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Progetto Stili di Vita

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Progetto Stili di Vita
Società Italiana di Parodontologia
Progetto Stili di Vita
Rapporti tra fattori legati agli Stili di Vita e Patologie
Infiammatorie Croniche:
Correlazioni tra Malattie Parodontali e Malattie Sistemiche
Considerazioni cliniche e consigli pratici
Revisione della letteratura scientifica
1
Presidente eletto SIdP e Promotore del Progetto Stili di Vita
 Luca Francetti
La Commissione per il Progetto Stili di Vita
 Pierpaolo Cortellini (Coordinatore)
 Antonio Carrassi
 Daniela Lucini
 Massimo Pagani
 Maurizio Tonetti
 Paolo Veronesi
Revisione della letteratura a cura di:
 Francesco Cairo
 Mauro Farneti
 Nicola M. Sforza
 Roberto Rotundo
2
INDICE
-
-
Prefazione
Sindrome metabolica, diabete e rischio cardiovascolare:
il ruolo degli stili di vita
pag. 6
pag. 6
pag. 7
pag. 11
pag. 14
pag. 15
pag. 16
Stress e stili di vita
pag. 21
- La risposta psicologica allo stress
pag. 21
- Lo stress psicologico ed il rischio di patologia cardiovascolare
pag. 22
- Lo stress da lavoro
pag. 23
- Lo stress psicologico e la sindrome metabolica
pag. 24
- Meccanismi psiconeuroimmunologici
pag. 25
- Come lo stress e altri fattori psicosociali influenzano la patogenesi di malattie pag. 25
- Stress, depressione e malattia parodontale
pag. 26
- Potenziale meccanismo psiconeuroimmunologico
pag. 26
- La capacità di adattamento/il comportamento individuale
pag. 27
- Conclusioni
pag. 28
- Bibliografia
pag. 28
L’esercizio fisico come stile di vita
pag. 33
- Introduzione
pag. 33
- Definizione di attività fisica o sport
pag. 33
- Quale attività fisica
pag. 34
- La prescrizione dell’esercizio fisico
pag. 35
- Esercizio aerobico
pag. 36
- Esercizio di resistenza
pag. 37
- Esercizio di flessibilità (Stretching)
pag. 37
- Esercizio fisico e malattie
pag. 38
- Sindrome metabolica
pag. 39
- Diabete tipo 2
pag. 39
- Ipertensione arteriosa
pag. 40
- Obesità
pag. 40
- Malattia cardio-coronarica o cardiopatia ischemica
pag. 41
- Insufficienza cardiaca
pag. 41
- Cancro
pag. 42
- Depressione
pag. 42
- Esercizio fisico e malattie parodontali
pag. 43
- Conclusioni
pag. 44
- Bibliografia
pag. 45
Il fumo di tabacco
pag. 49
- Il fumo come fattore di rischio per la salute dell’individuo
pag. 49
- Epidemiologia
pag. 49
- Fisiopatologia
pag. 52
- I costi del fumo
pag. 54
- Metodi per la cessazione dell’abitudine al fumo
pag. 55
- Il fumo come fattore di rischio per la salute parodontale
pag. 59
- Bibliografia
pag. 61
-
-
-
-
pag. 4
Premessa
Gli stili di vita e l’influenza sul rischio di sindrome metabolica e diabete
Gli stili di vita e l’influenza sul rischio cardiovascolare
Discussione
Conclusioni
Bibliografia
3
Prefazione
La parodontite rappresenta una delle patologie infiammatorie croniche a più elevata
prevalenza nella popolazione dei Paesi occidentali: in Italia, si stima che essa interessi, nella
sua forma grave, circa il 10-15% dei soggetti adulti mentre, una percentuale compresa tra il
20 e il 30%, sarebbe affetta da una forma lieve. Essendo la principale causa della perdita di
elementi dentali, è responsabile di un grave deficit funzionale e nello stesso tempo è in
grado di influenzare in modo negativo la vita di relazione con un importante impatto sulla
sfera psicologica, compromettendo il sorriso e determinando alitosi.
Recentemente sono stati pubblicati numerosi studi clinici e sperimentali che hanno messo
in evidenza una stretta correlazione tra le parodontiti e alcune malattie sistemiche molto
diffuse.
Questi studi ipotizzano che le malattie parodontali possano avere effetti sistemici diretti,
attraverso la disseminazione per via ematica di batteri patogeni o effetti sistemici indiretti,
attraverso il ruolo negativo esercitato dalla infiammazione sistemica.
E’ importante sottolineare che sia le parodontiti che le malattie sistemiche correlate
rappresentano fenomeni patologici la cui eziopatogenesi è multifattoriale, condividendo
numerosi fattori di rischio legati agli stili di vita (ad esempio la cattiva igiene orale, il fumo,
gli errori alimentari) oppure legati al patrimonio genetico e dipendenti da una maggiore
suscettibilità nei confronti di una determinata malattia.
Lo scopo di questo progetto è quello di informare e sensibilizzare il pubblico, attraverso gli
operatori sanitari di area odontoiatrica (dentisti ed igienisti dentali), sull’influenza che le
abitudini di vita possono avere nei confronti di uno stato infiammatorio sistemico. Questa
iniziativa si inserisce all’interno di una strategia di comunicazione, iniziata nel 1999 con il
Progetto Diagnosi, seguito dal Progetto Impianti e dal Progetto Terapia il cui obiettivo
complessivo è stato quello di offrire conoscenze aggiornate su argomenti di cultura
parodontale. Più recentemente, il Progetto Periomedicine ha portato l’attenzione sui
rapporti esistenti tra patologie parodontali ed alcune malattie sistemiche di elevato rilievo
epidemiologico. In considerazione dall’articolo 2 del nostro statuto, secondo il quale la
Società ha lo scopo di promuovere la salute della popolazione italiana attraverso il
miglioramento degli stili di vita, la prevenzione, la diagnosi, ed il ripristino funzionale ed
estetico dei tessuti parodontali, il progetto che stiamo realizzando ci è parso la logica
prosecuzione di questo percorso e prevede un'allargamento degli ambiti
convenzionalmente di nostra pertinenza per affrontare una prevenzione globale che tenga
conto non solo di un distretto o di un apparato ma dell' individuo nella sua integrità.
Il canale di comunicazione identificato è rappresentato in primo luogo dal team
odontoiatrico e si rivolge al singolo paziente ma anche e soprattutto al nucleo familiare,
identificato come ambiente ideale all’interno del quale introdurre i concetti legati a uno
stile di vita sano. Se consideriamo l’igiene orale come punto di partenza per l’igiene di vita,
la trasversalità dei messaggi che vengono dall’odontoiatra nei confronti del controllo del
biofilm batterico, di una corretta alimentazione, dei danni derivati dal fumo nei confronti
delle patologie di sua competenza, si riflettono automaticamente su patologie a
elevatissima prevalenza come le malattie cardiocircolatorie, la sindrome metabolica, il
diabete, la broncopatia cronica ostruttiva o su patologie meno prevalenti ma ben più gravi
come le neoplasie. Questo “canale di comunicazione” è da molto tempo attivo nell’ambito
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della prevenzione ed il paziente è abituato a ricevere messaggi di questo tipo nel setting
odontoiatrico: un ampliamento dei concetti di educazione sanitaria verrebbe quindi
facilmente recepito e rappresenterebbe una promozione della figura del dentista e
dell’igienista dentale i quali, inoltre, hanno il grande vantaggio di vedere una fascia di
popolazione molto ampia e di tutte le età (in Italia circa il 40% della popolazione viene
visitato dall’odontoiatra ogni anno).
Il progetto prevede anche una metrica soggettiva destinata a indagare alcune abitudini della
popolazione e le eventuali modifiche che, perlomeno a breve termine, sarà possibile
individuare.
Il documento che segue contiene una revisione aggiornata della letteratura scientifica
relativa ai principali aspetti degli stili di vita che, se modificati, possono contribuire a
migliorare non solo la qualità della vita ma anche la sopravvivenza degli individui nella logica
di fornire un’informazione sintetica ma allo stesso tempo precisa e puntuale sulla
prevenzione intesa in senso globale nei confronti dei cittadini.
Luca Francetti
5
Sindrome metabolica, diabete e rischio cardiovascolare:
il ruolo degli stili di vita
Francesco Cairo
Premessa
La parodontite è una malattia infiammatoria cronica che produce la distruzione dei tessuti di
supporto del dente e che è causata da un’infezione poli-microbica di batteri gram negativi
anaerobi (Sanz & Quirynen 2005). Oltre il 30% degli adulti negli Usa ed in Europa presentano
malattia parodontale (Albandar et al. 1999; Hugoson et al. 1998) ed oltre il 10% in forma
grave (Albandar et al. 1999). Stili di vita poco salutari come scarsa igiene orale, fumo di
sigaretta, ma anche predisposizione genetica possono aumentare la suscettibilità alla
malattia parodontale (Nunn 2003).
Negli ultimi 15 anni numerosi studi clinici ed epidemiologici hanno riportato un’associazione
fra la parodontite e diverse malattie sistemiche fra cui l’aterosclerosi e le sue complicanze, il
diabete e le nascite di neonati sottopeso (Mustapha et al. 2007). L’accurata analisi della
letteratura dimostra che tali associazioni sono presenti anche dopo un bilanciamento
statistico con i più comuni fattori di rischio quali il fumo, lo stress, l’aumento dei lipidi,
l’ipertensione, ecc. (Paquette et al. 2007). Nonostante questa quantità di dati la plausibilità
biologica di tale associazione ancora non è stata completamente compresa. Diversi studi
sperimentali supportano l’ipotesi che batteri parodontopatogeni e le loro tossine possano
raggiungere il torrente ematico e determinare effetti infettivi a distanza (Chiu 1999;
Haraszthy et al. 1999), anche se queste osservazioni non sono condivise da tutte le ricerche
effettuate (Cairo et al. 2004; Aimetti et al 2007). Accanto all’ipotesi infettiva ha riscosso
notevole interesse l’ipotesi infiammatoria, supportata dall’osservazione che nei pazienti
affetti da grave parodontite sia presente una notevole risposta sistemica caratterizzata
dall’aumento di citochine pro-infiammatorie (Loos et al. 2000) e proteine di fase acuta come
la proteina C-reattiva (Ebersole et al. 1997). Tale stato potrebbe interagire con la patogenesi
di altre malattie infiammatorie come l’aterosclerosi.
Altri ricercatori hanno però messo in dubbio la causalità dell’associazione (Hujoel 2002;
Hujoel et al. 2002) suggerendo che la parodontite ed altre malattie sistemiche come
l’aterosclerosi siano patologie che coesistono nello stesso paziente-tipo, caratterizzato dalla
presenza di fattori come il fumo, lo stress, scarsa attenzione ai problemi della salute ecc., in
grado di favorire lo sviluppo sia della parodontite che delle malattie cardiovascolari. Queste
osservazioni sono state suffragate da ri-analisi statistiche dei dati epidemiologici
precedentemente pubblicati che suggeriscono come, in particolare, il bilanciamento del
fumo di sigaretta può condizionare il peso dell’associazione (Hujoel 2002; Hujoel et al. 2002).
Al tempo stesso però tali studi hanno sottolineato l’impatto che gli stili di vita possono avere
nel condizionare l’insorgenza sia della parodontite che di altre malattie nello stesso
individuo.
Secondo il rapporto del 2002 dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) esistono
alcuni fattori in grado di influenzare concretamente e in modo negativo la durata della vita di
un uomo nei paesi industrializzati. Tali aspetti sono determinati espressamente dal
comportamento o dalle abitudini dell’individui e sono perciò fattori modificabili. Tali fattori
sono il fumo, l’uso di sostanze alcoliche, la vita sedentaria, il soprappeso/obesità, il ridotto
consumo di frutta e verdura, l’uso di sostanze stupefacenti etc. Tali sostanze sono associate
6
ad una riduzione in anni della vita media dell’individuo. Ad esempio il fumo si associa ad una
riduzione di 12,2 anni di vita, l’alcolismo ad una riduzione di 9,2 anni, la vita sedentaria a 3,3
anni in meno di vita. Ovviamente, il peso dei vari fattori si somma con rischio totale di
perdita di anni di vita nel momento in cui più stili di vita dannosi coesistono nello stesso
individuo.
Lo scopo della seguente revisione narrativa è l’analisi dei dati presenti in letteratura circa
l’associazione fra stili di vita ed il rischio cardiovascolare/diabete nella popolazione dei paesi
industrializzati.
Gli stili di vita e l’influenza sul rischio di sindrome metabolica e diabete
Numerosi studi clinici ed epidemiologici hanno contribuito ad identificare una serie di fattori
che aumentano il rischio di sviluppare alcune gravi patologie come il diabete e le malattie
cardiovascolari. La coesistenza di fattori come l’obesità, la resistenza insulinica, l’alterazione
del metabolismo lipidico, l’ipertensione ed uno stato pro-infiammatorio vengono in genere
definiti sindrome metabolica (SM) (Grundy et al. 2004). Tale sindrome viene considerata una
condizione pre-clinica e predittiva di malattia futura. Interventi diagnostici e terapeutici
tempestivi potrebbero influenzare positivamente l'aspettativa di vita di questi soggetti e
ridurre notevolmente la spesa sanitaria.
La SM è definita dalla presenza di almeno 3 dei seguenti 5 criteri (Sacks et al. 2009):
Circonferenza vita > 102 cm negli uomini e >88 nelle donne
Livello di trigliceridi di almeno 150 mg/dl (1.69 mmol per litro),
Livello di HDL (highdensity Lipoprotein) minore di 40 mg/dl (1.03 mmol per litro)
negli uomini o minore di 50 mg/dl (1.29 mmol per litro) nelle donne
Pressione arteriosa di almeno 130/85 mm Hg
Livelli di glucosio di almeno 110 mg/dl (6.1 mmol per litro).
Diversi studi dimostrano che la SM si manifesta nei soggetti predisposti che vivono una vita
sedentaria e si alimentano in maniera eccessiva (Esposito et al. 2008). Tale condizione porta
ad un aumento del peso corporeo e in particolare ad un accumulo eccessivo di grasso
addominale. Il grasso addominale sembra essere il punto comune a tutte le alterazioni
metaboliche e vascolari presenti nella SM. La terapia pertanto non può essere rivolta ai
singoli sintomi (es. l’ipertensione) ma alla causa che le alimenta, in particolare il
cambiamento degli stili di vita con una dieta equilibrata ed attività fisica. La SM è fortemente
associata allo sviluppo futuro di Diabete (Reaven 2009). Uno studio inglese (Nibali et al.
2007) ha analizzato il profilo infiammatorio (conta dei leucociti, livelli di lipidi e glucosio) di
302 pazienti con parodontite e 182 controlli. I risultati dello studio dimostrano che la
parodontite era predittiva di SM con un aumento dei parametri infiammatori sistemici,
aumentati livelli di lipidi e glucosio.
L'obesità è una malattia cronica fortemente influenzata dagli stili di vita, caratterizzata da un
eccesso di massa grassa distribuita in maniera differente nei vari distretti corporei e nei
diversi soggetti. Tale condizione è fortemente associata al futuro sviluppo di malattie
cardiovascolari (Guh et al. 2009). La prevalenza dell'obesità è in aumento in tutti i paesi
occidentali, al punto da essere definita come una epidemia. In USA contribuisce a 300.000
morti/anno, diventando in tal modo la 2a causa di morte dopo il fumo. In base alla
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distribuzione della massa adiposa l'obesità si distingue in androide (addominale) e ginoide
(gluteo-femorale).
Il parametro più semplice e quindi più utilizzato per definire il grado di obesità è l'Indice di
Massa Corporea (Body Mass Index -BMI) che si ricava dal rapporto tra il peso espresso in
chilogrammi e l'altezza in metri al quadrato. Qui di seguito viene riportato il BMI in diversi
profili di pazienti per una facile definizione:
Paziente sottopeso BMI<18,5
Paziente normopeso BMI=18,5-24,5
Paziente soprappeso BMI=25-29,9
Obesità moderata (I grado) BMI= 30-34,9
Obesità severa (II grado) BMI=35-39,9
Obesità grave (III grave) BMI> 40.
Altro indice usato per la definizione dell’obesità è la misura della circonferenza addominale
definita come la circonferenza minima tra la gabbia toracica e l'ombelico con il soggetto in
piedi e con i muscoli addominali rilassati. Valori superiori a 94 cm nell'uomo e ad 80 cm nella
donna sono indice di obesità viscerale e si associano ad un "rischio moderato". Valori
superiori a 102 cm nell'uomo e ad 88 cm nella donna sono associati ad un "rischio
accentuato" (ACSM 2005).
Un dato molto preoccupante è l’aumento dell’incidenza dell’obesità nei bambini. Ad
esempio per i bambini dai 6 ai 12 anni tra il 1976 e il 1980 il tasso di obesità era del 7%
mentre, nella stessa fascia d'età, dal 1988 al 1994 era del 12% per poi passare alla punta del
15% nel 2000. In una revisione della letteratura Demattia et al. (2007) hanno sottolineato
come la modifica degli stili di vita comprendendo una dieta equilibrata e l’esercizio fisico
possa essere in grado di ridurre il rischio obesità nei bambini.
Negli ultimi anni alcuni studi hanno fatto emergere un’associazione fra parodontite ed
obesità. Dalla Vecchia et al. (2005) hanno analizzato 706 soggetti di età compresa fra i 30 e
65 anni. I pazienti vennero analizzati dal punto di vista parodontale e del peso corporeo. La
parodontite era presente nel 50.7% dei maschi e nel 35.3% delle femmine. L’obesità era
fortemente associata alla parodontite in donne non fumatrici (OR=2.1). Genco et al. (2005)
hanno invece analizzato l’associazione parodontite-obesità in 12.367 soggetti non diabetici
nell’ambito del progetto NHANES III. In questo studio il BMI era associato alla gravità della
parodontite ed in particolare i livelli sierici di TNF- erano predittivi sia della parodontite che
dell’obesità. Questo gruppo di ricercatori ha ipotizzato che il TNF- prodotto dagli adipociti
favorisca uno stato iper-infiammatorio che aumenta sia il rischio parodontite che la
resistenza insulinica (Genco et al. 2005).
Diversi studi clinici hanno analizzato l’effetto dei cambiamenti degli stili di vita sull’obesità.
Galani & Schneider (2007) hanno effettuato una revisione sistematica su studi clinici
randomizzati (RCTs) con un periodo di osservazione di almeno 1 anno che prevedevano un
cambiamento degli stili di vita in pazienti a rischio obesità. Le variabili considerate erano il
peso corporeo, il BMI, la pressione arteriosa ed il profilo glucidico/lipidico. Gli autori
complessivamente identificarono 13 RCTs per la prevenzione dell’obesità e 17 per il
trattamento della stessa. Confrontati con la sola terapia farmacologia, la modifica degli stili
di vita favoriva differenze statisticamente significative in termini di riduzione di BMI, peso
corporeo e pressione arteriosa. Questi risultati positivi erano mantenuti per almeno 3 anni.
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La conclusione della revisione sistematica era che la modifica degli stili di vita era efficace nel
ridurre il peso corporeo ed il rischio cardiovascolare in persone obese o a rischio obesità.
Il diabete è una patologia molto comune fortemente associata alla SM e/o obesità e a stili di
vita poco salutari ed è suddiviso in tipo 1 e tipo 2. Il tipo 1 o giovanile è caratterizzato dalla
distruzione delle cellule B pancreatiche con linfociti CD4+ e CD8+ e infiltrazione dei
macrofagi nelle isole pancreatiche comportando solitamente insulino-deficienza. Esistono
due sottoforme, il tipo 1A con caratteristiche immuno-mediate ed il tipo 1B o idiopatico,
che colpisce maggiormente giovani africani e asiatici. Il diabete di tipo 1 comprende solo il 510% di tutte le forme.
Il diabete di tipo 2 o alimentare è associato a patogenesi non immunitaria. È correlato alla
presenza di geni in prossimità del sito HLA sul cromosoma 6. È detto anche non chetosico.
Comprende quasi la maggioranza dei casi, il 90-95% di tutte le forme. La percentuale di
popolazione mondiale affetta da diabete viene stimata intorno al 5%, mentre circa il 90%
della popolazione diabetica è affetta da DM di tipo 2. In Italia la percentuale di individui
affetti da tale patologia è mediamente del 3%. Nel 2002 si sono contati nei soli USA più di 18
milioni di persone affette da tale patologia e si calcola che una persona ogni 5 anziani di età
superiore ai 65 anni ne sia affetto.
Il diabete non compensato è riconosciuto essere un fattore di rischio per la progressione
della parodontite. Thorstensson & Hugoson (1993) hanno esaminato 83 pazienti con diabete
tipo 2 e 90 pazienti controllo di età simile. I risultati dimostravano che l’incidenza della
parodontite era maggiore nel gruppo diabetico in particolare nella fascia di età compressa
fra i 40-49 anni e che la durata del diabete fosse un fattore predittivo del rischio
parodontite. Shlossman et al. (1990) pubblicarono i risultati di uno studio su 3219 Indiani
Pima (popolazione ad alto rischio diabete) controllati per un periodo almeno di 5 anni.
L’incidenza della parodontite era in relazione alle condizioni diabetiche. Da un punto di vista
patogenetico, il diabete non compensato è in grado di agire a diversi livelli nella
progressione della parodontite con alterazioni microbiologiche che favoriscono la selezione
dei batteri parodontopatogeni, alterazioni della risposta dell’ospite con riduzione dei
fenomeni di diapedesi e chemiotassi dei polimorfonucleati, ed alterazioni tissutali nel
connettivo parodontale con deposizione di prodotti metabolici del glucosio (Advanced
Glycation end-Products AGEs). Recentemente è stato ipotizzato che l'associazione diabeteparodontite sia di tipo bi-direzionale e che il controllo dell’infezione parodontale e
dell’infiammazione ad essa associata possa contribuire a migliorare il livello di controllo
glicemico nei diabetici (Grossi & Genco 1998). Alcune citochine pro-infiammatorie prodotte
nei siti colpiti da parodontite, quali IL-6 e TNF- , favorirebbero infatti lo sviluppo di
meccanismi di insulino-resistenza (Grossi & Genco 1998). Revisioni della letteratura
condotte sugli studi che hanno valutato gli effetti del trattamento parodontale sul controllo
glicemico non hanno però fornito conclusioni definitive circa questo argomento (Taylor
2006; Tan et al. 2006). Una meta-analisi ha esaminato 10 studi di intervento comprensivi di
456 pazienti affetti da diabete Tipo 1 o 2 (Janket et al. 2005). Questo studio ha individuato
una riduzione statisticamente non significativa della HbA1C (0.38%) rappresentativa del
miglioramento del controllo glicemico, soprattutto nei soggetti affetti da diabete Tipo 2. Gli
autori hanno ricordato che ulteriori studi sono necessari per comprendere meglio il
potenziale peso dell’influenza della parodontite sul peggioramento del controllo glicemico
(Janket et al. 2005).
9
L'OMS stima che ci sarà un fortissimo incremento di prevalenza di DM negli USA, in Medio
Oriente e nel Sud-Est asiatico mentre in Europa l'incremento sarà più modesto. Si ritiene che
l’aumento della vita sedentaria possa essere fra i fattori predisponenti allo sviluppo del
diabete. Una ricerca dell’università del Colorado (Morrato et al. 2007) su circa 23.000 adulti
sottoposti a questionario per valutare la frequenza dell’esercizio fisico nella loro vita
quotidiana dimostra che solo il 39% tra i partecipanti diabetici svolgeva regolare attività
fisica, mentre tra i non diabetici la percentuale saliva al 58%. Le osservazioni della ricerca
sottolineavano che la maggioranza dei soggetti a rischio di sviluppare diabete di tipo 2
faceva una vita sedentaria.
Uno studio clinico randomizzato danese (Gaede et al. 2008) ha analizzato 160 pazienti con
diabete di tipo 2 trattati con un protocollo di terapia intensiva (modificazione degli stili di
vita, terapia farmacologia specifica per l’iperglicemia, l’ipertensione, dislipidemia e
microalbuminuria) o terapia convenzionale (solo farmacologica). La durata del trattamento
medio era di 7.8 anni. Successivamente i pazienti vennero seguiti per altri 5.5 anni fino al
follow-up finale (13.3 anni di osservazione). I risultati dello studio dimostrano che la sola
terapia farmacologia si associa ad un maggior numero di morte per complicanze diabetiche
(40 versus 24). Inoltre la terapia intensiva si associava a ridotto rischio di eventi
cardiovascolari e di morte per eventi cardiovascolari. Le conclusioni degli autori erano che la
terapia intensiva con modifica degli stili di vita era più efficace di quella convenzionale nel
prevenire la morte e le complicanze cardiovascolari del diabete di tipo 2. Altri RCTs
dimostrano che almeno 150minuti/settimana di attività fisica e dieta con perdita di peso di
circa 5-7% riduce il rischio progressione del diabete di tipo 2 nel 58% dei casi (Diabetes
Prevention Program 1999; Toumilehto et al. 2001).
Una revisione sistematica della letteratura (Orozco et al. 2008) ha analizzato l’impatto
dell’esercizio fisico e della dieta sulla prevenzione del diabete di tipo 2 in pazienti a rischio
(alterato metabolismo glucidico o sindrome metabolica). Gli autori hanno incluso 8 studi che
analizzavano l’esercizio fisico e la dieta per un totale di 2241 partecipanti. Due studi hanno
valutato la sola dieta (167 pazienti) o il solo esercizio (178 pazienti). Il follow-up degli studi
era da 1 ad 8 anni. Complessivamente l’esercizio fisico e la dieta riducevano il rischio di
diabete rispetto alle semplici raccomandazioni (RR 0.63, 95% CI 0.49 to 0.79). Ciò aveva
effetti positivi in termini di riduzione del BMI e della circonferenza vita. Più modesti erano gli
effetti sui livelli lipidici. Si registrava inoltre una riduzione media della pressione sistolica e
diastolica (riduzione media di 4 mm/Hg e di 2 mm/Hg rispettivamente). Non si riscontravano
effetti sulla prevenzione del diabete quando la modifica di stile di vita era la sola dieta o il
solo esercizio fisico. Pertanto questa revisione sistematica dimostra che nei soggetti a rischio
la modifica degli stili di vita con aumento dell’attività fisica insieme alla dieta è in grado di
ridurre il rischio di diabete di tipo 2.
Sulla base delle evidenze scientifiche l’American Diabetes Association (Sigal et al. 2006)
raccomanda la modifica degli stili di vita con l’esercizio fisico fra gli approcci preventivi al
diabete di tipo 2. In particolare si raccomanda:
In pazienti con alterata tolleranza al glucosio si consigliano almeno 150
minuti/settimana di attività fisica moderata/forte ed una dieta bilanciata.
I pazienti con diabete di tipo 2 in assenza di altre controindicazioni dovrebbero
essere incoraggiati ad effettuare attività fisica 3 volte a settimana.
10
Recentemente l’American Hearth Association (AHA) ha invece introdotto delle linee guida
per la prevenzione del rischio cardiovascolare nel paziente diabetico di tipo 2 attraverso
l’attività fisica (Marwick et al. 2009):
almeno 150 minuti a settimana di esercizio fisico intensa-moderata e/o 90 minuti a
settimana di esercizi cardio-respiratori,
attività fisica in almeno 3 giorni non consecutivi per massimizzare i benefici,
le sessioni dovrebbero durare almeno 10 minuti,
L’esercizio fisico dovrebbe essere costantemente monitorato dal medico e
personalizzato.
Gli stili di vita e l’influenza sul rischio cardiovascolare
Le malattie cardiovascolari sono la più importante causa di morte nei paesi industrializzati
(Graham et al. 2007) e sono una importante causa di inabilità. La loro incidenza è
fortemente associata con l’aumento dei costi per la sanità pubblica. Aumentati livelli lipidici,
fumo, ipertensione, diabete, uso di alcool, scarsa attività fisica e aumento del BMI sono
universalmente considerati fattori di rischio per le malattie cardiovascolari (Yusuf et al.
2006).
Negli ultimi anni diversi studi hanno riportato un’associazione fra la parodontite e le malattie
cardiovascolari, anche dopo il bilanciamento per i comuni fattori di confondimento
statistico. (Mattila et al. 1993; DeStefano et al. 1993; Mattila et al. 1995; Beck et al. 1996). I
possibili meccanismi di interazione fra le due patologie potrebbero essere associate alla
carica batterica sottogengivale (Haraszthy et al. 2000; Chiu 1999; Cairo et al. 2004) e/o alla
produzione di mediatori infiammatori (Offenbacher et al. 1999). Alcuni studi sperimentali
supportano la plausibilità biologica di tale associazione, dimostrando la capacità dei
parodontopatogeni di indurre aggregazione piastrinica (Herzberg & Weyer 1998), la
formazione di cellule schiumose (Qi et al. 2003) e lo sviluppo dell’ateroma (Lalla et al. 2003).
Altri studi inoltre dimostrano l’efficacia della terapia parodontale nel ridurre i livelli di
proteina C-reattiva (Ebersole et al. 1997, D’Aiuto et al. 2004) e di favorire il miglioramento
della funzione endoteliale (Elter et al. 2006; Tonetti et al. 2007).
Le malattie cardiovascolari e gli eventi acuti ad essi correlati (ictus, infarto, ecc.) in genere
occorrono dopo anni di alterazione silente delle pareti vascolari. L’ecografia dei vasi
rappresenta con la misura degli spessori dell’intima-media rappresenta un mezzo efficace
per valutare le fasi precoci dell’aterosclerosi (Touboul et al. 2004). In particolare la
valutazione dello spessore della tonaca intima media carotidea (IMT carotideo) permette di
monitorare l’aterosclerosi sistemica che ancora non ha determinato sintomi clinici
(aterosclerosi sub-clinica) (Touboul et al. 2004; Touboul et al. 2007). I valori di IMT sono
influenzati dall’aumento di peso, età e fattori razziali (Touboul et al. 2004; Touboul et al.
2007). Valori di IMT aumentati rispetto al normale sono fortemente associati ad un
aumentato rischio cardiovascolare (Howard et al. 1993; Burke et al. 1995; O'Leary et al.
1999). Valori di IMT superiori a 0.75-0.82 mm sono considerati associati ad aumentato
rischio cardiovascolare nel paziente asintomatico rispetto a valori minori della soglia
(Aminbakhsh & Mancini 1999).
Alcuni studi hanno riportato un’associazione fra IMT carotideo e parodontite nella
popolazione superiore ai 50 anni (Beck et al. 2001; Leivadaros et al. 2005; Soder et al. 2005).
Recentemente uno studio italiano (Cairo et al. 2008) ha esplorato la possibile associazione
fra parodontite ed aterosclerosi sub-clinica in giovani adulti sani di età < 40 anni. Sono stati
11
arruolati 90 pazienti senza malattie sistemiche, 45 affetti da grave parodontite (età media
36.35 ± 3.65 anni) e 45 controlli con anamnesi negativa per parodontite (età media 33.78 ±
3.28 anni) accoppiati per età, sesso, fumo, BMI. L’IMT carotideo è stato valutato con esame
ecografico a livello dell’arteria carotide comune; i prelievi ematici hanno permesso una
valutazione dei parametri infiammatori sistemici. I risultati dello studio dimostrano che i casi
di parodontite avevano valori significativamente maggiori di IMT a tutti i livelli di analisi
comparativa rispetto ai controlli. Quando si considerava un valore di IMT 0.82 mm come
soglia di aumentato rischio cardiovascolare, i pazienti con parodontite avevano un OR=8.55
CI 95%: 2.38; 39.81 rispetto ai controlli di superare tale soglia. I dati di questo studio
dimostrano come la grave parodontite sia associata ad aterosclerosi sub-clinica in giovani
adulti e che essa potrebbe predire un aumento di rischio cardiovascolare in individui altresì
sani (Cairo et al. 2008).
Una recente ri-analisi dei dati di questo studio dimostra come alcuni parametri clinici
parodontali siano associati ad alcuni fattori sistemici predittori di rischio cardiovascolare. In
particolare, la media di profondità al sondaggio era associata a IMT medio (p=0.0005), BMI
(p=0.0002), pressione sistolica (p=0.0300) e diastolica (p=0.0199). Il Full Mouth Bleeding
Score era associato ai livelli di proteina C-reattiva (p=0.0218) (Cairo et al. 2009). Il rapporto
fra parodontite ed aterosclerosi è un chiaro esempio di come gli stili di vita (fumo, errori
alimentari ecc.) ma anche predisposizione genetica possano in realtà favorire entrambe le
malattie nello stesso paziente. Questo ovviamente implica però che nella moderna
prevenzione/terapia parodontale ci sia un corretto inquadramento dei fattori di rischio e stili
di vita del paziente al fine di favorire i risultati della terapia parodontale ma anche la
prevenzione di altre malattie sistemiche.
Un tipo esempio di fattore di rischio in grado di influenzare l’insorgenza delle malattie
cardiovascolari è rappresentato da un’alimentazione ricca di grassi e povera di
verdure/frutta. Infatti gli acidi grassi regolano l’equilibrio del colesterolo e la
concentrazione/precipitazione delle lipoproteine plasmatiche sulla superficie vascolare. Una
dieta ricca di grassi costituisce un fattore causale nella patogenesi delle malattie
cardiovascolari (Graham et al. 2007). Altre evidenze invece suggeriscono invece che una
dieta ricca di frutta/verdura sia associata ad una ridotta incidenza degli eventi
cardiovascolari (Graham et al. 2007).
In uno studio condotto negli Stati Uniti d’America (Appel et al 1997) furono arruolati 459
pazienti di età >22 anni. Per tre settimane i pazienti evitarono di mangiare vegetali/frutta e
furono sottoposti alla tipica dieta americana ricca di grassi. A questo punto in modo
randomizzato furono assegnati ad una dieta ricca di frutta e verdura oppure ad una dieta
combinata ricca di frutta e verdura e con pochi grassi. Alla fine del follow-up la dieta
combinata aveva determinato una riduzione media di pressione sisto/diastolica di 5.0 e 3.3
mm/Hg rispettivamente mentre la sola dieta vegetale aveva prodotto una riduzione media di
pressione sisto/diastolica di 2.8 e 1.1 mm/Hg rispetto ai controlli e tali differenze erano
statisticamente significative. Nei pazienti che all’inizio dello studio presentavano
ipertensione tali riduzioni determinate dalla dieta combinata erano ancora più marcate
(riduzione media di pressione sisto/diastolica di 11.4 e 5.5 mm/Hg) rispetto ai controlli. Le
conclusioni di questo studio supportano l’ipotesi che una dieta ricca di frutta/vegetali e
povera di grassi saturi è in grado di favorire il controllo dell’ipertensione.
Uno studio condotto in 11 paesi europei (Knoops et al. 2004) ha invece analizzato la
relazione fra la dieta mediterranea associata all’attività fisica in oltre duemila individui di età
compresa fra i 70 ed 90 anni. Il follow-up dello studio era di 10 anni. I risultati dimostravano
che la dieta mediterranea, il moderato uso di alcool, l’attività fisica ed il non fumare erano
12
associati ad una ridotta mortalità. In individui di età compresa fra 70 ed 90 anni l’adesione
ad una dieta mediterranea dimezzava la mortalità.
In uno studio israeliano (Shai et al. 2008) 322 pazienti moderatamente obesi furono
assegnati a 3 tipi di diete: a) pochi grassi e calorie controllate; b) mediterranea con calorie
controllate; c) pochi carboidrati senza limitazioni di calorie. A due anni l’aderenza allo studio
era del 84%. La perdita di peso media era 3.3 kg, 4.6 kg e 5.5 kg rispettivamente. I risultati di
questo studio dimostrano che la dieta mediterranea e la dieta con pochi carboidrati possono
essere una valida alternativa ad una dieta povera di grassi.
In uno studio randomizzato americano (Sacks et al. 2009) 811 adulti in sovrappeso furono
sottoposti a 4 differenti tipi di dieta con 4 diversi bilanciamenti di grassi, proteine e
carboidrati (a:20, 15 e 65% ; b: 20, 25 e 55%; c: 40, 15 e 45%; d: 40, 25 e 35%). L’obiettivo
principale era dello studio era valutare il calo di peso nei pazienti a due anni. Dopo 6 mesi
tutti avevano perso una media di 6 chili (circa il 7% del peso iniziale). A due anni l’80% dei
pazienti aveva aderito alla dieta con una perdita media di 4 kg. Le diete testate erano tutte
efficaci indipendentemente dalle loro caratteristiche macronutritive.
Allo stesso modo, diversi studi dimostrano che l’uso di bevande ricche di zuccheri (soft
drinks) (Dhingra et al. 2007; Sutherland et al. 2008) è associata ad un aumento di incidenza
di sindrome metabolica ed aumentato rischio cardiovascolare. In particolare il consumo di
almeno una bevanda al giorno si associa ad aumento di obesità, aumento della
circonferenza-vita, ipertensione ad alterato metabolismo del glucosio (Dhingra et al. 2007).
Similmente ad una dieta ricca di grassi e povera di frutta/verdura, una vita sedentaria
favorisce l’insorgenza delle malattie cardiovascolari. Infatti, l’attività fisica praticata in modo
regolare e costante è in grado di influenzare significativamente il profilo di rischio
cardiovascolare di ciascun individuo, senza differenze per età, sesso, razza e
indipendentemente dal livello di rischio cardiovascolare globale preesistente. Questo effetto
è dovuto ad una migliore performance generale del sistema cardiocircolatorio, ma anche ad
uno stimolo indiretto che modifica altri fattori di rischio quali peso corporeo, profilo
metabolico (riduzione dei livelli di lipidemia totali e specifici, miglioramento del compenso
glicemico), valori di pressione arteriosa.
Uno studio finlandese (Hu et al. 2007) ha analizzato una popolazione di individui con
anamnesi negativa per cardiopatia ischemica o malattia cerebro-vascolare valutando il
rischio di eventi coronarici in un periodo di 10 anni in un gruppo di soggetti giovani-adulti
(età compresa fra 25 e 64 anni), attribuendo un differente punteggio di rischio
cardiovascolare secondo il Framingham Risk Score (indice di rischio molto basso <6%; basso
6-9%; intermedio 10-19%; elevato >20%). Il livello di attività fisica è stato distinto in basso,
medio ed intenso ed è stata presa in considerazione separatamente l’attività fisica praticata
nel tempo libero e quella effettuata nell’ambito dell’occupazione di lavoro. L’esercizio fisico,
sia quello praticato come attività ludico-sportiva che all’interno dell’attività lavorativa, è
risultato in grado di ridurre significativamente l’incidenza di eventi coronarici, in percentuale
crescente con il livello di intensità dell’attività fisica praticata. Comunque da questo studio
risulta che anche carichi di lavoro bassi o intermedi sono in grado di esercitare un effetto
favorevole: ad esempio nelle donne il solo recarsi al lavoro camminando o pedalando su una
bicicletta è risultato sufficiente per migliorare il profilo di rischio cardiovascolare. Alla luce di
tali dati è fondamentale raccomandare di praticare un’attività fisica anche di intensità non
particolarmente elevata per prevenire lo sviluppo di malattie cardiovascolari.
In un altro studio prospettico finlandese Hu et al. (2004) è stato analizzata la possibile
relazione fra attività fisica ed il rischio ipertensione in soggetti normo-peso o in soprappeso.
13
Sono stati monitorati un totale di 8302 maschi e 9139 femmine di età compresa fra i 25 e i
64 anni con anamnesi negativa per uso di farmaci anti-ipertensivi, patologie cardiovascolari
o ictus. Durante gli 11 anni di follow-up circa 1600 pazienti furono trattati con farmaci antiipertensivi. L’analisi statistica multivariata dimostrava che l’attività fisica regolare ed il
controllo del peso riducevano il rischio di ipertensione e che l’effetto protettivo dell’attività
fisica era presente indipendentemente dal sesso.
Uno studio randomizzato tedesco (Hambrecht et al. 2004) ha confrontato l’angioplastica
versus il regolare esercizio fisico in pazienti di età minore di 70 anni selezionati dopo
regolare angiografia di controllo. L’attività fisica regolare consisteva in 20 minuti di
cyclette/giorno. I due approcci terapeutici furono testati ad 1 anno in termini di sintomi
clinici, perfusione del miocardio e rapporti costo-benefici. Furono arruolati un totale di 101
pazienti. Al follow-up finale i pazienti arruolati nel programma di esercitazione fisica
dimostravano minore incidenza di sintomatologie cliniche durante il follow-up e minore
incidenza di costi sanitari.
Una recente revisione sistematica della letteratura (Kodama et al. 2009) ha analizzato il
ruolo dell’attività fisica (definita come fitness cardio-respiratorio) in relazione agli eventi
cardiovascolari o alla mortalità. L’attività fisica fu tipizzata in base alla massima attività
aerobica in METs (unità metaboliche equivalenti) come bassa (<7.9 METs), intermedia (7.910.8 METs) ed alta (>10.8 METs). Gli autori selezionarono un totale di 33 studi
epidemiologici. I risultati della meta-analisi dimostravano che esisteva un’associazione fra il
fitness ed il rischio relativo (RR) di morte ed eventi cardiovascolari: in particolare una bassa
attività fisica era associata ad RR=1.7 di morte ed RR=1.56 per eventi cardiovascolari vari
rispetto ad alta attività fisica.
Numerosi sono pertanto i dati presenti in letteratura che supportano il concetto che
l’attività fisica sia in grado di favorire la riduzione del rischio cardiovascolare tanto che oggi si
ritiene che la raccomandazione di praticare un regolare e costante esercizio rappresenti una
delle regole principali di miglioramento dello stile vita nella prevenzione sia primaria che
secondaria delle malattie cardiovascolari.
Discussione
Nella moderna medicina il controllo dei fattori di rischio rappresenta una tappa
fondamentale della prevenzione e cura delle malattie. In particolare la modifica/controllo di
alcuni stili di vita come l’uso di sostanze alcoliche, il fumo, la vita sedentaria, il
soprappeso/obesità, il ridotto consumo di frutta e verdura sembra essere in grado di
influenzare la vita media dell’individuo.
Un vasto lavoro prospettico con 16 anni di follow-up (Yates et al. 2008 ) su 2357 maschi
americani sani (età media 72 anni) ha analizzato l’impatto dei diversi stili di vita sulla
mortalità. In particolare, gli obiettivi di questo studio erano capire quali fattori fossero
associati ad una sopravvivenza di almeno 90 anni e quale la loro influenza sulle malattie in
individui di età >90 anni. Al follow-up finale il 41% degli individui aveva superato la soglia dei
90 anni. Il fumo di sigaretta, il diabete, l’obesità e l’ipertensione erano associati ad un più
alto rischio di mortalità prima dei 90 anni. In particolare la probabilità di raggiungere i 90
anni per un individuo di 70 raddoppiava in assenza di fumo, ipertensione, diabete o vita
sedentaria. Comparando le caratteristiche di questi individui con quelle dei deceduti, i
soggetti che superavano la soglia dei 90 anni avevano mantenuto globalmente uno stile di
vita più salutare e presentavano una ridotta incidenza di malattie croniche. Se presenti,
14
l’esordio della malattie croniche era successivo di circa 3-5 anni in questi individui.
L’esercizio fisico regolare migliorava mentre il fumo e l’obesità peggioravano
significativamente le aspettative di vita. Il fumo era inoltre associato con la riduzione della
memoria.
L’importanza della modifica degli stili di vita pare essere fondamentale fin dall’infanzia. Un
vasto studio prospettico (Baker et al. 2007) su oltre 276 mila individui danesi ha analizzato il
possibile rapporto fra BMI nell’ infanzia (bambini di età compresa fra i 7 e i 13 anni visitati
nelle scuole pubbliche ogni anno) ed incidenza di patologie cardiovascolari negli adulti
(età >25 anni). I risultati dello studio dimostrano che esiste un’associazione soprattutto nei
maschi fra BMI ed aumento dell’incidenza di patologie cardiovascolari negli adulti.
Al tempo stesso diversi studi longitudinali che hanno analizzato la possibile associazione fra
parodontite ed incidenza delle malattie cardiovascolari supportano l’impatto degli stili di
vita nel predire la mortalità e gli eventi acuti cardiovacolari. In particolare in uno studio
prospettico Destefano et al. (1993) hanno analizzato la sopravvivenza e l’incidenza di
malattie cardiovascolari in 9760 individui per una media di 14 anni. Al follow-up finale gli
individui con parodontite avevano un aumento di rischio del 25% di avere patologie
cardiovascolari rispetto agli individui senza parodontite. La scarsa igiene orale, quantificata
con i livelli di placca e tartaro, era associata ad un’aumentata incidenza di malattie
cardiovascolari. Individui di età minore di 50 anni con parodontite all’inizio dello studio
avevano un RR di 1.72 di sviluppare patologie cardiovascolari. Parodontite e scarsa igiene
orale erano predittori della mortalità e delle patologie cardiovascolari. Questo studio
dimostra come la salute parodontale possa essere considerata un indicatore della salute
sistemica e più in generale del livello di prevenzione delle malattie cardiovascolari.
Conclusioni
Esiste convincente evidenza scientifica che la parodontite sia influenzata da stili di
vita poco salutari come fumo e scarsa igiene orale.
Esiste convincente evidenza scientifica che alcuni stili di vita come dieta ricca di grassi
e povera di verdure, fumo e scarso esercizio fisico favoriscano la patogenesi di
diabete e malattie cardiovascolari riducendo le aspettative di vita nei paesi
industrializzati.
Esistono dati convincenti circa la possibilità di prevenire la parodontite modificando
gli stili di vita.
Esistono dati convincenti che si possano prevenire il diabete e le patologie
cardiovascolari modificando gli stili di vita.
Esiste una convincente evidenza scientifica sulla associazione tra parodontite e
diverse malattie sistemiche: in particolar modo, essa predice l’aterosclerosi subclinica e gli eventi acuti cardiovascolari. La terapia parodontale inoltre riduce la
risposta infiammatoria sistemica e migliora la funzione endoteliale, considerati
marcatori di rischio cardiovascolare.
La parodontite, il diabete e le malattie cardiovascolari sono malattie croniche e
multifattoriali che condividono diversi stili di vita/fattori di rischio simili.
Il parodontologo può essere una figura chiave nel modificare stili di vita poco salutari
favorendo così la prevenzione della parodontite, del diabete e delle malattie
cardiovascolari.
15
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20
Stress e stili di vita
Mauro Farneti
La risposta psicologica allo stress
La complessità della società di oggi ha determinato profondi cambiamenti negli stili di vita
degli individui comportando, tra l’altro, un notevole aumento dell’incidenza di grandi
patologie croniche La società moderna impone richieste sempre maggiori, che si rivelano
spesso superiori alle capacità di adattamento dell’ individuo, generando la maggior
diffusione della condizione di esposizione ad uno stato di stress cronico.
“Stress” è una parola molto usata, spesso abusata, che nel linguaggio comune indica uno
stato di malessere in conseguenza di eventi esterni (o interni) alla persona. Meno semplice è
indubbiamente una sua definizione scientifica. Storicamente definito come uno stato di
mancato adattamento (mediato dai sistemi di controllo dell’organismo) a condizioni esterne,
ha oggi assunto un significato multidimensionale, dove entrano in gioco non solo la biologia
(alterazioni neurovegetative, ormonali, immunologiche, background genetico, ecc)
dell’individuo ma anche suoi aspetti psicologici (percezione dell’evento stressante,
significato di questo, motivazione, precedenti esperienze, personalità, ecc) e socioambientali (lavoro, problemi economici, relazione con altri soggetti, modificazione dei
comportamenti, ecc). La risposta finale all’evento stressante diventa quindi mediata da tutto
ciò e quasi mai è lineare e prevedibile.
L’insieme delle esperienze stressanti vissute dall’individuo è dato da elementi stressori di
tipo fisico (patogeni, tossine) e di tipo psicologico (lutti, traumi, abusi, fattori legati
all’ambiente famigliare o lavorativo). Cruciale per la vita dell’individuo è, quindi, la capacità
di risposta e di reazione a tali fattori. Tale capacità è altresì definibile come allostasi (Sterling
P, Eyer J 1988) ossia la capacità di adattamento al cambiamento da parte dell’organismo ;
proprio questa peculiarità individuale, congiuntamente al sistema nervoso autonomo,
all’asse ipotalamo-ipofisario (HPA) e al sistema immunitario, è in grado di proteggere
l’organismo da fattori stressori interni ed esterni.
L’insieme dei meccanismi che consentono tale adattamento fisiologico allo stress viene
definito come carico allostatico (Mc Ewen BS 1993).
La iperstimolazione o la iposollecitazione cronica dei sistemi allostatici comporta però, nel
lungo termine, la comparsa di un effetto paradosso, attraverso il quale i sistemi fisiologici
attivati dallo stress possono avere non solo funzioni di protezione e di ristoro nei confronti
dell’organismo, ma anche determinare effetti distruttivi.
La forme acute di stress hanno l’effetto di richiamare cellule immunitarie, e questa forma di
allostasi intensifica le risposte, con il conseguente stabilirsi di una “memoria” immunologica.
Se la memoria immunologica è riferita ad un patogeno o ad una cellula tumorale, il risultato
dello stress è presumibilmente positivo. Se, al contrario, la memoria immunologica conduce
ad una risposta allergica od autoimmunitaria lo stress probabilmente esacerba lo stato
patologico. Quando il carico allostatico viene incrementato da stress ripetuti (stress cronico)
il risultato è completamente differente; la ipersensibilità ritardata è sostanzialmente inibita
piuttosto che intensificata. Le conseguenze della soppressione della immunità cellulare in
seguito a stress cronico, includono un aumento della severità di comuni malattie (Dhabhar
et al. 1996).
La iperstimolazione o la iposollecitazione cronica dei sistemi allostatici comporta però, nel
lungo termine, la comparsa di un effetto paradosso, attraverso il quale i sistemi fisiologici
21
attivati dallo stress possono avere non solo funzioni di protezione e di ristoro nei confronti
dell’organismo , ma anche determinare effetti distruttivi.
Seguono quattro forme comuni di carico allostatico:




Episodi frequenti di stress.
Scarso adattamento a forme di stress dello stesso tipo, ripetute nel tempo (Persone
a cui venga richiesto frequentemente di parlare in pubblico).
Incapacità di neutralizzare l’effetto del carico allostatico al termine dell’episodio
stressogeno, come in soggetti sottoposti ad intensa attività atletica.
Inadeguata risposta dei sistemi allostatici con conseguente iperstimolazione degli
altri sistemi compensatori (come disturbi auto immunitari).
Lo stress psicologico ed il rischio di patologia cardiovascolare
L’esempio più tipico dell’attività del sistema allostatico e dei potenziali affetti del carico
allostatico, è riscontrabile nell’attività del sistema cardio circolatorio, e nei suoi rapporti con
obesità e ipertensione.
Concettualmente, le varie circostanze di vita possono assumere la qualifica di stressori
psicologici, se vengono percepite dalla persona, come un insieme di minacce e di sfide
soverchianti rispetto alle capacità di adattamento e di reazione da parte dell’individuo stesso
(Lazarus 1984).
In base alla valutazione quantitativa e qualitativa degli elementi stressori, viene attivata una
serie di reazioni neurobiologiche e neuroendocrine, a loro volta confluenti in un ampio
spettro di cambiamenti adattativi di ordine psicologico, comportamentale ed emozionale.
Qualora la capacità di adattamento fornita dai sistemi allostatici divenga insufficiente, come
nel caso di soggetti esposti a stress cronico, il carico allostatico, che ne deriva, favorisce
l’indebolimento della risposta immunitaria, l’alterazione dell’attività coagulante e
l’assunzione di attività comportamentali dagli effetti negativi sulla la qualità di vita
dell’individuo (Ranijt et al. Impact2007; von Känel 2001; Faragher 2005; Krueger 2008)
Di conseguenza la cardiologia comportamentale, ed il mondo medico in generale,
considerano oggi con sempre maggiore attenzione, i fattori psicosociali e lo stress, come
fattori di rischio emergenti per la comparsa e l’aggravamento delle patologie cardiovascolari
(Pagani 1986; Rozanski 2005; Robinson 2004; May 2002; Yasuda 2002; Stansfeld 2002; Lucini
2005, 2002).
Tuttavia i processi che fungono da intermediari fra l’incapacità di reazione ai fattori
psicosociali (distress psicologico) e l’aumento della probabilità di insorgenza di patologie
cardiovascolari, non appaiono del tutto definiti.
Chiarificatore in questo senso, risulta lo studio condotto da Hamer et al. (2008). In questo
studio prospettico, è stato analizzato l’impatto dei fattori comportamentali (fumo, alcool e
attività fisica) e dei fattori patofisiologici (proteina C-reattiva, fibrinogeno, colesterolo,
obesità, ipertensione) sul rapporto di causalità distress/disfunzioni cardiovascolari.
I dati ottenuti indicavano come i fattori comportamentali influenzassero la comparsa di un
evento clinico cardiovascolare in pazienti con distress, nel 65% dei casi (40.7% per il fumo e
22.3% per la scarsa attività fisica), mentre i fattori patofisiologici (ipertensione 13% e CRP
5.5%) ne rendevano ragione solamente per il 19%. In altre parole, solo nel 16% dei casi, non
era possibile riscontrare una relazione fra lo stato di distress del soggetto, e la relativa
assunzione di stili di vita non corretti, la comparsa di alterazioni nei meccanismi fisiologici, e
le manifestazioni cliniche delle malattie dell’apparato cardiocircolatorio.
22
Un soggetto fortemente stressato sarà indotto a fumare maggiormente rispetto ad un
individuo in grado di confrontarsi in maniera più efficace con lo stress. La maggiore
esposizione al fumo comporterà un’accelerazione dei processi aterosclerotci, con
conseguente innalzamento del rischio di comparsa o aggravamento delle patologie
cardiovascolari.
Si prevede che le malattie cardiovascolari possano diventare la causa di morte principale su
scala mondiale entro il 2020, attribuendo il ruolo di principale fattore di rischio allo stress
psicologico (Rosengren 2004).
Questo studio supporta l’affermazione largamente condivisa, secondo cui il distress
psicologico possa condizionare il rischio di insorgenza di varie malattie, attraverso
l’assunzione di stili di vita scorretti per la salute.
Tuttavia, l’evidenza della riduzione della mortalità legata alla malattia cardiovascolare,
ottenuta mediante il preventivo trattamento dello stress, rimane a tutt’oggi limitata (Rees K
2004).
Nonostante ciò, i risultati dello studio condotto dal gruppo di Hamer incoraggiano i clinici ad
intraprendere e sviluppare un approccio terapeutico multimodale nei confronti della
patologia cardiovascolare.
A supporto di tale tendenza appaiono rilevanti le conclusioni tratte dallo studio di Yusuf et al
(2004), condotto in 52 paesi, distribuiti su tutti i continenti, analizzando un campione di
15.152 casi ed un gruppo controllo composto da 14.820 soggetti.
Valori lipidici anomali, fumo, ipertensione, diabete, obesità addominale, fattori psicosociali,
ridotto consumo di frutta e vegetali, alcool e insufficiente attività fisica sono associati a più
del 90% di rischio di insorgenza di infarto miocardico acuto.
La consistenza di tale risultato è riscontrabile in tutte le regioni geografiche e in tutti i gruppi
etnici, sia in uomini che in donne e indipendentemente dall’età.
Il controllo di tali fattori di rischio costituisce quindi un valido approccio preventivo,
applicabile su scala mondiale, nei confronti dell’infarto miocardico e può, più in generale,
unitamente ad ausili psicoterapeutici e psicofarmacologici, condurre alla possibilità di
attenuare l’effetto del distress psicologico sull’insorgenza di patologie cardiocircolatorie (von
Känel 2005).
Lo stress da lavoro
Lavoro e salute sono un binomio da sempre molto importante. In questi ultimi anni stiamo
assistendo ad un cambiamento delle condizioni lavorative e, di conseguenza, all’affacciarsi
di nuovi fattori in grado di interferire sulla salute. Si sono infatti ridotti i rischi lavorativi
tradizionali (grazie soprattutto alla grande attenzione preventiva, alle conseguenze
normative legislative ed alle innovazioni tecnologiche), mentre stanno sempre più crescendo
problematiche comportamentali, di relazione, di mancanza di controllo, ecc. Il cambio di
modalità lavorativa che sta avvenendo specie nel mondo occidentale (informatizzazione,
cambiamento dei ruoli, necessità di ottenere risultati nel breve termine, incertezza sul
futuro, minor sicurezza del posto di lavoro, necessità di flessibilità, continua formazione, ecc)
da un lato permette di raggiungere risultati d’avanguardia, dall’altro spesso rappresenta una
fonte di stress cronico importante, almeno per alcune persone.
Un’indagine eseguita dalla Comunità Europea ha mostrato come lo stress sia al secondo
posto (dopo le algie muscolescheletriche) tra i fattori lavorativi in grado di avere un’influenza
sullo stato di salute (European Agency for Safety and Health at work. 2006) con
conseguente peggioramento della qualità lavoro ed aumento di assenteismo e costo del
lavoro stesso. Da qui la recente attenzione della Comunità Europea (Accordo Europeo sullo
23
Stress da Lavoro 08 ottobre 2004) nell’indicare normative legislative in grado di porre
indicazioni su come poter occuparsi di stress lavorativo, normative fatte proprie anche dalla
Legislazione Italiana (Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n 81 “Testo Unico”, art 28).
L’Accordo Europeo sullo Stress da Lavoro definisce lo stress come “uno stato, che si
accompagna a malessere e disfunzioni fisiche, psicologiche o sociali ed che consegue dal
fatto che le persone non si sentono in grado di superare i gap rispetto alle richieste o alle
attese nei loro confronti. L’individuo è capace di reagire alle pressioni a cui è sottoposto nel
breve termine, e queste possono essere considerate positive, ma di fronte ad una
esposizione prolungata a forti pressioni egli avverte grosse difficoltà di reazione. Inoltre,
persone diverse possono reagire in modo diverso a situazioni simili e una stessa persona
può, in momenti diversi della propria vita, reagire in maniera diversa a situazioni simili. Lo
stress non è una malattia, ma una esposizione prolungata allo stress può ridurre l’efficienza
sul lavoro e causare problemi di salute. Lo stress indotto da fattori esterni all’ambiente di
lavoro può condurre a cambiamenti nel comportamento e ridurre l’efficienza sul lavoro.
Tutte le manifestazioni di stress sul lavoro non vanno considerate causate dal lavoro stesso.
Lo stress da lavoro può essere causato da vari fattori quali il contenuto e l’organizzazione del
lavoro, l’ambiente di lavoro, una comunicazione povera, ecc ”.
Lo stress cronico derivante dall’ incapacità di gestire gli obblighi legati alla attività lavorativa,
l’elevata pressione psicologica derivante dalla necessità di raggiungere obiettivi sempre più
impegnativi , sono legati ad alti livelli di pressione sanguigna, ad un aumento dell’attività
fibrinogena così come all’aumento della progressione dell’aterosclerosi, con conseguente
aumento del rischio di infarto miocardico.
L’associazione fra stress da lavoro e patologia coronarica si verifica prevalentemente a carico
degli impiegati con meno di 50 anni (Theorell T 1998), e determinando, nei soggetti
sottoposti ad un influsso permanente di stress legato al lavoro, una possibilità doppia di
insorgenza di infarto miocardico, come confermato dai risultati dello studio caso-controllo
di Rosengren (2004). Questo tipo di legame risulta, per il 32% dei casi, basato sull’effetto che
lo stress da lavoro ha sugli stili di vita (Tarani 2008), mediante un meccanismo dosedipendente.
In particolare, lo stress da lavoro è legato al fumo, alla scarsa quota di esercizio fisico
(Hellerstedt 1997), ad una dieta particolarmente ricca di grassi (Oliver 2000) con
conseguente aumento di peso e alla comparsa dello stato di obesità (Brunner 2007).
Nello studio di Tarani si ipotizza inoltre, che lo stress da lavoro possa assumere, attraverso
un effetto diretto sul sistema neuroendocrino, il ruolo di possibile fattore di rischio per la
sindrome metabolica. Si è notato infatti che, pur mantenendo sotto controllo i valori legati
allo stile di vita, l’associazione fra stress da lavoro e sindrome metabolica presentava solo
una minima riduzione.
Lo stress psicologico e la sindrome metabolica
Il termine di sindrome metabolica (indicata anche come “sindrome X” o “sindrome da
insulino-resistenza”), è recentemente emerso per indicare un importante gruppo di fattori di
rischio per la malattia aterosclerotica (Hansen 1999; Siani 2001).
Le caratteristiche comuni, sebbene i criteri diagnostici possono variare all’interno degli studi,
sono l’obesità, l’insulino-resistenza/iperinsuilinemia, ipertensione e dislipidemia (bassi valori
di HDL e piccole particelle aterogeniche lipoproteiche a bassa densità) (Resnik 2002; Reaven
1996).
24
Lo stress cronico, inteso come affaticamento, irritabilità, demoralizzazione e senso di ostilità,
viene legato allo sviluppo della insulino-resistenza, fattore di rischio riconosciuto per
l’insorgenza di diabete nelle forme non insulino dipendente (Raikkonen 1996).
Analogamente nei bambini, una condizione famigliare non stabile, può determinare un
aumento dell’incidenza e della gravità delle forme di diabete insulino dipendente (tipo 1)
(Hagglof 1991).
L’accumulo di grasso addominale, fattore di rischio per patologie cardiovascolari e per il
diabete, viene incrementato da situazioni di particolare esposizione a stati di stress
psicosociali, in colonie di primati (Jayo 1993).
Analogo effetto è riportato nell’uomo (Moyer 1994).
Esistono inoltre, indicazioni nel considerare la compartecipazione eziologica da parte di
fattori neuro-endocrini (Brook 2000; Björntorp 2000), ipotesi ulteriormente rafforzata da
Brunner e coll. (2002) riconoscendo un nesso di causalità tra fattori psicosociali,
iperstimolazione dell’asse ipotalamo ipofisario ed insorgenza della sindrome metabolica e
individuando lo stress cronico come fattore di rischio.
Sebbene il tipo di correlazione ora descritta non sia ancora del tutto supportato da vera e
propria evidenza, la possibilità di agire non farmacologicamente, e secondo un approccio
preventivo, riscuote un notevole interesse, data la sempre maggiore diffusione della
sindrome metabolica. Un intervento diretto sulle abitudini alimentari e sugli stili di vita in
generale, comporterebbero, tra l’altro, la diminuzione della terapia farmacologica
comunque necessaria per controllare ciascuna delle componenti della sindrome metabolica
(Hjemdahl. 2002).
Meccanismi psiconeuroimmunologici
Il principale meccanismo attraverso cui agiscono gli stressori è l’attivazione dell’asse HPA e
del sistema nervoso simpatico.
Già nel 1936, Hans Selye definì lo stress come “lo stato in cui il sistema simpatico mimetico e
l’asse ipotalamo ipofisario vengono attivati simultaneamente”.
La comunicazione tra sistema nervoso centrale e sistema immunitario avviene attraverso la
secrezione di mediatori chimici da parte delle cellule nervose, delle ghiandole endocrine e
delle cellule del sistema immunitario formando un network che può essere interrotto
dall’intervento di stressori psicologici.
In particolare neurotrasmettitori (norepinefrina, serotonina, dopamina, acetilcolina),
neuropeptidi (encefaline, sostanza P, fattore rilasciante corticotropina), neurormoni
(ormone della crescita, ormone adrenocorticotropo, prolattina), ormoni surrenalici
(corticosteroidi, epinefrina), influenzano la funzione immunitaria sia in vitro che in vivo,
essendo presenti recettori per tutte queste molecole su linfociti e macrofagi.
Quindi il sistema immunitario e neuroendocrino presentano comuni recettori e mediatori,
suggerendo che il cervello abbia una funzione immunoregolatrice e che, d’altra parte, il
sistema immunitario abbia una funzione sensoriale. Le citochine interleukina 1, tumor
necrosis factor (TNF) e interferone γ, secreti dalle cellule del sistema immunitario attivato,
possono variare, a turno, la funzione dell’asse HPA (Ader et al. 1995, Chrousos, 1995).
Come lo stress e altri fattori psicosociali influenzano la patogenesi di malattie
Le conoscenze sulle interazioni fra HPA e le reazioni infiammatorie mediate dal sistema
immunitario sono giunte a dimostrare come che lo stress psicologico ed altre condizioni
psicosociali, come ansia e depressione, conducano ad alterazioni immunologiche e/o ad
25
effetti mediati dal comportamento che possono avere una ripercussione diretta sulla
regolazione della risposta immunitaria dell’organismo (Biondi et al. 1997, Irwin et al. 1990).
In situazioni di iperattivazione del sistema allostatico, vengono rilasciate alte concentrazioni
di ormone adrenocorticotropo, da parte dell’ipotalamo, e di glucorticoidi, da parte della
corteccia surrenalica. In particolare quest’ultimi, hanno un’importante ruolo
immunosoppressivo attraverso la riduzione del numero dei linfociti circolanti, dei monociti e
degli eosinofili e mediante l’inibizione della migrazione di macrofagi e neutrofili. I
corticosteroidi comportano inoltre, una alterazione del complesso sistema di produzione
delle citochine, variano l’attività regolatrice dell’interleuchina 12 ed il bilancio fra
interleuchina 10 e il TNF, e su altri mediatori dell’infiammazione come l’attività NK , la
fagocitosi e l’attività citotossica delle cellule T.( Edna Maria Vissoci Reiche et al. 2004).
Stress, depressione e malattia parodontale
Come molte malattie croniche lo sviluppo della malattia parodontale è legato anche a
condizioni che alterano la resistenza dell’ospite nei confronti dei batteri parodontopatogeni.
D’altra parte, la variazione nel grado di severità della malattia parodontale sembra non
essere completamente spiegata dalle sole condizioni genetiche, sistemiche, dal fumo,
dall’igiene orale o dall’età. I ricercatori pertanto hanno ipotizzato che fattori psicologici
come lo stress, l’ansia e la depressione, possano avere un ruolo nel chiarire tale variabilità, in
particolare determinando un’alterazione della reazione infiammatoria indotta dall’accumulo
di placca, a sua volta controllata dal rapporto fra sistema immunitario e attività
neuroendocrina (Breivik, Tet al.2000).
Data la relazione fra esperienze psicologiche negative ed attività immunitaria, non è
sorprendente riscontrare diversi studi clinici osservazionali ed epidemiologici in cui vengano
descritti legami esistenti fra stati psicologici negativi, in particolare depressione, e
insorgenza e progressione della patologia parodontale (Monteiro da Silva et al.1996, Moss
et al 1996, Genco et al.1998).
Le ricerche basate su studi cross-sectional propongono che lo stress sia positivamente
correlato così come gli stati depressivi, con la severità della malattia parodontale (Marcenes
1992, Linden et al 1996).
Potenziale meccanismo psiconeuroimmunologico
L’attivazione cronica dell’asse adreno-ipotilamo-ipofisario può influenzare l’inizio e la
progressione della parodontite attraverso la disregolazione del cortisolo circolante (CORT) e
di altri glucorticoidi che hanno effetto sulla risposta immunitaria e sull’attività linfocitaria.
In conseguenza ad una stimolazione cronica, queste sostanze provocano una riduzione
dell’immunocompetenza attraverso l’inibizione delle immunoglobuline A, aventi azione
contrastante l’iniziale colonizzazione da parte di microorganismi associati a malattia
parodontale, e le immunoglobuline G, caratterizzate dalla capacità di rendere i
microrganismi patogeni più vulnerabili alla fagocitosi neutrofila. (Genco 1998, Kaufman
2000).
Rosania et al (2009) suggeriscono che i livelli di stress, lo stato depressivo ed i livelli di CORT
sono correlati, secondo una certa consistenza, alla malattia parodontale,
indipendentemente dal grado di igiene orale del soggetto. Gli autori, dunque concludono
legando la parodontite a modificazioni immunologiche e comportamentali derivati da
particolari stati psicologici.
26
Gli autori non riescono però a chiarire completamente il ruolo del cortisolo circolante, e di
conseguenza una sua eventuale funzione di fattore di rischio nei confronti della malattia
parodontale. Questa sostanza sembra avere diverse associazioni, in accordo ad altri studi
recenti (Miller et al. 2007), con i parametri della malattia parodontale a seconda che venga
valutato in modelli statistici comprendenti lo stress oppure la depressione.
Si ritiene cioè che le forme più gravi di parodontite siano positivamente associate a forme di
depressione e a bassi valori di CORT, mentre alti valori di quest’ultimo, se legati a stress,
siano associati a forme moderate di malattia parodontale.
La capacità di adattamento/il comportamento individuale
La regolazione neuroendocrina della risposta infiammatoria è influenzata anche dalla
capacità di controllo nei confronti di esperienze stressanti: ricordiamo i concetti di allostasi e
di carico allostatico espressi all’inizio di questa revisione (Huether 1996). Di conseguenza è
presumibile che una scarsa capacità di reazione di fronte ad esperienze negative, da parte
dell’individuo, possa giocare un ruolo importante nel determinare una suscettibilità nei
confronti di patologie di tipo infettivo, come appunto la malattia parodontale (Kavelaars et
al. 1999).
Hugoson e collaboratori (2002) hanno riscontrato, su un campione di 298 soggetti, che gli
individui che sviluppavano strategie meno efficaci nel contrastare le proprie esperienze
negative, presentavano un grado più severo di malattia parodontale. In altre parole, ad una
iperattivazione dell’asse HPA, corrispondeva un’inappropriata capacità di risposta del
sistema neuroendocrino sul controllo dei mediatori chimici dell’infiammazione nel tessuto
connettivo gengivale, evocata in seguito all’accumulo di placca batterica.
I ricercatori, infine, si sono interrogati sul rapporto fra i fattori psicosociali come stress,
ansia e depressione, e trattamento della malattia parodontale.
Ben nota è la problematicità del rapporto paziente ansioso e terapie odontoiatriche, che si
riflette in generale sulla difficoltà di gestione del trattamento stesso e in particolare, sulla
stretta relazione fra ansia e percezione del dolore (Pud 2005).
Vi è una crescente evidenza che lo stress possa, tra l’altro, modificare i tempi di guarigione
delle ferite; Rozlog et al. (1999) riportano come i tempi di guarigione, dopo terapia
parodontale chirurgica, fossero più lenti nel gruppo di pazienti con esperienza di stress
rispetto ad un gruppo controllo.
Nell’ambito dei fattori psicosociali, la depressione appare avere il ruolo con più evidenza, in
termini di influenza sulla terapia parodontale (Elter et al. 2002) e, come già sottolineato in
precedenza, di positiva correlazione con forme più avanzate della malattia parodontale
stessa.
Una recente revisione sistematica (Peruzzo 2007), analizzando un gruppo di studi in cui si
valutava il rapporto fra malattia parodontale e condizioni psicologiche come lo stress e la
depressione, riporta che 57,1% degli studi sono riusciti ad individuare una correlazione
positiva fra di essi, mentre il 14,2% ha riportato un valore contrario.
Analizzando in maniera attenta i dati disponibili in letteratura, emerge però , da parte degli
autori della meta analisi, la necessità di dover considerare un’ampia variabilità nei criteri
usati per descrivere la condizione di malattia parodontale.
Croucher et al. (1997) considerano la presenza di almeno un sito con valori di PD ≥ 5.5mm;
Wimmer et al. (2002) considerano una forma moderata o lieve di parodontite (CAL=1/2 e
CAL=3/4 rispettivamente) ed una forma grave (CAL ≥ 5.5mm); Solis et al (2004) valutano
soggetti con la presenza di 2 o più siti, di elementi dentari differenti, con valori di CAL ≥ 6mm
con almeno un ulteriore sito con PD ≥ 5.5mm, non comprendendo i terzi molari.
27
Castro et al. (2006) conduce la propria ricerca secondo un criterio personale di valutazione
dello stato di salute e di patologia parodontale, formando gruppi di soggetti diversi per PD,
CAL, e BOP. Veniva richiesta la presenza di un valore ≥ a 20 denti e, per diagnosticare la
condizione di malattia parodontale, un CAL ≥ 4mm, positività al BOP in almeno 10 denti e un
valore di PD≥6mm in almeno 5 elementi dentari.
L’eterogeneità rilevata non consente quindi un’adeguata comparazione dei risultati,
limitando l’efficacia della meta-analisi stessa.
Conclusioni
La letteratura esaminata conduce chiaramente verso l’opportunità di considerare una
correlazione fra fattori psico-sociali e malattia parodontale. La omogeneità dei gruppi
esaminati, impone però dei limiti nell’estendere i risultati ottenuti, sui campioni analizzati,
all’intera popolazione; l’esposizione agli elementi stressori può avvenire secondo forme
acute oppure croniche, in fasce di età e tempi diversi.
Dobbiamo altresì considerare alcuni bias presenti, negli studi oggi disponibili, sui rapporti
esistenti fra stress o, più in generale, tra elementi psicosociali e malattia parodontale.
Non vi è completa uniformità sui criteri adottati per l’analisi della malattia parodontale, così
come risulta evidente una certa difficoltà nell’isolare tutte le variabili presenti nei campioni
esaminati.
Non è disponibile inoltre nessun marcatore biologico, o altro strumento oggettivamente
stimabile, che possa valutare con sicurezza la maggior parte dei disturbi psichiatrici
(Menezes 2000).
Possiamo meglio comprendere il valore dello stress, considerandolo parte di un complesso
sistema dinamico di transizione fra l’individuo e l’ambiente in cui vive (Sheiham 2005). Lo
stress è parte della vita dell’uomo, a tutti i livelli, e può essere compatibile con lo stato di
salute. Le problematiche ad esso correlabili, nascono quando sia presente a livelli superiori
rispetto alle capacità di reazione nell’individuo. I meccanismi chiamati in causa per spiegare
l’associazione tra stress e presenza di sintomi fisici e/o patologie, sono molteplici e
complessi. In particolare possiamo distinguere un meccanismo diretto ed uno indiretto
(Rozanski 2005). Il primo vede lo stress come fattore in grado di modificare di per sé alcuni
meccanismi di controllo dell’organismo (immunologico, ormonale, neurovegetativo)
direttamente coinvolti nel determinare la patologia; il secondo invece fa sì che lo stress sia
in grado di indurre l’assunzione di stili di vita scorretti che fungono da elementi di
transizione per l’insorgenza di grandi patologie croniche.
Possiamo infine considerare lo stress e i fattori psicosociali solo come indicatori di rischio per
la patologia parodontale. Essi comportano, comunque, dei cambiamenti a livello delle
abitudini orali, come lo scarso controllo di placca, e nelle reazioni comportamentali
dell’ospite, come la maggior esposizione al fumo, in grado di influenzare direttamente le
condizioni che determinano l’insorgenza della malattia parodontale.
Rappresentano inoltre un sempre più importante capitolo per la ricerca futura, al fine di
sviluppare, da parte dell’odontoiatra, capacità di intervento maggiormente mirate a
migliorare la qualità di vita del paziente.
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32
L’esercizio fisico come stile di vita
Nicola M. Sforza
Introduzione
La stretta correlazione tra malattie parodontali ed alcune malattie sistemiche (come le
cardiopatie e il diabete) è stata dimostrata da diversi studi clinici (Mustapha et al, 2007;
Paquette et al., 2007) in cui vengono ipotizzati effetti sistemici diretti ed indiretti da parte
dei meccanismi eziopatogenetici propri delle patologie infiammatorie croniche.
Le malattie parodontali, come le malattie sistemiche ad esse correlate, nella loro
eziopatogenesi multifattoriale, condividono numerosi fattori di rischio legati agli stili di vita
(obesità, fumo, abuso di alcool, scarsa igiene orale, sedentarietà) che rappresentano
determinanti significative di morbilità e mortalità nella popolazione (Nunn et al., 2003).
Tra gli stili di vita, la promozione di una corretta ed equilibrata attività fisica sportiva
rappresenta una sfida volta alla prevenzione, ma anche al trattamento, di numerose
malattie sistemiche che non si manifestano necessariamente con un disordine dell’apparato
locomotore (Pedersen & Saltin, 2006).
Scopo di questo documento è la revisione della letteratura internazionale relativa
all’esercizio fisico come stile di vita determinante per il raggiungimento e mantenimento
della salute generale, attraverso la prevenzione e trattamento di diverse malattie croniche
sistemiche. Ci si propone inoltre di identificare eventuali associazioni tra stato di forma fisica
e malattie parodontali.
Definizione di attività fisica o sport
Lo sport è l’insieme delle attività fisiche e mentali compiute dall’individuo al fine di
migliorare e mantenere il “benessere” psico-fisico dell’organismo.
L’esercizio sportivo ha certamente origini antiche ed è documentato da alcuni esempi di
graffiti rupestri risalenti ad almeno 30.000 anni fa che riproducono cerimonie che
comportavano attività fisica dei partecipanti. Successivamente, le continue trasformazioni
della società, passata dall’essere composta prevalentemente da cacciatori nomadi ad
agricoltori e, come tali piuttosto stanziali, hanno progressivamente modificato le abitudini
dell’uomo verso l’attività fisica.
La fase dell’industrializzazione ha coinciso con l’urbanizzazione ed oggi il mondo intero si sta
avviando verso la cosiddetta fase post-industriale. Il tutto ha comportato un lento ma
progressivo declino dell’attività fisica quotidiana.
Esiste un accordo generale tra gli esperti di salute pubblica e le autorità mediche secondo il
quale una ridotta attività fisica nel lavoro quotidiano e nel tempo libero, comunemente
associata al moderno stile di vita, determina un incremento del rischio di malattie
cardiovascolari e casi di morte ad esso correlati oltre che un aumento di mortalità per cause
diverse (Fletcher et al, 2001).
Nel 2004, l’OMS (Waxam, 2004) ha affermato che l’inattività fisica risulta essere possibile
causa di malattie che portano a circa 2 milioni di morti nel mondo ogni anno, responsabile
probabilmente del 10-16% dei casi di neoplasie e di diabete e del 22% dei casi di cardiopatia
ischemica, con uguale incidenza fra i due sessi.
33
Al contrario, qualsiasi incremento dell’attività fisica si traduce in un beneficio per la salute;
pertanto la promozione di una regolare attività fisica rappresenta un obiettivo primario
dell’OMS e di ciascun Sistema Sanitario Nazionale dei principali Paesi del mondo.
L’attività fisica regolare allunga la vita; in uno studio prospettico a 16 anni (Yates et al. 2008)
eseguito su 2357 persone sane di sesso maschile con età media di 72 anni, è stato valutato
l’impatto globale degli stili di vita sulla mortalità. I risultati dimostrano che i soggetti
ultranovantenni, rispetto ai soggetti deceduti ad un’età inferiore, avevano mantenuto
complessivamente uno stile di vita più sano. In particolar modo, l’esercizio fisico regolare era
associato ad un miglioramento significativo delle aspettative di vita, al contrario di fumo ed
obesità.
L’esecuzione di una attività fisica regolare rappresenta una fondamentale strategia di
prevenzione per malattie cardiovascolari, obesità, diabete mellito, depressione, neoplasie,
sia da sola che in associazione con interventi volti alla riduzione di altri fattori di rischio come
il fumo, lo stress, il sovrappeso. (Lee I-Min et al., 2001; Fletcher et al., 2001; Myers et al.,
2002; Willet et al., 2002; Yusuf et al., 2004; Marcus et al., 2006).
Quale attività fisica
L’attività fisica, se svolta in modo continuativo, permette un incremento della resistenza, un
miglioramento della velocità e un generale aumento della capacità di coordinazione
muscolare. L’obiettivo finale è quello di raggiungere il proprio” fitness”, cioè uno stato di
allenamento fisico che permette di svolgere una regolare attività fisica e che è correlato ad
una riduzione di mortalità e morbilità per tutte le cause.
Più precisamente è possibile distinguere 3 gradi di attività fisica (Lucini, 2007):
1.
Attività fisica: movimento del corpo, determinato dall’attivazione del sistema
muscolare scheletrico, che permette un incremento del consumo energetico.
2.
Esercizio fisico: movimento del corpo con caratteristiche di pianificazione e
ripetibilità che consente il miglioramento o il mantenimento di uno o più elementi
che caratterizzano l’allenamento e che a seconda degli effetti cardiovascolari in grado
di determinare, si distingue in: a. esercizio isotonico o dinamico: provocato da una
contrazione muscolare in grado di produrre un movimento e un carico di volume sul
ventricolo sinistro del cuore, con una risposta proporzionale alla massa muscolare e
all’intensità dell’esercizio (es. correre) b. esercizio isometrico o statico: provocato da
una contrazione muscolare senza movimento e con un carico cardiaco pressorio
maggiore a quello di volume (es. stringere un oggetto con forza con la mano) c.
esercizio di resistenza: combinazione tra esercizio isotonico ed isometrico (es.
sollevamento pesi).
3.
Allenamento fisico o Fitness: attività fisica regolare e strutturata, finalizzata al
miglioramento e mantenimento delle capacità fisiche (cardiocircolatoria, muscolare,
di flessibilità articolare) che permettono di svolgere tale attività e che sono correlate
ad una riduzione di mortalità e morbilità per tutte le cause.
34
La risposta immediata dell’organismo all’esercizio fisico è tipicamente cardiovascolare:
iperventilazione, tachicardia, incremento della portata cardiaca e della pressione arteriosa
(Le Mura et al, 2004). Il progressivo aumento del lavoro cardiaco è proporzionale alle
caratteristiche dell’esercizio e del soggetto. Al termine dell’esercizio, nell’individuo sano, i
parametri emodinamici si riportano a valori basali entro pochi minuti, con un tempo di
recupero della frequenza cardiaca (Heart Rate Recovery) che è proporzionale al grado di
allenamento dell’individuo.
Per poter misurare la capacità di esercizio e di allenamento fisico, ci si riferisce alla massima
potenza aerobica o massimo consumo di ossigeno (VO2 max): rappresenta la massima
quantità di energia disponibile, nell’unità di tempo, per i processi ossidativi del metabolismo
cellulare. In altre parole, è la massima quantità di ossigeno che il nostro organismo è in
grado di utilizzare nell’unità di tempo, al fine di produrre energia per compiere un esercizio
fisico. Per comodità, il VO2max viene espresso in multipli del fabbisogno energetico a riposo,
definiti come equivalenti metabolici (MET) e che corrispondono ciascuno a 3.5 mL di
Ossigeno per kg di peso corporeo per minuto.
Il VO2 max è influenzato principalmente da fattori genetici oltre che dall’età, sesso,
allenamento e condizioni cardiocircolatorie (Fletcher et al, 2001).
Altro parametro utilizzato per caratterizzare l’esercizio fisico è la soglia anaerobica: essa
rappresenta il momento in cui, per eseguire un esercizio con uno sforzo crescente, la
ventilazione dell’individuo s’impenna improvvisamente e, da un punto di vista metabolico,
s’innesca il meccanismo lattacido e quindi anaerobico, al fine di garantire le quantità di
energia richiesta dall’esercizio (Astran et al, 2003). Ciò corrisponde ad un progressivo
accumulo muscolare di acido lattico per il quale l’organismo perde la capacità di protrarre
per lungo tempo l’esercizio fisico.
Il raggiungimento di un buon livello di allenamento fisico significa riuscire ad ottenere una
serie di adattamenti fisiologici dell’organismo che permettono all’individuo sano di reggere
carichi di lavoro via via più elevati ad un livello di frequenza cardiaca minore, proprio per una
migliore capacità funzionale sia del sistema cardiovascolare che aerobica dei muscoli (Lucini,
2007).
Da un punto di vista metabolico, le attività fisiche si distinguono quindi in aerobiche ed
anaerobiche. Nelle prime, il fisico lavora con un basso consumo di ossigeno muscolare,
prevalentemente al di sotto della soglia anaerobica: ciò permette di effettuare attività come
la marcia, la corsa lenta a piedi, il ciclismo con velocità costante, che prevedono un impegno
prolungato nel tempo. Nelle attività fisiche anaerobiche invece, il tipo di sforzo richiesto è
più intenso e normalmente di breve durata. Esempi di sforzi anaerobici sono la corsa a piedi
veloce, lo “scatto” in bicicletta, lo “stacco” nel salto in alto.
In termini di prevenzione e trattamento di diverse patologie croniche, il tipo di attività fisica
prescritta è costantemente di tipo aerobico, prevedendo anche esercizi di resistenza per le
proprietà di miglioramento della capacità muscolare (Williams et al, 2007).
La prescrizione dell’esercizio fisico
La corretta prescrizione dell’esercizio fisico ha l’obiettivo primario di indurre un
cambiamento dello stile di vita dell’individuo che, da prevalentemente sedentario, sia
abituato a svolgere una costante attività fisica.
35
Naturalmente è necessario personalizzare qualsiasi tipo di prescrizione al fine di stabilire con
l’individuo obiettivi utili e realistici.
Come per la terapia farmacologia, la prescrizione dell’esercizio fisico deve prevedere una
valutazione del dosaggio e degli eventuali effetti collaterali (Lucini, 2007).
Secondo recenti Linee Guida (ACSM, 2006) viene indicata un’attività aerobica d’intensità
moderata preferibilmente tutti i giorni della settimana, associata ad esercizi di resistenza per
2-3 volte la settimana e di flessibilità.
Ogni sessione d’esercizio fisico deve comprendere una fase di riscaldamento, costituita da
attività a bassa intensità muscolare progressivamente aumentata, una fase allenante in cui il
soggetto esegue l’esercizio prescritto e una fase di defaticamento costituita da attività svolta
a bassa intensità ed esercizi di allungamento muscolare (stretching).
Esercizio Aerobico
L’allenamento fisico o fitness viene ottenuto grazie all’utilizzo di un esercizio
prevalentemente aerobico, la cui corretta prescrizione prevede indicazioni sulla modalità,
intensità, frequenza, durata e progressione.
Modalità: comunemente, per l’individuo sedentario, il tipo di esercizio aerobico consigliato
inizialmente è camminare a passo veloce; tale modalità è in grado di ridurre
significativamente la mortalità per ogni causa (Fletcher et al, 2001; ACMS, 2006).
Progressivamente, con il miglioramento della condizione fisica, si possono consigliare altre
modalità di esercizio aerobico come il jogging, la corsa a piedi, il nuoto, la bicicletta.
Intensità: nell’attività aerobica, l’intensità può essere definita in termini assoluti e relativi.
In termini assoluti, essa viene normalmente indicata in MET (metabolic equivalent) e
rappresenta la quantità di energia spesa durante un esercizio (Ainsworth et al, 2000). Si
definiscono come attività leggere, quelle con valore d’intensità assoluta inferiore a 3 MET,
(passeggiata lenta in pianura, attività da seduto come il gioco delle carte o il suono di uno
strumento musicale), attività moderate quelle con valori di MET compresi tra 3 e 6
(passeggiata a piedi, golf, ciclismo a bassa velocità in pianura) e attività vigorose quelle con
valori di MET superiori a 6 (corsa a piedi, ciclismo intenso, tennis singolo, sci alpinismo, sci da
fondo).
L’intensità relativa è espressa invece in termini di percentuale di massima potenza aerobica
(VO2 max) ed è variabile da individuo ad individuo. Ciò significa che se una certa attività ha
un’intensità assoluta tale da poter essere considerata moderata per un soggetto giovane, la
stessa attività diventa vigorosa per un soggetto anziano.
Le più moderne linee guida suggeriscono che l’esercizio fisico sia eseguito ad intensità
moderata (ACSM,2006). Intensità elevate si associano comunque ad una ridotta mortalità
per cause cardiovascolari (Lee et al., 1995; Bijnen et al., 1998; Myers et al., 2002; ACMS,
2006; Kodama et al., 2009).
La conoscenza degli aspetti relativi all’intensità dell’esercizio aerobico, spiegano come la
corretta prescrizione dell’attività fisica debba essere personalizzata al singolo individuo. Tale
personalizzazione richiede l’impiego di test specialistici (test cardiopolmonare per definire
l’intensità come percentuale della VO2 max, test della frequenza cardiaca e test della
percezione di fatica da parte del l’individuo rapportato a valori di elettrocardiogramma da
sforzo) (Lucini, 2007).
36
Frequenza: idealmente, per ottenere i maggiori vantaggi in termini prognostici, l’esercizio
fisico deve essere eseguito tutti i giorni (Thompson et al., 2003). Naturalmente modifiche di
questo schema di frequenza sono impiegate in situazioni cliniche particolari, come la
riabilitazione cardiovascolare del paziente dopo infarto e sono competenza dello specialista
(Balady et al., 2000).
Durata: in generale, per attività eseguite ad intensità moderata, si consiglia una sessione di
almeno 30 minuti al giorno.
Progressione: deve essere il risultato di una modulazione tra intensità, frequenza e durata da
livelli bassi e facilmente accettati dal soggetto, fino alla dose consigliata.
Esercizio di resistenza
E’ importante per il miglioramento della forza muscolare e della flessibilità ed è
indispensabile per i pazienti anziani (Williams et al., 2007). La prescrizione di questo tipo di
esercizio deve coinvolgere tutti i gruppi muscolari con preferenza verso gli esercizi dinamici
eseguiti ritmicamente. Si può prevedere l’impiego di pesi e macchine da palestra, ma anche
piegamenti, esercizi per gli addominali ecc.
L’intensità viene definita in termini di sforzo e valutata soggettivamente: poiché sforzi
intensi determinano rialzi pressori sfavorevoli per i pazienti diabetici, ipertesi o con malattie
cardiovascolari, in questa tipologia di pazienti devono essere utilizzati esclusivamente
esercizi di bassa intensità.
La frequenza consigliata è di 2-3 sedute settimanali, se possibile in giorni diversi da quelli in
cui viene eseguito l’esercizio aerobico (Lucini, 2007).
Esercizio di flessibilità (Stretching)
E’ fondamentale per mantenere la flessibilità articolare; tutti i programmi di esercizio fisico
prevedono, soprattutto nelle fasi di riscaldamento e defaticamento, esercizi di allungamento
eseguiti quotidianamente. Tra le varie tecniche, la più utilizzata è quella dello stretching
statico che prevede un allungamento lento e completo del muscolo, con il mantenimento
della posizione per un periodo variabile da 15 a 30 secondi e con la ripetizione dell’esercizio
per 3-4 volte.
L’American Heart Association nel 2007 ha pubblicato una serie di raccomandazioni per gli
adulti (18-65 anni) (Haskell et al., 2007) e per gli anziani ultrasessantacinquenni (Nelson et al,
2007).
Tali raccomandazioni, il cui obiettivo è provvedere a creare un messaggio chiaro e conciso
che possa incoraggiare la partecipazione all’attività fisica della popolazione sedentaria degli
Stati Uniti, si basano sulla revisione sistematica della letteratura con indicazione dei diversi
livelli di evidenza e del tipo di accordo tra gli esperti partecipanti al consenso.
Sulla base di studi clinici randomizzati controllati e con un totale accordo tra gli esperti,
queste sono le raccomandazioni riguardanti la popolazione adulta:
1.
per promuovere e mantenere uno stato di buona salute generale, e’ necessario
mantenere uno stile di vita fisicamente attivo.
37
2.
E’ consigliata una attività fisica aerobica di moderata intensità per un minimo di 30
minuti al giorno per 5 giorni alla settimana o in alternativa una attività aerobica più
intensa (in grado cioè di aumentare rapidamente la frequenza respiratoria e cardiaca,
come la corsa a piedi) per un minimo di 20 minuti per almeno 3 giorni alla settimana.
3.
E’ consigliata una attività fisica di resistenza per almeno 2 volte alla settimana allo
scopo di migliorare o mantenere la forza muscolare.
4. Le attività fisiche moderate ed intense devono essere considerate in aggiunta
all’attività fisica correntemente eseguita durante la giornata, ma di bassa intensità
(come pulirsi, vestirsi ecc.).
5. Poiché è dimostrata una relazione tra quantità dell’esercizio fisico e risposta
dell’organismo in termini di salute, tutti coloro che vogliono incrementare lo stato di
forma fisica, ridurre il rischio di malattie croniche invalidanti e prevenire l’obesità,
possono ricevere benefici dall’incremento dell’attività fisica oltre il minimo
raccomandato.
Per quanto riguarda gli anziani, sono valide le stesse raccomandazioni indirizzate agli adulti.
Vi sono tuttavia alcuni aspetti da considerare:
1. l’intensità dell’attività aerobica è generalmente più ridotta rispetto agli adulti e,
comunque, deve essere prevista all’interno della capacità aerobica individuale,
2. è consigliabile eseguire attività fisiche in grado di mantenere o incrementare la
flessibilità muscolare e tendinea con 10 minuti di esercizi di stretching al giorno per
due volte la settimana,
3. poiché gli anziani sono affetti da almeno una o più patologie croniche per le quali
l’esercizio fisico può avere effetti terapeutici, essi dovrebbero svolgere attività fisica,
oltre che per prevenire l’insorgenza di altre patologie, proprio per il trattamento
delle patologie di cui sono affetti, secondo modalità di efficacia e sicurezza relative
alla propria condizione,
4. quando la condizione patologica cronica preclude l’attività minima consigliata, gli
anziani devono essere incoraggiati a praticare comunque una regolare attività fisica,
in accordo con le proprie capacità, per evitare la sedentarietà.
Esercizio fisico e malattie
Attualmente l’esercizio fisico è indicato nel trattamento di un grande numero di malattie
sistemiche (Oldridge, 2003; Roberts et al., 2005).
L’evidenza scientifica mostra che, per talune malattie, l’esercizio fisico può rappresentare
una vera modalità terapeutica, in alcune situazioni, addirittura più efficace rispetto al
trattamento medico convenzionale.
In particolare è dimostrata un’alta evidenza scientifica (basata sulla presenza di revisioni
sistematiche della letteratura e studi clinici controllati randomizzati) per quanto riguarda gli
effetti positivi dell’esercizio fisico sulle condizioni patologiche di Sindrome metabolica,
38
Diabete Tipo 2, Ipertensione arteriosa, Obesità, Malattia polmonare cronica di tipo
ostruttivo, Malattia cardiocoronarica, Insufficienza cardiaca.
Tali effetti positivi dell’esercizio fisico riguardano la patogenesi, la riduzione della
sintomatologia, il miglioramento della forma fisica e della qualità della vita in genere nei
pazienti affetti dalle malattie croniche descritte.
Per altre condizioni patologiche, come il cancro o la depressione, non esistono evidenze
scientifiche in grado di dimostrare un effetto positivo dell’esercizio fisico su queste malattie
per quanto riguarda la patogenesi; vi è tuttavia una moderata evidenza scientifica che
mostra come l’attività fisica determini una riduzione dei sintomi oltre che un miglioramento
della forma fisica e della qualità della vita, nei pazienti affetti da queste ultime condizioni
patologiche (Pedersen & Saltin, 2006).
E’ ovvio che per queste particolari classi di pazienti, la prescrizione dell’esercizio fisico, per
molti versi con caratteristiche simili a quanto descritto per i pazienti sedentari adulti e
anziani, deve tenere conto di particolari accorgimenti che variano a seconda della patologia
e può essere rivolta esclusivamente a pazienti “stabilizzati”, cioè con adeguata terapia
farmacologia e senza segni acuti di patologia (Lucini, 2007).
Vengono ore descritte in dettaglio alcune delle patologie di maggiore interesse anche per le
possibili associazioni con le malattie parodontali:
Sindrome metabolica
E’ definita come la presenza di iperinsulinemia, improvvise alterazioni della glicemia e
almeno una tra le condizioni di dislipidemia, obesità e ipertensione arteriosa.
Il 40% delle persone affette da Sindrome metabolica sviluppano un diabete tipo 2 nei
successivi 5 anni. Spesso la sindrome metabolica è associata ad un’alta prevalenza di
malattia cardiocoronarica (Pedersen & Saltin, 2006).
Studi clinici randomizzati e controllati hanno mostrato gli effetti positivi dell’attività fisica e
della dieta alimentare nella prevenzione del diabete tipo 2 in pazienti affetti da sindrome
metabolica, riducendo del 58% il rischio che una sindrome metabolica esiti in diabete
successivamente (Tuomiletho et al, 2001; DPPRG, 2002).
Una recente revisione sistematica della letteratura (Orozco et al, 2008), dimostra che in
termini di prevenzione del diabete tipo 2 su pazienti affetti da Sindrome Metabolica, è
fondamentale che il cambiamento dello stile di vita del soggetto riguardi l’incremento
dell’attività fisica insieme ad una dieta alimentare ipocalorica: gli effetti preventivi sono
limitati se la modifica riguarda soltanto l’uno o l’altro tra esercizio fisico e dieta.
Da un punto di vista della prescrizione, l’attività fisica consigliata per questo tipo di pazienti è
almeno 30 minuti al giorno di attività moderata-intensa o in alternativa almeno 3-4 ore di
attività settimanali come ciclismo, corsa a piedi, nuoto.
Diabete tipo 2
E’ una malattia metabolica caratterizzata da un’alterazione del metabolismo del glucosio, dei
lipidi e delle proteine. Oltre la metà dei casi diagnosticati esibisce segni di complicazioni della
malattia come arteriosclerosi periferica, malattia cardiocoronarica, retinopatie e
microalbuminuria (Beck-Nielsen et al, 2000).
L’effetto benefico dell’esercizio fisico sui pazienti affetti da diabete tipo 2 è ampiamente
documentato e vi è un consenso internazionale sul fatto che l’esercizio fisico rappresenti
uno dei tre pilastri della terapia del diabete insieme con la dieta e il trattamento
farmacologico (Sigal et al, 2006).
39
Da un punto di vista della prescrizione, la maggior parte dei pazienti affetti da diabete tipo 2
può effettuare attività fisica senza particolari attenzioni. Naturalmente dovranno essere
prese precauzioni per prevenire l’ipoglicemia monitorando costantemente la glicemia,
modificando la dieta ed operando aggiustamenti sulla dose di insulina.
Oltre a ciò è necessario che una valutazione specialistica pre-esercizio escluda eventuali
complicanze macro o microvascolari che potrebbero peggiorare in seguito ad un esercizio
fisico inadeguato. In particolare un esercizio eseguito ad elevata intensità è controindicato
nei pazienti con nefropatia conclamata e con retinopatia proliferativa (Lucini, 2007).
La prescrizione dell’attività fisica è, come per i pazienti affetti da Sindrome Metabolica, di
almeno 30 minuti al giorno di attività moderata-intensa o in alternativa 3-4 ore di attività
settimanali come ciclismo, corsa a piedi, nuoto (Beck-Nielsen et al., 2000; Sigal et al., 2006).
Ipertensione arteriosa
E’ un importante fattore di rischio per l’infarto acuto del miocardio, l’insufficienza cardiaca e
la morte improvvisa.
L’evidenza scientifica suggerisce un’associazione tra abitudini di sedentarietà e incidenza di
ipertensione arteriosa. In particolare, un’attività fisica moderata/intensa riduce i livelli di
pressione arteriosa sia in persone con pressione arteriosa normale sia negli ipertesi (Fagard
et al., 2001; Whelton et al., 2002; Cornelissen et al., 2005). Inoltre il rischio di sviluppare
un’ipertensione arteriosa è maggiore tra gli individui con scarsa attività fisica (Whelton et al.,
2002). Per queste ragioni, raccomandazioni volte ad incrementare l’attività fisica sono
solitamente incluse nelle linee guida di prevenzione primaria e di terapia dell’ipertensione
arteriosa (Chobanian et al., 2003).
Per quanto riguarda la prescrizione dell’attività fisica, è importante aver posto una corretta
diagnosi dello stato di ipertensione e dei possibili fattori di rischio cardiovascolari.
Generalmente è possibile effettuare un’attività fisica aerobica e di resistenza di moderata
intensità purché i valori pressori siano stabilizzati farmacologicamente.
Obesità
E’ una condizione patologica nella quale una gran parte della massa corporea è costituita da
tessuto adiposo. In situazioni cliniche routinarie, la diagnosi è usualmente determinata
dall’indice di massa corporea (BMI) che è il rapporto tra il peso in kg diviso per l’altezza
dell’individuo in metri.
Internazionalmente, l’obesità è suddivisa in vari gradi di gravità in accordo con l’incremento
del BMI (Sveden et al., 2001).
L’obesità è associata in modo significativo allo sviluppo di patologie cardiovascolari future
(Guh et al., 2009).
Esistono evidenze scientifiche che indicano che gli obesi presentano una maggiore
predisposizione verso le neoplasie e, soprattutto, hanno una maggiore tendenza alla
mortalità per cancro (Calle et al., 1999).
Diversi studi clinici e meta-analisi mostrano che l’attività fisica è importante per prevenire
l’aumento di peso oltre che per mantenere i livelli di peso corporeo raggiunti dopo la fase di
riduzione (Rosse et al., 2001; Anderson et al, 2001; Slentz et al., 2004).
L’obesità naturalmente può riguardare anche i bambini e ciò rappresenta una vera e propria
epidemia. Soltanto in Italia, 1 bambino su 6 è obeso e 1 su 3 è comunque in sovrappeso.
Questi dati, comuni ai vari paesi del mondo occidentale, indicano una vera emergenza
sanitaria per il rischio significativo per il bambino obeso di sviluppare, durante la crescita,
40
malattie metaboliche quali il diabete, malattie cardiovascolari, problemi osteoarticolari ed
altro ancora (Gatti et al., 2007).
Deve essere chiaro che la perdita di peso richiede una riduzione del bilancio calorico e
pertanto non è possibile raggiungere una riduzione di peso se la perdita di energia, e quindi
di calorie, secondaria all’esercizio fisico, viene ipercompensata dall’assunzione di cibo. Oltre
a ciò, considerando che molti pazienti affetti da obesità presentano anche ipertensione e
problemi cardiovascolari, la prescrizione dell’attività fisica deve essere attentamente
individualizzata, benché possa seguire le raccomandazioni generali preventive con un’attività
fisica moderata-intensa con frequenza quotidiana e per un tempo variabile da 30 a 60 minuti
per seduta (Pedersen & Saltin, 2006).
Malattia cardio-coronarica o cardiopatia ischemica
E’ definita come la malattia del cuore causata dall’ischemia del miocardio per inadeguato
apporto vascolare rispetto alle richieste di ossigeno. La causa più comune è l’arteriosclerosi
delle coronarie.
Vi è un’elevata evidenza scientifica che mostra gli effetti benefici dell’esercizio fisico sulla
malattia cardio-coronarica (Joliffe et al., 2000; Taylor et al., 2004).
Per quanto riguarda la prescrizione dell’attività fisica nel paziente cardiopatico, essa può
essere impiegata come strumento terapeutico esclusivamente nel paziente stabilizzato e
deve essere particolarmente individualizzata; in particolare prima di iniziare qualsiasi
programma di esercizio fisico, il paziente cardiovascolare deve essere sottoposto a
valutazione superspecialistica per confermare la stabilità della condizione clinica, la validità
della terapia farmacologia nonché stabilire l’idonea intensità dell’esercizio.
In genere le modalità previste sono l’esercizio aerobico (esclusivo nelle fasi iniziali), quindi di
resistenza e flessibilità introdotti successivamente (Lucini, 2007).
Insufficienza cardiaca
E’ una sindrome clinica diagnosticabile secondo l’European Society of Cardiology (ESC) per la
presenza di alcuni sintomi caratteristici: dispnea, facile affaticamento, gonfiore alle caviglie.
Generalmente è anticipata da una disfunzione asintomatica del ventricolo sinistro. I sintomi
possono variare da una leggera ad una severa disabilità. L’insufficienza cardiaca può essere
sinistra, più comune, o destra e può presentarsi in forma acuta e cronica. L’eziopatogenesi è
riconducibile ad una malattia cardiaca di tipo ischemico, ma anche ad un’ipertensione
arteriosa, a difetti della funzionalità valvolare cardiaca, ecc.
I pazienti affetti da insufficienza cardiaca presentano frequentemente un’atrofia muscolare,
una rapida faticabilità e una ridotta potenza muscolare (Wilson et al, 1993; Anker et al,
1997).
C’è una considerevole evidenza scientifica in supporto degli effetti benefici dell’esercizio
fisico in pazienti affetti da insufficienza cardiaca.
Dopo una prima serie di studi clinici non controllati degli anni ‘70, sono stati pubblicati
numerosi studi prospettici, randomizzati e controllati oltre che revisioni sistematiche della
letteratura con meta-analisi. Nel 2002, Lloyd-Williams et al. hanno mostrato, in una
revisione sistematica della letteratura basata sull’analisi di 31 studi prospettici controllati, di
cui 8 randomizzati, che l’esercizio fisico determina effetti positivi sui pazienti affetti da
insufficienza cardiaca, in termini di miglioramento della VO2 max, dei valori di pressione
sistolica oltre che di incremento della soglia anaerobica.
41
In una successiva revisione sistematica del 2004 (su 8 studi controllati randomizzati), è stato
dimostrato che l’esercizio fisico riduce significativamente la mortalità dei pazienti esaminati
(Piepoli et al., 2004).
Per quanto riguarda la prescrizione dell’attività fisica, un position paper dell’European
Society of Cardiology (Corra et al., 2005), conclude che: “tutti i pazienti affetti da
insufficienza cardiaca dovrebbero seguire un programma di riabilitazione fisica non appena
abbiano superato l’emergenza”. Si consiglia un programma di esercizio fisico in cui l’intensità
e la durata delle singole sessioni, siano aumentate gradualmente: tutto ciò, almeno nelle fasi
iniziali, sotto la supervisione di personale medico.
Cancro
Nel mondo occidentale, il cancro e le malattie cardiovascolari rappresentano le principali
cause di morte precoce.
Il termine cancro è indicato per una serie di malattie dominate dalla crescita cellulare
incontrollata e che risultano nella compressione, invasione e degradazione del tessuto sano
adiacente. La sintomatologia del cancro è innumerevole e dipende dalla tipologia e
localizzazione del tumore; tuttavia è comune a molte forme di cancro la perdita di peso e di
massa muscolare oltre alla veloce affaticabilità e ridotta attività fisica (Pedersen & Saltin,
2006).
L’evidenza scientifica epidemiologica mostra come uno stile di vita fisicamente attivo
protegga l’individuo verso lo sviluppo del carcinoma del colon e del seno (Thune & Furberg,
2001).
Oltre ad avere un ruolo preventivo per talune forme di cancro, l’attività fisica riduce il rischio
di morte da carcinoma mammario una volta posta la diagnosi, come mostrato da Holmes et
al., 2005 in uno studio prospettico osservazionale su 2987 pazienti affette da carcinoma del
seno allo stadio I, II o III.
Inoltre, pur con un’evidenza scientifica basata non su revisioni sistematiche della letteratura
ma su revisioni (Thune & Furberg, 2001) riguardanti pochi studi randomizzati controllati
(Rohan & Hiller, 1995; Segar et al.1998) e, per lo più, studi retrospettivi (Pinto et al,1998;
Courneya et al, 2000), è stato dimostrato l’effetto benefico dell’attività fisica sullo stato
generale di pazienti affetti da carcinoma mammario, in termini di incremento della potenza
muscolare, del peso corporeo oltre che di riduzione della sensazione di fatica e di nausea da
farmaci.
Da un punto di vista della tipologia di esercizio prescritto, è consigliabile una combinazione
di esercizi aerobici e di resistenza muscolare con intensità moderata.
Depressione
E’ una condizione frequente che colpisce femmine e maschi con un rapporto di 2 a 1.
Il sintomo principale è la fatica. I criteri diagnostici sono la presenza di almeno 5 dei seguenti
sintomi: atteggiamento triste, apatia, calo o incremento ponderale significativi, insonnia o
ipersonnia, perdita di concentrazione, agitazione o ritardo psicomotori, perdita di energia,
sensazione di inappropriatezza nello svolgere le attività quotidiane, pensieri ricorrenti di
morte e suicidio (Pedersen & Saltin, 2006).
Esiste un’evidenza consistente sugli effetti benefici dell’esercizio fisico come supplemento al
trattamento medico delle depressioni moderate. I risultati di una metanalisi del 2001
mostrano che l’esercizio fisico riduce significativamente i sintomi della depressione rispetto
al trattamento esclusivamente farmacologico (Lawlor & Hopker, 2001).
Da un punto di vista della prescrizione, è consigliabile un esercizio aerobico con intensità
moderata e progressiva e con frequenza, se possibile, quotidiana. L’attività può essere la
42
corsa a piedi, il ciclismo o il nuoto. In base al grado di forza muscolare possono essere
previsti esercizi di resistenza (Pedersen & Saltin, 2006).
Esercizio fisico e malattie parodontali
Studi clinici epidemiologici mostrano che le persone più anziane (sopra i 75 anni), con una
condizione fisica deficitaria, sono a più alto rischio di sviluppare una malattia orale placcadipendente (carie e malattie parodontali) poiché la disabilità fisica può influire sulla loro
capacità di mantenere livelli di igiene orale accettabili e sulla possibilità di accedere al
trattamento odontoiatrico (Avlud et al., 2001).
E’ stato suggerito inoltre che, nelle persone oltre gli 80 anni, l’infiammazione cronica possa
essere considerata un importante fattore di rischio per la perdita di massa e potenza
muscolare (Hamalainen et al., 2004). Si potrebbe ipotizzare quindi che malattie
infiammatorie croniche, come le malattie parodontali, possano esercitare una qualche
influenza sulla potenza muscolare ed efficacia delle estremità degli arti.
In realtà, una chiara associazione tra salute parodontale e benessere fisico, in pazienti
anziani, è dimostrata solo su pochi studi clinici (Wakai et al., 1999; Avlud et al., 2001;
Yamaga et al., 2002).
In particolare, nello studio di Wakai et al. (1999), livelli ridotti di forma fisica sono associati a
malattia parodontale. In questo studio, è stata condotta una sperimentazione clinica con
modello cross-sectional su 630 soggetti con età compresa tra i 23 e gli 83 anni per un
periodo di osservazione di 5 anni. La valutazione parodontale è stata eseguita attraverso
l’impiego dell’indice CPITN (Community Periodontal Index for Treatment Needs scoring
method) e, per isolare i singoli possibili fattori di rischio (età, fumo, diabete, salute generale
e forma fisica) si è proceduto ad un’analisi statistica secondo modelli logistici ordinali. I
risultati mostrano una stretta associazione tra scarsa forma fisica, con ridotta capacità
aerobica, e alti livelli di CPITN. Tale associazione è indipendente dall’influenza degli altri
fattori di rischio convenzionali quali fumo e diabete.
Il possibile meccanismo d’azione proposto dagli autori è che l’infiammazione parodontale
sia in grado di determinare l’interruzione della continuità mucosa della cavità orale con
ingresso nella circolazione della flora batterica orale e conseguente attività patogena
opportunistica.
Al contrario, in uno studio epidemiologico condotto su popolazione anziana del Bangladesh
dalla WHO del 2004, non è stata riportata alcuna associazione tra salute parodontale e
forma fisica (WHO Report, 2004).
Recentemente Akter et al., 2008, hanno eseguito uno studio clinico su 441 soggetti non
fumatori con età compresa tra i 55 e 96 anni con l’obiettivo di valutare l’associazione tra
salute parodontale e scarsa forma fisica.
Lo stato di forma fisica di ciascun soggetto è stato misurato, in accordo con le indicazioni
della letteratura geriatrica (Kuh et al., 2005), con la capacità di stringere della mano (in Kg) e
con la capacità di restare in piedi su una sola gamba (in minuti) ad occhi aperti.
Le condizioni parodontali sono state controllate attraverso la registrazione del sondaggio
parodontale (PD), i livelli di attacco clinico (CAL), l’indice di sanguinamento al sondaggio
(BOP) e l’indice di placca (PI) in accordo con la letteratura parodontale (Page & Eke, 2007).
Dopo aver “corretto” i dati per età, sesso e indice di massa corporea, l’analisi di regressione
multipla ha mostrato che la parodontite grave è significativamente associata ad un livello
ridotto di forma fisica. Questo ultimo elemento è anche significativamente associato ad una
riduzione della funzione masticatoria. Questi dati sono in accordo con uno studio clinico
precedente in cui la riduzione della capacità di potenza muscolare della mano è maggiore nei
43
soggetti affetti da parodontite rispetto ai soggetti con parodonto sano. Una possibile
spiegazione patogenetica di questi risultati potrebbe essere che, alti livelli di interleuchina-6,
sempre correlati ad una ridotta potenza e capacità muscolare, potrebbero essere indotti
dall’attivazione di un maggior numero di recettori per l’interleuchina-6 presenti nei tessuti
parodontali in caso di parodontite (Visser et al., 2002; Hamalainen et al., 2004).
Dall’analisi della letteratura sull’argomento e, con i limiti legati alla difficoltà di isolare o di
vedere rappresentati in ciascuno studio clinico tutti i diversi fattori di rischio per le malattie
parodontali e per lo stato di forma fisica, è possibile riconoscere un’associazione tra salute
orale e condizioni fisiche generali, benché la consistenza dell’evidenza scientifica non
permetta di giungere a conclusioni definitive relativamente ai rapporti di causalità.
Si può aggiungere che non soltanto i fattori di rischio convenzionali per la parodontite, ma
anche altri fattori di rischio ed indicatori di infiammazione oltre che ridotti livelli di forma
fisica, possono essere associati con il rischio di un danno parodontale.
Altra considerazione è che lo stato di salute orale, e parodontale in particolare, per la sua
relativa facilità nell’essere esaminato ed eventualmente modificato attraverso il trattamento
terapeutico, potrebbe essere impiegato come mezzo di screening per individuare soggetti a
rischio di peggioramento dello stato di salute generale.
In questo senso, una sempre maggiore sensibilizzazione della comunità medica e della
popolazione sulla prevenzione delle malattie parodontali potrebbe certamente contribuire
ad un miglioramento della salute generale oltre che dentale.
Conclusioni
E’ reperibile una consistente evidenza scientifica secondo cui:
1. le malattie parodontali sono influenzate dagli stili di vita e, modificando questi
ultimi, si possono prevenire
2. alcuni stili di vita come la dieta iperlipidica, il fumo e la sedentarietà riducono
l’aspettativa di vita
3. l’esercizio fisico ha effetti positivi per promuovere e mantenere uno stato di buona
salute generale
4. è consigliata una attività fisica aerobica di moderata intensità per un minimo di 30
minuti al giorno per 5 giorni alla settimana o in alternativa un’attività aerobica
intensa per un minimo di 20 minuti al giorno per 3 giorni alla settimana
5. le attività fisiche moderate ed intense devono essere considerate in aggiunta
all’attività fisica correntemente eseguita durante la giornata, ma di bassa intensità
(come pulirsi, vestirsi ecc.)
6. poiché è dimostrata una relazione tra quantità dell’esercizio fisico e risposta
dell’organismo in termini di salute, tutti coloro che vogliono incrementare lo stato di
forma fisica, ridurre il rischio di malattie croniche invalidanti e prevenire l’obesità,
possono ricevere benefici dall’incremento dell’attività fisica oltre il minimo
raccomandato
7. l’esercizio fisico ha effetti terapeutici su diverse condizioni patologiche come la
Sindrome metabolica, il Diabete Tipo 2, l’Ipertensione arteriosa, l’Obesità, la
Malattia polmonare cronica di tipo ostruttivo, la Cardiopatia ischemica,
44
l’Insufficienza cardiaca. Tali effetti positivi riguardano la riduzione della
sintomatologia, il miglioramento della forma fisica e della qualità della vita.
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Il fumo di tabacco
Roberto Rotundo
Il fumo come fattore di rischio per la salute dell’individuo
Epidemiologia
Secondo l’American Cancer Society attualmente nel mondo ci sono circa 1.2 miliardi di
fumatori, metà dei quali muoiono per patologie causate o legate al fumo di sigaretta
(Mackay e coll. 2006). Ogni anno il consumo di tabacco è responsabile della morte di circa
3.5 milioni di persone nel mondo (nel 2000 sono stati circa 4.83 milioni), di cui circa la metà
si sono verificati nei paesi in via di sviluppo e circa 650 mila nell’Unione Europea. Si calcola
che ogni minuto circa 7 individui muoiano a causa del fumo, 1 decesso ogni 9 secondi (Ezzati
e coll. 2003). Seguendo tale andamento, si prospetta che nel 2025 ci saranno circa 10 milioni
di morti per anno a causa del fumo di sigaretta. Sulla base dei dati ISTAT relativi al 2000, nel
nostro Paese i decessi attribuibili al fumo sono 81.855, di cui 65.613 maschi e 16.242
femmine.
Da un punto di vista geografico è tuttavia da evidenziare una considerevole variabilità nella
prevalenza all’abitudine al fumo, da un minimo del 5% ad un massimo del 55%, tenendo
presente che nei paesi in via di sviluppo, l’abitudine al fumo si sta diffondendo notevolmente
ed il relativo numero di morti è destinato ad aumentare nei prossimi decenni (Liu e coll.
1998).
Da un’analisi dei dati dell’OMS e dell’American Cancer Society si riporta qui di seguito una
tabella riassuntiva sulla distribuzione della prevalenza del fumo nei vari paesi mondiali.
(da: Hatsukami DK, Stead LF, Gupta PC. Tobacco Addiction. Lancet 2008; 371: 2027–38)
Nell’ambito di tale distribuzione geografica risulterebbe che gli uomini fumino più delle
donne. In particolare, la prevalenza degli uomini risulta da moderata a bassa nei paesi più
industrializzati e nell’Africa Sud-Sahariana, mentre è più alta nell’Europa dell’Est e in Asia.
Circa il 45% della popolazione mondiale vive in Paesi dove la prevalenza del fumo negli
uomini è maggiore del 45%. Al contrario, solo circa il 10% delle donne vive in Paesi dove la
prevalenza è maggiore del 24%. Più in generale è possibile osservare che la prevalenza del
49
fumo tra le donne è abbastanza bassa nelle popolazioni a più alta densità demografica (Cina,
India, Indonesia, Nigeria e altri paesi asiatici). Con un miliardo e 300 milioni di abitanti la Cina
è il più grande Paese produttore e consumatore al mondo di tabacco e mostra la più alta
percentuale di morti le cui cause sono riconducibili al fumo (Yang e coll. 1999; Gu e coll.
2004). Un recente lavoro prospettico di coorte (Gu e coll. 2009) condotto su 169.871 cinesi
di età superiore ai 40 anni ha mostrato come nel periodo di osservazione compreso tra il
1991 e il 2000 sono decedute 17.863 persone (10.140 uomini e 7.723 donne) per cause
riconducibili al fumo. Sulla base di tali risultati è stato stimato che nel 2005 circa 673.000
cinesi sono morti in seguito a patologie legate al fumo di sigaretta e in particolare, circa
538.200 erano uomini e 134.800 erano donne. La causa principale di morte registrata era il
cancro (268.200 casi), seguito da malattie cardiovascolari (146.200 casi per ictus o infarto del
miocardio) e da malattie dell’apparato respiratorio (66.800 casi per malattie polmonari
cronico-ostruttive). Tra le patologie oncologiche, il cancro al polmone era risultato essere
quello più frequente, con il 50.6% di incidenza negli uomini ed il 14.8% nelle donne. Sia i
fumatori donne che uomini mostravano una particolare propensione al consumo di alcolici,
associati ad un basso livello educativo ed una tendenza all’obesità se paragonati ai soggetti
non fumatori. In media, i fumatori di sesso maschile risultavano essere più giovani, con
elevata attività fisica ed assenza di patologie del tipo ipertensione e diabete rispetto ai
soggetti non fumatori. Le donne, invece, tendevano a mostrare un’età maggiore e ad avere
uno stile di vita alquanto sedentario associato alla presenza di ipertensione e diabete
rispetto alle donne non fumatrici. Sulla base di quanto osservato risulta con una certa
evidenza che il rischio relativo di morte per cause associate al fumo di sigaretta sia più alto
nelle donne rispetto agli uomini e che tale rischio aumenta all’aumentare dell’età. Inoltre, da
un’analisi multivariata aggiustata per i diversi fattori di rischio considerati, è risultata
significativa un’associazione di tipo dose-dipendente tra pacchetti di sigarette fumati per
anno ed il rischio di morte.
Anche negli Stati Uniti, l’uso di tabacco rappresenta la prima causa di morte per più di
400.000 persone decedute per anno o, in altre parole, per 1 ogni 5 americani deceduti
(MMWR 1999). Nel 2002, circa il 23.5% dei soggetti adulti americani fumava sigarette, di cui
il 25.7% uomini e il 21.5% donne.
In Italia, secondo dati ISTAT riferiti al periodo dicembre 2004-marzo 2005 (Forastiere e coll.
2002; Russo e coll. 2002), i fumatori erano circa 10 milioni e 925 mila, pari al 21,7% della
popolazione di età superiore ai 14 anni. Il 27,5% dei fumatori erano maschi, il 16,3% erano
femmine. La percentuale più alta di fumatori era nell’Italia centrale (23,5%), la più bassa al
Sud (20,5%). Riguardo alle classi d’età, per gli uomini la quota più elevata di fumatori era tra i
25 e i 34 anni (35,4%), mentre per le donne era tra i 45 e i 54 anni (24,5%). I fumatori
abituali, che fumano cioè tutti i giorni, erano il 19,7% della popolazione e consumavano
mediamente 14,8 sigarette al giorno. Dei fumatori abituali, il 37,1% erano forti fumatori, con
almeno 20 sigarette al giorno.
Se nel tempo i fumatori stanno diminuendo (erano il 34,9% della popolazione dai 14 anni in
su nel 1980 e il 23,9% nel 2003), aumentano le disuguaglianze sociali nel consumo di
tabacco, con andamenti differenziati nei due sessi e nelle diverse fasce di età. Tra gli uomini,
la quota dei fumatori aumenta al decrescere del titolo di studio conseguito: tra i laureati è il
21,9% mentre è il 31,7% tra coloro che hanno conseguito la licenza media. Fra le donne più
anziane sono invece le più istruite a far registrate la maggiore percentuale di fumatrici: il
14,9% contro il 4,3% delle donne con basso titolo di studio.
Per quanto riguarda adolescenti e giovani, iniziano a fumare più precocemente di cinque
anni fa: il 7,8% dei giovani di 14-24 anni, infatti, ha iniziato a fumare prima dei 14 anni.
Rispetto al 1999-2000, la quota di quanti iniziano a fumare prima dei 14 anni aumenta solo
50
per i maschi (+60%). Per entrambi i sessi, sale invece la quota di giovani di 18-24 anni che
riferisce di avere iniziato a fumare tra i 14 e i 17 anni, passando dal 57,8% nel 1999-2000 al
65,6% del 2005, con un incremento del 13,5%.
In Italia, il 21,6% delle persone dai 14 anni in su dichiara di essere ex fumatore (il 29,2% degli
uomini e il 14,5% delle donne). Il 93,8% degli ex-fumatori riferisce di avere smesso da solo.
Oltre il 50% degli ex fumatori ha smesso di fumare da oltre 10 anni e il 18,8% da 2-5 anni. Si
smette intorno ai 40 anni e la decisione matura mediamente dopo 22 anni di abitudine. In
calo inoltre la quota di donne che fuma in gravidanza: dal 9,2% al 6,5%.
Secondo più recenti stime (dati da: Fondazione Umberto Veronesi 2007), oggi in Italia
fumano più di 14 milioni di persone, di cui almeno 5 milioni sono donne. Si stima che i morti
attribuibili al fumo di tabacco siano circa 90.000 all’anno, di cui oltre il 25% di età compresa
tra i 35 ed i 65 anni. In particolare, è da notare come l’Italia sia uno dei Paesi europei in cui
l’abitudine al fumo nella popolazione femminile risulta in costante crescita.
Al contrario, i fumatori sono diminuiti di circa il 20% nel corso di questi ultimi decenni (nel
1980 fumava il 54% degli uomini, nel 1995 il 34%) per stabilizzarsi oggi intorno al 33%. Con
l’aumentare del numero di donne fumatrici sono aumentate, di conseguenza, anche le
patologie legate al fumo: in Italia, nel 1970 morivano 2.300 donne per tumore al polmone,
oggi questo numero è salito superando i 6.100 casi all’anno.
(da: Russo R, Scafato E. Fumo e salute: impatto sociale e costi sanitari. Osservatorio sul Fumo, l’Alcol
e la Droga dell’Istituto Superiore di Sanità – Roma)
Secondo i dati analizzati dall’Istituto Superiore di Sanità nel periodo compreso tra dicembre
2004 e marzo 2005, le percentuali di mortalità attribuibili al fumo suddivise per sesso nel
1998 sono:
Tumore del polmone
Tumori (tutti)
Sist. circolatorio
Sist. respiratorio
Cause differenti dalle precedenti
Tutte le cause
Maschi (%)
92.3
41.3
17.1
54.5
9.6
25.0
Femmine (%)
51.0
5.4
2.9
20.9
2.1
4.2
Totale (%)
85.7
26.4
9.4
41.4
5.9
14.9
(da: Peto, Lopez et al. Mortality from smoking in developed countries 1950-2000. 1994 Oxford University Press;
Update of mortality from smoking in the 15 EU countries, 1998)
Purtroppo è in aumento anche il numero di coloro che iniziano precocemente a fumare: fra i
15 e i 17 anni fuma quasi il 7% delle ragazze (nel ’90 fumava il 4,5%) tra i 18 e 19 anni il 15%,
rispetto al 12,7% del ’90 e fra i 20 e 24 anni la percentuale cresce ancora, raggiungendo
quasi il 20%. La prima sigaretta è accesa a soli 11 anni: questo significa che si abbassa
notevolmente l’età dei fumatori più a rischio, cioè coloro che fumano da almeno 20 anni, ai
51
quali sono destinate solitamente le raccomandazioni di controllo medico annuali per
verificare lo stato di salute e prevenire il più possibile l’insorgere di malattie connesse al
fumo, che oggi è indicato ai 35enni e non più ai 50enni (dati Fondazione Umberto Veronesi
2007).
Qui di seguito si riporta una tabella nella quale si evidenziano le varie fasi di sviluppo del
tabagismo e delle sue conseguenze letali:
Fisiopatologia
Sono oltre 4.000 le sostanze presenti nel fumo di una sigaretta accesa, di cui 40 sono
considerate cancerogene. Si tratta di sostanze irritanti e fortemente dannose per l’apparato
respiratorio come l’acido cianidrico, l’acroleina, la formaldeide, l’ammoniaca, il monossido di
carbonio e l’acido prussico. Il fumo delle sigarette contiene anche 24 metalli tra i quali il
cadmio che nel sangue del fumatore è da 3 a 4 volte superiore rispetto ai non fumatori.
Un’altra sostanza molto pericolosa è il benzolo, che può essere causa di leucemie e il
catrame, che a sua volta è composto da centinaia di sostanze con effetti cancerogeni per
l’apparato respiratorio, il cavo orale, la gola e le corde vocali.
Tra tutte certamente la nicotina rappresenta la sostanza più nota in quanto molecola che
maggiormente determina assuefazione e che fa del fumo una delle tossicodipendenze più
pericolose. Questo alcaloide (sostanza organica azotata di carattere basico, ottenuta per la
maggior parte dal regno vegetale) è presente nella sigaretta in concentrazione variabile dal 2
all’8% e produce due tipologie di effetto: il primo attivante e quindi eccitante, il secondo
sedativo e rilassante. Oltre all’aumento dei battiti cardiaci che sottopongono il cuore a un
lavoro maggiore, gli effetti preponderanti (e anche quelli più duraturi) si verificano sul
sistema nervoso: in seguito alle alterazioni a livello psichico causate dalla nicotina, si verifica
la dipendenza. La nicotina viene assorbita a livello polmonare, entra nel circolo sanguigno e
raggiunge il cervello in 8/10 secondi stimolando la liberazione di un mediatore chimico
(dopamina) e modificando la trasmissione degli impulsi nervosi. Le conseguenze di questo
processo sono l’eccitazione, l’attivazione delle funzioni cerebrali legate all’attenzione, alla
concentrazione, all’umore, favorendo anche il rilassamento e la riduzione dello stress. Una
sensazione complessiva di benessere generale che, una volta svanita, è sostituita da una
sensazione di depressione che spinge ad accendere nuovamente una sigaretta e ad
aumentare la dose di fumo per mantenere costante il livello di nicotina nel sangue.
52
Più di un quarto di tutte le forme di cancro sono causate dal fumo: non solo i tumori
polmonari, la cui insorgenza è connessa per il 90% a questa abitudine, ma anche i tumori
dell’esofago, laringe, corde vocali, vescica, pancreas, rene, stomaco, sangue (leucemia
mieloide). Per quanto riguarda il tumore polmonare, il fumo di sigaretta è associato a tutti i
tipi di cancro al polmone sebbene risulta maggiormente correlato al cancro polmonare a
piccole cellule e al carcinoma squamo-cellulare.
Al fumo sono inoltre connesse alcune gravi patologie cardio-cerebro-vascolari, quali l’infarto
miocardico e gli ictus trombo-embolici, oltre naturalmente le malattie croniche dell’apparato
respiratorio, come le bronco-pneumopatie croniche ostruttive di tipo asmatico ed
enfisematoso. I danni vascolari e respiratori hanno conseguenze che possono influire molto
negativamente sulla vita quotidiana e di relazione: basti pensare al calo della potenza
sessuale dimostrato con evidenza nei forti fumatori.
In particolare, è stato osservato che il fumo di sigaretta (o meglio le 10 17 molecole ossidanti
liberate dalla combustione della nicotina) determina uno stress ossidativo a carico di
numerose proteine, tra le quali la tirosina, il fibrinogeno, la transferrina, il plasminogeno e la
ceruloplasmina, provocando la formazione di perossidi e ridotti livelli di molecole
antiossidanti plasmatiche. In aggiunta, nel torrente ematico si osserva un’intensa attivazione
e circolazione di cellule infiammatorie che liberano una grande quantità di mediatori proinfiammatori e citochine. Tutto questo causa, da un punto di vista clinico, una disfunzione
endoteliale associata ad una alterazione del sistema di coagulazione ed emostatico, nonché
un’alterazione metabolica lipidica ad elevato potere aterogenetico. Tale meccanismo iperinfiammatorio può persistere nei soggetti fumatori per lungo tempo, sebbene sia stato
osservato un carattere reversibile sugli effetti clinici dal momento in cui il soggetto smette di
fumare (Yanbaeva et al. 2007).
A questi si sommano altri danni a livello di estetica personale, quali l’ingiallimento dentale,
l’invecchiamento precoce della pelle e una serie di disturbi femminili. Tra questi l’inibizione
dell’ovulazione, la riduzione del 40% della possibilità di concepimento, l’aumento delle
possibilità di aborto spontaneo e di malformazione del feto in caso di gravidanza, l’anticipo
della menopausa, l’aumento delle possibilità di sviluppo di tumori al seno e tumori maligni
del collo dell’utero (dati Fondazione Umberto Veronesi 2007).
Anche il fumo da sigaro rappresenta un fattore fortemente associato a patologie
oncologiche (tumori del tratto aero-digestivo superiore e polmonari), respiratorie di tipo
cronico ostruttivo, nonché a patologie cardiovascolari. Tale abitudine risulta attualmente in
costante aumento, in particolare tra i giovani e le donne, a seguito di una forte campagna
pubblicitaria sviluppata dalle industrie del settore (Iribarren e coll. 1999).
Da non sottovalutare inoltre i danni causati dal fumo passivo e che consiste nella esposizione
ad agenti tossici generati dalla combustione del tabacco. L’esposizione a fumo passivo è
responsabile di una quota considerevole della patologia respiratoria dell’infanzia, compresa
l’asma bronchiale e le infezioni respiratorie acute ed è causa di un aumento del rischio di
tumore polmonare e di malattie ischemiche tra gli adulti. Il fumo delle madri durante la
gravidanza, come l’esposizione della madre non fumatrice a fumo passivo, causa una
significativa riduzione del peso del bambino alla nascita ed è associato alle morti improvvise
del lattante, con gravi conseguenze per lo sviluppo della funzione respiratoria dei bambini
(National Research Council 1986; US Environmental Protection Agency 1992).
Sulla base dei risultati delle revisioni sistematiche disponibili dalla letteratura scientifica e
delle informazioni sulla frequenza di esposizione a fumo passivo in Italia, è stato valutato
l’impatto annuale di questa esposizione nella popolazione italiana.
53
I risultati sono riassunti nella tabella seguente:
ESPOSIZIONE IN AMBITO FAMILIARE
Bambini con genitori fumatori
Casi / morti per anno
Morte improvvisa del lattante
87 morti
Infezioni respiratorie acute (0-2 anni)
76.954 casi
Asma bronchiale (6-14 anni)
27.048 casi prevalenti
Sintomi respiratori cronici (6-14 anni)
48.183 casi
Otite acuta (6-14 anni)
64.130 casi
Adulti con coniuge fumatore
Tumore polmonare
221 morti
Malattie ischemiche del cuore
1.896 morti
Esposizione in ambiente di lavoro
Basso peso (<2500 gr) alla nascita per
2 .033 neonati
esposizione della madre in gravidanza
Tumore polmonare
324 morti
Malattie ischemiche del cuore
235 morti
(Da: Forastiere F, Lo Presti E, Agabiti N, Rapiti E, Perucci CA. Valutazione quantitativa dell’impatto sanitario
dell’esposizione a fumo passivo in Italia) – www.epicentro.iss.it/temi/fumo/dati.asp
I costi del fumo
Gli economisti della Duke University hanno calcolato che il costo reale (o complessivo) di un
pacchetto di sigarette per un ragazzo di 24 anni di età è di circa 40 dollari; tale costo
raggiunge il valore di 220.000$ per gli uomini e di 106.000$ per le donne, considerando
l’intero arco di vita media. Dei circa 40$, il fumatore ne spende personalmente circa 33,
mentre 5$ vengono spesi dai propri familiari e i rimanenti 2$ dalla società. Questi sono in
realtà i costi in termini di servizi sanitari, di coperture assicurative e di vite perdute
determinate dal fumo di sigaretta (Sloan e coll. 2004).
In Italia, dalla Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese risulta che nel 1999
la spesa pubblica sanitaria per assistenza ospedaliera è stata pari a 67.165 miliardi di lire
(circa il 60.2% della spesa sanitaria totale); il costo medio per ricovero, tenuto conto della
spesa sanitaria totale per assistenza ospedaliera del 1999, risulta pari a 5.277.176 lire. Se la
quota di ricoveri attribuibili al fumo per qualsiasi causa è pari al 14,9%, il relativo costo per
assistenza ospedaliera attribuibile al fumo è stimabile in 10.007,580 miliardi, pari all’8.3%
della spesa sanitaria pubblica totale del 1999 (lo 0,4% del PIL). Se si considerano inoltre le
giornate di assenza lavorativa, risulta che la perdita di produttività a causa del fumo è pari a
circa 260 miliardi delle vecchie lire.
La somma dei costi per assistenza ospedaliera e per perdita di produttività a causa
dell’abitudine al fumo si attesterebbe per l’anno 1999 intorno ai 10.267 miliardi di lire con
una incidenza dell’ 8,5% sulla spesa sanitaria pubblica totale (Russo e coll. 2002).
Dall’altra parte, le industrie del tabacco sono collocate per investimenti pubblicitari nei primi
10 posti in 21 dei 50 Paesi dell’Unione Europea, Asia e Medio-Oriente (Saffer e coll. 2000).
Negli USA, i più recenti dati della Federal Trade Commission indicano che nel 2000 le
industrie del tabacco hanno speso circa 700 milioni di dollari in pubblicità su giornali e
riviste, e circa 600 milioni di dollari per sponsorship e promozioni. In più, circa 3,5 miliardi di
dollari sono stati spesi per gadget e circa 4 miliardi di dollari per spese relative alla
partecipazione a fiere e manifestazioni varie.
54
L’Associazione Americana dei Chirurghi Generali nel 1994 aveva condotto una revisione
approfondita della letteratura sul mercato del tabacco e aveva concluso affermando che
l’influenza dell’attività pubblicitaria e promozionale delle compagnie del tabacco
rappresenta un chiaro fattore di rischio per l’abitudine al fumo tra gli adolescenti (U.S.
Department of Health and Human Services 1994).
In aggiunta, la Food & Drug Administration nel 1995 affermava che i produttori di sigarette
sanno chiaramente che gli adolescenti sono vitali per il loro mercato e che è necessario
sviluppare meccanismi pubblicitari specifici per catturare l’interesse di tale fascia di
popolazione (US Food & Drug Administration 1995).
Anche una recente revisione sistematica della Cochrane Collaboration è stata prodotta
sull’argomento. Nove studi longitudinali, che hanno seguito complessivamente 12.000
soggetti non fumatori, sono stati selezionati. Tutti questi studi hanno valutato l’esposizione o
la recettività alla promozione/pubblicità promossa dalle compagnie del tabacco nelle sue
varie forme e i risultati hanno mostrato come l’avvio dell’abitudine al fumo tra gli
adolescenti sia fortemente associata alle diverse forme pubblicitarie messe in atto dalle
industrie del settore (Lovato e coll. 2003).
Tutto questo ci fa capire come lo scopo principale del mercato del tabacco sia di associare un
prodotto (le sigarette) ad una necessità psicologica e sociale che i consumatori vogliono o
vorrebbero soddisfare, al fine ovviamente di incrementarne il consumo (Wakefield e coll.
2003).
Metodi per la cessazione dell’abitudine al fumo
Appare ormai chiaro che la dipendenza da tabacco deve essere considerata una malattia a
tutti gli effetti, in grado di comportare danni accertati per la salute.
Quando si accende una sigaretta il corpo viene stimolato dalla nicotina, provocando una
sensazione che procura piacere immediato, ma gravissimi danni nel tempo. Cosa avviene
invece nel momento in cui si decide di smettere? Quali sono i reali benefici a livello fisico?
La Fondazione Umberto Veronesi in una propria pubblicazione (2007) ha schematizzato cosa
accade dal momento in cui il soggetto interrompe l’abitudine al fumo da sigaretta:
- Dopo 20 minuti la pressione arteriosa e il battito cardiaco tornano a livello
normale.
- Dopo 8 ore il livello di ossigeno nel sangue torna a livello normale.
- Dopo 24 ore inizia a decrescere (seppur lentamente) il rischio di infarto (in realtà
tale rischio inizia ad essere significativamente ridotto dopo 1-3 anni).
- Dopo 48 ore la percezione di odori e sapori è molto più forte.
- Dopo 3 mesi migliorano respirazione e circolazione sanguigna.
- Dopo 6 mesi tosse, mancanza di fiato e senso di stanchezza diminuiscono
notevolmente.
- Dopo 1 anno il rischio di insorgenza di malattie coronariche dimezza.
- Dopo 5 anni il rischio di tumore al polmone diminuisce del 50% e il rischio di ictus
torna a livelli normali, pari a un non fumatore.
- Dopo 15 anni i rischi di malattie legate al fumo tornano nella norma.
Le prime 48 ore sono già sufficienti per percepire immediatamente una sensazione di
benessere anche se il fumatore, specialmente quello più accanito, potrà vivere una vera e
propria crisi di astinenza che ha come conseguenze irritabilità, voglia irrefrenabile di
fumare, aumento dell’appetito e difficoltà a dormire. Sintomi che si manifestano
velocemente, dopo poche ore dalla sospensione dal fumo, raggiungendo la massima
55
intensità nei giorni successivi e protraendosi per circa 4 settimane. Tale sensazione di
malessere fisico è resa più acuta dalla dipendenza psicologica, variabile in intensità da
individuo a individuo.
La dipendenza da fumo di sigaretta è stata infatti da vari autori paragonata alla
dipendenza da droghe del tipo eroina o cocaina. La principale differenza in questo caso è
dovuta al solo fatto che la dipendenza da nicotina non da’ alterazione caratteriale,
sebbene ciò non indichi una ridotta capacità di creare dipendenza. Il test di Fagerström
(qui di seguito riportato) viene attualmente usato per diagnosticare il grado di
dipendenza da fumo, e si parla di dipendenza significativa quando il punteggio totale
risulta maggiore di 6:
Test di Fagerström
Punti
Dal risveglio, dopo quanto tempo fuma la prima sigaretta?
Entro 5 minuti
3
6-30 minuti
2
31-60 minuti
1
Dopo 1 ora
0
Le risulta difficile non fumare in luoghi dove il fumo è vietato (ad es. in
chiesa, in biblioteca, al cinema, ecc.) ?
Si
1
No
0
Quale sigaretta non eviterebbe mai di fumare?
La prima al mattino
1
Tutte le altre
0
Quante sigarette al giorno fuma?
≤10
0
11-20
1
21-30
2
≥31
3
Fuma più sigaretta durante le prime ore del mattino rispetto alle
restanti ore del giorno?
Si
1
No
0
Fuma anche quando è malato?
Si
1
No
0
Il punteggio massimo è 10, considerando che punteggi alti indicano grande dipendenza da nicotina.
(da: Heatherton TF, Kozlowski LT, Frecker RC, Fagerström KO. The Fagerström test for nicotine
dependence: a revision of the Fagerström tolerance questionnaire. Br J Addict 1991;86:119-127)
Vari trattamenti sono stati proposti per indurre la cessazione da fumo di sigaretta e
numerose metanalisi sulle varie metodiche sono state pubblicate in merito. Tuttavia, un
ruolo fondamentale è svolto dall’operatore sanitario (Medico, Odontoiatra, Igienista
Dentale, Infermiera, ecc.) nell’incentivare tale processo di interruzione all’abitudine al fumo.
Negli USA e nel Regno Unito, circa il 70% dei pazienti fumatori incontrano mediamente ogni
anno il proprio medico curante nell’intento di voler smettere di fumare e circa il 45% compie
il tentativo di interrompere, ma solo il 5% riesce a raggiungere l’obiettivo prefissato
(Hatsukami e coll. 2002).
56
Sebbene gran parte dei fumatori decidano e smettano di fumare di propria iniziativa (solo il
2-5% smette di fumare indotto da consigli medici), questo indica comunque l’enorme
potenziale che tali operatori posseggono nel proporre e sostenere una specifica campagna
contro il fumo (Centers for Disease Control and Prevention 2002; Office of Population
Statistics and Censuses. 1995). In particolare, gli Odontoiatri e gli Igienisti Dentali sono posti
in una condizione particolarmente favorevole per promuovere interventi di counselling per
la cessazione del fumo, considerando il fatto che circa il 60% degli italiani dichiara di aver
frequentato uno studio odontoiatrico durante l’arco di un anno. Nel 2005 è stata pubblicata
una revisione della letteratura prodotta dalla Cochrane Oral Health Group nella quale si
evidenziava una considerevole efficacia degli interventi di counselling promossa dal team
odontoiatrico (astinenza al fumo: odds ratio [OR] 1.44; 95% intervallo di confidenza [CI]: 1.16
to 1.78 a 12 mesi o più). Tuttavia, un certo grado di eterogeneità era presente tra i 6 studi
selezionati dalla revisione sistematica (Carr e coll. 2006).
Una possibile e semplice strategia di approccio al paziente fumatore è stata proposta da
Rigotti (2002), basandosi sulla regola delle “5 A”: Ask, Advice, Assess, Assist, Arrange followup (US Public Health Service 2000), e qui di seguito riportata:
(da: Rigotti NA. Treatment of Tobacco use and dependence. N Engl J Med 2002)
Tra le metodiche di cessazione del fumo che sono state proposte vi sono anche l’ipnosi e
l’agopuntura; tuttavia, pochi studi sono stati pubblicati per quanto concerne l’efficacia della
prima, mentre si è dimostrata essere del tutto inefficace la seconda (Fiore e coll. 2000;
Lancaster e coll. 2000).
Ma al di là di quanto deve e può fare l’operatore sanitario generico, ricordiamo che per
superare i momenti di maggiore difficoltà vissuti dal paziente fumatore cronico intenzionato
ad interrompere tale abitudine esistono centri specializzati per la lotta contro il fumo. Si
tratta di una rete di strutture che si sta ampliando notevolmente anche in Italia e costituita
57
da ambulatori situati presso aziende ospedaliere, unità sanitarie locali o presso le sedi della
Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori: qui è possibile trovare un aiuto valido e
competente per intraprendere con tutto il sostegno necessario la propria personale battaglia
contro la sigaretta (dati Fondazione Umberto Veronesi 2007).
Oltre agli approcci psicologici o di counselling fin qui esaminati, in letteratura sono state
anche proposte differenti strategie terapeutiche su base farmacologica. Infatti si è osservato
come la farmacoterapia per la dipendenza da nicotina possa aumentare la quota di
cessazione di circa 2-3 volte (Fiore e coll. 2008). Tuttavia è bene ricordare come questa
debba essere prescritta con estrema oculatezza, avendo particolare considerazione dei
fumatori affetti da specifiche patologie sistemiche, donne in gravidanza o in allattamento,
adolescenti, nonché soggetti che fumano meno di 10 sigarette al giorno.
Tra i vari farmaci proposti, certamente la terapia sostitutiva per la nicotina rappresenta
l’opzione terapeutica farmacologica primaria. Questa può essere somministrata per via
transdermica, orale o nasale. Tale terapia ha lo scopo di rimpiazzare la nicotina non più
assunta dal fumatore mediante la sigarette, mantenendone alcuni effetti, ma allo stesso
tempo riducendo l’effetto di dipendenza e l’effetto tossico prodotto dal tabacco. Riduce
inoltre i sintomi da astinenza, desensibilizzando i neuro-recettori nicotinici.
In alternativa, sono state introdotte terapie farmacologiche non basate sulla sostituzione
della nicotina. Il Bupropione è la principale molecola di questa categoria di farmaci e che
appartiene alla famiglia degli antidepressivi. Agisce bloccando il meccanismo di reuptake
della dopamina e noradrenalina ed evitando un aumento della loro concentrazione a livello
sinaptico. In aggiunta, agisce da antagonista non competitivo per i recettori acetilcolinonicotinici. Di conseguenza, tali meccanismi impediscono l’instaurarsi del processo di
dipendenza da nicotina, indipendentemente dall’effetto antidepressivo del farmaco.
Altri farmaci, quali la clonidina e la nortriptilina sono risultati essere efficaci agendo sul
sistema noradrenergico e quindi sui meccanismi di dipendenza.
Di particolare interesse è un recente farmaco, la vareniclina, che è una forma modificata di
una molecola di origine vegetale, la citisina. Diversi studi clinici randomizzati hanno mostrato
una particolare efficacia di tale farmaco rispetto al placebo e al bupropione, sebbene nel
2008 la FDA americana ha lanciato un’allerta sui seri sintomi neuropsichiatrici mostrati dopo
l’assunzione di tale farmaco.
58
Qui di seguito si riporta una tabella riassuntiva sulle diverse tipologie farmacologiche e loro
effetti:
(da: Hatsukami DK, Stead LF, Gupta PC. Tobacco Addiction. Lancet 2008; 371: 2027–38)
Una recente revisione sistematica prodotta dalla Cochrane Collaboration (Stead e coll. 2008)
ha avuto come obiettivo quello di verificare l’effetto della terapia sostitutiva per la nicotina
rispetto al placebo, considerando le possibili differenze tra vie di somministrazione, dosaggi,
tempi di assunzione, eventuali combinazioni tra farmaci e paragonando la loro efficacia con
farmaci non basati sul meccanismo della terapia sostitutiva. Sono stati selezionati ed
analizzati 132 studi clinici, con ampi gruppi di popolazione osservata (sino a 40.000 pazienti)
e i risultati hanno evidenziato come tutte le forme commerciali di farmaci appartenenti al
gruppo della terapia sostitutiva nicotinica aumentano la probabilità di cessazione
all’abitudine al fumo per circa il 50-70%, indipendentemente dal luogo in cui è stata svolta la
ricerca (e quindi attribuibile alle differenti condizioni delle popolazioni analizzate). E tale
effetto risultava indipendente anche dalle altre forme di aiuto alla cessazione al fumo messe
in atto durante i periodi di sperimentazione.
Il fumo come fattore di rischio per la salute parodontale
Dal 1950 ad oggi sono comparsi nell’ambito della letteratura internazionale una serie di
lavori scientifici che hanno chiaramente identificato il fumo come fattore di rischio per la
malattia parodontale. Nel 1999, l’American Academy of Periodontology ha pubblicato uno
specifico position paper nel quale si evidenziava come l’uso di tabacco rappresenti
59
un’importante variabile in grado di influire sulla prevalenza e la progressione delle diverse
forme di malattie parodontali (Johnson e coll. 1999). Sono state infatti osservate maggiori
profondità di sondaggio, di perdita di attacco e di osso di supporto in soggetti fumatori
rispetto ai non fumatori e l’entità di distruzione tissutale risultava correlata alla durata ed
alla quantità di tabacco usato nelle sue diverse forme (generalmente sigarette). E’ stato
inoltre osservato che il pattern microbiologico dei soggetti fumatori risultava
prevalentemente caratterizzato da forme parodontopatogene rispetto ai non fumatori. Nella
stessa revisione fu anche riportato l’effetto negativo mostrato dal fumo di sigaretta sul tipo
di risposta immunitaria manifestata. La risposta alle comuni terapie parodontali risultava
conseguentemente essere alterata nei soggetti fumatori, rivelando una chiara differenza tra i
soggetti fumatori e quelli che non avevano mai fumato o che avevano smesso di recente.
I meccanismi di azione del fumo di sigaretta e dei suoi prodotti derivati dalla combustione
della nicotina sono stati descritti da Palmer e coll. (2005) in una revisione della letteratura in
occasione del 5° Workshop della Federazione Europea di Parodontologia. Da tale revisione si
evidenzia come il fumo abbia un effetto diretto sui meccanismi infiammatori e di risposta
immunitaria. Studi istologici hanno riportato alterazioni vascolari nell’ambito dei tessuti
parodontali di soggetti fumatori. In particolare, il fumo è in grado di indurre una neutrofilia
sistemica, sebbene la trasmigrazione attraverso la parete vascolare (diapedesi) risulta
impedita. A questo evento si accompagnano fenomeni di alterazione della chemiotassi e
della fagocitosi e un rilascio abnorme di proteasi dalle stesse cellule neutrofile che così
partecipano in modo determinante ai meccanismi di riassorbimento osseo. A ciò si aggiunge
un ridotto livello di citochine, enzimi e cellule polimorfonucleate, nonché un’alterata
proliferazione ed adesione fibroblastica e citotossicità nei soggetti fumatori, il che descrive
una spiccata capacità del fumo ad alterare sia la risposta immunitaria cellulo-mediata che
quella umorale.
Una più recente revisione sistematica (Bergström 2006) che ha incluso 105 studi scientifici
eseguiti su un totale di circa 90.000 individui appartenenti a diverse etnie e popolazioni ha
mostrato con forte evidenza che la condizione di salute parodontale dei soggetti fumatori
risulti essere inferiore rispetto ai soggetti non fumatori. Infatti, il 100% dei 70 studi crosssectional, il 100% dei 14 studi caso-controllo e il 95% dei 21 studi di coorte hanno riportato
un’evidente differenza in termini di profondità di tasca, perdita di attacco e di supporto
osseo. Inoltre, considerando gli studi clinici di intervento, si è potuto osservare come i
soggetti fumatori affetti da parodontite mostrino risultati clinici inferiori alle comuni
tecniche terapeutiche (chirurgiche e non) rispetto ai soggetti non fumatori. Tuttavia,
Thomson e coll. (2007) hanno osservato, attraverso uno studio di coorte svolto in Nuova
Zelanda su 810 giovani pazienti, che i soggetti fumatori che smettono di fumare mostravano
un significativo e rapido miglioramento delle proprie condizioni cliniche.
Nel 2008, in occasione del 6° Workshop della Federazione Europea di Parodontologia è stato
inoltre indagata mediante una specifica revisione sistematica l’influenza del fumo sulle
patologie peri-implantari (Heitz-Mayfield 2008). I risultati hanno mostrato una evidente
correlazione tra fumo di sigaretta e peri-implantiti. In particolare, in 12 studi su 13 esaminati,
veniva riportata una significativa perdita di osso marginale nei soggetti fumatori rispetto ai
non fumatori.
Sulla base dei dati fin qui esaminati, il professionista del settore dentale (odontoiatra e
igienista dentale) non può non sentirsi impegnato in prima persona nello stimolare il
paziente fumatore nel collaborare con esso affinché questi si astenga da tale pericolosa
abitudine. Tale impegno può essere facilitato illustrando al paziente i gravi effetti negativi
che tale fattore è in grado di manifestare, nonché i benefici derivanti dall’abbandono di tale
60
abitudine. Attività di counselling devono quindi essere riconosciute come strumento a
propria disposizione e facenti parte del proprio armamentario terapeutico al fine di
migliorare o assicurare la buona riuscita dei propri trattamenti. A conclusione potrebbe
essere utile riportare un semplice schema proposto da Pizzo e coll. (2009) applicabile nella
routine clinica degli ambulatori odontoiatrici:
•
Informarsi sulle abitudini del paziente riguardo al fumo e dove possibile aumentarne
la motivazione alla cessazione (fuma?, quanto fuma?, da quanti anni?, che tipo di
tabacco?).
•
Valutare la dipendenza del paziente dalla nicotina (dopo quanto tempo dal risveglio
accende la prima sigaretta? Vedi test di Fagerström).
•
Fornire un counselling di supporto (indicare i danni prodotti dal tabacco a livello dei
vari organi, enfatizzare i benefici ottenibili con la cessazione, ricordare i problemi
legati al fumo passivo).
•
Incoraggiare l’uso di farmacoterapie per ridurre i fenomeni di astinenza.
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