modi per essere più efficienti”.
Fu così che, mentre Agnay cadde nella confusione più completa, Volund acquisì un
vantaggio dopo l’altro. E, come avrete ormai indovinato, un’estate ed un inverno più tardi
Volund non solamente fu il primo a finire, ma aveva costruito il castello più bello.
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Tutti dissero che il matrimonio fu un vero splendore. Re Hrolf prese in disparte
Volund e gli disse: “Ho trovato più che un figlio. La gente di questo paese del nord non
dimenticherà mai la lezione che ci hai dato”.
Christopher Martin
Le tre domande
Un giorno, l'imperatore di un paese lontano pensò che se avesse avuto la risposta a tre
specifiche domande, avrebbe avuto la chiave per risolvere qualunque problema.
Le tre domande erano le seguenti:
● Qual é il momento migliore per intraprendere qualcosa?
● Quali sono le persone più importanti con cui collaborare?
● Qual é la cosa che più conta sopra tutte?
L'imperatore emanò un bando per tutto il regno annunciando che chi avesse saputo
rispondere alle tre domande avrebbe ricevuto una lauta ricompensa.
Subito si presentarono a corte numerosi aspiranti, ciascuno con la propria risposta.
Riguardo alla prima domanda, un tale gli consigliò di preparare un piano di lavoro a cui
attenersi rigorosamente, specificando l'ora, il giorno, il mese e l'anno da riservare a
ciascuna attività. Soltanto allora avrebbe potuto sperare di fare ogni cosa al momento
giusto.
Un altro replicò che era impossibile stabilirlo in anticipo; per sapere cosa fare e quando
farlo, l'imperatore doveva rinunciare a ogni futile svago e seguire attentamente il corso
degli eventi.
Qualcuno era convinto che l'imperatore non poteva essere tanto previdente e competente
da decidere da solo quando intraprendere ogni singola attività; la cosa migliore era istituire
un Consiglio di esperti e rimettersi al loro parere.
Qualcun altro disse che certe questioni richiedono una decisione immediata e non
lasciano tempo alle consultazioni; se però voleva conoscere in anticipo l'avvenire, avrebbe
fatto bene a rivolgersi ai maghi e agli indovini.
Anche alla seconda domanda si rispose nel modi più disparati.
Uno disse che l'imperatore doveva riporre tutta la sua fiducia negli amministratori, un altro
gli consigliò di affidarsi al clero e ai monaci; c'era chi gli raccomandava i medici e chi si
pronunciava in favore dei soldati.
La terza domanda suscitò di nuovo una varietà di pareri. Alcuni dissero che l'attività più
importante era la scienza. Altri insistevano sulla religione. Altri ancora affermavano che la
cosa più importante era l'arte militare.
L'imperatore non fu soddisfatto da nessuna delle risposte, e la ricompensa non venne
assegnata.
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Dopo parecchie notti di riflessione, l'imperatore decise di andare a trovare un eremita che
viveva sulle montagne e che aveva fama di essere un illuminato. Voleva incontrarlo per
rivolgere a lui le tre domande, pur sapendo che l'eremita non lasciava mai le montagne e
riceveva solo la povera gente, rifiutandosi di trattare con i ricchi e i potenti. Perciò, rivestiti i
panni di un semplice contadino, ordinò alla sua scorta di attenderlo ai piedi del monte e si
arrampicò da solo su per la china in cerca dell'eremita.
Giunto alla dimora del sant'uomo, l'imperatore lo trovò che vangava l'orto nei pressi della
sua capanna.
Alla vista dello sconosciuto, l'eremita fece un cenno di saluto col capo senza smettere di
vangare. La fatica gli si leggeva in volto. Era vecchio, e ogni volta che affondava la vanga
per smuovere una zolla, emetteva un lamento. L'imperatore gli si avvicinò e disse: "Sono
venuto per chiederti di rispondere a tre domande: Qual é il momento migliore per
intraprendere qualcosa? Quali sono le persone più importanti con cui collaborare? Qual é
la cosa che più conta, sopra tutte?".
L'eremita ascoltò attentamente, ma si limitò a dargli un'amichevole pacca sulla spalla e
riprese a vangare.
L'imperatore disse: "Devi essere stanco. Su, lascia che ti dia una mano''. L'eremita lo
ringraziò, gli diede la vanga e si sedette per terra a riposare.
Dopo aver scavato due solchi, l'imperatore si fermò e si rivolse all'eremita per ripetergli le
sue tre domande. Di nuovo quello non rispose, ma si alzò e disse, indicando la vanga:
"Perché non ti riposi? Ora ricomincio io''. Ma l'imperatore continuò a vangare. Passa
un'ora, ne passano due.
Finalmente il sole comincia a calare dietro le montagne. L'imperatore mise giù la vanga e
disse all'eremita: ''Sono venuto per rivolgerti tre domande, ma se non sai darmi la risposta
ti prego di dirmelo, così me ne ritorno a casa mia''.
L'eremita alzò la testa e domandò all'imperatore: "Non senti qualcuno che corre verso di
noi?". L'imperatore si voltò. Entrambi videro sbucare dal folto degli alberi un uomo con una
lunga barba bianca che correva a perdifiato premendosi le mani insanguinate sullo
stomaco. L'uomo puntò verso l'imperatore, prima di accasciarsi al suolo con un gemito,
privo di sensi.
Rimossi gli indumenti, videro che era stato ferito gravemente. L'imperatore pulì la ferita e
la fasciò servendosi della propria camicia che però in pochi istanti fu completamente
intrisa di sangue. Allora la sciacquò e rifece la fasciatura più volte, finché l'emorragia non
si fu fermata.
Alla fine il ferito riprese i sensi e chiese da bere. L'imperatore corse al fiume e ritornò con
una brocca d'acqua fresca. Nel frattempo, il sole era tramontato e l'aria notturna
cominciava a farsi fredda. L'eremita aiutò l'imperatore a trasportare il ferito nella capanna
e ad adagiarlo sul proprio letto. L'uomo chiuse gli occhi e restò immobile. L'imperatore era
sfinito dalla lunga arrampicata e dal lavoro nell'orto. Si appoggiò al vano della porta e si
addormentò.
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Al suo risveglio, il sole era già alto. Per un attimo dimenticò dov'era e cos'era venuto a
fare. Gettò un'occhiata al letto e vide il ferito che si guardava attorno smarrito.
Alla vista dell'imperatore, si mise a fissarlo intensamente e gli disse in un sussurro: "Vi
prego, perdonatemi". "Ma di che cosa devo perdonarti?", rispose l'imperatore. “Voi non mi
conoscete, maestà, ma io vi conosco. Ero vostro nemico mortale e avevo giurato di
vendicarmi perché nell'ultima guerra uccideste mio fratello e vi impossessaste dei miei
beni. Quando seppi che andavate da solo sulle montagne in cerca dell'eremita, decisi di
tendervi un agguato sulla via del ritorno e uccidervi. Ma dopo molte ore di attesa non vi
eravate ancora fatto vivo, perciò decisi di lasciare il mio nascondiglio per venirvi a cercare.
Ma invece di trovare voi mi sono imbattuto nella scorta, che mi ha riconosciuto e mi ha
ferito. Per fortuna, sono riuscito a fuggire e ad arrivare fin qui. Se non vi avessi incontrato,
a quest'ora sarei morto certamente. Volevo uccidervi, e invece mi avete salvato la vita! La
mia vergogna e la mia riconoscenza sono indicibili. Se vivo, giuro di servirvi per il resto dei
miei giorni e di imporre ai miei figli e nipoti di fare altrettanto. Vi prego, concedetemi il
vostro perdono''.
L'imperatore si rallegrò infinitamente dell'inattesa riconciliazione con un uomo che gli era
stato nemico. Non solo lo perdonò, ma promise di restituirgli i beni e mandargli il medico e
i servitori di corte per accudirlo finché non fosse completamente guarito. Ordinò alla sua
scorta di riaccompagnarlo a casa, poi andò in cerca dell'eremita.
Prima di ritornare a palazzo, voleva riproporgli le tre domande per l'ultima volta. Lo trovò
che seminava nel terreno dove il giorno prima avevano vangato.
L'eremita si alzò e guardò l'imperatore. "Ma le tue domande hanno già avuto risposta".
"Come sarebbe?", chiese l'imperatore, perplesso.
"Se ieri non avessi avuto pietà della mia vecchiaia e non mi avessi aiutato a scavare
questi solchi, saresti stato aggredito da quell'uomo sulla via del ritorno. Allora ti saresti
pentito amaramente di non essere rimasto con me. Perciò, il momento più importante era
quello in cui scavavi i solchi, la persona più importante ero io, e la cosa più importante da
fare era aiutarmi.
Più tardi, quando è arrivato il ferito, il momento più importante era quello in cui gli hai
medicato la ferita, perché se tu non lo avessi curato sarebbe morto e avresti perso
l'occasione di riconciliarti con lui. Per lo stesso motivo, la persona più importante era lui e
la cosa più importante da fare era medicare la sua ferita.
Ricorda che c'è un unico momento importante: questo.
Il presente è il solo momento di cui siamo padroni. La persona più importante è sempre
quella con cui siamo, quella che ci sta di fronte, perché chi può dire se in futuro avremo a
che fare con altre persone? La cosa che più conta sopra tutte è rendere felice la persona
che ti sta accanto, perché solo questo è lo scopo della vita''.
Lev Tolstoj
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Qual è la morale?
Un giorno, il giovane Artù fu catturato ed imprigionato dal sovrano di un regno vicino.
Quel sovrano avrebbe potuto ucciderlo, ma fu mosso a compassione dalla gioia di vivere
giovanile di Artù.
Così gli offrì la libertà, a patto che egli avesse risposto ad un quesito molto difficile.
Artù avrebbe avuto a disposizione un anno per trovare la risposta, e se dopo un anno
ancora non ne avesse avuta una, sarebbe stato ucciso.
Il quesito era: "Cosa vogliono veramente le donne?".
Un quesito simile avrebbe sicuramente lasciato perplesso anche il più saggio fra gli
uomini, e per il giovane Artù sembrava proprio una sfida impossibile. Comunque, dato che
in ogni caso era meglio della morte, Artù accettò la proposta del sovrano di trovare una
risposta entro un anno, e dunque fece ritorno al suo regno.
Una volta giunto, egli iniziò ad interrogare tutti: la principessa, le prostitute, i sacerdoti, i
saggi, le damigelle di corte. Per farla breve, parlò praticamente con chiunque, ma nessuno
seppe dargli una risposta soddisfacente. Ciò che la maggior parte della gente gli suggeriva
era di consultare la vecchia strega, in quanto solo lei avrebbe potuto conoscere la risposta,
ma il prezzo sarebbe stato sicuramente caro, dato che la strega era famosa in tutto il
regno per i compensi esorbitanti che chiedeva per i suoi consulti.
Il tempo passò, e giunse l'ultimo giorno dell'anno prestabilito, allorquando Artù non ebbe
altra scelta che andare a parlare con la vecchia strega. Essa accettò di rispondere alla
domanda di Artù, ma solo a patto che egli avesse accettato di accordarle la ricompensa da
lei richiesta: la mano di Gawain, il più nobile dei Cavalieri della Tavola Rotonda, nonchè
migliore amico di Artù!
Il giovane Artù provò orrore a quella prospettiva: la strega aveva una gobba ad uncino, era
terribilmente orrenda, aveva un solo dente, puzzava di acqua di fogna e spesso faceva
anche dei rumori osceni!
Non aveva mai incontrato una creatura tanto ripugnante: si rifiutò di accettare di pagare
quel prezzo, e condannare il suo migliore amico a sobbarcarsi un fardello simile!
Gawain però, non appena seppe della proposta, volle parlare ad Artù; gli disse che nessun
sacrificio era troppo grande per salvare la vita di Artù e la Tavola Rotonda, e che quindi
avrebbe accettato di sposare la strega di buon grado.
Pertanto, il loro matrimonio fu proclamato, e la strega finalmente rispose alla domanda: ciò
che una donna vuole veramente è essere padrona della propria vita.
Tutti concordarono sul fatto che dalla bocca della strega era uscita senz'altro una grande
verità, e che sicuramente a quel punto la vita di Artù sarebbe stata risparmiata. E così
andò. Il sovrano del regno vicino risparmiò la vita ad Artù, e gli garantì piena libertà.
Ma che razza di matrimonio che ebbero Gawain e la strega!
Artù si sentiva lacerato fra sollievo ed angoscia. Gawain si comportò come sempre, gentile
e cortese.
La strega invece sfoderò le sue maniere peggiori: mangiava con le mani, ruttava e petava,
mettendo tutti a disagio.
Si avvicinava la prima notte di nozze. Gawain si preparava a trascorrere una nottata
orribile, ma alla fine prese il coraggio a due mani, entrò nella camera da letto... e che razza
di vista lo attendeva!
Davanti a lui, discinta sul talamo nuziale, giaceva semplicemente la più bella donna che
avesse mai visto Gawain rimase impietrito. Non appena ritrovò l'uso della parola (il che
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accadde dopo diversi minuti) chiese alla strega cosa le fosse accaduto. La strega rispose
che egli era stato talmente galante con lei quando si trovava nella sua forma repellente
che aveva deciso di mostrarglisi nel suo altro aspetto, e che per la metà del tempo
sarebbe rimasta così, mentre per l'altra metà sarebbe tornata la vecchiaccia orribile di
prima... poi, la strega chiese a Gawain quale dei due aspetti avrebbe voluto che ella
assumesse di giorno, e quale di notte.
Che scelta crudele! Gawain iniziò a pensare all'alternativa che gli si prospettava: una
donna meravigliosa al suo fianco durante il giorno, quando era con i suoi amici, ed una
stregaccia orripilante la notte?
O forse la compagnia della stregaccia di giorno e una fanciulla incantevole di notte con cui
dividere i momenti di intimità?
Voi cosa fareste? La scelta di Gawain è distante solo un paio di righe, ma non leggete
finchè non avrete fatto la vostra scelta!
Il nobile Gawain disse alla strega che avrebbe lasciato a lei la possibilità di decidere per se
stessa.
Sentendo ciò la strega gli sorrise e gli annunciò che sarebbe rimasta bellissima per tutto il
tempo, proprio perche Gawain l'aveva rispettata e l'aveva lasciata essere padrona di se
stessa!
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