Truciolo aspetti dell`industria del truciolo in conv. Bert…
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Truciolo aspetti dell`industria del truciolo in conv. Bert…
ASPETTI DELL’ “INDUSTRIA” DEL TRUCIOLO di Luciana Nora Introduzione L’arte del truciolo consisteva nel trarre dai tronchi di salice e di pioppo opportunamente coltivati, delle paglie sottili (trucioli) uniformi per spessore, larghezza e lunghezza. Le paglie ottenute venivano poi intrecciate e andavano a formare una lunga fettuccia che esperte cappellaie, sia manualmente che a macchina, utilizzavano per confezionare cappelli. Dal momento che la paglia andava a formare l’intreccio, mutava il suo nome in “filo”, cosicché, a seconda del numero di paglie utilizzate, la treccia piatta assumeva la denominazione tecnica di “3 fili”, “5 fili”, ecc. Oltre all’intreccio piatto ve n’erano altri estremamente complessi che generalmente erano denominati “fantasia” ma, a seconda delle caratteristiche, avevano ognuno un nome specifico. La trattura delle paglie, fino alla messa a punto di un mezzo meccanico, macchina “Bellodi” (1817), richiedeva una forza e una costituzione fisica maschili e, anche dopo l’avvento di detta macchina, questa operazione rimase tradizionalmente una prerogativa degli uomini. All’intreccio e alla confezione del cappello attendeva manodopera femminile. Fino a quando l’arte fu governata dal regime di privativa, pagliaro, trecciaia e cappellaia furono figure professionali altamente specializzate e selezionate, sia che fossero impiegate nel lavoro di fabbrica o in quello a domicilio. Il prodotto che da Carpi veniva collocato sulle piazze del mercato interno ed esterno, era prevalentemente la treccia ed, in misura assai inferiore, il cappello, così come si desume da svariate fonti ma soprattutto dai bollettini della camera di commercio di Modena (1). Trecce e cappelli erano due prodotti chiaramente diversi per le implicazioni a carattere organizzativo – produttivo. L’estrazione delle paglie ed il successivo intreccio erano operazioni che non necessitavano di strutture o strumenti complessi, e l’intreccio specialmente era eseguito sempre a domicilio. La treccia si collocava su vari mercati come una delle tante materie prime lavorate, utili per la produzione di cappelli od altro che venivano eseguiti lontano da Carpi. La diffusa lavorazione delle trecce serviva quindi di supporto ad aziende straniere specializzate in confezione di cappelli sia estivi che invernali, prodotti con materiali diversi (2). Ed erano proprio queste industrie produttrici che determinavano gli andamenti della moda, anche in relazione a valutazioni di carattere economico e qualitativo per cui, se un materiale impiegabile risultava caro e scadente, ovviamente era scartato. L’arte del truciolo, la cui struttura ed intima logica erano contrarie a quelle tipicamente industriali, si configurava quindi, innanzitutto, come un “terziario”, nemmeno troppo avanzato, poiché le trecce o i cappelli grezzi prodotti in area carpigiana e limitrofa non erano indirizzati direttamente alle case produttrici di cappelli, ma passavano attraverso intermediari che, a loro volta, erano in grado di influire sull’andamento del mercato, ovviamente in relazione al loro tornaconto. Luigi Bologna scriveva a tale proposito nel 1899: “Prima i commercianti di detta merce trattavano direttamente coi clienti di qualsiasi paese, e il guadagno essendo molto superiore, ne ritraevano maggior utile anche gli operai. Ora i cosiddetti fabbricatori, cambiandosi in mediatori, e non avendo altro che la briga di ricevere e spedire, non fanno che diminuire di molto il prezzo della merce tutto a scapito del lavoratore e commerciante. Ne venne di conseguenza che molti si diedero a questo commercio facendosi reciprocamente concorrenza, a solo vantaggio dei mediatori esteri e a scapito di quelli che costretti a vivere di questo lavoro riescono appena a ricavarne tanto da potersi sfamare” (3). A conferma di queste considerazioni, si possono ricordare le moltissime lettere del carteggio privato Pederzoli dalle quali si hanno dati sul funzionamento dei mercati di Londra, Parigi, New York. Francesco Pederzoli inviò più volte il figlio Luigi, sia a Londra che a Parigi, per trattare direttamente con i commercianti – mediatori di prodotti utili alla confezione dei cappelli e, tramite lettere e telegrammi, era in contatto quotidiano con lui per essere informato sull’andamento del mercato, sui prezzi praticati dagli altri “commercianti” o “mercanti” carpigiani, sui tipi di treccia prodotti ed anche sul carattere dei commercianti – mediatori londinesi e parigini, nonché sulle possibili tattiche da usare nel trattare affari con loro. Ad esempio, si apprende come fosse difficile il mercato di New York, e come, volendo spedire materiale direttamente colà, senza passare per Londra, si dovesse tenere conto dei prezzi praticati sulla piazza di Londra, al fine di non irritare i commercianti – imprenditori londinesi, capaci di ritorsioni in grado di compromettere un’intera stagione (4). Questo stato di cose si protrarrà fino alla fine del truciolo. E’ interessante apprendere che i referenti all’estero della Società Anonima “Il Truciolo”, costituita come si vedrà da Bertesi, erano gli stessi Kurtz, Gregory, Raban, Zimmerman, con cui aveva a che fare il Pederzoli, ed è curioso constatare che Bertesi, nel 1906, espresse giudizi simili a quelli che Luigi Pederzoli aveva formulato anche con maggior acutezza nel 1881. Sul Giornale e memorie economico – finanziarie di Alfredo Bertesi, il 9 gennaio 1906, si legge: “Kurtz è un calcolatore esatto ed un negoziante che non si commuove. Lo credo un compratore soltanto al ribasso”(5). Mentre Luigi Pederzoli in una lettera al padre, datata 15 ottobre 1881, scriveva: “[…] Ci vuole una politica stragrande a trattare gli affari con Kurtz, egli vi cambia parola 10 volte al minuto e per avere un’offerta bisogna prima fare tutte le mosse come un bravo giocatore di dama e dargliene da mangiare una poi mangiarne due. Non ho mai incontrato un farabutto simile” (6). E’ fuor dubbio che gli sforzi per trasformare la diffusa attività artigianale del truciolo in “industria” siano stati cospicui e che, per oltre un decennio, i fautori di questa trasformazione e quanti vi erano impegnati abbiano creduto di essere sulla buona strada. La meccanizzazione del sistema di estrazione delle paglie, la cucitura del cappello, la tintura delle trecce accentrate negli stabilimenti erano un fatto nuovo e importante, anche se appariva eccessiva l’ambizione di poter competere con industrie che per tradizione, esperienza, tipo di produzione, collocazione ed entratura erano superiori a quella carpigiana. Questa era poi impegnata prevalentemente su una monoproduzione, il cappello di treccia di truciolo, estremamente suscettibile ai dettami della moda che si decideva lontano da Carpi, e che doveva sopportare l’inconveniente della facilità al deterioramento nonché tutti i problemi legati ad una produzione che rischiava di farsi sempre più scadente. A danneggiare poi questo avvio di industrializzazione va ricordato che non occorse molto tempo perché anche l’artigiano fosse in grado di attrezzarsi dei nuovi, non troppo complessi macchinari ed entrare quindi in concorrenza con la “fabbrica”, evidenziando il problema del sovradimensionamento delle imprese più grandi che, specie nei momenti di crisi, tolleravano faticosamente i costi di ammortamento dei grandi locali e dei macchinari. Si poteva così verificare che il pesce piccolo fosse in grado di mangiare quello grande. E fu proprio in concomitanza della crisi del 1907 – destinata a protrarsi fino allo scoppio della prima guerra mondiale durante la quale l’industria del truciolo si trasformò in industria mimetica di cui si dirà più avanti - che il lavoro in fabbrica subì un ulteriore contraccolpo: fu inventata una piccola rudimentale macchinetta manuale, detta “slissein”, per la cilindratura delle trecce, che, distribuita a tutte le trecciaie, le costrinse volenti o nolenti, a caricarsi di ulteriore lavoro a domicilio eliminando così un’operazione che tradizionalmente era sempre avvenuta in fabbrica (7). I fattori determinanti le fortune del truciolo Vari fattori concorsero alle fortune del truciolo nel carpigiano: - la posizione geografica di Carpi, collocata in una pianura estremamente fertile tra le provincie di Modena, Reggio e Mantova, dove gli spostamenti delle merci utili alla produzione erano agevoli (8) e dove, concentricamente, era facile allargare o restringere il raggio produttivo a seconda delle esigenze; - l’organizzazione sociale del territorio coinvolto ove era dominante un’economia agricola in cui l’appoderamento si era sviluppato già dal ‘700, con conseguente incremento demografico e diffusione della mezzadria, terzeria, boaria, nonché con una massiccia presenza di bracciantato utile nel lavoro dei campi e delle risaie della valle, e, in particolar modo, nell’incessante sforzo di bonifica (9). Carlo Cogliati nel 1913 affermava: “nella lavorazione della treccia e dei cappelli di truciolo sono così occupati avanti tutto i lavoratori dei campi specialmente delle provincie lungo il Po; poi i braccianti ed i muratori nelle provincie di Modena, di Reggio, di Parma, di Mantova, di Verona, di Rovigo, di Ferrara durante la morta stagione; infine gli operai degli stabilimenti del carpigiano” (10); - la rigogliosa e spontanea crescita, su tutta l’area compresa, della materia prima: salice (salix alba) e pioppo (populus tremula); - la scarsa dimensione degli investimenti richiesti dalla lavorazione del truciolo che, essendo tipicamente artigianale, necessitava piuttosto, di una capillare, estesa e ben organizzata rete di lavoro a domicilio, da intendersi sempre come sussidiario (11); - la capacità di detenere il monopolio del commercio di un prodotto tipico, ideato in loco; monopolio non facile da conservare, soprattutto dopo la caduta della privativa, e che, gradualmente, proporzionalmente all’estendersi dell’area produttiva e in relazione alla quantità della produzione, tendeva a sfuggire (12). L’entrata diretta di altri centri sui mercati nazionali ed esteri rimase marginale per molti anni, pur avanzando inesorabilmente. Il periodico nazionale di informazione e pubblicità “La Gazzetta dei Cappellai” (13) che, fino al numero di gennaio – febbraio 1920, presentava Carpi quale unico ed importante centro di produzione del truciolo (14), nel giugno 1921, proponeva assieme a Carpi anche Villarotta e Suzzara (15); - L’altissimo impiego di manodopera femminile e minorile che consentiva di abbassare ulteriormente i costi del lavoro (16). In merito al lavoro minorile, in una relazione/proposta intorno all’istruzione elementare nel Comune di Carpi, presentata in Consiglio comunale nella sessione ordinaria di primavera del 1871, si legge: “[…] Da noi per altro si andrebbe a pericolo di avere nelle scuole uno scarso numero di alunne senza introdurre nel tempo stesso l’insegnamento del truciolo. Ed ecco perché la Giunta nel suo conto morale del 1872 vagheggiò assieme alla scuola mista l’idea dell’insegnamento del truciolo alle femmine durante le ore in cui vengono istruiti i maschi. E il Consiglio stesso mostrò di (con)dividere tale opinione, quando approvando la proposta di aprire a Gargallo una scuola mista, deliberò pure la nomina di una coadiutrice del truciolo. […] E’ incaricata la Giunta di aprire un concorso ai posti di maestra nelle ville di Cortile, Migliarina e San Marino. Per ognuna delle tre suddette scuole è delegata una coadiutrice… col salario di L. 120” (17). Ma ancora nel 900 nulla appariva mutato e, sulle pagine di “Luce”, Aristide Loria denuncia uno sfruttamento minorile brutale (18) per giustificare il quale, più avanti verranno elaborati presupposti “pedagogici”. In un manoscritto di Giovanni Bertacchi, Un’Arte Italica – il Truciolo – cronaca di una visita agli stabilimenti “Il Truciolo” guidata dallo stesso Bertesi – v’è un paragrafo titolato: Froebel e il truciolo nel quale si legge: “Né Sit (Società il Truciolo) provvede solo a coprire il capo degli uomini, ma anche a formar loro il cervello.” “Che intende dire Onorevole?” […] Sapete cosa sono tutti questi oggettini da bambola? Sono campioni di lavoro Froebeliani, coi quali i piccoli scolari, baloccandosi, imparano per via de’sensi ciò che sarebbe difficile insegnare loro a parole. Ai bambini si dà del nostro truciolo, ed essi copiando i modelli forniti da noi, si tramutano in piccoli operai lavorano divertendosi, conoscono per tempo la gioia di vedere dalle proprie mani uscire un oggetto qualsiasi […]” (19). Vi è poi da dire che il lavoro minorile era tanto diffuso da configurarsi come una seria minaccia per il lavoro degli adulti (20); Aristide Loria (21) evidenziava all’inizio del secolo come questa ingente quantità di produzione sottopagata esercitasse sul mercato lo stesso negativo effetto di quello dei carcerati (22). Al primo Congresso delle Organizzazioni delle Trecciaie, tenutosi in Carpi il 29 gennaio 1905, tra gli ordini del giorno discussi figurava anche questo: “Ritenuto che uno degli ostacoli maggiori alla soluzione delle crisi che colpiscono periodicamente le industrie del truciolo, con grave danno delle lavoratrici, sia il lavoro mal pagato dei minorenni…” (23); - L’essersi l’industria del truciolo, configurata non come portante, bensì sussidiaria, naturalmente capace di coniugare i suoi tempi produttivi con quelli dell’agricoltura, paradossalmente precaria, pur tuttavia essenziale per la totalità della gente che vi lavorava e ne traeva una integrazione salariale (24). Da “Luce”del 12-13 gennaio 1907: “E’ risaputo che la lavorazione del truciolo è sussidiaria all’industria agraria e, come tale nelle zone in cui essa è stata introdotta è mezzo potente per combattere la disoccupazione che si verifica nelle stagioni morte nei lavori dei campi”. Nel marzo del 1907 gli industriali carpigiani scrivono su “L’Unione Costituzionale”: “Nel nostro paese non già industriale ma eminentemente agricolo, l’industria del truciolo si presenta come ausiliaria all’agricoltura. Ed è per questo che il paese è ricco e prosperoso: ma se l’operaio pretenderà di guadagnare nei sei mesi d’inverno […] quanto gli basta per l’anno intero… sbaglia il calcolo; l’industria non può sopportare questo aggravio”. Ed è ancora da “Luce” del 17 settembre 1910: “Una numerosa popolazione che nella lavorazione del truciolo ha ricavato fino ad ora un discreto peculio il quale ha sempre servito ad arrotondare l’altra parte di magro salario guadagnato nei lavori di campagna”. Questa sussidiarietà e le modalità del lavoro a domicilio, incapace di una organizzazione rivendicativa reale, rendono questa manodopera estremamente duttile, facilmente arrendevole e strumentalizzabile: mai uno sciopero o dimostrazioni sul tipo di quelle avvenute in Toscana dove le operaie a domicilio, stanche del “bizantino” sfruttamento, arrivarono ad entrare nelle fabbriche impedendo il lavoro delle operaie interne e distruggendo quanto più poterono (25). Le cose non cambiarono mai sostanzialmente e a chiarirlo è “Luce” stessa in un articolo del 25 settembre 1920: “Da moltissimi anni nel periodo estivo, gli operai stretti e solidali nelle loro organizzazioni si sono costantemente incontrati con gli industriali, hanno discusso con calore i loro memoriali, conseguiti metodici e costanti miglioramenti […] Mai uno sciopero, nessuna azione o reazione vera e propria è venuta ad intorpidire i rapporti delle parti tante volte in contesa”. Arturo Marchi sulle pagine di “Luce” del 4 dicembre 1905 scrive: “Da un pezzo andiamo predicando ai lavoratori del truciolo che essi hanno il dovere di scuotere la loro deplorevole apatia […] Ai lamenti contro il rinvilimento dei prezzi della mano d’opera, contro tutti i bassi salari, contro gli sfruttamenti degli intermediari, abbiamo risposto: - Organizzatevi! Divisi non siete nulla, siete impotenti […] – Ebbene il proletariato industriale di Carpi parve qualche volta ascoltare le nostre parole, ma svanito l’eco di esse e passati i bollori dell’entusiasmo, e, più che altro, passata la crisi, gli operai tornano a sbandarsi come prima, l’uno contro l’altro”. Al profilarsi della crisi del 1907, Gildo Cioli, segretario della Camera del Lavoro di Carpi, in risposta a Nicodemo Gasparini che aveva tentato una analisi della crisi addebitandola ad una sovrapproduzione che aveva determinato lo scadimento del prodotto e il suo inflazionamento sul mercato, scrive: “Si tratta di limitare la diffusione dell’industria, si tratta di dire – a chi stando male sogna con la lavorazione del truciolo di stare un po’ meglio: - il tuo sogno è dannoso a noi tuoi fratelli; tu non devi lavorare […] come noi! Ed è un po’ difficile che chi sogna, intenda; anche perché molto spesso se egli non ha fame ha dei bisogni urgenti… Esiste anche da noi la Camera del Lavoro che […] si incaricherà di dimostrare, per esempio, come non sia giovevole ai fratelli abbandonare il lavoro della terra […] Ed occorre anche […] volgere l’occhio al nemico che non deve essere lasciato a vivere in pace a spese dell’industria: la proprietà fondiaria” (26). I fattori destabilizzanti Dalla caduta della privativa in poi, le ragioni delle ricorrenti crisi del truciolo si trasformarono. Se in passato, in un regime di produzione controllato rigidamente e in ragione anche di una ristrettezza di consumo sociale, le flessioni erano addebitabili esclusivamente ai capricci della moda, col nuovo corso di liberalizzazione produttivo e commerciale poté entrare in campo una moltitudine rilevante di neo – imprenditori, figure intermedie e lavoranti (27) con conseguenze del tutto nuove sia sul fronte della produzione che su quello del mercato. Sul fronte produttivo si ebbe: 1. un notevole aumento della produzione indipendentemente dalla richiesta; 2. un lievitare progressivo del prezzo della materia prima, il salice (28), in ragione delle difficoltà di reperimento in relazione alla aumentata richiesta (impossibile sovvertire le leggi naturali della crescita arborea). La soluzione fu quella di trovare un sostituto del pioppo che, in breve, si rivelò essere di qualità inferiore; 3. un notevole impiego di manodopera, per altro a domicilio, che riduceva il controllo della qualità produttiva a tutti i suoi livelli. Sul fronte del mercato si verificò: 1. un aumento consistente e pressante della concorrenza tra i vecchi e abili mercanti – imprenditori locali con quelli nuovi sulle piazze tradizionali, tanto da indurre a reperirne sempre di nuove; 2. un mercato intasato da un’offerta che superava la richiesta, la quale si ridusse drasticamente non appena i compratori si accorsero che il truciolo posto sul mercato ai prezzi di sempre, era un surrogato di quello tradizionalmente conosciuto e non si poneva più come prodotto esclusivo. A quel punto per il truciolo, la condizione per conservarsi uno spazio sul mercato era quella di riconoscere di fatto il suo scadimento abbassando il prezzo. Ed il nuovo mercato rimbalzò i suoi umori sul fronte produttivo determinando i seguenti effetti: - la manodopera impiegata in ogni sua fase di lavorazione, contrariamente alle nuove ed incalzanti idee - ispirazioni sociali, si dovette rassegnare a vedersi ridotti progressivamente e sensibilmente i compensi (29); - il truciolo in questo modo si configurava sempre più come attività sussidiaria e i margini di guadagno degli imprenditori riuscivano a salvaguardarsi attraverso la ricerca continua di zone vergini in cui fossero possibili ancora più bassi compensi da contrapporre poi, a livello contrattuale, nelle aree tradizionali (30), salvo ovviamente accontentarsi di una professionalità raffazzonata, cosicché ne sortiva una produzione qualitativamente sempre più svilita. Uno tra i primi imprenditori ad avvertire questo pericoloso stato di cose fu Giuseppe Menotti che, nel 1879, uscì con una circolare indirizzata alle incettanti del truciolo: “La concorrenza dei nuovi fabbricanti, nell’intento di farsi strada e di guadagnare clientela nei luoghi di consumo, ha percorso una falsa strada. Poiché se da un lato, mediante facilitazioni nelle condizioni di vendita si può ottenere abbondante sfogo, è necessario che la merce possegga sempre quelle qualità atte a renderla bene accetta in commercio. Pare che questa verità sia stata misconosciuta, giacché i Mercati Esteri si trovano ad un tratto inondati di un articolo spregevole sono tutti i rapporti, sia per manifattura, sia per colore […] e sia infine per mancanza di misura delle pezze di treccia. Il truciolo è un articolo di nessunissima necessità ma bensì di puro lusso; e ognuno vede che, bistrattato dai produttori, è irrimediabilmente condannato” (31). A nulla dovette valere il monito – diffida di Giuseppe Menotti e, nel 1892, il 20 marzo, sulle pagine de “Il Truciolo”, comparve il seguente articolo: “Leggiamo sul Panaro di Modena del 16, che la camera dei cappellai di paglia in Parigi, mandava giorni addietro rimostranze alla Camera di Commercio di Modena perché volesse interessarsi presso il nostro Sindaco ond’egli colla sua autorità volesse far cessare l’inconveniente che le trecce, le quali dai nostri fabbricanti si spediscono colà, siano di misura inferiore alla prescritta”. Ed il problema continuò a trascinarsi, come induce a credere una circolare analoga a quella del Menotti, datata 31 Agosto 1906, redatta da vari imprenditori carpigiani e indirizzata a tutti i produttori di trecce di truciolo (32). Lino Incerti e Fermo Andreoli nel 1907 sulle pagine di “Luce” facevano questa analisi: “La lavorazione delle paglie non ha più le cure di una volta, come non ne ha la scelta del legno; manca la rigorosa selezione, perché è la quantità che si cura, non la qualità e tutti i legni devono servire a fare ciò che occorre […] Da noi […] quando si aveva un tempo di cura e di riguardo (i nostri vecchi ce lo ricordano) per l’intreccio e la pulizia delle trecce, oggi si è volto in opposto […] offriamo al mondo lo spettacolo più indecoroso ed indecente. Rarissime eccezioni fatte, non diamo mai la misura offerta; più spesso la nostra deficienza raggiunge una percentuale altissima dal 25 al 35% […] questa nostra colpa non ha attenuanti, né diritto ad alcuna scusa, mentre ha disgustato tutta la clientela senza eccezione” (33). Bertesi e le vicende del truciolo Il primo ingresso ufficiale di Alfredo Bertesi nel settore dell’imprenditoria del truciolo è databile al 12 gennaio 1901, quando, presso l’albergo del Tamburo di Carpi, si tenne una “importante assemblea degli industriali del truciolo”; presenti 24 imprenditori, 4 si fecero rappresentare, 7 aderirono senza intervenire, 7 non aderirono e non scusarono la loro assenza. Così il canonico don Ettore Tirelli nella sua Cronaca Carpigiana ebbe a commentare l’evento: “Perché di questa assemblea? – La politica non è estranea! L’On. Bertesi, fin ad ora fornaio, mira al monopolio di questa ricca industria; scopo: il maggior incremento di essa, l’interesse degli operai non escluso il proprio. Evitiamo quindi la concorrenza; uniformiamoci ne’ sistemi della lavorazione; siamo concordi; uniamoci in associazione” (34). Seguì una seconda convocazione il 12 gennaio 1901; oggetto della discussione: modalità della compravendita delle trecce. Fu in quest’ambito che Bertesi propose la fondazione di un’Associazione fra gli industriali truciolanti; la proposta venne accettata ed immediatamente fu istituita una commissione col compito di redigere uno statuto: Bertesi fu fatto presidente (35). Seguirono altri incontri ma questa associazione, appena nata, chiamata al raduno il 12 febbraio dello stesso anno, mancando l’accordo degli industriali, “muore in un fiasco”, come ebbe a commentare lo stesso Tirelli (36). L’anno chiave per il truciolo e per Bertesi fu il 1904. Il 25 settembre 1904 si costituì la Società Anonima “Il Truciolo”. I soci di questa impresa erano: Pontremoli ing. Giuseppe (37), domiciliato a Milano, industriale; Ruffini dott. Pietro, domiciliato a Carpi, industriale; Bertesi deputato Alfredo, domiciliato a Carpi, commerciante. Il capitale sociale di questa di questa società era di L. 200.000, divise in 800 azioni così ripartite: 400 a Pontremoli Giuseppe (38), 200 a Ruffini Pietro, 200 a Bertesi Alfredo. La sede sociale della società era a Milano e, il 23 ottobre 1912, si trasferì a Carpi. Il capitale iniziale di L. 200.000 aumentò in questo modo: il 26 novembre 1906, L. 1.250.000; il 25.5.1910, L. 1.500.000; il 17 novembre 1911, L. 1.750.000; il 23 ottobre 1912, L. 2.400.000. Il capitale sociale della “Truciolo” rimase invariato sicuramente, rispetto all’ultima cifra sopra riportata, fino al 29 marzo 1920. L’iniziativa di Bertesi suscitò vive polemiche negli ambienti interessati alla lavorazione del truciolo, e Bertesi fu oggetto di aspri attacchi. Ma che cos’era che urtava, che intimoriva ed induceva a tanta aggressività gli oppositori di Bertesi? L’idea di costituire una società tra gli industriali carpigiani non era propriamente originale; e già nel 1879 vi era stato un precedente. In una relazione manoscritta di Francesco Pederzoli, indirizzata ai membri del Consorzio Industriale per la fabbricazione del Truciolo, istituito il 15 settembre 1879, si legge: “Secondo il mio modo di vedere il Consorzio da due mesi e mezzo istituito […] non è quella istituzione che sia veramente adatta a rilevare l’industria che ancora fiorente due anni or sono, trovasi attualmente decaduta […] Per migliorare sensibilmente […] occorrerebbe un mezzo radicale […] questo mezzo molti degli industriali non lo comprendono, altri quantunque lo comprendevano, dicono è una pianta che non è ancora matura, infine havvene di quelli che possono far senza di qualunque società collettiva e direi quasi anche dell’attuale consorzio […] le misure che dovettero adottare molte altre industrie della Lombardia e del Piemonte che quantunque dissimile alla nostra pure sono affini; il Lanificio Rossi, il Cotonificio, il Linificio, il Canapificio […] credettero necessario di associarsi in seguito alla concorrenza che da se stessi non potevano a meno di farsi stando divisi, di maniera che era una rovina per i piccoli fabbricanti, ed una fonte di lucro incessante per gli industriali più facoltosi che non potevano sostenere la concorrenza dei primi, perché non avendo questi le ingenti spese inerenti ad una fabbricazione in grande” (39). Più tardi il rag. Luigi Bologna, chiamato ad assolvere il ruolo di procuratore generale alla ditta L. Benzi nell’ottobre del 1897, circa due anni dopo la nomina, pubblicò alcune considerazioni sul commercio del truciolo (40) e concludeva suggerendo: “In Carpi trovansi molte fabbriche di truciolo, alcune che lavorano in grande, la maggior parte in piccolo. Ora, dico io, se tutti questi commercianti considerando bene le loro forze, ricordando il proverbio: “l’unione fa la forza” pensassero di amalgamarle tutte in una ne sentirebbero immenso vantaggio e la sorte dei truciolanti sarebbe assicurata […] Si formi una società intitolata: - Società Nicolò Biondo per il commercio del truciolo – Carpi – con marca unica e relativa […] si tuteleranno gli interessi di tutti coloro che sono impegnati in detto commercio”. E’ possibile che Alfredo Bertesi, entrato o subentrato nella Benzi negli anni dal 1901 al 1902 (41), si sia mosso sull’ispirazione di quest’ultima proposta che il Bologna non ebbe a sviluppare poiché, intanto, era prematuramente deceduto. Tornando all’irritazione che gli altri industriali carpigiani mostrarono di fronte al nuovo trust realizzato con capitali “forestieri” (42), è probabile che essi temessero di rimanere schiacciati; e questo timore li rendeva più comprensivi verso la formazione di cooperative (43), anche se di ispirazione socialista. Inoltre v’era una componente campanilistica unita a disorientamento, dispetto e sospetto. Sull’ “Unione Costituzionale” del 3 agosto 1906 si legge: “Noi vecchi industriali che parte siamo arrivati al posto che occupiamo per il nostro assiduo lavoro e abbiamo ereditato dai nostri genitori, per opera dei quali una volta Carpi nuotava nella ricchezza, […] non possiamo soffrire che un impiegato qualunque, sia pure esso pagato a diecimila lire, s’arroghi il merito d’aver migliorato lui solo le sorti del truciolo che da due o tre anni era in crisi […] Egli si fa dire “il cooperatore disinteressato” dell’organizzazione nostra di lavoratori in truciolo: l’uomo che col suo fine atto ha condotto l’organizzazione nostra sulla soglia di conquiste insperate […] Egli credeva e crede tuttora di poter monopolizzare l’industria ed è per questo solamente che egli diventa il cooperatore molto poco disinteressato […] lo protesto contro l’improntitudine di un fornaio che vorrebbe strappare il merito che ci spetta per i lunghi anni di lavoro nella nostra industria, protesto perché sembra che noi non paghiamo gli operai come lui o meglio di lui […] non è onesto, non è serio, non è giusto che si rubi tutto il merito che possono avere gli industriali onestissimi e laboriosissimi per farsene un piedistallo per salire a Montecitorio”. Ed ancora, sempre sull’ “Unione Costituzionale” del 23 agosto 1906: “Quando il capitalismo si difende è una piovra, un organo di odioso sfruttamento, una vile spogliazione operata impunemente a danno della società. Quando fonda industrie esso impianta il furto a danno degli operai; se compie iniziative e lavori importanti, succhia il sangue dei lavoratori che espone al rischio ed al pericolo […] Qualora contribuisca alla pubblica beneficenza compie un lavoro di corruzione, inquina le coscienze […] Il capitale è uno strumento di pervertimento sociale, il capitalista è un iniquo rappresentante delle infamie sociali. Ma se capitale e capitalisti si appoggiano a socialisti e scelgono per loro sostegno un fior di apostolo socialista, che pur viva da ricco borghese, allora nessun fastidio al capitale ed al capitalista”. Il quesito posto incessantemente a Bertesi era: “[…] Come faccia egli a conciliare la sua qualità di rappresentante stipendiato e difensore cointeressato dell’industrialismo capitalista a quella di rappresentante e difensore del proletariato […] Se Bertesi deputato socialista dovrebbe fare ogni sforzo perché ai lavoratori fosse data la maggior parte possibile dei profitti, Bertesi stipendiato dai padroni dovrebbe cercare in ogni modo che la maggior parte rimanesse ai capitalisti” (44) E’ comunque l’aver preso parte attiva nella costituzione di questa società anonima che contrassegna in modo decisivo e fondamentale la figura di Bertesi ed il suo operato (45). Egli stesso, questa commistione, la utilizzò in termini di propaganda politica (46), e per la sua attività imprenditoriale trovò ragioni ideali, che venivano invece confutate dagli oppositori, anche di area socialista. Alfonso De Pietri Tonelli nel 1906 lo attaccò violentemente chiedendo tra l’altro: “E’ vero o non è vero che l’on. Parvenu, entrato a far parte come cerbero dei quattrinai e come capitalista, di quell’industria feroce […] che fa lavorare per 12 -13 ore dei bambini di 6-7 anni e delle donne con un salario di 50 centesimi […] invece di agevolare un movimento operaio cooperativo, si mise dalla parte dei padroni, e contribuì e contribuisce con tutta la sua abilità di consumato mercante a quell’accentramento trustaiolo che ribassa i salari ed accresce la disoccupazione, mentre i profitti dell’impresa sono sempre più floridi?” (47). Invece Enrico Mastracchi, neo segretario della Camera del lavoro di Carpi così celebrava nel 1908 l’azione di Alfredo Bertesi sulle pagine dell’”Avanti!”: “Ecco dunque Alfredo Bertesi lanciato nell’affannoso lavorio per dar vita, con l’industrialismo locale trasformato, alla formazione di un proletariato che forte della fede inculcatagli da una paziente e lunga propaganda dovrà battersi con organismi sani e robusti ai quali sarà lecito chiedere i miglioramenti necessari alle quotidiane esigenze della vita ed ai quali sarà possibile un giorno ottenere le conquiste degli ingranaggi, in omaggio alle nostre leggi morali del comunismo della produzione […] Con lo sviluppo e la trasformazione dell’industria e relativa creazione del proletariato sorsero le leghe fra un generale entusiasmo. Leghe che al loro inizio smussarono molte angolosità costituitesi nelle stesse file dell’artigianato a causa dei molteplici rami di mestiere a cui ciascuno […] doveva assoggettarsi con grave danno degli altri compagni. Di modo che l’organizzazione formò le categorie, affratellando la massa lavoratrice e abbattendo ogni concorrenza. Immediatamente dopo sorsero le tariffe con i relativi concordati che si rinnovano ogni anno […]” (48). E’ reale il quadro della situazione tratteggiato da Mastracchi? Dalle fonti scritte ed orali la situazione che emerge è assai complessa e contraddittoria e la realtà percepibile è di latenti e incessanti contraddizioni: 1. tra lavoratori di fabbrica e lavoratori a domicilio; 2. tra città e campagna, tra carpigiano e territorio limitrofo; 3. tra manodopera dell’Estremo Oriente e manodopera locale a cui la lavorazione del truciolo aveva, fino a quel momento, fatto riferimento. Relativamente al primo punto è Bertesi stesso che, nell’ambito della contrattazione con le cilindratrici nell’agosto del 1905, scrisse a Arturo Marchi: “Dato che la mercede dell’annaspatrice varia da 2 a 4 lire il giorno e quella della trecciaia da 0,5 a 1,00, la annaspatrice con orario limitato e senza o brevissimo apprendisaggio, queste con orario illimitato; […] Se la ditta o più ditte aprissero un concorso al posto di annaspatrice credete voi che la solidarietà operaia di tutte le donne di Carpi e di fuori farebbe mancare le annaspatrici ai bisogni dell’industria!” (49). Relativamente al secondo punto si può ricordare che l’impresario Loria inviò nel 1906 una maestra trecciaia di Minerbio, scatenando la protesta della Commissione Trecciaie di Carpi e della pubblica opinione (50); e che i pagliari carpigiani nel 1906, per ovviare alla concorrenza di quelli di Villarotta, dichiararono di essere disponibili a praticare gli stessi prezzi per la stessa merce (51). Quanto al terzo punto, in uno stampato del 1911 degli industriali di Carpi rivolto agli operai, tra cui firmatari vi è anche “Il Truciolo”, si legge: “Pare che la Lega ignori che l’industria del tagal è in discesa impressionante […] Il Giappone ha la mano d’opera da 15 a 30 centesimi il giorno, non ha assicurazioni di operai, difese igieniche, spese di fabbricati ecc. Esso lavora in baracche di legno con operai sobri, ai quali basta un pugno di riso ed un bicchiere di acqua e miele… Prima di venire a risoluzioni estreme gli industriali hanno pubblicata una tariffa offrendo alle operaie per nove ore di lavoro L. 1,50 al giorno. Certo che da 2,15 a 1,50 il salto è sensibile ma è certo che gli industriali offrono più di quello che potrebbero… Coloro che ragionano sentono che il danno grave è la mancanza di lavoro, non la mercede moderata… Ma forse che le trecciaie, gli stessi pagliari, non hanno dovuto forzatamente ridurre il loro salario che era assai più basso di quello delle trecce a macchina? [...] Persuasi che se non qui altrove l’industria del tegal può essere ancora di sollievo […] noi fidiamo […] nel buon senso degli operai” (52). Quest’ultima componente concorrenziale evidenzia, tra l’altro, come, nell’ambito della lavorazione del truciolo ed affini, fosse per buona parte superflua, se non addirittura ingombrante, la struttura industriale tradizionalmente intesa e come l’industria carpigiana stesse ripalesando la sua propensione a configurarsi prevalentemente come polo commerciale. Contadini e braccianti si ponevano di fronte al truciolo in modi estremamente diversi: per i contadini il truciolo rappresentava una risorsa supplementare; per i braccianti disoccupati nei mesi invernali, incapaci del benché minimo accantonamento pecuniario, il truciolo rappresentava l’unica risorsa. Quest’ultima categoria, sicuramente più combattiva, si opponeva alla prima. Il ricatto era poi incessante e subdolo, partiva dall’alto, anche se le responsabilità di chi lo manovrava si stemperavano in mille ragioni incomprensibili ai più e, tacitamente, era fatto gestire da intermediari come i partitanti, i mediatori, i piccoli artigiani, ecc. A questo proposito sono interessanti le testimonianze orali raccolte: “[…] Lei (la partitante) aveva quelle che ci andavano, quelle che aveva nella manica, le preferite. Le mandava a casa la sera, di notte, con tante paglie e loro poi erano anche contadine che il mangiare lo avevano. Se c’era una camaranta che aveva un po’ di lingua, da dire: - Dio bono, come è pagato male quel cappello! – allora lei ci andava solo quando era presa per il collo […] La camarante aveva più lingua”. “Noi che il mangiare ce l’avevamo, lavoravamo solo per prendere un vestito, le scarpe, qualcosa […] invece le camarante lavoravano proprio per prendere da mangiare […] Noi venivamo a casa la sera per una stradina di traverso, ma tardi con delle paglie o coi cappelli fatti […] che non ci vedessero, se no, ci mangiavano […]”. “Perché loro non dicevano mai niente, gli andava bene quello che gli dava, invece la bracciante reclamava di più […]”. “C’era anche una cosa […] andavano nelle stalle dei contadini (per ripararsi dal freddo e lavorare) allora se vedevano una contadina lavorare e loro non avevano niente da fare, brontolavano […]” (53). Gli operai e la fabbrica Delle ditte presenti in Carpi alcune erano consolidate altre no, per cui il loro numero oscillava. Nel 1895 erano 26 con una media di 20 operai per ciascuna (54) e nel 1901 erano 40 (55); nel 1906 il numero si era abbassato a 30 (56), ma va considerato che alcune aziende importanti come la “Giuseppe Menotti” e la “Cesare Tirelli” erano confluite nella società anonima “Il Truciolo”. Nel 1914 si contavano 20 stabilimenti con un totale di circa 2.200 operai che, come si apprende da un bollettino della Camera di Commercio di Modena di quell’anno (57), erano distribuiti nel modo seguente: “920 nella lavorazione dei cappelli, 400 nella rifinitura delle trecce, 750 nella lavorazione del tagal e circa 130 nella tintoria. Di essi circa 1.150 lavoravano a cottimo e gli altri con salari varianti; per gli operai specializzati da L. 3 a L. 5 e le operaie da 1,50 a 2,50 ciascuna, con orario da 8 a 9 ore al giorno per una durata di 4-5 mesi per l’industria dei cappelli, di 5-6 mesi per quella delle trecce, di 7 mesi per la tintoria”. Nel 1921 il numero delle aziende si abbassò a 15 (58). Difficile stabilire anche, anno per anno, il numero reale degli operai che erano impiegati nelle fabbriche (59), poiché, essendo il lavoro stagionale, di operai fissi ve n’erano pochi e le assunzioni, che erano a discrezione della direzione, erano in ragione delle prospettive che si aprivano sul mercato che molto spesso, riservava sorprese. Nonostante tutti i tentativi di individuare tariffe di riferimento per le mercedi operaie, in realtà è assai difficile indicare, anche approssimativamente, il salario medio operaio, salvo accontentasi di medie astratte. Infatti, in fabbrica, la manodopera non fissa, non diversamente da quella a domicilio, era pagata a cottimo (60) in ragione non solo dell’età, ma anche del sesso e della categoria, e non è stato dato trovare dati precisi. In questo contesto Alfredo Bertesi, conoscitore dei tasti su cui far leva nella mentalità operaia, si dimostrò sempre assai attento al problema della produttività. Ad esempio, tra il 1908 e il 1909 stilava uno scritto: Per la educazione proletaria (61) in cui, dopo aver evidenziato con puntigliosi calcoli gli sprechi di materia prima (avendoli valutati intorno alle ventimila lire annue), avvisando che sarebbe stato impegno quotidiano della fabbrica controllare mediante pesature lo scarto raccolto la sera nei laboratori e, dicendosi sicuro che questo richiamo avrebbe sortito i suoi effetti, informava che avrebbe provveduto a devolvere al ricreatorio dei figli del popolo la somma di L. 5.000 quale anticipo sulle economie, impegnando così moralmente gli operai nel loro lavoro. In un altro scritto intitolato Predica alle operaie dei cappelli si legge: “Le paglie di scarto, i trucioli sottili, il cotone di scarto, tutto contribuisce a rendere prospera o meno la fabbrica. Il segreto della grande industria è l’economia in tutto, le piccole economie isolate. Un censimento per 100 operai fa una lira al giorno… Aiutiamoci a vicenda: siamo tutti lavoratori: la mia è povertà dorata, la vostra povertà di lavoratori (62) io forse starò bene, ma convenite che io ho creata la casa, la merito meno di voi: io sento quanto di ingiusto sia nella società a non dare almeno a ciascuno il necessario per vivere, ed io mi sforzo a fare il meglio che per me si possa, ma un individuo non può fare che poco […] Ma se ciascuno di voi mi aiuti, se ciascuno di porti il contributo della sua volontà, se ciascuno nel suo lavoro chiede continuamente a se stesso: nel mio lavoro, pur difendendo il mio interesse individuale e di classe, faccio io tutto quello che posso e che debbo per far rendere alla materia bruta tutto quello che essa può dare o non contribuisco io stesso a tener basso il mio salario a diminuire il mio e l’altrui beneficio?” (63). Assai interessante per penetrare nella mentalità di Bertesi è una sorta di massimario filosofico (64), improntato ad una specie di religiosità laica, indirizzata agli operai ed alle operaie della fabbrica da lui diretta, da cui traspaiono i problemi e anche le contraddizioni con cui doveva confrontarsi: - disciplina e affezione al lavoro ed al luogo di lavoro; - conflittualità tra le diverse categorie di lavoratori, e tra queste e la dirigenza; - la questione del risparmio; - la questione femminile, intesa come necessità di frenare nelle operaie il desiderio di emulare il costume borghese generatore, oltre che di spreco, di disorientamento sociale, di devianza dagli schemi familiari tradizionali, di amoralità (65). Bertesi nelle sue Massime filosofiche dispose che “sulla porta d’ingresso dello stabilimento” fosse apposta la seguente massima: “Luogo dato al lavoro; chi non ama il lavoro non entri”. Nei locali interni della fabbrica ve n’erano altre: “Il laboratorio è luogo di raccoglimento: l’operaio attenda con amore al proprio lavoro, i dirigenti sorvegliano il lavoro di tutti”. “Non ciarlare: molte ciarle durante la settimana, piccola mercede il sabato”. “Tacete: non dite che l’indispensabile. Il rumore delle macchine vi costringe a gridare, il gridare disturba chi sente e danneggia il vostro fisico”. “Provatevi a tacere: troverete maggior salute, maggior mercede”. “Appena un terzo del giorno è dedicato al lavoro: lavorare dunque con amore e coscienza”. “Maggiore è il senso del vostro dovere maggiore si fa il vostro diritto”. “Senza lavoro non c’è vita. Il vostro corpo stesso è un meraviglioso organismo di lavoro continuo non mai interrotto”. “Non sghignazzate: chi sghignazza non ha il tempo di difendere la propria dignità”. “Siate alacri cioè lieti ma non chiassosi, siate seri ma non imbronciati la vita non è mai brutta per chi sa tollerare il male ma non è mai bella per chi è scontento eternamente”. “Non cantate nel laboratorio non solo perché è proibito, non soltanto perché perdete del lavoro ma anche per la vostra salute”. “Non mormorate dei peccati degli altri, pensate ai vostri”. “Non vi crediate maestri: anche i migliori hanno sempre da imparare”. “Comportatevi come aveste addosso gli occhi dei sovrastanti: se anche essi non vi guardano sempre sanno l’opera vostra, quello che producete o dovreste produrre”. “Non vi rincresca ubbidire: pensate che il più grande degli uomini ha qualcuno di sopra di sé e il piccolo sotto”. “Non invidiate i soprastanti essi pure hanno i loro doveri e i loro dolori”. “Non invidiate chi sta sopra di voi, se potete emulatelo per eguagliarlo”. “Cercate di migliorare e migliorarvi ma non invidiate chi vi sembra felice: pensate che ciascuno ha i suoi mali e vi sono molti più infelici di voi”. “Sul lavoro fate economia”. “La mercede non si produce da sé ma è il risultato del lavoro compiuto”. “La mercede è un elemento del prezzo di produzione. Essa tanto può elevarsi quanto il prezzo complessivo di produzione è basso”. “Il consumo delle materie prime superiore all’indispensabile elevano il prezzo di produzione e quindi contengono a far ribassare le mercedi”. “Non sciupate dunque i generi del vostro lavoro – il ladro ruba per vantaggio, la sciupone danneggia sé e i compagni e non avvantaggia alcuno”. “La lotta di classe agisce mentre si determina l’ammontare del salario che è il riparto dei profitti”. “Concordati i salari, fissate le norme del lavoro, gli operai e i padroni hanno l’interesse comune di produrre molto con poca spesa: gli operai per poter chiedere ed ottenere dei successivi miglioramenti, i padroni per sostenere la concorrenza”. “Non vi date troppo facilmente del tu specie tra uomini e donne: ciò non conferisce all’educazione, ciò porta ad una confidenza che al primo urto degenera in male parole”. “Nel laboratorio vestite un grembiule copri - tutto ciò vi risparmierà gli abiti e sarete ordinate nel vestire uscendo dal lavoro”. “Non vestite in modo superiore al vostro stato. Pensate che nessuno si inganna nel giudicarvi. Le ingannate siete voi che per una malsana vanità sciupate malamente il prodotto del vostro lavoro”. “La miglior eleganza è la semplicità – La migliore dimostrazione di correttezza è di comportarsi a seconda del proprio stato”. “Non insuperbite fanciulle dei complimenti che si fanno alle vostre toilette. Gli stessi che vi lodano davanti vi criticano alle spalle”. “Come all’autunno succede l’inverno così alla salute la malattia, al lavoro la disoccupazione, alla felicità la sventura. Fortunati i previdenti che sanno economizzare per il futuro”. Parecchie di queste massime si trasformano in regole da rispettare dato che, come scrive Bertesi: “La fabbrica condotta sempre con grande tolleranza, deve rientrare nell’ordine e nella disciplina. Così esigono le alte mercedi, la difficoltà del guadagno, la volontà dei dirigenti […]” (66). Divenne, da parte dell’industria, uso generale operare trattenute – deposito a risparmio fruttifero del 5% sul salario operaio per una quota del 10-15%, versata poi completamente due volte all’anno, salvo trattenuta a risarcimento, conseguendo in tal modo un duplice risultato: provvedere le ditte di un capitale a basso tasso d’impiego ed, al contempo, imporre un risparmio utile a fronteggiare bisogni improrogabili quali, ad esempio, la corresponsione dei canoni d’affitto (67). Uno strano modo di procedere per chi, in enunciati ideali, affermava di agire in quel tempo in modo propedeutico all’emancipazione della classe operaia, alla quale non si riconosceva nemmeno la capacità di gestire l’esiguo bilancio familiare. Difficile stabilire gli esiti di questa martellante campagna di moralizzazione Bertesiana, ma è probabile che qualche risultato l’avesse pur sortito, anche se i suoi oppositori, i socialisti massimalisti, ebbero a contestargli le sue “predicazioni” (68). Dalle cronache di varia tendenza, dai documenti d’archivio – meno dalle testimonianze orali – si può trarre l’impressione di una consistente struttura produttiva, suddivisa in categorie di lavoro più o meno specializzato, ma con qualifiche precise quali: cappellaie, annaspatrici, cilindratori, ecc. Da un’analisi dei registri di certificazione di morte dello Stato Civile di Carpi e di quelle delle inumazioni del cimitero urbano, a partire dal 1886 fino al 1920, tra le varie professioni dei deceduti, relativamente al settore del truciolo compaiono solo due qualifiche: quella di trecciaia e pagliaro; nessuno è denunciato, anche genericamente, come operaio/a. A questo dato, che viene ad avvallare ulteriormente quanto già sostenuto inerentemente alla precarietà e sussidiarietà di questo lavoro, se ne aggiungono altri da cui trarre indicazioni significative per futuri approfondimenti di ricerca. Il più inquietante è l’età media di morte di queste lavoratrici del cappello, la più bassa in assoluto rispetto a tutte le altre categorie (tabella 1); una media che diminuisce di pari passo con il declino del truciolo. Quindi non può passare inosservata la frequenza delle morti dovute a tubercolosi (tabella 2), tale da indurre il sospetto che potesse esservi un nesso, peraltro da qualcuno insinuato, con la professione svolta (69) Si trae ulteriore conferma della precarietà economica di questa categoria di lavoratrici dal fatto che, in maggioranza, morivano in ospedale, in un’epoca in cui, per tradizione, morirvi era disdicevole e sinonimo di miseria sotto ogni aspetto Bertesi Industriale “Agli uomini politici, che passano dalla critica all’azione, assumendo la realtà di governo, si muove spesso l’accusa di mutare le loro idee ma in verità ciò che accade non è che essi le mutino, ma le limitano adattandole alla realtà e alla possibilità dell’azione” (70). G. Giolitti A prescindere dalle polemiche che la commistione tra politico e privato aveva scatenato, v’è da osservare che Alfredo Bertesi industriale seppe trovare i mezzi, la forza, oltre ché l’opportunità per mettere in atto quel progetto di unificazione d’impresa che, seppure aleggiante, nessuno aveva saputo, voluto o creduto di poter affrontare concretamente e, al di là dei risultati, non v’è dubbio che si trattò di un’azione imponente per la quale seppe impegnarsi in un’opera di persuasione e mediazione notevoli, non solo verso gli impresari – commercianti locali, ma anche verso le maestranze. Bertesi intraprese in modo deciso un’azione innovativa dal punto di vista strutturale e tecnologico, che avrebbe dovuto permettere all’industria carpigiana di competere con le altre affini più affermate sia in campo nazionale che estero. In pochi anni sorsero in Carpi stabilimenti industriali di eccezionale grandezza, contraddistinti da ciminiera: Menotti, Loria, Costante Bulgarelli, Menada, Pederzoli, “Il Truciolo”. Una sorta di gara di “caminelli” come le denominò don Ettore Tirelli e il più alto di tutti, 42 metri, fu quello della “Truciolo”. Questi camini fumarono però a singhiozzo e la loro potenzialità non poté essere sfruttata se non in minima parte (71). Ad esempio il grande complesso Loria, terminato nel 1903, che suscitò viva polemica per la sua ubicazione centrale che andava a coprire la parte a levante del castello comunale, perdurante la crisi, nel 1915, venne affittato allo Stato per usi militari (72). Stessa sorte ebbe anche la tintoria Menada che nel 1915 si trasformò in “Deposito Convalescenza e Tappa” (73). Il complesso Pederzoli, con tintoria, che si inaugurò nel 1911, chiuse nel ’14, poiché gli impresari emigrarono a Londra e Parigi dove si dettero al commercio nel medesimo settore con riferimento solo marginale a Carpi e al truciolo. Bertesi intuì come l’opera passata rappresentasse un’esperienza importante a cui fare riferimento, sia per affermare una consolidata tradizione lavorativa – commerciale, sia come sfruttamento di ispirazione per le maestranze impegnate nei nuovi modelli. Fin dall’inizio, come si desume dal suo “Giornale e memorie economiche – finanziarie” (74), egli investì infatti considerevoli capitali per acquistare vecchi e pregiati campionari che fece poi comparire all’Esposizione Nazionale di Milano nel 1906, suscitando grande ammirazione. Bertesi comprese, inoltre, quanto fosse importante la continua promozione di immagine e, per perseguire l’intento, utilizzò tutti i mezzi possibili tra i quali la Camera di Commercio. In questa logica, nella “Truciolo” fu ideato uno spazio di rappresentanza in cui erano esposte opere d’arte e riproduzioni celebrative del cappello di truciolo, manufatti esemplari e documenti. Bertesi ideò forme pubblicitarie inusitate, quali una monografia sul truciolo ad opera di uno scrittore non locale, Giovanni Bertacchi di Chiavenna (75) (redatta in momenti difficili non fu mai edita). Sempre dello stesso genere è un altro scritto che si presenta come una estesa carta da visita, nel quale la “Truciolo” è descritta piuttosto in chiave commerciale e da cui sono desumibili i vari indirizzi di trasformazione intrapresi, tra cui quello di darsi un “marchio” - “Borsalino del Truciolo” - per superare un anonimato scomodo (76). Va anche detto che Bertesi si mosse con decisione, seppure sull’esempio di altri imprenditori carpigiani (77) per superare l’aggiottaggio dei rappresentanti stranieri con l’istituzione di uffici di vendita diretta sia in Italia che all’estero. Durante la prima guerra mondiale seppe poi mettere a frutto la sua posizione politica adeguando la produzione al momento bellico e trasformandola in “mimetismo”; l’industria così riforniva l’esercito italiano e alleato, utilizzando la medesima struttura produttiva del truciolo. Questa attività consisteva nella realizzazione di ampie reti, eseguite a domicilio con cordame distribuito dalle aziende, sulle quali, operaie prevalentemente di fabbrica, annodavano ciuffi di paglia di truciolo opportunamente tinti per mascherare le postazioni militari. Questa velocissima conversione permise alla struttura industriale di non soccombere (78). Mai a Carpi si produsse in maniera così intensa, tanto che, alla fine del conflitto, Bertesi poté affermare: “Qui la guerra non ha recati danni materiali ma ha dato guadagni superiori al normale” (79), “Son ricchi i commerci e le industrie: a persuadervene basta vedere i depositi delle banche saliti a tre volte tanto di quello che erano” (80). Bertesi fuori da ogni schema sino a quel momento perseguito dall’industria locale, praticò il sistema di trarre maggiori profitti facendo riferimento ad aree produttive sempre più depresse, non solo in campo nazionale ma attingendo persino nell’Estremo Oriente e trovando sempre giustificazioni apparentemente credibili. Note (1) CAMERA DI COMMERCIO E INDUSTRIA DI MODENA, Andamento della Industria e del Commercio nella Provincia di Modena durante l’anno 1912: “La qualità ed il valore delle trecce e dei cappelli esportati da Carpi nel 1912 possono così calcolarsi: da 9 a 10 milioni di trecce per un valore di circa 6 milioni di lire; 3 milioni e mezzo di cappelli di truciolo per 4 milioni di lire. Mezzo milione di trecce meccaniche di canapa di Manila, detta Tagal, per un milione di lire”. Da La preparazione economica del dopo – guerra nella Provincia di Modena, Camera di Commercio e Industria di Modena, Modena 1917: “[…] La esportazione è fatta per due terzi di trecce e per un terzo di cappelli in gran parte non guarniti […]”. (2) Da “La Gazzetta dei Cappellai”, giugno – agosto 1922, p. 149: “E’ risaputo che gli Stati Uniti importano interamente la materia prima necessaria alla fabbricazione dei cappelli, la quale, a ragione della perizia della mano d’opera e soprattutto del minor costo, come pure della speciale qualità della paglia, può essere prodotta all’estero a prezzi assai più convenienti che in questo paese. In altre parole, avviene per la treccia di paglia quello che succede per la seta greggia: gli Stati Uniti, quantunque non producano affatto di quella, mantengono una industria cospicua, qual è la fabbricazione dei cappelli di paglia, con materia prima derivata completamente dall’estero. La maggior parte della treccia usata dai cappellai americani è importata dal Giappone, dalla Cina e dall’Italia […] Così si spiega come 25 milioni di cappelli di paglia possano essere annualmente fabbricati negli Stati Uniti da soli 6.000 operai, il cui compito si limiterà a cucire insieme la treccia, in modo da formare il cappello nella foggia voluta, ed alla finitura di questo […] L’America vuole fabbricare o finire essa stessa i cappelli che occorrono al suo consumo, premendole di mantenere la sua industria cappelliera veramente notevole. Essa si avvale di un macchinario ingegnoso […] a differenza delle congeneri, europee, cercano di impiegare costantemente durante tutto l’anno la mano d’opera specializzata […]”. (3) L. BOLOGNA, Considerazioni sul commercio del truciolo in Carpi,1899, originale conservato presso la Biblioteca del Seminario di Carpi, Fondo don Ettore Tirelli. (4) Archivio privato, copia dell’originale conservata presso la sez. Etnografica del Museo Civico di Carpi: “Londra 20 ottobre 1881 […] Sono stato da Raban che essendo egli venuto a cognizione che avevo voluto vendere ai suoi clienti al medesimo prezzo che ho voluto vendere a lui, era su tutte le furie. Egli mi ha detto che ha scritto a Zimmerman di New York e che gli offre tutto lo stok di trecce che ha in magazzino a 1 franco la pezza. E ciò, egli soggiunge per guastare il mercato di New York intantochè voi siate obbligati di vendere a Londra, da qui a un mese, le vostre trecce a 80 centesimi […]”. (5) ISTITUTO STORICO DELLA RESISTENZA DI MODENA (ISRMO) Archivio Bertesi, doc. n. 1858. (6) Cfr. nota 3. (7) Da “L’Unione Costituzionale”, 5 novembre 1908: “Compagni, ricordate che col 30 giugno u.sc. è scaduto il contratto e l’obbligo a tutti gli industriali di non spedire trecce in falde se non confezionate a 6 millimetri? Sapete che da tal giorno la ditta L. Benzi, amministrata dalla società “Il Truciolo”, con capitale di L. 1.200.000, della quale è consigliere delegato l’On. Alfredo Bertesi, distribuisce a tutti gli incettanti una piccola macchinetta a due ruote di legno, per cilindrare le trecce a tre fili? – E si raccomanda che quella macchinetta, dove la treccia viene ben compressa, venga usata dalle trecciaiole, cosicché la nostra opera viene resa inutile, e gli industriali possono spedir via le trecce senza bisogno delle nostre braccia, vendendole ad alto prezzo e intascando quel denaro che viene tolto a noi con grave danno […]”. Da “L’Unione Costituzionale”, 12 novembre 1908: “Della macchinetta incriminata di cui parla e che da mezzo secolo si ha nel guastallese, affermo che è una solenne fandonia; giacché è solo da un paio d’anni che è in uso in quei paraggi. Prima per rendere la treccia più liscia ed uniforme due la prendevano da un capo una dall’altro sopra un tavolo la distendevano, e una delle due vi passava fortemente sopra un bicchiere o una bottiglia, in modo che venisse lisciata discretamente e poscia portata all’incettante che dalla sua volta, la porta a Carpi agli industriali. E molti come ne ho veduti io, le spedivano in falde”. (8) P. GUAITOLI, Della Città e Comune di Carpi – cenni statistici e storici, Carpi 1877, p. 4: “[…] viene attraversato dal sud al nord dalla grande strada di comunicazione fra le due città di Modena e di Mantova, ed all’est all’ovest dalla Vianova, che in linea retta si protende dalla Secchia al Trasinaro. Fra le rimanenti vie più importanti devono ricordarsi quelle che da Carpi mettono a Rubiera, a Correggio, a Guastalla e alla Mirandola. Tutte queste strade hanno il fondo inghiaiato. Lo attraversa pure da S.E a N.O. la ferrovia Modena – Mantova, costruttasi negli anni 1871 e 1872, per la cui attuazione questo Consiglio Comunale oltre la quota della Provincia, concorse con la egregia somma di 150 mila lire a capitale perduto […]”. (9) A. CAPRARI, Sulle risaie degli Stati Estensi, Modena, 1852, p. 47: “Noi abbondiamo talmente di braccia, che ora stesso a dispetto dei grandi lavori delle risaie, veggiamo molti de nostri emigrare annualmente per alcuni mesi a cercare lavoro nella provincia mantovana, e più oltre […]”. (10) C. Cogliati, L’industria del Truciolo, Roma, 1913, p. 5. (11) Da “Le Fonti – Le condizioni industriali della provincia di Modena” del 1895 si legge: “Sotto il punto di vista industriale, la lavorazione del truciolo ha il carattere di un lavoro domestico […]”. Ed ancora in una relazione presentata al Consiglio Nazionale del Lavoro da Nicodemo Gasparini pubblicata su “Luce” del 25 maggio 1910 si legge: “[…] risulta evidente come l’industria del truciolo sia almeno nelle sue fasi di lavorazione iniziale di una semplicità pressoché rara: UNICA. […] Per eseguire questo lavoro iniziale non vi sono stabilimenti. E’ tutta una lavorazione che viene fatta a domicilio, da uomini, donne e bambini senza limite di orario e mancanti delle più elementari regole che vi sono nelle altre industrie […]”. (12) Da “Le Fonti – Le condizioni industriali della provincia di Modena” del 1895 si legge: “Da circa 20 anni questa fabbricazione si è venuta estendendo nel territorio di molti comuni delle provincie di Modena e in altri finitimi delle provincie di Reggio Emilia, Mantova, Ferrara e Bologna, restando però sempre il Comune di Carpi il centro principale della lavorazione […] In questi ultimi anni però la lavorazione del truciolo, specialmente nella lavorazione delle “tre paglie”… si è stesa grandemente anche nella provincia di Verona […] per modo che il comune di Villa Bartolomea è diventato un centro importante di produzione e di diretta esportazione del truciolo per le piazze estere e principalmente per Londra […]”. In una lettera di A. Bertesi e A. Marchi, in data 2 Agosto 1905, in occasione di avvisaglie di crisi si legge: “Gli incettanti di Poggio si riunirono per fondare una società di esportazione: non riuscirono per fortunata circostanza, vi riuscirebbero quest’anno. Molti incettanti di Guastalla, Villarotta ecc. mandano già via loro. Ma fin’ora siamo a tentativi sui tre fili. Ma se dal tre fili, com’è naturale, si andrà al resto del truciolo, che cosa sarà di Carpi? – Esso deve la sua prosperità ad essere il centro del commercio del truciolo e non ad esserne il produttore […]”. (ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 539). (13) “La Gazzetta dei Cappellai” rivista industriale e commerciale mensile, Torino, Tipografia Enrico Schioppo, consultabile presso la Biblioteca Nazionale di Torino e la Braidense di Milano. (14) “La Gazzetta dei Cappellai”, Torino, gennaio – febbraio 1920: “I centri dell’industria italiana dei cappelli… importante per la produzione del truciolo è Carpi… qui si confezionano cappelli e trecce in grandissima quantità. Ditte principali: Bulgarelli Costante e C., Società Anonima “Il Truciolo”, Ascari Primo e C.o, Manifattura Loria, Cappellificio Ascari, Ascari Primo e Figlio, Ditta Giberto Pio e C., D. Tagliavini e C.o, Umberto Ascari, Mario Sacchetti, Nello Casarini, Augusto Agazzani, A. Facchini, Ditta Bice Ascari”. (15) “La Gazzetta dei Cappellai”, Torino, giugno 1921: “I centri dell’industria italiana dei cappelli […] importante per la produzione del truciolo è Carpi […] qui si confezionano cappelli e trecce in grandissima quantità. Ditte principali: Bulgarelli Costante e C., Società Anonima “Il Truciolo”, Ascari Primo e C.o, Manifattura Loria, Cappellificio Ascari, Ascari Primo e Figlio, Vedova Giberto Pio e C., Tagliavini e C.o, Umberto Ascari, Mario Sacchetti, Nello Casarini, Augusto Agazzani, Gaetano Chiurato. Villarotta presso Reggio: Pietro Terzi […]; Suzzara presso Mantova: Ferd. Cortesi, trecce truciolo e paglia”. (16) “Luce”, 26 novembre 1910, Per un ricreatorio scolastico a Carpi: “[…] A Carpi non esistono industrie per i maschi. Nelle fabbriche sono impiegate 20 donne per un uomo […]. In una relazione presentata al Consiglio Nazionale del Lavoro da Nicodemo Gasparini pubblicata su “Luce” del 25 maggio 1910 si legge: “In quanto alle trecciaie lo sconcio poi è deplorevole. Tutte quante le operaie, le figlie di professionisti, di contadini, e quello che è più dannoso per la loro salute, tutti i fanciulli da 7-8 anni in avanti si trovano nelle stalle o nelle loro stufe mal riscaldate, o in camere che per ironia vengono chiamate scuole, con le loro pagliuzze tra le dita intenti ad intrecciare... E così dalla scuola usciranno ragazzi alfabeti solo per lustro […] e fanciulli rachitici e mancanti di energia […] sacrificati ad un lavoro che se non è pesante e sfibrante, toglie ad essi la facoltà di un maggior sviluppo con grave danno a se stessi e alle generazioni future […]”. Su “L’Unione Costituzionale” dell’1 agosto 1906, si legge: “Questa industria capestro che paga con salari da fame le donne e bimbi sparsi per le campagne a lavorare le trecce […]”. Anche i diretti interpreti di questa vicenda ci trasmettono oralmente le loro memorie: “Avevo 4 o 5 anni quando ho imparato a fare la treccia, c’era una signora che insegnava, teneva parecchi bambini: circa una ventina […] Dovevano pagare la maestra che ci teneva […] a volte non facevo treccia sufficiente per pagarla […] non sono mai andata a scuola, la nostra era una scuola di treccia, minga da léser!”. “A sei anni si andava a scuola, chi aveva passione andava a scuola – scuola, ci andava alla mattina […] e, dopo pranzo, a fare la treccia […] Molti genitori dicevano: - Avete più bisogno di imparare a lavorare che a leggere… - Andavo a fare la treccia da Ettore de la Catlana, c’erano marito e moglie […] erano circa 20 bambini, in una stanza piena e la moglie ci teneva dietro con un bastone lungo che arrivava al trave; a chi non faceva a modo prendeva il bastone e – pinf – sopra le dita, perché diceva: - Quando siete qui comando io, quando siete a casa comandano i vostri genitori – […] Bisognava facessimo un tanto al giorno […] A mezzogiorno, finito di lavorare, si andava a casa a mangiare e si mangiava quello che si poteva: d’inverno niente minestra a mezzogiorno, una polenta alla mattina e un po’ di minestra alla sera, pane fra i pasti niente, perché ce n’era poco e non si poteva mica mangiare; far la merenda […] non ho mai saputo cosa fosse la merenda […] nessun bambino mangiava al pomeriggio […] L’ora di lavoro alla treccia era le otto di mattina e, in estate, fino alle otto di sera. 12 ore. Quelli che erano lontani stavano lì a mangiare […] I bambini cominciavano a venire alla scuola anche prima dei 6 anni, giocavano un’ora al giorno, sempre seduti lì […] e, quando c’era da andare al gabinetto, bisognava proprio dimenarsi, perché altrimenti dicevano che facevi per andar fuori” “La maestra, la vecchia, diceva: - Ti do due trecce la mattina e due dopo pranzo, se non le fai mica, non vai a casa. – Delle volte mi perdevo a parlare con la mia amica e la treccia non la finivo, dovevo stare là… a volte ci metteva anche sui gusci di noce […] era un castigo di un quarto d’ora, mezz’ora […]” “A volte ci raccontavano delle favole, oppure uno diceva qualcosa da ridere, eravamo in una cucina in 10, 12 e la maestra diceva: - Taci! – Aveva la bacchetta, faceva pinf, pinf […] Si parlava poco, bisognava stare attenti, perché se si sbagliava bisognava tornare indietro, se venivano “i gattini” (fallo), te la strappava e bisognava cominciare da capo […]” “I bambini a circa 8 anni iniziavano ad aiutare la mamma, a fare qualche treccina, perché allora voleva dire andare a comperare il pane. Non venivamo a consegnare la treccia ogni 15 giorni come fanno adesso, ma appena finivano, la portavano; guadagnavano 20 centesimi con cui andavano a prendere un panino, mangiavano quel panino lì e basta […]” A confermare l’esattezza dell’informazione è un articolo comparso su “L’Unione Costituzionale” del 3 agosto 1906 che riporta la cronaca di un pubblico dibattito in cui il dott. Vittorio Benassi grida a Bertesi: “Diteci se è da socialista pagare le bambine che fanno le trecce 20 centesimi al giorno? – […] Bertesi tenta di rispondere affermando che l’industria del truciolo e un’industria sussidiaria […]”. Tutte le testimonianze orali riportate sono tratte dai nastri di intervista della ricerca: “L’arte del Truciolo a Carpi” nastri e relative trascrizioni sono conservati presso la Sezione Etnografica del Museo Civico di Carpi. (17) ARCHIVIO DEL SEMINARIO VESCOVILE DI CARPI (ASVC), Fondo don Ettore Tirelli, sezione I, n. 91. (18) Da “Luce” del 12 agosto 1900: “E, parlando dei nuovi opifici o fabbriche di trecce, non vogliamo mancare di dire che la loro comparsa dovrà far cessare l’esercizio di quegli opifici clandestini, tenuti vivi in barba alle leggi, che son le “scuole di truciolo” nelle quali si raccolgono i bimbi dei poveri contadini. Generalmente sono queste scuole in umide camerette, a piano di terra, le quali non potrebbero capire più di 15 o 20 persone, ma nelle quali si imprigionano pur nulla meno 50 o fino 80 fanciulli maschi e femmine. Ivi lavorano sotto la direzione di una donna che li eccita e li sgrida continuamente: in tali camerette manca la luce e l’aria e il lezzo che vi si forma, per la quantità degli aliti e per la poca nettezza, è addirittura asfissiante. Quanto guadagnano quei bimbi, in quelle ove lasciano la freschezza e il colorito delle gote e talora nel contatto, contraggono i germi di fatali malattie? Un soldo o due soldi al giorno. Intanto la produzione di questi piccoli prigionieri esercita sul nostro mercato la medesima influenza che esercita in tutta Italia il lavoro fatto dai carcerati: - quella di danneggiare la mercede di coloro che, liberi e forti, avrebbero diritto ad un lavoro ben retribuito. Infatti le trecce delle scuole di bimbi si comperano spesso a pressi irrisori e creano un’atroce concorrenza a quella delle operaie adulte […]”. (19) ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1392. (20) Ibidem. (21) Ibidem. (22) Cfr. nota 18. (23) ASVC, don Ettore Tirelli, Cronaca Carpigiana, 29 gennaio 1905, manoscritto originale conservato presso la Biblioteca del Seminario di Carpi. (24) Da “Luce” del 7-8 dicembre 1907: “Ad una stagione fortunata, discretamente remunerativa per i lavoratori e le lavoratrici, ne succede una piena di incertezza, di spasimi, di timori che si traducono in disoccupazione, prezzi di mano d’opera vili, miseria spaventevole, arresto della vita produttiva in tutta una data zona […]”. (25) S. MERLI, Proletariato in fabbrica e capitalismo industriale, Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 505. (26) Da “Luce” del 2-3 febbraio 1907. (27) Da “Le Fonti – Le condizioni industriali della Provincia di Modena 1895 – Archivio Storico dell’Industria Italiana”: “In origine erano i soli industriali che acquistavano il salice nei centri di coltivazione e lo facevano lavorare dai propri operai […] Gli industriali poi, che non erano allora più di 4 o 5, facevano fabbricare le trecce a operai addetti ai loro stabilimenti, sotto la direzione di abili maestre, ovvero invece consegnavano le paglie ad operaie esterne, per ritirarle lavorate in trecce. Presentemente pochi industriali attendono alla trattura delle paglie la quale viene fatta dagli operai stessi […] Le ditte produttrici ed esportatrici delle trecce di truciolo nel Comune di Carpi, nel luglio 1895, erano le seguenti: Ascari, Leporati e c., Bagni Albano, Bagni Celestino, Baracchi Silvio, Benzi Lodovico, Borgogni Fratelli, Bulgarelli Costante, Casarini Eligio, Chini Antonio, Ferrari Odoardo, Ferrazzini Genesio e C., Foresti Pietro, Luppi Germano e Fratelli Menotti Costantino, Menotti Eredi di Giuseppe, Molinari Umberto, Pederzoli Ciro, Pederzoli Francesco, Poli Ugo, Rebuttini Giuseppe, Siti Onesto, Tirelli Cesare, Tirelli Pietro, Valenti Fernando e Vincenzi Luigi”. (28) Da “Luce” del 27-28 ottobre 1906: “Giorno per giorno la merce pali di salice va sempre aumentando di prezzo, con rapidità spaventevole, mentre il prezzo della paglia – in proporzione - è di pochissimo aumentato: il prezzo della mano d’opera – di conseguenza – resta sempre presso a poco lo stesso, sia per i pagliari che vendono alla piazza, sia per quelli che sono sotto padrone […]”. (29) Da “L’Operaio cattolico” del 28 maggio 1898: “[…] Com’era da prevedersi quest’industria […] subisce ora una grave crisi […] la treccia così detta “Rasora”, la quale era pagata pochi mesi addietro fino a 2,70 cadauna, ora è retribuita con una miserabile lira […]”. Da “L’Operaio cattolico” dell’11-12 ottobre 1913 “Nico Gasparini nel 1905 investigando le cause delle trecciaie ridotte a salari di fame, le trovava nella “eccessiva produzione e nel lavoro malpagato delle minorenni” A otto anni di distanza dal Congresso delle organizzazioni delle trecciaie, si vorrebbe sapere qual rimedio venne escogitato, imperante Bertesi? Ora guadagnano appena da tener acceso il lume […]” (30) Da “Luce” del 12-13 gennaio 1907: “Due sono i fattori del diffondersi smisurato di questo fattore. Il primo di natura intima che risponde agli interessi e ai bisogni della classe lavoratrice […] il secondo di natura industriale e lavorativa, per cui il piccolo incettante bramoso di far quattrini cerca di trovare sempre posti vergini per introdurre questa lavorazione: posti nei quali appunto si ignorano i prezzi reali del mercato, i lavoratori si accontentano di quelle paghe che ad essi vengono offerte. Ed il diffondersi del truciolo, in forza di quest’ultimo fattore è venuto negli ultimi tempi triplicandosi […]”. (31) F. PAGLIANI, L’arte del truciolo a Carpi, tesi di laurea, Università di Bologna, Fac. di Economia e Commercio, a. a. 1961-62, pp. 140, 141. (32) ASCV, Fondo don Ettore Tirelli: “Noi sottoscritti esercenti l’industria del Truciolo in Carpi, ci facciamo premura di dichiararvi essere nostro fermo proposito di non tollerare più oltre gli abusi invalsi nella fabbricazione delle trecce, sia per quanto riguarda la loro misura, sia per quanto concerne il materiale onde sono composte […]. Scacchetti & Siti, Ascari Primo & C., Giovanni Ferrari, Z & G. Pavarotti, Fratelli Ferrati D. & D., Luigi Vincenzi, Leporati Martinelli & C., P. Tagliavini, Ettore Tirelli, Beniamino Frenklin, C. Bulgarelli & C., Eredi Ugo Poli, Ciro Pederzoli, Valenti Ferdinando & C., Germano Luppi, G. Rebuttini Eredi & C., Eligio Casarini, Federico Ferrari, Eliseo Govi, Ditta L. Benzi, A. Loria e G. Ravenna, Bagni Celeste, B. Ascari & C., Pietro Tirelli, F. Pederzoli, A. G. Lugli, Ferrari Odoardo, Augusto Agazzani & C., Terzi Giovanni”. (33) Da “Luce” del 11-12 maggio 1907. (34) ASVC, Fondo don Ettore Tirelli. (35) Dallo Statuto della Associazione degli Industriali del Truciolo in Carpi, Carpi 1901: “art. 1 E’ costituita una Associazione degli Industriali del Truciolo in Carpi. art. 2 Essa ha sede in Carpi nei locali del proprio ufficio. art 3 L’associazione ha lo scopo di propugnare e difendere gli interessi dell’industria e degli industriali”. (36) Cfr. nota 32. (37) A proposito di Pontremoli, da una lettera di Pio Schinetti ad Alfredo Bertesi: “[…] Col primo capitato perde ore e ore a parlare oziosamente dei milioni che maneggia, delle 14 società che dirige […] Dice che si sente forte, destinato a trionfare […] se qualcuno gli muove osservazione per la fiducia che ha posto in un uomo indegno risponde che egli conosce gli uomini e che anche Carpi ha preso un povero diavolo, lo ha nominato direttore e così ha fatto fiorire l’industria del truciolo […]” (ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 890). (38) Dichiarandosi però che per L. 25.000 la sottoscrizione è a favore di Luigi Della Torre (BUSA, 13 ottobre 1904). (39) Archivio privato della famiglia Pederzoli di Carpi, fotocopia del documento consultabile presso la sez. Etnografica del Museo Civico di Carpi. (40) L. BOLOGNA, op. cit. (41) ASVC, don Ettore Tirelli, Cronaca Carpigiana, 20 luglio 1902: “Alfredo Bertesi […]. Ora è industriale in truciolo – e capitalista – ed i suoi dipendenti non stanno punto meglio di quelli di un esoso borghese […]”. (42) Da “L’Unione Costituzionale” del 1 maggio 1905: “Noi abbiamo deplorato che il Bertesi dando le fabbriche in mano ai forestieri faccia esulare da Carpi i guadagni di esse fabbriche… Noi non siamo affatto campanilisti, ma è naturale che […] preferiremmo che i guadagni, fatti qui, qui restassero, anziché fluire ad altre città o magari all’estero […]”.Da “L’Unione Costituzionale” del 16 giugno 1908: “Noi vediamo volentieri svolgersi e progredire l’industria e volentieri vediamo aumentare i capitali in paese; ma quello che ci preme è che il monopolio resti in paese e quello che ci urta è che la rappresentanza del popolo di Carpi vada in mano a quei rappresentanti di capitalisti e di industriali che si ammantano di difensori del popolo predicando la lotta di classe […]”. (43) Da “L’Unione Costituzionale” del 30 agosto 1906: “ Perché l’On. Bertesi non cercò di migliorare le condizioni degli operai facendo nascere e prosperare una grande Cooperativa per l’esportazione del truciolo? […] Perché invece l’On. Bertesi non trovò di meglio che di sostituire agli inetti borghesi di Correggio i grandi speculatori e banchieri di Milano?”. (44) Da “L’Unione Costituzionale” del 9 luglio 1908. (45) In occasione della morte di Alfredo Bertesi non ci fu giornale che non parlò della sua opera, specie quella industriale. Il “Piccolo” di Roma il 21 agosto 1923 con un articolo titolato Un self made man – Alfredo Bertesi sostiene: “E’ una delle figure più interessanti di un mondo che va scomparendo… In fondo la figura di Alfredo Bertesi ha qualche cosa di simbolico, rispecchia nelle sue evoluzioni e nelle sue vicende il successivo trasformasi dell’ambiente politico italiano […] Dalla giovinezza consacrata alle prime lotte pel socialismo […] egli si trova successivamente sempre più a destra di fronte alla progrediente demagogia del suo partito […] attraverso sforzi tenaci di volontà, sorretto da un certo impegno e da una innata attitudine all’organizzazione, egli diviene industriale […] E’ l’evoluzione dell’anima economica italiana, da proletaria e pitocca e quindi in politica rivoluzionaria, a produttrice e quindi modernamente conservatrice […] E’ uno dei campioni dell’ascensione dei nuovi ceti proletari rapidamente divenuti borghesi e conservatori […]”. (46) In occasione della campagna di propaganda per le elezioni del 1914, in un opuscolo Votate per Alfredo Bertesi – chi è Alfredo Bertesi, Correggio, [1914], a pagina 6, in un paragrafo titolato Il miracolo industriale, si legge: “Nel 1900 chiamatovi dal dott. Ruffini, Alfredo Bertesi entra nell’industria del truciolo. Egli che, come organizzatore di operai, aveva studiato all’industria, ne capì il meccanismo ed intuì le nuove basi da darsi alla frammentaria e sparpagliata produzione che disciplinata da un forte ingegno e da una mirabile volontà, andò man mano completandosi, sviluppandosi, ingigantendo, diventando uno dei primi organismi di vita industriale che onorino le nostre regioni… Alfredo Bertesi fece per il suo paese ciò che può decretargli un diritto di riconoscenza eterna […] L’uomo arrivato ad assicurarsi il pane, coi capelli già bianchi, non è parassita del lavoro. E’ invece del lavoro un creatore […]” (ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1432). (47) Stralci di un articolo comparso su “Secolo Nostro” riportati da “L’Unione Costituzionale” del 15 marzo 1906. (48) Articolo comparso sull’”Avanti” e riportato su “Luce” del 4-5 aprile 1908. Bertesi stesso, supervisore di “Luce”, quindi con notevoli possibilità di vaglio e censura, temette reazioni e, nel numero successivo dell’11-12 aprile, sentì il bisogno di prendere formali distanze: “L’amico e compagno carissimo Mastracchi […] mi attribuisce nell’industria del truciolo un’importanza […] che non ho od ho in misura infinitesimale […] No, carissimo, non sono io ad avere elevata, disciplinata l’industria: io ho avuto soltanto fortuna di coincidere col risveglio dell’industria e di poter lavorare con mezzi finanziari congrui all’uopo […] E i concorrenti che si battono da anni contro difficoltà insormontabili, che hanno preparata la via agli ultimi venuti non hanno dunque alcun merito? A ciascuno il suo […]”. (49) ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 539. (50) Da “L’Unione Costituzionale” del 9 febbraio 1905: “Ha fatto bene Loria a mandare a Minerbio quell’operaia? No, perché se a Minerbio non si fa treccia, lo sbaglio del Loria non ha attenuanti. Se invece a Minerbio si lavora il truciolo il signor Loria ha sbagliato lo stesso, perché quando quelli di Minerbio sapranno fare le trecce fantasia che si fanno a Carpi, saranno altre centinaia di donne che faranno la concorrenza alle nostre… Domani Minerbio per avere treccia lavorerà per una mercede inferiore a quella delle trecciaie di Carpi e se non sarà Loria saranno altri che daranno a Minerbio il lavoro che si sarebbe fatto a Carpi […]”. (51) Da “L’Unione Costituzionale” del 19 aprile 1906: “Una trentina di operai costituenti la Cooperativa Pagliari […] incitò gli industriali a fare il possibile per accogliere le domande degli operai, avvertendone che questi si dichiararono a fare ogni genere di paglia che agli industriali possa occorrere ed a eseguirla della stessa qualità ed agli stessi prezzi di Villarotta […]”. (52) Manifesto, datato 4 ottobre 1911, titolato Per la verità e perché il paese sappia come stanno le cose del tagal (ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1399). (53) Nastri di intervista conservati presso la Sez. Etnografica del Museo Civico di Carpi. (54) Cfr. nota 25. (55) ASVC, don Ettore Tirelli, Cronaca Carpigiana, 12 gennaio 1901: “Importante assemblea degli industriali del truciolo! […] Sono presenti: Bagni Albano, Benzi Lodovico, Bulgarelli Costante, Borelli Marco, Casoli Emidio, Casarini Ligio, Franconi Odoardo, Ferrari Federico, Govi Eliseio, Leporati Martinelli e C., Loria Aristide, Lugli Argimiro, Luppi Fratelli, Menotti Giuseppe, Pavarotti Zenobio e C., Pederzoli Ciro, Tirelli Pietro, Tirelli Ettore, Rebuttini Giuseppe Eredi, Siti Onesto, Spaggiari Claudio, Semerari Silvio, Lusuardi Adolfo. Si sono fatti rappresentare: Ascari Primo e C. […], Forghieri C. […], Catellani Maria […], Ferrari Fratelli M. D…. Hanno aderito senza intervenire, né farsi rappresentare: Bagni Celeste, Borgognoni Fratelli, Molinari Umberto, Rebecchi Giuseppe, Vincenzi Luigi, Pederzoli Francesco, Lugli Scacchetti e C. Non hanno aderito né scusata l’assenza: Ascari Bice e C., Fratelli Foresti di Pietro, Peri Ugo Eredi, Tirelli Cesare, Tagliavini e C., Savani Giuseppe, Merighi Fratelli […]”. (56) Cfr. nota 32. (57) CAMERA DI COMMERCIO DI MODENA, L’Agricoltura, le industrie e il commercio della Provincia di Modena durante l’anno 1914, p.78. (58) Cfr. note 13 e 14. (59) Dal XII bilancio redatto da A. Bertesi nell’aprile 1916:”I nostri operai non sono fissi […]” (ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1240). (60) N. Gasparini in “Luce” del 25 maggio 1910 scrive: “Essendo un lavoro a cottimo è impossibile introdurre una disciplina nelle ore di lavoro laddove si sono fatti dei concordati con delle limitazioni di orario l’operaio trovandosi ad un livello basso, umiliante, le ore che non può compiere in laboratorio cerca di anticipare in casa propria […]”. (61) “Alle operaie cappellaie, permette a me che per l’età e la carica sono il più indicato a farlo, di rivolgervi la parola e richiamare la vostra attenzione su tutto il danno che voi recate a voi stesse colla poca cura che dimostrate della merce che la fabbrica vi affida da lavorare. Io scommetto che voi non avete mai pensato che valore abbiano le trecce che cucite per fare i cappelli. Ve ne do un esempio: una treccia di settanta metri di larghetto costa sulla piazza 40 centesimi; va poi lavorata, selezionata, tinta aggiungendovi 15 centesimi di spesa così che viene a costare alla fabbrica otre 50 centesimi […] Quando voi nel dipanare la treccia la lasciate avvolgere sul bastone dell’arcolaio, poi la strappate; quando nel portarla trascinate i capi per terra, o nel passare la pestate, o lasciandola cadere la sporcate, o cucendo il cappello tagliate e lasciate cadere dei metri e metri per terra e per una macchia o una sciaranglan (fallo) invece di tagliare cinque centimetri ne tagliate 25, quando per distrazione cucite male poi guastate, quando abbandonate ale e teste intere o brazadeli sotto la macchina, quando finito il cappello non curate i due o tre metri di treccia che avanzano o nel togliervi dal posto vi tirate dietro con i piedi la treccia – in tutti questi casi voi sciupate della merce che costa 5 lire il chilo – merce che va perduta per tutti – ricchezza sociale che va distrutta senza nessuno ne goda. Forse nessuna di voi pensa a quello che fa di male senza saperlo, oppure dice a sé: “cosa vuoi che conti un pezzo di due o tre metri di treccia per la fabbrica che ne ha tanta!” E non riflette che siccome il metro di treccia si moltiplica per il numero delle cappellaie e per il numero di volte che la cosa succede in un giorno si arriva a delle somme enormi giornaliere di sperpero di treccia. E del cotone non avviene lo stesso? Quando per distrazione o per soverchia fretta voi dovete guastare parte del cappello o quando non tenete da conto la fine del rocchetto non sciupate della merce che costa anche essa 5 lire al kg? E sapete quanto è il consumo giornaliero nella fabbrica nostra? Ho vergogna a stamparlo perché sono cose che dovrebbero tenersi in famiglia, ma il male è così grande che bisogna denunciarlo a voi stesse perché voi stesse vi mettiate rimedio. Ebbene sono di media 20 chili al giorno tra treccia e cotone che noi raccogliamo la sera nel nostro salone. Venti chili che a 5 lire fanno 100 lire di consumo al giorno […] Badate 100 lire al giorno per duecento giorni di lavoro, sono 20.000 lire all’anno di consumo – che nessuno gode – di ricchezza andata in fumo – di danno comune – di spesa maggiore del necessario – Pensateci! Ma sento qualcuna dire: “che cosa vuoi che importi a noi del consumo? Quella è roba che tocca alla fabbrica – ci pensino i padroni – già a noi che cosa ne viene in saccoccia! […]” Il credere che l’operaio non ci perda egli pure e molto del danno che gli reca, volontariamente o no, alla fabbrica è un errore dei più madornali. L’operaio per ottenere sempre maggiori miglioramenti deve avere cura di produrre il più possibile colla minore spesa possibile. Se l’operaio è lento, se sciupa il materiale, se produce merce imperfetta mette in cattiva condizione non soltanto la fabbrica che si troverà ad avere merce cara e non perfetta e quindi sarà battuta dalla concorrenza, ma recherà danno a se stesso perché non potrà ottenere né salari alti, né miglioramenti di sorta. Le industrie che vanno male debbono per forza pagar male gli operai, non aver riguardo alcuno per essi – non pensare ad alcuna previdenza per i lavoratori […] Ho dato ordine che si pesi esattamente tutte le sere la treccia che resta per terra: spero che la coscienza operaia farà subito sentire un miglioramento nel consumo. Da parte nostra a dimostrare tutta la fede che abbiamo negli operai e a prova che adopereremo le economie che si realizzeranno nei consumi a beneficio dei lavoratori – nella sicurezza che le operaie mi seguiranno – andiamo a dedicare al ricreatorio dei figli del popolo la somma di lire 5.000. Sono cinquemila lire che la fabbrica anticipa sulle economie del consumo per vedere se sia più grande la vostra voglia di far del bene o la coscienza operaia di seguirci nel bene […]” (ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1206). (62) Dal contratto di lavoro di A. Bertesi del 25 maggio 1910 sia apprende che: “[…] Consiglio di Amministrazione […] collo stipendio di L. 12.000 […] Egli avrà inoltre diritto all’alloggio, luce e riscaldamento che gli saranno forniti dallo stabilimento. Gli sarà annualmente corrisposto la somma di L.1.500 per rimborso spese. Qualora (vi saranno) utili annuali della Società – lordi di ammortamenti e di interesse al capitale azionario L. 200.000 – egli avrà diritto ad una compartecipazione sugli utili stessi, detratte le dette lire duecentomila, del 7% sulle prime lire centomila, del 10% sugli utili ulteriori […]. Di conto, facendo riferimento a dati riportati da CARLO COGLIATI, op. cit., pp. 23-24: “Le tessitrici di treccia, nei mesi di maggior lavoro, sono occupate ai lavori agricoli, e… emigrano nel giugno e nel luglio nelle risaie del Piemonte e della Lombardia per i lavori di monda. Questi durano 45-55 giorni e danno alle mondatrici un guadagno medio di 70-80 lire […]. Per le trecciaiole non è in alcun modo possibile fissare i giorni lavorativi e calcolare il guadagno annuo: solo per fanciulle si può calcolare che le giornate di lavoro siano come per i paglierini 120, impegnando esse per la lavorazione del truciolo la maggior parte del tempo quasi solo nella morta stagione. Prendendo a base il prezzo medio della treccia corta nell’ultimo decennio, il calcolo del guadagno può essere il seguente: […] rapidità media lire 0,42 al giorno: giorni lavorativi 120 = lire 50,40 […]”. Si può quindi fare un debito raffronto tra la “Povertà dorata” di A. Bertesi e la “povertà proletaria”. Per Bertesi tra stipendio e rimborsi spese, escludendo utili e privilegi (casa, luce e riscaldamento), si ha la somma di L.13.500 annue che rivalutata in lire 1988, secondo i coefficienti di rivalutazione Istat, ammonta a L. 50.273.970. Per il proletariato urbano e agricolo si può calcolare, tre mercede da truciolo e bracciantile, che il reddito medio annuo ammontava all’incirca a L. 125,40 che, sempre rivalutato con i coefficienti sopradetti, ammonterebbe a L. 484.000. Ulteriori elaborazioni sulle possibilità d’acquisto sono tralasciate. (63) ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1205. (64) Ibidem, Raccolta di manoscritti titolata Massime Filosofiche, docc. nn. 1290-1293. (65) Interessante è un articolo comparso su “Luce” del 25-26 aprile 1908, Ad una gentil lavoratrice del cappello: “Se le operaie del truciolo intendono di cambiare il vecchio e incomodo scialle con il cappello di paglia d’estate e di feltro d’inverno, io me ne compiaccio come di una novità gentile […] Ci sono i cappelli delle operaie da 3 lire, quelli della media borghesia da 15 a 25 e quelli della haute da 50, 100, 500 e più […] Tra cappello e scialle la spesa va bilanciandosi […] Ma io temo […] che le nostre fanciulle per un senso di vanità a cui sono predisposte, diano al cappello il significato di ornamento e di lusso […] Invece per le operaie mettere il cappello vuol dire, cambiare copricapo e nient’altro […] A Carpi del lusso ce n’è fin troppo: anzi la facilità con la quale le fanciulle di fabbrica guadagnano una discreta settimana, le induce a spendere assai più nell’abbigliamento di quello che nel vitto […] Il papà e la mamma non hanno autorità alcuna sui figlioli. Lo stesso guadagno individuale delle giovanette e dei giovani li porta a non sentire l’autorità paterna: - A sem nueter ch’a mantgnem la famija […] – dicono i giovani e spesso le mamme costrette a lavorare in casa, e i padri, ahi! Troppo spesso disoccupati, non sentono la forza di rispondere e di farsi rispettare […] E siccome i giovani son giovani e, specie nelle donne, il lusso è la più grande delle attrattive, così essi dedicano al lusso la maggior parte della loro mercede… E’ da augurarsi che i giovani si ravvedano […] io temo che il cappello sia un nuovo incitamento a spendere […]”. (66) ISRMO, Archivio Bertesi, Massime filosofiche, docc. nn. 1290-1293. (67) F. PAGLIANI, L’Arte del truciolo a Carpi, cit., p. 298 (68) Da “Falce e Martello” del 31 ottobre 1920: “E per chiunque abbia una sua pur limitata confidenza con la sociologia, sa che l’homo aechonomicus, specialmente se povero, non è punto suscettibile e persuasibile alle predicazioni. Su di lui e per lui agisce l’interesse che è in sé e fuori di sé. Opera di determinismo economico che lo livella a tutti i lavoratori, a tutti gli sfruttati. Agisce l’egoismo teorizzato dal Marx che lo fa irresistibilmente partecipe della lotta di classe, che lo getta fatalmente nel gioco degli opposti interessi classistici […]”. (69) ASVC, don Ettore Tirelli, Cronaca Carpigiana, 11 dicembre 1903: “ Gli esercenti drogheria, promuovono una sottoscrizione perché Carpi […] presso il Civico Ospedale sia aperto un reparto per colpiti da tubercolosi […] onde raccogliere i fondi necessari a provvedere il nostro nosocomio d’un padiglione atto al ricovero e alla cura degli affetti da tubercolosi. Più che altrove questa malattia deve essere combattuta fra noi, ove, alimentata da cause speciali, miete tante vittime nei lavoratori dell’arte del truciolo…”. (70) G. GIOLITTI, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 1957, p. 134. (71) Da “L’Azione Liberale” del 1 aprile 1914, La ragione e il tempo: “[…] Ora si domanderebbe che ne sia avvenuto di tutte quelle trasformazioni, creazioni e indirizzi miracolosi, del gran campo di sfruttare e mondo da invadere. Alla distanza di pochi anni abbiamo veduto la Ditta Loria e compagno rinunziare ai favolosi sogni e cedere lo stabilimento, e pur molte altre entrate nelle gole del vorace cerbero. E ancora: che n’è adesso della sorte dei pagliari, cilindratori, delle annaspatrici, impaccatrici e delle trecciaie? Fatalità […] misteriose. Sta bene rievocare i ricordi… delle larghe viste industriali “quasi profetiche” ora che il futuro si è tramutato in passato e presente… doloroso; ora che nonostante le creazioni dell’industriale, dinanzi alla immane invadenza e all’interno e all’esterno, il mondo si è… rimpicciolito e i bilanci permettono di licenziare impiegati ed operai”. (72) Dal XII Bilancio della Società anonima “Il Truciolo”, manoscritto di A. Bertesi datato ottobre 1916, p. 18 bis: “La Loria ha utilizzato tutti i suoi locali per usi militari e sebbene l’Intendenza e i Commissari siano tirchi nel concludere e lenti nel pagare pure 20/mila lire di fitto annuo la Loria incassa… Avevamo un compito grave ma preciso: adattarci alle nuove circostanze, restringere cioè la complessa azienda, semplificare l’amministrazione, ridurre i magazzini, diminuire i debiti […]” (ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1240). (73) ASVC, don Ettore Tirelli, Cronaca Carpigiana, 8 giugno 1916: “[…] Alle ore 3 e un quarto di stamane, sono arrivati, con treno della Croce Rossa, 290 feriti di guerra. Di questi, 150 già convalescenti furono acquartierati presso il Deposito Convalescenza e Tappa (Tintoria Menada) […]”. (74) ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1858: “1905 – novembre 29 – visitato stasera una splendida collezione di campioni di trecce della vecchia ditta Giuseppe Menotti ora in mano Eredi Rebuttini = questi ne chiedono 1000 lire = io ne ho esibito 500 cinquecento = Vediamo come andrà. Novembre 30 – Oggi Gigi benzi mi ha detto che gli eredi Reb. Sono disposti a vedere la collezione per L. 700 = ho insistito per 500 – domani andrà Carlo Zanoli a rivederla e poi si combinerà […]. Dicembre I. – Zanoli ha combinato cogli eredi Rebuttini per il campionario di L. 600 seicento. E’ un opera grossa, ma è una bella spesa. Il campionario ha un valore storico – artistico straordinario. Lo vedremo all’esposizione di Milano 1906 […]”. (75) ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1392. (76) ISRMO, Archivio Bertesi, doc. n. 1393, dattiloscritto in pessimo stato di conservazione da cui è leggibile solo quanto è sotto riportato. Materia Prima Salix alba – nei propri boschi sul Po per la lavorazione del truciolo. Trucioli di Carpi di “Salix alba” o salice bianco. Trucioli di Bormia di “Populus Tremula” della Russia. Trucioli di Gattice di Toscana S. I. T. Importa – incetta – lavora – tiene in deposito trucioli paglie materie di ogni specie e provenienza. S. I. T. Confezione trecce ordinarie – fini – finissime Trecce a mano di salice o di altri trucioli. Specialità 3-7-9 fili. Superiorità riconoscibilità. Selezione perfetta = produzione e commercio annui: tipi classici di Carpi. 15.000.000 di pezze. Sit. fabbrica cappelli Cappelli di Trucioli di Carpi / Cappelli di campagna. Cappelli di paglia / Solidissimo della Ditta Bacchi di Luzzara [nota m]. Cappelli di Tegal commercio con qualifica di “Borsalino del Truciolo”. Cappelli per uomo Cappelli per signora Cappelli per ragazzi Cappelli per bimbi Campionario di 900 forme Sit. Accetta commissioni per riprodurre – imbiancare – tingere. Stabilimento di tintoria perfetto. Sit. Capitale L. 1.500.000 interamente versato con sede in Milano. Stabilimenti ed uffici centrali in Carpi – fond. nel 1904. Consiglio d’amministrazione. Presidente – Della Torre Dott. Luigi, banchiere. Vice presidente Corni Cav. Rag. Fermo, industriale. Consigliere Delegato – Bertesi Alfredo, deputato al Parlamento. Sit. è italiana per la sua sede in Carpi… Ma è internazionale perché lavora materie prime di ogni provenienza. Ha sede in una piccola città di provincia. Ma collabora alla moda di Parigi. Come è azienda agricola – perché coltiva il salice da truciolo. E come infine è un’azienda artistica per la squisita e ideale creazione delle trecce di fantasia e d’alta moda. Sit è nel suo genere lo stabilimento più completo al mondo. Perché comincia la sua lavorazione dalle sabbie del fiume e finisce col porre in capo il cappello guarnito. Sit racchiude le seguenti sezioni Ditta Giuseppe Menotti di Carpi direttore G. Menotti. Generi di alta novità per moda. Specialità parigine. L. Benzi di Carpi (Direttore Carlo Zanoli) Fabbrica e commercio di trecce da cappelli comuni, fini ed artistiche. G. Rebuttini Eredi & C. di Carpi Direttore Nicolini Augusto commercio di trecce. Laboratorio di imbianchimento in Carpi Direttore Dott. Ottorino Loevi. Stabilimento Tintoria in Carpi Direttore Augusto Klungèr. Società Beniamino Franklin di Villa Bartolomea fabbrica di trucioli e di trecce a mano. Azienda agricola boschiva di Carta Torriano coltivazione di salici. Banco di vendita e rappresentanza in Firenze in via dell’Oriuolo 28. Ufficio di vendita in Parigi – Rue Apollinaire n. 2 (direttore Luigi Benzi). (77) Dal carteggio Pederzoli, proprietà privata, in fotocopia consultabile presso la sez. Etnografica del Museo Civico di Carpi: “Londra 4 novembre 1881 – […] Come ti ho detto nella mia di ieri credo sarebbe utile affittare un piccolo ufficio nella City per tre o quattro mesi, ritirare la nostra merce da Kurtz e fare gli affari anche nel dettaglio. C’è qua all’albergo un giovane italiano che rappresenta una casa di guanti di Napoli, che è arrivato da circa un mese, egli sottosterebbe a pagare la metà spesa per affittare un ufficio nella city in comune con me […]”. (78) A conferma di ciò è anche un articolo su “La Gazzetta dei Cappellai” del gennaio – febbraio 1920, in cui sono esposte le gravi condizioni dell’industria nazionale del cappello di paglia, salvo la realtà carpigiana: “[…] Anche Carpi, capitale del truciolo, ha sofferto gravemente la guerra e ciò per la chiusura dei paesi di rifornimento delle materie prime, la maggior parte appartenenti al già Impero Austro – Ungarico. Però qui la vita industriale non cessò mai e le Ditte sono rimaste intatte, nelle persone e negli impianti”. (79) ISRMO, Archivio Bertesi, doc. nn. 1256-1627. (80) Ibidem.