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a6) Dispensa 68

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a6) Dispensa 68
4.3 Ultima fase: lo scioglimento
È poco usuale pensare la “fine” delle relazioni. Ma, se la relazione educativa è un processo, e un
processo affettivo, ha una fine che sancisce delle acquisizioni, degli apprendimenti: una fine che
chiede di essere vista, pensata, progettata, per il significato esistenziale e formativo che assume. È
dalle esperienze effettivamente concluse, da quelle esperienze di cui si è elaborato il senso o
appreso il guadagno che hanno comportato, che possono partire esperienze e avventure altre.
Occorre pensare la fine del processo educativo in primo luogo per gli affetti che sono in gioco:
Affetti potenti, inquietanti, che hanno a che fare con i significati che l’esperienza della fine che
ognuno di noi ha sperimentato mette in gioco.
Tutto ciò richiede un adeguato trattamento, un pensiero che si traduca nella fattibilità di un
progetto:
Questo pare particolarmente importante nell’esperienza educativa con persone in situazione di
disabilità. Come si accennava, uno dei rischi che corrono i servizi che si occupano di educare o
riabilitare persone disabili è quello di rimanere immersi in un tempo circolare, che diventa eterno,
perpetrandosi uguale a se stesso: perché spesso alla disabilità si accompagna la cronicità, o, peggio,
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la degenerazione di una condizione esistenziale già complessa, situazione difficile da accogliere, da
accettare e da elaborare per chi lavora in un servizio che, forse, sotto sotto, essendo educativo, pare
comunque orientato a quella che chiamiamo “crescita”, e che porta con sé l’idea, o l’illusione, del
progredire, dell’andare sempre e comunque verso condizioni migliori. Il rischio, per i disabili e per
chi si occupa di loro, è che il tempo si fermi, che ciò che si fa ora non abbia mai fine. Così, però,
non si dà educazione, perché ogni azione, ogni processo educativo ha bisogno di chiudersi, per
potersi riaprire poi ad un altro livello (Cfr Jole Orsenigo, 1998, Oltre la fine, Unicopli, Milano).
La questione della fine si staglia quindi come una questione fondamentale nel lavoro con la
disabilità: pensare la fine, progettare le conclusioni anche solo di un’attività può essere importante
per mantenere quella tensione temporale che connota l’esperienza educativa e formativa. Pensare la
fine significa anche obbligarsi a restituire, a valutare, per comprendere come poter riprogettare,
anche in condizioni esistenziali stazionarie o regressive. Significa inoltre darsi il tempo di vivere la
conclusione, di scambiare i significati che si animano intorno ad essa, di farsi carico dei processi di
separazione e di lutto che essa inaugura.
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Terzo modulo
LE ATTENZIONI PEDAGOGICHE
E LE COMPETENZE IN GIOCO
NELLA RELAZIONE EDUCATIVA
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1. Premessa
Obiettivo del terzo modulo è individuare cosa significhi, in termini di attenzioni pedagogiche e
di competenze in gioco nella relazione, progettare, realizzare e governare la relazione educativa.
Non si tratta di fornire indicazioni prescrittive, ma di comprendere quali attenzioni, relative in
particolare alla costruzione del setting educativo, mantenere per tenere alta la tensione sulla
costruzione, all’interno di contesti che sono sempre unici e particolari, di una relazione e di
un’esperienza che sia effettivamente educativa. Tutto ciò nell’ottica di una “progettazione debole”,
attenta alla materialità delle situazioni, alla loro specificità e alle dimensioni imprevedibili e non
standardizzabili che costituiscono strutturalmente le persone che, nella relazione, si incontrano e
fanno esperienza di sé.
Il riferimento bibliografico qui è principalmente al testo di Palmieri, La cura educativa.
Dove si orientano le “attenzioni pedagogiche” di cui parliamo? L’ipotesi è quella che segue
Si tratta di quattro livelli o piani di lavoro tra loro intrecciati, irriducibili l’uno all’altro: quattro
livelli da considerare quindi nei loro rimandi e nella loro complessità. La concentrazione su
qualcuno di essi a scapito di altri produrrebbe uno slittamento di uno o più di essi nell’ombra o nella
lateralità, sottraendoli a quell’operazione di governo che consente a chi educa e progetta relazioni
educative di stare nelle situazioni essendo presente a se stesso e contemporaneamente sapendo di
aver a che fare con qualcosa di complesso, di vivo, di non predeterminabile, di imprevedibile.
Scivolare a lato non significa essere depotenziati, ma agire da un luogo che sfugge: in un certo
senso significa poter essere trascinati dalla routine, dagli altri, da sé, dallo svolgimento delle
relazioni, quasi subendo una o più di queste dimensioni del lavoro educativo.
Un’ultima precisazione: si è parlato di governo, non di controllo: quel governo che consente di
“navigare a vista”, sentendo quello che accade momento per momento all’interno dei contesti
progettati e vissuti sulla scena educativa.
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2. La dimensione rituale nella relazione
La prima attenzione è alla ritualità: se la relazione educativa è concepita come un processo,
dotato di una sua materialità, spazialità e temporalità, allora porta con sé una dimensione rituale
che, nella sua circoscrizione di tempi e spazi, nella sua ritmicità, nel suo stagliarsi dalla quotidianità
o nel suo appartenere, proprio ritualmente e individualmente, alla quotidianità, segna l’esperienza
esistenziale dei soggetti, trasformandola in esperienza formativa nel momento in cui nel rito si apre
lo spazio per significati altri, per eventi trasformativi, per la sperimentazione di sé, per l’espressione
di sé.
Occorre però in prima battuta chiedersi cosa si intenda per “rito”, per poi comprendere come la
cura di tale dimensione possa avere rilevanza pedagogica.
I riferimenti bibliografici riguardano: Cozzi D. e Nigris D. (1996), Gesti di cura, La Grafica
Nuova, Torino; Van Gennep A. (1981), I riti di passaggio, Boringhieri, Torino.
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Per tutto ciò, il rito sembra in sé avere una valenza formativa: istituisce uno spazio e un tempo
altro attraverso una cornice che stacchi dal flusso delle azioni e della vita abituale, creando le
condizioni perché un evento possa accadere: un evento che è soprattutto e innanzitutto un evento di
apprendimento, personale e sociale (interiore, ma anche esteriore, dandosi nei riti, e in particolare
nei riti di iniziazione, la possibilità di “morire” rispetto al “vecchio” status sociale, e di rinascere
attraverso un nuovo status, riconosciuto dal soggetto ma anche e soprattutto dalla comunità di
appartenenza). Costruire ritualità all’interno dei contesti educativi sembra essere un modo per poter
garantire quella mediazione relazionale che favorisca apprendimento e formazione nei soggetti
coinvolti; la relazione allora “funziona” in quanto inserita all’interno di una cornice che ne
prescrive, in qualche modo, le modalità di espressione, facendo della stessa relazione un terreno di
sperimentazione sia di una nuova corporeità, sia di nuovi significati, di nuove visioni del mondo.
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Curare la relazione, in questo senso, significa curare il setting in cui essa avviene,
predisponendolo in modo da costruire una “scena educativa” che sappia conservare un carattere
rituale, declinandolo opportunamente a seconda delle situazioni e delle persone coinvolte.
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3. La cura delle persone
La seconda attenzione pedagogica è alla cura delle persone. Cosa significa curarsi, a livello
educativo, degli altri? L’ipotesi è che la cura educativa, nella sua pratica, abbia a che fare con le
dimensioni seguenti, nel loro intreccio e nella loro ineliminabile complessità.
Il principale riferimento bibliografico è a Palmieri, La cura educativa, seconda parte.
Durante il corso, è stato chiesto agli studenti e alle studentesse di elaborare in gruppo, a partire
da quanto già detto e appreso sulla relazione educativa, ognuno dei punti elencati, facendo
particolare attenzione alla loro declinazione all’interno di eventuali contesti educativi e riabilitativi
destinati a persone disabili. Di seguito, si riportano le indicazioni dei gruppi e quindi le riflessioni
teoriche.
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Uso dello sguardo
Uso dello sguardo come mezzo comunicativo, ad esempio con disabili che non possono parlare;
Evoluzione/cambiamento della figura del disabile nel corso del tempo;
Differenza tra uno sguardo che vede unicamente i limiti e uno sguardo attento alle potenzialità
del disabile, da cui derivano diverse modalità di azione con il disabile;
Sguardo empatico, comprensivo, non superficiale VS sguardo superficiale, appiattito sulla
routine;
Sguardo progettuale (spesso assente nei confronti dei disabili), orientato verso il futuro e anche
al di fuori della comunità per disabili.
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L’uso della corporeità:
Cura del corpo del disabile (bisogni primari);
Corporeità come sperimentazione di sé nelle diverse situazioni (l’educatore osserva le diverse
reazioni del corpo del disabile alle situazioni: come reagisce, come affronta gli ostacoli).
Attraverso l’esperienza del corpo si sviluppa la conoscenza dei propri limiti e delle proprie
possibilità;
Corpo come veicolo di emozioni e affetti (accarezzare….)
Fatica dell’educatore nel relazionarsi con il corpo del disabile (peso, odori…);
Corpo come mezzo indispensabile attraverso cui passa la relazione e la comunicazione
(vicinanza/contatto);
Tabù culturale del corpo (imbarazzo)
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Bisogno e desiderio…
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Risposta basata sull’osservazione attenta e profonda del corpo del disabile, delle sue reazioni alle
diverse situazioni, alla sua globalità;
Cura non solo materiale, ma anche attenzione alla soggettività e ai desideri soggettivi;
Disabile spesso visto unicamente come portatore di bisogni (lavarsi, mangiare), invece che come
portatore di desideri personali (andare a cavallo, stare al mare, fare ua festa per i 18 anni…):
desideri che potrebbero/dovrebbero rientrare nella progettazione educativa.
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L’individuazione degli spazi e dei tempi effettivamente educativi
Strutturazione di spazi e tempi in base alle attività educative (a discrezione del servizio in modo
flessibile o rigido – tema). ES: attività di cucina: spazio cucina – supermercato vicino alla
struttura; tempi: 2 o 3 ore, 1 volta alla settimana:
Spazio strutturato per favorire l’autonomia e il movimento. ES: armadi e tavoli a portata di
carrozzina per garantire il movimento e la presa degli oggetti;
Uno spazio diventa educativo nel momento in cui si dà un significato diverso da quello assunto
nella quotidianità – ES: bagno.
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L’uso degli oggetti
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Oggetti di uso comune riempiti di valenze educative, che hanno a che fare con la promozione
dell’autonomia, con la sperimentazione della negoziazione e della scelta, con la possibilità di
diventare luogo di incontro, ma anche di “premio” o “punizione”;
Diventa educativo il rapporto con oggetti che compensano i loro limiti grazie alla
risignificazione data dall’educatore (dare un significato ludico al sollevatore);
Oggetti significativi per le persone disabili (è importante capire perché);
Oggetti riabilitativi (palline, pongo, pasta di sale, salvagente, ma anche soggetti come il cavallo)
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Individuazione e significazione dei percorsi
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Avviene attraverso progetti educativi e PEI
Obiettivi: promozione dell’autonomia; individuazione dei limiti e delle risorse/possibilità
personali; analisi dei bisogni, dei desideri, degli interessi;
Osservazione continua per dare significato al percorso
Sviluppo della comunicazione/collaborazione
Promozione del confronto e della socializzazione
Monitoraggio continuo del PEI
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