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Concorrenza e Aiuti di Stato Appunti MdL 2014_2015

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Concorrenza e Aiuti di Stato Appunti MdL 2014_2015
Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
CONCORRENZA e AIUTI DI STATO
La disciplina diretta della concorrenza nel Trattato UE
La sana concorrenza è sempre stata considerata al tempo stesso uno degli obiettivi primari e
uno strumento funzionale alla creazione di un mercato unico che offra condizioni analoghe a quelle
di un mercato interno. Con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona1, però, i riferimenti alla
concorrenza non si ritrovano più nei primi articoli del Trattato UE. Infatti il nuovo art. 3 TUE
prevede che “l’Unione instaura un mercato interno”, abbandonando l’esplicito riferimento
contenuto nel progetto del 2004, e ripreso dall’art. 3 TCE, secondo cui la stessa azione della
Comunità dovesse considerarsi rivolta alla creazione di un regime inteso a garantire che la
concorrenza non sia falsata nel mercato interno. Con tale modifica, quindi, si è inteso chiarire come
la concorrenza debba essere considerata un mezzo per un fine preciso, l’instaurazione del mercato
interno, e non un fine in sé stesso.
La concorrenza rimane in ogni caso uno dei principali strumenti funzionali alla creazione del
mercato interno e di uno sviluppo sostenibile, basato su una crescita economica equilibrata, la
stabilità dei prezzi ed un’economia “sociale” di mercato (art. 3 TUE). A questi fini il Trattato ha
previsto alcune norme destinate ed applicabili direttamente alle imprese private [artt. 101-105
TFUE (vecchi artt. 81-85 TCE)], ed altre norme applicabili solo nei confronti degli Stati membri e
destinate alle imprese pubbliche [art. 106 TFUE (art. 86 TCE)] o alla regolamentazione degli aiuti
di Stato alle imprese [artt. 107-108 TFUE (art. 87-89 TCE)].
L’art. 101 TFUE (81 TCE) dedicato alle intese fra imprese e l’art. 102 TFUE (82 TCE)
sull’abuso di posizione dominante sono norme intese a reprimere possibili comportamenti delle
imprese che possano ostacolare, restringere o falsare la concorrenza all’interno del mercato unico.
Esse sono provviste di effetto diretto (dal 1 maggio 2004 per quanto riguarda l’art. 101.3), con la
conseguenza che sono azionabili dal singolo dinanzi al giudice nazionale. Sono inoltre applicabili
cumulativamente. Pur se in linea di principio gli artt. 101 e 102 TFUE (81 e 82 TCE) riguardano
solo le imprese senza investire direttamente le legislazioni nazionali, la giurisprudenza della CGUE
ha peraltro statuito che gli artt. 81 e 82 siano indirettamente applicabili anche nei confronti degli
Stati: dalla lettura congiunta degli artt. 3 lett. g e 81 TCE, infatti, deriva l’obbligo per gli Stati
membri di non adottare misure che rendano inefficaci le regole di concorrenza, come imporre,
agevolare o rafforzare un accordo vietato dall’art. 101 TFUE (81 TCE). Il regolamento 1/2003,
applicabile dal 1 maggio 2004, ha sostituito il precedente regolamento del 1962 introducendo
innovazioni di un certo rilievo, come l’applicazione dell’art. 101.3 anche da parte dei giudici
nazionali e non più dalla sola Commissione.
L’art. 106 TFUE (86 TCE), impedendo agli Stati di emanare o mantenere norme in contrasto
con il Trattato, mira a rendere effettive le regole in materia di concorrenza anche alle imprese
pubbliche ed a quelle a cui gli Stati riconoscono diritti speciali od esclusivi. In questo senso la
giurisprudenza della CGUE è costante nel ritenere che l’esistenza di diritti speciali od esclusivi non
sia di per sé contraria alla norma, lo diventa quando le misure adottate pregiudichino l’effetto utile
dell’art. 106. L’art. 106.2 consente una deroga al divieto generale previsto dall’art. 106.1 in
relazione a particolari esigenze dello Stato. La concessione e il mantenimento di diritti speciali ed
esclusivi sono cioè leciti solo rispetto ad imprese che svolgono un ruolo di interesse generale e solo
nella stretta misura necessaria alla realizzazione dei compiti loro affidati (in questo senso è stato
1
In vigore dal 1° dicembre 2009 il Trattato di Lisbona, oltre a diversi protocolli e dichiarazioni, consta di due Trattati: il
Trattato sull’Unione Europea (TUE) e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), funzionale al primo,
che hanno assorbito il Trattato che istituisce la comunità europea (TCE), provvedendo a riformulare la numerazione
degli articoli. La riforma ha lasciato in vita il Trattato CEEA, pur con alcune modifiche.
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
considerato conforme al diritto comunitario il monopolio legale del servizio postale ordinario).
Anche l’art. 106 è una norma dotata di effetto diretto.
Le disposizioni sugli aiuti di Stato, contenute negli artt. artt. 107-109 TFUE (87-89 TCE),
sono dirette ad evitare che il sostegno finanziario pubblico alle imprese alteri la competizione nel
mercato unico, attraverso un divieto generalizzato degli aiuti di Stato alle imprese salvo le deroghe
esplicitamente previste dal Trattato per gli aiuti che siano dichiarati preventivamente compatibili
con il mercato comune.
Sfera di applicazione della disciplina sulla concorrenza
La sfera di applicazione materiale delle norme sulla concorrenza si estende a tutte le
attività economicamente rilevanti che non vi siano espressamente sottratte.
La CGUE ha avuto modo di affermare che vi rientrano le attività di produzione di beni, quelle di
prestazioni di servizi – compreso il settore bancario e quello assicurativo. Il settore dei trasporti. Il
settore carbosiderurgico dopo la scadenza del trattato CECA avvenuta il 23 luglio 2002.
Possono non rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. art. 101 TFUE (81 TCE) gli accordi
collettivi di lavoro stipulati in vista di obiettivi socialmente rilevanti, ai sensi di alcune decisioni
della CGUE che ha sostanzialmente affermato la pari valenza tra politica della concorrenza e della
politica sociale (Albany C-67/96 per fondo pensione complementare; Van der Woude C-222/98 per
assicurazione per spese sanitarie).
Eccezioni sono previste anche per il settore agricolo, sottoposto alla disciplina specifica di cui
all’art. art. 42 TFUE (36 TCE). In questo settore le regole sulla concorrenza sono applicabili
unicamente nella misura determinata dal Consiglio e senza pregiudizio per il raggiungimento degli
obiettivi della politica agricola comune. Diversi regolamenti hanno previsto per il settore agricolo
regole particolari.
È infine sottratto alle regole di concorrenza il settore della difesa e della sicurezza nazionale.
Per quel che riguarda l’ambito di applicazione spaziale è necessario innanzitutto
sottolineare che un presupposto necessario è il pregiudizio al commercio intracomunitario. Secondo
la giurisprudenza della CGUE perché sia applicabile il diritto comunitario deve sussistere in base ad
elementi oggettivi la ragionevole probabilità di un’influenza diretta o indiretta, attuale o potenziale
sulle correnti degli scambi tra almeno due Stati membri. Accordi o comportamenti anticoncorrenziali che non hanno effetto sugli scambi possono essere esaminati solo sulla base delle
normative nazionali.
Dal punto di vista territoriale il mercato geografico che rileva ai fini di un determinato
comportamento idoneo ad incidere sulle norme anticoncorrenziali è costituito da una parte
sostanziale del mercato comune (così è stato ritenuto parte rilevante del mercato unico anche un
porto o un aeroporto). Le regole sulla concorrenza sono cioè applicabili se il comportamento in
considerazione ha un determinato “effetto” all’interno del mercato unico (Gencor Ltd, causa T102/96). Ciò significa che le regole di concorrenza sono applicabili ad imprese stabilite in Stati terzi
se il comportamento prodotto ha determinati effetti sul territorio comunitario e non si applicano ad
imprese comunitarie che hanno sede in territorio comunitario se il comportamento produce effetti
solo in paesi terzi e senza ripercussioni sul mercato unico.
Infine, la definizione di mercato rilevante costituisce uno strumento per individuare e definire
l’ambito nel quale le imprese sono in concorrenza tra loro e stabilisce il quadro entro il quale la
Commissione mette in atto la politica di concorrenza e valuta l’esistenza di una posizione
dominante. In generale un mercato del prodotto rilevante comprende tutti i prodotti e/o servizi che
sono considerati interscambiabili o sostituibili in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro
prezzi e dell’uso al quale sono destinati.
LA DISCIPLINA APPLICABILE ALLE IMPRESE
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Appunti di Diritto Comunitario
La nozione di “impresa” ai sensi del diritto comunitario
La nozione di impresa utilizzata ai fini dell’applicazione del diritto comunitario è stata resa nel
tempo molto ampia dagli interventi della Corte di Giustizia. Essa comprende qualsiasi persona
giuridica o fisica che svolga un’attività economicamente rilevante, industriale o commerciale o di
prestazione di servizi, su un determinato mercato, compreso lo sfruttamento di un’opera d’ingegno
e l’esercizio di una professione liberale quale l’attività di avvocato (Arduino, causa C-309/99), di
medico (Pavlov, causa C-180/98), o artistica (Deutsche Grammophon, causa 78/70), a prescindere
dallo status giuridico e dalle modalità di funzionamento. Nella nozione rilevante d’impresa rientra
anche il gruppo di imprese.
Per quanto riguarda la partecipazione statale all’attività d’impresa occorre distinguere tra le
manifestazioni tipiche del potere statuale e quelle non tipiche. Per comprendere se ci si trovi di
fronte ad un’impresa ai sensi degli artt. 101 e 102 TFUE (81 e 82 TCE) la Corte valuta l’attività
effettivamente svolta dall’impresa a prescindere dalla natura giuridica del soggetto esaminato. Così
è stata riconosciuta natura d’impresa all’amministrazione dei monopoli di Stato in Italia (causa
118/85). Nello stesso modo è stata qualificata come impresa ai fini del diritto della concorrenza
l’ufficio pubblico di collocamento, pur se esso appare ispirato da finalità non economica (Job
Center, causa C-55/96).
Al contrario sono esclusi dalla nozione d’impresa quegli enti che collaborano alla gestione di un
servizio pubblico di carattere sociale, la cui attività sia svolta secondo principi estranei alle leggi
di mercato, o agiscono in veste di pubblica autorità, avvalendosi di prerogative che esorbitano dal
diritto comune o di privilegi e poteri coercitivi sui privati. Così sono stati esclusi dalla nozione di
impresa soggetta alle norme sulla concorrenza un organismo di previdenza sociale di categoria, la
cui attività sia ispirata al principio di solidarietà nazionale e senza fini di lucro (Poucet e Pistrè,
cause C-159 e 160/91) o un ente che gestisce il sistema sanitario nazionale garantendo prestazioni
gratuite agli iscritti (FENIN, causa T-319/99) o un ente contro gli infortuni sul lavoro (INAIL,
causa C-218/00). Al contrario è stata riconosciuta la natura d’impresa ad un fondo pensioni
obbligatorio creato con un contratto collettivo che operi secondo il criterio della capitalizzazione
(Albany, causa C-67/96 in un caso in cui è comunque stata esclusa l’applicabilità dell’art. 81 in
relazione alla nozione di accordo rilevante).
Intese e pratiche incompatibili con il mercato comune
Le intese rilevanti ai fini dell’applicazione delle norme sulla concorrenza sono tutti quei
comportamenti di due o più imprese finalizzati a realizzare iniziative comunque idonee ad alterare
la concorrenza, a prescindere dalla forma assunta. Le ipotesi di intesa rilevante sono quelle
dell’accordo, della pratica concordata e della decisione di associazione di imprese. Infatti ai
sensi dell’art. 101 TFUE sono vietati in quanto incompatibili con il mercato comune “tutti gli
accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che
possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto e per effetto di
impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune…”.
 La nozione di accordo è molto ampia ed è sufficiente che sia stata manifestata l’intenzione
comune di due o più imprese indipendenti a comportarsi sul mercato in modo diverso da
quello che avrebbero fatto in mancanza di esso. Può trattarsi di un accordo scritto anche non
sottoscritto o un accordo verbale (Tepea, causa 28/77), una misura apparentemente
unilaterale se appare implicitamente accettata (da ultimo Volkswagen, causa T-62/98), un
accordo interprofessionale concluso nell’ambito di un ente di diritto pubblico (BNIC, causa
123/83). Sono però stati sottratti dall’applicazione dell’art. 101 gli accordi tra categorie
datoriali e di lavoratori che perseguano fini sociali (Albany, causa C-67/96).
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
Le decisioni di associazioni di imprese sono quelle decisioni anche non vincolanti adottate
da raggruppamenti d’imprese o sindacati professionali nei riguardi degli associati che
abbiano l’effetto di alterare le condizioni della concorrenza (Verband der Sachversicher,
causa 45/85).
Pratica concordata è qualsiasi forma di comportamento coordinato tra imprese che, senza
tradursi in un vero e proprio accordo formale, rappresenti una cooperazione consapevole
tra le stesse a danno della concorrenza (ICI, causa 48/69). Una pratica concordata può
consistere in contatti diretti o indiretti tra imprese il cui scopo o effetto sia influenzare il
comportamento del mercato o informare i concorrenti del comportamento che si intende
adottare in futuro. La Corte di Giustizia ha avuto modo di precisare che la nozione di pratica
concordata implica, oltre alla concertazione fra le imprese, anche un comportamento
successivo ed un nesso causale tra i due elementi.
Perché l’intesa possa rientrare nell’ambito di applicazione del divieto occorrono due condizioni
essenziali:
1. il pregiudizio al commercio tra Stati membri, che la Corte di Giustizia ha
individuato, con una formula che richiama i propri interventi in materia di libera
circolazione di merci (cfr. sentenza Dassonville) e di aiuti di Stato, nella ragionevole
previsione che l’accordo possa esercitare, sulla base di elementi oggettivi,
un’influenza diretta o indiretta, attuale o potenziale, sulle correnti di scambio tra
Stati membri in misura da poter nuocere alla realizzazione degli obiettivi di un
mercato unico. In mancanza di tale pregiudizio saranno competenti le autorità ed i
giudici nazionali.
2. l’alterazione delle condizioni di concorrenza all’interno del mercato comune,
l’intesa deve cioè avere oggetto o effetti anticoncorrenziali.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, cioè, un’intesa deve essere
considerata vietata qualora abbia un oggetto anticoncorrenziale senza che sia
necessario verificarne gli effetti. E tali saranno quelle intese che, considerate in
termini obiettivi ed astratti, non hanno altra funzione se non quella di restringere la
libertà di concorrenza tra le parti, ovvero le parti e i terzi concorrenti, in modo
ritenuto incompatibile con il mercato comune.
Qualora l’oggetto non sia di per sé anticompetitivo sarà necessario verificare gli
effetti che l’intesa è in concreto idonea a produrre sulla concorrenza, in modo da
appurare se, per la specifica situazione di mercato, gli effetti concreti non siano
restrittivi della concorrenza.
Criterio generale utilizzato dalla Corte per apprezzare se un’intesa abbia per oggetto
o per effetto di restringere la concorrenza è quello di verificare come la concorrenza
avrebbe operato nel mercato di cui trattasi in assenza dell’intesa (Société Technique
Minière, causa 56/65).
L’art. 101.1 indica anche a titolo esemplificativo alcune ipotesi di intese vietate, sia orizzontali che
verticali, che caratterizzano i casi più usuali di alterazione della concorrenza.
Le intese orizzontali individuano gli accordi tra imprese situate allo stesso livello della catena di
produzione o di distribuzione coprendo, ad esempio, ricerca e sviluppo, produzione, acquisto o
commercializzazione. Gli accordi orizzontali possono restringere la concorrenza in particolare
quando prevedono la fissazione dei prezzi o la ripartizione del mercato o quando il potere di
mercato che risulta dalla collaborazione a livello orizzontale determina effetti di mercato negativi
per quanto riguarda prezzi, produzione, innovazione o varietà e qualità dei prodotti. In particolari
situazioni, la cooperazione orizzontale tra imprese può costituire uno strumento idoneo a
condividere i rischi, realizzare economie di scala, mettere in comune il know-how e lanciare più
rapidamente le innovazioni sul mercato.
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Appunti di Diritto Comunitario
Le intese verticali sono quegli accordi o pratiche concordate tra due o più imprese che si trovano
ad operare ciascuna, ai fini dell'accordo, ad un livello differente della catena di produzione o di
distribuzione (ma anche ad esempio tra produttori e distributori), e che normalmente si riferiscono
alle condizioni in base alle quali le parti possono acquistare, vendere o rivendere determinati beni o
servizi. La Corte ha avuto modo di ritenere fin da subito che, in via di principio, gli accordi verticali
rientrano nel divieto dell’art. 101 (Grundig, cause riunite 56-58/64).
La regola de minimis
La Corte di Giustizia ha costantemente affermato che gli effetti sulla concorrenza e sugli scambi
devono essere sensibili. Sono quindi escluse dal divieto quelle intese che hanno un effetto minimo
sul mercato di cui si tratta (c.d. regola de minimis). Un accordo cioè sfugge al divieto quando
investe il mercato in maniera insignificante, considerata la debole posizione detenuta dagli
interessati sul mercato relativo.
La Commissione ha nel corso del tempo precisato i criteri di orientamento utilizzati per stabilire
l’irrilevanza di un’intesa. Tali criteri sono stati aggiornati in una comunicazione del 2001 (2001/C
368/07), in cui sono previste soglie di sensibilità differenziate a seconda che si tratti di accordi tra
imprese concorrenti, effettive o potenziali (10% del mercato dei prodotti e servizi in cui l’intesa
produce i suoi effetti) o accordi tra imprese non concorrenti (15%). Le soglie in termini di quota di
mercato sono ridotte al 5% per i mercati in cui c’è un effetto cumulativo di reti parallele di accordi
simili.
L’art. 101 resta in ogni caso applicabile anche in relazione a determinati tipi di accordi che
provochino effetti distorsivi della concorrenza particolarmente gravi, come i cartelli di prezzo o di
ripartizione dei mercati. In generale poi non ricadono nel divieto di cui all’art. 101.1 le intese
concluse tra piccole e medie imprese.
Le ipotesi tipizzate d’intesa vietate dall’art. 101 TFUE (81 TCE)
Alcune ipotesi di intese vietate sono direttamente esplicitate nell’art. 101 TFUE (81 TCE).
Innanzitutto si fa riferimento alle intese rivolte a regolare i prezzi o altre condizioni di vendita (art.
101.1 lett. a). Si tratta di una formulazione molto ampia che comprende qualsiasi tipo di
comportamento che conduca ad un coordinamento o allineamento dei prezzi.
Vengono poi censurate le intese che limitano o controllano la produzione, gli sbocchi, lo sviluppo
tecnico o gli investimenti (art. 101.1 lett. b) e quelle dirette a ripartire i mercati o le fonti di
approvvigionamento (art. 101.1 lett. c).
In questo senso grande attenzione è stata riservata sia dalla Commissione che dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia agli accordi di distribuzione, generalmente intese
verticali, che mirano a limitare e controllare gli sbocchi della produzione attraverso accordi
di distribuzione selettiva, esclusive di vendita, accordi di acquisto in comune.
La giurisprudenza della Corte ha chiarito molto presto che un accordo inteso a mantenere
artificialmente mercati nazionali distinti è vietato, anche se accordi di distribuzione esclusiva
possono essere autorizzati qualora non sia stabilita una protezione territoriale assoluta a
favore del distributore (Consten e Grundig, cause 56-58/64). Secondo la giurisprudenza
della Corte tale protezione si verifica attraverso quelle clausole che tendono ad escludere le
importazioni parallele perché in questo modo si determina l’artificiale mantenimento di
mercati nazionali distinti e l’eliminazione della concorrenza fra prodotti di una stessa marca
(Musique diffusion francaise, cause 100-103/80).
La Corte ha invece ritenuto compatibili gli accordi di distribuzione selettiva, con cui il
produttore può riservare la vendita a particolari rivenditori selezionati in base a determinati
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criteri, solo però se la selezione venga operata in base a criteri oggettivi di natura qualitativa
e non discriminatori (Metro, causa 26/76).
Sono infine esplicitamente vietate le intese dirette ad “applicare, nei rapporti commerciali con gli
altri contraenti, condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, così da determinare per questi
ultimi uno svantaggio nella concorrenza” (art. 101.1 lett. d) e quelle consistenti nel “subordinare la
conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari,
che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l'oggetto dei
contratti stessi” (art. 101.1 lett. e).
In linea generale tra le principali intese vietate è quindi possibile ricondurre alcune tipiche ipotesi
di accordo orizzontale e verticale:
a) Tra le intese orizzontali:
 Intese riguardanti collusioni sui prezzi di vendita o acquisto, volumi di produzione,
quote di mercato.
 Joint venture che hanno sostanzialmente per oggetto o per effetto il coordinamento
concorrenziale fra imprese senza alcun valore aggiunto in termini di ricerca,
produzione, commercio.
 Sistemi di scambi di informazioni che divulgano dati sensibili.
b) Tra le intese verticali:
 Pattuizioni che ostacolano gli scambi all’interno del mercato comune, come clausole
di divieto di importazione/esportazione o aventi effetti equivalenti.
 Accordi che definiscono in modo tassativo il livello dei prezzi di rivendita dei
distributori.
Secondo quanto previsto dall’art. 101.2 gli accordi vietati sono “nulli di pieno diritto”, senza che
occorra una decisione preventiva della Corte di Giustizia in tal senso. La giurisprudenza è
consolidata nel ritenerla nullità assoluta, nel senso che il giudice nazionale o l’organo
amministrativo possono rilevarla anche d’ufficio, non può essere oggetto di esenzione ed opera ex
tunc. Saranno travolti dalla nullità tutti gli effetti dell’accordo, passati e futuri. Per quanto riguarda
gli aspetti procedurali questi saranno di competenza dei singoli giudici nazionali salvo il rispetto del
principio di equivalenza e di effettività.
Le intese ammesse dal diritto comunitario
L’art. 101.3 permette di esentare quelle intese che, pur ricadendo nella previsione dell’art. 101.1,
“contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il
progresso tecnico o economico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell'utile che ne
deriva”. Secondo la Corte di Giustizia tali elementi sono cumulativi e tutti ugualmente necessari
(SPO, causa C-137/95 P).
La competenza esclusiva a dichiarare inapplicabile il divieto è stata attribuita dal regolamento 17/62
esclusivamente alla Commissione, che nel corso degli anni ha stabilito precisi criteri per
individuare le intese compatibili con il diritto comunitario.
È possibile esentare dal divieto un’intesa determinata (esenzione individuale) o un’intera categoria
di intese (esenzioni per categoria).
Il sistema è stato modificato radicalmente dal regolamento n. 1/2003, applicabile dal 1 maggio
2004, che ha attribuito anche alle autorità nazionali di concorrenza ed ai giudici nazionali la
competenza ad applicare direttamente l’art. 101 n. 3 TFCE.
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Fino al recente regolamento n. 1/2003 era previsto per le esenzioni individuali una previa
notifica alla Commissione da parte delle imprese individuali. Il regolamento 1/2003 abolisce
in via generale l’obbligo di notifica alla Commissione degli accordi che sono quindi
considerati compatibili senza che occorra una decisione in tal senso, fermo restando il
controllo ex post della Commissione e del giudice comunitario.
La Commissione nel corso degli anni ha varato, su autorizzazione del Consiglio, una serie di
appositi regolamenti di esenzione per categorie individuate di accordi. Per tali accordi era già stato
abolito l’obbligo di notifica preventiva alla Commissione, mentre sottoposte all’obbligo di notifica
erano, fino al 1° maggio 2004, gli accordi non rientranti nelle categorie individuate o in cui non
ricorrono tutte le condizioni che il regolamento stabilisce per l’esenzione.
Negli ultimi anni si è cercato di semplificare le procedure e tale semplificazione risulta
evidente particolarmente nel regolamento n. 330/2010 relativo alle esenzioni di categorie di
accordi verticali e pratiche concordate. Tale regolamento rende inapplicabile il divieto
dell’articolo 101 TFUE agli accordi verticali che soddisfano una serie di requisiti. Ritenendo
che gli accordi di tipo verticale siano in via generale positivi per il mercato, ha previsto un
regime legale di esenzione per tutti gli accordi verticali a condizione che la quota di mercato
detenuta dal fornitore non superi il 30% del mercato rilevante, sempre che l’accordo non
contenga nessuna delle cinque restrizioni fondamentali previste dal regolamento (la prima
prevede che ai fornitori non è consentito fissare il prezzo (minimo) al quale i distributori
possono rivendere i loro prodotti; la seconda concerne le restrizioni relative al territorio in
cui l’acquirente può vendere; la terza e la quarta riguardano la distribuzione selettiva; la
quinta è relativa alla fornitura di pezzi di ricambio).
Peraltro per categorie di accordi che possano produrre effetti anticoncorrenziali, che
prevedano obblighi di non concorrenza durante il contratto o dopo la scadenza del contratto
ovvero l’esclusione di marchi specifici in un sistema di distribuzione selettiva, sono previste
specifiche e più selettive condizioni.
Altre esenzioni per categoria sono state individuate con: regolamento n. 19/65;
regolamento n. 2821/71; regolamento n. 316/2014 sul trasferimento di tecnologia;
regolamento n. 487/2009 relativo al settore dei trasporti aerei; regolamento n. 246/2009
relativo al trasporto marittimo di linea; regolamento n. 267/2010 (in scadenza nel 2017) per
il settore delle assicurazioni; regolamento n. 461/2010 (in scadenza nel 2023) per il settore
automobilistico; regolamento n. 1218/2010 (in scadenza nel 2022) relativo ad accordi di
specializzazione; regolamento n. 1217/2010 (in scadenza nel 2022) relativo ad accordi in
materia di ricerca e sviluppo.
Tra le principali intese autorizzate, o perché ritenute non restrittive e quindi estranee alla sfera di
applicazione del divieto di cui all’art. 101 n. 1 o perché suscettibili di esenzione (individuale o per
categoria), è possibile rinvenire:
a) Tra le intese orizzontali:
 Accordi di cooperazione tra imprese:
 Accordi di specializzazione, in cui un’impresa si specializza
su un prodotto ed un’altra su di un altro collegato ma distinto.
 Accordi per la ricerca o lo sviluppo di nuovi processi
produttivi.
 Accordi per la produzione in comune di prodotti o servizi che
richiedono notevoli risorse.
 Accordi relativi allo sfruttamento di diritti di proprietà
intellettuale.
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b) Tra le intese verticali:
 Accordi di agenzia.
 Accordi di concessione esclusiva di vendita.
 Accordi di fornitura esclusiva.
 Accordi di distribuzione selettiva a carattere qualitativo.
 Accordi di franchising.
 Accordi di sub-fornitura.
Lo sfruttamento abusivo di posizione dominante
Secondo quanto disposto dall’art. 102 TFUE “è incompatibile con il mercato comune e vietato,
nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra Stati membri, lo sfruttamento
abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una
parte sostanziale di questo”.
Ciò che risulta essere vietato quindi non è detenere una posizione dominante di per sé, ma abusarne
tanto da alterare le normali condizioni della concorrenza.
Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia la posizione dominante va identificata con la
posizione di potenza economica che consente all’impresa di ostacolare il permanere di una
concorrenza effettiva nel mercato preso in considerazione e di tenere comportamenti indipendenti
da concorrenti, clienti e consumatori (United Brands, causa 27/76). Tale nozione però si distingue
sia da quella di monopolio che di oligopolio. Nel primo caso perché non è escluso il permanere di
una certa concorrenza, nel secondo perché il comportamento dell’impresa è determinato
unilateralmente mentre nell’oligopolio i comportamenti delle imprese si influenzano
reciprocamente (Hoffmann-La Roche, causa 85/76). La giurisprudenza ha anche individuato la
figura della posizione dominante collettiva, ipotesi di comportamento coordinato fra imprese.
La posizione dominante va individuata in relazione al c.d. mercato rilevante, sia sotto il profilo
geografico che merceologico. Per quanto riguarda l’ambito geografico la condotta abusiva deve
incidere sul commercio intracomunitario, e quindi estendersi all’insieme del mercato comune o ad
una sua parte rilevante. Il mercato rilevante del prodotto comprende tutti i beni e i servizi che
possono considerarsi fungibili o sostituibili dal consumatore dal lato della domanda, e tutti i beni
equivalenti dal lato dell’offerta.
Gli indizi che inducono a rilevare l’esistenza di una posizione dominante sono diversi: una rilevante
quota di mercato, il vantaggio tecnologico rispetto ai concorrenti, la capillare ed efficiente rete di
distribuzione, l’assenza di concorrenza potenziale, l’esistenza di barriere all’entrata. Singoli indizi
possono non essere sufficienti da soli a delineare una posizione dominante, anche se la Corte ha
ritenuto che un’alta quota di mercato (70-80%) possa essere di per sé prova sufficiente (Hilti, causa
T-30/89), mentre una quota consistente (50-57%) per un lungo periodo è un forte indizio (Michelin,
causa 322/81; Akzo, causa C-62/86).
Lo sfruttamento abusivo della posizione dominante si riferisce a quell’impresa che utilizzando
sistemi diversi da quelli propri di una normale politica concorrenziale incide sulla struttura del
mercato e ne riduce il livello di concorrenzialità a proprio vantaggio (Hoffmann-La Roche, causa
85/76), a prescindere da qualunque elemento di dolo o colpa (Continental can, causa 6/72).
L’art. 102 TFUE elenca in modo non esaustivo talune ipotesi di sfruttamento abusivo di posizione
dominante: l’imposizione di prezzi di vendita (art. 102 lett. a), la limitazione della produzione o
degli sbocchi a danno dei consumatori (art. 102 lett. b), l’applicazione di condizioni dissimili per
prestazioni equivalenti (art. 102 lett. c), l’introduzione di prestazioni supplementari che non abbiano
alcun nesso con l'oggetto dei contratti stipulati (art. 102 lett. d).
L’abuso può consistere in un comportamento che mira ad escludere dal mercato o
marginalizzare un’impresa concorrente o in una politica commerciale che pregiudica
direttamente i consumatori.
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
La giurisprudenza della Corte è intervenuta in diverse occasioni in relazione alla politica dei
prezzi, ritenendo indice dell’abuso il fatto di praticare prezzi eccessivi, sproporzionati
rispetto al costo di produzione e considerando i prezzi applicati in altri Stati membri
(Tournier, causa 395/87). Sono stati considerati prova di abuso prezzi inferiori alla media
dei costi variabili, con cui l’impresa persegue lo scopo di eliminare i concorrenti (Akzo,
causa C-62/86).
Altro esempio di abuso è quello dell’esclusiva di fornitura che l’impresa dominante impone
ai suoi clienti (Hoffmann-La Roche, causa 85/76). Ipotesi specifica di abuso è poi quella del
contratto “legante” o tying, cioè del rifiuto di fornire un prodotto se non congiuntamente ad
un altro, che si verifica spesso nel rifiuto di fornire i componenti indipendentemente dal
prodotto (Hilti I, causa T-30/89).
La Corte di giustizia ritiene che gli artt. 101 e 102 TFUE (81 e 82 TCE) possano essere
cumulativamente applicabili ed ha ammesso la possibilità di esiti diversi a seconda di quale
disposizione sia applicata. In particolare in caso di abuso di posizione dominante non sono previste
possibilità di esenzione ed è sufficiente individuare il comportamento abusivo e non anche la
restrizione della concorrenza, ritenuta di per sé esistente. Inoltre l’art. 102 non prevede
esplicitamente la nullità. In questo senso la giurisprudenza ritiene che siano in questo caso
applicabili i rimedi previsti negli Stati membri (BRT SABAM, causa 123/73).
I poteri ed il ruolo della Commissione nella politica della concorrenza
Nell’ambito della politica della concorrenza la Commissione ha acquisito un ruolo sempre più
importante. A disciplinare la materia, oltre agli articoli artt. 103 e 105 TFUE (83 e 85 del Trattato
CE), sono stati in primo luogo il regolamento n. 17/62, come modificato dal regolamento n.
1216/99, che indicava le modalità di esercizio ed i poteri di controllo della Commissione nei
confronti delle imprese, e il regolamento n. 1/2003 che ha introdotto importanti novità e rafforzato i
poteri di indagine della Commissione e che oggi è il principale punto di riferimento in questa
materia. Il regolamento n. 773/2004 ha poi introdotto ulteriori disposizioni relative ai procedimenti
svolti dalla Commissione in applicazione degli articoli 101 e 102 del TFUE.
La Commissione è titolare di un potere di accertamento e di un potere repressivo.
Legittimati a sollecitare l’intervento della Commissione, che può comunque intervenire anche
d’ufficio, sono gli Stati membri ed i singoli, persone fisiche o giuridiche che vi abbiano interesse
(art. 7.2 reg. 1/2003). La decisione della Commissione che respinge la denuncia deve essere
motivata. La Commissione possiede poteri d’indagine molto ampi, ulteriormente rafforzati con il
reg. 1/2003.
Nella prima fase preliminare la Commissione esercita i propri poteri di indagine. Può chiedere
informazioni ai governi ed alle imprese, può procedere a verifiche in loco presso le sedi delle
imprese con l’assistenza di funzionari dello Stato membro interessato, e dal 1 maggio 2004 può
anche accedere ai domicili del personale delle imprese e apporre sigilli ai locali e ai documenti
aziendali.
A conclusione dell’indagine preliminare la Commissione potrà archiviare il caso, inviando alle parti
una lettera di archiviazione (c.d. confort letter), oppure decidere di dare inizio alla procedura
formale. In questo caso invia alle imprese coinvolte una comunicazione di addebiti, enunciando
tutti gli elementi di fatto del caso, la propria valutazione giuridica e l’eventuale previsione di
un’ammenda da irrogare all’impresa. Le imprese hanno diritto in questa fase di prendere visione di
tutta la documentazione che le riguardano e di difendersi sia tramite memorie scritte che, se lo
richiedono, con audizioni orali.
A conclusione di tale fase formale la Commissione, a meno che non decida di archiviare il caso,
può prendere collegialmente una decisione di infrazione, eventualmente comprensiva di
un’ammenda o di una penalità di mora, che deve essere notificata alle parti e pubblicata sulla
Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee. È possibile in determinate condizioni l’imposizione di
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
obblighi positivi di fare in merito all’applicazione dell’art. 102 (Commercial solvents, cause 67/73). Le sanzioni pecuniarie inflitte possono arrivare, dopo le modifiche introdotte con il reg.
1/2003, fino al 10% del fatturato totale di ogni impresa coinvolta e devono essere pagate
direttamente alla Commissione (l’importo di base dell'ammenda è calcolato come percentuale del
valore delle vendite cui si riferisce l’infrazione, moltiplicato per il numero di anni dell'infrazione,
con alcuni correttivi a seconda della gravità e della durata dell’infrazione). La parte lesa avrà solo la
possibilità di ricorrere al giudice nazionale per il risarcimento dei danni.
La Commissione ha anche il potere di assumere provvedimenti provvisori e cautelari in base ai
classici elementi del fumus boni iuris (pratiche a prima vista contrarie al diritto comunitario) e del
periculum in mora (urgenza per evitare un danno grave ed irreparabile).
Le concentrazioni tra imprese
Il fenomeno delle concentrazioni tra imprese, che si realizza nell’ipotesi di fusione tra imprese o
di acquisto di altre imprese o ancora di creazione di una nuova impresa comune da parte di due o
più imprese, ha assunto un’importanza sempre maggiore in funzione della progressiva realizzazione
del mercato comune. Il potenziale pericolo di restrizioni della concorrenza nel mercato unico è alla
base dell’esigenza di una valutazione ex ante di compatibilità con le regole comunitarie della
concorrenza.
Mentre il Trattato CECA prevedeva esplicitamente un regime di autorizzazioni per le operazioni
che avessero come effetto diretto o indiretto una concentrazione tra imprese, il Trattato CEE, come i
Trattati attualmente in vigore, non conteneva un’analoga disposizione. La giurisprudenza della
Corte di Giustizia ha però ritenuto nel corso del tempo applicabili anche al fenomeno della
concentrazione tra imprese gli artt. 101 e 102 TFUE (81 e 82 TCE). A partire dalla sentenza
Continental can (causa 6/72) la Corte ha infatti avuto modo di affermare che l’art. 102 deve
ritenersi applicabile anche alle modificazioni strutturali d’impresa che si risolvano in una grave
alterazione della concorrenza in una parte sostanziale del mercato comune. Successivamente è stata
riconosciuta l’applicabilità dell’art. 101 anche nel caso di acquisto da parte di un’impresa di una
partecipazione anche minoritaria in un’impresa concorrente (BAT e Reynolds, cause 142 e 156/84).
Nel 1989 venne stato adottato il regolamento n. 4064/89 per introdurre un meccanismo di controllo
organico sulle concentrazioni che abbiano una dimensione comunitaria. Tale atto normativo è stato
sostituito dal regolamento n. 139/2004 attualmente in vigore, che applica il “principio di
sussidiarietà”, secondo il quale la valutazione di una determinata concentrazione spetta all’autorità
che si trova nella posizione più idonea per svolgere l’indagine (Commissione ovvero autorità
nazionale antitrust).
Il regolamento si applica nell’ipotesi di fusione tra imprese, acquisto del controllo totale o parziale
di un’impresa, costituzione di un’impresa comune. Per stabilire la dimensione comunitaria si ha
riguardo al fatturato delle imprese interessate dall’operazione (i principali criteri sono quelli di 5
mld di € a livello mondiale e 250 mln da almeno due delle imprese interessate nella UE ovvero di
2,5 mld di € a livello mondiale e 100 mln da tutte le imprese interessate in almeno tre stati UE).
In linea generale, è obbligatorio notificare alla Commissione le operazioni di concentrazione di
dimensione comunitaria prima della loro realizzazione, subito dopo la conclusione dell’accordo, la
pubblicazione dell’offerta pubblica di acquisto o di scambio o l’acquisizione di una partecipazione
di controllo. In seguito al ricevimento della notifica, la Commissione controlla se la concentrazione
è compatibile con il mercato comune o se vi sono seri dubbi circa la sua compatibilità.
La Commissione deve valutare se le concentrazioni che le sono notificate creano o rafforzano una
posizione dominante, da cui risulti che una concorrenza effettiva sia ostacolata in modo
significativo nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso. Durante la procedura di verifica
le parti potranno rispondere alle obiezioni della Commissione, sia con memorie scritte che tramite
audizione orale.
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
Va sicuramente segnalato l’ampio dibattito con cui si è proposto di sostituire il criterio della
“posizione dominante” utilizzato dalla Commissione e dalla Corte di Giustizia con quello
della “riduzione sostanziale della concorrenza” utilizzato dalle autorità di concorrenza
statunitensi, per evitare, si sostiene, conclusioni differenti sulle medesime operazioni di
concentrazione. Va comunque tenuta presente l’elasticità della nozione di dominanza
utilizzata nella prassi comunitaria.
In linea di principio, una concentrazione di dimensione comunitaria non può essere realizzata prima
di essere notificata e neppure nelle tre settimane successive alla notifica. Se, invece, una
concentrazione è già stata realizzata ed è dichiarata incompatibile con il mercato comune, la
Commissione può imporre alle imprese interessate di dissolvere la concentrazione o di adottare
qualsiasi altra misura opportuna al fine di ripristinare la situazione precedente alla realizzazione
della concentrazione.
All’esito della procedura un progetto di decisione viene trasmesso agli Stati membri e discusso dal
Comitato consultivo. la Commissione ha il potere di infliggere ammende (fino al 10% del fatturato
totale annuo) e penalità di mora (fino al 5 % del fatturato totale giornaliero medio dell’impresa) per
giorno lavorativo di ritardo. La decisione viene poi pubblicata sulla Gazzetta ufficiale.
DISCIPLINA APPLICABILE AGLI STATI
La disciplina della concorrenza per le pubbliche imprese
Ai sensi dell’art. 106.1 TFUE (86 TCE) “gli Stati membri non emanano né mantengono, nei
confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna
misura contraria alle norme del presente trattato, specialmente a quelle contemplate dagli articoli
18 [12TCE] (principio di non discriminazione) e da 101 a 109 inclusi [81-89 TCE] (norme in
materia di concorrenza)”. Il Trattato, che all’art. 345 TFUE [295 TCE] dichiara la propria neutralità
rispetto al regime di proprietà pubblico o privato vigente negli Stati membri, vuole cioè evitare che
la natura pubblica dell’impresa possa influire nell’applicazione delle norme sulla concorrenza.
Per impresa pubblica deve intendersi ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici
possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza dominante per ragioni di proprietà,
di partecipazione finanziaria o della normativa che la disciplina (dir. 80/723). Le pubbliche
imprese quindi sono sottoposte alle norme di concorrenza del Trattato come ogni altra impresa. Si
presuppone un’influenza dominante delle autorità pubbliche quando queste: a) detengono la
maggioranza del capitale sottoscritto; b) controllano la maggioranza dei voti relativi alle azioni o c)
sono in posizione tale da nominare più della metà degli organi direttivi o di vigilanza dell’impresa.
Diversa è invece la regolamentazione per quelle imprese che esercitano un servizio pubblico. La
deroga prevista esplicitamente dall’art. 106.2, secondo cui le imprese incaricate della gestione di
servizi di interesse economico generale sono sottoposte all’applicazione delle regole di
concorrenza soltanto nei limiti in cui ciò non contrasti con la realizzazione degli specifici compiti
loro affidati, indica la rilevanza del servizio pubblico nel diritto comunitario.
Attualmente in tale materia il riferimento è la decisione della Commissione del 20
dicembre 2011 n. 2012/21/UE2 che stabilisce le condizioni alle quali gli aiuti di Stato
concessi sotto forma di compensazione degli obblighi di servizio pubblico a determinate
imprese incaricate della gestione di servizi d’interesse economico generale (c.d. SIEG) sono
compatibili con il mercato interno. Facendo propri i principi stabiliti dalla giurisprudenza
della Corte (Altmark, causa C-280/00) debbono essere rispettate quattro condizioni per
l’esenzione: 1) l’impresa beneficiaria deve essere incaricata dell’adempimento di obblighi di
2
Una prima decisione in materia di SIEG era stata adottata dalla Commissione nel 2005 con il c.d. pacchetto MontiKroes, i cui criteri sono stati modificati nel dicembre 2011.
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
servizio pubblico definiti in modo chiaro; 2) i parametri in base ai quali viene calcolata la
compensazione devono essere previamente definiti in modo obiettivo e trasparente; 3) la
compensazione non deve eccedere quanto necessario per coprire integralmente o
parzialmente i costi originati dall’adempimento degli obblighi di servizio pubblico; 4) se la
scelta non avviene mediante una procedura di appalto pubblico, è necessaria un’analisi dei
costi per valutare che un’impresa media, gestita in modo efficiente e adeguatamente dotata
dei mezzi necessari, avrebbe dovuto sopportare.
In via di principio la mera esistenza di un regime di diritti speciali od esclusivi per le imprese
pubbliche non è di per sé contraria al Trattato. Secondo la costante giurisprudenza della Corte di
Giustizia non è invece possibile pregiudicare l’effetto utile dell’art. 106 (ERT, causa C-260/89).
Ne consegue che in determinate situazioni l’esistenza stessa di un monopolio o di diritti esclusivi
siano di per sé in contrasto con il Trattato. In questo senso la Corte ha ritenuto incompatibile con
l’art. 106 il diritto esclusivo per l’importazione di tabacchi (Manghera, causa 59/75) o di apparecchi
terminali di telecomunicazioni (Francia-Commissione causa C-202/88).
L’art. 106.2, che in quanto norma derogatoria deve essere di stretta interpretazione, va letto
congiuntamente al 106.1 con la conseguenza che la concessione e il mantenimento di diritti speciali
ed esclusivi sono sostanzialmente leciti solo rispetto ad imprese che svolgono un ruolo di interesse
generale e solo nella stretta misura in cui le limitazioni della concorrenza siano strettamente
funzionali all’assolvimento degli obblighi di servizio pubblico (Corbeau, causa C-320/91). In questo
senso è stato considerato conforme al diritto comunitario il monopolio legale del servizio postale
ordinario, in quanto costituisce un servizio d’interesse generale che, dovendo coprire anche settori
non redditizi, deve necessariamente essere protetto, mentre è stata rilevata l’incompatibilità con
l’art. 106 del monopolio di servizio di corriere espresso, poiché l’esclusione della concorrenza
conseguente non è giustificabile in base a motivi di interesse generale (Corbeau, causa C-320/91).
L’art. 106.3 attribuisce alla Commissione il compito di vigilare sull’applicazione della norma
rivolgendo ove occorra agli Stati membri opportune direttive o decisioni. Secondo la giurisprudenza
della Corte di Giustizia la Commissione ha, in forza dell’art. 106.3, il potere di accertare e
dichiarare l’incompatibilità rispetto al diritto comunitario di una normativa statale e di indicare i
provvedimento necessari per eliminare la violazione (Bund. Bilanzibuchalter, causa C-107/96). È
stato anche riconosciuto alla Commissione un ampio potere discrezionale in relazione ai mezzi
idonei a realizzare l’obiettivo. La Corte ha infine esteso anche alle pubbliche imprese il tipo di
procedura previsto espressamente dall’art. 108 in tema di controllo sugli aiuti pubblici alle imprese:
in entrambi i casi la Commissione ha il potere di intervenire nei confronti degli Stati membri.
GLI AIUTI CONCESSI DAGLI STATI
La nozione di aiuto di Stato
La disciplina degli aiuti di Stato alle imprese si fonda sul principio che gli aiuti sono in linea
generale incompatibili con il mercato comune, e che quindi vadano preventivamente autorizzati da
parte dell’autorità comunitaria competente: la Commissione.
Tale principio di incompatibilità degli aiuti è contenuto nell’art. 107 TFUE (87 TCE) ai sensi del
quale “salvo deroghe contemplate dal presente trattato, sono incompatibili con il mercato comune,
nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero
mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni,
falsino o minaccino di falsare la concorrenza”. L’art. 108 TFUE (88 TCE) disciplina la procedura
di controllo preventivo degli aiuti nuovi e la procedura di controllo permanente sugli aiuti esistenti.
L’art. 109 TFUE (89 TCE), infine, regola il potere di emanare regolamenti in materia da parte del
Consiglio, che ha adottato il regolamento n. 994/98 sull’applicazione degli artt. 107 e 108 TFUE a
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
determinate categorie di aiuti di Stato orizzontali, ed il regolamento n. 659/99 sulle modalità di
applicazione dell’art. 108 TFUE.
La nozione di aiuto di Stato non è stata definita nel Trattato. Infatti l’art. 107 si limita a far
riferimento ad un aiuto che abbia l’effetto di falsare la concorrenza. Al riguardo, la Corte di
Giustizia ha più volte affermato che quello che rileva ai fini dell’esistenza di un aiuto sono gli
effetti dello stesso e non la forma nella quale viene concesso. La nozione rilevante di aiuto è
molto ampia e comprende qualsiasi vantaggio economicamente apprezzabile attribuito ad
un’impresa attraverso un intervento pubblico, vantaggio che altrimenti non si sarebbe realizzato
(Banco Exterior de Espana, causa C-387/92). Rientrano nella definizione di aiuto non solo le
sovvenzioni palesi, ma qualsiasi misura che direttamente o indirettamente produca per l’impresa un
beneficio economico. La giurisprudenza della Corte è alquanto ampia e consolidata e ricomprende
le riduzione di costi, le agevolazioni fiscali, lo sgravio di oneri sociali o di tassi d’interesse, le tariffe
preferenziali: tutti esempi di misure che producono l’effetto economico di attribuire artificialmente
un vantaggio a determinate imprese, alterando così le condizioni della concorrenza
(Steenkolenmijnen, causa 30/59). Il Trattato non distingue gli interventi a seconda della loro causa o
del loro scopo, ma in funzione dei loro effetti (Francia-Commissione, causa C-241/94).
Più problematica è la individuazione della nozione di aiuto nel caso di partecipazioni dello Stato o
di un ente pubblico nelle imprese. Commissione e Corte di Giustizia si rifanno in questo caso al
parametro del normale investitore di mercato in normali condizioni di mercato. Può cioè esservi
incompatibilità con il Trattato quando l’apporto pubblico, che si manifesta attraverso l’assunzione
di partecipazioni nell’impresa, non corrisponde a quello di un investitore privato che operi un
conferimento di capitale in normali condizioni di economia di mercato. In particolare la
Commissione per valutare la natura di aiuto di un intervento pubblico utilizza una serie di elementi:
il tasso di redditività nel medio o lungo periodo, il tasso di rischio, le prospettive di sviluppo, le
valutazioni dei principali operatori del settore.
In relazione ad imprese esercenti un servizio di pubblico interesse la Corte di Giustizia ha escluso
dalla nozione di aiuto l’ipotesi di erogazione di risorse pubbliche ad esclusivo compenso degli oneri
aggiuntivi di servizio pubblico (Ferrino, causa C-53/00).
a) Imputabilità allo Stato ed impiego di risorse statali
L’origine dell’aiuto deve essere imputabile allo Stato, inteso nel senso di ogni articolazione
centrale, regionale o locale, enti pubblici o privati autorizzati o designati dallo Stato a
somministrare l’aiuto. Sono quindi ricomprese le suddivisioni territoriali (regioni, province,
comuni, Lander, comunità autonome etc.), ma anche qualunque organismo pubblico o privato
designato dallo Stato per la gestione dell’aiuto (Steinike, causa 78/76). La Corte ha poi avuto modo
di chiarire che non sempre ogni provvedimento adottato da un’impresa pubblica, come un sostegno
finanziario nei confronti di soggetti terzi, possa imputarsi allo Stato, posto che il controllo o
l’influenza dello Stato può variare da caso a caso (Stardust, causa C-482/99).
La Corte ha precisato che deve trattarsi di risorse statali, nel senso ampio di strumenti finanziari
nella disponibilità delle pubbliche autorità destinate a sostenere le imprese, e che la misura debba
essere imputabile allo Stato o ad una sua articolazione. È stata ritenuta tale la concessione di una
garanzia (Epac, cause T-204/97 e T-270/97), una esenzione fiscale (Banco de Credito industrial SA,
causa C-387/92), la riduzione di oneri sociali (Italia c. Commissione, C-310/99) e tutti gli interventi
che alleviano gli oneri che gravano sul bilancio di un’impresa (Ecotrade, causa C-200/97).
Per quel che riguarda la forma dell’aiuto è indifferente che l’atto che predispone l’aiuto sia una
legge o un qualunque atto amministrativo. Può trattarsi anche di un atto di diritto privato, anche se
all’origine vi deve essere un qualche provvedimento pubblico.
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
Beneficiario dell’aiuto deve essere un’impresa, cioè qualsiasi entità presente nel mercato dei beni e
dei servizi che eserciti un’attività economicamente rilevante. Sono perciò da escludersi gli enti che
non esercitino attività economica (università, enti di ricerca, scuole di formazione).
b) La selettività della misura
Gli aiuti che sono considerati contrari ai principi del Trattato sono quelli che consistono in un
vantaggio o in un beneficio per l’impresa che lo riceve, in relazione alle altre imprese che operano
in quel mercato. Secondo la Corte di Giustizia non rientrano nella nozione di aiuto solo quelle
misure di carattere e portata generali che non favoriscono specificamente determinate imprese o
produzioni (DMT, causa C-256/97). Infatti, condizione della rilevanza dell’aiuto per il regime
comunitario è che esso favorisca talune imprese o talune produzioni rispetto ad altre che si trovino
nella stessa situazione giuridica e di fatto, circostanza che la Corte riassume nel presupposto della
selettività della misura. Al contrario sono perfettamente ammissibili le misure degli Stati membri
che si applicano in via generale a tutti i settori dell’economia. Anche se dal punto di vista pratico
può essere difficile distinguere un aiuto di Stato vietato dal Trattato da una misura economica
generale che rientra nella politica economica di ciascuno Stato membro, posto che la distinzione
fondamentale fra aiuti vietati e politica sociale ed economica generale è piuttosto vaga (Francia c.
Commissione, concl. avv. gen. Jacobs, causa C-241/94). In ogni caso il semplice fatto che due
imprese siano trattate differentemente da una misura statale non implica automaticamente che la
misura conceda un vantaggio selettivo, se la differenza di trattamento è giustificata da ragioni
inerenti la logica del sistema (Ferring, causa C-53/00; Commissione c. Paesi Bassi, causa C279/08).
c) L’incidenza sugli scambi intracomunitari
Il divieto degli aiuti deriva dal pregiudizio concreto agli scambi intracomunitari. Di norma sono
vietati anche gli aiuti che esauriscono la loro efficacia all’interno di uno Stato membro, in relazione
al pregiudizio potenziale che può determinare l’aiuto in sé, ad esempio rendendo particolarmente
difficoltosa la penetrazione delle imprese in settori operanti in altri paesi membri. Tale approccio
emerge da tempo dalle decisioni della Corte di Giustizia che ha da sempre osservato come tramite
un aiuto ad un’impresa la produzione interna di uno Stato membro può risultare accresciuta, con
diretta diminuzione di scambio con prodotti di un altro Stato membro (Francia c. Commissione,
causa 102/87). L’alterazione della concorrenza può manifestarsi sia nei rapporti tra produttori
nazionali, sia nei rapporti con concorrenti di altri Stati membri (Philip Morris, causa 730/79). Dalla
nozione di aiuto rilevante potrà essere escluso solo quello che investe un prodotto o un servizio per i
quali non siano neppure ipotizzabili scambi intracomunitari. Ma anche quando un mercato
inizialmente chiuso alla concorrenza si apra sarà necessario riesaminare un aiuto precedentemente
concesso (Alzetta, T-298/97).
d) La regola de minimis
Anche agli aiuti di Stato è applicabile la regola de minimis, anche se la Corte ha avuto modo di
affermare che la scarsa consistenza dell’aiuto o la modesta dimensione dell’impresa beneficiaria
non possono far escludere a priori la possibilità che siano influenzati gli scambi tra paesi membri
(Tubemause, causa C-142/87). L’orientamento della Commissione invece è quello di ritenere
applicabile la regola de minimis anche in materia di aiuti. Secondo diverse comunicazioni in
materia di aiuti si afferma che gli aiuti che non abbiano un impatto percepibile sugli scambi e sulla
concorrenza non sarebbero compresi nella previsione dell’art. 107 e non dovrebbero neppure
essere comunicati. Tale prassi è stata successivamente avallata anche dalla Corte di Giustizia. In
questo contesto la Commissione ha adottato il regolamento n. 1998/2006, scaduto nel dicembre
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Lorenzo Giasanti – Corso di Diritto del mercato del Lavoro – Anno accademico 2014/2015
Appunti di Diritto Comunitario
2013, che ha codificato il criterio de minimis, prevedendo che gli aiuti che nell’arco di un triennio
non superano i 200.000 euro (dal 2006, prima erano 100.000) sono compatibili con il diritto
comunitario e sono dispensati dall’obbligo di notifica. Il regolamento n. 1407/2013 della
Commissione, attualmente in vigore ha ribadito il medesimo principio secondo cui l’importo
complessivo degli aiuti “de minimis” concessi da uno Stato membro a un’impresa unica non può
superare 200.000 euro nell’arco di tre esercizi finanziari.
Gli aiuti di Stato considerati compatibili
È lo stesso art. 107 TCE che prefigura le deroghe al principio generale di incompatibilità, stabilendo
alcune categorie di aiuto considerate di per sé compatibili, e quindi applicabili de jure, ed altre
categorie di aiuti la cui applicazione è sottoposta alla valutazione discrezionale della Commissione.
Ai sensi dell’art. 107.2 sono compatibili con il mercato comune:
a) gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori;
b) gli aiuti destinati a ovviare ai danni di calamità naturali o di altri eventi eccezionali;
c) gli aiuti concessi ad alcune regioni tedesche per gli svantaggi determinati dalla divisione,
che dopo l’unificazione della Germania sono esaminati dalla Commissione alla luce delle
disposizioni dell’art. 107.3 relative agli aiuti regionali.
Più rilevanti sono le previsioni stabilite nell’art. 107.3 secondo cui possono considerarsi
compatibili con il mercato comune, qualora la Commissione li ritenga tali:
a) gli aiuti destinati a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia
anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione;
b) gli aiuti destinati a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune
interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell'economia di uno Stato
membro;
c) gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni
economiche;
d) gli aiuti destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio;
e) altre categorie di aiuti decise del Consiglio su proposta della Commissione.
Nell’applicazione di tali principi la Commissione ha individuato determinati criteri di compatibilità,
disciplinando una disciplina materiale degli aiuti di Stato.
Tutta la disciplina degli aiuti è ispirata a due principi di carattere generale, formulati dalla
Commissione e confermati dalla Corte di Giustizia, ai fini della valutazione di compatibilità, quello
della contropartita e quello della trasparenza.
 Il principio della contropartita comporta che un aiuto va valutato dal punto di vista
comunitario più che nazionale. L’aiuto potrà quindi dirsi compatibile quando sia
necessario e proporzionato rispetto all’interesse comunitario perseguito (Philip
Morris Holland, causa 730/79).
 Il principio della trasparenza impone che la natura e la portata dell’aiuto rispetto
agli scambi intracomunitari ed alla concorrenza devono poter essere verificati sulla
base di tutti gli elementi necessari: la consistenza, l’obiettivo, la forma, i mezzi
finanziari, le ragioni di compatibilità.
In questo senso le principali tipologie di aiuto individuate dalla Commissione sono:
1. Gli aiuti regionali, cioè quegli aiuti che gli Stati concedono in relazione a particolari
difficoltà di una determinata area geografica. I parametri di compatibilità di tali aiuti sono
principalmente il rapporto con il livello occupazionale e con la specificità regionale, le
ripercussioni settoriali dell’aiuto, la trasparenza.
Per quanto riguarda le ipotesi previste dalla lett. a) dell’art. 107.3 è stato adottato un
parametro di sfavore delle regioni comunitarie, basato sul PIL in rapporto al potere di
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Appunti di Diritto Comunitario
acquisto per abitante. Nelle regioni più sfavorite (quelle in cui il PIL per abitante è inferiore
al 75% della media europea) sono concessi aiuti secondo il massimale più elevato.
La deroga di cui alla lett. c) art. 107.3 invece consente di dichiarare compatibili aiuti
concessi anche a regioni in cui la situazione economica complessiva è semplicemente
inferiore alla media comunitaria, o che siano svantaggiate rispetto alla media nazionale. I
parametri di compatibilità saranno in questo caso il tasso e la struttura della disoccupazione,
i saldi migratori, la pressione demografica ed altre variabili geografiche, economiche e
socio-strutturali (Germania c. Commissione, causa 248/84).
2. Gli aiuti settoriali, cioè quegli aiuti che gli Stati concedono in considerazione delle
difficoltà di un determinato settore economico. Essi sono in principio ammessi quando
consentano di ripristinare condizioni di efficienza e di competitività a lungo termine.
Secondo quanto stabilito dalla Commissione gli aiuti settoriali devono: i) essere limitati ai
casi in cui la situazione dell’industria interessata li renda necessari; ii) essere utilizzati per
risolvere problemi di lungo periodo e non per preservare lo status quo; iii) avere una durata
limitata ed essere connessi con obiettivi di ristrutturazione del settore in causa; iv) avere una
intensità che diminuisce nel tempo e proporzionata all’entità dei problemi da risolvere; vi)
non portare al trasferimento dei problemi industriali e di disoccupazione in altri Stati
membri.
Sussistono regole particolari in alcuni settori (produzione audiovisiva, radio-diffusione,
settore carboniero, industria siderurgica, industria delle fibre sintetiche).
Le norme in materia di aiuti di Stato si applicano solo in misura limitata ai settori
dell’agricoltura e della pesca.
3. Gli aiuti orizzontali, cioè gli interventi pubblici che non sono diretti né ad una regione né
ad un settore economico particolare ma sono destinati a tutte le imprese quale che ne sia la
localizzazione regionale o settoriale, al fine di modernizzarne le attività e di favorirne la
crescita. Rientrano in tale ipotesi gli aiuti alle piccole e medie imprese, gli aiuti destinati alla
ricerca ed allo sviluppo, quelli destinati alla tutela dell’ambiente, gli aiuti in favore
dell’occupazione e della formazione.
Un’ulteriore importante categoria di aiuti orizzontali è quella destinata al salvataggio e alla
ristrutturazione delle imprese in difficoltà. Secondo gli orientamenti della Commissione
un’impresa è in difficoltà qualora essa non sia in grado di contenere le perdite che
potrebbero condurla quasi certamente, senza un intervento esterno dei poteri pubblici, al
collasso economico a breve o a medio termine. Gli aiuti al salvataggio hanno l’obiettivo di
mantenere temporaneamente in funzione l’impresa mentre viene elaborato un adeguato
piano di ristrutturazione. Possono essere autorizzati dalla Commissione in casi eccezionali e
devono consistere in garanzia di crediti o di crediti rimborsabili ad un tasso di interesse
equivalente a quello di mercato, essere motivati da gravi difficoltà sociali, essere corredati di
un impegno dello Stato membro di presentare un piano di ristrutturazione, limitarsi a quanto
è necessario per mantenere l'impresa in attività. Gli aiuti alla ristrutturazione hanno
l’obiettivo di finanziare un piano realizzabile, coerente e di ampia portata, volto a
ripristinare la redditività a lungo termine dell'impresa. Sono subordinati alla realizzazione di
un piano di ristrutturazione approvato dalla Commissione.
Gli strumenti normativi in materia di aiuti di Stato che specificano le linee di intervento per cui la
Commissione è autorizzata a dichiarare alcuni aiuti di Stato compatibili con il mercato comune e ad
esentarli dall'obbligo di notifica sono il regolamento n. 994/98, che comporta la possibilità di
emanare specifici ed ulteriori regolamenti di aiuti in settori particolari, ed il recente regolamento n.
651/2014 che per il periodo 2014-2020 ha sostituito, introducendo qualche novità, il precedente
regolamento n. 800/2008, a sua volta sostitutivo di diversi precedenti regolamenti. Il regolamento
n. 651/2014 ha cercato di razionalizzare l’utilizzo degli aiuti di Stato in determinati settori e può
essere considerato il riferimento normativo più rilevante in materia. Trova applicazione alle più
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rilevanti categorie di aiuti, in particolare si applica agli: a) aiuti a finalità regionale; b) aiuti alle
Piccole e Medie Imprese sotto forma di aiuti agli investimenti, aiuti al funzionamento e accesso ai
finanziamenti; c) aiuti per la tutela dell'ambiente; d) aiuti a favore di ricerca, sviluppo e
innovazione; e) aiuti alla formazione; f) aiuti all'assunzione e all'occupazione di lavoratori
svantaggiati e di lavoratori con disabilità; g) aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati da determinate
calamità naturali; h) aiuti a carattere sociale per i trasporti a favore dei residenti in regioni remote; i)
aiuti per le infrastrutture a banda larga; j) aiuti per la cultura e la conservazione del patrimonio; k)
aiuti per le infrastrutture sportive e le infrastrutture ricreative multifunzionali; l) aiuti per le
infrastrutture locali.
La disciplina di controllo in materia di aiuti di Stato
L’art. 108 del Trattato stabilisce alcuni criteri generali che nel corso del tempo hanno trovato una
più articolata e completa definizione nella giurisprudenza della Corte di Giustizia e nella prassi
della Commissione, organo deputato al controllo in materia di aiuti di Stato. Tale prassi è stata
recepita dal regolamento 659/99.
La procedura varia un poco a seconda che si tratti di aiuti nuovi, nel confronto dei quali vale il
generale principio per cui lo Stato non può dar corso all’aiuto prima dell’autorizzazione della
Commissione, o di aiuti esistenti, per cui al contrario vale il principio che durante la procedura di
controllo lo Stato può continuare ad erogare l’aiuto già esistente.
In relazione agli aiuti nuovi, o di modifica di aiuti esistenti, gli Stati membri hanno due obblighi
fondamentali:
1. Un obbligo di notifica alla Commissione del progetto di aiuto o di modifica che
si intende intraprendere.
2. Un obbligo c.d. di standstill, cioè di sospensione dell’aiuto prefigurato nella
legge o nell’atto amministrativo.
L’inosservanza di uno di questi due obblighi determina l’illegittimità sostanziale dell’aiuto, anche
se ciò non significa l’incompatibilità di per sé con il mercato comune, con la conseguenza che la
Commissione ha in ogni caso l’obbligo di procedere alla verifica di compatibilità (Tubemeuse,
causa C-142/87).
La prima fase della procedura consiste in un esame preliminare e sommario del progetto di aiuto
notificato alla Commissione. In questa fase la Commissione non è tenuta a comunicare l’avvenuta
notifica né che sia in corso un esame preliminare (Heineken, cause 91e127/83), né ad invitare i terzi
interessati a presentare osservazioni. Tale fase deve concludersi entro 2 mesi, altrimenti l’aiuto si
intende implicitamente autorizzato (Lorenz, causa 120/73), salvo i casi in cui il ritardo sia
imputabile allo Stato. La fase preliminare si conclude con una decisione pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale sia nel caso in cui venga aperta la procedura formale di cui all’art. 108.2 sia nel caso in cui
non si sollevino obiezioni all’aiuto. È da sottolineare che la Commissione potrà non aprire la
procedura formale solo nella limitata ipotesi di compatibilità manifesta dell’aiuto. Quando,
viceversa, la compatibilità dell’aiuto non appare manifesta alla prima lettura, la Commissione è
tenuta ad aprire la procedura formale.
La procedura di controllo formale ex art. 108.2 consiste in una approfondita verifica della natura e
delle implicazioni del progetto di aiuto, con rigorose garanzie procedimentali e la tutela del diritto
alla difesa dello Stato membro e del beneficiario dell’aiuto, che però non può pretendere lo stesso
dibattito in contraddittorio a cui ha diritto lo Stato (Falck e ACB, cause C-74-75/00).
Con riferimento agli aiuti esistenti l’art. 108.1 prefigura un esame permanente da parte della
Commissione, che può anche in un momento successivo proporre allo Stato membro degli
aggiustamenti ed aprire nuovamente la procedura in contraddittorio prevista dall’art. 108.2.
Quando la Commissione dichiara l’aiuto incompatibile con il mercato comune all’esito della
procedura di cui all’art. 108.2, può imporre allo Stato membro la soppressione dell’aiuto o
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prescrivere determinate modificazioni al progetto. Se l’aiuto è stato in tutto o in parte erogato, può
imporre allo Stato membro di esigerne la restituzione.
Problematico può essere in alcune occasioni il recupero dell’aiuto, che deve realizzarsi
attraverso i mezzi e le procedure vigenti negli Stati membri. La giurisprudenza della Corte
sul punto è chiara nel senso che lo Stato non può opporre a giustificazione del proprio
inadempimento disposizioni, pratiche o situazioni interne (Tubemeuse, causa C-142/87).
Può essere presa in considerazione esclusivamente una impossibilità assoluta di eseguire
correttamente la decisione (Commissione-Germania, causa C-5/89). Sarà in ogni caso
compito dello Stato in caso di difficoltà consultare la Commissione per stabilire eventuali
rimedi (Commissione-Italia, causa C-280/95).
Infine il regolamento n. 659/99 ha introdotto un termine di prescrizione di 10 anni
ininterrotti per il recupero di aiuti illegittimi, trascorso il quale l’aiuto sarà qualificato come
esistente.
Aiuti di Stato all'occupazione
Sono considerati compatibili con il mercato comune, e sono al contempo esonerati dall'obbligo di
notificazione, alcune tipologie di aiuti di Stato all’occupazione ed alla formazione contenuti in un
regolamento. Altri tipi di aiuto all'occupazione, non compresi nel regolamento, non sono vietati
purché siano preventivamente notificati alla Commissione.
I criteri interpretativi, gli orientamenti e le modalità applicative in materia di aiuti di Stato a favore
dell’occupazione risalgono ad un documento del 1995 della Commissione, “Orientamenti in
materia di aiuti di Stato all’occupazione” in cui sono stati ricomposti in maniera sistematica i criteri
messi in atto fin dagli anni ’70. Successivamente venne emanato il regolamento n. 2204/2002
relativo specificamente agli aiuti di Stato a favore dell'occupazione, ed il regolamento n. 68/2001
concernente gli aiuti destinati alla formazione. Il regolamento n. 651/2014, sulla linea del
precedente regolamento 800/2008, ha sostituito entrambi, prevedendo specifiche condizioni per
ritenere compatibili con il mercato unico aiuti di Stato in tali settori.
Mentre il regolamento n. 2204/2002 prevedeva come esplicito campo di applicazione gli aiuti alla
creazione di posti di lavoro e gli aiuti all'assunzione di lavoratori svantaggiati e disabili, il
regolamento n. 651/2014 ha modificato tale prospettiva, inglobando gli aspetti occupazionali nei
diversi ambiti oggetto del regolamento.
Così gli aiuti all’occupazione nel regolamento n. 651/2014 vengono permessi sottoforma di:
1) aiuti regionali che hanno come specifico obiettivo lo sviluppo delle regioni più sfavorite, tramite
incentivi agli investimenti e alla creazione di posti di lavoro (anche come costi salariali relativi ai
posti di lavoro creati), nella misura in cui non superano gli aiuti a finalità regionale al momento
della concessione dell'aiuto nella regione assistita interessata.
2) aiuti agli investimenti e all'occupazione in favore delle PMI, quando sono rivolte alle Piccole
(meno di 50 persone) e Medie (meno di 250 persone) Imprese nella misura in cui l'intensità di aiuto
non supera: a) il 20 % dei costi ammissibili nel caso delle piccole imprese; b) il 10 % dei costi
ammissibili nel caso delle medie imprese. I costi ammissibili possono anche corrispondere a costi
salariali correlati a posti di lavoro direttamente creati su un periodo di due anni.
3) aiuti all'assunzione di lavoratori svantaggiati sotto forma di integrazioni salariali. I costi
ammissibili corrispondono ai costi salariali durante un periodo massimo di 12 mesi successivi
all'assunzione di un lavoratore svantaggiato. Nel caso in cui il lavoratore interessato sia un
lavoratore molto svantaggiato, i costi ammissibili corrispondono ai costi salariali su un periodo
massimo di 24 mesi successivi all'assunzione. L'intensità di aiuto non può superare il 50 % dei costi
ammissibili.
4) aiuti all'occupazione di lavoratori con disabilità sotto forma di integrazioni salariali. I costi
ammissibili corrispondono ai costi salariali relativi al periodo in cui il lavoratore con disabilità è
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impiegato. L'intensità di aiuto non supera il 75 % dei costi salariali sostenuti nel periodo in cui il
lavoratore disabile è stato assunto.
5) aiuti intesi a compensare i sovra costi connessi all'occupazione di lavoratori disabili, nella misura
in cui l'intensità di aiuto non supera il 100 % dei costi ammissibili, corrispondenti a quelli che si
aggiungono ai normali costi salariali (e cioè i costi necessari per l’adeguamento dei locali; il tempo
impiegato dal personale per assistere il lavoratore disabile; i costi relativi all'adeguamento o
all'acquisto di attrezzature ad uso dei lavoratori disabili etc.).
6) aiuti intesi a compensare i costi dell'assistenza fornita ai lavoratori svantaggiati da parte del
personale aziendale, per un periodo massimo di 12 mesi successivi all’assunzione di un lavoratore
svantaggiato o 24 mesi successivi all’assunzione di un lavoratore molto svantaggiato. L'intensità di
aiuto non può superare il 50 % dei costi ammissibili
Il regolamento n. 651/2014 prevede anche aiuti alla formazione. Proprio gli aiuti alla formazione
sono quelli che sono stati oggetto delle modifiche più rilevanti rispetto al regolamento n. 800/2008.
Non è più possibile concedere aiuti per le formazioni organizzate dalle imprese per conformarsi alla
normativa nazionale obbligatoria in materia di formazione.
Sono ammissibili i costi relativi a: a) le spese di personale relative ai formatori per le ore di
partecipazione alla formazione; b) i costi di esercizio relativi a formatori e partecipanti alla
formazione direttamente connessi al progetto di formazione (viaggio, materiali, ma non spese di
alloggio); c) i costi dei servizi di consulenza connessi al progetto di formazione; d) le spese di
personale relative ai partecipanti alla formazione e le spese generali indirette (spese amministrative,
locazione, spese generali) per le ore durante le quali i partecipanti hanno seguito la formazione.
L’intensità dell’aiuto, aumentata rispetto al 2008, non può superare il 50 % dei costi ammissibili, ed
aumentata fino al 70% nel caso di lavoratori con disabilità o lavoratori svantaggiati, ovvero di PMI.
Aiuti di Stato e Contratti di Formazione e lavoro
Particolarmente significativo è stato l’intervento della Corte di Giustizia in relazione ai contratti di
formazione e lavoro previsti per lungo tempo nell’ordinamento italiano. Si tratta di una annosa
vicenda che non appare ancora giunta a conclusione.
a) Il contratto di Formazione e Lavoro
La prima introduzione di un contratto di formazione e lavoro avviene con legge 1 giugno 1977 n.
285. Tale forma di Contratto di formazione, previsto in via provvisoria per tre anni, per i giovani
(15-26 anni) prevedeva l’esenzione quasi totale (nei limiti dell’apprendistato, oltre qualche
incentivo ulteriore a seconda dei territori) per tutti. Non aveva però ottenuto buoni risultati
nonostante tale apporto economico (solo 8300 assunti nei tre anni).
Rapporti di formazione e lavoro, con vigenza solo per le zone terremotate della Calabria e della
Basilicata, erano stati previsti dall’art. 3ter l. n. 140/1981.
Il DL n. 17/1983 conv. in l. n. 79/1983 all’art. 8 consentiva per la durata di un anno l’assunzione
nominativa di giovani (15-29 anni) con contratto a termine avente finalità formativa (ma alcuni
autori escludevano la causa mista) e con esclusione dei limiti numerici previsti da leggi e contratti,
senza però alcuna previsione di carattere economico/contributivo. Tale fattispecie ebbe molto
successo: 162.442 contratti nell’anno di vigenza della l. n. 79/1983. Ciò sembra suggerire che
nell’Italia degli anni ’80 convinceva più gli imprenditori la possibilità dell’assunzione
nominativa che il beneficio economico. Non bisogna dimenticare che allora era in piena vigenza il
monopolio pubblico del collocamento a chiamata numerica, che la Corte di Giustizia avrà poi modo
di ritenere non conforme all’art. 86 del Trattato CE [106 TFUE] nel 1997 (job center II).
Il contratto di formazione e lavoro introdotto in via definitiva con legge n. 863/1984 (dopo un certo
numero di decreti legge reiterati) si basa su questi precedenti ed assomma il contributo economico
(ridotto però al 25% per tutti, oltre specificazioni) all’assunzione nominativa. Per dare però alla luce
una nuova fattispecie contrattuale che della formazione fa un suo perno centrale, tanto che da ora in
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poi si parla del CFL come di contratto a causa mista. Le imprese avevano altresì la possibilità di
inquadrare i lavoratori con CFL in una categoria inferiore a quella equivalente alle loro effettive
mansioni, risparmiando ulteriormente sul costo del lavoro.
Successivamente alcuni provvedimenti modificarono ulteriormente il quadro. La legge n. 407/90
prevedeva la possibilità di una modulazione regionale, e diversi provvedimenti regionali estesero il
concetto di giovani: 35 anni Lazio; 38 Calabria; 40 Campania, Abruzzo, Sardegna; 45 Basilicata,
Molise, Puglia, Sicilia. La legge n. 169/91 ha elevato il limite a 32 anni di età. La legge n. 451/94 è
intervenuta sul monte ore di formazione minimo.
b) L’intervento della Corte di Giustizia
La vicenda prendeva il via dalla notificazione alla Commissione del progetto di legge n. 196/97 che
conteneva alcune modifiche al sistema dei CFL in Italia. Da tale momento la Commissione
instaurava un procedimento che allargava l’indagine anche ai provvedimenti normativi italiani
precedenti che non erano mai stati notificati. La decisione della Commissione 2000/128/CE del 11
maggio 1999 ha ritenuto compatibili solamente gli aiuti concernenti una creazione netta di nuovi
posti di lavoro e che si riferiscano a lavoratori in difficoltà, intesi come giovani fino a 25 anni, fino
a 29 anni se laureati, e a disoccupati di lungo periodo (almeno da un anno). Ha invece considerato
incompatibili le riduzioni dei contributi previdenziali eccedenti, ordinando all’Italia di recuperare
gli aiuti illegittimamente concessi.
La Corte di Giustizia ha condiviso la posizione della Commissione con sentenza del 7 marzo 2002,
in causa C-310/99, respingendo il ricorso italiano.
Con successiva sentenza del 1 aprile 2004, in causa C-99/02, la Corte ha condannato l’Italia per
inadempienza, non avendo adottato tutte le misure necessarie per recuperare gli aiuti
illegittimamente concessi.
Con sentenza del 17 novembre 2011, in causa C-496/09, la Corte ha condannato nuovamente l’Italia
obbligandola a versare alla Commissione una somma forfettaria di 30 milioni di euro, ed una
ulteriore penalità di importo corrispondente alla moltiplicazione dell’importo di base di 30 milioni
per la percentuale degli aiuti illegali incompatibili il cui recupero non è ancora stato effettuato per
ogni semestre di ritardo.
c) qualche critica
Nell’approccio della Commissione può certamente avanzarsi qualche dubbio relativo al fatto che
non pare essere stato perfettamente colto l’effettivo ruolo dei CFL nell’ordinamento italiano. In
particolare ci si riferisce da un lato al problema della chiamata nominativa, che era stato il vero
motivo dell’intenso utilizzo di CFL in Italia, e che come effetto aveva proprio quello di liberare in
parte il sistema di collocamento che poi la CGUE ha dichiarato incompatibile con il Trattato; e,
dall’altro, si vuole sottolineare la sottovalutazione dell’apporto formativo previsto dai CFL (e
quindi la mancata applicazione delle regole in materia di aiuti di Stato alla formazione, e non solo
all’occupazione, di cui al regolamento CE n. 68/2001).
d) ulteriori problematiche di diritto interno
La questione non ha però smesso di creare problemi. In relazione alle questioni relative al recupero
degli aiuti illegittimi in Italia si segnalano diversi provvedimenti dei Tribunali interni che hanno
portato ad una pronuncia della Corte costituzionale (Corte cost. n. 125/2009) che ha suggerito
l’applicazione del termine ordinario di prescrizione decennale. Sul punto la giurisprudenza di
merito non ha assunto un orientamento univoco, qualificando la questione del recupero del
pagamento quale indebito oggettivo ex art. 2033 cc con prescrizione decennale e respingendo
quindi le contestazioni delle aziende (App. Torino 2.12.2009 su Fiat SpA), oppure, pur
riconoscendo la mancata prescrizione, riconoscendo le contestazioni delle aziende (App.
Campobasso 15.7.2012 su Geo SpA).
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Più di recente la giurisprudenza ha specificato che “l'esigenza primaria di recuperare gli aiuti di
Stato dichiarati incompatibili con il mercato interno, comporta la necessità di disapplicare le norme
nazionali, anche di carattere sostanziale, che ostacolano il recupero stesso” (Cass. n. 11228/2011),
posto che “in tema di recupero di aiuti di Stato, la normativa nazionale sulla prescrizione deve
essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario,
qualora la normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con
decisione della Commissione Europea divenuta definitiva” (Cass. 23418/2010).
La Suprema Corte (Cass. sez. lav. 4.3.2013 n. 5284; Cass. civ. 4.5.2012 n. 67256; Cass. sez. lav.
3.5.2012 n. 6671) ha infine avuto modo di riconoscere la prescrizione decennale, escludendo quella
quinquennale ma senza inquadrare la questione quale indebito oggettivo, e riconoscendo come sia
onere dell’impresa che ha ottenuto tali sgravi dedurre e provare quali contratti rientrino nelle
deroghe ritenute dalla Commissione compatibili con il regime degli aiuti.
Così si è espressa Cass. 6671/2012:
“Agli effetti del recupero degli sgravi contributivi integranti aiuti di Stato incompatibili col mercato comune
(nella specie, sgravi per le assunzioni con contratto di formazione e lavoro, giudicati illegali con decisione
della Commissione europea dell'11 maggio 1999), vale il termine ordinario di prescrizione decennale di cui
all'art. 2946 c.c., decorrente dalla notifica alla Repubblica Italiana della decisione comunitaria di recupero,
atteso che, ai sensi degli art. 14 e 15 del regolamento (Ce) n. 659/1999, come interpretati dalla giurisprudenza
comunitaria, le procedure di recupero sono disciplinate dal diritto nazionale ex art. 14 cit., nel rispetto del
principio di equivalenza fra le discipline, comunitaria e interna, nonché del principio di effettività del rimedio,
mentre il "periodo limite" decennale ex art. 15 cit. riguarda l'esercizio dei poteri della Commissione circa la
verifica di compatibilità dell'aiuto e l'eventuale decisione di recupero. Né si può ritenere che si applichi il
termine di prescrizione dell'azione di ripetizione ex art. 2033 c.c., perché lo sgravio contributivo opera come
riduzione dell'entità dell'obbligazione contributiva, sicché l'ente previdenziale, che agisce per il pagamento
degli importi corrispondenti agli sgravi illegittimamente applicati, non agisce in ripetizione di indebito
oggettivo. Né, infine, è applicabile il termine di prescrizione quinquennale ex art. 3, commi 9 e 10, l. n. 335 del
1995, poiché questa disposizione riguarda le contribuzioni di previdenza e assistenza sociale, mentre
l'incompatibilità comunitaria può riguardare qualsiasi tipo di aiuto, senza che si possa fare ricorso
all'applicazione analogica della norma speciale, in quanto la previsione dell'art. 2946 c.c. esclude la sussistenza
di una lacuna normativa”.
Il legislatore è recentemente intervenuto con uno specifico provvedimento in materia (d.l. n.
59/2008 conv in l. n. 101/2008), specificando le eventualità con cui il giudice può sospendere
l’esecutività di un titolo di pagamento relativo al recupero di aiuti illegittimi. La Corte
costituzionale è peraltro intervenuta su tale norma dichiarando incostituzionale l’art. 1, comma 3,
nella parte in cui stabilisce la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione adottato o
confermato dal giudice (Corte cost. 23.7.2010 n. 281).
Bibliografia essenziale:
Adam R., Tizzano A., Manuale di Diritto dell’Unione europea, Giappichelli, 2014; Tesauro G.,
Diritto Comunitario, Cedam, 2012; Frignani A., Bariatti S., Disciplina della concorrenza nella UE,
Cedam, 2012; Strozzi G. (a cura), Diritto dell’Unione Europea – parte speciale, Giappichelli, 2010;
Commissione europea, concorrenza e aiuti di Stato, www.europa.eu.
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