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lE ProvE - Dike Giuridica Editrice
Capitolo III
le prove
di Sara Farini
Sommario : 1. Considerazioni generali. – 2. L’oggetto della prova. – 3. La prova diretta e la prova indiziaria. – 4.
Il diritto alla prova. I criteri che presiedono all’ammissione della prova nel processo penale. – 5. La tipicità
dei mezzi di prova e le prove atipiche. – 6. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova. – 7.
L’onere della prova e la presunzione di innocenza. – 8. L’ambito di operatività della normativa dettata in tema
di prove. – 9. La testimonianza. – 9.1. L’incompatibilità a testimoniare. – 9.2. L’oggetto, i limiti e le modalità
di assunzione. – 9.3. Gli obblighi del testimone. – 9.3.1. L’obbligo di deporre e la facoltà di non rispondere.
– 9.3.1.1. Il privilegio contro l’autoincriminazione. – 9.3.1.2. Il testimone prossimo congiunto dell’imputato. – 9.3.1.3 Il segreto professionale. – 9.3.2. L’obbligo del segreto. – 9.3.2.1. Il segreto d’ufficio. – 9.3.2.2. Il
segreto di Stato. – 9.3.2.3. Il segreto sui nomi degli informatori della polizia giudiziaria e dei servizi di sicurezza. – 10. La testimonianza indiretta. – 11. L’esame delle parti private. – 11.1. L’esame dell’imputato. – 11.2.
L’esame di persona imputata in un procedimento connesso. – 11.3. L’esame delle altre parti private. – 12. La
testimonianza assistita. – 12.1. Il testimone assistito con procedimento pendente. – 12.2. Il testimone assistito
“giudicato”. – 12.3. La necessità dei riscontri per le dichiarazioni rese dal testimone assistito e dalla persona
imputata di un reato connesso o collegato. La chiamata in correità. – 13. Il confronto. – 14. La ricognizione. – 15. L’esperimento giudiziale. – 16. La perizia. – 16.1. Il consulente tecnico di parte. – 17. I documenti.
– 17.1. L’acquisizione di atti di altri procedimenti. – 17.1.1. L’acquisizione di verbali di prove. – 17.1.2. L’acquisizione di sentenze. – 18. I mezzi di prova e i mezzi di ricerca della prova. – 19. Le ispezioni. – 20. Le perquisizioni. – 21. Il sequestro probatorio. – 22. Le intercettazioni di conversazioni e comunicazioni. – 22.1. Le
videoriprese. – 22.2. I tabulati telefonici.
1. Considerazioni generali
La funzione del processo penale è quella di provare il fatto ipotizzato nell’imputazione e le prove sono gli strumenti impiegati per realizzare tale obiettivo.
All’inizio del processo, infatti, il fatto storico addebitato all’imputato non è certo,
in quanto l’accusa ne afferma l’esistenza, mentre la difesa lo nega; provare vuol dire
dunque indurre nel giudice il convincimento che il fatto storico sia avvenuto in un
determinato modo.
L’accertamento, in quanto rivolto alla ricerca – almeno tendenziale – della verità,
dovrà pertanto essere il più possibile obiettivo e razionale e per tale ragione non potrà fondarsi sulla conoscenza privata del giudice, bensì su elementi esterni, appunto
le prove, da valutare secondo i canoni oggettivi della logica.
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Compendio di Diritto Processuale Penale
In tal senso, la prova è quel procedimento logico in base al quale da un fatto
noto si deduce l’esistenza del fatto storico da provare e le modalità con le quali esso
si è verificato (Tonini).
Tanto premesso, la scelta compiuta dal legislatore per un processo di tipo tendenzialmente accusatorio, basato sul principio dialettico, incanala su binari obbligati
la regolamentazione del sistema delle prove: se si parte, infatti, dal presupposto che
la verità si accerta tanto meglio quanto più le funzioni sono ripartite tra le parti
processuali, i poteri di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova
non possono essere attribuiti ad un unico soggetto, bensì devono essere divisi e
distribuiti tra giudice, accusa e difesa in modo che nessuno ne possa abusare. Per
tale ragione, il legislatore ha riconosciuto alle parti il potere di ricercare, chiedere
l’ammissione e contribuire alla formazione della prova, spettando invece al giudice
unicamente il compito di decidere, dirimendo gli eventuali contrasti che possono
sorgere tra le parti, pur permanendo sempre in una posizione di assoluta imparzialità e neutralità psichica.
Da un punto di vista metodologico, e prima di passare ad analizzare funditus il sistema delle prove, occorre
chiarire la distinzione tra fonte di prova, mezzo di prova, elemento di prova e risultato probatorio. Fonte di prova
è la persona (ad esempio un testimone) o la cosa (ad esempio una traccia del reato) che risulta idonea a
fornire un elemento utile per l’accertamento del fatto. Mezzo di prova è lo strumento attraverso il quale
viene introdotto nel processo almeno un elemento funzionale all’accertamento del fatto (ad esempio la
testimonianza). Per elemento di prova si intende, invece, l’informazione che si ricava dalla fonte di
prova, prima che sia valutata dal giudice. Infine, il risultato probatorio è l’elemento di prova valutato dal
giudice sotto il profilo della sua attendibilità e della credibilità della relativa fonte.
2. L’oggetto della prova
In base al disposto dell’art. 187 c.p.p. “sono oggetto di prova i fatti che si riferiscono
all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza.
Sono altresì oggetto di prova i fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali. Se
vi è costituzione di parte civile, sono inoltre oggetto di prova i fatti inerenti alla responsabilità
civile derivante dal reato”.
Oggetto della prova non è dunque soltanto il fatto storico cristallizzato
nell’imputazione, risultando il thema probandum ben più ampio, tanto da ricomprendere: a) i dati storici integranti la fattispecie ipotizzata nel capo di imputazione (ad
esempio che Tizio ha sparato a Caio); b) i fatti che incidono sulla punibilità (ad
esempio la capacità di intendere e di volere e le cause di non punibilità); c) i fatti che
si riferiscono alla determinazione della pena (ad esempio i motivi a delinquere) o
della misura di sicurezza (ad esempio la pericolosità sociale); d) i fatti da cui dipende l’applicazione di norme processuali (ad esempio quei fatti dai quali si desume la
nullità di un atto); e) se vi è costituzione di parte civile, i fatti idonei a dimostrare
l’esistenza e l’ammontare del danno.
L’art. 187 c.p.p. traccia dunque i confini del tema di prova all’interno del processo penale e si pone quale parametro di riferimento per la verifica della rilevanza e
pertinenza di ogni singolo mezzo di prova, fungendo, altresì, in un’ottica garanti-
Capitolo III – Le prove
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sta, da limite all’espandersi dei poteri di acquisizione probatoria, al di là del quale la
verifica processuale non può spingersi (Siracusano).
3. La prova diretta e la prova indiziaria
Di regola la prova avrà direttamente ad oggetto i fatti indicati nell’art. 187 c.p.p.;
così, ad esempio, nel caso della testimonianza, Tizio dirà di aver visto Caio rubare
e attraverso le parole di Tizio, rappresentative in via immediata del fatto contestato
a Caio, il giudice potrà convincersi della colpevolezza dell’imputato. Tuttavia, in
altri casi, può accadere che non sia possibile provare direttamente il fatto controverso, ma soltanto altre circostanze secondarie dalle quali, comunque, attraverso
un ragionamento di tipo induttivo, è dato risalire al fatto principale da provare.
Per rimanere nell’esempio di cui sopra, se Tizio afferma di aver visto Caio, in piena notte, nei pressi dell’immobile in cui si è verificato il furto, con degli arnesi da
scasso in mano, sarà plausibile ritenere che egli sia l’autore dell’illecito. In ipotesi di
tal fatta, dunque, si giunge al medesimo risultato probatorio – l’affermazione della
responsabilità di Caio – passando attraverso la dimostrazione dell’esistenza di altre
circostanze fattuali, dette circostanze indizianti, dalle quali si desume, per mezzo di un’operazione mentale di tipo induttivo, fondata su regole logiche o massime
di esperienza, la prova del fatto principale.
Ciò detto, nel panorama delle prove si è soliti distinguere tra prova diretta e prova indiretta (o indiziaria o critica) a seconda che la prova medesima abbia ad oggetto
o meno un fatto attinente al thema probandum principale, quale risulta tratteggiato
dall’art. 187 c.p.p.
Pertanto, è prova diretta quella che si riferisce direttamente al fatto di reato,
così come cristallizzato nell’imputazione e che consente in via immediata, per rappresentazione, di concludere circa la sussistenza o l’insussistenza del fatto stesso.
È invece prova indiretta quella che attiene ad un fatto diverso da quello specificatamente contestato all’imputato, ma dal quale può dedursi la prova del fatto
principale, in ognuno o in qualcuno dei suoi elementi.
La prova indiziaria postula il ricorso alle c.d. massime di esperienza, intendendosi per tali quelle regole ipotetiche a contenuto generale che, tratte dall’osservazione ripetuta di casi simili, esprimono ciò che avviene
nella maggior parte dei casi. Ad esempio, un soggetto che di notte si aggira nei pressi di un’abitazione con
degli arnesi da scasso in mano con molta probabilità ha appena compiuto un furto o intende compierlo. È
evidente che, per la loro genesi, le massime di esperienza si prestano a falsificazione, non risultando dunque idonee a fondare senza incertezze la conclusione circa l’effettiva verificazione di un evento che, per sua
natura, presenta il carattere della novità.
Alle massime di esperienza si contrappongono le leggi scientifiche, attraverso le quali è possibile collegare un
evento alla sua causa, in termini di certezza o più o meno elevata probabilità (ad esempio, conoscendo la
regola secondo cui un veicolo di un determinato tipo, che procede ad una certa velocità, lascia sull’asfalto
i segni di una frenata di una certa lunghezza, si potrà calcolare la velocità con la quale esso veniva condotto). Le leggi scientifiche risultano senz’altro maggiormente affidabili, presentando i caratteri della generalità, sperimentabilità e controllabilità.
La constatazione che la prova indiziaria non ha direttamente ad oggetto i fatti
indicati nell’art. 187 c.p.p. non deve comunque indurre a ritenere che essa sia da
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Compendio di Diritto Processuale Penale
considerare una prova “minore” rispetto a quella diretta: talvolta, infatti, può essere
più significativo un indizio (ad esempio un’impronta digitale) rispetto ad una prova
(ad esempio una testimonianza). Se si vuol parlare di minore decisività, lo si può fare
soltanto in ragione del diverso procedimento valutativo, più o meno complesso,
condotto dal giudice. Infatti, come osservato dalla dottrina (Lozzi), nel caso di prova diretta il giudice dovrà compiere una sola valutazione e quindi, una volta superato il vaglio di credibilità della fonte e di attendibilità dell’elemento di prova, potrà
giungere ad una affermazione positiva circa la penale responsabilità dell’imputato,
mentre nel caso della prova indiziaria sarà necessaria una doppia valutazione, diretta
prima di tutto a verificare l’affidabilità della prova e poi ad accertare se sia possibile
o meno, facendo applicazione di una massima di esperienza o di una legge scientifica, risalire dal fatto noto al fatto ignoto con un sufficiente grado di probabilità
(occorre infatti tenere presente che il fatto deve risultare provato “al di là di ogni
ragionevole dubbio”: art. 533 c.p.p.).
Sul piano normativo, la minore affidabilità della prova indiziaria è del resto confermata dall’art. 192 c.p.p., a mente del quale “l’esistenza di un fatto non può essere
desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti”.
L’indizio isolato non può dunque assumere significativa rilevanza ai fini della
decisione, con la conseguenza che la pluralità di indizi costituisce l’indispensabile
premessa per la verifica del fatto oggetto dell’imputazione.
Secondo quanto prescritto dalla norma in esame, inoltre, gli indizi devono essere
gravi, precisi e concordanti.
Nel dettaglio, per gravità si intende la capacità dimostrativa dell’indizio, cioè la
sua pertinenza rispetto al thema probandum, la contiguità con il fatto ignoto da provare (Cass. pen., sez. IV, 3 febbraio 1993, n. 943), nonché la sua consistenza intesa
come capacità di resistenza alle obiezioni.
Sono dunque gravi gli indizi che resistono alle obiezioni e che hanno un’elevata
persuasività.
Per precisione si intende invece la non genericità e la necessità che il fatto noto da
cui muove il giudizio inferenziale sia certo nella sua oggettività, non essendo logicamente deducibile un fatto ignoto da un fatto a sua volta ipotetico (Cass. pen., sez.
IV, 3 febbraio 1993, n. 943). Tuttavia, non è necessario che i fatti su cui si basa l’indizio siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza
possibile dei fatti accertati, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva,
risultando sufficiente che l’inferenza avvenga alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento alla connessione verosimile degli accadimenti, la cui normale
sequenza e ricorrenza possa verificarsi secondo le regole di esperienza.
Sono dunque precisi gli indizi non suscettivi di plurime interpretazioni.
Il requisito della concordanza vale invece a sottolineare la necessità che gli indizi
non contrastino tra di loro, risultando “logicamente dello stesso segno” (Cass. pen., sez.
IV, 3 febbraio 1993, n. 943).
Sono dunque concordanti gli indizi che convergono tutti verso la medesima
conclusione circa l’esistenza del fatto da provare.
Gravità e precisione devono connotare ciascun singolo indizio, mentre la concordanza dovrà essere accertata valutando gli indizi nel loro complesso.
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Afferma la giurisprudenza che “poiché l’indizio è significativo di una pluralità, maggiore o minore, di fatti non noti
(tra cui quello da provare), nella valutazione di una molteplicità di indizi è necessaria una preventiva valutazione di
indicatività di ciascuno di essi sulla base di regole collaudate di esperienza e di criteri logici e scientifici, e successivamente
ne è doveroso e logicamente imprescindibile un esame globale e unitario, attraverso il quale la relativa ambiguità indicativa
di ciascun elemento probatorio possa risolversi, perché nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra
con gli altri, sì che il limite della valenza di ognuno risulta superato e l’incidenza positiva probatoria viene esaltata nella
composizione unitaria, in modo da conferire al complesso indiziario pregnante e univoco significato dimostrativo, per il
quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto” (Cass. pen., sez. un., 20 settembre 2005, n. 33748).
4. Il diritto alla prova. I criteri che presiedono all’ammissione della
prova nel processo penale
Come già detto, la scelta compiuta dal legislatore per un modello di processo
di stampo prettamente accusatorio impone che siano le parti a ricercare le fonti di
prova e a chiedere al giudice l’ammissione del relativo mezzo di prova. In tal senso
alle parti è riconosciuto il diritto alla prova, che rappresenta un aspetto essenziale
del diritto di difesa. Tale diritto compendia essenzialmente il potere positivamente riconosciuto a ciascuna della parti di: a) ricercare le fonti di prova; b) chiedere
l’ammissione del relativo mezzo; c) partecipare alla sua assunzione; d) proporre una
valutazione del risultato al momento delle conclusioni (Tonini).
Quindi, il diritto di cui si discorre si manifesta, innanzitutto, nel diritto di ricercare le fonti di prova e di ottenerne l’ammissione: l’art. 190 c. 1 c.p.p. prevede
infatti che “le prove sono ammesse a richiesta di parte. Il giudice provvede senza ritardo con
ordinanza escludendo le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue
o irrilevanti”; nessuno meglio di ciascuna parte è in grado di comprendere quali
siano gli elementi idonei a convincere il giudice circa la bontà delle proprie affermazioni.
Il potere di ammissione della prova compete invece al giudice che, nel suo concreto esercizio, deve attenersi ai seguenti criteri: a) la prova deve essere pertinente,
cioè riguardare l’esistenza del fatto storico indicato nell’imputazione, o comunque
uno dei fatti indicati nell’art. 187 c.p.p.; b) la prova non deve essere vietata dalla
legge (v. art. 220 c.p.p.); c) la prova non deve essere superflua, cioè sovrabbondante, ossia convergere verso l’acquisizione al processo di un medesimo risultato
conoscitivo cui mirano una pluralità di altri mezzi di prova, in quanto, in siffatti
casi, la sua assunzione sarebbe inutile; d) la prova deve essere rilevante, tale cioè
che il suo probabile risultato sia idoneo a dimostrare l’esistenza del fatto da provare.
Tale disposizione, dunque, plasma e limita in maniera decisa il potere che compete al giudice in ordine alla ammissione dei mezzi di prova: la prova pertinente
deve fare ingresso nel processo, a meno che non sia manifestamente superflua o
irrilevante, ovvero si ponga in contrasto con un esplicito divieto legale; la presenza
dell’avverbio manifestamente sta dunque a significare che, in caso di dubbio sull’utilità o la rilevanza di una prova, il giudice ha il dovere di disporne l’ammissione,
risolvendosi la sua valutazione in una mera verifica di segno negativo. Il giudizio di
ammissibilità non investe pertanto l’attendibilità della prova, riservata al momento
successivo della valutazione.
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Compendio di Diritto Processuale Penale
Con riferimento alla prova dichiarativa, l’art. 190-bis c.p.p. circoscrive ulteriormente il potere di ammissione riconosciuto al giudice: nel caso in cui si proceda per gravi delitti di criminalità organizzata,
violenza sessuale e pedofilia (laddove il testimone sia minore degli anni 16), l’esame in dibattimento di
un testimone o di una persona imputata in un procedimento connesso, che abbiano già reso dichiarazioni
in sede di incidente probatorio, è consentito soltanto se riguarda fatti o circostanze non compresi nelle
precedenti dichiarazioni o se ciò risulta necessario sulla base di specifiche esigenze prospettate dal giudice
o dalle parti.
Quegli stessi criteri di cui si è appena detto dovranno guidare il giudice anche
nel provvedere sulla eventuale revoca delle ordinanze ammissive, laddove, in ragione delle sopravvenute acquisizioni probatorie, gli sviluppi dell’istruttoria rendano
manifestamente inutile o irrilevante la prova precedentemente ammessa. In questi
casi, tuttavia, la revoca del provvedimento è subordinata al fatto che siano state
“sentite le parti in contraddittorio” (190 c. 3 c.p.p.).
Il principio dispositivo, cui mostra di ispirarsi il codice di procedura penale con
l’art. 190 c.p.p., risulta tuttavia temperato dal riconoscimento di poteri di iniziativa probatoria officiosi, a carattere integrativo, esercitabili dal giudice nelle
ipotesi in cui il quadro probatorio introdotto dalle parti impedisca al processo di
assolvere al meglio la sua funzione di accertamento (si vedano in particolare gli artt.
422 c. 1, 441 c. 5 e 507 c.p.p.).
Tale potere, sia pur limitato dalla necessaria presenza di specifiche condizioni
di esercizio, si giustifica in considerazione del fatto che gli esiti dell’accertamento
cui conduce il processo penale incidono sulla libertà personale dell’imputato, che
è un bene indisponibile della persona umana, qualificato come inviolabile dalla
Carta fondamentale (art. 13 Cost.) e che pertanto, come tale, non può essere rimesso unicamente ai poteri di iniziativa istruttoria, e quindi alla disponibilità,
delle parti.
Il diritto alla prova, come detto, ricomprende anche il diritto di partecipare
all’assunzione del mezzo di prova. Ciò si coglie, essenzialmente, con riferimento alle prove dichiarative (ad esempio la testimonianza), la cui assunzione in
dibattimento avviene nelle forme dell’esame incrociato, nel corso del quale l’escussione del dichiarante è condotta e scandita dalle domande formulate dalle parti,
nella sequenza dell’esame, controesame e riesame (v. sub VII.4.4); al giudice è riconosciuta soltanto una funzione di stimolo e controllo, finalizzata essenzialmente a
coniugare il confronto tra le parti con le esigenze dell’accertamento.
Nell’ipotesi delle prove precostituite, come i documenti, l’ammissione coincide necessariamente con l’acquisizione al processo del dato probatorio: viene dunque a mancare un’autonoma fase di assunzione.
Occorre poi tener conto che vi sono dei fatti che possono essere conosciuti dal
giudice senza necessità di uno specifico accertamento, risultando pertanto superflua
l’ammissione e l’esperimento di un qualsiasi mezzo di prova; ci si riferisce ai fatti
notori e ai fatti pacifici.
Il fatto notorio è un fatto che “appartiene al normale patrimonio di conoscenze di una
determinata cerchia sociale e che può essere perciò conosciuto nella sua distinta identità storica
dal giudice senza la necessità di ulteriori verifiche in punto di prova” (Siracusano): si dice,
infatti, che notoria non egent probatione.
Capitolo III – Le prove
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Si considera fatto notorio, ad esempio, un terremoto, un’alluvione, la svalutazione monetaria, uno sciopero nei servizi pubblici ecc.
Il fatto pacifico è invece un fatto privato, che non appartiene al bagaglio conoscitivo della collettività, ma che ciononostante non necessita di prova in quanto,
affermato da una parte, è ammesso esplicitamente o implicitamente dall’altra, che
non ne contesta l’esistenza.
Infine, il diritto alla prova si sostanzia nel diritto ad ottenere una valutazione degli elementi probatori introdotti da ciascuna parte nel processo. In tal senso, al
giudice è chiesto di palesare nella motivazione della sentenza il percorso argomentativo che ha condotto alla decisione finale, evidenziando il momento valutativo e
le ragioni per le quali determinate prove sono state ritenute attendibili ed altre no,
sì da dare a ciascuna parte la possibilità di sottoporre eventualmente a critica il dictum attraverso i mezzi d’impugnazione previsti dalla legge.
5. La tipicità dei mezzi di prova e le prove atipiche
I mezzi di prova espressamente disciplinati dal codice di rito non rappresentano
un numero chiuso: il codice del 1988, infatti, non ha recepito il principio di tassatività dei mezzi di prova, pure presente nel progetto preliminare, ammettendo invece
che anche le c.d. prove atipiche o innominate possano fare ingresso nel processo in
presenza di determinate condizioni.
Dispone al riguardo l’art. 189 c.p.p. che “quando è richiesta una prova non disciplinata
dalla legge, il giudice può assumerla se essa risulta idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti
e non pregiudica la libertà morale della persona. Il giudice provvede all’ammissione, sentite le
parti sulle modalità di assunzione”. Con tale disposizione il legislatore dimostra, dunque, di non voler dettare alcuna aprioristica preclusione nei confronti delle prove
non disciplinate dalla legge, preferendo trasferire in capo al giudice il compito di
vagliare preliminarmente, caso per caso ed in concreto, sentite le parti, l’ammissibilità di tali prove, sia sotto il profilo dell’idoneità all’accertamento che in ordine alle
modalità di assunzione.
La prima condizione che deve ricorrere perché la prova atipica possa fare ingresso
nel processo è che la stessa sia idonea ad assicurare l’accertamento dei fatti:
ciò che è presunto con riferimento alle prove tipiche, e che giustifica la loro positiva
regolamentazione, va invece verificato caso per caso nell’ipotesi di prova atipica.
Inoltre, ancorché adeguata all’accertamento dei fatti, la prova atipica non può
comunque essere usata per violare libertà fondamentali: essa pertanto non deve
pregiudicare la libertà morale della persona.
Il procedimento di ammissione della prova atipica si appalesa dunque più complesso rispetto a quello analizzato con riguardo ai mezzi di prova espressamente previsti dalla legge. Mentre, infatti, in quest’ultimo
caso, a fronte della richiesta di parte, il giudice deve attenersi unicamente ai criteri guida indicati dall’art.
190 c.p.p., nell’ipotesi delle prove atipiche, prima di procedere al raffronto con l’art. 187 c.p.p. e quindi
verificare l’astratta riferibilità al thema di prova, occorre in via preliminare appurare la concreta idoneità
del mezzo di prova medesimo alla rappresentazione dei fatti, nonché delibare in ordine alle concrete mo-
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Compendio di Diritto Processuale Penale
dalità di assunzione che devono essere tali da non pregiudicare la libertà morale della persona coinvolta. È
pertanto per tale ragione che le parti sono interpellate dal giudice, evenienza questa che non ricorre nelle
ipotesi in cui si chieda l’ammissione di un mezzo di prova tipico.
Esempi ricorrenti di prove atipiche sono il riconoscimento dell’imputato effettuato in udienza dal testimone, le videoriprese, la ricognizione fotografica; esse saranno partitamente analizzate nel prosieguo del
capitolo.
6. Il principio del contraddittorio nella formazione della prova
Come già detto, il codice di procedura penale configura un processo penale che,
in sintonia con i principi della Costituzione repubblicana e delle Convenzioni internazionali ratificate dallo Stato italiano, si fonda su un sistema di tipo accusatorio
in virtù del quale - salve limitate eccezioni - la sentenza che pone fine al processo
deve fondarsi sulle acquisizioni probatorie scaturenti dalla dialettica paritaria tra
accusa e difesa, nel rispetto del principio del contraddittorio.
Grazie alla modifica dell’art. 111 Cost., operata dalla l. cost. 23 novembre 1999,
n. 1, il diritto al contraddittorio è stato veicolato in modo formale nella Carta fondamentale, risultando così consacrato al massimo livello delle fonti del diritto. La
scelta del legislatore di collocare siffatta garanzia all’interno dei caratteri tipici della
giurisdizione ha come effetto immediato quello di far assurgere il contraddittorio a
principio politico e pilastro fondamentale del sistema processuale.
Il principio del contraddittorio nella formazione della prova va inteso secondo
un duplice significato, oggettivo e soggettivo: da un lato, quale metodo cognitivo
di accertamento giudiziale dei fatti (art. 111 c. 4 Cost.) e, dall’altro, quale diritto
dell’imputato a confrontarsi con il proprio accusatore (art. 111 c. 3 Cost.).
Sotto il primo profilo (contraddittorio in senso oggettivo), l’art. 111 c. 4
Cost. contiene una prescrizione di natura oggettiva, diretta a regolare il funzionamento del processo penale: si afferma infatti che “il processo penale è regolato dal
principio del contraddittorio nella formazione della prova”. Il principio del contraddittorio
è dunque qui inteso come metodo di conoscenza, ossia quale strumento processuale
funzionale ad assicurare la genuinità della prova.
La scelta di questo metodo, del resto, risponde a convinzioni giuridiche ben radicate nella cultura processuale penalistica: esso è infatti giudicato il miglior modo
possibile attraverso il quale formare la prova, oltre che lo strumento più adatto alla
realizzazione di un processo effettivamente e compiutamente partecipato dai protagonisti, soprattutto il più debole (cioè l’imputato).
Il contraddittorio in senso soggettivo trova invece esplicito riconoscimento
nel comma 3 dell’art. 111 Cost., laddove si afferma che l’imputato ha “la facoltà,
davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo
carico”; a tale prescrizione fa eco la seconda parte dell’art. 111 c. 4 Cost. che, introducendo un esplicito divieto probatorio, sancisce la inutilizzabilità, ai fini dell’emissione di una sentenza di condanna, delle “dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è
sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”.
Si riconosce così all’imputato il diritto a confrontarsi con il proprio accusatore: si
Capitolo III – Le prove
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tratta di una previsione che va a collegarsi direttamente con l’art. 24 Cost. e quindi
con il diritto di difesa e che risulta funzionale alla tutela dell’imputato; il principio
del contraddittorio, così come enunciato in chiave soggettivistica, si atteggia dunque quale garanzia individuale.
Il principio del contraddittorio soffre tuttavia di alcune eccezioni che sono specificatamente indicate nel comma 5 dell’art. 111 Cost.: la prova è utilizzabile, anche
se si è formata fuori dal contraddittorio, quando l’imputato vi consente, ovvero
quando la stessa non è ripetibile in dibattimento “per accertata impossibilità di natura
oggettiva”, ovvero “per effetto di provata condotta illecita”.
Nel dettaglio, il contraddittorio può essere derogato quando vi è il consenso
dell’imputato: la clausola in oggetto si riferisce principalmente ai riti deflativi
del dibattimento (giudizio abbreviato, patteggiamento, decreto penale di condanna) e trova la sua ratio giustificatrice nell’esigenza dell’economia dei giudizi, pure
essa di rilevanza costituzionale. L’imputato può infatti decidere di rinunciare al
contraddittorio ed al dibattimento, con un notevole risparmio di tempo ed ottenendo “in cambio” uno sconto di pena. Viene inoltre in rilievo l’istituto dell’acquisizione concordata di atti di indagine al fascicolo per il dibattimento di
cui agli artt. 431 e 493 c.p.p.: in questo caso però perché divengano utilizzabili
dal giudice atti raccolti durante la fase delle indagini non è sufficiente il consenso
del solo imputato, ma è invece necessario un vero e proprio accordo tra difesa ed
accusa (v. sub VII.4.2.1.). Il contraddittorio, infatti, pur fungendo essenzialmente
da garanzia per l’imputato, si configura comunque quale diritto di entrambe le
parti del processo.
La seconda deroga riguarda l’accertata impossibilità di natura oggettiva, e fa riferimento essenzialmente ai casi di non ripetibilità della prova in dibattimento per
ragioni di carattere obiettivo, ovvero indipendenti dalla volontà del dichiarante. Il
riferimento è essenzialmente all’istituto delle letture delle precedenti dichiarazioni
disciplinato dall’art. 512 c.p.p. quando la non ripetibilità delle medesime dipende da
“ fatti o circostanze imprevedibili” al momento della loro assunzione (v. sub VII.4.5.3.).
Ultima eccezione è prevista nell’ipotesi in cui la mancata attuazione del contraddittorio costituisca effetto di provata condotta illecita. Il legislatore in questo
caso si riferisce al fenomeno intimidatorio, alla violenza, minaccia o subornazione,
cui sia stato sottoposto il dichiarante in vista della sua deposizione in dibattimento,
affinché il medesimo non deponga o deponga il falso, e che potrebbe avere come
effetto quello di inquinare la genuinità della prova (Corte cost., ord. 12 novembre
2002, n. 453). Pertanto, qualora all’esito di un giudizio sommario il giudice ritenga provata la violenza, la minaccia o la subornazione, le precedenti dichiarazioni
transiteranno nel fascicolo per il dibattimento (attraverso il veicolo delle letture),
presumendosi “più affidabile” quanto in precedenza riferito, posto che il contraddittorio, in siffatti casi, potrebbe attuarsi solo in modo formale e quindi in maniera
non efficace. La deroga al contraddittorio, allora, dovrà considerarsi soltanto apparente, perché si deroga al metodo ma si persegue lo stesso fine, che consiste nel
sottoporre al giudice contributi probatori genuini ed utili ai fini della decisione,
ferma ovviamente la loro valutazione in punto di attendibilità e credibilità (v. sub
VII.4.4.3.1.).
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