La regolamentazione della concorrenza tra regole per le imprese e
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La regolamentazione della concorrenza tra regole per le imprese e
UT/2005 La regolamentazione della concorrenza tra regole per le imprese e gli interessi dei consumatori. Umberto Troiani 1. Premessa. La disciplina della concorrenza rappresenta il fattore necessario per il consolidamento e lo sviluppo dell’economia di mercato, basata sul pluralismo, sulla libertà di accesso ai fattori di produzione e agli sbocchi di mercato, sulla diversità dei prodotti offerti, sull’incremento della libertà di scelta, sullo sviluppo della qualità dei prodotti e sul meccanismo di auto controllo dei prezzi. Da un punto di vista prettamente economico la disciplina della concorrenza è lo strumento per superare particolari momenti di crisi dell’economia, eliminando o riducendo gli ostacoli allo sviluppo rappresentati dalla presenza di monopoli od oligopoli che frenano il libero evolversi dei rapporti di produzione e di scambio di beni e servizi. Tuttavia, accanto a tali aspetti vanno considerati quelli di tipo più propriamente di indirizzo politico, data la crescente importanza dei fenomeni economici nella determinazione delle linee di sviluppo dei singoli Stati. Infatti se è pur vero che in un regime di concorrenza il mercato deve essere libero, ciò è vero solo in parte essendo altrettanto vero che compito dello Stato, è quello di intervenire per rendere concorrenziali le dinamiche che nel mercato stesso si generano. In tal senso ogni disciplina sulla tutela della concorrenza partecipa non solo di una visione esclusivamente economica del fenomeno anticoncorrenziale, vale a dire diretta alla eliminazione o al controllo di situazioni di monopolio di accordi tra imprese o di eccessiva concentrazione viste come ostacoli al corretto sviluppo economico, ma altresì porta con sé misure di regolazione del mercato, nel senso che il mercato non è solamente inteso come luogo di produzione, ma come spazio in cui agiscono, assieme alle imprese, i destinatari dei beni e servizi prodotti.. La composizione di una tale contraddizione (più apparente che reale) tra dinamiche del mercato ed intervento regolatore dello Stato ha assunto forme diverse a seconda del luogo e soprattutto, del periodo in cui sono intervenute. Quanto al primo aspetti basti considerare come la storia del diritto della Concorrenza in Europa sia stata assai diversa da quella americana proprio in ragione della differente impostazione e del diverso sviluppo dell’idea di Stato e di economia che ha contraddistinto e, ancora in parte, contraddistingue le due realtà. Infatti, se negli Stati Uniti lo Stato ha sempre ricoperto, in particolare per quanto riguarda la materia economica, un potere limitato, esaltando così la libertà di iniziativa del singolo, in Europa lo Stato rappresenta tuttora il fulcro, in misura più o meno marcata, dell’intera attività di ciascun paese e quindi, soprattutto, dell’economia. Così mentre negli Stati Uniti le misure anticoncorrenziali sono state adottate prevalentemente per arginare il potere economico che aveva preso il sopravvento su quello politico consentendo alle grandi corporation di divenire le veri artefici di gran parte delle scelte di indirizzo anche politico, in Europa il diritto della concorrenza si afferma specialmente in ambito comunitario con la finalità di realizzazione del mercato comune, quindi con lo scopo di favorire la libera circolazione dei prodotti nello spazio comune europeo. 1 UT/2005 2. La disciplina italiana della concorrenza prima del 1990. Se queste risultano essere in estrema sintesi le ragioni regolatorie del diritto della concorrenza negli Stati Uniti e nell’Europa della Comunità europea, un discorso specifico va affrontato con riguardo alle disposizioni che possono rinvenirsi nell’ordinamento giuridico nazionale che rappresentano in un certo modo l’evoluzione della disciplina concorrenziale nel coso del tempo. 2.1 Il codice civile La disciplina della concorrenza sleale nasce a metà del 1800 dalla elaborazione della giurisprudenza chiamata a colmare un vuoto normativo sempre più avvertito con gli sviluppi dell’economia di mercato. L’esistenza di accordi regolatori delle relazioni concorrenziali, non soddisfacendo l’esigenza di consentire un adeguato sviluppo dell’economia nazionale, diedero luogo ad istanze di una disciplina normativa della concorrenza a tutela di posizioni imprenditoriali già acquisite ed a garanzia del leale svolgimento della competizione tra imprese. Apre la via ad una soluzione normativa l’opera della giurisprudenza: essa configura gli atti di concorrenza sleale quali illeciti extra contrattuali (art. 1151 del codice civile del 1865), giungendo a tipizzare altresì taluni comportamenti (imitazione di prodotti o segni distintivi altrui idonei a creare confusione, denigrazione commerciale, appropriazione di pregi). Altro passo importante verso l’adozione di una normativa specifica fu la convenzione, stipulata a Parigi nel 1883, in cui venne inserita con l’atto addizionale del 14/12/1900 l’art. 10 bis con cui si accordava la tutela concessa ai cittadini, in ciascuno stato dell’unione, contro la concorrenza sleale. Tale disposizione divenne più stringente con le modifiche del 1911 con le quali l’assicurazione di una protezione effettiva contro la concorrenza sleale divenne un obbligo per tutti gli Stati contraenti. Questa disposizione costituì la sola disciplina della concorrenza sleale in Italia fino all’entrata in vigore del Codice Civile del 1942 che, agli artt. 2598 ss. c.c., si occupò della materia con norme sostanzialmente ispirate a quelle della convenzione. La normativa codicistica della concorrenza del 1942 va innanzitutto collocata nel contesto storico dal quale è scaturita. essa trova sede nel libro V del codice civile, vale a dire nella parte relativa al lavoro, nello stesso titolo relativo ai consorzi. Ciò significa che le disposizioni del codice civile in materia di concorrenza vanno storicamente inquadrate nell’ottica dell’ordinamento corporativo, inteso sia come organizzazione del lavoro, sia come struttura attraverso la quale sia attuavano le direttive di politica economica. Esse sono dunque da riconnettersi essenzialmente all’esigenza di uno sviluppo di realtà industriali sufficientemente forti e alla definizione di regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna delle imprese operanti sul mercato potesse avvantaggiarsi nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi con l’adozione di metodi contrari all’etica delle relazioni commerciali. Attengono al primo aspetto le disposizioni di cui agli articoli da 2595 a 2597, dirette essenzialmente a prevedere o consentire limiti alla concorrenza (sia di natura legale che contrattuale), sia a prevedere un generico obbligo a contrarre per le imprese che agiscono in regime di monopolio: quindi consentendo una tale possibilità, sia pure in virtù di uno specifico riconoscimento legale. Attengono al secondo aspetto le norme dettate in materia di concorrenza sleale (artt. da 2598 a 2601). L’art. 2598 c.c. prevede sia fattispecie puntuali di concorrenza sleale sia una clausola generale. Le fattispecie specifiche appartengono a figure in massima parte elaborate dalla giurisprudenza e già riprese in altre normative straniere e dalla stessa convenzione di Parigi e fanno 2 UT/2005 riferimento alle classiche figure della confusione di prodotti o segni distintivi, dell’imitazione servile, della denigrazione e dell’appropriarsi dei pregi dei prodotti dell’impresa concorrente. La qualificazione della disciplina stabilita dal codice può essere desunta con chiarezza dalla clausola generale (art. 2598, n. 3)) la quale considera punibile l’atto contrario ai principi della correttezza professionale e che sia allo stesso tempo idoneo a danneggiare l’altrui azienda. La lettera delle disposizioni del codice civile indica, come ampiamente confermato dalla giurisprudenza, che la disciplina della concorrenza sleale riguarda i rapporti tra imprese. Si ha pertanto un atto di concorrenza sleale, qualora soggetto attivo e passivo siano entrambi imprenditori e si trovino tra di loro in rapporto di concorrenza economica. In tal caso (e solo in tal caso) la legge riconosce al secondo la possibilità di adire il giudice ordinario proponendo azione di concorrenza sleale contro il primo. La legittimazione attiva e passiva è riconosciuta anche alle cosiddette associazioni professionali nel caso in cui gli atti di concorrenza sleale posti in essere da un terzo pregiudichino gli interessi di un’intera categoria professionale. Pertanto in questo stadio ed in tale contesto (prescindendo da qualsiasi evoluzione anche interpretativa successivamente intrapresa dalla dottrina e dalla giurisprudenza) la disciplina del codice civile rimane confinata nell’ambito della tutela degli interessi dati e degli imprenditori già operanti ed addirittura organizzati, dove i confini del mercato di riferimento appaiono statici e ristretti all’ambito nazionale: si considerino al riguardo le disposizioni relative alla legittimazione dei limiti alla concorrenza e al richiamo alla correttezza professionale dei concorrenti quale regola di condotta. Le norme codicistiche non si preoccupano, né di considerare la concorrenza come fattore di sviluppo dell’economia e quindi del benessere collettivo, né tanto mento della tutela degli interessi della collettività, in quanto costituita da soggetti fruitori dei beni e servizi prodotti. Ciò che sembra emergere dalle norme del codice civile non è quindi la libertà di concorrenza ma piuttosto il suo contrario, legittimato da esigenze di interesse nazionale o corporativo. Anzi, con la previsione della possibilità di stabilire limiti contrattuali alla concorrenza il codice, lungi dal prevederla come principio generale dell’ordinamento, la qualifica come strumento che realizza un interesse individuale e quindi un diritto del quale il soggetto titolare può disporre. Anche i limiti a tale disponibilità sono stabiliti ad esclusivo interesse degli imprenditori e non della collettività. La parte di mercato relativa alla domanda è solo sfiorata dalle disposizioni in esame, ma non in quanto parte necessaria e coinvolta nel processo produttivo bensì semplicemente come parametro ed oggetto della tutela accordata all’imprenditore leso, poiché la natura del diritto vantato da questi nei confronti di un altro rispetto ad un atto di concorrenza sleale è riconducibile in ultima analisi sempre alla figura dello sviamento della clientela. Ne deriva che ad esempio un atto pregiudizievole direttamente degli interessi della collettività non è, ai sensi del codice civile punibile in sé se non lesivo di diritti o aspettative di imprese concorrenti: il danno preso in considerazione dalla normativa del codice civile è infatti esclusivamente quello nei riguardi dell’altrui azienda. Ciò se può essere valido nell’ottica di una politica che aveva come soggetti privilegiati di tutela il commerciante e l’industriale in quanto fonti di ricchezza per il Paese (e tale politica assunse un valore determinante anche nell’applicazione della clausola generale da parte della giurisprudenza) non può più esserlo o meglio perde molto del suo significato se considerato nell’ottica di una nozione di concorrenza che si è andata sviluppando e definendo nei suoi contorni come elemento essenziale di sviluppo, beneficiando degli aspetti positivi connessi più alle aperture che alle chiusure dei mercati. Che è poi quello che è avvenuto nel corso del tempo. Per converso, laddove norme specifiche prevedevano, per specifici prodotti, appositi divieti o speciali denominazioni, indicazioni o prescrizioni tecniche e puntuali, la stessa giurisprudenza ha seguito orientamenti diversi, pur agevolata dal disposto formale delle norme da applicare, soprattutto con riferimento alla corrispondenza delle forme di divulgazione al contenuto dei prodotti (come ad es. nel caso delle disposizioni in materia alimentare). 3 UT/2005 2.1 La concorrenza nella Costituzione In questa visione evolutiva del diritto positivo in materia di concorrenza, occorre a questo punto valutare l’impatto sulle disposizioni civilistiche delle norme contenute nella Costituzione, con particolare riguardo all’art. 41. L'art. 41 della Costituzione stabilisce come regola generale il principio della libertà di iniziativa economica. L'opzione dell'Assemblea costituente è stata quindi per una economia di mercato, con il riconoscimento del ruolo preponderante assolto dalla iniziativa dei privati. Naturalmente la disposizione non va inquadrata tanto all’interno di una scelta a favore di un sistema liberale puro di produzione in opposizione a forme collettive, posto che non è stato mai messo in discussione il principio dell’economia di mercato nel nostro ordinamento giuridico, quanto piuttosto in via prioritaria sostanzia l’affermazione del principio dell’avvenuto superamento dell’organizzazione corporativa dell’attività produttiva propria del regime precedente, sancendo così il passaggio da un’economia chiusa ad una economia aperta. La stessa norma costituzionale, dopo aver stabilito il principio della libertà di iniziativa economica ne precisa i contenuti stabilendo innanzitutto dei limiti "passivi: infatti, viene detto al comma 2 dell’art. 41 che l’iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La norma stabilisce infine anche dei limiti attivi, disponendo che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Gli ultimi due commi del citato articolo hanno fatto sostenere che, pur qualificando l’economia di mercato come interesse costituzionalmente rilevante attraverso il riconoscimento della libertà di iniziativa del singolo, l’art. 41 non ha inteso affermare altresì un principio della libera concorrenza, come disciplina del mercato in quanto tale, nella sua accezione concorrenziale pura in contrapposizione a forme monopolistiche od oligopolistiche. Anzi, a dimostrazione di questa interpretazione, proprio gli ultimi due commi dell’art. 41 e l’art. 43 successivo della carta costituzionale hanno costituito nel corso degli anni seguenti la base giuridica per un massiccio intervento dello Stato nell’economia nonché il mantenimento di regimi economici monopolistici od oligopolistici in settori dichiarati di interesse nazionale o comunque strategici, pur se attuati in una visione volta al rafforzamento della struttura produttiva nazionale tale da renderla competitiva anche sui mercati internazionali, all’industrializzazione di aree depresse e al mantenimento di livelli occupazionali che favorissero un aumento del benessere generale. Tuttavia, ad una lettura più attenta l’art. 41 della costituzione si può avanzare una interpretazione diversa. Anche se il disposto del comma 1 dell’art. 41 è diretto a tutelare la libertà del singolo imprenditore piuttosto che stabilire una disciplina del mercato in generale, a differenza del regime previsto dal codice civile, l’introduzione del principio dell’utilità sociale, mostra il segno di un profondo cambiamento in atto, dove prende corpo un disegno strategico di sviluppo non fondato esclusivamente su limiti ma volto a coniugare la libertà di iniziativa economica individuale con la utilità sociale, declinata come sicurezza, libertà o dignità umana e da intendersi come fattore di contemperamento e misura dell’efficacia delle iniziative economiche intraprese. La valutazione dell’attività economica non può non riguardare infatti anche gli aspetti correlati alla qualità dell’attività stessa dei prodotti offerti, alla quantità e alla diversificazione delle merci e quindi alla libertà di scelta degli utenti nonché ai diritti fondamentali della persona soprattutto in termini di determinazione del livello dei prezzi, ma anche nel senso che nello sviluppo che l’attività economica è chiamata a perseguire è pure compresa la dignità della persona quale lavoratore e quindi come fattore esso stesso di sviluppo. In questo contesto quindi, la libera iniziativa economica riveste non più o non solo lo strumento per la tutela di un interesse individuale, ma, in quanto principio dell’ordinamento 4 UT/2005 giuridico, assume carattere di interesse generale e presuppone, per la prima volta nel nostro ordinamento giuridico, termini di confronto, una controparte necessaria all’individuazione del mercato: oltre agli imprenditori, anche i soggetti cui l’attività economica si rivolge. Da questo punto di vista, i concetti di sicurezza, libertà e dignità umana richiamano la libertà di scelta, quantitativa, ma altresì qualitativa dei destinatari dell’azione economica, libertà che riflette la sostanza o il fine della libertà di iniziativa economica del singolo imprenditore. Perché non vi è dubbio che se la libera iniziativa economica presuppone libertà di accesso al mercato e quindi una pluralità competitiva delle imprese, proprio la moltiplicazione dell’offerta che ne è conseguenza determina la possibilità di scelta dei destinatari dei beni e servizi prodotti. Quindi l’art. 41 della Costituzione stabilisce in primo luogo sia la preferenza per un regime concorrenziale delle imprese, sia il necessario raccordo di questo con le preferenze dei consumatori, individuandoli come aspetti dello stesso fenomeno. In secondo luogo stabilisce il principio di un mercato non più inteso come luogo esclusivamente economico (libero incontro di domanda ed offerta) ma come regime normativo delle relazioni di scambio, dove sussiste la necessità di un governo dei comportamenti e quindi della individuazione di un principio unificante, vale a dire quello della regolazione. In definitiva l’art. 41 della Costituzione pone il principio della libertà di inziativa economica intesa come regime concorrenziale delle imprese all’interno di un quadro di norme definito e demanda alla legge di conformare il mercato ai principi che nella norma stessa sono espressi, posto infatti che, ai sensi del dettato costituzionale, l'attività economica non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e di indirizzo politico ma deve attuarsi in un mercato regolato. 3. Il diritto comunitario : la politica della concorrenza Si è accennato come in ambito comunitario il diritto della concorrenza o meglio la politica della concorrenza fosse stata ritenuta essenziale alla realizzazione del mercato interno, permettendo alle imprese di competere a parità di condizioni sui mercati di tutti gli Stati membri. L'obiettivo della politica della concorrenza è quindi quello di promuovere l'efficienza e lo sviluppo economico. Nel quadro dell'economia di mercato, la concorrenza favorisce pertanto detto sviluppo, sia assicurando la concorrenzialità delle imprese, dei prodotti e dei servizi sul mercato comune e rafforzando la presenza delle imprese europee sul mercato mondiale, sia tutelando gli interessi dei consumatori beneficiari dei bei e servizi realizzati. La politica europea della concorrenza permette quindi di evitare che eventuali intese e pratiche anticoncorrenziali ostacolino il gioco della concorrenza (intese e pratiche concordate) ovvero che determinate imprese sfruttino indebitamente il loro potere economico a discapito di imprese minori (abuso di posizione dominante) ovvero che gli Stati membri falsino le regole della concorrenza (aiuti di Stato). L'obiettivo fondamentale delle disposizioni comunitarie in materia di concorrenza, prima con la previsione di disposizioni nell’ambito del Trattato che istituiva la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951 dove era previsto un divieto per le intese restrittive della concorrenza, la discriminazione dei prezzi ed un prima forma di controllo delle concentrazioni e poi con le norme specifiche del Trattato CEE del 1957, era pertanto quello di fissare "un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno" (art. 3g del Trattato) quale condizione di realizzazione del mercato interno. Le norme comunitarie in materia di diritto della concorrenza si fondano sugli articoli 81- 89 del trattato CE. Gli articoli 81 e 82 sono le norme fondamentali della normativa comunitaria in materia di concorrenza, applicabile alle imprese private. 5 UT/2005 L'articolo 81 vieta gli accordi e le pratiche concordate che abbiano per oggetto o per effetto di pregiudicare la concorrenza nel mercato. L'articolo 82 vieta lo sfruttamento abusivo di posizione dominante. . L' articolo 81 , del trattato CE vieta tutti gli accordi tra imprese e le pratiche concordate "che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune". Sono quindi vietate le intese volte a limitare o ad eliminare la concorrenza fra le imprese partecipanti, al fine di aumentare i prezzi e i profitti delle stesse, senza produrre vantaggi compensativi oggettivi. Nella pratica, tali accordi hanno generalmente per oggetto la fissazione di prezzi, la limitazione della produzione, la ripartizione di mercati, clienti o territori, la manipolazione di gare d'appalto o una combinazione di questi obiettivi. A livello comunitario, nel corso del tempo è stata messa a punto una vasta politica globale in materia di accordi e pratiche concordate le intese orizzontali o verticali, finalizzate alla fissazione diretta o indiretta dei prezzi; In forza dell'articolo 81, paragrafo 3 (ex articolo 85, paragrafo 3), che stabilisce a quali condizioni il divieto generale sancito dall'articolo 81, paragrafo 1, non si applica a taluni tipi di accordi,sono stati adottati regolamenti d'esenzione per categoria. (accordi di fornitura o distribuzione; trasferimenti di tecnologia, accordi di specializzazione, accordi di ricerca e sviluppo). In alcuni casi è riconosciuta un’esenzione a titolo individuale, in ragione del fatto che le eventuali restrizioni della concorrenza, che l'accordo comporta, sono compensate dal contributo ad un obiettivo d'interesse generale (miglioramento della produzione, progresso tecnico od economico e vantaggi per i consumatori), così come sono ammessi determinati accordi d'importanza minore. L'articolo 82 (ex articolo 86) del trattato dichiara "incompatibile con il mercato comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al commercio tra gli Stati membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo". Il divieto colpisce una situazione di potere economico grazie alla quale l'impresa che la detiene è in grado di ostacolare la persistenza di una concorrenza effettiva sul mercato rilevante e di influire in maniera sostanziale sulle sue condizioni di sviluppo. La posizione dominante è determinata dalla portata del mercato di riferimento inteso sia in termini geografici che in funzione delle caratteristiche del prodotto, dei suoi prodotti di sostituzione, nonché della percezione dei consumatori. Diversamente dall'articolo 81 (ex articolo 85) del trattato, l'articolo 82 (ex articolo 86) non contempla deroghe individuali né esenzioni per categoria. Per quanto riguarda il controllo delle concentrazioni, dopo l’iniziale accantonamento della proposta di includere nel Trattato di Roma, una norma pari a quella dell’art. 66 del Trattato CECA, solo nel 1989 si è giunti alla definizione di una normativa ad hoc. Inizialmente è toccato alla Corte di giustizia colmare tale vuoto. Nella sentenza "Continental Can" del 1973, la Corte ha stabilito che si può ravvisare un abuso di posizione dominante qualora un'impresa, che già detenga una tale posizione, la rinforza acquisendo un'impresa concorrente. Nel 1987, nella causa "BAT-Philip Morris", la corte ha aggiunto che, in assenza di posizione dominante, un'acquisizione avente un tale effetto può essere sanzionata in forza dell'articolo 81, in quanto elemento di un accordo con effetti restrittivi sulla concorrenza. Un'operazione di concentrazione tra imprese può creare o rafforzare una posizione dominante, che può portare a degli abusi. Tale rischio impone un controllo a priori delle operazioni di concentrazione da parte dell'autorità comunitaria. Ma non avendo il trattato CEE contemplato alcuna disposizione in materia la Commissione ha proposto l'adozione di una regolamentazione formale, emanata dal Consiglio nel 1989, con il regolamento n. 4064/89 del 21 dicembre 1989. Detto regolamento definisce la nozione di "posizione dominante" per cui "le operazioni di concentrazione, che creano o rafforzano una posizione dominante, da cui risulti che una 6 UT/2005 concorrenza effettiva sia ostacolata in modo significativo nel mercato comune o in una parte sostanziale di esso, devono essere dichiarate incompatibili con il mercato comune". Si ha una concentrazione quando un'impresa acquisisce il controllo esclusivo su un'altra impresa o su un'impresa che controllava congiuntamente con un'altra impresa, o quando più imprese acquisiscono il controllo di un'impresa o ne costituiscono una nuova. Il Regolamento 4064/89 stabilisce poi che le operazioni di concentrazione che superano determinare soglie di fatturato devono essere preventivamente comunicate alla Commissione CE, affinché essa valuti se tali operazioni comportino la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante che elimina o riduce in maniera sostanziale e durevole la concorrenza sul mercato comunitario. Se la Commissione ritiene che le operazioni notificate rientrino nel campo di applicazione del presente regolamento e nutra serie perplessità sulla compatibilità delle stesse con il mercato Europeo, essa deve avviare un’istruttoria particolareggiata del caso e nel frattempo può ordinare alle imprese di sospendere in tutto o in parte la realizzazione delle concentrazioni. Se al termine della istruttoria la Commissione ritiene incompatibile con il mercato europeo le operazioni sottoposte alla sua attenzione, può senz’altro vietare la concentrazione o, in alternativa, può autorizzarla prescrivendo le misure necessarie, che consistono in veri e propri obblighi per le parti interessate, per impedire che si verifichino effetti distorsivi della concorrenza. Nel caso che la concentrazione vietata venga ugualmente eseguita o che gli impegni assunti dalle imprese interessate non vengano mantenuti è facoltà della commissione comminare sanzioni pecuniarie. Da notare altresì che tale regolamento riguarda le concentrazioni che hanno rilievo sulla concorrenza del mercato comunitario, mentre per quelle che hanno rilievo esclusivamente locale vale la legislazione dei singoli Stati membri. Nel 2001, con la pubblicazione del Libro verde, la Commissione ha avviato la riforma del sistema di controllo delle concentrazioni. Il Libro verde affronta sia questioni di fondo, sia questioni giurisdizionali e procedurali e conduce all’emanazione del regolamento (CE) n. 139/2004, entrato in vigore il 1° maggio 2004, in concomitanza con l'allargamento dell'Unione europea. Con il nuovo regolamento sul controllo delle concentrazioni viene introdotto il il "principio della sussidiarietà", coinvolgendo maggiormente le autorità e gli organi giurisdizionali nazionali competenti in materia di concorrenza all'interno dell'Unione europea (UE) posto che in una realtà economica caratterizzata da un elevato grado di concentrazione industriale, il regolamento sulle concentrazioni precedentemente in vigore, che prevedeva l'esercizio esclusivo da parte della Commissione del controllo su qualsiasi operazione di concentrazione di portata transfrontaliera di un certo rilievo, aveva iniziato ad apparire superato. Viene pertanto incoraggiata la partecipazione delle autorità nazionali garanti della concorrenza e semplifica la procedura di notificazione e d'indagine. In ordine al criterio della "posizione dominante il regolamento (CE) n. 139/2004 contempla gli effetti negativi sulla concorrenza prodotti nei mercati caratterizzati da oligopolio, nell'ambito dei quali l'impresa risultante dalla concentrazione non detiene una posizione dominante nel senso stretto del termine. La disciplina comunitaria in materia di concorrenza si indirizza anche agli aiuti di Stato: le restrizioni alla concorrenza infatti non sono determinate unicamente dalle imprese, ma possono essere causate mediante aiuti agli operatori economici da parte degli Stati o soggetti pubblici. A tali fini l' articolo 87 del trattato dichiara incompatibili con il mercato comune "nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza". La Commissione e la Corte di giustizia hanno dato un'interpretazione molto ampia del concetto di "aiuto". Il testo del trattato cita gli aiuti "concessi... sotto qualsiasi forma", e le autorità comunitarie vi fanno rientrare tutti gli aiuti pubblici ovvero concessi da un ente territoriale. 7 UT/2005 L'aiuto può provenire anche da un organismo privato, quale un'impresa privata o un'impresa pubblica che operi in regime di diritto privato, o da un organismo soggetto all'influenza preponderante, diretta o indiretta, dello Stato, di un ente pubblico o di un ente locale. Il divieto colpisce moltissime forme di aiuto, dirette o indirette, indipendentemente dal tipo. In effetti, non importa quale sia la forma, la ragione o la finalità di un aiuto, conta soltanto il suo impatto sulla concorrenza. Di conseguenza, costituiscono aiuto di Stato non solo le prestazioni positive quali le sovvenzioni, ma anche qualsiasi altra misura intesa a sollevare un'impresa degli oneri finanziari che sono normalmente a suo carico. Tuttavia, poiché è impossibile applicare un divieto assoluto degli aiuti di Stato l’articolo 87, paragrafi 2 e 3 del trattato prevede una serie di eccezioni, compatibili con il mercato comune. La Commissione ha altresì avviato un processo di riforma a lungo termine volto a semplificare le procedure amministrative e a concentrare le sue risorse sulle distorsioni più gravi della concorrenza. Tale processo si è concretato nell'elaborazione di regolamenti d'esenzione per categoria, quali quelli relativi agli aiuti alla formazione , agli aiuti de minimis , agli aiuti a favore dell'occupazione e alle PMI. 4. La Legge Antitrust del 1990 Con la legge 10 ottobre 1990 n. 287 viene varata la normativa italiana antitrust a molti anni di distanza sia dalle norme costituzionali, sia dalle disposizioni comunitarie. L’approvazione della disciplina della concorrenza non era più procrastinabile in quanto, a seguito dello sviluppo della Comunità Europea si faceva sempre più pressante l’esigenza di un adeguamento delle istituzioni economiche e politiche interne, alla crescente integrazione internazionale. E sicuramente non è un caso che la nuova disciplina interviene a seguito dell’emanazione del regolamento in materia di concentrazioni del 1989 compiuta in ambito comunitario. Regolamento che compie il quadro definitorio della disciplina della concorrenza integrando le disposizioni già previste dal Trattato. C’è da aggiungere che proprio in quegli anni avviene a livello comunitario l’avvio della politica dei consumatori il cui embrione risale alla metà degli anni 70, ma che ha la sua origine con il primo programma d'azione relativo alla protezione dei consumatori del 25.04.1975 e si sostanzia con l’approvazione dell’Atto unico, entrato in vigore il 1° luglio 1987, che ha permesso di introdurre nel Trattato la nozione di consumatore. L’articolo 100 A autorizza infatti la Commissione a proporre misure per proteggere i consumatori basandosi su "un livello di protezione elevato". Tale nozione pur se non è stata oggetto di una definizione precisa. ha avuto il merito di gettare le basi per un riconoscimento giuridico della politica dei consumatori, che non ha mancato di estendersi nel diritto dei singoli Stati membri. Lo stimolo che da nuovo vigore all’iter legislativo viene infatti proprio dalla Comunità Europea, che in vista dell’adozione e della successiva entrata in vigore dell’Atto Unico del 1986, presenta il Libro Bianco della Commissione CEE sul completamento del Mercato Interno nel 1985, dando un forte impulso a dotarsi di politiche atte a favorire il funzionamento dei mercati coerenti con quelle comunitarie. A valle della prentazione da parte della Commissione CEE del Libro Bianco, in Italia si susseguono varie iniziative, anche se con scarso risultato. Fino a quando nel primo semestre del 1988 vengono presentati due disegni di legge; il primo dei due disegni del 1988, intitolato “Norme per la tutela del mercato”, fu presentato dal senatore Guido Rossi ed il secondo disegno, intitolato “Norme per la tutela della concorrenza e del mercato”, di iniziativa governativa e venne presentato dal Ministro dell’Industria Adolfo Battaglia. 8 UT/2005 Dalla fusione di queste due proposte è infine scaturita la Legge approvata il 27 settembre del 1990 dal Senato, e che attualmente è la norma che disciplina la concorrenza in Italia, in rapporto alla normativa europea. Per quanto riguarda specificamente la normativa, sotto il profilo sostanziale ricalca in gran parte la disciplina comunitaria in materia di concorrenza. Le fattispecie considerate consistono nel divieto di intese restrittive della concorrenza, nel divieto di abuso di posizioni dominanti e nel controllo preventivo delle operazioni di concentrazione. La disciplina della legge n. 287/90 contiene altresì le regole relative alla l’Autorità Garante della Concorrenza e del mercato designato come soggetto competente per l’applicazione delle norme di concorrenza. Inoltre fornisce i criteri di ripartizione delle competenze fra l’Autorità e la Commissione CE, esplicitando il principio ermeneutico in base al quale l’interpretazione delle norme a garanzia e tutela della concorrenza, deve essere effettuata sulla base dei principi dell’ordinamento comunitario in materia antitrust. Ne discende che l’applicazione della normativa nazionale, rispetto all’applicazione di quella comunitaria: la prima, si applica al di fuori dei casi previsti dagli artt.85 e 86 CEE, 65 e 66 CECA, dal Regolamento sul controllo delle concentrazioni, nonché dai regolamenti comunitari e da tutti gli atti ad essi equiparati. Se l’autorità competente italiana reputa una fattispecie sottoposta al suo esame non rientrante nell’ambito di applicazione della Legge 287/90, sussiste l’obbligo di informarne la Commissione; nei casi, poi, in cui è già iniziata una procedura dinanzi alla Commissione, è dovere dell’autorità italiana sospendere l’istruttoria per tutti gli aspetti che non sono di esclusiva rilevanza nazionale. Sin dall’art. 1 la legge n. 287/90 si pone come attuazione dell’art. 41 della Costituzione, attuando in tal modo la configurazione del diritto ad un mercato concorrenziale come diritto costituzionalmente protetto in questo prefigurato. Necessaria conseguenza di questa impostazione è la connotazione pubblicistica della concorrenza intesa per la prima volta in senso oggettivo, con un netto ribaltamento rispetto alle norme del codice civile dove le disposizioni in materia di concorrenza (sleale) sono dettate a tutela degli interessi patrimoniali dei singoli imprenditori eventualmente lesi dai concorrenti. La tutela della concorrenza (e del mercato inteso come un unicum), definita per dettare regole alle imprese nel mercato di riferimento (geografico o sostanziale) influisce in modo determinante sui comportamenti e sulle scelte dei fruitori dei beni o dei servizi prodotti dalle imprese. In tal senso, il legislatore nazionale, oltre a prevedere specificamente gli effetti rispetto ai consumatori in termini sia quantitativi sia qualitativi (prezzi, prestazioni gravose, benefici) nelle ipotesi che configurano le fattispecie di intese (o determinano ipotesi di ammissione delle stesse) e comportamenti abusivi di posizione dominante, prevede espressamente il diritto delle associazioni dei consumatori di portare a conoscenza dell’Antitrust gli elementi per consentire l’avvio dell’istruttoria in materia di intese e di abuso di posizione dominante. Così i consumatori, quali rappresentanti la domanda di beni e servizi, quindi come secondo termine del mercato ed attori di esso, beneficiano di disposizioni che regolano la condotta delle imprese in termini di aumento della produzione, della differenziazione dei beni, di possibilità di scelta e di prezzi più vantaggiosi. Inutile e superfluo dire se ritratti di tutela indiretta o diretta in quanto la tutela della concorrenza ha come scopo quello del mantenimento del mercato in quanto luogo delle scelte. Quanto alle disposizioni della legge n. 287/90 l’art. 2 della Legge n. 287/90 ricalca il divieto, previsto dall’art. 85 CEE, di concludere intese ed accordi tra imprese che abbiano per oggetto od effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante. Accanto a questo criterio generale di individuazione delle intese vietate, la norma prevede poi una serie di fattispecie proibite a priori, che hanno anche scopo esemplificativo. 9 UT/2005 Tutte le intese vietate sono sempre e comunque nulle, a meno che non si trovino in condizione di beneficiare delle deroghe al divieto previste dall’art. 4 della medesima legge. Queste possono essere concesse dall’autorità competente a tempo determinato od indeterminato, sempre dietro richiesta delle imprese interessate. Le condizioni che devono essere soddisfatte perché un’ intesa possa godere di un esenzione ex art.4 sono equivalenti a quelle previste dalla normativa comunitaria, ossia un miglioramento nelle condizioni di offerta al consumatore e nella qualità e quantità della produzione, nonché un avanzamento tecnologico, sempre che le imprese si mantengano concorrenziali sul piano internazionale. L’art. 3 della Legge in esame vieta l’abuso di posizione dominante. La norma elenca una serie di casi di abuso conclamato di posizione dominante che ritroviamo anche nella corrispondente norma del Trattato CEE: l’art. 86. L’art. 5 contiene la definizione delle ipotesi in cui si ha concentrazione: “- quando due o più imprese precedentemente indipendenti procedono a una fusione, - quando uno o più soggetti sono in posizione di controllo di almeno un’impresa, ovvero quando una o più imprese acquisiscono direttamente o indirettamente, sia mediante acquisto di azioni o di elementi del patrimonio, sia mediante contratto o qualsiasi altro mezzo, il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese, - quando due o più imprese procedono, attraverso la costituzione di una nuova società, alla costituzione di un’impresa comune.” nell’art. 6, è posto il divieto per le concentrazioni che abbiano l’effetto di costituire o rafforzare una posizione dominante sul mercato nazionale tale da eliminare o ridurre in modo sostanziale e duraturo la concorrenza.. L’art. 7 equipara alle concentrazioni i casi di controllo di un’impresa da parte di un’altra impresa o di coloro che sono titolari di diritti di proprietà o di godimento sul patrimonio della controllata, ovvero da parte di coloro che esercitano un’influenza determinante sull’attività dell’impresa controllata. La Legge n. 287/90 stabilisce espressamente nell’art. 8, che le regole sono valide tanto per le imprese private, quanto per quelle pubbliche, siano queste ultime enti pubblici, oppure imprese a partecipazione statale. Le suddette norme, al contrario, non si applicano a quelle imprese che, per espressa disposizione di legge,”esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato, per tutto quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici compiti loro affidati. 5. La pubblicità ingannevole e la pubblicità comparativa. Abbiamo visto come il mercato sia da considerare, in un’ottica concorrenziale, come luogo regolamentato in cui avvengono le relazioni di scambio di beni e servizi, in cui accanto ad una pluralità di soggetti rappresentanti l’offerta c’è una pluralità di soggetti chiamati ad effettuare delle scelte. Poiché tali scelte comportano un’assunzione di responsabilità e del connesso rischio del buon fine dell’atto di acquisto da parte di chi le effettua, occorre, al fine stesso del corretto funzionamento del mercato, che tali scelte siano fatte consapevolmente. Vale a dire occorre che l’acquirente consumatore sia messo nella condizione ottimale di effettuare una libera determinazione della volontà. Ciò implica naturalmente la necessità di ottenere informazioni corrette e veritiere. In questo senso, lo sviluppo, ancora una volta partendo dal diritto comunitario, delle tematiche di attuazione della politica di protezione del consumatore intervengono sul profilo degli strumenti di conoscenza e quindi dell’informazione. Il punto 3, lettera d) dell’allegato della risoluzione del Consiglio del 14 aprile 1975, riguardante un programma preliminare della Comunità economica europea per una politica di protezione e di informazione del consumatore, include tra i diritti fondamentali dei consumatori, il diritto d’informazione e tale diritto è confermato dal secondo programma della Comunità economica europea per una politica di protezione e di informazione del consumatore (risoluzione del Consiglio del 19 maggio 1981), Infatti la nozione di consumatore che emerge in ambito comunitario elevando il consumatore stesso da semplice parametro a soggetto titolare di situazioni giuridiche tutelate, si fonda proprio sulla sua posizione di debolezza nei confronti del professionista, debolezza che si sostanzia principalmente nel gap informativo di fronte sia all’eccesso di comunicazione, sia allo sviluppo di forme di contrattazione anonime e comunque predisposte dal professionista e costituite da clausole tecniche di difficile comprensione o ancora all’emersione di forme aggressive di vendita. 10 UT/2005 E proprio in considerazione di tali esigenze si la Comunità europea attua il programma di protezione dei consumatori in vista dell’approntamento di modelli di protezione diretta con il fine ultimo della realizzazione del mercato interno, quindi in sostanza coniugando in misura sempre più marcata i profili della disciplina della concorrenza con quella di tutela del consumatore. La normativa comunitaria naturalmente viene recepita nel diritto interno, a cominciare proprio dalla disciplina in materia di pubblicità ingannevole che segue di poco l’emanazione della disciplina della concorrenza e del mercato e a conferma del mantenimento del disegno del legislatore comunitario e nel senso della continuità con quanto disciplinato con la legge n. 287/90, la tutela della pubblicità ingannevole viene affidata alla stessa Autorità garante della concorrenza e del mercato. Quanto alle caratteristiche specifiche della disciplina, in linea con quanto detto, con l’emanazione del Decreto Legislativo n.74 del 25 gennaio 1992, che recepisce la direttiva CEE 84/450, la pubblicità ingannevole rileva sia ai fini della tutela dell’interesse del potenziale acquirente che ai fini degli interessi del concorrente. Si legge infatti nei considerando della direttiva 84/450, “la pubblicità ingannevole può condurre ad una distorsione di concorrenza all’interno del mercato comune; sia perché la pubblicità, indipendentemente dal fatto che essa porti o no alla conclusione di un contratto, influisce sulla situazione economica dei consumatori; potendo indurre il consumatore a prendere, quando acquisisce beni o si avvale di servizi, decisioni pregiudizievoli . L’obiettivo principale, perseguito attraverso la repressione della pubblicità ingannevole, è quello di impedire l’acquisto di beni e di servizi sulla base di informazioni idonee a produrre una scorretta rappresentazione della realtà, per cui i consumatori divengono titolari di una posizione giuridica soggetiiva tutelabile nei confronti degli imprenditori, a carico dei quali viene posto l’onere di una esatta informazione sulle qualità e caratteristiche dei prodotti messi nel mercato. La fattispecie della pubblicità ingannevole comprende nella sua struttura due aspetti sostanziali: l’idoneità ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche e la lesione potenziale dell’interesse del concorrente in primo luogo nel senso che, la situazione pregiudizievole per il consumatore, potrebbe dare luogo ad un illecito concorrenziale, riconducibile allo sviamento di clientela derivante dall’ ingannevolezza, nel senso che, attraverso il messaggio decettivo, l’imprenditore induce l’acquirente all’acquisto di un bene o di un servizio, sottraendo illegittimamente una quota di mercato ad altri concorrenti ovvero conservandone una che altrimenti sarebbe stata a lui sottratta in caso di corretto operare del meccanismo concorrenziale. il pregiudizio potenziale del concorrente viene ricondotto in primo luogo. In secondo luogo la pubblicità ingannevole può generare una rappresentazione o informazione diretta a creare confusione tra prodotti non concorrenti. in tale ipotesi, ciò che viene leso è l’interesse specifico dei consumatori in quanto tali, interesse distinto da quello degli imprenditori concorrenti ed ugualmente tutelato dal decreto in esame. Tuttavia, anche se spesso i due aspetti sopra evidenziati sono simultanei, non sempre la pubblicità ingannevole lesiva per il potenziale acquirente comporta anche lo sviamento di clientela e leda, quindi, l’interesse del concorrente. Gli interessi dei consumatori e quelli degli imprenditori sono tutelati autonomamente. A questi si aggiungono gli interessi del pubblico nella fruizione dei messaggi pubblicitari. Ciò ad ulteriore riprova delle connotazioni “pubblicistiche” della nuova normativa e della tutela dell’interesse generale di tutti i soggetti coinvolti nell’operazione comunicativa. Pertanto, con l’introduzione di una specifica normativa in materia di pubblicità ingannevole, il legislatore ha riconosciuto anche ai consumatori una forma di tutela nei confronti di quel tipo di comunicazione pubblicitaria che “…in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” [art. 1, lettera b) D.Lgs. 74/92]. 11 UT/2005 Prima dell’entrata in vigore del D. Lgs. n° 74/92, abbiamo visto come mentre ai concorrenti era riconosciuta la legittimazione ad agire per atti di concorrenza di altro imprenditore sulla base dell’art. 2598 c.c., ai consumatori (che spesso subiscono in modo più diretto le conseguenza dell’ingannevolezza di un messaggio pubblicitario) tale legittimazione era negata. In base alla nuova disciplina, “I concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico, possono chiedere all’Autorità Garante [della Concorrenza e del Mercato] che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita ai sensi del presente decreto, la loro continuazione e che ne siano eliminati gli effetti” [art. 7, comma 2 D.Lgs. n° 74/92]. La legittimazione a chiedere l’inibitoria riguarda quindi sì ancora i concorrenti, ma soprattutto i consumatori, sia come singoli, sia come categoria rappresentata dalle associazioni dei consumatori stessi. Rispetto alle disposizioni della normativa previdente contenute nel codice civile che erano quelle di riferimento per la repressione degli effetti sleali della pubblicità ingannevole, si attua quindi una vera e propria rivoluzione, peraltro in linea con l’evoluzione normativa in tema di concorrenza secondo i profili sopra delineati. Ulteriore passo in avanti nella situazione delineata avviene con l’approvazione della Direttiva 97/55/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 ottobre 1997, che modifica la direttiva 84/450/CEE relativa alla pubblicità comparativa e soprattutto, a livello nazionale con il suo recepimento ad opera del decreto legislativo n. 67 del 2000. La scelta del legislatore comunitario, seguita da quello nazionale, è stata quella di aggiornare la precedente normativa stabilita in materia di pubblicità ingannevole, come era previsto nel sesto considerando della direttiva 84/450, posto che “ la pubblicità comparativa, che confronti caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative e non sia ingannevole, può essere un mezzo legittimo per informare i consumatori nel loro interesse”. La disciplina della pubblicità ingannevole viene così ad includere anche quella sulla pubblicità comparativa: sotto il profilo oggettivo vengono previste condizioni di liceità specifiche per la pubblicità comparativa vietando quella che non rispetta tali requisiti, da considerarsi quindi come illecita. Quanto al profilo soggettivo, dei soggetti verso cui è diretta la tutela apprestata dal legislatore e quindi anche sotto il profilo della legittimazione ad agire, nulla cambia. Pertanto la tutela del decreto n. 67/2000 riguarda, anche per quanto attiene la pubblicità comparativa, “i soggetti che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, i consumatori e, in genere, gli interessi del pubblico” e legittimati a richiedere all’autorità Antitrust l’inibitoria ai sensi dell’art. 7 del d. lgs. N. 74/92 aggiornato, sono ugualmente “i concorrenti, i consumatori, le loro associazioni ed organizzazioni, il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, nonché ogni altra pubblica amministrazione che ne abbia interesse in relazione ai propri compiti istituzionali, anche su denuncia del pubblico”. Sono quindi tali soggetti che “possono chiedere all’autorità garante che siano inibiti gli atti di pubblicità ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita, la loro continuazione e che ne siano eliminati gli effetti”. In tal modo avviene che la pubblicità comparativa, da sempre fatta rientrare in una delle ipotesi specifiche di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 del codice civile, sia tutelata non solo nei confronti dei concorrenti ma altresì nei confronti dei consumatori in maniera diretta e non più mediata. 12 UT/2005 6. Sviluppi Se questa è la situazione in materia di disciplina della concorrenza che vede sempre più avviluppata la disciplina specifica della concorrenza, o meglio dei concorrenti, con la tutela degli interessi dei consumatori le cose sono destinate a cambiare a breve, sempre sulla spinta del legislatore comunitario. E’ stat infatti appena adottata la direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori. Con tale direttiva, si prevede l'interdizione generale delle pratiche commerciali sleali che alterano il comportamento economico dei consumatori al fine specifico di allargare la scelta del consumatore, favorire la concorrenza e ad ampliare gli orizzonti delle piccole e medie imprese europee. La direttiva fissa norme che consentono di determinare se una pratica commerciale sia sleale o meno con lo scopo di definire sia una clausola generale sia un limitato numero di pratiche vietate. La direttiva si propone di aumentare la protezione dei consumatori con riguardo alle pratiche commerciali sleali, contrarie ai requisiti della correttezza professionale o che siano ingannevoli o aggressive. Sin qui nulla di nuovo rispetto alle tematiche già affrontate, solo che la disciplina è stabilita in un ottica di eliminazione degli ostacoli che sussistono alla completa realizzazione del mercato interno più che diretta alla tutela del consumatore. Va però detto che la proposta di direttiva si basa su di un livello di armonizzazione massima, contrariamente alle usuali direttive emanata sempre ai sensi dell’art. 153 del trattato che prevedevano invece la c.d. clausola minima, nel senso di consentire agli Stati membri di mantenere o prevedere un livello di protezione più elevato. La direttiva altresì recepisce, nella parte relativa alla pratiche commerciali ingannevoli o aggressive le disposizioni già previste nella disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa, attuando uno scorporo delle norme ivi previste ed includendole nella proposta di direttiva. La direttiva comprende cioè le disposizioni attuali della direttiva sulla pubblicità ingannevole e le applica ad altre pratiche commerciali, ivi comprese a quelle post-vendita. Infine, come ulteriore conseguenza, abroga la preesistente normativa nella parte in cui prevedeva tra i soggetti incisi e quindi legittimati i consumatori, limitandola a disciplinare solo i rapporti tra concorrenti. Stabilisce infatti che la direttiva 84/450 modificata “ha lo scopo di tutelare i professionisti dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa." Quindi, nell’ottica della superiore esigenza di eliminazione degli ostacoli e delle distorsioni alla corretta realizzazione del mercato interno, la proposta comunitaria sembra tornare a distinguere gli atti conseguenti a pratiche commerciali sleali di diretta incidenza sugli interessi dei consumatori, tutelai a parte ma in maniera diversa nel senso che l’oggetto della disciplina non sono più tanto, come in passato i consumatori in quanto tali, ma in quanto destinatari delle merci e dei servizi ed autori delle scelte che possono determinare distorsioni sulla concorrenza se effettuate in base a pratiche sleali. La disciplina detta in sostanza regole di condotta per le imprese di cui i consumatori tornano ad essere in un certo senso semplicemente i recettori passivi. D’altra parte questo disegno si compie attraverso la separazione degli interessi dei concorrenti da quello dei consumatori nella nuova, prevista, disciplina sulla pubblicità ingannevole. 13