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SOMMARIO: 1. La riforma spagnola: cosa resta del
MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA SOMMARIO: 1. La riforma spagnola: cosa resta del matrimonio? - 2. Uno sguardo comparatistico. - 3. La situazione italiana. - 4. La separazione giudiziale. - 5. La separazione consensuale. - 6. Lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio. - 7. Gli effetti personali della separazione tra coniugi. - 8. Gli effetti del divorzio. - 9. Gli effetti della separazione e del divorzio nei riguardi dei figli. – 10. Conclusioni. 1. La riforma spagnola: cosa resta del matrimonio? - Nella regolamentazione delle relazioni familiari, l’ordinamento ha adottato, nel corso del tempo, differenti politiche, e quindi ha dettato norme che si sono via via modificate in funzione degli obiettivi perseguiti. Per lungo tempo l’intento principale del legislatore è stato quello di garantire la stabilità della convivenza familiare. Questo obiettivo ha imposto l’adozione di regole rigide, quali, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio, la diseguaglianza tra coniugi, la discriminazione della filiazione fuori dal matrimonio. Detti principi caratterizzavano il vecchio ordine familiare, quale era ancora quello del codice civile italiano del 1942 sino alla riforma del diritto di famiglia del 1975. La figura centrale di questo modello giuridico, per secoli avvertito come «naturale» e quindi accettato e condiviso dal costume, era quella della potestà del capo famiglia, cui erano soggetti moglie e figli. Mi piace qui ricordare il pensiero di Antonio Cicu, sotto la cui guida studiò a Bologna il Maestro Don Espín Cánovas, che fu il massimo teorico del diritto di famiglia nella prima metà del secolo ventesimo. In quel contesto, nel disciplinare le relazioni tra familiari, il diritto non attribuiva specifica rilevanza alla sfera dei sentimenti e degli affetti: il modulo di riferimento era quello del potere e della soggezione, esattamente come nel diritto pubblico. Nella concezione giusfamiliare istituzionale, infatti, non c’era spazio per la tutela della sfera individuale, poiché l’interesse del singolo era subordinato rispetto a quello superiore della famiglia. Si pensi – come ipotesi limite, ma fortemente emblematica – alla norma del codice italiano che tuttora disciplina il matrimonio della persona dichiarata morta (art. 68 c.c.), che sancisce la nullità del matrimonio celebrato ex art. 65 c.c., qualora costei ritorni o ne sia accertata l’esistenza. Il secondo matrimonio non ha alcuna possibilità di sanatoria (art. 117, 5 comma c.c.), neppure quando l’interessato si sia volontariamente allontanato e la sua esistenza venga accertata a richiesta del pubblico ministero (art. 67 c.c.). L’affectio coniugalis non ha rilevanza, né vale a preservare un rapporto affettivo – alla base del secondo matrimonio – a scapito di quello – il primo – che appare esclusivamente formale. Anche la disciplina dell’errore nel matrimonio, come era regolata dall’art. 122 c.c. del ’42, è paradigmatica; essa riconosceva, ai fini dell’annullabilità del matrimonio, il solo errore «sull’identità della persona», e pertanto negava ogni rilevanza a situazioni di travisamento delle qualità personali del coniuge, che oggi trovano giusto riconoscimento nell’art. 122 novellato. Nel sistema tradizionale, malattie fisiche e psichiche, anomalie sessuali, situazioni di gravi precedenti penali, non consentivano al coniuge ignaro di impugnare il matrimonio: era l’istituzione matrimoniale a ricevere tutela giuridica, a scapito della sfera degli affetti e della lealtà. Il punto di emergenza della istituzionalizzazione della famiglia era rappresentato dalla indissolubilità del vincolo matrimoniale, vigente in Italia sino all’entrata in vigore della legge 1o dicembre 1970 n. 898, che in casi determinati ne ha consentito lo scioglimento. L’indissolubilità comportava che il vincolo coniugale non poteva mai essere messo in discussione dagli sposi, neppure se concordi e senza figli, sul presupposto che il matrimonio costituisse una realtà istituzionale trascendente la volontà e gli interessi dei singoli, e non un loro affare privato. Nel volgere di un breve periodo – che possiamo approssimativamente individuare nel decennio degli anni Sessanta – il costume si è progressivamente distaccato dal 1 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA modello di relazioni familiari disciplinato nel codice. A seguito di una rapida trasformazione sociale, l’istituzione si è indebolita, il capo famiglia ha perso il suo potere, che di fatto per lo più non esercitava nei termini rigidi della legge, né nei confronti della moglie, né dei figli; la moglie ha maturato sicurezze e responsabilità fuori dalla famiglia, i figli una loro progressiva autonomia. In breve, i vincoli di soggezione si sono allentati per fare posto alle libere scelte: questo mutamento, per certi versi epocale, è stato recepito dall’ordinamento, sia allorché è stato introdotto il divorzio, sia con l’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, che, abbandonata la visione istituzionale della famiglia, ha dato piena attuazione alle regole costituzionali dell’eguaglianza tra i coniugi e della parità tra figli legittimi e naturali. Si può pertanto affermare che l’odierna disciplina del diritto di famiglia è tendenzialmente rispettosa dell’autonomia dei suoi membri, del loro mondo di relazioni, affetti e responsabilità. Questo vale in primo luogo per il rapporto tra coniugi che, sin dal suo sorgere, appare attento alla sfera interiore (art. 122 c.c.) ed alla vera libertà dei sentimenti, che trovano ulteriore tutela nella disciplina della separazione e del divorzio per cause oggettive, al di fuori di ogni logica di colpa. A ben vedere, la stessa norma sull’indirizzo della vita familiare (art. 144 c.c.), basata sulla regola dell’accordo e della pari dignità, segna il passaggio dalla tutela di fini superiori al riconoscimento di un territorio libero, lasciato alla volontà degli sposi. La regola dell’accordo deve comunque essere coordinata con il principio di libertà individuale, così la legge riconosce talvolta ad uno solo dei coniugi il potere di prendere alcune decisioni; ad esempio, gli artt. 5 e 12 della l. 22 maggio 1978 n. 194, attribuiscono in via esclusiva alla donna il diritto di interrompere la gravidanza, e le danno facoltà, non già obbligo, di consultare il marito in quanto «padre del concepito». Del criterio al quale i coniugi devono attenersi nel determinare l’indirizzo della vita familiare si occupa il primo comma dell’art. 144 c.c., laddove stabilisce che essi debbano tenere conto «delle esigenze di entrambi» e «di quelle preminenti della famiglia». A tutta prima, potrebbe pensarsi ad una riproposizione di principi che fanno leva su una concezione istituzionale della famiglia; tuttavia, in contrasto con una simile conclusione, un’attenta dottrina ha osservato come le due ipotesi sopra esaminate, benché apparentemente siano in conflitto fra loro, debbano essere interpretate nel senso che l’interesse della famiglia altro non è se non l’interesse dei singoli che di essa fanno parte, che pertanto non si può considerare superiore e distinto da quello dei suoi componenti. Dunque, a ben vedere, l’odierno sistema, nel contemperare le ragioni del gruppo con il diritto dei singoli, finisce nella sostanza per accogliere una visione essenzialmente privata delle relazioni familiari, specialmente di quella coniugale. Deve infatti porsi mente al fatto che, nonostante i ripetuti richiami alle «preminenti» esigenze della famiglia, l’ordinamento, nella disciplina della sequenza separazione-divorzio, consente a ciascuno dei coniugi, unilateralmente ed anche contro la volontà dell’altro, di por fine al consorzio matrimoniale, senza che a tal fine rilevino le responsabilità personali. In conclusione, proprio la sostanziale libertà di attuare sempre e comunque la separazione, cui può seguire automaticamente il divorzio e la creazione di un nuovo nucleo familiare, contraddistingue l’odierno modello di famiglia, opposto a quello istituzionale, caratterizzato da un crescente riconoscimento dell’autonomia e dei diritti individuali; in una parola, dalla privatizzazione delle relazioni familiari. A fronte dell’ampliarsi dell’autonomia dei partners nel disporre del loro rapporto , avanza peraltro la consapevolezza della necessità di rafforzare gli strumenti di tutela dei figli, sia con riguardo ai comportamenti richiesti ai genitori, che all’intervento pubblico. In proposito, si è rilevato che «da un lato si verifica un’apparente pubblicizzazione della famiglia sotto forma di crescenti regolazioni e interventi dello Stato (nella forma del welfare state o stato sociale); dall’altro, e allo stesso tempo, si constata una progressiva privatizzazione dei comportamenti familiari, in termini di 2 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA azioni che seguono sentimenti, aspirazioni, gusti, preferenze, aspettative e così via, apparentemente del tutto individuali e soggettivi, cioè slegati da vincoli sociali e morali di un qualche mondo comune». La situazione che complessivamente emerge può così essere riassunta: la stabilità della famiglia è nelle mani dei coniugi o partners, il diritto non pone regole per garantirla contro la volontà degli interessati. Il diritto dei genitori non può però compromettere quello dei figli ad una educazione idonea: come rileva il sociologo, «emerge un diritto soggettivo un tempo non esistente, perché – appunto – considerato materia privata, ma, di più esso diventa di rilevanza pubblica, è legittimato e fatto proprio dallo Stato in quanto tale, che si impegna a realizzarlo in pratica». In altre parole, «marriage isn’t really the important issue, children are». In Italia, negli ultimi tempi, il dibattito, soprattutto , si è sviluppato sul tema dell’affidamento dei figli; in quasi tutte le proposte di riforma che sono state presentate si vuole infatti generalizzare l’istituto dell’affidamento congiunto o condiviso sul presupposto che il minore ha diritto a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e a ricevere cura, educazione e istruzione da ciascuno di essi, anche dopo la loro separazione personale, lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. L’accento, com’è evidente, è sul diritto soggettivo dei figli all’affidamento congiunto, da collocare nell’ambito dei diritti della personalità; per contro, per ciascuno dei genitori la presenza nella vita dei figli non è più una facoltà ma un diritto-dovere per il quale è prevista una tutela e dal quale non ci si può sottrarre, al punto che la maggior parte dei progetti prevedono un risarcimento del danno a carico del genitore e a favore dei figli quando sia stato leso il suo diritto all’affidamento congiunto. È interessante rilevare che, secondo i progetti in esame, la disciplina della separazione relativa all’affidamento dei figli dovrà trovare applicazione anche con riguardo ai minori i cui genitori non sono coniugati: altro segnale molto preciso della tendenziale irrilevanza del vincolo matrimoniale, da un lato rimovibile da ciascun coniuge, dall’altro ininfluente riguardo ai figli. Non v’è dubbio che la prospettiva ancora si sia evoluta rispetto a quella che ha ispirato le grandi riforme degli anni Settanta. Ci si è resi conto che i rapporti familiari non possono essere vissuti esclusivamente in termini di libertà individuali degli adulti, ma che l’esercizio delle loro prerogative deve convivere con il diritto dei minori a mantenere entrambe le figure genitoriali, nonostante la cessazione della convivenza. Un simile obiettivo, certamente di difficile realizzazione se non addirittura utopico, pare disvelare una nuova, inconsueta, dimensione dell’indissolubilità dei vincoli familiari, trasferitasi oramai dal legame di coppia a quello di filiazione. * * * * Per lo studioso italiano le nuove disposizioni in materia di divorzio che il legislatore spagnolo si appresta ad approvare rappresentano senza dubbio un approdo estremo della riscontrata tendenza alla privatizzazione dei rapporti coniugali. Di ciò il legislatore è pienamente consapevole, se scrive nell’esposizione dei motivi che il rispetto del libero sviluppo della personalità giustifica il riconoscimento di una maggior rilevanza della volontà delle persona allorchè non desideri continuare ad essere legato al suo coniuge. Dunque, la volontà individuale trascende il vincolo coniugale ed è in se stessa causa sufficiente della pronuncia di divorzio. A ben vedere questa legge trasforma definitivamente il concetto stesso di matrimonio come è stato ricevuto dalla storia e dalla tradizione. Nulla residua delle caratteristiche storiche del matrimonio: l’indissolubilità, o, quantomeno, lo scioglimento possibile solo in casi determinati, e la diversità di sesso. Il vocabolo ha quasi perduto di significato, non identifica più nulla, se un semplice nutus può porre fine alla sua 3 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA esistenza. La volontà individuale svuota di vincolatività e di contenuto una relazione giuridica che ha accompagnato la storia umana. La scelta del legislatore spagnolo finisce per rendere il matrimonio pressoché giuridicamente irrilevante: rapporto oramai equiparato a quello di convivenza, che un semplice cenno può far cessare, o addirittura alla relazione di amicizia. Restano i doveri verso i figli, ma essi scaturiscono dal vincolo di filiazione non dal matrimonio. In questo quadro, gli unici effetti realmente permanenti - almeno potenzialmente sono quelli di natura economica previsti dall’art. 97 del codice. Al riguardo osservo che viene riconosciuta ampia rilevanza alla volontà degli interessati e mi chiedo se essi possano stipulare accordi prematrimoniali in vista del divorzio che possano validamente escludere il sorgere reciproco di diritti patrimoniali in caso di divorzio. Se così fosse, davvero potrebbe dirsi che il matrimonio è giuridicamente divenuto irrilevante, come una qualsiasi relazione consegnata interamente alla volontà degli interessati. 2. Uno sguardo comparatistico. - La privatizzazione dell’istituzione familiare e la correlata valorizzazione della personalità individuale dei coniugi non ha interessato allo stesso modo gli ordinamenti dei paesi occidentali. Se la Spagna, con le norme di cui si discute in questo Convegno, ha portato a compimento “parabola” della privatizzazione del diritto di famiglia, altrove la situazione si presenta assai diversa. Anche nei Paesi ove la tendenza divorzista è antica non è dato ravvisare il riconoscimento puro e semplice della volontà unilaterale di un coniuge quale causa sufficiente allo scioglimento del matrimonio. Negli Stati Uniti si riscontra a partire dagli anni Settanta l’abbandono del sistema del fault divorce, in cui il divorzio poteva essere ottenuto solo dal coniuge incolpevole che dimostrasse il ricorrere di un ground of divorce basato sulla colpa dell’altro, a favore del no fault divorce, in cui la possibilità di domandare ed ottenere il divorzio è subordinata al ricorrere di una situazione di “irretrievable breakdown” of the marriage. Occorre specificare, tuttavia, che il termine “no fault divorce ” viene utilizzato per indicare situazioni normative eterogenee. Così si distingue tra "pure" no-fault states (Arizona, California, Colorado, Florida, Indiana, Iowa, Kansas, Kentucky, Michigan, Minnesota, Missouri, Montana, Nebraska, Oregon, Washington, Wisconsin, and Wyoming), in cui vi è la possibilità di domandare ed ottenere il divorzio al solo ricorrere di una situazione di “irretrievable breakdown” of the marriage, e Stati nei quali tale presupposto non è sufficiente in quanto si può accedere al divorzio solo dopo un periodo di separazione giudiziale o, quantomeno di fatto: è il caso del Vermont (6 mesi), del Maryland, dello Stato di New York, del North e South Carolina (1 anno), della Virginia (1 anno in presenza di figli minori; 6 mesi in caso contrario), del New Jersey e dell’Arkansas (18 mesi). Altra variabile che incide sulla possibilità di ottenere il divorzio è la durata minima del matrimonio: in nessuno Stato, infatti, è possibile ottenere il divorzio se non dopo che sia trascorso un determinato periodo dalla celebrazione delle nozze; periodo che varia dai 60 giorni (Indiana) ad un anno (Iowa; West Virginia, ecc.). Anche in Inghilterra si adotta un sistema di no fault divorce non puro: i coniugi, infatti possono accedere al divorzio sul presupposto che il matrimonio sia irretrievably broken down. Tuttavia per dimostrare tale presupposto, occorre dare la prova della sussistenza di situazioni quali l’adulterio, l’abbandono, l’unreasonable behaviour da parte del coniuge non richiedente o la separazione che deve essersi protratta per almeno due anni se entrambi i coniugi intendono divorziare e addirittura cinque nel caso in cui il divorzio venga domandato unilateralmente. Anche in Inghilterra, poi, possono domandare il divorzio solo i coniugi che siano sposati da almeno un anno. 4 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA In Germania lo scioglimento del vincolo coniugale può aver luogo sul presupposto del “disfacimento” del matrimonio, che si realizza quando non vi è più comunione di vita tra i coniugi né l’eventualità che essa possa ricostituirsi (§ 1565 BGB). Il che si presume qualora i coniugi vivano separati da almeno un anno e domandino entrambi il divorzio (§ 1566 (1) BGB), ovvero se, in caso di domanda presentata da uno soltanto, la separazione duri da almeno tre anni (§ 1566 (2) BGB). Tale separazione non è esclusa né qualora i coniugi vivano nella medesima abitazione né nel caso in cui si siano verificati brevi periodi di convivenza allo scopo di favorire la riconciliazione (§ 1567 BGB). La possibilità di ottenere il divorzio anche nel caso in cui non sia ancora trascorso un anno di separazione è prevista per il coniuge che dimostri che, per cause imputabili all’altro, il perdurare del matrimonio costituisce per lui un serio pregiudizio (§ 1565 (2) BGB). Vi sono poi ipotesi nelle quali pur ricorrendo il presupposto del “disfacimento” della comunione di vita dei coniugi e del matrimonio, il vincolo non può essere sciolto: ciò può eccezionalmente accadere quando per motivi particolari lo scioglimento del matrimonio costituirebbe un grave pregiudizio per i figli minorenni o per il coniuge che si oppone (§ 1568 BGB). Come emerge dalla rapida sintesi, ed altresì dalle relazioni presentate a questo Convegno con riferimento ad altri Paesi europei, la scelta radicale operata dal legislatore spagnolo appare isolata poiché totalmente affidata alla volontà unilaterale di uno sposo e priva dunque di qualsivoglia riscontro di carattere oggettivo (definitiva rottura del matrimonio) che invece è tuttora posto a fondamento degli ordinamenti dei Paesi occidentali. 3. La situazione italiana. - Ancor più distante dalla normativa spagnola è quella italiana, che per molti aspetti è simile a quella sino ad ora vigente in Spagna. L’ordinamento italiano contempla una articolata disciplina della crisi coniugale. Da un lato, prevede il ricorso al giudice nei casi in cui i coniugi siano tra loro in disaccordo in ordine a decisioni da assumere relativamente all’indirizzo della vita familiare (art. 145 c.c.), oppure a scelte che riguardano figli minori (art. 316 c.c.); dall’altro, quando la prosecuzione della convivenza sia divenuta intollerabile, disciplina la separazione, che comporta l’attenuazione di determinati obblighi derivanti dal vincolo (art. 150 c.c.); infine, quando il conflitto appaia insanabile e la comunione di vita sia venuta meno, regola lo scioglimento del matrimonio (art. 149 c.c.). Nel caso in cui il contrasto non trovi una composizione vengono dunque in considerazione gli istituti della separazione legale e del divorzio, quest’ultimo introdotto nell’ordinamento con legge 1 dicembre 1970, n. 898, poi modificata dalla l. 6 marzo 1987, n. 74. In passato, la separazione rappresentava l’unico rimedio al conflitto coniugale; essa non si riverberava sul vincolo, ma consentiva ai coniugi di non coabitare ed aveva carattere tendenzialmente temporaneo, poiché i suoi limitati effetti potevano cessare in qualsiasi momento, senza formalità, solo che i coniugi si fossero riconciliati. Con l’introduzione del divorzio, il quadro normativo è radicalmente mutato, considerato che il protrarsi della vita separata per oltre un triennio legittima ciascun coniuge ad agire per lo scioglimento del matrimonio (art. 3, comma 3, lett. b), l. n. 898/1970). Dunque, come suol dirsi, la separazione è diventata l’anticamera del divorzio. La separazione legale può essere giudiziale o consensuale (art. 150, comma 2, c.c.), a seconda che trovi la sua fonte in una sentenza emessa al termine di un giudizio contenzioso, ovvero nel consenso dei coniugi contenuto in un atto sottoposto ad omologazione giudiziale. In caso di separazione giudiziale, il giudice, se richiesto, può emettere dichiarazione di addebito (art. 151, comma 2, c.c.) 5 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA Negli anni recenti, in considerazione dell’accentuata instabilità matrimoniale, che ha comportato un consistente incremento di procedure giudiziarie di separazione e divorzio, si è manifestata l’esigenza di affiancare nuove figure professionali a quelle tradizionali (giudici e avvocati): si è così sviluppato un forte interesse per le procedure di mediazione familiare , che hanno lo scopo di consentire una gestione non litigiosa dei problemi conseguenti al venir meno della comunione tra i coniugi, con particolare riferimento all’affidamento dei figli. Il punto di partenza di queste tecniche muove dalla constatazione che il più delle volte la convivenza matrimoniale fallisce per ragioni complesse, e non necessariamente per responsabilità precisa di uno dei coniugi; si tratta quindi di convincere i contendenti a rinunciare ad affrontarsi l’un l’altro in cerca di una vittoria giudiziale in termini patrimoniali (assegno di mantenimento) o personali (affidamento dei figli). Come si è scritto, la mediazione «è nata per offrire un’alternativa alla lotta per la vittoria». La mediazione familiare, se pure non può allo stato ambire a sostituire la fase giudiziale della crisi coniugale, è segno di una tendenza attenta a valorizzare gli interessi coinvolti nel conflitto – in particolare quelli dei figli minori spesso oggetto di ottusa ed arida contesa tra i genitori – che lo strumento giudiziale, per il carattere di competitività che gli è proprio, non è in grado di proteggere in maniera adeguata. A livello internazionale, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la risoluzione n. 616 del 21 gennaio 1998, ha ribadito la necessità di introdurre o promuovere la mediazione familiare. Quale strumento di prevenzione o risoluzione dei conflitti familiari essa risulta fortemente raccomandata anche nell’art. 13 della Convenzione europea di Strasburgo sui diritti del fanciullo del 1996, ratificata con la legge n. 77/2003. Sul piano del diritto interno ancora non si è giunti a definire una disciplina della mediazione familiare, per quanto alcune leggi, fra cui la n. 154/2001 contenente misure contro le violenze familiari, la menzionino espressamente e numerose proposte di legge ne prevedano l’utilizzo nel procedimento di separazione o di divorzio. Finora i giudici si sono aperti solo in via sperimentale alla mediazione familiare e in alcune realtà territoriali esiste da tempo una collaborazione con centri convenzionati. Ferma restando l’opportunità di uno specifico intervento del legislatore che ne preveda una compiuta disciplina, restano tuttavia da considerare le perplessità legate all’opportunità di prevederne l’obbligatorietà, come pure sembrano prospettare i disegni di legge presentati, considerato che si tratta di uno strumento le cui probabilità di successo sono collegate al fatto che esso non sia imposto, ma piuttosto voluto e spontaneamente accettato da entrambi i coniugi, e che le concrete modalità di funzionamento nel contesto del procedimento di separazione e divorzio non risultano ancora chiare. In particolare, ci si chiede se l’intervento di mediazione debba essere anteriore ovvero contemporaneo al procedimento di separazione e divorzio o ancora del tutto estraneo ad esso; in altre parole, se debba essere il presidente del tribunale o il giudice istruttore ad invitare le parti in conflitto a rivolgersi ad un centro di mediazione, o se piuttosto non sia preferibile considerare l’intervento mediatorio quale «approccio alternativo alle procedure legali tradizionali basate sul sistema accusatorio». L’attuale normativa non esclude interventi di questo genere laddove riconosce al giudice ex art. 68 c.p.c. la possibilità, quando ne sorga la necessità, di farsi assistere da esperti in una determinata arte o professione, o in generale da persona idonea al compimento di atti che egli non è in grado di compiere personalmente. Né può escludersi la possibilità per il giudice di inviare le parti in conflitto ai competenti servizi pubblici territoriali. Del resto, l’art. 23, d.p.r. n. 616/1977 attribuisce agli enti locali le attività relative agli interventi a favore dei minori soggetti a provvedimenti delle autorità giudiziarie minorili nell’ambito delle competenze amministrative e civili. Significativamente, l’art. 4 della l. n. 285/1997 prevede nel quadro dei servizi di sostegno alla relazione genitori-figli, quale strumento per perseguire detta finalità, i servizi di mediazione familiare e di consulenza per le famiglie 6 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA ed i minori, esplicitando così l’intenzione di riqualificare le strutture a sostegno della famiglia (quali i consultori familiari), recuperandoli al ruolo primario di servizio sociale e psicologico a sostegno della famiglia e dei minori in genere. 3. La separazione giudiziale. - La separazione giudiziale ha subito, con la riforma del ’75, profonde modificazioni; nel precedente sistema la pronuncia era fondata sulla colpa, riconducibile in generale alla violazione dei doveri derivanti dal matrimonio, e il diritto di chiederla era attribuito ai coniugi «nei soli casi determinati dalla legge». In sostanza, il legislatore, ispirandosi ad una concezione pubblicistica e sanzionatoria della separazione, l’ammetteva solo quando fosse ascrivibile al comportamento colpevole di uno dei coniugi che si concretasse nella violazione di doveri matrimoniali. Naturalmente, solo il coniuge incolpevole poteva domandare la separazione facendo valere la colpa dell’altro; nessuna pronunzia era possibile in assenza di colpa. La previsione di una serie di cause tassative impediva l’accesso al rimedio della separazione in tutte quelle ipotesi in cui la situazione conflittuale traeva origine, piuttosto che da una condotta colpevole di uno dei coniugi, da situazioni di obiettiva intollerabilità della convivenza. Si pensi, ad esempio, alla malattia mentale del coniuge che avesse reso il rapporto coniugale assolutamente intollerabile per l’altro, o alla c.d. incompatibilità di carattere, dalla quale trae origine il più delle volte una situazione conflittuale. In sede di riforma, il legislatore, con una svolta radicale di cui forse non fu appieno valutato il carattere dirompente anche in relazione all’intervenuta introduzione del divorzio, eliminò le ipotesi tassative e lo stesso elemento della colpa; di talché oggi la separazione giudiziale può essere chiesta quando si verifichino, anche indipendentemente dalla volontà di uno dei coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole. Da una visione sanzionatoria si è passati ad una concezione fondata sul venir meno del principio dell’accordo (artt. 143-144 c.c.) che, come si è più volte detto, informa di sé tutta la nuova disciplina del diritto di famiglia. Venuto meno il consenso – in definitiva anche per volontà di un solo coniuge – e quindi l’affectio coniugalis, può ottenersi una pronuncia di separazione. Non solo, ma avendo il primo comma dell’art. 151 c.c. eliminato ogni previsione di carattere sanzionatorio, risulta di conseguenza consentita la domanda anche da parte dello stesso coniuge che abbia posto in essere i fatti causa dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza o che abbiano recato grave pregiudizio all’educazione della prole. Dunque, la separazione può essere chiesta in base alla obiettiva intollerabilità della convivenza, e quindi a prescindere da un giudizio di colpa; il comportamento colpevole del coniuge acquista peraltro rilevanza ai fini della dichiarazione di addebitabilità. Stabilisce infatti l’art. 151, comma 2, c.c. che, nel pronunciare la separazione, il giudice dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei due coniugi sia addebitabile la separazione in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che nascono dal matrimonio. In quanto conseguenza della violazione dei doveri che nascono dal matrimonio, la pronuncia di addebito conserva, nella disciplina vigente, quella funzione sanzionatoria che in passato era assegnata alla colpa. Rispetto ad essa però sussistono differenze rilevanti, prima fra tutte la scomparsa del carattere fondante della separazione, proprio della colpa. Affinché venga pronunciato l’addebito, non è sufficiente il verificarsi di una condotta che violi i doveri matrimoniali, risultando necessario anche l’accertamento della colpevolezza del coniuge ed il nesso causale tra la sua condotta e l’evento dell’intollerabilità della convivenza, cosicché non ogni violazione dei doveri matrimoniali sarà rilevante, ma soltanto quella che abbia determinato l’intollerabilità della convivenza. 7 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA 4. La separazione consensuale. - L’istituto della separazione consensuale, disciplinato nei codici del 1865 e del ’42, non ha subito radicali mutamenti ad opera della legge di riforma del ’75. Questa forma di separazione presuppone l’accordo dei coniugi di vivere separati e sulla regolamentazione dei rapporti reciproci e di quelli con i figli. Il codice civile, nel menzionare la separazione consensuale come forma alternativa alla separazione giudiziale (art. 150, comma 2, c.c.), stabilisce che il diritto di chiederne l’omologazione spetta esclusivamente ai coniugi: si tratta, in sostanza, di un diritto personalissimo, irrinunciabile ed indisponibile, tant’è che si considerano nulle le eventuali pattuizioni, stipulate prima che il diritto sia sorto, che implichino rinuncia al suo esercizio, così come – sotto altro riguardo – sono nulli i patti di ricorrere esclusivamente alla separazione consensuale e le rinunce preventive alla richiesta di declaratoria di addebito. Stabilisce l’art. 158, comma 1, c.c. che «la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del tribunale»: il giudice infatti esercita un controllo di legalità sugli accordi dei coniugi, ed ha il potere di rifiutare l’omologazione quando le decisioni in ordine all’affidamento ed al mantenimento dei figli siano in contrasto con l’interesse di costoro; a tal fine può indicare ai coniugi le modificazioni dei loro accordi da adottare nell’interesse dei figli, fermo restando, in caso di non accoglimento da parte dei coniugi, il rifiuto dell’omologazione (art. 158, comma 2, c.c.). L’omologazione può essere negata altresì – ma ciò non risulta direttamente dalla disposizione – quando le decisioni relative ai coniugi siano lesive di principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, quali il buon costume o l’ordine pubblico, ovvero contrastino con norme inderogabili. Il tribunale non può, invece, integrare o modificare l’accordo dei coniugi. Va peraltro ricordato che in sede di lavori preparatori, numerosi progetti, confluiti poi nel testo unificato dal quale ha avuto origine la legge di riforma del 1975, prevedevano un incisivo intervento dell’autorità giudiziaria in sede di omologazione; nel testo poi approvato alla Camera, l’art. 158, comma 2, c.c. consentiva al giudice, secondo le circostanze, di sostituire o integrare l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento e mantenimento dei figli. In considerazione delle critiche emerse da più parti, secondo cui un provvedimento costitutivo non in conformità all’accordo dei coniugi avrebbe eluso la stessa ratio sottesa alla separazione consensuale, la norma fu poi modificata al Senato. Il giudice, pertanto, ha solo la facoltà di indicare ai coniugi le modificazioni da apportare agli accordi concernenti l’affidamento ed il mantenimento dei figli, a tutela dei loro interessi; qualora poi i coniugi non accolgano tali suggerimenti, il giudice potrà esclusivamente rifiutare l’omologazione. La dottrina recente sembra orientata ad estendere il controllo giudiziale anche al contenuto di singoli aspetti dell’accordo concernenti i rapporti fra coniugi, ma solo in presenza di clausole nulle perché contrarie al buon costume, all’ordine pubblico o a norme imperative, ove cioè i coniugi abbiano disposto in ordine a diritti indisponibili. In tal caso, però, trattandosi di un controllo di legittimità e non di merito, il giudice non potrà suggerire le modifiche opportune; tutt’al più, nel rifiutare l’omologazione di un accordo contenente clausole nulle, potrà indicare i motivi del suo rifiuto, consentendo così ai coniugi di ripresentare l’istanza senza incorrere nei motivi di rigetto che hanno impedito la precedente omologazione. La separazione consensuale, dunque, ad un tempo concilia l’autonomia dei coniugi con l’esigenza di controllo pubblico a tutela dell’interesse preminente dei figli o al fine di evitare approfittamenti in danno del coniuge debole. In ordine al rapporto fra accordo ed omologazione si sono fronteggiati orientamenti diversi. Da un lato, quello per cui il consenso costituisce un mero presupposto dell’omologazione, che rappresenterebbe la fonte esclusiva della separazione. Tale opinione, corollario di una teoria del diritto di famiglia di stampo anticontrattualista, se 8 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA poteva avere qualche fondamento sotto la vigenza della precedente normativa, non può più essere oggi accolta, in quanto omette di considerare che la separazione consensuale trova la sua causa necessaria, anche se non sufficiente, nel mutuo consenso dei coniugi. Deve pertanto convenirsi, con autorevole dottrina, che è proprio il consenso manifestato dai coniugi innanzi al presidente del tribunale la fonte della separazione, mentre l’omologazione costituisce mero presupposto di efficacia. Dalla natura del rapporto tra consenso ed omologazione, discendono diverse conseguenze in ordine alla revocabilità dell’accordo di separazione. Infatti, se si riconosce all’omologazione efficacia costitutiva, considerando l’accordo un mero presupposto, si riterrà revocabile il consenso fino all’omologazione stessa, mentre, attribuendosi all’omologazione una funzione di mero controllo sull’accordo, si tenderà ad escluderne la revocabilità. La giurisprudenza è andata consolidandosi, salvo qualche eccezione, nel senso del riconoscimento della revocabilità del consenso da parte di ciascun coniuge, sulla base di una duplice considerazione: da un lato, la natura giuridica di negozio bilaterale di diritto di famiglia renderebbe inapplicabile all’accordo di separazione il principio dell’irrevocabilità del consenso dettato dall’art. 1372 c.c. specificamente per i contratti; dall’altro, il tenore letterale dell’art. 158, comma 1, c.c., affermando che «la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice», implicitamente finisce col rendere il consenso manifestato innanzi al presidente del tribunale ex art. 711 c.p.c. privo di qualsiasi efficacia e rilevanza giuridica fino alla pronuncia del provvedimento di omologazione. * * * * I problemi della natura dell’accordo di separazione e del ruolo dell’omologazione del tribunale comportano notevoli conseguenze di ordine pratico anche con riferimento alla validità ed efficacia delle pattuizioni intercorse fra i coniugi, precedenti o successive alla separazione, che non siano state sottoposte al controllo del giudice per l’omologazione (c.d. accordi non omologati). Nella prassi si danno infatti accordi anteriori o successivi alla, con i quali i coniugi regolano alcuni aspetti dei propri rapporti patrimoniali o dei rapporti con i figli. La validità di tali patti non sottoposti al controllo del tribunale è stata in passato assai discussa, certamente sotto l’influenza della funzione pubblicistica attribuita all’omologazione giudiziale. Al riguardo, dottrina e giurisprudenza hanno conosciuto una lenta e difficile evoluzione, dapprima negando efficacia a detti accordi, e successivamente riconoscendogliene solo in riferimento a quei patti non riguardanti il mantenimento dei figli; da parte di alcuni, si ammette una piena autonomia dei coniugi nella stipulazione di accordi non sottoposti ad omologazione, che per certi versi addirittura prevarrebbero su quelli omologati. Il problema è quello, già evidenziato in precedenza, della diversa funzione che l’omologazione svolge in riferimento alle pattuizioni che disciplinano i rapporti fra i coniugi ed a quelle relative invece all’obbligo di mantenimento della prole; queste ultime, per costante giurisprudenza della Cassazione, sono inefficaci in mancanza di omologazione, in considerazione del fatto che l’art. 158, comma 2, c.c. affida al giudice un controllo sulla loro rispondenza all’interesse dei figli, che sarebbe vanificato se in seguito i coniugi potessero modificarle. Il discorso cambia invece quando gli accordi sono destinati a regolare esclusivamente i rapporti fra coniugi, ed a seconda che siano pattuiti successivamente all’omologazione ovvero precedentemente ad essa ma non sottoposti al vaglio del tribunale. La dicotomia fra accordi non omologati precedenti (o coevi) e successivi alla separazione emerge da un orientamento della Cassazione ormai consolidato, secondo cui mentre i primi «sono operanti solo se si collocano in posizione di non interferenza rispetto all’accordo di separazione omologato (perché concernono un aspetto che non è disciplinato in quest’ultimo oppure perché hanno un carattere meramente specificativo di disciplina secondaria) ovvero in una posizione di conclamata e 9 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato, come per l’assegno di mantenimento concordato in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione», i secondi invece «trovando fondamento nell’art. 1322 c.c., devono ritenersi validi ed efficaci [...] quando non varchino il limite di derogabilità consentito dall’art. 160 c.c.». 5. Lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio. - L’art. 149 c.c. stabilisce che lo scioglimento del matrimonio può avvenire per morte di uno dei coniugi e negli altri casi previsti dalla legge; la disposizione va coordinata con la disciplina contenuta nella legge n. 898/1970 che ha introdotto nel nostro ordinamento altre cause di scioglimento del matrimonio, cioè, anche se il legislatore non usa mai il termine, di divorzio. È opportuno permettere che separazione e divorzio operano nel nostro ordinamento come rimedi alla crisi del rapporto matrimoniale con funzioni che rimangono tuttora diverse; la prima, che determina la sola attenuazione del vincolo coniugale, identifica una situazione di crisi familiare che può alternativamente sfociare nella ripresa della convivenza o nel suo definitivo venir meno. Il secondo, invece, consacrando l’irreversibile frattura del consorzio familiare, comporta lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario e la perdita dello status di coniuge. In entrambi i casi si tratta di rimedi destinati ad incidere sul matrimonio come rapporto, per fatti che, verificatisi successivamente alla sua celebrazione, abbiano determinato l’insorgere della crisi coniugale. Diversamente, invece, la nullità, la quale estingue il vincolo coniugale per un vizio genetico che ne determina l’invalidità. Secondo il disposto degli artt. 1 e 2 della legge n. 898/1970, il giudice pronuncia lo scioglimento del matrimonio civile ovvero la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario quando accerta che la comunione materiale e spirituale tra i coniugi non può essere mantenuta o ricostituita per l’esistenza di una delle cause previste nel successivo art. 3. La sussistenza di una delle ipotesi elencate nell’art. 3, che si ritengono tassative, non determina automaticamente l’estinzione del vincolo coniugale, risultando a ciò necessario che il tribunale preliminarmente valuti l’irreversibilità della crisi coniugale. La norma in esame sembra infatti imporre un duplice accertamento, relativo da un lato all’effettiva cessazione della comunione morale e materiale e, dall’altro, all’esistenza di una delle cause elencate nell’art. 3, l. n. 898/1970. Si tratta, nella sostanza, di un’indagine che lascia ben pochi spazi alla discrezionalità del giudice, poiché nell’esperienza pratica raramente accade che il tribunale rifiuti di pronunciare la sentenza di divorzio in presenza di una delle cause di legge, specie se si considera che l’opposizione di uno dei coniugi non produce più gli effetti dilatori previsti prima della modifica legislativa del 1987. Ciò nonostante, la giurisprudenza continua a ribadire che in virtù degli effetti pubblicistici riconosciuti dall’ordinamento all’istituto familiare, la dichiarazione di divorzio non può conseguire automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause tassativamente previste, ma richiede l’accertamento del venir meno della comunione materiale e spirituale fra i coniugi. * * * * La separazione legale costituisce senz’altro la causa statisticamente più frequente di scioglimento del matrimonio. L’art. 3, n. 2, lett. b) stabilisce che il divorzio può essere domandato da uno dei coniugi quando sia stata pronunciata, con sentenza passata in giudicato, la separazione giudiziale, ovvero sia stata omologata la separazione consensuale. 10 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA Affinché sia pronunciata la sentenza di divorzio è inoltre necessario che il giudice accerti che la separazione si sia protratta ininterrottamente da almeno un triennio (art. 3, n. 2, lett. b)). In concreto ciò significa che i coniugi che intendono sciogliere il loro matrimonio sono tenuti ad intraprendere due separati giudizi, prima quello di separazione (consensuale o giudiziale) e successivamente quello di divorzio. Si tratta di un iter spesso assai lungo ed oneroso che rappresenta una peculiarità del nostro sistema, come emerge da un raffronto con altri ordinamenti in cui, di norma, è sufficiente per ottenere la pronunzia di divorzio un previo periodo di separazione di fatto. Per proporre la domanda di divorzio, è dunque necessario che siano trascorsi almeno tre anni ininterrotti di separazione a far data dalla comparizione dei coniugi dinnanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale. Sicché, perché possa essere pronunciato lo scioglimento del matrimonio, risulterà necessaria la duplice condizione del passaggio in giudicato della sentenza di separazione (ovvero omologazione della separazione consensuale) ed il decorso di tre anni dalla comparizione dei coniugi avanti il presidente in sede di separazione. * * * * L’art. 3, n. 1, l. n. 898/1970 raggruppa una serie di ipotesi che, in ragione della condanna di uno dei coniugi in sede penale, legittimano la domanda di divorzio dell’altro. Qui la causa dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio si giustifica, nell’intenzione del legislatore, o per l’eccessiva lunghezza della pena detentiva alla quale uno dei coniugi è stato condannato, o per il particolare disvalore del reato commesso, situazioni entrambe che rendono di per sé assai difficile il mantenimento o la ricostituzione del consorzio familiare; tant’è che solo il coniuge non condannato è legittimato a domandare il divorzio e la sua legittimazione è esclusa qualora sia stato condannato per concorso nel medesimo reato. Condizione comune alle diverse ipotesi è che la condanna sia avvenuta dopo la celebrazione del matrimonio e che la sentenza sia passata in giudicato prima della proposizione della domanda di divorzio. Non è richiesto invece che il reato si riferisca a fatti commessi durante il matrimonio, potendo riguardare anche avvenimenti precedenti alla sua celebrazione, purché, in quest’ultimo caso, il coniuge non colpevole ne ignorasse l’esistenza al momento del matrimonio. Sono dunque causa di scioglimento del matrimonio le condanne: a) all’ergastolo ovvero ad una pena superiore a quindici anni, anche con più sentenze, per uno o più delitti non colposi, esclusi i reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale; b) a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui all’art. 564 c.p. (incesto), e per uno dei delitti originariamente previsti dagli artt. 519 c.p. (violenza carnale), 521 c.p. (atti di libidine), 523 c.p. (ratto a fine di libidine) e 524 c.p. (ratto di persona minore di anni quattordici o inferma, a fine di libidine o di matrimonio), tutti delitti, questi ultimi, che, in virtù della legge n. 66 del 1996, sono transitati con alcune modifiche dal titolo nono intitolato «Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume» (capo primo «Dei delitti contro la libertà sessuale») al titolo dodicesimo «Dei delitti contro la persona» (capo terzo «Dei delitti contro la libertà individuale» sezione seconda «Dei delitti contro la libertà personale»); ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento della prostituzione; c) a qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio; d) a qualsiasi pena detentiva, con due o più condanne, per i delitti di cui all’art. 582 c.p. (lesione personale), quando ricorra la circostanza aggravante di cui al secondo comma dell’art. 583 c.p., e agli artt. 570 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza 11 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA familiare), 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli) e 643 c.p. (circonvenzione di persone incapaci), in danno del coniuge o di un figlio. Nelle ipotesi indicate alla lett. d) il giudice, prima di pronunciare lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, dovrà comunque accertare, anche alla luce del comportamento successivo del coniuge condannato, la sua inidoneità a mantenere o ricostituire la convivenza familiare. Il secondo comma dell’art. 3 riconosce il diritto di domandare lo scioglimento del matrimonio anche quando l’altro coniuge, sottoposto a procedimento penale per uno dei reati indicati sopra alle lett. b) e c), sia stato assolto per vizio totale di mente, purché sia accertata l’inidoneità del convenuto a mantenere o ricostituire la convivenza familiare; ovvero, qualora il processo per quei medesimi reati si sia concluso con sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato, ed infine quando il procedimento penale per incesto si sia concluso con sentenza di proscioglimento o di assoluzione che dichiari non punibile il fatto per mancanza di pubblico scandalo. * * * * Nel rispetto del principio della eguaglianza giuridica fra coniugi, di cui uno sia straniero, la circostanza che quest’ultimo ottenga all’estero sentenza di annullamento o scioglimento del matrimonio o ancora contragga un nuovo matrimonio, legittima il coniuge italiano a proporre domanda di divorzio (art. 3, n. 2 lett. e). La norma mira a risolvere quelle situazioni in cui il coniuge italiano si trovi vincolato ad un matrimonio rispetto al quale l’altro coniuge abbia ottenuto lo scioglimento, in virtù di una pronuncia di divorzio o annullamento nello Stato di origine o perché ivi abbia già contratto un nuovo matrimonio. Stante la ratio della norma, si ritiene che possa avvantaggiarsi della previsione il solo coniuge che abbia subito lo scioglimento del vincolo, non invece colui che l’abbia procurato o che vi abbia quantomeno aderito. La giurisprudenza, specie di merito, non pare tuttavia così restrittiva, tant’è che ha ritenuto ammissibile la domanda di divorzio di un cittadino italiano che aveva presentato analoga domanda, poi accolta, nello Stato straniero. * * * * L’art. 3, n. 2, lett. f), prevede quale ulteriore causa di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio la sua inconsumazione. Si tratta di una disposizione riconducibile alla tradizione canonica, che risponde all’esigenza del legislatore di armonizzare la disciplina del matrimonio civile con quello concordatario, benché oggi non si reputi suscettibile di efficacia nell’ordinamento statuale la dispensa pontificia per il matrimonio rato e non consumato. A differenza di quanto accade nell’ordinamento canonico, tuttavia, la mancata consumazione non incide sulla validità del matrimonio come atto, ma è solo causa del suo scioglimento. Problemi interpretativi si sono posti sia con riguardo alla nozione di inconsumazione, che per quanto attiene alle modalità con cui provarla. Essa prescinde dall’elemento della volontarietà, giacché altrimenti si finirebbe per attribuire a questa causa di divorzio una connotazione di sanzione. Ciò che viene in rilievo è l’accertamento dell’inconsumazione come fatto che abbia cagionato il disfacimento del consorzio familiare. Quanto alla prova, prevale in giurisprudenza la convinzione che le dichiarazioni, anche congiunte, dei coniugi non siano sufficienti se non suffragate da altri fatti, quali ad esempio la mancata convivenza. Pur potendosi fornire la prova con qualunque mezzo, il modo più agevole resta comunque la dimostrazione della verginità della moglie o dell’impotenza cöeundi del marito, anche se talora sono state ritenute 12 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA sufficienti testimonianze «disinteressate». * de relato convergenti, * * quando provenienti da fonti * La riforma del 1987 ha aggiunto, quale ulteriore causa di divorzio, il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 165 (art. 3, n. 2, lett. g). Detta previsione, che pone seri problemi di coordinamento con l’art. 4 della predetta legge, stabilisce che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso «provoca lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Si applicano le disposizioni del codice civile e della legge 1 dicembre 1970, n. 898 e successive modificazioni». Il tenore letterale della norma aveva condotto gli interpreti a ritenere che il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di sesso provocasse automaticamente lo scioglimento del matrimonio senza necessità che venisse instaurato il relativo giudizio; tuttavia il chiaro riferimento in essa contenuto alla disciplina del divorzio ed alle sue successive modificazioni sembrerebbe condurre nella direzione di una prevalenza dell’art. 3, n. 2, lett. g), con la conseguenza che il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso dovrebbe considerarsi mera condizione per promuovere il giudizio di divorzio. La soluzione si rivela in realtà non persuasiva, specie se si considera che rimarrebbe in vita un vincolo matrimoniale che, avvenuta la rettificazione, unisce persone dello stesso sesso, e ciò fino a quando uno dei due coniugi non decida di avviare il giudizio di divorzio. Consapevole delle descritte difficoltà di coordinamento, la giurisprudenza di merito ha ritenuto che contestualmente alla sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso debba pronunciarsi anche la sentenza di scioglimento del matrimonio «in quanto la pronuncia di rettificazione e la pronuncia di divorzio si pongono in posizione di dipendenza necessaria, la seconda rispetto alla prima». Sempre in questo senso si è affermato in una successiva pronuncia che, costituendo la rettificazione di attribuzione di sesso un antecedente logico e giuridico dello scioglimento del matrimonio, non sussistono ostacoli a che entrambe vengano pronunciate nella medesima sentenza e passino in giudicato contemporaneamente. In dottrina si è precisato che la pronuncia di scioglimento, limitandosi ad accertare un fatto avvenuto con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso, ha natura dichiarativa e non costitutiva. 6. Gli effetti personali della separazione tra coniugi. - La legge, nel disciplinare gli effetti della separazione giudiziale fra i coniugi, si riferisce esclusivamente ai rapporti patrimoniali, ed in particolare al mantenimento ed alla somministrazione degli alimenti (art. 156 c.c.), mentre nulla dice circa i rapporti personali, eccettuato quanto disposto dall’art. 156 bis c.c. circa l’uso del cognome maritale. Nel diritto previgente, invece, lo stesso art. 156, comma 1, c.c. stabiliva che il coniuge senza colpa conservava i diritti inerenti alla sua condizione non incompatibili con lo stato di separazione. Conseguentemente, si distingueva tra diritti-doveri connessi alla coabitazione, destinati a cessare con la separazione in quanto incompatibili con il nuovo status – fra questi inserendovi l’obbligo di assistenza morale – e diritti-doveri legati invece al vincolo, quali obbligo di fedeltà destinati a permanere anche tra i coniugi separati. A proposito dell’obbligo di fedeltà va detto che in passato la giurisprudenza non ha mai dubitato della sua persistenza fra coniugi separati, con conseguenze giuridiche sia in sede civile che, considerata la punibilità dell’adulterio (art. 559 c.p.), penale; tale orientamento fu in un certo senso confermato dalla stessa Corte costituzionale, che riconobbe l’illegittimità costituzionale dell’articolo 156, comma 1, c.c., nella parte in cui, 13 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA disponendo che tra i coniugi separati perdurasse l’obbligo reciproco di fedeltà, non lo limitava al dovere di astenersi da quei comportamenti che, per il concorso di determinate circostanze, fossero idonei a costituire ingiuria grave all’altro coniuge. Con l’entrata in vigore della legge di riforma del 1975 – e, prima ancora, col venir meno dell’indissolubilità del matrimonio – lo statuto dei coniugi separati si è modificato notevolmente. Dalla scomparsa del principio enunciato nel vecchio testo dell’art. 156, comma 1, c.c. la dottrina ha tratto la conseguenza che, a seguito della separazione, restano sospesi tra i coniugi tutti i reciproci doveri derivanti dal matrimonio, salvo l’obbligo di assistenza patrimoniale. Questa tesi è espressione della tendenza ad avvicinare gli effetti della separazione a quelli della cessazione del vincolo: si passa dalla concezione della separazione quale rimedio autonomo di tipo sospensivo, nell’ambito dell’indissolubilità del matrimonio, a quella della separazione quale presupposto più diffuso e statisticamente più rilevante dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio. In tale prospettiva appare chiaramente superfluo il protrarsi, sia pure in forma attenuata, di obblighi coniugali non patrimoniali. La pronuncia di separazione personale dei coniugi, non determinando la cessazione del vincolo coniugale, comporta la persistenza dei doveri di solidarietà economica che derivano dal matrimonio, anche se il loro contenuto risulta modificato dal venir meno della convivenza familiare; all’obbligo reciproco dei coniugi di contribuire ai bisogni della famiglia, in proporzione alle proprie sostanze ed alla capacità di lavoro professionale e casalingo, si sostituisce l’obbligo di mantenimento a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, qualora lo stesso non abbia adeguati redditi propri. In breve, in costanza di matrimonio, l’obbligo di «contribuire ai bisogni della famiglia» altro non è che il riflesso del «dovere di collaborazione» e di «assistenza morale e materiale». Venuto meno, con la separazione, il dovere di collaborare nell’interesse della famiglia, il dovere di contribuzione si trasforma, nei confronti del coniuge economicamente più debole, in quello di corrispondergli un assegno di mantenimento. Dispone infatti l’art. 156 c.c. che «il giudice stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario al suo mantenimento, qualora non abbia adeguati redditi propri. L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze ed ai redditi dell’obbligato». Il concetto di «mantenimento» comporta il far partecipare il coniuge alla propria condizione economica in proporzione ai mezzi di cui si dispone, quindi non solo per le esigenze strettamente vitali. Le condizioni alle quali è subordinato il diritto al mantenimento ed il suo concreto ammontare consistono nella sussistenza di una disparità economica fra i due coniugi, determinata dalla insufficienza dei redditi del beneficiario e dall’entità di quelli dell’obbligato. Il riferimento al mantenimento comporta che il difetto di redditi «adeguati» non vada inteso come stato di bisogno, bensì come mancanza di redditi sufficienti ad assicurare al coniuge il tenore di vita goduto durante il matrimonio, di modo che, in mancanza di tale condizione, non può essere imposto alcun assegno di mantenimento a carico di un coniuge, qualunque sia la consistenza dei suoi redditi. La Cassazione ha affermato il principio secondo cui il tenore di vita al quale rapportare il giudizio di adeguatezza dei mezzi a disposizione del richiedente sia quello offerto dalle potenzialità economiche dell’altro coniuge e non quello più modesto eventualmente tollerato, subito o concordato in costanza di matrimonio. Va poi osservato come, nel valutare i bisogni del coniuge economicamente debole ed il reddito di quello forte, occorra considerare anche profili non economici, quali l’età, la salute e soprattutto la capacità di lavoro, vale a dire l’attitudine del coniuge di provvedere al proprio mantenimento, svolgendo un lavoro adeguato alle proprie capacità professionali. 14 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA A questo proposito va rilevato come in materia di divorzio l’art. 5, comma 6, della l. n. 898/1970 subordini la somministrazione dell’assegno di divorzio alla circostanza che il coniuge beneficiario «non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni obiettive». Nonostante il mancato esplicito riferimento nell’art. 156 c.c. alla capacità di lavoro quale criterio per valutare l’adeguatezza dei redditi del coniuge separato, la giurisprudenza prevalente, salvo qualche raro caso – pur non richiamando espressamente il disposto contenuto nella legge sul divorzio –, ha applicato ugualmente il principio anche alla separazione, ritenendo in sostanza che l’obbligo di mantenimento non sussista non solo allorquando il coniuge abbia redditi adeguati, ma anche nell’ipotesi in cui possa procurarseli. L’attitudine al lavoro, tuttavia, secondo i giudici, assume rilievo solo qualora venga riscontrata in termini non meramente astratti ed ipotetici, tenuto conto di ogni fattore, soggettivo o oggettivo. Circa gli eventuali aiuti economici a carattere continuativo elargiti dai genitori o dai parenti o, ancora, dal convivente, considerato che le condizioni economiche del coniuge beneficiario prescindono dalle circostanze che le determinano, si ritiene che elargizioni non meramente saltuarie, ma continuative e protratte nel tempo, ricevute da parenti o dal convivente more uxorio, concorrendo a formare il reddito, debbano essere valutate ai fini della concreta determinazione dell’assegno di mantenimento. Al riguardo la giurisprudenza ha ritenuto concorrere alla determinazione del reddito adeguato ogni utilità suscettibile di valutazione economica, facendovi rientrare quindi anche gli aiuti forniti da genitori e parenti, aventi carattere di continuità. Così come la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte di un convivente more uxorio, quando di fatto esclude o riduce lo stato di bisogno del coniuge separato, rileva in ordine all’esistenza del diritto all’assegno di mantenimento ed alla sua concreta determinazione. * * * * Si è in precedenza detto che, secondo il disposto di cui all’art. 156, comma 3, c.c., che a sua volta rinvia agli artt. 433 e ss. c.c. per quanto attiene alle modalità di somministrazione, il coniuge cui è addebitata la separazione perde il diritto al mantenimento e conserva, ma solo qualora versi in stato di bisogno, quello agli alimenti. Lo stato di bisogno presuppone l’incapacità a provvedere alle fondamentali esigenze di vita; infatti, mentre il mantenimento consiste nella prestazione di tutto quanto risulti necessario alla conservazione del tenore di vita goduto, la prestazione degli alimenti può aversi allorquando si ravvisi uno stato di totale assenza di mezzi di sostentamento, unitamente, secondo costante giurisprudenza, all’impossibilità di trovare un adeguato lavoro con riferimento alle attitudini, condizioni fisiche, età e posizione sociale dell’alimentando. L’espressione alimenti ha, comunque, nel linguaggio tecnico-giuridico un significato più ampio di quello comune, in quanto ricomprende, oltre al vitto, quanto necessario per l’alloggio, il vestiario, le cure della persona, l’istruzione scolastica e così via. La perdita del diritto al mantenimento non è la sola conseguenza derivante dall’addebito della separazione. Il coniuge al quale è stata addebitata la separazione perde infatti i diritti successori inerenti allo stato matrimoniale; costui ha diritto soltanto ad un assegno vitalizio commisurato alle sostanze ereditarie, alla qualità ed al numero degli eredi legittimi, a condizione che al tempo dell’apertura della successione godesse degli alimenti a carico del defunto (art. 548, ultimo comma e art. 585, comma 2, c.c.). Il coniuge separato con addebito ha altresì diritto alla pensione di reversibilità a condizione che sia titolare dell’assegno alimentare. 7. Gli effetti del divorzio. - La cessazione del matrimonio, se da un lato comporta il venir meno della condizione coniugale, dall’altro, al verificarsi di determinati 15 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA presupposti, determina il sorgere di obblighi di carattere patrimoniale di un coniuge nei confronti dell’altro. In astratto si possono individuare differenti modalità di regolare l’assetto dei rapporti patrimoniali conseguente alla rottura del vincolo, qualora, a seguito del divorzio, si verifichi uno squilibrio patrimoniale tra gli ex sposi. L’ordinamento può prevedere forme di riequilibrio della situazione patrimoniale attraverso l’attribuzione di un assegno di mantenimento, come avviene da noi, oppure attuando l’equa distribuzione dei beni acquistati anche separatamente dagli sposi durante il matrimonio. Questa è la via seguita negli USA, ove l’Uniform Marriage and Divorce Act (1970), in analogia a quanto accade nel caso di scioglimento di un contratto di società, prescrive un’equa distribuzione delle proprietà degli ex coniugi. Anche gli American Law Institute’s Principles of the Law of Family Dissolution prescrivono una divisione della proprietà coniugale, definita come proprietà acquisita dal lavoro di ciascuno sposo durante il matrimonio. La attribuzione della proprietà nella generalità dei casi consente di evitare la previsione di un assegno di divorzio, in modo tale da realizzare un taglio netto e definitivo tra gli ex coniugi (c.d. clean break). Naturalmente non è detto che l’attribuzione della proprietà sia sempre in concreto idonea a soddisfare le esigenze dello sposo economicamente più debole; la tendenza che emerge dai Principles è che il semplice fatto del matrimonio non giustifica il sorgere di una obbligazione vitalizia di mantenere il coniuge; ciò può accadere solo in casi eccezionali, come per i matrimoni di lunga durata o per quelli in cui un coniuge si sia occupato principalmente della cura dei figli. In tali casi, infatti, i Principles prevedono i c.d. compensatory payments per un determinato periodo di tempo, diretti a colmare la perdita del coniuge che si è dedicato maggiormente alla cura della famiglia. Anche in Inghilterra la filosofia del clean break si è imposta, ancorché con i correttivi necessari a tutela del coniuge che si è dedicato alla cura dei figli, da attuarsi attraverso la attribuzione di beni, o, in alcuni casi, di un assegno di mantenimento. Nel nostro ordinamento l’attribuzione di proprietà, in conseguenza del divorzio è prevista solo per i coniugi in comunione dei beni (art. 191 c.c.), ovvero a seguito di accordo nell’ambito di quanto previsto dall’art. 5, comma 8, l. n. 898/1970, e non come strumento generalizzato di riequilibrio della condizione patrimoniale dei coniugi. Da noi, l’effetto patrimoniale senz’altro più rilevante conseguente alla pronuncia di divorzio è rappresentato dalla previsione della somministrazione, periodica o una tantum, di un assegno a favore del coniuge economicamente più debole. L’art. 5, comma 6, l. n. 898/1970, come risulta dalle modifiche introdotte dall’art. 10, l. n. 74/1987, nel prevedere l’obbligo di corrispondere un assegno al coniuge che non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive, indica una serie di criteri che il tribunale deve considerare nel determinare la spettanza e l’entità. Essi sono le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico apportato da ciascuno di essi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune e del reddito di entrambi, elementi tutti da valutarsi in rapporto alla durata del matrimonio. Il presupposto fondamentale per l’erogazione dell’assegno è costituito dallo squilibrio reddituale tra i coniugi, per effetto del quale uno di essi, privo di mezzi adeguati al proprio mantenimento, si trovi nell’impossibilità transitoria o permanente di procurarseli. Il legislatore del 1987 ha infatti nettamente privilegiato una funzione «assistenziale» dell’assegno di divorzio, superando quella concezione «composita» fondata sulla concorrenza dei criteri assistenziale, compensativo e risarcitorio, che, secondo dottrina e giurisprudenza anteriori alla riforma, erano alla base della sua attribuzione e commisurazione. Prima del citato intervento normativo, infatti, l’art. 5, l. n. 898/1970 si limitava ad elencare alcuni criteri per la determinazione dell’assegno di divorzio a favore del coniuge che ne richiedeva la somministrazione, senza prendere in considerazione la situazione economica di questi e la sua possibilità di renderla 16 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA adeguata alle proprie esigenze con lo svolgimento di un’attività lavorativa. La legge del 1987 collega il diritto all’assegno al solo presupposto dell’inadeguatezza dei mezzi posseduti dal coniuge che ne richiede la somministrazione e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. A tutti gli altri criteri indicati nell’art. 5, l. n. 898/1970 il giudice del divorzio fa ricorso esclusivamente per la quantificazione dello stesso, quindi subordinatamente alla valutazione relativa alla carenza di mezzi adeguati. La questione, a questo punto, si sposta sull’interpretazione del concetto di «mezzi adeguati», considerato che il legislatore sembra aver utilizzato una clausola alquanto generica, lasciando all’interprete il compito di individuarne il contenuto. Innanzitutto, l’espressione «mezzi», secondo una giurisprudenza ormai consolidata, deve intendersi in senso ampio, come comprensiva di redditi e sostanze, dunque anche dei cespiti patrimoniali che, pur non producendo reddito, attraverso la loro alienazione possono soddisfare i bisogni del richiedente, e più in generale di qualsiasi utilità suscettibile di valutazione economica. Più controversa invece è apparsa l’interpretazione della nozione di «adeguatezza» dei mezzi. La dottrina, combattuta fra le opposte esigenze di proteggere il coniuge economicamente più debole e, nello stesso tempo, preoccupata di evitare che dal divorzio possano sorgere posizioni di rendita parassitaria, si è divisa sul significato da attribuire a tale espressione. La Corte di Cassazione ha affermato la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio, i giudici individuano l’unico presupposto per concedere l’assegno «nell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, senza che sia necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, il quale può essere anche economicamente autosufficiente, rilevando l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle sue condizioni economiche, che, in via di massima, devono essere ripristinate, in modo da ristabilire un certo equilibrio». In particolare il livello di vita coniugale da considerare come termine di riferimento è non soltanto il tenore che i coniugi hanno concretamente mantenuto nel corso del matrimonio, ma anche quello che avrebbero potuto mantenere in base alle loro potenzialità economiche. Nel valutare il tenore di vita coniugale il giudice deve fare riferimento al tenore di vita goduto al momento della cessazione della convivenza e compararlo con quello del coniuge richiedente al momento della pronuncia di divorzio. Eventuali miglioramenti della situazione reddituale del coniuge nei cui confronti l’assegno venga richiesto assumono rilevanza solo se «costituiscono sviluppi naturali e prevedibili dell’attività svolta e/o del tipo di qualificazione professionale e/o della collocazione sociale dell’onerato»; non possono invece assumere rilievo «i miglioramenti che scaturiscono da eventi autonomi, non collegati alla situazione di fatto ed alle aspettative maturate nel corso del matrimonio». Al fine di evitare che si creino situazioni di eccessivo vantaggio per il coniuge richiedente, ed al contempo eliminare il rischio di un appiattimento dell’assegno di divorzio ad una mera revisione di quello di mantenimento, le Sezioni Unite hanno inteso valorizzare anche gli altri criteri elencati all’art. 5, che altrimenti sarebbero risultati privi di ogni funzione. E così, il parametro del tenore di vita coniugale indica, secondo la Cassazione, il tetto massimo della misura dell’assegno, che potrebbe venire poi diminuito a seguito «di una valutazione ponderata e bilaterale» degli altri criteri, con la conseguenza che «nella commisurazione in concreto dell’assegno, quel livello che è stato prefigurato in sede di an debeatur può essere ridimensionato o addirittura azzerato». Tale orientamento è stato poi confermato nelle pronunce successive; e così, in una sentenza emblematica, la Cassazione, dopo aver ribadito che l’accertamento del diritto di un coniuge alla somministrazione di un assegno periodico a carico dell’altro va compiuto mediante un’indagine attinente all’an ed al quantum, e che il presupposto per l’attribuzione di esso è costituito dall’inadeguatezza dei mezzi del richiedente a consentirgli un tenore di vita analogo a quello matrimoniale, ha poi nella sostanza 17 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA escluso la sua attribuzione in virtù di una convivenza matrimoniale giudicata troppo breve, e quindi valorizzando uno soltanto degli indici prefigurati, la durata del matrimonio, che dovrebbero concorrere a determinare solo l’ammontare dell’assegno. Del resto, nella motivazione, la Corte, riprendendo concetti già affermati dalle Sezioni Unite, ha ribadito che la misura concreta dell’assegno deve essere fissata in base alla valutazione dei diversi criteri enunciati dalla legge, fra i quali anche quello relativo alla durata del matrimonio; cosicché il giudice, nella sua valutazione, può attribuire rilevanza negativa ad uno o più di essi, ritenendolo(li) appunto prevalente(i) su ogni altro, non solo sotto il profilo quantitativo, ma anche con riguardo a quello dell’an debeatur, pervenendo così in concreto all’esclusione dell’assegno. L’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge beneficiario passa a nuove nozze (art. 5, comma 10), mentre è discusso l’effetto dell’instaurazione di una convivenza more uxorio. 8. Gli effetti della separazione e del divorzio nei riguardi dei figli. - Mentre gli effetti tra coniugi della separazione e del divorzio sono nettamente diversificati, con riferimento all’affidamento dei figli minori il legislatore detta una disciplina pressoché unitaria dei provvedimenti che li riguardano. In questa prospettiva, l’affidamento della prole nella separazione e nel divorzio è disciplinato da due disposizioni – l’art. 155 c.c. e l’art. 6, l. n. 898/1970, come sostituito dalla l. n. 74/1987 – che hanno la medesima ratio e tendenzialmente anche il medesimo contenuto. In particolare, l’identità di previsioni è data dall’elezione di un criterio unico alla cui stregua disciplinare i rapporti genitori e figli , rappresentato dall’interesse morale e materiale della prole. Le scarse differenze di contenuto, ravvisabili nelle relative previsioni normative, sono dovute alla affinata consapevolezza legislativa dell’interesse dei figli a subire il minor danno possibile dalla crisi familiare. Ed infatti, nell’ambito dei provvedimenti relativi alla prole, i profili per i quali la più recente disciplina del divorzio si diversifica da quella della separazione – per esempio con la previsione dei nuovi modelli dell’affidamento congiunto ed alternato o dell’ascolto facoltativo del minore da parte del giudice, novità tutte introdotte con la riforma del 1987 – sono il frutto dell’adeguamento del diritto alla maturata sensibilità sociale. In entrambe le norme è detto che il tribunale, nel disporre l’affidamento della prole, deve fare «esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale della stessa». Ciò significa, in prima approssimazione, che il giudice nel provvedere deve tener presente solo ed esclusivamente la posizione dei figli, il loro interesse, lo sviluppo della loro personalità, senza tener conto delle ragioni della rottura della convivenza coniugale. La funzione di decidere sull’affidamento dei minori è attribuita sempre al giudice, sia nel caso di separazione giudiziale e di divorzio, che di separazione consensuale. Anche in quest’ultima ipotesi, infatti, l’ordinamento prevede comunque un controllo giudiziale sulle decisioni in ordine all’affidamento, giusta l’art. 158, comma 2, c.c., per cui «qualora l’accordo dei coniugi relativamente all’affidamento ed al mantenimento dei figli è in contrasto con l’interesse di questi, il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell’interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l’omologazione». * * * * La consapevolezza delle conseguenze negative derivanti ai figli dalla disgregazione del nucleo familiare, accentuate dall’accesa conflittualità che spesso caratterizza la decisione dei genitori di vivere separati, ha indotto il legislatore a prevedere, nelle scelte sulla tipologia di affidamento, strade alternative rispetto a quella tradizionale dell’affidamento esclusivo del figlio ad un solo genitore. 18 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA In base all’art. 155 c.c., l’affidamento viene dichiarato dal giudice a favore dell’uno o dell’altro coniuge. La norma tuttavia prevede che il giudice possa decidere diversamente, mentre l’art. 6 della legge sul divorzio aggiunge alla formula dell’art. 155 c.c., integralmente riprodotta, «ove il tribunale lo ritenga utile nell’interesse dei minori, anche in relazione all’età degli stessi, può essere disposto l’affidamento congiunto o alternato». L’affidamento alternato comporta che il minore venga affidato per periodi prefissati a ciascun genitore, il quale in tale periodo esercita in via esclusiva e indipendente dall’altro la potestà sul figlio. Contro quest’ultima forma di affidamento si sono però appuntate critiche e riserve, in quanto tale misura, dal punto di vista del minore, implica una instabilità di vita tale da comprometterne l’equilibrio. Tanto è vero che, nelle poche occasioni in cui tale forma di affidamento è stata disposta, ad essa si è accompagnato un provvedimento di conservazione a vantaggio dei figli della casa familiare, o di assegnazione dell’alloggio a ciascuno dei genitori per il periodo di durata dell’affidamento, e ciò al fine di rendere meno disagevole per i minori il continuo mutamento di abitudini di vita. Per affidamento congiunto, invece, s’intende la situazione in cui – a differenza del regime ordinario che prevede la potestà esclusiva dell’affidatario e un intervento del genitore non affidatario limitato alle sole decisioni di maggiore interesse – entrambi i genitori esercitano in comune la potestà sui figli, i quali vengono educati e cresciuti sulla base di un unico e concorde progetto, idoneo ad assicurare una maggiore responsabilizzazione dei genitori ed una presenza più incisiva nella vita del figlio. Per disporlo, secondo quanto ritenuto dai giudici, occorrono, oltre ad una sufficiente maturità psicofisica dei figli, l’accordo dei genitori nel chiederlo, l’assenza di conflittualità fra essi, stili omogenei di vita, abitazioni vicine o almeno nella stessa città, idoneità educativa di entrambi. Va peraltro osservato come tali rigorosi presupposti di applicabilità, in considerazione dell’aspro conflitto spesso esistente tra i coniugi, hanno in questi anni contribuito ad un uso limitato di tale tipologia di affidamento. Oggi, anche sulla scia dell’esperienza di molti Paesi che prevedono come prioritario l’affidamento congiunto, sembra opportuno rivedere le prassi giudiziarie ricordate e riflettere sulla necessità che l’ordinamento favorisca l’attuazione integrale del rapporto genitoriale, anche dopo la rottura della coppia. Per queste ragioni, in epoca recente sono stati presentati numerosi disegni di legge volti a disciplinare l’affidamento congiunto – anzi, condiviso, secondo l’espressione dei proponenti – come tipologia di affidamento principale e ordinaria. Ciò in base alla considerazione che la bigenitorialità non è solo una legittima rivendicazione del genitore escluso dall’affidamento e relegato alla mera funzione sostenitrice, ma un diritto soggettivo del minore, da collocare nell’ambito dei diritti della personalità. Qualora gravi motivi lo richiedano, i figli possono essere collocati presso terzi o presso un istituto di educazione (art. 155, comma 6, c.c.); quest’ultima soluzione deve essere adottata unicamente quando sia impossibile provvedere al collocamento presso una terza persona. Nella disciplina del divorzio (art. 6, comma 8), invece, è previsto, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, che il tribunale proceda all’affidamento familiare ai sensi dell’art. 2 della l. n. 184/1983, alla cui stregua il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ancora ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurarne il mantenimento, l’educazione e l’istruzione. La giurisprudenza riconosce anche al giudice della separazione la possibilità di utilizzare lo strumento più adeguato predisposto dalla legge sul divorzio nell’interesse del minore. * * * * Il genitore cui sono affidati in via esclusiva i figli, salva diversa disposizione del 19 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA giudice, ha l’esercizio della potestà su di essi; tuttavia, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate congiuntamente da entrambi. In ogni caso il genitore cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione, e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse (art. 155, comma 3, c.c.; art. 317, comma 2, c.c.). Al diritto di visitariguardo si parla di «diritto di visita», espressione con cui s’intende indicare la modalità con cui il genitore non affidatario esercita i suoi diritti-doveri nei confronti dei figli. Si suole, infatti, affermare in giurisprudenza che il diritto di visita costituisce una derivazione ed una forma affievolita del fondamentale diritto-dovere del genitore di mantenere, istruire ed educare la prole sancito dall’art. 30 Cost. e riaffermato nell’art. 147 c.c. come effetto del matrimonio. Il giudice della separazione può subordinare il diritto di visita del genitore non affidatario al consenso del minore, o, addirittura, sopprimere tale diritto in ragione del categoricorifiuto del figlio rifiuto del minore di incontrarsi col genitore; le sentenze richiamano esplicitamente i principi espressi dalla Convenzione di New York del 1989 in materia di promozione dei diritti dell’infanzia, ratificata e resa esecutiva in Italia con la legge 176 del 1991, in cui – come si è detto – si riconosce grande rilievo al diritto del minore di essere ascoltato ogni qualvolta debbano essere adottate decisioni che lo riguardano. Le limitazioni apportate all’esercizio del diritto di visita del genitore risultano spesso giustificate da gravi motivi, legati per lo più a pregressi comportamenti pregiudizievoli al benessere psicofisico del minore. Il riferimento è al caso del genitore tossicodipendente o violento, o ancora al caso – che all’epoca suscitò notevole scalpore – di un genitore che dopo dieci anni di silenzio era ricomparso nella vita del figlio, avendo nel frattempo mutato i propri caratteri sessuali. Per quanto attiene invece ai provvedimenti di natura patrimoniale, il giudice deve determinare il contributo del genitore non affidatario alle spese di mantenimento, istruzione ed educazione della prole. La capacità economica del genitore obbligato deve essere valutata con riferimento al suo patrimonio complessivo, costituito oltre che dai redditi da lavoro subordinato o autonomo, da ogni altra forma di reddito o utilità, quali il valore dei beni mobili e immobili posseduti, le quote di partecipazione sociale, i proventi di qualsiasi natura percepiti. Si tratta in genere di un assegno periodico che il coniuge obbligato è tenuto a corrispondere direttamente all’affidatario. Infatti, secondo un principio seguito anche prima della riforma del diritto di famiglia, che oggi risulta consolidato, quando il giudice determina l’assegno da corrispondere al coniuge affidatario a titolo di mantenimento della prole, nasce in capo a costui un credito iure proprio, con la conseguenza che per ottenere giudizialmente il concorso dell’altro coniuge al mantenimento, questi non deve agire come rappresentante del figlio, né chiamarlo in causa; non solo, ma il giudice non è tenuto a distinguere nella sentenza quanto dell’assegno unitariamente determinato spetti per il mantenimento del coniuge e quanto per i figli, salvo che non risulti un interesse giuridicamente apprezzabile del genitore obbligato ad ottenere una specifica imputazione. Naturalmente, detto diritto di credito è strettamente collegato con l’affidamento, che di esso è il presupposto, con la conseguenza che rimane in essere fino a quando l’affidamento permane. Considerato che l’obbligo di mantenimento non cessa quando il figlio abbia raggiunto la maggiore età, ma continua fino a quando questi non abbia conseguito un grado di autonomia tale da consentirgli di provvedere, senza il contributo dei genitori, al soddisfacimento delle proprie necessità, deve stabilirsi chi sia il destinatario dell’assegno una volta che il figlio sia divenuto maggiorenne. In proposito, si ritiene che, in assenza di una richiesta del figlio maggiorenne di percepire direttamente l’assegno, perduri in capo al genitore già affidatario il diritto iure proprio a pretenderlo. Si è in precedenza detto che il contributo per il mantenimento viene normalmente corrisposto mediante un assegno periodico: si discute, però, se sia possibile da parte del coniuge obbligato l’adempimento dell’obbligo in un’unica soluzione, attraverso 20 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA un’attribuzione una tantum di beni mobili o immobili. L’adempimento in un’unica soluzione dell’obbligo a favore del figlio è ammesso dalla giurisprudenza più recente; va però sottolineato come l’obbligazione di mantenimento sia obbligazione di risultato e non di mezzi, e dunque un eventuale trasferimento di proprietà al minore non può che considerarsi come mero contributo al mantenimento dello stesso, che non libera il genitore dall’obbligo, anche se la somma venga consumata, in ipotesi per cattiva amministrazione del coniuge affidatario, ovvero il bene rovini o si deteriori; in questi ultimi casi il genitore obbligato può semmai chiedere restituzioni o risarcimenti, ma non è esonerato dall’obbligo di mantenimento. 9. Conclusioni . – La disciplina della crisi coniugale dell’ordinamento italiano, ancorché profondamente innovata nel 1975, si colloca nella scia della tradizione ed è caratterizzata da un preponderante interesse “pubblico” alla stabilità dei rapporti familiari. Certamente gli spazi di libertà dei coniugi si sono notevolmente ampliati rispetto al passato, come risulta evidente comparando le norme vigenti con quelle del codice civile del 1942. Tuttavia, l’ordinamento non ha rinunciato a pretendere dai coniugi l’osservanza di determinati canoni di comportamento e, soprattutto, ha mantenuto un controllo per quanto attiene alle decisioni in ordine alla separazione e al divorzio, che si fondano su presupposti oggettivi, in linea di principio sottratti alla volontà individuale dei coniugi. Anche le conseguenze patrimoniali conseguenti non sono, di massima, nella disponibilità dei coniugi, tanto è vero che la giurisprudenza della Cassazione ha più volte affermato la nullità degli accordi stipulati in vista del divorzio. Alcuni anni or sono era stata presentata in Parlamento una proposta di legge che mirava a ridurre il periodo di separazione legale necessario per ottenere il divorzio dai tre anni attualmente previsti ad un anno; tuttavia, detta proposta, discussa in aula, non fu approvata, segno molto chiaro del permanere di una concezione secondo la quale lo Stato ha tuttora interesse nelle questioni matrimoniali, ed in particolare a dettare regole in qualche modo restrittive circa la cessazione del vincolo. E’ molto forte e tuttora condiviso, infatti, il convincimento che la famiglia, quale società naturale fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.), costituisca tuttora l’elemento base della convivenza sociale. Mi pare che le scelte del legislatore spagnolo, che ha consegnato alla volontà individuale di ciascun coniuge la possibilità di ottenere il divorzio senza la necessità di alcun riscontro oggettivo, sia destinata a mutare profondamente l’idea stessa di famiglia e non solo quella della coppia matrimoniale. La famiglia si prospetta infatti, in questo quadro, incentrata sul rapporto verticale genitori – figli, mentre si pone come del tutto eventuale la sussistenza di quello orizzontale, cioè della coppia, che l’ordinamento sembra aver rinunziato di regolare. Si apre indubbiamente una prospettiva nuova assai diversa da quella alla quale per centinaia di anni il diritto si era informato. Neppure la rivoluzione francese o quella sovietica hanno prodotto un così profondo sconvolgimento delle regole matrimoniali. Anzi, come noto, dopo le iniziali aperture libertarie di queste rivoluzioni, l’ordinamento ha reagito con forti “statuti” della famiglia: basti pensare al Code Napoléon. Non sappiamo quali scenari si prospetteranno alla società spagnola, anche se dalla prospettiva italiana restiamo perplessi nei confronti di una riforma che sembra per certi versi costituire una inquietante “fuga in avanti”. 21 MICHELE SESTA – DESAROLLO DE LA PERSONALIDAD DEL CÓNYUGE Y CAUSAS DEL DIVORCIO: UNA REFLEXIÓN IUSCOMPARATISTA 22