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Psichiatria e Psicoterapia (2013) 32, 1, 3-17
TRAUMI INFANTILI, TOSSICODIPENDENZA E REGOLAZIONE AFFETTIVA IN UN
GRUPPO ANALITICO IN AMBITO PENITENZIARIO
Alessandra Stringi
Essere un buon analista non implica
obiettività, ma una sviluppata facilità
nell’usare se stesso per porre domande
adeguate e fare interventi connotati
affettivamente.
(Hirsch 1996, p. 184)
Introduzione
Nel presente lavoro, si tenterà di offrire un modello esplicativo relativo all’eziologia della
tossicodipendenza, mostrando come quest’ultima sia da ricondurre a vissuti traumatici nelle
prime relazioni, che incidono negativamente sulla capacità di auto-eteroregolazione affettiva. Si
porterà, inoltre, un’esperienza di conduzione di un gruppo analitico con tossicodipendenti in un
contesto penitenziario, mettendo in luce come il contatto intersoggettivo dei processi relazionali
e l’esperienza di mentalizzazione possano contribuire ad attivare processi trasformativi di cura.
1. Tra psicoanalisi classica e psicoanalisi relazionale
Secondo la teoria del campo dei Baranger (1990) ogni processo psichico non può che
svolgersi all’interno di un campo gruppale di relazioni. Tale modello a tutt’oggi anima il dibattito
tra la psicoanalisi classica e quella di stampo relazionale di matrice americana e italiana. Per gli
studi relazionali ed interpersonali (Greenberg e Mitchell 1986, Lingiardi et al. 2011) i processi
di sviluppo e di socializzazione precoci hanno un’immediata ricaduta sullo sviluppo della
personalità. Secondo tale prospettiva “la relazionalità è un sistema motivazionale sovraordinato
dell’esistenza umana” e “le esperienze sociali sono organizzate in configurazioni multiple
affettivamente connotate che si strutturano attorno alle rappresentazioni delle relazioni tra sé e
gli altri” (Dazzi e Lingiardi 2011, cit. Rocchi e Cruciani 2011, p. 71). Anche Freud (1921) aveva
riconosciuto la natura sociale della vita psichica, ma ciò non aveva determinato conseguenze
sull’uso di dispositivi terapeutici in ambito clinico, né sui modelli eziologici della sofferenza
psichica. Psicoanalisti come Bion (1961, 1972), Foulkes (1964) e Kaës (2007) hanno fornito
elementi per una teoria psicoanalitica allargata della mente, che prenda in considerazione il ruolo
della relazione e del campo di relazioni nei riguardi della nascita e dello sviluppo di una mente
SOTTOMESSO GENNAIO 2013, ACCETTATO MAGGIO 2013
© Giovanni Fioriti Editore s.r.l.
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Alessandra Stringi
umana, oltreché di un modello d’intervento analitico di gruppo in ambito clinico.
L’evoluzione del funzionamento mentale avviene dentro un gruppo, per primo quello familiare
e poi all’interno di altri gruppi, per esempio quello scolastico, con i relativi aspetti istituzionali
o, in adolescenza, quello dei pari. Nelle prime esperienze di gruppo, di cui il soggetto viene a
far parte, i processi di trasmissione possono generare elementi patogeni nella sua personalità. Il
soggetto, infatti, può essere investito da frammenti, oggetti disinvestiti, dall’assenza dell’altro,
da elementi non contenuti e che non contengono, da elementi non trattenuti in memoria e non
simbolizzati, da oggetti carichi di dolore e ancora da elementi rigettati e denegati come la
mancanza, la perdita, la malattia, il trauma (Foulkes 1948, Kaës 2007).
Con particolare riferimento al dispositivo terapeutico gruppale, la partecipazione e il contatto
con la modalità tipica di funzionamento di un gruppo (group mind), con il suo contenuto fatto
di “pensieri senza pensatore” e di “contributi anonimi” (Bion 1977), determina per processi di
rispecchiamento, di rêverie ed identificazione multipla, l’assimilazione di modelli di regolazione
dell’affettività e di modalità di organizzazione del pensiero. In tal senso si può affermare che il
dispositivo terapeutico gruppale rimette in gioco aspetti del transpersonale individuale (Corrao
1984a), in modo utile per la cura delle problematiche del tossicodipendente. Il dispositivo
terapeutico gruppale secondo il modello psicoanalitico bioniano ricrea un contesto di relazioni
multiple e complesse, che risulta utile per la cura delle problematiche del tossicodipendente, se
si fa altresì riferimento sia al paradigma della psicoanalisi relazionale ed intersoggettiva, sia ai
modelli psicopatologici delle dipendenze patologiche da sostanze.
Secondo alcuni autori (Caretti e La Barbera 2005) lo strutturarsi di una dipendenza patologica,
come è quella da sostanze stupefacenti, è riconducibile ad una disregolazione emozionale ed
affettiva con effetti sullo sviluppo della personalità e della vita psichica. Freud (1905) con la
sua teoria pulsionale considerava le tossicomanie come conseguenti ad una fissazione allo
stadio orale. Ad oggi gli studi americani sulla disregolazione degli affetti predisponente ai
comportamenti “additivi” (Khantzian, 1985, Taylor et al. 1977, Fonagy e Target 2001) hanno
fornito spiegazioni in termini di processi psichici e psicodinamici complessi (Caretti et al. 2012).
La dipendenza patologica è considerata pertanto una “forma morbosa caratterizzata dall’uso
distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento” (ibidem, p. 18). Tale modello
eziologico evolutivo-relazionale considera l’elemento traumatico fattore favorente l’instaurarsi
di un comportamento “additivo”. Secondo Caretti et al. (2012) “i comportamenti additivi sono
intesi come tentativo disfunzionale di contrastare l’emergere incontrollato di vissuti traumatici
infantili” (ibidem, p. 19).
D’altronde poi la stessa esperienza tossicomanica ha caratteristiche di pluritraumaticità,
favorendo la riedizione dell’esperienza traumatica infantile e l’ulteriore disregolazione e
dissociazione di elementi della personalità (Bromberg, 2001, Nijenhuis 2004, Liotti 2009, Caretti
e Ciulla 2012). Infatti in tali condizioni l’oggetto-droga fornisce veri e propri rifugi alla mente,
creando “stati mentali dissociati dalla coscienza” (Caretti et al. 2012, p. 19).
Tale disregolazione degli stati affettivi nasce pertanto in un “sistema intersoggettivo
primario”, ove si organizzano processi mentali di attenzione, percezione e memoria, ma anche
selezione di affetti e di risposte comportamentali. Ove cioè il soggetto a partire dall’età preverbale sviluppa progressivamente rappresentazioni mentali relative a se stesso ed agli altri.
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In tale quadro teorico, sulla scorta degli studi di Cook et al. (2005b), la regolazione degli
affetti viene definita come uno dei “sette domini centrali dello sviluppo psicologico individuale
(insieme all’attaccamento, alla biologia, alla dissociazione, al controllo comportamentale, alle
capacità cognitive e al concetto di Sé)… e… problematiche connesse alla regolazione degli
affetti riguardano un deficit nell’autoregolazione emotiva, difficoltà nel riconoscere e descrivere
gli stati interni e difficoltà nel comunicare agli altri desideri e bisogni” (Schimmenti 2013,
p. 23). Solitamente in uno sviluppo non disturbato l’esperienza della “compartecipazione
intersoggettiva degli stati affettivi” (Caretti et al. 2012, p. 20) garantisce la sintonizzazione del
genitore con lo stato emotivo del figlio e ne assicura un adeguato sviluppo affettivo e cognitivo.
In tale condizione si consente, inoltre, che il bambino sia in grado di “focalizzare l’attenzione
sulle proprie esperienze interne” (Caretti et al. 2012, p. 20) e di riconoscere gli stati emotivi
dell’altro (Fonagy et al. 2002).
Specificamente Caretti et al. (2005) riconducono la dipendenza patologica da sostanze ad una
vulnerabilità narcisistica, dovuta alla mancanza della rappresentazione dell’oggetto seno-madre.
Pertanto tali autori fanno riferimento a Tronik (1989), che parla della messa in atto di meccanismi
difensivi infantili di autostimolazione, ovvero comportamenti regolatori auto diretti.
A tal proposito, rispetto al fattore di vulnerabilità, il filone di studi, che coniuga gli esiti
dell’Infant Research e degli studi sull’attaccamento, ha messo in luce come questo possa
essere in rapporto all’incompetenza emotiva del caregiver nel fornire le prime cure al bambino.
Tale incompetenza si esprime in esperienze di trascuratezza, che si traducono in forme di
disconoscimento degli affetti, di dissintonia con lo stato affettivo del bambino (Stern 1985,
Amadei 2005) ed origina da una carente riparazione delle rotture affettive e da rispecchiamenti
“traumatici o traumatizzanti” delle emozioni (Gergely e Csibra 2005, Gergely e Unoka 2008).
Secondo vari autori a ciò consegue un riconoscimento inadeguato dell’esperienza affettiva
vissuta dal bambino in tutto il corpo e nella relazione con l’altro, nei termini di stati di attivazione
fisiologica, ai quali non sono correlati processi di rispecchiamento e di sintonizzazione dell’adulto
(Taylor et al. 1997, Shore 2002c, Fonagy et al. 2002, Linehan 1993, Schimmenti e Bifulco 2008,
Schimmenti e Caretti 2010, Caretti et al. 2013). Il bambino sviluppa una conseguente paura
della vita mentale, patendo una carenza nella base rappresentazionale del Sé, nonché un deficit
dei processi metacognitivi e mentalizzanti (Schimmenti 2013, p. 25). Ciò origina per l’appunto
da una carenza della funzione di co-regolazione degli stati affettivi (Beebe e Lachman 2002) e
di costruzione di significati riflessivi (Fonagy et Target 2001). Balint (1968) parlava di difetto
fondamentale, come della incapacità di alcuni pazienti di stare con la sofferenza (Lupinacci
2013) ovvero di dare rappresentazione ai vissuti dolorosi. Tale condizione non è una malattia, ma
un fattore di vulnerabilità appunto, le cui conseguenze sullo sviluppo, a breve e lungo termine,
possono essere cumulative e risultare pervasive (Khan 1963).
Ci sono evidenze empiriche sulla difficoltà di molte mamme depresse a fornire cure adeguate
ai loro bambini. Tronick (2008) ha studiato i processi costitutivi l’ontogenesi degli stati affettivi
ed ha descritto la co-creazione di modi specifici di stare insieme nel bene e nel male, esperienze,
che ha chiamato “stati affettivi prolungati”. Questi stati si sviluppano come il tono di fondo
dell’interazione tra due persone e producono uno stato corporeo, un’esperienza di vita e di
comportamento condivisi. Quando l’interazione con il caregiver è alterata, non è possibile la
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sperimentazione di stati affettivi prolungati, né lo sviluppo adeguato della funzione di etero e
auto-regolazione.
D’altronde, a proposito del rapporto tra trauma evolutivo e vulnerabilità predisponente, già
Kohut (1971) metteva in evidenza come nel narcisismo patologico, una mancata interiorizzazione
precoce, a causa dell’assenza di empatia da parte della madre, determinassero nel soggetto non
tanto una sostituzione dell’oggetto interno d’amore con le droghe, né un tentativo di mantenere
e/o instaurare inconsciamente la relazione con questo, quanto piuttosto un tentativo di rimpiazzare
il vuoto del difetto narcisistico (Caretti et al. 2010). Secondo la teoria psicoanalitica kohutiana,
ciò potrebbe determinare una mancata risoluzione di ciò che alcuni autori hanno definito come
fase di separazione-individuazione nel rapporto precoce madre-bambino (Mahler et al. 1975).
Sempre nella letteratura sull’attaccamento, una grave alterazione delle relazioni primarie o
il loro fallimento producono rappresentazioni cognitivo-affettive, che Bowlby (1973) distingue
in “insicure”, “confuse” e/o “disorganizzate”. Cioè a dire, un’intensa paura sperimentata nei
confronti delle figure di attaccamento (Main 1981, Main e Weston 1982) o la relazione con
figure di attaccamento anch’esse impaurite o traumatizzate (Main e Hesse 1990) determinano
destrutturazione nello sviluppo della personalità e stati (Modelli Operativi Interni, MOI) di
attaccamento disfunzionale.
Tutte le condizioni sopra esposte determinano infine una conseguente carenza delle strategie
di autoregolazione emozionale ed affettiva del soggetto (Tronik 1989, Hesse et al. 2003, Liotti
2005, Liotti 2012, West et al. 2001, Schimmenti e Bifulco 2008b, Lyons-Ruth e Block 1996,
Schuder e Lyons-Ruth 2004) e predispongono all’esperienza delle condotte proprie della
tossicodipendenza in età adulta (Caretti et al. 2012, Caretti et al. 2013).
È utile, inoltre, in questa sede far riferimento al concetto di trauma complesso (van der Kolk
2005), secondo cui esperienze interpersonali di esposizione cronica ad abbandono, incuria,
violenza ed aggressività fisica e sessuale, minacce alla vita, abuso emotivo e forme di coercizione,
sono all’origine di schemi di risposta disregolati con conseguenze a più livelli (affettivo, somatico,
comportamentale, cognitivo e relazionale) e pervasiva alterazione delle rappresentazioni di sé
e degli altri, tanto da condurre a disturbi della personalità, disturbi antisociali di personalità,
disturbo post-traumatica da stress (PTSD) (Schimmenti 2013).
Nella personalità di colui che sviluppa condotte additive, spesso in comorbilità con i disturbi
dell’Asse II del DSM – IV TR, si assiste quindi allo stabilizzarsi di modalità di mancato rapporto
con le proprie emozioni, fino allo strutturarsi di una conseguente alessitimia e discontrollo degli
impulsi (Caretti e Craparo 2005, Caretti et al. 2010, Schimmenti 2013).
2. Il contesto istituzionale
Nel gruppo monosintomatico per tossicodipendenti, parlare di dipendenza dalla droga
significa collocare tale condizione in ciò che accade tra una persona e l’altra e in uno spazio
gruppale che “si crea dall’incontro interattivo fra menti in azione inter/intra comunicativa”
(Gentile 2011, p. 106). Già nella tradizione della lettura psicoanalitica di Corrao (1993, 1995) la
relazione ha caratteristiche di interattività e reciprocità, tanto da fondare ciò che egli ha definito
come Sé gruppale. Conseguentemente nel gruppo analitico lo spazio mentale dell’individuo
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diviene concretamente e psicologicamente lo spazio di interazioni tra una persona e l’altra.
Nella specifica esperienza di conduzione di gruppo con i tossicodipendenti affrontare le
difficoltà significa mantenere attenzione a vari livelli: innanzitutto il contesto istituzionale in cui
si svolge l’esperienza di gruppo, che ha una sua specifica “resistenza” per la complessità che la
lettura del campo e della “cultura locale” comportano. Che cos’è il gruppo? Fa parte della scuola,
è un corso, un’attività? La conduttrice è uno dei tanti carcerieri con cui i partecipanti detenuti
hanno a che fare nel loro quotidiano oppure è una porta verso la libertà fisica dal carcere? La
defezione dal gruppo comporta la privazione dell’accesso alla libertà fisica dal carcere? Per il
terapeuta il rintracciamento dei diversi piani consci ed inconsci, ovvero degli aspetti relazionali,
personali e di ruolo è quanto meno laborioso.
Tenere presente il modello del campo dei Baranger quindi torna particolarmente utile quando
si ha a che fare con esperienze analitiche in istituzioni come il carcere (Neri 2006). D’altronde
la forte normatività dell’istituzione penitenziaria agevola l’intervento terapeutico di gruppo con
soggetti tossicodipendenti, se la qualità del rapporto tra l’istituzione e il microgruppo lo consente
(Accursio 2010).
Con riferimento alla terapeuta, questa si è posta nel gruppo con la consapevolezza che entrare
e condurre il gruppo l’avrebbe connotata, alla stregua degli altri partecipanti, come oggetto in
“un campo di forze di desideri intersoggettivi” (Greenberg 2012, p. 16). La terapeuta, secondo
tale approccio, riconosce e mantiene la sua partecipazione attiva, offrendo un contributo alla
narrativa del gruppo ed a quella personale dei singoli (Mitchell 1993), come partecipante di
una tale esperienza analitica, la sua mente deve farsi inevitabilmente carico di aspetti del Sé
e delle personalità violente dei membri del gruppo, sollecitati dalla “violenza delle norme”
dell’istituzione stessa. Tali elementi attivano emozioni di rabbia, frustrazione e dolore che creano
cortocircuiti e paralisi nella funzione di pensiero e nell’apparato per pensare i pensieri (Bion
1972). I processi così descritti richiedono “un impegno terapeutico” costante su quella parte del
campo che possiamo definire come “non mentalizzato” o non ancora partecipe del processo di
simbolizzazione. Ciò è riconducibile alle mancanze, ai deficit dei partecipanti nel riconoscere gli
stati emotivi propri e altrui, che fanno emergere una dimensione di vuoto affettivo e cognitivo.
I partecipanti a tratti percepiscono i vissuti emotivi dolorosi, ma non li riconoscono, non sanno
dare loro un nome, non riescono ad identificare e mentalizzare le emozioni, se non con difficoltà.
La paura della persecutorietà istituzionale può paralizzare ulteriormente la manifestazione della
loro autenticità.
3. L’esperienza
Il dispositivo terapeutico qui presentato ha caratteristiche di gruppo analitico, monosintomatico
ed aperto, si riunisce settimanalmente nei locali della scuola dentro uno dei reparti di un istituto
penitenziario. Inizialmente il gruppo era composto da dieci partecipanti compresa me, ma tre non
sono mai venuti; erano inoltre presenti un dominicano, uno slavo, che sono stati rispettivamente
uno scarcerato in misura alternativa e l’altro trasferito. Attualmente i partecipanti sono sei, di cui
uno è di nazionalità marocchina, gli altri sono tutti autoctoni, tra questi l’ultimo si è aggiunto
dopo le vacanze di Natale. Hanno aderito perché sono la loro “psicologa del Ser.T.” e rilascio le
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certificazioni necessarie alle misure alternative e le relazioni sulla personalità e l’andamento del
percorso riabilitativo, quando la Magistratura o la Direzione dell’Istituto me le richiede. Sperano
nel mio intervento e tentano di avere fiducia nell’iniziativa e che io possa avere fiducia in loro,
per poter accedere alle misure alternative o per prepararsi meglio alla comunità. Hanno tutti
precedenti esperienze di tossicodipendenza e storie infantili caratterizzate da maltrattamento,
da deprivazione fisica, morale e affettiva di cure, di amore, di serenità o anche semplicemente
esperienze di trascuratezza emotiva e/o di non incontro con le figure genitoriali. Intorno al
periodo successivo alla pausa per le vacanze natalizie, curiosamente, cominciano a chiedersi che
nome possa darsi questo gruppo. Josè, il giovane dominicano, propone “un gruppo in cerca di
contatto” e gli altri sorridono e approvano.
Dopo i primi mesi è evidente quanto sia forte il rischio di strumentalizzazione e manipolazione
di quella che può ancora essere un’opportunità di vita, di cambiamento. Attraverso la fiducia
nella terapeuta si è creato un accesso alla cura della fiducia reciproca, avviando infine un
percorso di messa in discussione di sé. Ciò ha significato svelarsi, venire allo scoperto, accettare
le insicurezze, la percezione “incerta” di sé, al di là del già noto. Nella fase iniziale, in cui
gran parte delle sedute si svolgeva intorno a tali temi, era presente una marcata dipendenza
dalla conduttrice. Era ancora difficile che nascesse un pensiero capace di contenere la valenza
eccitatoria di quell’incontro quasi perverso nella fantasia di riunirsi a parlare di droga dentro un
carcere!
Le reazioni emotive dei partecipanti all’esperienza hanno quindi continuamente oscillato tra
l’idea di affidarsi, quella opposta della fuga o dell’ “attacco” reciproco e/o alla conduttrice, della
distruzione, della disgregazione del gruppo. Attraverso tali dinamiche emotivamente forti, nel
tentativo di una messa in gioco di contenuti emozionali più profondi e inconsapevoli, si è quindi
attivato un percorso per la cura delle mancanze infantili e degli esiti distruttivi dell’esperienza
della tossicodipendenza. Non un tentativo di esperire il “gruppo buono”, quindi, ma, in una nuova
esperienza di relazione multipla del Sé (Bromberg 2001), provare a tollerare l’inesprimibile,
aiutarsi a dare voce e parola a sentimenti di colpa, di odio, di invidia, di rabbia, di vergogna, di
perdita, di lutto, ma timidamente anche di amore, di gioia, di solidarietà attraverso il ritrovarsi
nell’altro. Non sempre i partecipanti al gruppo hanno mostrato una capacità di simbolizzazione
e di rappresentazione dell’altro e di sé nell’altro, non sempre “hanno suonato la stessa musica”,
ma a volte è stato possibile che si sorprendessero di uno sguardo di comprensione, di una parola
vera, di un silenzio più significativo.
4. Una seduta
È la penultima seduta prima della pausa estiva. Manca Totò, gli altri dicono che sta male,
notiamo subito la sua assenza perché ci ha abituato a tenere banco, occupando tutto lo “spazio”
del gruppo e gli altri lo hanno lasciato fare.
Per una buona mezz’ora la seduta diviene parecchio pesante, perché è caratterizzata solo da
lamentele sul caldo, sulla vita detentiva, sulle limitazioni percepite come insensate e crudeli, sulle
punizioni, sulle condizioni di sovraffollamento e punteggiata da discorsi sul possibile indulto, da
fantasiosi quanto apocalittici scenari di uno sciopero generale dei detenuti, che sarebbe durato
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quattro giorni, con la rinuncia persino alle visite dei familiari.
Poi Danilo accenna sorridente alle vicende giudiziarie della moglie e della madre, dicendo
che finalmente hanno loro concesso la revoca delle misure cautelari. A causa sua erano agli
arresti domiciliari. Sua moglie porterà quindi i bambini all’ “area verde” dell’Istituto per il
colloquio con lui la prossima settimana. Salvo gli fa eco: “È bello lì, è come essere libero, puoi
giocare e stare con i tuoi figli come se fossi alla villa, non c’è nessuno che ti riprende se tua
moglie o i tuoi figli si avvicinano”. “Per i bambini è positivo, si divertono, giocano con gli altri
bambini e passano bene il tempo. I miei figli ora quasi, quasi ci vogliono venire per giocare.
Prima si annoiavano quando venivano a trovarmi”. Rispondo che questo è molto importante
e che veramente allora anche in carcere si fa qualcosa di positivo. Dico: “Bisognerebbe creare
anche qui un’area di gioco” e annuiscono.
Inaspettatamente Daniele afferma che da quando è in carcere non riesce più a sognare. “Se
non sogni non pensi”, gli risponde Youssef, il tunisino. Si crea un lunghissimo silenzio. Avverto,
come nella seduta precedente, una sonnolenza, che non posso ricondurre solo alla stanchezza
o alle temperature. Decido di far notare l’empasse e chiudendo gli occhi e tenendomi il mento,
dico: “Potrei schiacciare un pisolino”. Mi guardano e sorridono. Allora dico che come per la
pentola a pressione, qui ci vorrebbe una valvola. Alessandro risponde subito: “A mia nonna si
è distrutta la cucina per questo. A volte la valvola si ottura”. Io ribadisco che: “Certo, se si ha
cura della valvola, il vapore può fuoriuscire lentamente ed il cibo cuocersi senza che la pentola
scoppi”. “Ecco – aggiungo, pensando all’area verde – è quel contenitore…, cioè l’idea di poter
essere liberi lì e con i vostri bambini che vi fa star bene e che funge da valvola”. Danilo ribadisce:
“Lì ognuno di noi ha la sua valvola di sfogo”. Io affermo assertivamente: “Qui la valvola comune
di sfogo non c’è ancora”. Penso che forse sono stata troppo trànchant, ma che, comunque,
devo continuare a parlare, a smuovere quella pesantezza e nel contempo avverto che la mia
sonnolenza si sta dileguando. Faccio notare che non è un caso se quando si parla dei bambini e
dell’ “area verde” fuoriesce un po’ di pressione. Dico, però, che qui si parla dei loro bambini, ma
non della loro infanzia, avvenimento questo infrequente e sempre tangenziale. Continuo dicendo
che anche stando qui si può far fuoriuscire la pressione, ma se ciascuno mantiene difficoltà a
prendere contatto con se stesso e con gli altri, è chiaro che la pressione porterà la pentola a
scoppiare. Avverto dalle loro espressioni che cominciano a seguirmi.
Natale inizia per primo a raccontare, forse per la prima volta in maniera un po’ meno concitata
del solito: “Quando avevo circa quattordici – quindici anni ho perso mia madre. Avevo otto anni
quando lei ha avuto un ictus, poi si è ridotta come una bambina, tanto che io ci giocavo come
con una sorellina. Aveva anche problemi neuromotori ed è morta all’improvviso, proprio mentre
stavo nella stanza con lei. Eravamo seduti di fronte alla televisione e mi chiede un bicchiere
d’acqua. Dopo averglielo preso – e comincia di nuovo a essere sempre più concitato nel parlare
– ho sentito il bicchiere cadere ed ho visto mia madre piegata in avanti contro il muro”. Non è
chiaro mentre ricostruisce l’evento e penso che sembra stupido, come doveva apparire all’epoca
in quel momento. Dice: “Sono rimasto così…, senza poter dire o fare nulla, a guardare e mi sono
preso uno schiaffo anche da mio padre, che era corso dalla stanza accanto e che, non appena
entrato, mi ha gridato: “Corri, chiama aiuto!” Ma io non riuscivo a fare niente”. Ascoltano
tutti e si fa di nuovo silenzio. Dico che questa è un’esperienza traumatica e che forse anche altri
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ne hanno vissute, ma non hanno mai pensato che potessero esserlo. Alessandro, che già aveva
ammesso quanto gli fosse difficile parlare di sé, racconta che anche lui ha rischiato di perdere sua
madre per una grave malattia. “Mia madre è stata ricoverata lontano, a Y per tre anni a causa
di una leucemia e per tutto quel tempo non ho potuto vederla. Non avevamo mezzi economici,
mio padre faceva l’imbianchino. Allora un giorno a dodici anni, sono scappato di casa, mi sono
messo su un treno da X e quando sono arrivato lì, la polizia ferroviaria mi ha fermato e, sentita
la mia storia, si è limitata ad accompagnarmi all’ospedale da mia madre. Lei era senza capelli
ed aveva una ferita sulla testa, perché era caduta dopo l’intervento a causa di un malore. Poi
sono tornato a casa, mia sorella di diciassette anni cercava di mandare avanti la casa e noi…
E’ stato brutto”. Rifletto sul fatto che poco prima Alessandro aveva detto: “A volte un padre può
sbagliare e fare delle cose che determinano traumi” e poi non aveva aggiunto altro. Penso e
allora dico che: “Adesso capiamo cosa intende Alessandro quando parla di sua madre o Natale
quando dice che è legato alle sue sorelle”.
Anche Youssef allora inizia a parlare e racconta che da bambino doveva assistere al fatto che
suo padre picchiasse la madre quasi ogni giorno. “Rimanevo lì, senza poter fare niente… Se ne
andava con altre donne e ci lasciava, me, i miei fratelli e mia madre senza soldi per settimane.
Era terribile! Mia madre veniva da me, che ero solo un bambino e mi diceva “Vedi, tuo padre mi
ha fatto questo, mi ha fatto quello”. Io lo odiavo! E poi a un certo punto lo abbiamo odiato tutti!
Questa è la ragione per cui io e i miei fratelli siamo venuti in Europa. Ora anche mia madre vive
in Z, solo mio padre è rimasto in Marocco. Però ora, dopo questi cinque anni di prigione, sento
di averlo perdonato, mi fa pena e mi dispiace che sia rimasto da solo lì”.
Li guardo tutti e dico: “Oggi si sono potute raccontare esperienze, che hanno la caratteristica
comune di essere traumatiche e dolorose, forse all’origine delle fragilità di ciascuno – e
scherzosamente aggiungo – … quindi oggi una valvola ha fatto uscire un po’ di “pressione”.
Poi aggiungo, come ho già loro preannunciato, che ci vedremo il prossimo martedì, per
l’ultima seduta prima della pausa estiva.
5. Riflessione e conclusione
Tenendo conto della prospettiva psicoanalitica relazionale, Amadei (2011) ricorda come
per Stern (2004) “le possibilità trasformative della cura psicoanalitica siano connesse al
determinarsi dei cosiddetti “momenti di incontro” tra paziente e terapeuta” (ibidem, p. 56). Nel
materiale clinico riportato l’enactment del terapeuta (Bromberg 2011), la sua comunicazione
circa la percezione fisica relativa al senso di torpore, sonnolenza e pesantezza, ha spezzato il
clima emozionale intollerabile del gruppo.
Nel materiale sopra riferito è in evidenza come elementi dissociati, non elaborati, non
mentalizzati, emozioni traumatiche (Caretti et al. 2010) dei partecipanti “navigassero” alla
deriva nel “campo” del gruppo, investendo anche la mente e il corpo della terapeuta.
A tale proposito, tenendo conto anche di un approccio psicoterapeutico fondato sulla teoria
dell’attaccamento, ricordiamo l’invito rivolto da Wallin (2007) agli psicoanalisti di recuperare
ciò che il corpo “sente” in maniera grezza nell’interazione intersoggettiva in psicoterapia, al fine
di favorire il contatto con i pazienti. Stern, inoltre, a proposito delle comunicazioni del terapeuta
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al paziente, proponendo il costrutto di “matrice intersoggettiva” (2004, p. 63), mette in evidenza
come la mente umana sia dotata della capacità di intuizione delle intenzioni degli altri.
Tornando al materiale clinico, nonostante la terapeuta nascondesse inizialmente il senso
di sonnolenza e torpore compulsivi, le era chiaro che i membri del gruppo intuissero la sua
condizione psico-fisica. Parafrasando sempre Stern (2004), allora comunicare in gruppo “ciò che
io so che tu sai che egli sa” ha costituto la base dell’autentico contatto intersoggettivo.
Nella seduta è stato messo inizialmente in luce come l’assenza di un membro del gruppo,
Totò, avesse creato un vuoto iniziale, generatore di un’angoscia, forse quella originaria e di
perdita globale o parziale dell’oggetto, potremmo dire (Accursio 2003). Per quanto sopra
descritto sulla vulnerabilità predisponente alla dipendenza patologica, potremmo pensare che il
vuoto di rispecchiamento e/o di sintonia da parte delle figure genitoriali (Caretti et al. 2010) e le
esperienze traumatiche ad esse legate abbiano prodotto la condizione di una paura claustrofobica
della mente, percepita come potenzialmente persecutoria e minacciosa, una mente che soffoca,
ovvero un gruppo che asfissia e confonde (Stringi 2002, Stringi 2008).
Nelle comunicazioni dei pazienti/detenuti l’inesprimibilità indifferenziata e dolorosa ha
ceduto il posto all’espressione inconsapevole ed ottusa della frustrazione e della rabbia relative
alle assurdità ed al non senso proprie della vita detentiva. Allora l’emozione della rabbia ha
tentato di solidificare, di dare unità al loro Sé in quella fantasia eccitatoria di rivolta del più ampio
popolo dei detenuti, dando forza alla loro identità negata, rigettando e denegando la fragilità
appena sperimentata dentro il gruppo. Ciò appare comprensibile se facciamo riferimento anche
al ruolo regolatorio delle fantasie di rivalsa, conseguenti a ferite narcisistiche reali o presunte tali
ovvero a stati affettivi intensi ed insostenibili (Thomas 2013, Schore 2001).
Ancora, la fine della scuola ha reso pure più difficile accettare, nell’ambivalenza, la pausa
estiva, durante la quale la conduttrice non solo esce davvero come ogni volta dal carcere, ma
va anche in vacanza e non “all’aria”. L’occasione della pausa estiva ha riproposto il dolore del
vuoto psichico, “l’assenza dell’oggetto d’amore”, ciò che non c’è e forse non c’è mai stato nella
relazione con l’oggetto, mettendo in discussione anche la bontà dell’iniziativa, la sua autenticità.
“Cosa accadrà? La dottoressa sparirà da domani? Oppure verrà risucchiata sin dal momento in
cui ci stringeremo la mano per salutarci alle ore dodici e ci abbandonerà dietro ai cancelli, come
quella madre morta o quella madre che scompare per tre anni e forse sta già morendo? E come
fare senza un padre crudele, mai affettivo e responsabile e che non c’è mai stato o non ha mai
compreso?”
Difficile per i pazienti/detenuti poter regolare il proprio stato emotivo, difficile per la
conduttrice poter procedere, se non azzardando, così come in altre occasioni, attraverso il
disvelamento giocoso di aspetti di sé, della propria percezione del clima di gruppo (MacKenzie
1981, Yalom 1995), superando il pudore del contatto e dando parola al disagio derivante dalla
personale e passeggera esperienza di intorpidimento mentale e fisico. Anche la terapeuta,
coinvolta dalla circolazione emozionale del gruppo, ha fatto i conti con ciò che non era chiaro,
con ciò che non era visibile, con le sue sensazioni, oltreché con sentimenti di impotenza ed
inadeguatezza.
Infine ha avuto il sopravvento l’idea che il gruppo potesse contenere aspetti intimi, la
terapeuta ha infatti manifestato un personale sentimento di disagio, offrendo, potremmo dire con
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Alessandra Stringi
Greenberg (2012), qualcosa al “desiderio degli altri” (Mitchell 1993). Se la terapeuta non avesse
superato la condizione di stallo, il gruppo sarebbe collassato e progressivamente si sarebbe
disintegrato, reificando angosce di frammentazione e perdita. In definitiva nella situazione di
impasse, l’adesione rigida della terapeuta al modello teorico-tecnico di conduzione avrebbe
prodotto una difficoltà ancora maggiore (Dazzi et al. 2006, Lingiardi e De Bei 2011), potremmo
dire una disregolazione del clima di gruppo a causa di una leadership orientata rigidamente
(Kivlighan e Tarrant 2001).
A tale proposito, da una prospettiva evolutiva, Wallin (2007) mette in luce come un eccesso
di concentrazione del terapeuta sui processi di simbolizzazione non ne favorisca il contatto
con la dimensione sensoriale. Nella seduta sopra riportata, invece, la comunicazione della
terapeuta sul suo stato sensoriale, sostenuta da un atteggiamento mentalizzante (Bateman e
Fonagy 2004, Caretti et al. 2013), favorente la conferma di un clima di fiducia, ha creato lo
spiazzamento emotivo, da cui poter avviare paradossalmente proprio una funzione simbolica
(l’uso di una “valvola”, un’idea che contiene, l’idea che si può comunicare proprio ciò che ha
prodotto la sofferenza originaria). L’esperienza del contatto, che in sedute precedenti era stata
scherzosamente ricercata dai membri del gruppo, ma di cui si temevano e di cui non si potevano
immaginare nemmeno le modalità di attuazione, ha avviato infatti il processo trasformativo.
Quindi, la condivisione di uno stato sensoriale ed emotivo ha consentito, come conseguenza,
la possibilità che fossero raccontate le esperienze traumatiche, accettata la possibilità di
comunicare le fragilità originarie, possibilità garantita altresì dalla fiducia, maturata nelle
precedenti sedute (“il gruppo in cerca di contatto”), che non ci sarebbero state fuoriuscite di
segreti, né deflagrazioni e/o catastrofi né contagio depressivo tra di loro.
Si è profilato quindi il recupero degli aspetti di umanità attraverso un tentativo di avviare il
processo di ri-soggettivazione, di messa in discussione del senso nella narrazione delle storie
individuali, attraverso la condivisione intersoggettiva di elementi affettivi ed emozionali,
traumatici, dissociati e complessi.
Il riconoscimento imprevisto dell’essere partecipi dello stesso genere umano ha introdotto
paradossalmente elementi di vitalità (Stern 2010), spezzando, oltreché la diffidenza della
subcultura penitenziaria condivisa dai membri del gruppo in carcere, altresì la chiusura
narcisistica dei singoli.
Nella seduta è accaduto quindi ciò che altrimenti Corrao ha definito un’esperienza di
koinodinia (1986a, p. 121), ovvero l’esperienza comune del dolore, la condivisione nel soffrire.
Egli dice: “La koinodinia (l’esperienza del dolore di gruppo) rende possibile di ricostituire
e/o ricostruire il senso dell’espressione verbale-linguistica del dolore, e di ri-apprendere
l’esperienza generativa originaria, caratterizzata dal ritrovamento della congiunzione costante
tra le parole e le cose, tra il molteplice e l’uno, tra l’insieme e le parti (ibidem, p. 126).
In conclusione il recupero di stati del Sé dissociati, connotati da vissuti di vergogna, impotenza
ed inadeguatezza, che solitamente costituiscono un rinforzo alle condotte di dipendenza (Caretti
et al. 2010), ha avuto quindi luogo, come è evidente nella tranche di materiale clinico riportata.
L’esperienza ha costituito globalmente un tentativo di recuperare la dignità umana offesa e
“mortificata” da eventi traumatici passati e presenti. Un barlume di ricomposizione di quella
ipotetica “rottura primaria dei processi intersoggettivi umani che producono un senso integrato
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Traumi infantili, tossicodipendenza e regolazione affettiva
e coerente del Sé” (Stolorow e Atwood 1992, cit. Caretti et al. 2005, p. 262) e in cui le menti
dei partecipanti avevano avuto inizio. Una probabilità in più di avviare un percorso terapeutico,
nell’ambito di un programma di rieducazione e riabilitazione istituzionale, spesso invece tanto
inautentico, quanto inutile per il paziente tossicodipendente e detenuto.
Riassunto
Parole chiave: tossicodipendenza, disregolazione emozionale, relazione, gruppo, penitenziario
In questo articolo si affronta l’eziologia della tossicodipendenza, secondo un modello psicoanalitico
evolutivo-relazionale e si riporta l’esperienza di conduzione di un gruppo analitico con tossicodipendenti
all’interno di un penitenziario. Specificamente si mette in luce, prima, il ruolo del campo di relazioni nello
sviluppo della mente umana e la modalità con cui i processi di trasmissione possono generare elementi
patogeni transpersonali. Quindi, si evidenzia in che modo il dispositivo terapeutico di gruppo favorisca
la cura del soggetto tossicodipendente, ricreando un campo di relazioni multiple, reciproche e complesse
e riproponendo un contesto relazionale-affettivo per la rimessa in gioco e condivisione di elementi
personali. Si spiega infatti come lo strutturarsi di una dipendenza patologica sia riconducibile ad una
disregolazione emozionale ed affettiva, conseguente all’esperienza di traumi infantili, che hanno disturbato
e disorganizzato la compartecipazione intersoggettiva degli stati affettivi nella relazione con i caregiver
primari. Tale processo viene messo quindi in relazione con la comparsa di fenomeni dissociativi, con lo
strutturarsi del tratto alessitimico di personalità e della tendenza al discontrollo degli impulsi.
Si specifica come il gruppo analitico bioniano, condotto nel contesto detentivo, richieda la cura
del rapporto con l’istituzione penitenziaria, da un canto e la lettura di aspetti relazionali, personali e di
ruolo del terapeuta, consci ed inconsci, dall’altro. Nell’articolo ci si propone, attraverso la descrizione
dell’esperienza, il funzionamento di un dispositivo terapeutico di gruppo monosintomatico ed aperto a
cadenza settimanale. Riportando una seduta, si mette in luce come la percezione e la comunicazione in
gruppo della terapeuta del suo personale senso di torpore, sonnolenza e pesantezza sia da porre in relazione
con l’inizio di una funzione simbolica di pensiero e di nuova attribuzione di senso ad elementi emozionali
dissociati, non elaborati e non mentalizzati sino a quel momento.
CHILDHOOD TRAUMA, DRUG ADDICTION AND EMOTIONAL REGULATION IN AN ANALYTIC
GROUP IN A PENITENTIARY
Abstract
Key words: drug addiction, emotional dysregulation, relationship, group, penitentiary
This article is about the aetiology of drug addiction according to an evolutionary-relational
psychoanalytic model, and it is reported how a group analityc psychotherapy of drug-addicted subjects in
a penitentiary has been managed. First, it is emphasized the role that relationships have in the development
of the human mind and the way these transmission processes can create transpersonal pathogens. Then, it
is underlined the way the group therapy fosters the treatment of the subjects by re-creating a framework of
multiple mutual and complex relationships, and reviving an emotional-relational context for the personal
elements to be brought into play and shared. In fact, it is explained how a pathological addiction is related to
an emotional dysregulation, caused by a childhood trauma which has disturbed and upset the intersubjective
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Alessandra Stringi
sharing of the emotional states in the relationship with the primary caregivers. Such process is, thus, related
to the appearance of dissociative cases, the presence of alexithimic traits, and the tendency to a non-control
of the impulses.
It is also specified how the bionian group analytic psychotherapy, carried out in a penitentiary context,
demands on the one hand, the care of the relationship with the penitentiary institution; on the other, the
interpretation of relational and personal aspects and that of the role of the psychotherapist.
Moreover, through the description of the experience, the article wants to submit the functioning of a
mono-symptomatic and open group therapy on a weekly rate. By describing a session, it is underlined how
the perception and the communication of the therapist’s torpor, sleepiness and heaviness is to be related to a
symbolic function of the thought and a new meaning given to dissociated emotional elements, which have
not been elaborated and mentalized so far.
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Corrispondenza
Alessandra Stringi, PhD
Psicologa, Psicoanalista di gruppo
Via Cavour 59, 90133 Palermo
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