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LIB-Psicologia
00042001100 0407
P. Gentili, P. Di Berardino, C. Parmentola
L’approccio psicologico nel diabete
Nella formazione del personale medico gli aspetti psicologici giocano un ruolo di secondo piano. Eppure l’aspetto
motivazionale, cognitivo e relazionale è centrale nell’assistenza alla persona con diabete.
Quale apporto può dare la Psicologia nell’attività del Team
diabetologico? Questo libro affronta tre dei possibili aspetti. Nella prima parte Paolo Gentili, psichiatra e psicoterapeuta, traccia un’analisi psicologica del contesto nel quale
si svolge l’incontro fra paziente e medico.
Nella seconda parte Paolo Di Berardino, specializzato sia
in Psichiatria che in Diabetologia, traccia alcune tra le direzioni di ricerca della Psicologia che più possono interessare il diabetologo, consigliando testi e studi di particolare
rilievo.
La molteplicità di ruoli che lo psicologo può svolgere nel
Team diabetologico è l’aspetto esaminato nella terza parte
del libro da Catello Parmentola, psicologo strutturato presso il Team diabetologico della Asl di Salerno.
P. Gentili, P. Di Berardino, C. Parmentola
L’approccio psicologico
nel diabete
Il dialogo, le teorie, l’esperienza
P. Gentili, P. Di Berardino, C. Parmentola
L’approccio psicologico
nel diabete
Il dialogo, le teorie, l’esperienza
1
Roche Diagnostics S.p.A.
Diabetes Care
Editing: In Pagina - Milano
Grafica: www.ideogramma.it
Stampa: Global Print, Gorgonzola (MI)
In copertina: disegno di Sergio Bellotto
INDICE
Indice
Introduzione
pag.
pag.
3
5
capitolo 1
Il tema dell’incontro con il paziente
pag. 7
Si scrive compliance si legge adherence
9
Educazione terapeutica ma innanzitutto Empowerment
13
Il gioco del’Cosa’
25
Il gioco del ‘Come’
33
Il gioco dei perché
39
Il vissuto di chi cura
49
capitolo 2
Direzioni di ricerca e di approfondimento
La psicologia e il lavoro del diabetologo
Qualità della vita
Adherence e compliance
Coping
Depressione e disturbi dell’umore
Ansia
Disturbi del comportamento alimentare
Dinamiche di coppia/questioni di genere
Autocontrollo/self-management/self-care
Fattori bio-psico-sociali alla base dell’adesione
Comunicazione e counselling
Locus of control
Self-efficacy
Autostima/self-esteem
pag. 59
61
65
67
69
71
73
75
77
79
81
83
85
87
89
3
Health belief model
Aspetti cognitivi
Empowerment
Sessualità
Strumenti psicometrici/questionari
Empatia/ascolto
Gli adolescenti
Il grande anziano
capitolo 3
4
Ruoli dello psicologo nel Team diabetologico
L’intervento clinico sul paziente
Il supporto al Team
Il contributo dello psicologo nelle attività
di educazione al paziente
Conclusioni: lo psicologo, se lo conosci,
non lo eviti
91
93
95
97
99
101
103
105
pag. 107
109
124
129
139
INTRODUZIONE
Solo dieci anni fa sarebbe stato necessario spiegare la ragion
d’essere di questo libro, chiarire insomma per quali motivi la
Psicologia avrebbe potuto svolgere un ruolo nella terapia del
diabete.
Oggi non più. È chiaro a molti, forse a tutti, che la relazione
tra Team diabetologico e paziente, la natura stessa di una
condizione cronica e la necessità di motivare la persona con
diabete all’autogestione implicano una conoscenza non solo
istintiva di diverse dinamiche psicologiche.
Gli autori di questo libro Paolo Gentili, Paolo Di Berardino e
Catello Parmentola danno da tempo un contributo importante
per raggiungere questo obiettivo. Li ringrazio caldamente per
aver accettato di scrivere i tre contributi nei quali si articola questo
lavoro. Tre capitoli che – con approcci diversi ma convergenti –
aiutano a capire come la Psicologia può intervenire a supporto
del lavoro del Diabetologo e del Team diabetologico.
Mi piace pensare che anche Roche Diagnostics abbia svolto
un ruolo in questa evoluzione, appoggiando gli sforzi di chi la
promuoveva e proponendo sedi (pensiamo ai Seminari di Villa
Erba), stimoli (diversi libri di questa collana) e l’incontro con
discipline ‘esterne’ quali la Pedagogia e appunto la Psicologia.
5
Non è un caso che Roche Diagnostics sia interessata agli aspetti
psicologici del diabete. I prodotti Accu-Chek si inseriscono infatti
in un momento preciso della relazione fra il paziente e la sua
condizione. I sistemi per la misurazione della glicemia e per la
gestione dei dati rappresentano uno dei momenti in cui la persona
‘incontra’ il diabete. Attraverso di essi l’idea che il paziente ha di
sé viene a contatto con il dato glicemico. Questo incontro è
vissuto con modalità diverse da persona a persona ed è anche
per questo che Accu-Chek prevede la scelta fra sistemi differenti
che possano meglio inserirsi nella quotidianità di ciascuno.
Intimo è anche il contatto che i microinfusori permettono e
presuppongono. Anzi, qui conoscenza e azione divengono parte
di un flusso unico, dove il microinfusore rappresenta il mezzo
per mettere in pratica le conoscenze e i valori del paziente.
Svolgere questo particolare ruolo nell’assistenza alla persona
con diabete da una parte ci stimola – potremmo dire ci obbliga
– a moltiplicare le nostre conoscenze in materia, dall’altro ci
fornisce un punto di osservazione particolare sulla base del
quale interpellare l’evoluzione della Diabetologia e fornire delle
direzioni di lavoro.
E – se posso fare un po’ di autobiografia narrativa – una delle
cose che mi ha reso più felice nella mia vita professionale è
proprio vedere con quale prontezza e ricchezza sono state
accolte e rielaborate queste indicazioni.
Con la speranza che anche questo libro riscuota l’attenzione
che si merita e che aggiunga un ulteriore importante contributo
alla conoscenza delle problematiche esistenti nel rapporto tra la
persona con il diabete e la sua condizione.
Massimo Balestri
Roche Diagnostics
Diabetes Care
6
CAPITOLO 1
Il tema dell’incontro
con il paziente
Paolo Gentili è docente di Psicologia clinica presso il Dipartimento di scienze psichiatriche all’Università La Sapienza di
Roma. Alla sua attività di studioso e psicoterapeuta associa da
alcuni anni la partecipazione a convegni e seminari sull’Educazione terapeutica e sul dialogo fra Team diabetologico e persona con diabete.
7
Si scrive compliance
si legge adherence
Ci ripenso ogni volta quando (come psicologo con una formazione anche medica) sono invitato a un convegno e soprattutto a un corso di formazione con e per operatori sanitari in diabetologia.
Ripenso a quanta strada avete fatto, voi diabetologi, infermieri e dietisti e soprattutto persone con diabete, nel giro di pochi anni.
Una volta tutto sembrava semplice. Il medico ‘ordinava’ e il
paziente ‘eseguiva’ (o meglio si presumeva che eseguisse) le
istruzioni prescritte. Poi si è constatato, sulla base dell’evidenza clinica, che questo modello antico di secoli – forse tuttora valido nella terapia delle patologie acute – funziona poco
o per nulla nella gestione delle malattie croniche, soprattutto del diabete.
Due parole hanno simboleggiato negli ultimi decenni questa evoluzione: compliance (obbedienza a una prescrizione) e
adherence (accordo, condivisione del trattamento).
In un tempo non troppo lontano il rapporto medico-diabetico
era basato su una sorta di ‘sudditanza’. Al paziente non era
chiesto altro che ‘obbedire’ agli ‘ordini’ dettati dal medico. La visita medica era un ‘lavoro da officina’, nella quale il
meccanico doveva riparare o fare i tagliandi di controllo della macchina guasta o usurata per l’età. La macchina, o meglio
il diabetico come persona umana era messo in secondo piano
rispetto al suo ruolo di malato.
Un passo avanti si è compiuto con la consapevolezza dell’im-
9
portanza di una assidua collaborazione tra medico e paziente
(l’adherence). Una condivisione del trattamento da entrambe
le parti, una sorta di accordo implicito e benefico per entrambi, dove il malato si sente più una persona che un mero paziente e l’operatore sanitario affianca, stimola, educa ma non
è solo di fronte al diabete.
Oggi tutto questo è scontato, tanto che si riprende a usare la
parola compliance, arricchita però di tutte le valenze di condivisione, di cura delle motivazioni, di coscienza della relazione
che il termine adherence apriva.
Certo, ancora oggi si esce dai corsi di laurea in Medicina con
la convinzione (affascinante per il desiderio di onnipotenza
proprio della natura umana) che il medico sia il ‘gestore della salute’ dell’altro. Ma si sta diffondendo sempre più un ‘fare
medico’ attento alla moltitudine di esigenze e di aspettative
che il paziente coltiva dentro di sé e difende, specie se il medico sbaglia o non mantiene ciò che promette.
Per me, psicologo da tanti anni, è sicuramente un momento di
soddisfazione vedere una medicina divenuta ‘umana’ che coglie il paziente come persona. Ma provo anche preoccupazione per una medicina ‘globale’ e centrata sul paziente che, nei
confronti del malato cronico, si trova talora affascinata da antichi percorsi autoritari.
Quante volte i colleghi parlando ‘fuori dai denti’ manifestano
dubbi (“Il signor Rossi non si cura perché non sa farlo o perché in realtà non vuole?”) e tremendi sospetti (“Quando Rossi
si sente sconfitto mi sta forse chiedendo di rinunciare alla propria libertà perché ne fa un cattivo uso. Certo, quante complicazioni e complicanze si potrebbero evitare se lui, il paziente,
mi obbedisse!”).
Così mi trovo quale psicologo clinico a condividere con il medico, che chiede aiuto e una nuova forma mentis (e non solo
punti Ecm!), una sua tensione interiore, sul come essere professionali e soddisfatti di sé.
Da qui il dramma personale di ogni medico che deve scegliere tra incoraggiare il malato alla libertà e responsabilità della
10
scelta nella sua cura, fornendo stimoli efficaci e clima sereno,
o assumere (spesso in maniera ‘soft’) una rigidità professionale
autoritaria che valuta e prescrive senza tener conto dei bisogni
del paziente (magari come ha visto fare dai suoi ‘maestri’).
Se egli opera la scelta verso un intervento di collaborazione e
condivisione allora sceglie di rifiutare il fascino dell’autorità e
del potere. In altre parole la scelta della compliance vuol dire
forse tradire Ippocrate (il quale, a sua scusante, non si fidava
della psicologia come scienza), grande medico ma forse anche un po’ padre e mago verso i suoi pazienti!
LA COMPLIANCE
‘STORICA’
Il medico decide e dirige il
trattamento che il paziente
deve eseguire.
Il paziente deve attenersi
scrupolosamente alla
prescrizione imposta dal
medico.
LA NUOVA COMPLIANCE
Il medico accompagna
(consiglia, indica, conferma)
con le sue competenze
il paziente ad attuare il
trattamento condiviso.
Il paziente non segue
ma esegue in autonomia
e con responsabilità la
prescrizione condivisa con il
medico.
SPUNTI DI RIFLESSIONE
Che tipo di compliance preferisci, specie quando sei
stanco o deluso, hai fretta o sei preoccupato?
Che vantaggi ottieni dal tuo modo abituale di fare il medico?
In quali situazioni dai ‘ordini’ al paziente?
Quanto ti costa cercare la collaborazione con il paziente?
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Educazione terapeutica
ma innanzitutto
Empowerment
Quanta strada abbiamo fatto dalla semplice prescrizione! È il
caso di accennare alla risposta massiccia ed entusiastica della
maggioranza dei diabetologi (e più di recente, ma con ancora maggiore facilità, degli infermieri professionali e delle dietiste) al concetto di Educazione terapeutica.
Ancora più interessante, a mio parere, è la fortuna della parola Empowerment che nasce in altri ambiti ma è sinergica con
quella riflessione.
Da osservatore esterno, ammesso all’amicizia di molti diabetologi e alla frequentazione dei loro convegni e corsi, rimango entusiasta e sorpreso della fioritura culturale, dell’entusiasmo e della sincera voglia di mettere in discussione quelli che
erano i capisaldi dell’agire medico prima ancora che della terapia del diabete.
In mare aperto
Il grande successo che l’Educazione terapeutica e il concetto di Empowerment hanno riscosso presso i Team diabetologici italiani esprime insieme la ‘potenza’ intellettuale di quella riflessione e l’inquietudine ‘procreativa’ della diabetologia
mondiale ma anche italiana.
Si parla di Educazione terapeutica e non si deve immaginare un medico in camice bianco che con la bacchetta da insegnante ha dinnanzi a sé uno stuolo di pazienti-studenti pronti
a eseguire le sue direttive. Siamo di fronte a un gruppo unito,
educatori e persone desiderose di imparare, pronte a scam-
13
biare idee, a esporre dubbi, a confrontare i propri pensieri e
le proprie esperienze per affrontare al meglio le impervie strade che la malattia cronica presenta.
La sensazione è che i medici (più ancora degli operatori sanitari) si siano resi conto di avere una strumentazione non solo
inadeguata ma di ostacolo alla gestione di una condizione
cronica con le caratteristiche che il diabete ha assunto.
Da qui la perplessità, prima, ma poi l’entusiasmo di questi ultimi dieci anni nei quali si è saliti sulla barca dell’Educazione terapeutica che ci ha portato tutti lontano dalla terraferma (e dagli scogli) di una impostazione tranquillizzante sui ‘ruoli’ della visita medica.
Ci siamo allontanati man mano dalla concezione meccanicistica del rapporto mente-corpo (“Se sai cosa fare, allora devi
farlo!”) e paternalista della visione del rapporto medico-paziente.
Oggi siamo in mare aperto e la medicina basata sull’evidenza
non offre ancora la tanto attesa certezza che quello che stiamo facendo sia veramente efficace.
Secondo molti medici, al salto in avanti della strumentazione
intellettuale del Team diabetologico non ha fatto riscontro un
identico balzo nella qualità dei risultati ottenuti. Continua a
essere frequente quella che al Team appare come una scarsa
osservanza delle terapie prescritte. Non sempre l’Educazione
terapeutica, la strategia di condivisione, il lavoro sulla motivazione raggiungono gli obiettivi che il Team si è prefissato.
Molti Team si trovano in una situazione ben nota ad alcuni
dei loro pazienti: “Ho fatto, ho fatto, ma non ho visto niente”:
quello che appare come riscontro ‘pratico’, ‘oggettivo’ non
è proporzionale allo sforzo compiuto. Una situazione demotivante e pericolosa. Queste pagine sono dedicate proprio alla
gestione di questi momenti, a ‘digerire il fallimento secondario’ (reale o apparente) dell’Educazione terapeutica e della logica dell’Empowerment.
14
Adherence ed Empowerment: due concetti realistici
Sono stato un po’ pessimista? Non credo. La strada per evolvere da questa situazione passa attraverso un riconoscimento del grandissimo lavoro fatto, ma non può prescindere da
quell’approccio realistico che ha permesso il successo dei termini Adherence ed Empowerment.
Siamo tutti evoluti verso un modello della relazione sanitaria
non solo più ampio, ma soprattutto più vicino alla realtà dei
fatti. Solo se il paziente condivide certi obiettivi, certi valori e
certi impegni si può progettare un intervento efficace.
Lo stesso vale per il concetto di Empowerment: quando ne
parliamo dobbiamo ricordare che non si tratta della ‘cessione’
più o meno munifica al paziente di un potere che prima spettava al medico. Il diabetologo ‘che fa Empowerment’ non è
un re che abdica, né un Carlo Alberto che ‘regala’ lo Statuto
al popolo. È il riconoscimento che quel potere era già da prima in mano al paziente.
Nel caso del diabete, il gioco si è scoperto prima, almeno da
quando il paziente ha a disposizione gli strumenti tecnici e concettuali per prendere decisioni e verificarne l’efficacia. Ma il potere è in mano ai pazienti anche in tutte le malattie croniche
nelle quali il paziente è libero di modificare tempi e posologie.
Dicono bene Bob Anderson e Martha Funnell (cito, condensando, dalla edizione italiana di The art of Empowerment) che
l’Empowerment è la modalità più efficace in quanto: «Primo,
le scelte che hanno il massimo effetto sulla salute e sul benessere di una persona con il diabete sono fatte da quella stessa
persona, non dagli esperti di diabete. Secondo, quando i pazienti lasciano il nostro reparto o il nostro studio, sono loro ad
avere il controllo delle scelte di trattamento. Possono ignorare ogni raccomandazione. In terzo luogo, le conseguenze
delle scelte fatte dai pazienti ricadono prima e maggiormente sui pazienti stessi. Non possiamo condividere direttamente i rischi o i benefici delle scelte dei nostri pazienti; né possiamo condividere il prezzo da pagare in termini di qualità della vita».
15
Le potenzialità dell’Empowerment
Questo non significa a mio parere che strumenti quali condivisione, Empowerment, Educazione terapeutica, lavoro sulle
motivazioni… siano meno efficaci di quanto si credeva o che
debbano essere riservati ad alcuni pazienti (come avviene per
certi farmaci presentati come panacea e in realtà applicabili
solo ad alcuni casi).
E non significa nemmeno, su questo vorrei essere chiaro, che
nei pazienti ‘difficili’ operino per forza dinamiche insondabili
sulle quali il Team non può agire e che devono essere delegate in toto allo psicologo.
No, non bisogna ‘demandare allo psicologo’ i pazienti dai quali
non otteniamo i risultati attesi né mettere in un cassetto quello
che abbiamo imparato in questi formidabili anni di sperimentazione e di creatività.
Io credo che si tratti anzi di:
riflettere ancora di più su quello che già sappiamo;
accogliere tutte le numerose risonanze del concetto di Empowerment;
collocare questo concetto sullo sfondo dell’umanità come
patrimonio di risorse che tutti conosciamo in quanto uomini
fra gli uomini.
Se dovessi trovare una sintesi potrei pensare che l’Empowerment ci rimanda da una parte alla nostra ontologia che ci rende uomini, perché non siamo nati ‘per vivere come bruti’, e
dall’altra alle condizioni necessarie per esplicare questa potenzialità creativa quali sono il diritto alla libertà e il dovere
della responsabilità.
Non si desidera solo il meglio
L’Empowerment fa appello quindi a una sorta di a priori genetico o ontologico. Presuppone che – in mancanza di ostacoli
oggettivi – tutti noi vogliamo ‘crescere’, ‘migliorare’, ‘curarci’.
Raggiungere insomma obiettivi circondati di una comune valorizzazione positiva.
Chiaramente si tratta di una semplificazione ma non per que-
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sto meno utile nei momenti in cui si vede tutto nero. È ben
importante guardare ai comportamenti del nostro paziente
come il prodotto per così dire di un processo decisionale articolato e spesso conflittuale.
Prima di essere messi in atto, i comportamenti nascono e sono
‘discussi’ in una sorta di ‘Parlamento interno’ nel quale si confrontano partiti diversi (le motivazioni o i desideri). Ed è vero
che prevalgono le forze in quel momento della vita più pressanti ed esigenti. Nel neonato e poi bambino domina la motivazione a crescere. Il bambino impara a camminare o diviene indipendente perché è scritto, diciamo così, nel suo DNA.
Anche l’istinto di sopravvivenza, la voglia di curarci, di ‘essere madri a noi stessi’ sulla quale si basa l’Empowerment è presente in ogni uomo.
Ma queste spinte non sono le uniche e non sono nemmeno
sempre prevalenti. Per farsi strada, non devono solo superare ostacoli esterni ma devono anche e soprattutto competere con altre pulsioni. Ci sono desideri che vengono percepiti
come autodistruttivi e forse lo sono (desiderio di punirsi, ci si
sente indegni), c’è il desiderio di preservare vantaggi secondari della malattia.
Non possiamo ignorarli, non dobbiamo averne paura. Non
stiamo aprendo una cantina buia, siamo nel salotto di casa.
Non stiamo parlando di inconscio, ma di una pluralità di motivazioni che sono presenti in tutti: nella persona con diabete che accetta la sfida dell’Educazione terapeutica così come
nella persona che non diserta il Team.
È così diverso per noi ‘non pazienti’? Non credo. Non faccio a
caso questo riferimento. Perché la nostra azione sia ancora più
costruttiva, dobbiamo inserirla in una visione dell’uomo. Dobbiamo sapere che la spinta a crescere è presente in tutti, ma
deve emergere fra le altre spinte. Non sarà mai l’unico desiderio del paziente, ma potrà essere quello che prevale sugli altri
e spinge al comportamento. Di questa concorrenza, di questi
conflitti (o ambivalenze) il Team deve essere conscio.
17
La sfida della responsabilità
Un discorso per certi versi analogo può essere fatto intorno
al concetto di responsabilità. Sembrerebbe normale ritenere
che tutti siamo e vogliamo essere ‘responsabili’. La storia delle persone e dei popoli può essere narrata come un progressivo assumere responsabilità e libertà nelle scelte.
Ma sarebbe una narrazione ideologica. La strada della responsabilità è lunga e scivolosa, procede con balzi in avanti e
passi indietro. La storia ci racconta la strada della responsabilità politica: la democrazia. Alla Rivoluzione francese ha fatto
seguito il Terrore e l’Impero, al suffragio universale (il voto di
tutti) in alcuni paesi ha fatto seguito il Fascismo (il voto di nessuno). Sempre nella storia, assistiamo alle contraddizioni non
solo logiche in cui cade chi desidera ‘imporre la libertà’.
L’assunzione di responsabilità si presenta in forme diverse
nel dialogo terapeutico. Tutti conosciamo persone che sinceramente si affidano al Team, vogliono essere condotte per
mano, vuoi perché non hanno fiducia in se stesse, vuoi perché
ritengono che queste siano le regole del gioco. Proporre regole diverse, per corrette che siano, significa farli sentire abbandonati.
Molti di noi hanno la sensazione che alcune persone fingano
di affidarsi al diabetologo, ostentino deferenza e rispetto per i
consigli dati, calandosi in un ruolo solo apparentemente passivo. Probabilmente, usciti dall’ambulatorio, rialzano la testa,
cambiano espressione del viso e si riservano di adattare i consigli alle informazioni di cui dispongono, ai valori che muovono i loro comportamenti. È come se questi tipi di pazienti si riservassero l’autonomia, senza però accettare la responsabilità delle scelte che compiono. Ci sono poi persone che vogliono partecipare su un piano di parità, riconoscono di avere responsabilità o addirittura pretendono di averla.
Il processo educativo (in senso lato) da mettere in atto con i
vari soggetti non è in sé diverso, ma va modulato a seconda
dell’approccio, attraverso approssimazioni successive.
18
Da ‘me’ a ‘noi’: concordare gli obiettivi
Il terzo punto sul quale si può ancora riflettere insieme molto è la definizione degli obiettivi, terapeutici e non solo. Non
è poco. Esistono modelli di assistenza alle malattie croniche
nei quali l’unico compito svolto dal personale medico consiste
nel concordare gli obiettivi. Forse questo è un aspetto che potrebbe essere approfondito anche con l’aiuto di qualche input
proveniente dalla psicologia.
Dopotutto di cosa stiamo parlando? Di pazienti che sembrano
non raggiungere gli obiettivi più o meno espliciti che vengono
loro posti. Questo crea una situazione alla quale gli operatori
sanitari e i pazienti reagiscono con delusione, rabbia, sensi di
colpa e di inadeguatezza. Tutti atteggiamenti che aggravano
il problema. Perché avviene questo? In estrema sintesi potrei
suggerire che ciò si verifica:
perché l’obiettivo non è nato dalla relazione, dal ‘noi’ dell’incontro fra il paziente e il Team, ma dal ‘dover essere’ del
medico o del paziente;
perché il Team non si è accorto che il paziente ha sempre
raggiunto degli obiettivi, anche quando pare averli mancati.
Il medico (e in misura minore l’operatore sanitario) è portato
per la sua formazione clinica a formulare obiettivi irrealistici.
“Non sarei un buon medico se non le chiedessi... ”, “Il medico
pietoso fa la piaga...” sono frasi usate spesso. A sua volta anche il paziente vive in un contesto che lo porta ad accettare o a
porsi obiettivi irrealistici: le riviste e le trasmissioni tv sono piene di settantenni sani. Gli ideali apollinei (e vagamente neonazisti) di salute assoluta che i media ci propongono sono ben
lontani dalla ‘salute sufficiente’ che è possibile ottenere.
Non è raro che l’obiettivo irrealistico sia concordato: ma non
dall’‘io’ del medico e del paziente ma dalla alleanza fra i loro
‘super-io’. Dalla relazione a due scaturisce infatti una sceneggiatura scritta a due mani e poi co-diretta dai due registi,
ognuno con la sua storia e le sue esperienze (il mondo esterno a cui appartiene) e il suo mondo interno (fatto di bisogni e
conflitti, di emozioni e convinzioni).
19
Da questo film o romanzo scritto a due mani intorno al diabete scaturisce così il ‘traguardo’ quotidiano, bisettimanale o
mensile, che si deve raggiungere. Dai due ‘dover essere’ coalizzati e collusivi del medico e del paziente nascono un percorso obbligato e la frequente grave sensazione di sconfitta qualora l’obiettivo non venga raggiunto.
Un obiettivo intriso di verità
Un buon obiettivo non è solo intrinsecamente realistico, deve
essere condiviso e intriso di verità (anche se questa può essere diversamente percepita dall’operatore e dal paziente!),
lontano da ogni ‘dover essere’, da parte sia del medico sia del
paziente.
Purtroppo non sempre accade così. A volte ho la sensazione
che l’obiettivo terapeutico nasca dall’idea che il medico e il
paziente hanno, nel loro spazio interiore, di come devono essere un ‘buon medico’ e un ‘buon paziente’. Questi obiettivi finiscono per cadere come una clava sul paziente stesso.
Formularli usando il condizionale non aiuta, anzi! Rende ancora più improbabile il raggiungimento dello scopo. Dire: “Lei
dovrebbe arrivare a questo obiettivo”, sottintende sfiducia da
parte del medico. Meglio usare un futuro: “Lei raggiungerà
questo obiettivo”, che trasmette fiducia.
Se l’obiettivo è di lungo termine e se il paziente pare essere
(o ritiene di essere) sulla buona strada per raggiungerlo, esso
dovrà essere riconfermato ogni volta. Se non è raggiunto, occorre definirne un altro che non sia più facile ma più vero.
Lo spazio interno
Parlando di Educazione terapeutica e di Empowerment ho
accennato a quanto sia importante tenere sempre presente
la personalità, le motivazioni, le emozioni del paziente e del
medico per agevolare la creazione di uno ‘spazio di scambio’
dove essi possano confrontarsi, aiutarsi e affrontare mano nella mano la malattia cronica. Questo spazio non è solo l’ambiente esterno dove diabetologo e persona con diabete si in-
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contrano ma, a mio avviso, è soprattutto quello ‘spazio interno’ che tutti abbiamo in cui le relazioni, le aspettative, le delusioni e le progettualità si vivono prima ancora di manifestarsi attraverso l’azione.
Ricordando lo stupore e la curiosità di molti colleghi di fronte a questa mia idea (l’esterno è l’espressione dell’interno),
cercherò di chiarire meglio che cosa intendo. La psicologia ci
dice con parole ‘da iniziato’ quello che ogni poeta, ogni bambino e ogni persona, che ha tempo per sognare e guardare se
stessa, afferra benissimo: tutte le relazioni dotate di significato
sono vissute da ognuno in un mondo intrapsichico, nella nostra ‘testa-cuore’ insomma.
In questo modo la realtà storica, oggettiva, presentata nei resoconti, nei diari, nella narrazione di se stessi (ma anche di un
altro, basti pensare a come un amante deluso descrive il suo
partner!) non esiste. Esistono solo immagini, rappresentazioni: quella di mia madre, del mio medico, del mio paziente.
Queste persone esistono o sono esistite de facto, ma la loro
rappresentazione è solamente relazionale. L’immagine ‘mia
madre’ non allude né all’esistenza storica di quella donna né a
una rappresentazione della sua vita, ma al suo essere madre,
alla relazione tra me e lei. Come i personaggi di un testo teatrale, queste figure non hanno una vita propria, letteralmente
non esistono al di fuori del ‘palcoscenico’.
Non si tratta di qualcosa di residuale o ‘inconscio’, ma della
struttura nella quale prende forma l’esperienza. La nostra esperienza relazionale del mondo non coglie mai la persona nella sua oggettività, ma è il risultato del confronto della persona con l’immagine che se ne ha in questo ‘teatro intrapsichico’.
Pertanto la rappresentazione che il paziente ha di me e quella
che io ho del paziente non sono calchi più o meno stilizzati della persona in sé. Sono in tutto una mia e sua ‘creazione’.
So che questa considerazione può turbare un medico, quasi come se essere ‘soggettivo’ fosse un limite, un errore insito
in una macchina, un bias da eliminare. In una relazione di cura
e di lungo termine non è così. È il dialogo fra queste rappre-
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sentazioni ciò che è in gioco. Nel dialogo terapeutico la mia
idea della paziente signora Rossi entra in relazione con l’idea
che la signora Rossi ha di sé. ‘Entra in relazione’ non vuol dire
‘deve essere eguale’.
Una certa differenza può avere una funzione positiva, può favorire l’evoluzione del paziente stesso. Se io penso che ‘tu ce
la farai’ a superare un ostacolo, la mia rappresentazione positiva aiuta a superare la tua rappresentazione negativa ‘no, non
ce la farò’. Se la mia idea collimasse con la tua, l’ostacolo non
sarebbe mai superato.
Sarebbe poco adeguato anche qualora questa immagine fosse troppo positiva oppure troppo negativa. È invece importante che la rappresentazione che il curante ha del paziente si
avvicini a quella che il paziente ha di sé, attraendola.
Per esempio, se chiedo a un architetto di arredare la mia nuova casa, questo – se è un buon architetto – non si limiterà a disegnarla secondo i suoi gusti. Ma non cercherà nemmeno di
farla esattamente identica alla casa dove abito ora.
Cercherà un compromesso fra i suoi valori (come lui pensa che
debba essere arredata una casa) e l’immagine che ha di me.
Per far questo cercherà di far collimare le immagini attraverso
un progetto di prova ed errore. Mi chiederà che cosa penso
e mi racconterà cosa pensa lui, spiandomi per vedere se certe idee mi interessano.
Selezionerà tre piastrelle per il bagno e me le mostrerà chiedendomi quale preferisco. La mia scelta lo aiuterà a mettere
a fuoco l’immagine che ha di me e quindi farà con maggiore cognizione di causa la selezione delle proposte per il colore delle tende. Pian piano la sua rappresentazione del ‘cliente Gentili Paolo’ si avvicinerà, badiamo bene, non a quello che
io sono veramente, ma a quello che voglio essere nella nuova casa, quindi all’immagine che io ho di me. E così via. L’architetto deve credere che io sia qualcosa di diverso da quello che sono, deve mettere qualcosa di sé nella relazione, altrimenti disegnerà una casa senza interesse. Deve costruire uno
spazio che io abito, migliorandomi.
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Ecco. Ho sparato quasi tutte le mie cartucce. Ho indicato tre
degli ambiti nei quali a mio parere la riflessione che abbiamo
fatto può e deve continuare per scoprire cosa c’è nella relazione ‘fallimentare’ con il paziente, come superarla e come accettarla. Tutto questo però va calato nella quotidianità dell’incontro con il paziente. Quotidianità che, ormai penso di averlo intuito, è fatta di incontri brevi o brevissimi che si succedono l’uno all’altro.
23
Il gioco del ‘Cosa’
Cosa possiamo fare allora concretamente? Prima di tutto io
credo che possiamo provare a non fare qualcosa o perlomeno a non farlo subito.
Il medico tende all’interventismo, ad agire: prescrivere, ammonire, incoraggiare... è pronto a tutto ma non a esitare. Non
è solo questione di tempo, dei ‘tanti pazienti che aspettano
fuori’. È una intera cultura improntata al paradigma della malattia acuta che ci pervade, curanti e curati (non erano certo
solo i medici a stare incollati alla TV a guardare E.R.).
Sospendi il tuo gesto
Se la malattia è cronica però, le regole del gioco cambiano.
La cura si inscrive all’interno della relazione. E nella relazione
paga rimandare l’azione, paga l’esitazione, ritardare il gesto e
porre invece qualche quesito.
Il rischio è quello di rispondere senza capire quale sia veramente la domanda. Di cosa stiamo parlando? Di una ipoglicemia? Di una emoglobina glicata alta? Che cosa c’è intorno a
quel dato, a quel sintomo che il paziente mi ha riportato? Sicuramente il paziente mi sta parlando con questo. Ma mi sta
parlando di questo?
Farmi e fare questa domanda non è fare qualcosa di più, non
è la ciliegina sulla torta, ma è la torta stessa. Non porla invece
significherebbe tradire la mia esigenza di essere curante e la
muta attesa del paziente.
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Chiedere per sapere
Occorre quindi sapere di cosa si sta parlando. È facile, basta
fare delle domande. Con il suo interlocutore ogni curante può
giocare al gioco del ‘cosa’, del ‘come’ e soprattutto del ‘perché’.
Questo non per estorcere al paziente qualcosa che non vuol
dire, non per sapere ‘cosa c’è sotto’ ma per dichiarare, per
‘dire in piazza’ (la nostra parola ‘categoria’ viene da kata agoreuo, “dico in piazza”) quello che è evidente ma non è stato
espresso. Non si tratta di chiedere per avere (in latino peto)
ma chiedere per sapere (quaero).
Cos’è per te il diabete?
Chi ha potere ha conoscenze, e queste conoscenze determinano il modo in cui il potere viene esercitato. La persona
con diabete ha delle conoscenze sulla sua malattia. Talvolta le aveva prima della diagnosi e sicuramente si sono accresciute nel corso del tempo. Sono conoscenze spesso articolate e sorprendenti nella loro ricchezza, e nella maniera con la
quale sono cresciute parallelamente alle informazioni ricevute dal Team.
Chiedere alla persona: “Cos’è per lei il diabete?” è un esercizio estremamente interessante, purché sia chiaro, all’operatore e al paziente, che non lo si sta interrogando per capire se
ha ‘imparato la lezione’, né tantomeno per valutare la distanza fra quello che dirà e la posizione scientifica.
Così formulata la domanda è ambigua. La risposta può riguardare sia la patologia sia il vissuto. L’operatore potrà modificarla e renderla più precisa (per esempio potrà dire: “Cos’è
secondo lei il diabete?”) ma anche la sua ambiguità è una risorsa. Una cosa è rispondere: “Per me il diabete è una seccatura”, portando l’accento sul vissuto, e un’altra affermare: “È
una malattia del pancreas”, restando sul piano oggettivo.
Certo, in una relazione terapeutica difficile, segnata da eventi che sono stati percepiti come insuccessi, questa domanda
perde parte della sua freschezza. Esiste il rischio che – nono-
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stante le intenzioni – il paziente ‘con la coda di paglia’ scorga
una velata minaccia dietro la domanda. Teme che il medico
pensi: “Visto che non ottieni risultati evidentemente non hai
capito cos’è il diabete e ora te lo spiego”.
Che cosa le ha fatto venire il diabete?
Una domanda che invece va sempre bene è quella sulla eziologia del diabete. Ogni paziente ha una spiegazione sulla causa del ‘suo’ diabete. Secondo la teoria dell’attribuzione la reazione principale ad avvenimenti avversi come la malattia consiste in una indagine circa le loro cause.
Si possono distinguere cause ‘interne’ (relative al comportamento del paziente: “Ho mangiato troppi dolci”, oppure correttamente “Sono troppo grasso”, “Faccio poco moto”) da
cause ‘esterne’ (“Era destino...“, “Me l’hanno giurata!”). La
causa può essere universale (“Colpa delle schifezze che si
mangiano oggi”) o individuale (“Io ho fatto questo o non ho
fatto quello”).
In questa indagine le informazioni date dall’operatore sanitario (se ci sono state al riguardo) sono solo una delle fonti. Molto importanti sono le esperienze passate, i vissuti rispetto ai
propri comportamenti, le credenze.
Chiedere al paziente di condividere questi pensieri è importante perché – sempre secondo la teoria dell’attribuzione –
i processi cognitivi mediante i quali le persone spiegano le
cause degli avvenimenti possono influire sui comportamenti e
sull’accettazione della malattia.
Schematizzando, si può dire per esempio che l’attribuzione
a una causa esterna o universale si associa più di frequente a
comportamenti passivi, mentre se si pensa a una causa interna
e/o individuale si possono prevedere sì un percorso di accettazione responsabile ma anche vissuti di eccessiva ansia.
Cosa stiamo facendo qui?
Agenda è una parola latina che nella lingua inglese ha trovato una traduzione più ‘pragmatica’ rispetto all’italiano ‘cose
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da fare’: significa ‘programma’, ‘serie di obiettivi’. Nell’incontro terapeutico sia il paziente sia l’operatore sanitario hanno la
loro ‘agenda’: sono portatori di esigenze che si vogliono soddisfare. Prima di essere un’occasione per trasmettere e verificare conoscenze, il colloquio va visto come l’incontro fra le
‘agende’ del paziente e dell’operatore sanitario.
Conoscere l’agenda del paziente e dell’operatore è importante non solo per motivi relazionali, ma anche per comprendere
e prevenire i possibili motivi di una mancata aderenza.
Chiedere ‘cosa stiamo facendo qui’ ha il merito di mettere
l’accento sulla responsabilità del paziente il quale liberamente
ha deciso di presentarsi al colloquio. Definire la nostra agenda
di medici o operatori sanitari aiuta a controllarci, a non imporre le nostre convinzioni ma anche a portare quelle nuove prospettive che il paziente cerca e si attende spesso da noi.
Sapendo molto dell’altro possiamo prepararci a ‘stupirlo con
effetti speciali’ che lui poi accoglierà o rifiuterà. Conoscendo
noi stessi possiamo disporci sinceramente di fronte al paziente: chiarirci se vogliamo o no far capire all’altro che ‘qui’, vale
a dire nell’incontro, si possono fare molte cose, andando oltre
il modello che la routine o l’interpretazione sociale del modello di cura propongono come ‘standard’.
Cosa sono questi dati che mi stai offrendo
‘Dato’ è una bella parola. Fa capire a noi italiani (e nasconde
agli anglosassoni) che dietro ogni dato c’è qualcuno che dà:
c’è una persona, un’azione e perfino una motivazione.
In francese va ancora meglio: donné che suona come il nostro
‘donato’. Il dato è qualcosa che è stato donato e ogni scambio di doni sottintende una manipolazione, un baratto. Non
sto parlando dei dati falsificati. Sto dicendo che – in una relazione densa di significati come quella terapeutica – qualunque cosa io offra all’altro, l’atto in sé ha lo scopo di indurre il
mio interlocutore a pensare qualcosa di me e a modificare in
un certo modo la sua relazione con me.
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Il medico non è abituato a chiedersi perché un dato... è dato.
Lo prende in considerazione in sé. In un certo senso è così.
L’emoglobina glicata non si discute. Ma l’indiscutibile dato
biologico, nella terapia di una malattia cronica, ha senso solo
se permette di valutare l’effetto di un’azione precedente e se
prelude a una seguente. E queste azioni non sono oggettive.
Sono dei soggetti ad avere il diabete e dei soggetti a deciderne l’evoluzione, con azioni che per forza di cose sono soggettive. Il dato oggettivo è prezioso, ma la sua rielaborazione è
sempre intersoggettiva.
Detto in altre parole: ogni dato anche clinico arriva ‘avvolto’ in una relazione. Dietro di esso si muove un desiderio che
va indagato. La glicemia e perfino la glicata che pure sembra
‘estorta’ al paziente hanno una missione da compiere.
Non mettere in luce questo aspetto significa cogliere solo in
parte l’occasione che il paziente offre. Pensiamo a un detective giunto sul luogo del delitto. Vede una pistola. È sufficiente che riconosca il marchio e il modello dell’arma o deve rilevare anche le impronte digitali? La risposta è banale: ambedue le cose.
Il medico deve solo prendere in considerazione il dato o indagare anche le motivazioni con cui è presentato? Ambedue
le cose.
Il fatto che la terapia di una malattia cronica non possa essere
condotta solamente su basi oggettive potrebbe essere considerato da qualche operatore sanitario un limite. Credetemi, non è così: il percorso di cura del diabete passa attraverso
decisioni che intercettano spazi emotivi, comportamenti, abitudini che sono espressione di valori. Si agisce sui valori, sulle immagini, esattamente come un chirurgo agisce sulle ossa
per una frattura.
La differenza è che lo si fa insieme al paziente con i suoi stessi
strumenti. L’essere uomo del paziente è lo spazio in cui avviene la terapia. L’essere uomo del medico o dell’operatore sanitario è il principale strumento che il componente del Team
può mettere in gioco.
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Torniamo a questa visita, a questo incontro terapeutico che
è uno scambio di doni. “Ti porto la mia glicemia: è migliorata e mi aspetto che tu lo riconosca” dice il paziente, oppure:
“È peggiorata e mi aspetto che tu mi consoli, mi incoraggi, mi
cambi una terapia che secondo me non funziona”. O magari: “Mi aspetto che tu ti deprima perché ti odio come curante
e voglio farti del male”, o ancora: “Mi aspetto che tu mi tratti male”.
La manipolazione va dichiarata. “Cosa ti aspetti da me?” “Che
sensazione provi davanti a questo dato?” Ponendo domande simili chiediamo al paziente di mettere in scena ciò che è
sottinteso. In questo modo daremo dei nomi a messaggi che
vengono comunque scambiati e colti.
Quei pochi minuti di durata della visita riecheggeranno nella mente del paziente per mesi e mesi. È rilevante cosa il medico dice e come lo dice. Scrive una ricetta? Come? La calligrafia veloce e incomprensibile di molti medici non è un vezzo: è un’aggressione (“Tu paziente devi fare fatica per capire cosa scrivo io medico”) o addirittura un’esclusione (“Scrivo in modo che solo il farmacista possa capire: rifiuto te come
interlocutore”).
Non svelare il gioco, non proporre di dare un nome ai desideri e alle motivazioni può spesso significare un venir meno a
un’attesa del paziente. Il dato può essere come quelle esitazioni, quei silenzi che in un colloquio amoroso invitano (o costringono?) l’altro a fare una domanda, a rischiare di ‘fare una
brutta figura’ ma anche a riconoscere quanto io sono importante per lui.
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COSA FARE PRIMA DI FARE
• Lasciar esprimere al paziente il suo punto di vista sulla malattia, su di sé e sulla relazione con gli operatori sanitari.
• Riconoscere gli atteggiamenti con cui il soggetto va formulando i suoi sentimenti e i suoi pensieri.
• Saper vedere la situazione descritta dal paziente secondo il
suo punto di vista.
• Sentire la qualità della relazione instaurata con il paziente.
L’AGENDA DEL PAZIENTE
Nell’agenda del paziente si individuano quattro aree di funzionamento:
• i sentimenti (paura, speranza, depressione, ansia, vissuti di
incapacità e colpa);
• le sue idee e le convinzioni in merito alla terapia, al diabete
o agli operatori sanitari in generale;
• le aspettative e le richieste più o meno esplicite (di aiuto, di
riconoscimento, di essere accudito e deresponsabilizzato
o, al contrario, di essere reso protagonista);
• il modo in cui egli vive il diabete e la terapia nel suo contesto familiare, sociale e lavorativo.
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Il gioco del ‘Come’
Torniamo al punto di partenza. Alla realtà quotidiana dei pazienti. Forse, esagerando un po’, potremmo dire che la piena accettazione, così come il totale abbandono delle terapie,
rappresentano casi particolari. Là dove permane una relazione (e il paziente continua a presentarsi alle visite) la regola è
una ‘reinterpretazione’ della terapia da parte del paziente e
del suo contesto.
Queste modifiche possono anche risultare illogiche agli occhi
della scienza ma sono comunque decise e operate sulla base
di un ragionamento fondato su:
valori (relativi alla malattia, all’idea di terapia, all’idea che il
paziente ha di sé);
informazioni (che provengono da altri ‘informatori’ o dallo
stesso Team diabetologico, ma mal comprese);
vincoli oggettivi (condizioni in cui vive il paziente).
Trasgressione o personalizzazione?
I pazienti non sono ‘tabula rasa’. Arrivano alla consultazione
portando con sé un complesso sistema di credenze e di teorie sulla salute e la malattia e spesso anche su specifici aspetti della malattia. Soprattutto quando questa è relativamente
comune. Le istruzioni ricevute sono passate attraverso il filtro
delle proprie conoscenze/credenze.
Il paziente non si sente assolutamente a disagio nel mettere in
atto quella che ai suoi occhi è una fase di ‘personalizzazione’ della
terapia, tesa a adattarlo a se stesso e alle sue condizioni di vita.
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Molte ricerche nel campo delle terapie croniche suggeriscono
che il paziente prenda decisioni ‘ragionate’ sulla propria terapia che possono portarlo a piani di trattamento anche diversi
da quello previsto del medico.
In tutte le malattie croniche occorre andare incontro ai bisogni reali dei pazienti, adattare il più possibile le prescrizioni e
i consigli alle loro credenze e aspettative e tenere conto delle
costrizioni che la vita di tutti i giorni impone loro.
Decisioni razionali
A ben vedere dal concetto di Empowerment discende logicamente che il paziente è sempre il diabetologo di se stesso anche
quando ha 11 di glicata. Si tratta di una risonanza del concetto di
Empowerment lontana dalla nostra formazione e quindi più difficile da cogliere. Qualche volta, pur dichiarando ad alta voce: “Il
paziente deve diventare (oppure ‘è’) il diabetologo di se stesso”,
forse incrociamo le dita dietro la schiena e aggiungiamo mentalmente: “Gli riconosceremo questo status solo se dimostrerà
aderenza ai nostri consigli e raggiungerà gli obiettivi”.
Lo sforzo che dobbiamo fare è ammettere che anche i ‘cattivi pazienti’, quelli che non ottengono risultati e non sembrano
seguire i consigli sono ‘diabetologi di se stessi’.
Esattamente come l’Empowerment è il riconoscimento di una
situazione di fatto e non un privilegio, ‘diabetologo di se stesso’ non è un titolo ad honorem, un grado che viene cucito sulla divisa del ‘bravo paziente’. I pazienti, indipendentemente
dai risultati e dai loro comportamenti, seguono una ‘terapia’.
Faccio un esempio. I soggetti fobici ossessivi seguono rituali complessi (si lavano le mani decine di volte al giorno, fanno
tre volte il giro dell’isolato prima di salire in casa, non mettono i piedi sulle fessure fra due piastrelle). Viene naturale considerare questi rituali la ‘malattia’. In realtà il rituale è la cura,
e il soggetto fobico ossessivo lo sa benissimo. È un comportamento che viene messo in atto per evitare un’angoscia ancora più profonda. In questo senso il fobico ossessivo è un ‘collega’ dello psichiatra che lo cura.
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Nella persona con diabete ‘non aderente’ non osserviamo
una trasgressione ma una serie di decisioni attuate con metodo razionale all’interno del contesto della propria vita e delle proprie convinzioni. Ecco perché è importante conoscere il
più possibile la ricaduta della terapia nella vita quotidiana del
paziente. In termini concreti e di valori.
Un collega inquieto
Cosa penseremmo se un collega medico con il diabete, il dottor Bianchi, si presentasse alla porta del nostro studio? Che essendo un collega sta portando avanti un progetto di autocura che ha la sua coerenza, le sue motivazioni, la sua complessità. E pensiamo anche che, avendo bussato alla nostra porta, il
collega è parzialmente insoddisfatto dei risultati ottenuti ed è
interessato a contemplare l’idea di un cambiamento.
C’è davvero tanta differenza con la paziente signora Rossi,
una delle tante ‘diabetiche’ della giornata? No, non c’è. Ogni
comportamento deve essere visto anche come espressione di
un progetto di autocura che è insieme necessario al paziente e non sufficiente: svalorizzarlo sarebbe sbagliato. In questo
senso il fatto che il paziente sia un diabetologo di se stesso
non sminuisce affatto il valore dell’aiuto che il Team può dargli. È un ‘collega’, ma è un collega inquieto che sente che potrebbe o vorrebbe fare di più e che riconosce nel Team qualcuno che lo può aiutare.
Come vivi questa terapia?
Il Team diabetologico può ottenere grandi risultati ponendo
l’accento su come la terapia proposta viene messa in pratica
nella quotidianità. Sono utili in questo senso tutte le domande che stimolano risposte relative all’impatto pratico ed emozionale che la terapia ha sulla vita del paziente. Parlo di tutte
le terapie. L’insulina ha sicuramente una particolare invasività,
ma anche i farmaci e perfino la ‘semplice’ richiesta di mutare
le proprie abitudini alimentari e in termini di esercizio fisico,
impatta su aspetti centrali nella vita della persona.
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Portando l’attenzione del paziente sulla sua stessa vita quotidiana e ‘banale’, il curante non avrà risposte ‘banali’. Chiedere al paziente di parlare della terapia e della sua vita è un’occasione che molti pazienti coglieranno al volo per mandare
messaggi precisi, “Tenere tutte quelle pastiglie in tasca è una
scocciatura”, “Preferisco mangiare da solo così nessuno, da
quello che mangio, capisce che ho il diabete”. Queste frasi
non sono quotidiane o banali ma mettono in scena significati e messaggi.
Attenzione! Non si tratta di scoprire qualcosa che il paziente
non voleva dire, di stanare il luogo e la ragione della non compliance. Il paziente voleva dire queste cose proprio attraverso la non compliance! Viene quindi svelata una verità che per
il paziente era palese e che solo il metodo e lo svolgimento
classico del dialogo terapeutico impedivano di dichiarare.
Il contesto familiare e sociale
Il paziente passa sì e no tre ore all’anno a contatto con gli
operatori sanitari. Le altre 8733 ore il paziente è immerso in
un ambiente diverso che non condivide necessariamente né
le informazioni né i valori del Team diabetologico (ammesso
che questi siano univoci e condivisi). È importante quindi per
l’operatore sanitario verificare o cercare di intuire quali sono
gli atteggiamenti delle persone rilevanti per il paziente nei
confronti della condizione e della terapia.
Per esempio un processo evolutivo da parte del paziente può
essere ostacolato dalla presenza di feedback negativi o indifferenti (“Mia moglie pensa che sia inutile”, “Quando faccio
una corsetta nel parco, i vicini mi prendono in giro”).
Più in generale occorre rendersi conto che il paziente si trova
all’intersezione di due contesti, quello curativo-educazionale
del Team diabetologico e quello della famiglia e degli amici.
L’assenza di riscontro positivo in un contesto ostacola lo sviluppo di soluzioni trovate nell’altro.
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Proteggersi dalla terapia
Come altri aspetti della terapia, anche le prescrizioni farmacologiche sono sottoposte al ‘vaglio’ delle convinzioni e delle informazioni del paziente. Di rado, se si eccettua l’insulina, il paziente ha opinioni precise relative al singolo farmaco, anche
se si possono ipotizzare vissuti legati alla forma (peso, aspetto, sapore se c’è) e perfino al costo (là dove è sopportato o è
solo desumibile) del farmaco.
Si riscontra in letteratura in particolare la tendenza a ‘difendere’ il proprio benessere generale dai farmaci. Molti pazienti ritengono che di norma i medici prescrivano troppe medicine o
che non debbano essere prese più volte nella giornata o che
sia utile ‘disintossicarsi’ per un certo periodo. Altri pazienti temono di divenire ‘dipendenti’ da un farmaco.
In una condizione cronica come il diabete (e questo vale ancor più per le altre componenti della sindrome metabolica),
dove non esiste una sensazione di dolore o disagio avvertibile e dove l’interruzione o modifica di una terapia non ha effetti
immediati, questo non è un aspetto secondario. È lecito ipotizzare che le raffigurazioni dei pazienti sui farmaci abbiano un
effetto (negativo) maggiore sull’aderenza alle prescrizioni rispetto alle convinzioni sulla malattia. Vale la pena quindi rivolgere alcune domande anche sul vissuto della terapia: “Cosa
pensa di tutte queste medicine che sta prendendo?”.
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Il gioco dei perché
Questo è il gioco più interessante, forse è un poco più difficile degli altri ma ha il merito di essere un gioco simmetrico.
Anche il curante deve chiedersi ‘perché?’. È anche il gioco più
breve. In un certo senso si basa sull’assunto che la visita è tutta decisa nei primi cinque secondi.
O meglio è definita dal suo stesso aver luogo. Il ‘già’ dell’incontro è determinante e fondativo come il ‘non ancora’ della cronicità.
Basta uno sguardo
Immaginiamo il decimo o ventesimo paziente della giornata,
è la signora Rossi. Apre la porta e basta uno sguardo per capire. Non ha perso un etto, anzi. Il suo sguardo deluso mostra
che conosce l’andamento insoddisfacente della sua emoglobina glicata.
La signora Rossi sta per raggiungere la sedia. Sono passati
due, forse tre secondi. Ma quasi tutto è già stato detto. Fermiamo l’immagine. La signora Rossi è qui. Nel gioco dei perché la domanda più importante, a mio parere soprattutto per
il curante, è: “Perché lei è qui?”.
Non è affatto banale e scontato che la signora Rossi abbia attraversato tutta la città per recarsi all’appuntamento. Guardiamo i fatti.
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In diabetologia l’operatore sanitario chiede al paziente con
grande tranquillità:
di accettare valori (vita sana) che contrastano con l’idea comunemente accettata di salute come possibilità di spreco e
ricerca dell’eccesso, soprattutto alimentare o fisico;
di accogliere in sé la prospettiva di una malattia incurabile,
un concetto comunque difficile da cogliere secondo il paradigma delle malattie acute nel quale siamo tutti immersi;
di intervenire, con il ragionamento, il controllo e una certa
austerità sugli aspetti culturalmente e socialmente più valorizzati come l’alimentazione;
di andare contro il concetto comune di comfort inteso
come assoluta minimizzazione dello sforzo fisico;
di accettare una terapia che prevede medicine e perfino di
pungersi magari più volte al giorno.
E tutto questo è stato chiesto senza poter offrire in cambio
nulla di concreto. Il paziente infatti non sente alcun dolore né
percepisce alcun segno del diabete. Il rischio di complicanze
è accettato ‘per fede’ e, d’altra parte, il curante non può garantire in coscienza al paziente né che seguendo i suoi consigli eviterà sicuramente le complicanze né che – non seguendoli – vi incapperà sicuramente, perlomeno in forma tale da
creargli degli handicap.
‘Ecce’: il mistero della relazione
Sulla rivista Modus una bella intervista nella quale Aldo Maldonato svolgeva un ragionamento simile a questo era intitolata: “È un miracolo che tu sia qui”. Forse sarebbe meglio dire
un mistero, non un miracolo. Il miracolo è palese per tutti e
per sempre. Non si sa come è avvenuto ma si sa cosa significa. Un mistero invece è una verità che si rivela nel tempo in
una maniera autonoma.
L’immagine della signora Rossi sulla porta è un mistero. Il
meccanismo è semplice ma il significato non si esaurisce mai
e deve continuare a stupirmi. Ecco che entra nel mio studio
questa paziente. Si tratta di una verità incontrovertibile. Pote-
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va non venire ed è venuta. È la signora Rossi, è obesa come
nella scorsa visita, forse di più. Gli esami che porge sono
eguali o peggiorati. Ma è qui.
Questo mi dice due cose importantissime:
1) il paziente è responsabile, ha fatto una scelta palese: è venuto qui da me;
2) per il paziente la relazione viene prima della terapia, prima
dei risultati.
Perché tu sei qui?
Vediamo il primo aspetto. Quel breve silenzio, quell’esitazione, quei cinque secondi durante i quali il paziente prende posto davanti alla mia scrivania, dice molto. Ma deve dirlo forte e chiaro.
Se l’Empowerment è una strada a due vie, la responsabilità
del paziente non deve essere solo accettata o presunta dal
medico. Può anche essere dichiarata. In molti casi può essere
utile ricordare al paziente che lui è qui, che si è preso una responsabilità. Ha fatto una mossa.
In questo tipo di partita a scacchi il paziente ‘ha sempre i bianchi’. Muove per primo. Vale allora la pena porgli la domanda:
“Gli obiettivi che ci eravamo posti non sono stati raggiunti.
Evidentemente però lei pensa che io possa fare qualcosa per
lei, se no non avrebbe attraversato la città per vedermi. Che
cosa posso fare esattamente?”.
Nonostante tutto, sono qui
Torniamo all’immagine della signora Rossi che entra nello studio. Quello che dice solo entrando con la sua conformazione
obesa è: “Questo è quanto sono stata capace di fare. Questo
è il punto di equilibrio che ho trovato tra tutte le mie pulsioni
‘negative’ e il desiderio di migliorare, fra i consigli del Team e
i mille problemi e vincoli della vita quotidiana”.
Dice anche qualcosa di più la signora Rossi, ed è un ragionamento sofisticato. “Credo di aver fatto del mio meglio. Ma
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penso che potrei fare di più e che ho bisogno di aiuto per
questo. Ecco perché, nonostante tutto, sono qui”.
Il ‘qui-e-ora’ della relazione è il punto di forza che sorregge il
dialogo terapeutico anche nei momenti che sembrerebbero
più bui. La speranza che è insita in ogni relazione di cura non è
una prospettiva lontana o un sogno ma l’ostensione, l’‘eccomi
qui’ della presenza di un paziente in un incontro.
La signora Rossi non si è assolutamente divertita ad arrivare,
farsi pesare, misurare la glicemia, calcolare la glicata. Magari in quella giornata ha anche fatto un esame del fondo oculare o un altro di quei test che confermano il peggioramento
rilevando i primi segni di complicanza. Sono grosse ferite inferte all’io.
Altre ferite le rischia nel corso del dialogo con il curante dal
quale probabilmente si aspetta una critica. Eppure è lì. Cosa
significa? Significa che per la signora Rossi la relazione di cura
viene prima dei risultati, prima della terapia. Al contrario il riflesso condizionato del curante è che – sembrando la terapia
inefficace – lo è anche la relazione.
Invece ha ragione la signora Rossi. Un curante e un paziente
possono disegnare cento terapie le quali possono avere diecimila risultati, ma hanno una sola relazione. Se la relazione si
spezza, nessuna terapia è possibile.
Mettere l’accento sul successo della terapia o viceversa, sentire frustrazione o rabbia per il mancato successo della terapia,
è quindi logicamente sbagliato. E il paziente lo sa benissimo.
Ce lo insegna nel momento in cui apre la porta.
Facciamo andare pure avanti le immagini. La signora Rossi
può iniziare a parlare e dire qualunque cosa. Ma le cose più
importanti sono state già affermate e noi lo sappiamo:
la signora Rossi ha fatto il possibile;
la signora Rossi pensa che potrebbe fare di meglio;
la signora Rossi vuole vivere;
la signora Rossi ha fiducia in noi.
Non è affatto poco, anzi è tutto.
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Il metodo: fare domande aperte
Ci sono altri ‘perché’ che possono essere rivolti al paziente.
Le domande da porre sono semplici. Ma devono essere davvero tali.
Spesso i genitori sgridano chiedendo: “Perché hai fatto questo?”. Ma non sono domande. L’interlocutore si accorge subito se mentre pongo la domanda penso già di sapere la risposta (o di sapere che non c’è una risposta valida). E giustamente non risponde.
Occorre essere curiosi. Occorre affiancare il desiderio di sapere al desiderio di dire che muove il paziente. Se non sento curiosità, se non sono disposto a essere sorpreso, allora non sto
ponendo una domanda.
Il secondo passo è ascoltare la risposta. Si scrive molto dell’ascolto attivo ma è un asintoto. Ascoltare è selezionare, la
percezione è costruzione. Devo esserne cosciente ed essere
pronto a capire davvero cosa mi dice il paziente. Anche se non
fa parte dei miei schemi.
Pensiamo a un paziente che prima di andare a letto apre il frigorifero perché: “Se no, non riesco a dormire”. Ciò di cui vuole
parlare sono i suoi disturbi di sonno, anche se io diabetologo
vorrei parlare del cibo, perché quello è il mio campo.
“Voi mi curate il diabete, ma il mio vero problema è prendere
sonno” grida il paziente o magari dietro c’è una frustrazione
sessuale legata comunque al dormire insieme alla moglie.
Il diario glicemico è un esempio perfetto di domanda da parte
del paziente.
È una porta che può essere sbarrata. Quelle colonne di cifre
tutte uguali, prese alla stessa ora, scritte con la stessa penna
dicono: “Io sono ben altro da queste cifre. Tu non capisci nulla di me”.
Ma può essere una porta spalancata: un invito a entrare nella
complessità, nel dramma della vita quotidiana: “Vieni da me,
aiutami nella sfida di ogni giorno” ci chiedono i diari con i dati
riportati in presa diretta con matite e penne di colori diversi o
con lacune improvvise che sono mute domande.
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Polivalenza del gesto
Chiedere ‘perché?’ è importante in diabetologia quasi quanto
in psicoterapia. Questo perché la terapia del diabete intercetta molti ambiti, molte partite: il paziente e il suo corpo, il paziente e il cibo, il paziente e le persone con cui condivide una
quotidianità.
Chiedere ‘perché?’ serve a capire in quale, o in quali, partite si inserisce un comportamento. Qui le cose non sono facili. Dobbiamo essere aperti alla polivalenza e alla singolarità di
ogni gesto. Torniamo al caso di un paziente che spesso di notte apre il frigorifero e mangia tutto quello che trova. Esitiamo
a conteggiare il probabile introito glicemico e a tradurlo in rischio cardiovascolare. Chiediamo (davvero): “Perché avviene
questo?”. Le risposte sono le più diverse.
Può essere che questo avvenga per ribellione e aggressività
verso il medico. Per dispetto al partner, la moglie che ti obbliga a una dieta draconiana, il marito che esce la sera e ti lascia sola. Potrebbe essere un gesto autolesionista oppure una
cura (“Perché voglio dormire”, “Perché non voglio pensare”).
Perché mi colpisci?
Abbiamo accennato all’aggressività verso il Team o verso un
suo componente. È un fenomeno frequente. Molti curanti sarebbero sorpresi di sapere di quale carica emotiva sono investiti. Quando intervengo nel lavoro di un Team, sento pazienti
che manifestano vissuti persecutori: “Quella carogna del dottor Tale” o al contrario lamentano scarsa attenzione: “Il dottor Tale se ne frega di me”. Il dottor Tale, ovviamente al riguardo di quel paziente, non si sente di esser stato né ‘cattivo’ né ‘assente’.
Eppure sarebbe sbagliato definire la sensazione di abbandono o il vissuto persecutorio come una ‘invenzione del paziente’.
Persino i deliri paranoici o i sogni si basano su materiale onirico
reale. Il medico non può limitarsi a dire: “Questo non sono io”.
La rabbia non è solo una risposta ‘comprensibile’ da parte del
paziente ma anche funzionale. Il paziente può provare rabbia
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di fronte alla diagnosi, di fronte a un mutamento della terapia,
alla progressione delle complicanze ma anche in momenti
‘qualsiasi’ nella progressione del suo diabete sia perché ritiene di essere perseguitato ingiustamente e crudelmente dalla
sua malattia sia perché la rabbia gli serve a adattarsi allo stress
della diagnosi o della terapia.
In alcuni casi la rabbia serve al paziente per difendersi dall’angoscia. Attraverso la rabbia il soggetto, temendo la disgregazione e l’impotenza, raccoglie e concentra le sue forze verso un obiettivo esterno. Nella storia vediamo nazioni che sull’orlo di disgregarsi si sono unite nella rabbia contro un nemico esterno.
L’odio del paziente per il terapeuta è una fase ben nota in psicoterapia. È una fase necessaria. David Winnicott ha risposto
a una domanda che tutti i genitori si sono posti.
Se il bambino vuole tanto bene a un certo oggetto (che sia
la cosiddetta ‘coperta di Linus’ o un orsacchiotto di peluche),
perché lo maltratta così? La risposta è perché l’orsacchiotto,
l’oggetto transizionale, come il seno materno di cui è imago,
per ‘meritare’ l’amore deve dimostrare di sopravvivere all’aggressività del bambino.
Se sopravvive, e proprio perché sopravvive, quell’orsacchiotto
senza più un braccio, quella coperta strappata diventano oggetto di amore.
Il paziente inadeguato e aggressivo che arriva con glicemie
sballate e grasso più di prima, e che magari ostenta disinteresse e distacco, probabilmente sta aggredendo il curante.
È un rischio calcolato. Per il paziente è chiaro cosa conta (la
relazione) e cosa si può sacrificare momentaneamente (il controllo, il braccio strappato dell’orsacchiotto). Il curante è messo alla prova: se resiste all’aggressività ispirerà quell’‘amore’
che può essere necessario per accettare i sacrifici richiesti dalla terapia. Se questo è chiaro anche al medico sarà facile sopravvivere all’aggressività e porre così le basi per una relazione più adeguata.
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Perché ci dividi?
Solo in parte diverso è il caso in cui il paziente tende trappole
seduttive al Team, per esempio ostentando vissuti positivi nei
confronti di un componente del Team o denunciando le ‘impressioni’ negative nei confronti di un altro. “Lei signora infermiera sì che è gentile con me, non come quel cafone del dottor Tale”. Sono comportamenti frequenti. Dobbiamo esserne
coscienti. Non è detto che questo modo di fare debba essere rifiutato o criticato. Bisogna capire perché viene messo in
atto. Forse per raggiungere con sforzo un certo miglioramento, il paziente deve provare rabbia verso un super io stimolante ma persecutorio rappresentato dal dottor Tale, e contemporaneamente sentirsi accudito e protetto da una figura materna come l’infermiera.
Oppure il paziente potrebbe averne bisogno per soddisfare idee diverse e conflittuali riguardo a se stesso: “Mi piace
come mi parla il dottor Tale, da adulto a adulto. Ma perché
l’infermiera non mi consola? Io fatico, faccio un sacco di rinunce e ho bisogno anche di essere coccolato!”
In questo caso la tensione, espressa a parole o attraverso piccole trasgressioni nel controllo metabolico, deve essere modificata per favorire una relazione vera, nella quale si è tutti interi nel cammino terapeutico.
Se infatti spesso siamo scissi tra quello che dobbiamo mostrare all’altro e quello che veramente sentiamo (e che non riveliamo), il paziente viene alla visita con bisogni scissi e contraddittori senza per questo essere un ‘folle’. Chiede di essere accudito dall’infermiera e pungolato dal diabetologo. Non
è escluso poi che davvero il paziente non riesca a trovare tutti gli aspetti nella sua relazione con un singolo curante. Nessun problema.
Ragione di più per lavorare in Team purché anche l’infermiera
riconosca la sua ambiguità (“Dobbiamo essere operatori che
educano e che non impongono… ma ci viene anche di ‘prenderli in braccio’. Vogliamo che i pazienti ci stimino per la nostra efficienza ma speriamo anche che ci vogliano bene!”).
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Perché ritiene che possa aiutarla?
Cosa vuole il paziente da me? Le risposte sono le più disparate. Il paziente può chiedere una punizione: “Perché sono stato
cattivo”; potrebbe attendersi una consolazione: “Dimmi che
comunque ce la farò, che non mi capiterà nulla”, un’invocazione: “Dimmi che non mi abbandonerai”.
Molti conoscono la definizione di ‘atto mancato’, la dimenticanza significativa, l’astensione a tutti gli effetti equiparabile a
un’azione (non si chiede forse il perdono per “pensieri, parole, opere e omissioni?”). L’atto mancato del non prendere la
pastiglia, non misurare la glicemia è quindi un fare, anche se
serve a dire no. A chi?
Sta dicendo no a me come curante?
Sta dicendo no a un progetto di cura?
Sta dicendo no al diabete, ne nega l’esistenza (per il paziente il diabete si manifesta solo attraverso la cura e il controllo.
Solo i diabetologi lo vedono in sé).
Sta dicendo no a una terza persona esistente o meno: a una
madre lontana introiettata, a una moglie vicina che lo assilla
con le esigenze della cura?
Posso saperlo solo ponendo delle domande. Il paziente che ammette o porta un dato che rende implicita la mancata adesione
alla terapia forse vuole solo che gli facciamo queste domande.
SPUNTI DI RIFLESSIONE
Quando mi emoziono con un paziente, che cosa faccio?
Se un paziente si arrabbia con me, che cosa mi sta chiedendo?
Nel Team, chi rappresenta la ‘mente’ e chi ‘il cuore’?
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Il vissuto di chi cura
Dal concetto di Empowerment non discende che curato e curante sono eguali, che i loro ruoli possono essere scambiati. La
relazione non è simmetrica. Il curante non può tentare qualunque mossa, deve essere cosciente il più possibile di quello che
fa. Questo libro è dedicato ai curanti. Ai pazienti non serve.
Tra gli elementi di questa asimmetria c’è il fatto che se un curante può e deve sopravvivere alla rabbia del paziente, per
quest’ultimo è difficile sopravvivere alla rabbia del curante.
La rabbia del curante
Eppure questa esiste ed è messa in scena. La frustrazione serpeggia nel rapporto con i pazienti che paiono percorrere una
strada opposta a quella consigliata. Spesso con atteggiamenti di finta noncuranza.
Per superarla dobbiamo ricordare che il paziente tende a conservare la libertà di interpretare la terapia, spesso la sbandiera,
ma non rinuncia mai da una parte alla speranza, dall’altra alla
sensazione un po’ regressiva di essere ‘accudito’ dal Team.
Il contesto in cui il paziente sembra sfidare il Team e rifiutare
ogni proposta di miglioramento è un contesto emotivamente
delicato. In questa situazione persino le risonanze del concetto di Empowerment vanno prese con delicatezza. Richiamare
alla responsabilità, per esempio, può essere un gesto di involontaria aggressione.
Del resto non è raro che una figura educativa (genitore, insegnante, curante) ponga l’accento sulla responsabilità dell’in-
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terlocutore quando le cose vanno male. È facile che questo
richiamo, in sé corretto, crei la sensazione di essere stati abbandonati. Occorre quindi che lo Statuto del rapporto di Empowerment sia posto fin dall’inizio, o che – se questo non è avvenuto – venga chiarito in un momento in cui è alta la sensazione di autoefficacia del paziente.
Altrettanto vale per l’apparentemente ‘liberale’ posizione che
lascia al paziente la responsabilità della sua cura. Questo laissez
faire in una relazione asimmetrica come quella fra curante e curato non può non apparire come un abbandono e uno scherno,
un sadismo appena mascherato e politically correct. Il curante che dicesse: “Vedo che lei non ha intenzione di collaborare
a una terapia” verrebbe interpretato come: “Hai visto cosa ti è
successo a non dare retta ai miei consigli?”. Forse non a torto.
Come reagire dunque al paziente che ci sfida con il suo insuccesso? Credendo nel e usando l’Empowerment. Teniamo a
mente la signora Rossi. Se è qui vuol dire che crede nella relazione, che non è soddisfatta di come stanno andando le cose,
che si aspetta dopotutto che il Team la aiuti a migliorare. La
domanda è allora una sola: “Cosa posso fare per lei?”. Oppure, se la situazione è palesemente grave: “Vedo che adotta
comportamenti ben lontani da quelli che abbiamo suggerito
o convenuto. C’è qualcos’altro che possiamo fare per lei?”.
Dietro questa domanda c’è un essere vicino e un essere diverso. “Io rispetto, ma non condivido, la sua scelta. Sono qui ad
aspettare e anche lei del resto, col suo essere qui, indica che
una speranza è possibile, che anche lei ci crede”.
Può essere utile svelare il gioco: “Io so che con questo comportamento lei aumenta moltissimo il rischio di un infarto. Vuole dunque suicidarsi?”. Questo non significa spaventare il paziente, ma dichiarare, ‘dire in piazza’, quello che è sottinteso.
Tuttavia subito dopo occorre anche confermare: “Io combatto contro questa prospettiva. Io forse posso essere di aiuto. In
che modo secondo lei? Posso forse aiutarla spiegandole i dati
di cui sono a conoscenza sul rischio che sta correndo?”. Deve
essere però chiaro che la relazione è sempre lì: “Comunque
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andiamo avanti e continuiamo una relazione che contiene in
sé il germe di ogni possibile terapia compreso questo modo
misterioso, che tu stai vivendo, di curarti”.
Quanto abbiamo scritto può far pensare alle relazione fra
Team e paziente come a qualcosa di difficilissimo che richiede mille attenzioni, cautele, conoscenze. In parte è vero, in
parte questo è l’effetto di ogni ragionamento su una relazione umana. Leggiamo un libro sull’amicizia e ci pare impossibile avere degli amici. In realtà le amicizie si creano e si mantengono con facilità, con leggerezza.
Sapere, saper fare, saper essere nella relazione
Negli anni Ottanta in molte discipline biomediche, l’attenzione si è spostata dall’oggetto osservato all’osservatore e alla
sua relazione con esso. In questo processo ampio e fertile di
ricerche e indicazioni moltissimi studi hanno individuato nell’empatia uno dei fattori di successo terapeutico, specie nella
gestione della malattia cronica.
L’empatia è considerata, in un certo senso correttamente,
come il taglio del nodo di Gordio che permette di assumere e mettere in opera con levità e istintivamente, tutte quelle
attenzioni e strategie comunicative che sono state accennate
nelle pagine precedenti.
Questo è vero. In estrema sintesi si può dire che quanto si richiede all’operatore sanitario è saper essere uomo fra gli uomini, o per meglio dire ‘saper essere nella relazione’. Questa
sintesi può essere però sviante. Occorre definire con attenzione cosa intendiamo per ‘empatia’ distinguendola dalla ‘simpatia’ e anche dal meccanismo psicodinamico della ‘collusione’.
L’empatia è un’autostrada bella liscia e facile da percorrere ma che può portarci in breve tempo molto lontano dagli
obiettivi che pensavamo di raggiungere.
Esiste infatti il rischio di uscire dal percorso progettato su rampe sbagliate con una serie di riflessioni basate sul mio sentire. “Ti capisco...” ma in realtà ho capito poco o nulla di quel-
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lo che mi sta dicendo. “Mi sento vicino a quello che prova…”
come se fosse facile leggere i sentimenti di qualcuno.
C’è bisogno allora di ‘cartelli segnaletici’ che ci aiutino a capire in quale direzione stiamo andando mentre cerchiamo di seguire il paziente che va per la sua strada (e certe volte mi trovo
a pensare: “Chissà dove stanno andando la signora Rossi o il
signor Bianchi con tutte le loro invenzioni sulla dieta o sui falsi controlli!”). C’è bisogno anche di poliziotti (il mio dover essere un professionista sempre e a ogni costo) che mi aiutino a
evitare le distrazioni che possono pregiudicare la qualità del
nostro ascolto: rumori estranei, interruzioni, emozioni (rabbia,
tristezza, ansia), pensieri su ‘altro’, preoccupazioni relative alla
mia vita personale.
Il circolo virtuoso
L’empatia è uno strumento che dà i suoi frutti soprattutto se
l’uso che se ne fa è dichiarato e percepito.
È fondamentale che il terapeuta comunichi la sua comprensione empatica al cliente e che questi lo capisca. Rogers parla di rimando empatico. Recenti studi, invece, operano una distinzione tra:
risonanza empatica (l’esperienza interiore, nel nostro caso
del terapeuta);
empatia espressa (la capacità del terapeuta di comunicare
la presenza di questa empatia);
empatia ricevuta (esperienza interiore del paziente, che coglie il fatto di essere oggetto di una relazione empatica).
Visto che l’empatia è una strada a doppio senso di marcia,
questi elementi scambiati fra terapeuta e paziente vanno a
formare un circolo virtuoso che fa crescere e rende efficace
(oltre che piacevole) la relazione terapeutica.
Empatia e simpatia
“Ma che differenza c’è fra empatia e simpatia?” si chiedono molti operatori sanitari. La domanda è giustificata e le risposte sono
abbastanza diverse a seconda dell’ambito di applicazione.
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In ambito medico si è fatta strada una divisione fra ‘simpatia’ ed ‘empatia’. Le risposte empatiche non significano che la
persona viva proprio gli stessi sentimenti di un’altra ma li condivide al punto tale da comprenderli, da riconoscerli, e da capire che, se si trovasse nelle stesse circostanze, potrebbe sperimentarli in modo analogo.
La capacità di entrare nell’esperienza e nei sentimenti dell’altro per poi condividerli (viverli insieme all’altro) è considerata
più una caratteristica della simpatia che dell’empatia. L’empatia risulta essere piuttosto un processo di natura cognitiva che
implica la capacità di guardare il mondo esterno dalla prospettiva dell’altro.
Comprendere il paziente ha sempre un effetto positivo sulla qualità della cura, cosicché un eccesso di empatia non sarà
mai pericoloso. Al contrario la simpatia può risultare dannosa, in quanto interferisce con l’oggettività della diagnosi e del
trattamento, e sottopone il medico a un carico emotivo alla
lunga insopportabile.
L’empatia nei confronti della persona malata non presuppone
dunque l’identificazione del ‘sentire’ di quella persona con il
proprio (tipico della simpatia), quanto piuttosto “la capacità di
calarsi nel ‘sentire’ del paziente e successivamente di rientrare
in se stessi… ovvero la comprensione reale della problematica
globale del paziente da cui deriva l’intervento a suo favore”.
Quale empatia è possibile nel contesto medico?
Sono fioriti negli ultimi anni corsi e manuali tesi ad affinare le
capacità empatiche della persona. Non voglio entrare nel merito ma vorrei indicare su quale piano, secondo me, l’empatia è possibile. Su quale piano è davvero il vento leggero che
porta la nostra barca, in mare aperto, veloce e serena nella direzione giusta.
L’empatia nasce dalla condivisione di qualcosa. Da quando
siamo padri ci colpiscono in maniera diversa gli episodi di cronaca che riguardano dei fanciulli. “Ti capisco, anch’io...” è la
frase dell’empatia. In questo senso il diabete è un ostacolo al-
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l’empatia. Il paziente ha il diabete, il medico no. E se per caso
il medico ha anche il diabete questo non è rilevante (e correttamente viene taciuto nella maggior parte dei casi).
Al medico che gli dice: “Ti capisco”, il paziente risponde sarcastico in cuor suo: “Ma cosa puoi capire tu di me!”. “Cosa
ne sai del digiuno e non dirmi che anche tu lo fai come me. Tu
decidi di scegliere quello che mangi e lo fai per il piacere di...
Io sono costretto a scegliere quello che devo o non devo mangiare e lo faccio per non farmi del male!”
La simpatia parte da una selezione dell’altro. Nella simpatia
mi identifico con qualcosa che vedo nell’altro ma in una relazione a lungo termine questo aspetto che “mi stava simpatico” può evolversi o sparire o semplicemente divenire meno
importante. A quel punto io e l’altro dobbiamo scegliere se
fingere che “ci siamo proprio simpatici” (è importante stare
bene insieme!), fingere che questa evoluzione non ci sia stata
e mantenere la relazione di simpatia (falsa!) o ammettere che
questo elemento è venuto meno e rischiare di dover ricostruire le basi della reciproca simpatia.
Credo che per creare empatia sia importante che medico e
paziente condividano qualcosa (una squadra di calcio, una
passione, un amico, un viaggio, un luogo ‘da favola’, un valore trascendente) che non è solo un argomento di conversazione ma è il condividere la propria visione della realtà, un’esperienza ‘ineffabile’ di sensazioni e vissuti di una realtà che aiuta come un buon cibo (forse anche un po’ droga) per vivere
(o sopravvivere). E questo punto di contatto, che permette un
gioco di sottintesi e ammiccamenti, è così importante per la
relazione che se ne deve fare riferimento ogni volta che ci si
incontra per annullare rapidamente e intensamente il tempo
passato dalla precedente visita.
Ma per scongiurare il rischio della ‘falsa’ simpatia è importante che medico e paziente parlino anche delle cose che li dividono, che li rendono reciprocamente antipatici: degli insuccessi nella dieta, dello stile di vita che non cambia, dei valori
discordanti o del modo diverso di valutare l’emoglobina.
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Allo stesso modo, per evitare di cadere nell’errore, ogni intuizione empatica deve essere sottoposta a confronto con altri elementi che rendono l’altro diverso da me e quindi reale e non immaginato. Invece di capire l’altro potrei infatti aver
proiettato su di lui qualcosa di mio e vederlo come la mia immagine su uno specchio, come guardo la realtà e le persone
che mi circondano, come i personaggi delle mie fantasie, delle mie favole.
E questo mi porta a tenere e a sollecitare comportamenti inadeguati verso quello che l’altro mi mostra e che mi risponde
allora con comportamenti che non capisco e che definisco,
per tranquillizzarmi, ‘inadeguati’ o ‘non compliant’. E se il paziente mi lascia, ecco che posso dispiacermi solo un poco: “È
inevitabile che sia andato via: il drop out d’altra parte è proprio di questi pazienti!”.
L’operatore sanitario condivide invece con il paziente il fatto
di essere un uomo. Non è l’esperienza del digiuno o dell’attività fisica a fare entrare l’operatore nella ‘tribù’ delle persone
con diabete ma la sua umanità e cioè i suoi bisogni e conflitti,
la sua impotenza ma anche la sua volontà di vivere a tutti i costi, anche soffrendo, cadendo e rialzandosi.
L’empatia può essere quindi definita una forma umanistica
di simpatia. Ricordate quel motto: Homo sum, nihil umani
mihi alienum puto (Sono uomo, nulla di umano mi può essere estraneo) considerato la base dell’umanesimo dagli antichi
saggi? Quell’uomo che ho davanti, come me ha l’istinto della vita, è cosciente della sua impotenza, ha speranza, è curioso, combatte e soffre, si allieta e piange. In ciò io e lui siamo
vicini e questa vicinanza che abbiamo scelto è insieme lo spazio e lo strumento della nostra relazione terapeutica. Letteralmente è ciò che ci cura.
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LO STRUMENTO DELLʼEMPATIA
Il termine empatia traduce l’inglese empathy, parola coniata nel 1909 per tradurre il termine tedesco Einfühlung.
Nato nella filosofia estetica (Vischer 1873) Einfühlung descrive la capacità dell’uomo di percepire e comprendere
il mondo ‘non umano’ proiettando le sue percezioni umane nel mondo naturale nel tentativo di trovare un significato simbolico alle forme astratte e non umane.
Una volta entrato in psicologia, il termine fu utilizzato non
solo per chiarire la natura dell’esperienza estetica, ma anche per spiegare come avviene la conoscenza di altri io,
descritta come un processo che permette di pervenire
alla conoscenza dell’altro, di ‘gettare uno sguardo nel nucleo della persona’, un’esperienza che rende possibile la
comunicazione intersoggettiva.
In psicoanalisi l’empatia fa parte del metodo, è uno degli
elementi contenuti nella ‘valigetta degli attrezzi’ del terapeuta. Se l’analista non assume una posizione empatica non si sviluppa quel transfert positivo necessario affinché il paziente possa trarre beneficio dalle interpretazioni dei suoi sintomi.
Questa visione dell’empatia è uno dei concetti freudiani
più largamente applicato in ambito psicologico. Ha permesso di spostare l’attenzione dall’esperienza alla relazione tra terapeuta e paziente in particolare, ossia al ruolo svolto dall’empatia in tale relazione.
Fra i clinici che più si dedicarono a questo ambito di indagine spicca senza dubbio il nome di Carl Rogers. Infatti,
se oggi si sottolinea tanto il ruolo cruciale che l’empatia
svolge in psicoterapia al fine di ottenere esiti di successo,
lo si deve in gran parte proprio a lui che definì l’empatia
come “una delle sei condizioni psicologiche che sono sia
necessarie che sufficienti a condurre a un cambio di personalità costruttivo”.
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È di Carl Rogers la chiara distinzione (peraltro già presente nelle scuole freudiane) fra l’empatia e l’identificazione. Empatizzare significa sentire il mondo personale del
cliente ‘come se’ fosse il proprio, ma senza mai perdere
questa qualità di ‘come se’.
Nell’identificazione esiste una confusione del sé del terapeuta con quello del cliente, un legame emotivo più intenso e duraturo che rende difficoltoso al terapeuta tornare comodamente al proprio mondo personale quando
lo desideri. Ciò che il terapeuta deve saper fare, invece, è
proprio entrare e uscire con facilità dal mondo del cliente
senza perdersi in esso, ossia empatizzare, non identificarsi. Fare riferimento al mondo interiore del cliente non significa dunque identificarsi emozionalmente con lui.
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CAPITOLO 2
Direzioni di ricerca
e di approfondimento
Paolo Di Berardino dirige il Servizio di Diabetologia dell’Ospedale Civile di Atri (Teramo), fa parte del Direttivo Nazionale dell’Associazione Medici Diabetologi. Specializzato in
Medicina interna e in Psicologia clinica, coordina il Gruppo di
studio AMD Psicologia e Diabete.
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La psicologia
e il lavoro del diabetologo
Perché un diabetologo dovrebbe interessarsi di una branca lontana della Medicina quale è la Psicologia clinica? Tra le
molte risposte che si possono dare a questa domanda, una
più semplice e forse soggettiva le riassume tutte: per svolgere
ancora meglio il suo compito di diabetologo.
Impatto sulla adherence
Cerco di spiegarmi. È palese nella pratica – ed è anche confermato da numerosi studi – come gli aspetti psicosociali abbiano grande rilevanza nella malattia diabetica. Con questo
mi riferisco non solo all’impatto immediato che uno stress anche psicologico può avere sulla glicemia, quanto soprattutto
all’effetto che dinamiche psicosociali possono avere sulla capacità del paziente di aderire correttamente alle indicazioni
terapeutiche.
Già nel 1998 Assal rilevava che il 50% delle persone con malattie croniche non aderiva alle indicazioni terapeutiche ricevute.
Questo avveniva, e avviene, per molte ragioni. Una di queste
è la mancata o scarsa valutazione da parte del medico delle
variabili psicosociali del paziente.
La diagnosi e l’Empowerment
Sappiamo tutti quale impatto abbia la diagnosi di diabete sulla vita e sulla autostima del paziente. La diagnosi di una patologia cronica impone al paziente un ripensamento completo di se stesso. Le raccomandazioni che gli vengono fatte an-
61
che in mancanza di una prescrizione farmacologica, hanno un
impatto pervasivo sulle sue abitudini. Spesso la richiesta è un
cambiamento importante dei suoi valori e stili di vita.
Forse però ancora oggi non ci rendiamo conto di quanto sia
veramente arduo raggiungere quell’obiettivo dell’autocontrollo che oggi associamo a una corretta gestione della malattia diabetica. Forse ancora oggi non crediamo che il diabetico
voglia (anche se spesso non sa come farlo!) assumersi la responsabilità della propria salute, effettuare le scelte necessarie, misurarne le conseguenze… Credo invece che oggi sia
sempre più chiaro che occorre ‘fidarsi’ delle capacità del paziente, della sua possibilità di acquisire maturità e stabilità psicologica specie là dove la malattia è associata a vissuti depressivi o a comportamenti regressivi.
Voglio inoltre sottolineare come dinamiche psicosociali non
ottimali possano rappresentare un ostacolo insuperabile per
molti pazienti che si trovino soli nell’affrontarle. È opportuno quindi che gli operatori sanitari sappiano valutare, e perché no, anche individuare le strategie necessarie al paziente
diabetico anche sotto il profilo psicosociale.
Non possiamo non dirci psicologi
L’operatore sanitario che vuole svolgere al meglio il suo compito non può non credere che gli aspetti medici del diabete abbiano sempre ricadute sulla psicologia del paziente.
L’American Diabetes Association nelle sue raccomandazioni
propone di condividere il piano di cura con il paziente e con la
sua famiglia. E si dice che questo piano deve essere adeguato alla personalità del paziente e ai fattori culturali, psicologici
e sociali. Come è possibile questa condivisione, questa personalizzazione senza una valutazione preliminare e una presa in
carico del paziente anche nelle sue variabili psicosociali?
Il ricorso allo specialista psichiatra o psicologo-clinico, interno o esterno al Team, è sempre una possibilità, ma questo
non esenta il diabetologo dall’effettuare una valutazione, uno
screening che gli consenta di definire quali casi hanno biso-
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gno di essere seguiti dallo specialista, quali invece – pur non
necessitando di un intervento – richiedono comunque un approccio personalizzato.
Presa in carico
In questa epoca di iperspecializzazione si ha quasi timore di
dire quello che è vero da sempre: che la presa in carico del
paziente cronico è per forza di cose globale. Il diabetologo è
più di altri erede della antica figura umanistica del medico. La
lunga durata dei nostri rapporti con i pazienti, la natura stessa
dell’argomento diabete, fa sì che il diabetologo dia al paziente – pur nella ristrettezza dei tempi a disposizione – un supporto diverso, ammettiamolo apertamente, da quello di molti altri specialisti.
Il counseling psicologico è figlio di quella presa in carico del
paziente che è alla base di un contratto terapeutico stabile
e solido. Potremmo quindi dire che il diabetologo potrebbe
approfondire qualche aspetto della Psicologia clinica non per
improvvisarsi in un ruolo diverso, quanto per svolgere meglio
un compito che già da sempre svolge.
Da ultimo, vorrei sottolineare l’aspetto più intuitivo. Diabetologia e Psicologia sono già discipline che collaborano strettamente. Esistono numerosi studi che mettono in relazione per
esempio il diabete con la depressione, rilevando come vissuti depressivi siano associati a un peggior controllo glicemico o
a una maggiore incidenza delle complicanze. Importanti studi sono stati fatti anche nel rapporto fra diabete e disturbi del
comportamento alimentare, per non parlare dell’utilizzo sempre più sistematico che oggi si fa dei questionari atti a misurare la qualità della vita percepita dal paziente.
Come fare per aumentare le proprie conoscenze in materia di
Psicologia? In questo libro abbiamo scelto un approccio ‘a la
carte’.
L’approfondimento deve infatti essere anche culturale, deve
essere figlio dell’interesse professionale ma anche della curiositas e del desiderio di allargare i propri orizzonti scientifici.
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Invece di un percorso guidato alla Psicologia clinica, abbiamo scelto di proporre al nostro lettore venti temi, direzioni
di ricerca intraprese dalla Psicologia clinica, scelte fra quelle che più facilmente possono intercettare l’interesse del
diabetologo.
Ciascun tema è articolato in una breve introduzione alla quale fanno seguito alcuni riferimenti bibliografici scelti fra quelli più importanti, i capisaldi insomma dell’indirizzo di ricerca
descritto.
Ognuno potrà trovare, leggendo ora queste pagine, o riprendendo in mano il libro in un futuro, le indicazioni necessarie
per iniziare un percorso ‘medico e psicologico’ di approfondimento personale e creativo. Dico ‘creativo’ perché la capacità di aiutare è scienza ma è anche arte. Ed è l’arte del
diabetologo.
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Qualità della vita
Lo stato attuale delle conoscenze relative alla valutazione della
qualità di vita riconosce due punti fondamentali: il primo relativo
alla definizione della qualità di vita come integrazione delle quattro dimensioni (benessere fisico, psicologico, funzionale e sociale); il secondo riguarda la scelta di un orientamento psicologico
che consente la raccolta di informazioni soggettive per il paziente e da lui segnalate. La disponibilità di molti strumenti (essenzialmente questionari) per valutare la qualità di vita nelle persone con diabete ed in quelle che stanno loro accanto, ha moltiplicato in maniera considerevole il numero di ricerche che direttamente o indirettamente affrontano questo aspetto. Negli ultimi anni è stato posto l’accento sul versante soggettivo (la qualità percepita) osservando come spesso non coincida con quello
extra-soggettivo (la qualità stimata dai curanti). Sono stati introdotti, accanto a strumenti valutativi di tipo generico, questionari
specifici per il diabete e per le sue complicanze. Sono state messe in evidenza le molteplici sfaccettature del concetto di qualità di vita legate alla complessa rete di relazioni tra paziente, suo
mondo interno e quello esterno. Una qualità di vita insoddisfacente può essere fattore predittivo di prognosi meno favorevole, con aumentato numero di ospedalizzazioni e decessi. Ma allo
stesso tempo, una buona qualità di vita non sempre e non necessariamente corrisponde ad un controllo metabolico ottimale.
I determinanti della qualità della vita non sono dati una volta per
tutte, nemmeno per lo stesso individuo, ma cambiano col tempo, nelle varie fasi della vita, in contesti sociali differenti.
65
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66
Adherence
e compliance
Nel 2003 l’OMS ha promosso il termine adherence per utilizzarlo nelle patologie croniche come “il grado di comportamento di
una persona che assume farmaci, che segue una dieta e/o uno
stile di vita”.
Nel diabete l’adesione al trattamento è per molti aspetti la questione cruciale, sia dal punto di vista concettuale che empirico,
e per questo forte è la domanda di strumenti e strategie valide
ed affidabili da utilizzare nella pratica clinica e nella Educazione terapeutica. Recenti dati di letteratura hanno evidenziato che
molti pazienti diabetici hanno una scarsa adesione al trattamento sia con gli ipoglicemizzanti orali che con l’insulina. Per identificare i fattori alla base dei comportamenti di adesione/non-adesione l’utilizzo di strumenti teorici basati sull’Health Belief Model, sulla teoria del social learning e sulla psicologia delle relazioni interpersonali ha una rilevanza particolare. Fino a metà degli anni Novanta l’attenzione è stata centrata su caratteristiche e
comportamenti del paziente ritenuti all’origine della mancanza
di adesione, trascurando il ruolo dei curanti, dell’organizzazione
sanitaria e dell’interazione tra paziente e personale addetto alla
cura. Il cambiamento di paradigma (dalla compliance all’adesione), spostando l’accento sulla componente bio-psico-sociale del
problema, apre il ventaglio delle possibili spiegazioni e, di conseguenza, delle possibili soluzioni del problema.
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BIBLIOGRAFIA – ADHERENCE E COMPLIANCE
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Coping
Affrontare la malattia, questo è il significato di coping con riferimento alla salute. Inizialmente centrato sulle situazioni neoplastiche e sulle disabilità, lo studio del coping si è esteso rapidamente a molte malattie croniche tra cui il diabete. Il punto essenziale per sviluppare un coping efficace è riuscire a vedere il diabete come un problema piuttosto che come una minaccia, spostando la bilancia del comportamento da una reazione di ‘fuga’
a una di ‘attacco’. Ne consegue che il buon adattamento alla
malattia dipende dal tipo di strategie individuali che il paziente
mette in atto per affrontare la malattia. Infatti le strategie comportamentali che promuovono una modalità più attiva e differenziata di confronto con le problematiche, piuttosto che di passività con sentimenti di impotenza e disperazione, portano a un
migliore adattamento. Fondamentale rimane applicare le strategie e abilità di coping al raggiungimento di obiettivi scelti dal
paziente o comunque concordati tra paziente e curante, in modo
da massimizzare l’effetto di self-Empowerment e di percezione
di efficacia del trattamento. In età pediatrica è opportuno dedicare attenzione al coping delle persone coinvolte nella gestione
della malattia, in primo luogo genitori e fratelli/sorelle dei piccoli pazienti.
69
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70
Depressione
e disturbi dell’umore
Il legame tra diabete e disturbi dell’umore è riconosciuto almeno
dagli anni Cinquanta. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle ricerche sono state pubblicate negli ultimi quindici anni. Infatti recenti meta-analisi hanno evidenziato una frequente associazione fra diabete mellito e depressione; si stima che il 15-20%
(fino al 30%) di persone con diabete tipo 1 e tipo 2 presenti una
sintomatologia depressiva. Per quanto riguarda la depressione e
il controllo glicemico si è evidenziato che la depressione è correlata ad un peggior controllo metabolico con livelli maggiori di
HbA1c. L’associazione di queste due condizioni è stata interpretata sia in senso somato-psichico (il diabete dà depressione, il
diabetico diventa depresso) che in senso psico-somatico (la depressione favorisce il diabete, il depresso diventa diabetico). Il
trattamento della depressione migliora sicuramente la qualità di
vita percepita del paziente diabetico, e spesso, anche i suoi parametri metabolici. Non raramente la depressione è secondaria
(reattiva) alla percezione di inefficacia/insuccesso nella gestione
del diabete.
71
BIBLIOGRAFIA – DEPRESSIONE E DISTURBI DELL’UMORE
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Ansia
Il diabete mellito facilita la comparsa di disturbi psicopatologici
come depressione e ansia, che a loro volta influenzano la gestione della malattia stessa. Soprattutto l’ansia e lo stress provocati dalla malattia possono raggiungere livelli così elevati da ostacolare il raggiungimento di buoni valori glicemici e di un’autogestione adeguata. È possibile far emergere componenti ansiose più o meno nascoste in varie fasi del diabete (alla diagnosi, a
ogni cambiamento di terapia, nel passaggio all’insulina, ecc.). Un
discorso a parte riguarda i genitori di bambini diabetici; spesso
sono questi adulti, più che i piccoli pazienti, a richiedere un supporto di tipo psicologico, almeno nelle prime fasi di malattia. Alcuni sintomi dell’ansia sono simili a quelli della depressione: facilità all’affaticamento, disturbi del sonno, irritabilità; altri includono irrequietezza e tensione muscolare. Come per i disturbi
depressivi, l’ansia rappresenta una barriera importante al trattamento e un’ipoteca grave sulla qualità della vita.
73
BIBLIOGRAFIA – ANSIA
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74
Disturbi
del comportamento
alimentare
Recenti studi hanno rilevato un aumento della frequenza di disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia) nel
diabete mellito tipo 1 ma anche nel tipo 2. L’associazione con il
diabete, sia tipo 1 che tipo 2, è ben conosciuta e riguarda principalmente i soggetti obesi, le donne e le adolescenti. Di solito, le donne con disturbi alimentari e diabete tipo 1 presentano sintomi simili alle donne non diabetiche, ma hanno uno specifico sintomo di ‘depurazione calorica’ sottoforma di omissione
insulinica o di riduzione della dose. Nessun intervento ‘dietetico’ ha possibilità di successo se non viene prima correttamente
identificato e rimosso il problema. L’approccio multidisciplinare
(diabetologo, nutrizionista, psicologo, e/o psichiatra) è considerato lo standard nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare; le pazienti diabetiche con tali disturbi richiedono
un supporto e un monitoraggio più continuo da parte del Team
rispetto alle pazienti con solo diabete. Senza dimenticare che
l’alimentazione è spesso terreno di battaglia tra genitori e adolescenti e tra componenti della coppia in un complesso gioco di
ruolo che vede coinvolte anche altre figure (i coetanei, i componenti del gruppo sociale di riferimento ecc.).
75
BIBLIOGRAFIA – DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE
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76
Dinamiche di coppia/
questioni di genere
Gli effetti della malattia cronica non sono limitati solo ai pazienti
ma riguardano anche il loro contesto socio-familiare che interferisce sulla gestione della malattia stessa e sulla qualità di vita del
paziente. Le dinamiche di coppia sono rilevanti ai fini del trattamento, sia quando la persona con diabete è uno dei due membri della coppia che quando si tratta dei genitori di pazienti pediatrici. La qualità del rapporto di coppia preesistente al diabete
rappresenta il maggior fattore predittivo dell’adattamento della coppia all’’evento malattia’. La qualità della relazione di coppia, inoltre, è predittiva della qualità della vita legata al diabete. Un atteggiamento iperprotettivo da parte del partner, reale
o percepito, influisce negativamente sulla gestione della malattia, specialmente se è la donna la persona ammalata. Differenze di genere nel vissuto della malattia sono comuni e riguardano, per le donne, una maggiore frequenza di sintomi depressivi
ed una percezione di maggiore gravità della malattia e di maggiore limitazione nella vita quotidiana, per gli uomini, un minor
ricorso al supporto sociale, una minore disponibilità al lavoro di
gruppo e un atteggiamento di ‘fuga dalla malattia’ meno frequente. Un rapporto conflittuale della coppia e una scarsa vicinanza del partner sano possono essere ‘a rischio’ per una condizione di sofferenza psicologica, che per il paziente può essere correlata a cattivo controllo metabolico ed autogestione inefficace della malattia.
77
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Autocontrollo/
self-management/self-care
Per autocontrollo si intende la possibilità tecnica di misurare parametri quali glicemia capillare, chetonemia, chetonuria e glicosuria. L’autocontrollo è requisito centrale per l’autogestione del
paziente, definendo l’autogestione come la capacità del paziente di convivere con la propria malattia. Il tema dell’autocontrollo,
o meglio dell’autogestione del diabete, è di fondamentale importanza per il successo della terapia, ma è anche un tema notevolmente complesso dal punto di vista dei fattori in gioco. La stabilità emotiva ed il grado di coscienziosità modulano la self-care
in modo indiretto attraverso i costrutti personali (personal model beliefs). Dal modello standard incentrato sulla malattia (valutare la situazione, consigliare e concordare le soluzioni, prestare e pianificare assistenza) è necessario passare a un modello di
self-management costruito assumendo il punto di vista del singolo paziente con i suoi specifici bisogni di salute. Fatta eccezione per i bambini e gli adolescenti, la maggior parte dei pazienti sceglie obiettivi terapeutici a lungo termine e valuta l’atteggiamento dei curanti come troppo incentrato sul controllo glicemico. L’autocontrollo dovrebbe essere percepito come utile dal
paziente, va inserito in un programma strutturato di Educazione
terapeutica, dovrebbe ridurre e non aumentare l’ansia e la depressione, migliorando la qualità di vita del paziente.
79
BIBLIOGRAFIA – AUTOCONTROLLO/SELF-MANAGEMENT/SELF-CARE
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Fattori bio-psico-sociali
alla base dell’adesione
Numerosi studi hanno analizzato le difficoltà dei pazienti diabetici a seguire un regime terapeutico e/o uno stile di vita e ne hanno esaminato le implicazioni psicosociali sia come cause di una
inadeguata adesione al trattamento che come interventi necessari per migliorare l’adesione. Le variabili psico-sociali e demografiche sono alla base delle differenti condotte di self-care. Pertanto, le valutazioni dei costrutti personali e di malattia (personal and health beliefs) e del supporto sociale rappresentano validi predittori delle condotte di self-care nei differenti ambiti di
trattamento (dieta, esercizio fisico, automonitoraggio, adesione). Inoltre, le caratteristiche individuali della persona con diabete, quali la tipologia di personalità, eventuali disturbi psicopatologici (depressione, ansia, ecc.), i conflitti, le motivazioni inconscie, vanno a interferire sull’adesione al trattamento. La solidità
delle risorse psicosociali (grado di istruzione, legami affettivi, stili positivi di coping) è associata a un miglior controllo glicemico.
Tuttavia, i ruoli all’interno del gruppo familiare, specialmente per
le donne, possono costituire barriere importanti che vanno riconosciute e affrontate in modo appropriato.
81
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82
Comunicazione
e counselling
Nelle patologie croniche si potrebbe dire che la comunicazione
è tutto, o almeno molto. Indipendentemente dal cammino percorso per arrivare alla diagnosi di diabete, i pazienti hanno una
percezione di ‘insufficiente informazione’, il che non vuol dire
necessariamente carenza di dati ma, più probabilmente, carenza di informazioni che possano essere adeguatamente comprese e contestualizzate dal paziente. Lo stile comunicativo, più
che la quantità di tempo disponibile e di informazioni trasmesse, sembra influire sulla qualità percepita della relazione tra curanti e pazienti. Uno stile aperto, empatico, non giudicante è
fondamentale per impostare un cammino di cura centrato sul
paziente e sui suoi bisogni di salute. Una buona capacità comunicativa non è innata, ma va ‘coltivata’ attraverso l’utilizzo di
tecniche e strategie. Oltre a questo, può essere utile impostare un vero e proprio counselling psicologico, che ha l’obiettivo
di rendere la persona consapevole dei propri comportamenti,
delle proprie decisioni e quindi capace di utilizzare le proprie risorse personali. Gli obiettivi del counselling possono essere:
specifici, negoziati con il paziente sulla base dei suoi bisogni
e delle sue risorse;
generali, insieme degli scopi che si vogliono raggiungere con
gli interventi.
La letteratura indica possibili benefici sia nel trattamento dei
vissuti depressivi che nell’adesione e nel self-care/self-management.
83
BIBLIOGRAFIA – COMUNICAZIONE E COUNSELLING
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84
Locus of control
Il locus of control si riferisce ad uno stato particolare interno con
cui le persone provano attivamente e con volontà ad affrontare
gli eventi che incontrano nel corso della vita.
Il locus of control (LOC) è un modello introdotto negli anni Sessanta per spiegare le differenze individuali nei comportamenti
orientati al raggiungimento di uno scopo (goal-oriented): i soggetti con LOC ‘interno’ percepiscono il raggiungimento della
meta come personalmente controllabile, e aggiornano di conseguenza le proprie aspettative di successo/fallimento; di contro,
quelli con LOC ‘esterno’, per i quali il conseguimento della meta
dipende da fattori esterni, incontrollabili, modificano le proprie
aspettative in modo imprevedibile. Secondo questo modello,
il successo/fallimento produce negli individui con LOC interno
maggiori effetti a livello motivazionale (positivi dopo il conseguimento della meta, negativi in caso contrario) rispetto a quelli che
si producono negli individui con LOC esterno.
L’interesse per il LOC in ambito diabetologico risale alla metà
degli anni Settanta e nasce dalla necessità di spiegare le consistenti differenze di risultati, a parità di condizioni cliniche, tra i
singoli pazienti.
Il locus of control stima la convinzione dell’individuo riguardo la
sua capacità di controllo della propria salute e quindi del diabete: cioè che questo controllo possa dipendere da lui, dagli eventi esterni o dal caso.
85
BIBLIOGRAFIA – LOCUS OF CONTROL
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86
Self-efficacy
Con il termine self-efficacy si intende l’idea che l’individuo ha
delle proprie capacità di agire efficacemente sugli eventi che
condizionano la propria vita. Questo costrutto influenza in modo
significativo i processi cognitivi, motivazionali, affettivi e decisionali. In ambito diabetologico la self-efficacy rinforza in modo diretto l’adesione al trattamento e sembra mediare gli effetti di altre variabili psicosociali (supporto sociale, stress diabete-correlato, carico psicologico, coping) sui parametri metabolici. Una
maggiore self-efficacy è tra gli obiettivi primari dell’Empowerment. Il passaggio da un trattamento convenzionale a uno di
tipo intensivo può essere vissuto come ‘insuccesso’ personale
modificando gli outcome psicologici (maggiore ansia e minore
self-efficacy) senza, necessariamente, migliorare la self-care. Interventi formativi con prevalenza della componente pratica (saper fare, riuscire a fare) possono ridurre o annullare i possibili
contraccolpi psicologici negativi di questo cambiamento.
87
BIBLIOGRAFIA – SELF-EFFICACY
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88
Autostima/self-esteem
All’autostima è riconosciuta un’enorme importanza psicologica:
è un costrutto rilevante quasi come l’intelligenza ma si è meno
d’accordo sul come poterla misurare.
L’autostima è un fattore che va attentamente valutato per la possibile influenza su praticamente tutti gli aspetti psicologici legati al diabete ed al suo trattamento. È un fattore particolarmente critico durante l’adolescenza e nell’età avanzata, così come in
tutte le situazioni di depressione, ansia e disturbi del comportamento alimentare. Il raggiungimento degli obiettivi terapeutici concordati rafforza l’autostima nella misura in cui il cambiamento viene vissuto come auto-diretto; in tal caso si realizza un
vero Empowerment del paziente. Viceversa, cambiamenti percepiti come completamente o prevalentemente etero-diretti possono anche ridurre l’autostima. Allo stesso modo, obiettivi ‘non
realistici’ o comunque non concordati possono produrre vissuti di frustrazione ripetuti in grado di innescare spirali negative di
auto-svalutazione. Livelli elevati di autostima possono anche costituire talvolta barriere al riconoscimento della realtà di malattia
(che comunque rappresenta una ferita narcisistica), come possono essere associati a bassi livelli di qualità percepita delle cure e
della vita. Interventi di tipo comportamentale e cognitivo possono modificare bassi livelli di autostima indotti dalla pressione sociale, soprattutto per quanto riguarda l’immagine corporea.
89
BIBLIOGRAFIA – AUTOSTIMA/SELF-ESTEEM
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90
Health Belief Model
Il costrutto di malattia (Health Belief Model-HBM) è un modello
che rende ragione della rappresentazione soggettiva della salute o meglio della cornice di riferimento entro cui vengono collocati i vissuti di malattia del singolo paziente o del suo gruppo di
appartenenza. È possibile distinguere un costrutto personale di
salute (personal health belief) da un costrutto legato alla malattia (sickness related belief), così come è possibile articolare HBM
su piani differenti quali le barriere percepite, la suscettibilità percepita, i benefici percepiti, la gravità percepita. Alcune rappresentazioni più di altre sono associate a comportamenti responsabili, ridotto ‘carico’ psicologico, traguardi positivi di qualità di
vita. I livelli individuali di comprensione del diabete e le sensazioni di controllo sulla malattia sono i predittori più significativi di
outcome. Un locus of control fortemente internalizzato ed elevati livelli di self-efficacy orientano verso un bilancio costi/benefici
positivo delle pratiche di adesione al trattamento. Costrutti personali o familiari improntati a fatalismo e negativismo sono invece associati a bassa qualità di vita e alti livelli di stress. Nei bambini, costrutti di malattia ‘immaturi’ o ‘magici’ non devono essere rifiutati come ‘irrazionali’ ma accettati e impiegati per ricontestualizzare il percorso di cura.
91
BIBLIOGRAFIA – HEALTH BELIEF MODEL
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Aspetti cognitivi
Non è facile assegnare specificatamente al diabete effetti sulle
funzioni cognitive separandoli da quelli prodotti dall’invecchiamento e dalla aterosclerosi. Tuttavia, un rischio più elevato di
declino cognitivo è evidenziabile nei soggetti con diabete tipo
2, soprattutto nelle donne. Il declino colpisce principalmente la
memoria semantica e la velocità percettiva. Benché molti lavori suggeriscano la possibilità di contrastare efficacemente questa evoluzione, l’evidenza raggiunta è ancora relativamente debole, a prescindere dal tipo o dall’intensità di trattamento adottato. L’impatto del declino cognitivo sulla mortalità e sulla disabilità non è trascurabile e questo suggerisce l’opportunità di uno
screening delle funzionalità cognitive in tutti i pazienti diabetici
anziani. Anche valori ‘normali’ ma bassi nei test vanno considerati con attenzione in questa popolazione. Miglioramenti anche
modesti delle funzioni cognitive possono avere un impatto notevole sulla qualità di vita, riverberandosi sulla qualità delle relazioni sociali e familiari, sulla sensazione di controllo e sull’adesione al trattamento.
93
BIBLIOGRAFIA – ASPETTI COGNITIVI
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Empowerment
Il superamento dei concetti di adesione e di compliance ha reso
possibile per i pazienti la scoperta e la contestualizzazione del
proprio ruolo attivo nel trattamento del diabete. Per i curanti
ha significato la realizzazione di una pratica di Educazione terapeutica su base paritaria. Per tutto il personale addetto alla cura
è necessario che siano presenti interesse alla realtà individuale
della persona ammalata, stile comunicativo centrato sul paziente e adeguata gestione dei tempi di intervento. L’Empowerment
è un percorso che impegna entrambi i soggetti (chi chiede e chi
offre prestazioni di cura) e che ha come obiettivo la progressiva autonomizzazione del paziente. Presuppone l’abbandono di
un atteggiamento ipergiudicante e prescrittivo e l’adozione di
una visione aperta e tollerante dei problemi e delle situazioni. La
chiave del successo terapeutico, così come la responsabilità dei
comportamenti dannosi, è nelle mani del paziente che deve essere aiutato a prenderne consapevolezza.
95
BIBLIOGRAFIA – EMPOWERMENT
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Sessualità
L’impatto del diabete sulle relazioni d’amore, e in particolare
sulla sessualità, è riconosciuto con sempre maggiore attenzione negli ultimi venti anni. La disfunzione erettile è il disturbo più
studiato, il suo impatto sulla qualità di vita è maggiore, ovviamente, nelle fasce di età meno avanzate (50-70), la concomitanza di vari fattori (vascolari, neurologici, psicologici) rende obbligato un approccio integrato (psicologico e farmacologico). Per
le donne, invece, l’interesse è relativamente recente e gli studi
pubblicati indicano una componente ‘psicologica’ più forte. Infatti, numerose ricerche rilevano remissioni spontanee e miglioramenti soggettivi anche in assenza di variazioni obiettivabili dei
parametri sessuologici. Inoltre, sembrano esserci differenze tra
diabete tipo 1 e tipo 2, ma non è semplice isolare il fattore diabete dal contesto (peso corporeo, stili di vita ecc.). Per entrambi i sessi comunque, i disturbi della sfera sessuale sono sotto-riportati, sono accompagnati da vissuti di vergogna, colpa e imbarazzo e costituiscono un determinante significativo della qualità di vita percepita.
97
BIBLIOGRAFIA – SESSUALITÀ
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Strumenti psicometrici/
questionari
Strumenti di uso consolidato in ambito psicologico vengono comunemente impiegati per esplorare i vari costrutti psicologici individuali, così come per inquadrare i disturbi associati o preesistenti al diabete. Relativamente più recente è l’interesse per la
qualità di vita. Nessun questionario è in grado di sondare tutti gli aspetti rilevanti della qualità di vita nei soggetti con diabete e anche per questo negli ultimi anni gli strumenti si sono moltiplicati in modo considerevole, rendendo urgente la necessità
di operare una sintesi sulla base di standard riconosciuti e condivisi. In questo senso i questionari ‘targati’ OMS/WHO come il
WBQ-WHO (Well Being Questionnaire) e il DTSQ-WHO (Diabetes Treatment Satisfaction Questionnaire) cercano di offrire dei
punti di riferimento, applicabili anche a realtà differenti da quella in cui sono stati generati. Il nuovo paradigma di trattamento
del diabete centrato sul paziente, infine, ha stimolato la realizzazione di questionari che cercano di strutturare il processo di autovalutazione dei propri comportamenti terapeutici in modo da
aggiungere alle valutazioni esterne anche un punto di vista interno sull’adesione, la self-care e il self-management.
99
BIBLIOGRAFIA – STRUMENTI PSICOMETRICI/QUESTIONARI
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100
Empatia/ascolto
L’empatia si riferisce a una particolare caratteristica che rende
una persona capace di comprendere un’altra in modo profondo;
ciò può avvenire quando c’è una comunicazione molto stretta tra
due persone e quando si cerca di ‘mettersi nei panni dell’altro’
per riuscire a percepire la realtà dalla prospettiva dell’altro.
La capacità di ascolto partecipe del paziente e di sintonia con i
suoi vissuti sono qualità e abilità indispensabili per una relazione
di cura efficace e soddisfacente. Lo stile comunicativo dei curanti mostra differenze di genere. Le donne mediamente tendono
a comunicare un maggior livello di empatia in risposta alle opportunità di scambio emotivo create dai pazienti. Questo maggior coinvolgimento aumenta il grado di concordanza tra curante e paziente (la cura somministrata si avvicina alla cura percepita) e migliora il grado di autonomia percepita. Molti aspetti dell’attuale organizzazione sanitaria come la sua natura ‘affrettata e
impersonale’ sono motivo di frustrazione per molti pazienti che
si sentono ‘respinti’ o poco compresi. Questo influenza negativamente il grado di partecipazione e adesione al trattamento. Un
atteggiamento empatico può ‘agganciare’ il paziente ‘in fuga’,
quello cioè con stili di comportamento improntati alla diffidenza
e alla scarsa fiducia nella struttura sanitaria.
101
BIBLIOGRAFIA – EMPATIA/ASCOLTO
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Gli adolescenti
Il trattamento del diabete tipo 1 negli adolescenti avviene in un
contesto di crescita e sviluppo fisico, cognitivo ed emotivo. Il
diabete nell’adolescenza è caratterizzato da spinte contrastanti. Una conseguenza di questo ‘tira e molla’ interiore è rappresentata dal fatto che spesso questi adolescenti sviluppano timore verso le normali tappe evolutive. La progressione verso l’indipendenza e l’autonomia può risultare compromessa. Gran parte dell’attenzione clinica è concentrata sugli strumenti per trattare il diabete, vale a dire i controlli e la terapia, che certamente sono importanti nel migliorare gli outcome, ma che rischiano
di essere poco incisivi negli adolescenti se non viene affrontato
contemporaneamente l’impatto che la malattia ha sullo sviluppo
della loro personalità. Le ragazze in genere mostrano maggiori preoccupazioni, minore soddisfazione e una salute percepita
meno soddisfacente. L’età, da sola, non è sufficiente a determinare il momento appropriato per trasferire le responsabilità della cura dai genitori al figlio adolescente, ma il processo deve essere graduale nel tempo. Il funzionamento del sistema familiare
ha una notevole influenza sul comportamento di cura del paziente adolescente e sulla sua aderenza al trattamento. I gradi più alti
di adesione al trattamento si osservano quando la figura materna
è percepita come quella di una persona che partecipa alla cura e
non come quella di un controllore.
103
BIBLIOGRAFIA – GLI ADOLESCENTI
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Il grande anziano
Il diabete nel grande anziano (la definizione della fascia di età
oscilla tra >65 e >75) non è quasi mai l’unica patologia, la comorbilità è praticamente la regola. L’anziano è portatore di una
lunga storia biologica e sociale e di una consistente stratificazione di vissuti che rendono l’approccio bio-psico-sociale massimamente indicato. Un concetto ampiamente utilizzato in geriatria è quello di ‘fragilità’, definita come l’insieme delle condizioni intermedie tra piena autonomia e dipendenza funzionale irreversibile. Il diabete aumenta la ‘fragilità’ della persona anziana, sia come maggiore vulnerabilità che come maggiore dipendenza dagli altri. Tutti gli interventi, individuali o di gruppo, vanno finalizzati al rafforzamento di un’autonomia che viene percepita come costantemente minacciata. È importante definire i target da perseguire nella gestione del diabete dell’anziano in base
agli aspetti multidimensionali e cioè capacità cognitivo-comportamentali e motorie, valutazione del grado di autonomia, coesistenza di altre patologie croniche. Le sfide che il diabete pone
(apprendere, cambiare e progredire/crescere) vanno adeguatamente contestualizzate all’interno di modelli psicodinamici quali
la teoria dello sviluppo psicosociale di Erikson.
105
BIBLIOGRAFIA – IL GRANDE ANZIANO
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106
CAPITOLO 3
Ruoli dello psicologo
nel Team diabetologico
Catello Parmentola, psicologo e psicoterapeuta, fa parte del
Team del servizio di diabetologia territoriale della ASL 2 di Salerno all’interno del quale è anche responsabile per la Qualità.
Clinico, docente, pubblicista, i suoi libri vertono spesso sui temi
epistemologici e deontologici delle discipline sanitarie. È stato
vicepresidente dell’ordine degli psicologi della Campania.
107
L’intervento clinico
sul paziente
Nel Servizio diabetologico della Asl Salerno 2 la presenza dello psicologo a tempo pieno ha un suo particolare senso perché accompagna una più generale e coerente intenzione: l’integrazione di diverse figure professionali a segnare il passaggio da una logica di ambulatorio ospedaliero a una logica di
Servizio territoriale. Il Servizio, diretto da Pasqualino Calatola,
rappresenta una modalità di realizzazione della logica dell’approccio integrato interpretando la mission territoriale sia nella propria configurazione interna sia nelle collaborazioni previste: con i medici di Medicina generale, con l’Associazione
pazienti ecc.
A questo sforzo di interpretazione della dimensione assistenziale si affiancano l’impegno nella Qualità (i percorsi di accreditamento o di certificazione obbligano a confrontarsi, interrogarsi su ciò che si fa, a misurare i processi, a essere attenti
alla documentazione) e l’utilizzo delle forme di comunicazione
on-line, fino alla cartella clinica web che favorisce l’interattività
in tempo reale, tutti i collegamenti tra gli attori del processo
assistenziale e tutti i riscontri statistici delle attività.
La mia esperienza
In questo contesto può essere, da un lato, più immediatamente
colta l’importanza del contributo dello psicologo e, dall’altro,
questo stesso contributo può risultare molto più significativo.
Diciamo che un modello del genere favorisce una valutazione
più complessa da parte dei responsabili dei Servizi di diabe-
109
tologia riguardo ai budget, alle scelte più o meno convenienti anche in termini di dotazione organica.
La mia esperienza mi ha suggerito che proprio questo livello
di valutazione è lo snodo da cui può discendere tutto il resto,
anche con riferimento alle eventuali reciproche fortune dello
psicologo in diabetologia e del Servizio diabetologico con lo
psicologo.
L’inizio della collaborazione
Già alla fine degli anni Novanta nei Servizi di diabetologia si
iniziava a tenere sempre più in conto la dimensione psicologica nell’assistenza al paziente diabetico.
Non si trattava soltanto di aggiungere una competenza: affrontare una malattia sociale a livello di territorio poteva dare
forma, infatti, a un’esperienza professionale particolarmente
interessante.
Basti pensare a come l’importanza dello stile di vita del paziente espone lo psicologo ben oltre la sua ordinaria ‘quota clinica’, per esempio sui versanti educazionali, sui sentimenti di accettazione della malattia, sull’umanizzazione del Servizio…
Con riferimento alla clinica, lo psicologo in diabetologia è un
oblò sulle difficoltà, le paure, gli inciampi clinici ed esistenziali della persona con diabete. Per utilizzare al massimo tutto ciò che l’oblò consente di vedere, è anche importante cogliere, in modo quasi militante, ogni opportunità testimoniale in tal senso.
Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio,
qualcosa di prestato
In un contesto come quello diabetologico, quella dello psicologo è una figura un po’ eretica, che si avvantaggia dall’entrare in un Team diabetologico non ancora molto strutturato per avere un accesso più semplice sia in termini relazionali che professionali.
Trattandosi di un ambito istituzionale nuovo, sul quale prendere molto cautamente le misure, sarebbe anche meglio che fos-
110
se uno psicologo non troppo alle prime armi, con una esperienza sia clinica sia di relazioni in un contesto istituzionale.
Tra l’altro, dal punto di vista giuridico-amministrativo, il trasferimento di uno psicologo all’interno dello stesso distretto
sanitario pone meno problemi burocratici di un trasferimento
da un altro distretto aziendale; un trasferimento intraziendale
pone meno problemi di uno interaziendale e così via.
Certo, la prospettiva più interessante sarebbe l’apposito concorso di assunzione, ma al di là dei problemi di carattere generale, occorrerebbe, per questo, una previsione in tal senso
nelle piante organiche. Ne siamo ancora lontanissimi. Siamo in
una fase pionieristica in cui aperture culturali stanno consentendo le prime esperienze. La produttività di queste esperienze potrà consentire conseguenti adeguamenti formali.
L’esperienza del Team di Salerno fornisce anche una preziosa
indicazione: lo psicologo, come qualunque nuova figura professionale nel Team, è agevolato nell’inserimento da un pretesto
operativo (qualche funzione delegata) che giustifichi dal punto di vista pratico il rapporto con gli altri operatori. Si è maggiormente accettati se si va subito a evadere qualche domanda
particolarmente ‘sentita’, qualche zona operativa scoperta.
Uno psicologo potrebbe essere speso bene nei colloqui di
primo accesso istituzionale, proponendo linguaggi e toni coerenti con l’obiettivo.
Come iniziare
La somministrazione da parte dello psicologo ai pazienti di un
questionario di carattere generale sulla Qualità della vita o sul
grado di soddisfazione del Servizio potrebbe essere un interessante primo passo. Nel mio caso il questionario mi consentì di incontrare circa 300 pazienti, ognuno per circa mezz’ora:
io ebbi modo di raccontare la mia figura professionale e loro,
‘guidati’ dagli item, ebbero modo di raccontare la loro esperienza con il Servizio.
Il questionario è un fondamentale strumento di monitoraggio
per ogni Servizio sanitario, soprattutto quando ci sono item
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anche sulla Qualità percepita che i Sistemi di gestione qualità
debbono monitorare in modo sistematico.
Il questionario utilizzato consta di 34 item, la maggior parte
dei quali intende misurare la ricaduta del diabete sulla vita, i
disagi, le piccole grandi inabilitazioni.
Gli ultimi item indagano invece il grado di soddisfazione del
paziente nei confronti del Servizio e dell’assistenza ricevuta.
Un secondo passo consiste nel concordare pregiudizialmente,
con i colleghi, i criteri di individuazione-selezione della domanda. I colleghi che non hanno mai lavorato con uno psicologo
nel Team, chiedono immediatamente delucidazioni riguardo
ai criteri di invio: “Quando ti dobbiamo inviare un paziente?”.
È importante confrontarsi su questo, anche per adottare criteri omogenei, non sottoposti alla sensibilità soggettiva o al diverso grado di cognizione dei diversi colleghi.
Ovviamente la prima domanda da considerare è quella
espressa in modo diretto: se un paziente riferisce di sentire
il bisogno di un aiuto psicologico, è difficile che si tratti di un
vezzo (e comunque andrebbe fatto l’invio e rimandata allo psicologo la valutazione in proposito).
Ci sono poi le domande non espresse ma leggibili: sintomi sul
corpo (psicosomatosi), atteggiamenti, modi di comunicazione. Immaginiamo una comunicazione emotivizzata, ridondante di umori, riflessi nevrotici…: un medico non ha difficoltà a
cogliere che c’è qualcosa che non va e a consigliare un sostegno psicologico.
Altre domande possono essere facilmente ipotizzate, in conseguenza di fatti oggettivi, eventi traumatici, lutti tragici ecc.
Altri fatti oggettivi sono le inabilità: non è sicuro ma molto
probabile, per esempio, che non riuscire a collaborare nella
terapia o non riuscire a seguire la dieta possa avere qualche
irrisolto sotteso psicologico. Attorno a queste domande può
svilupparsi dunque una riflessione con i diabetologi sul target
professionale dello psicologo.
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Spazi e tempi
Strutturalmente l’ambiente in cui opera lo psicologo dovrebbe essere coerente con la sua funzione professionale. È consigliabile un ambiente un po’ più periferico, meno disturbato
dal ‘traffico’ delle ore di punta, un ambiente piuttosto raccolto
senza l’elusività e la dispersività dei grandi spazi, un ambiente che non tradisca affatto ‘differenze’ discriminanti (agli occhi
dei pazienti) nell’arredo e in nessun altro aspetto.
Per quanto riguarda l’attività clinica, la durata dei colloqui psicologici è mediamente superiore a quella delle visite mediche. Questo non consente di andare oltre un numero piuttosto limitato di pazienti ogni giorno: si dovrebbe trattare quindi di un flusso gestibile anche in modo diretto, senza passare
dal Registro prenotazioni centrale. In tal modo, fra l’altro, non
si rischia di caricare psicologicamente pazienti, spesso ‘delicati’ in tal senso, di pesi burocratici e disagi ad alta soglia di accesso (ricadute sulla riservatezza ecc.).
Motivi del rinvio allo psicologo
In genere, il diabetologo coglie direttamente (o accoglie il riferito in proposito del paziente) la dimensione sintomatica, i
problemi designati, rimandando allo psicologo le successive
specificazioni diagnostiche di competenza.
I sintomi-pretesto per l’accesso all’intervento sono quindi quelli categoriali: depressione o ansia più o meno reattive a qualche aspetto della malattia o a qualche circostanza
esistenziale, difficoltà a rispettare la dieta, difficoltà a seguire
correttamente la terapia…
Con riferimento ai dati più attuali (primo trimestre 2006) del
Servizio diabetologico di Salerno, gli utenti (50) che hanno in
corso cicli di colloqui psicologici sono per tre quarti femmine e per un quarto maschi, per un terzo con diabete tipo 1 e
per due terzi con diabete tipo 2: tutte le fasce di età sono più
o meno equamente rappresentate con una ‘punta’ nell’età
adulta matura fra i 50 e i 70 anni.
113
Per quanto riguarda i problemi psicologici designati all’invio
(prima del vaglio specialistico e delle conseguenti complesse specificazioni), si potrebbe tracciare questa schematica distribuzione:
legati alla malattia (difficoltà di accettazione)
20%
legati alla terapia (difficoltà di effettuazione)
20%
legati alla dieta (difficoltà di effettuazione)
20%
legati alle complicanze (difficoltà di accettazione)
10%
quadri depressivi
20%
altri quadri reattivi a disagi di contesto
10%
(lavoro, famiglia, problemi economici)
Questi i quadri riferiti dal paziente o percepiti dal diabetologo;
il percorso clinico e lo spostamento dell’attenzione su problemi sempre più reali consentiranno poi un più preciso inquadramento diagnostico. Per esempio la depressione potrebbe
essere correlata a difficoltà nell’elaborazione psicologica di
qualche nucleo conflittuale della malattia (la cronicità, l’inabilità). L’ansia potrebbe essere reattiva a una ‘stressogena’ gestione del diabete (i controlli, la terapia, ecc.).
Le difficoltà con la dieta, quasi sicuramente, sono dovute a disequilibri nella sfera orale (psico-affettiva…). Le difficoltà a seguire la terapia potrebbero sottendere sentimenti di rifiuto
della malattia, magari per una problematica elaborazione psicologica della prima comunicazione diagnostica.
La presa in carico
L’inserimento dello psicologo nel percorso terapeutico del
singolo paziente richiede particolare cautela ed ‘eleganza’. Il
collega (quasi sempre il diabetologo, qualche volta un consulente specialista) che concorda con un paziente l’opportunità di un aiuto psicologico me lo segnala immediatamente. Invece di rispondere per telefono mi reco subito o quanto prima nello studio dove è sorta la proposta, per concordare con
il paziente il primo appuntamento.
Se l’ambulatorio psicologico è libero da altri colloqui, è invece
114
il diabetologo che accompagna il paziente designato: in questo caso l’appuntamento può essere fissato all’interno di un
primo breve scambio preliminare, una sorta di reciproca presentazione-conoscenza.
Nella stessa giornata, alla fine delle attività ambulatoriali, avviene una più organica valutazione congiunta (diabetologopsicologo) sul caso, sui problemi emersi e sui motivi della richiesta di intervento.
Lo scambio di informazioni
Le informazioni scambiate all’inizio sono legate ai motivi designati dello smistamento. La cartella clinica, alla quale lo psicologo ha accesso, fornirà poi le informazioni più di contesto. Alcuni indicatori di equilibrio-squilibrio del corpo – organismo,
persona, vita – sono considerati in qualche modo multidisciplinari (gli andamenti delle glicemie o delle diete…). Di là dal
proprio specifico ambito tecnico-professionale, si tende quindi a misurare molto sia le situazioni di partenza sia i successivi
esiti terapeutici, lungo queste dimensioni.
Nel caso in cui l’incontro con il paziente avvenisse prima del
colloquio fra psicologo e diabetologo, anche queste prime informazioni sono fornite dal paziente che si esprime liberamente raccontando per lo più i motivi della sua decisione.
Lo sguardo anamnestico in un Servizio diabetologico inquadra la storia personale attorno alla storia della malattia. In
qualche misura, all’inizio, ciò vale anche per lo psicologo, anche perché tale approccio fornisce nuclei argomentativi semplici, concreti e ordinati, molto utili a ‘rompere il ghiaccio’.
Ovviamente lo psicologo tende a essere molto attento all’‘affettività espressa’, quello che esprime l’atteggiamento, la postura: il ‘non verbale’ è importante tanto più all’inizio, quando
‘il verbale’ non ha preso ancora corpo e non ha strutturato ancora alcun percorso.
Nel caso di invio da parte del diabetologo, le informazioni pregiudiziali sono scambiate dopo che è stato fissato l’appuntamento ma prima dell’incontro dello psicologo con il paziente.
115
Di norma, vertono su due, tre informazioni ‘fondamentali’
(qualche evento familiare speciale, qualche circostanza clinica particolare…), accessoriate da qualche utilissima ‘impressione personale’.
Talvolta, qualche elemento particolarmente dirimente può indurre al diabetologo una domanda di condivisione immediata:
in tal caso, trova il modo di appartarsi con lo psicologo, facendo attendere per qualche minuto il paziente in ambulatorio.
Penso alle volte che un collega mi ha detto: “Devi sapere subito che…”, alle volte che era inutile farla lunga con i protocolli, poiché era assolutamente scontato a cosa fosse legata la
‘domanda psicologica’.
Pensiamo a un evento tragico in famiglia, o a una diagnosi infausta comunicata da pochi giorni…: sono casi in cui l’informazione a volo (dal diabetologo allo psicologo) ha una tale
immediata potenza di orientamento riguardo al tipo di setting
da istituire, che davvero vale la pena di fornirla subito.
Pensiamo anche a un paziente psichiatrizzato da decenni
con diagnosi inequivocabile, o con famiglia multiproblematica con diversi casi di psichiatrizzazione. La trasmissione immediata di un dato del genere da parte del diabetologo può
fornire subito allo psicologo la misura della gravità del caso e
suggerirgli una coerente modalità di approccio.
Allora in questi casi è molto più economico sacrificare la forma alla sostanza, trasmettendo subito l’informazione fondamentale e rimandando a un colloquio più organico e approfondito le altre.
Le reazioni del paziente
Solo nel 10-20% dei casi i pazienti sollecitano spontaneamente
l’intervento dello psicologo. È generalmente il diabetologo, vero
‘regista’ del Team, a proporre al paziente di inserire questa competenza nel percorso terapeutico. La presenza di uno psicologo
‘interno’ al Team rappresenta un punto di forza in questo momento critico. Un’espressione-metafora potrebbe essere: “Abbiamo nel Centro un bravo psicologo che potrebbe aiutarla”.
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Le espressioni di rifiuto sono rare: la psicologia e l’utilizzo dello psicologo rientrano ormai nel senso comune del nostro
tempo sociale e questo vale ovviamente anche per l’utente
medio di un Servizio diabetologico. Nei contatti fra di loro,
i pazienti più abituati allo psicologo promuovono l’eventuale produttività dell’esperienza, garantendo allo psicologo una
‘buona stampa’. I pazienti che ne hanno un’esperienza pregressa, tornano dallo psicologo prenotandosi direttamente.
I pazienti che hanno già un’idea di come si struttura la relazione professionale con uno psicologo, governano l’esperienza in modo ordinario. Gli altri ne devono man mano maturare i codici.
Qualcuno potrebbe pensare che tutto debba risolversi in un
colloquio, stupendosi magari della disponibilità (“Debbo venire ancora?” “Ma non si stanca di stare sempre ad ascoltare
tutti questi guai?”).
Qualche altro, ancora più disabituato, potrebbe assimilare il
colloquio psicologico a una consulenza specialistica esterna,
chiedendo se deve pagare qualcosa o se deve portare tutte le
volte l’‘impegnativa’.
Ci sono pazienti che ‘difensivamente’ divagano per tutto il
tempo della prima seduta, introducendo poi il vero motivo
dell’incontro (il problema che veramente li angustia) nell’ultimo minuto prima dei saluti (specialmente, quando si tratta di
una difficoltà avvertita più imbarazzante, inerente per esempio alla sfera sessuale).
A ogni modo, anche in generale, e forse in una non casuale
correlazione con la perdita delle parole nel nostro tempo sociale, si riscontra una sempre minore timidezza nei confronti
della figura professionale dello psicologo che si avvia a essere
sempre più un ‘consumo sanitario’ quasi ordinario.
Anche in un Servizio di diabetologia può riscontrarsi un’afferenza di estrazione sempre più popolare e di acculturazione
anche medio-bassa, e una normale frequentazione, senza il
conferimento di particolari significati all’esperienza, dell’ambulatorio psicologico.
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Modalità di intervento dello psicologo
Riguardo alle modalità di intervento, distinguerei il sostegnoorientamento dal ciclo di colloqui più a carattere psicoterapeutico.
Il colloquio di sostegno-orientamento è legato per lo più a
una contingenza. Può trattarsi di un problema da chiarire, di
istruzioni per il corretto rapporto istituzionale, di una prima
comunicazione diagnostica da sostenere psicologicamente.
Sulle difficoltà più strutturali viene invece organizzato un percorso psicoterapeutico. Dato che non si tratta di una prestazione libero-professionale, non occorre un contratto terapeutico troppo formalizzato.
Una volta che ci si è reciprocamente scelti, si presentano i termini del rapporto professionale: colloqui settimanali della durata di circa 50 minuti, organizzati in diversi cicli lungo un periodo di tempo che dipenderà dalla produttività clinica di volta in volta valutata.
Nel mio caso, l’orientamento è abbastanza analitico, ma ciò
che è veramente importante è che non ci sia rigidità: con un
target così a largo spettro, all’interno di una struttura pubblica,
in qualche modo conta il tipo di paziente e la capacità di calibrare l’intervento più efficace con riferimento alle sue caratteristiche. Ascoltandolo, possono essere individuati sia i suoi problemi sia le sue risorse (le gambe del processo terapeutico). La
restituzione da parte dello psicologo di qualche suo ‘risuonamento’, negli ultimi minuti del colloquio, orienta i percorsi da
un lato e nutre un adeguato tono termico dall’altro.
Ovviamente, le difficoltà che richiedono più lunghi interventi
sono quelle legate all’elaborazione psicologica di qualche dolore (nucleo conflittuale) che la malattia comporta e che specificamente può comportare una condizione di questo tipo.
In diabetologia, ci si può trovare di fronte a un paziente che ha
bisogno di più tempo degli altri per ‘digerire’ la notizia della
malattia, per elaborarne la comunicazione diagnostica.
Altri non riescono proprio ad accettare la cronicità, il dover
fare i conti ‘con tutto questo’ per sempre.
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Molti hanno paura delle complicanze e soprattutto del rischio
di inabilità, e questi fantasmi condizionano moltissimo il loro
atteggiamento nei confronti della malattia e della terapia.
Ci sono pazienti che vivono soprattutto un disagio sociale,
tendono a nascondere la propria condizione di diabetici che
avvertono, ancora oggi, come una sorta di complesso.
Quasi tutti i pazienti che devono passare dalla terapia orale
alla terapia insulinica vivono questa fase come un trauma e
hanno resistenze molto forti.
Allo stesso modo, può essere avvertito traumaticamente il
passaggio dal Centro diabetologico pediatrico al Servizio territoriale.
Ecco gli snodi critici, le cose che possono essere dure da digerire-accettare-elaborare dal paziente diabetico: quelle mischie emotive che possono giustificare e dare senso alla presenza di uno psicologo accanto al paziente diabetico.
Potremmo considerare difficoltà di questo tipo come i veri e
propri oggetti professionali, gli oggetti della ‘militanza’ clinica
dello psicologo in un Servizio di diabetologia.
End point terapeutici
Quali sono gli obiettivi dell’intervento psicologico ‘secondario’ a una patologia cronica? In primo luogo, banalmente, riuscire a far stare meglio il paziente.
Questa considerazione induce però vari livelli di riflessione
quando l’intervento va a svolgersi in un ambito non consueto
per la figura professionale dello psicologo. Non vi è la possibilità di definire e poi intervenire. È come se l’intervento stesso, mentre si svolge, implicasse una dimensione esplorativa, la
conoscenza di un nuovo target, le caratteristiche del paziente diabetico.
Contestualmente implica anche la fissazione di un modello, la
costituzione in tempo reale di riferimenti teorici, data l’assenza di cognizioni pregresse.
Allora, una sfida è aiutare il paziente dal punto di vista psicologico, un’altra saperne di più di lui da questo punto di vista.
119
Registrando i dati clinici, quello che più ricorre, le costanti, c’è
la possibilità di individuare quali sono le difficoltà, gli inciampi del paziente, le sue esposizioni psicologiche nella storia di
persona con diabete.
Ecco allora la sfida, lavorare con lui per risolvere queste cose e
riscontrare con lui le positive ricadute sul ‘suo’ diabete.
Si tratta, in effetti, di obiettivi terapeutici: il concetto di sfida è evocato (forse impropriamente) solo perché certi obiettivi possono costituire delle novità, indurre degli stupori, aprire discorsi.
In fondo, i livelli di riflessione che stiamo svolgendo sono già
piuttosto evoluti: forse in alcuni contesti lo stupore può essere
indotto semplicemente dall’affermarsi di una domanda psicologica, dal vedere l’ambulatorio dello psicologo pieno, la ‘reiteratezza’ degli accessi.
End point rispetto al Servizio
Tornando agli obiettivi terapeutici, essi vanno misurati in una
dimensione anche più ampia. Il ‘committente’ dell’intervento psicologico è duplice: sia il paziente sia il resto del Team.
È importante il maggiore equilibrio psicologico del paziente,
ma lo è altrettanto che esso ricada sull’esito della dieta, sull’effettuazione della terapia, sul compenso metabolico.
Ecco un punto cruciale: in una logica di sistema, lo psicologo rende una prestazione professionale al paziente ma è il
diabetologo che ha chiesto una mano per quel paziente. L’intervento dovrebbe avere sempre un’intelligibilità e una tangibilità interdisciplinare: il prodotto complessivo finale dovrebbe essere sempre l’efficacia del Servizio riguardo alla gestione di quel diabete e al bilanciamento di quella glicemia (altrimenti resteremmo per sempre soltanto alla ‘figura professionale aggiunta’ ed ‘extraterritoriale’).
La conclusione dell’intervento psicoterapeutico (quello di sostegno-orientamento tende a essere sempre contingente) è
uno dei più complessi nuclei epistemologici della professione psicologica.
120
Sembrerebbe molto chiaro e tangibile un obiettivo tipo: riuscire finalmente a fare la dieta che parrebbe sancire nitidamente la fine della corsa.
Ma non è sempre così. I problemi-obiettivo designati all’inizio
a volte finiscono per costituire poco più che un pretesto. Nel
giro di qualche seduta si potrebbe finire nella mischia e nella
complessità di altri livelli psicologici.
In tal caso, si potrebbe avvertire l’eventuale economicità dell’esperienza in un sottile gioco di motivazioni e di costi, pur
non misurandola in ogni momento su parametri formali.
A tale livello (i parametri formali) ciascun caso sarebbe comunque un caso a sé, in base anche all’importanza che ogni diverso paziente assegna a ogni differente questione.
A volte il paziente misura il prodotto terapeutico in termini di
riequilibrio generale, altre volte con riferimento a un aspetto risolto particolarmente investito (ora una risoluzione clinica,
ora un esito esistenziale). Talvolta il riscontro ‘produttivo’ può
essere costituito da un sintomo scomparso, talvolta dal superamento del problema iniziale designato, altre volte ancora da
un chiarimento sopraggiunto riguardo a qualche conflitto un
po’ più profondo.
Quando la soluzione clinica dei motivi della terapia rende
quest’ultima un costo complessivo (lo spostamento, il tempo…) non più tanto giustificato, si coglie nella relazione un
calo di tensione-motivazione.
Psicologo e paziente possono valutare assieme ‘il punto a cui
si è’ e concordare di sospendere, concludere o modificare i
termini formali della relazione.
Anche questo ovviamente è ‘reportato’ al diabetologo che ha
operato l’invio del paziente.
Misurare il miglioramento
Questo percorso sollecita allo psicologo una domanda sulla
misurabilità del suo agire.
Fare rientrare in modo ‘ufficiale’ esito terapeutico misurabile
dopo esito terapeutico misurabile, il fattore psicologico tra i
121
fattori in gioco nell’andamento clinico del diabete, è necessario per mostrare come lo psicologo sia funzionale ai Servizi di
diabetologia: non solo ‘un’eventualità’ dunque, ma un contributo alla ridefinizione del modello assistenziale in termini nuovi, che lo contemplino.
Il contributo dello psicologo potrebbe non costituire più uno
stupore, bensì essere ordinariamente previsto, prima nell’esperienza del singolo collega diabetologo, poi nell’aspettativa istituzionale e clinica. Quanto ricade sull’andamento clinico l’accettazione o meno della malattia, il modo in cui il paziente la ‘vive’? E quanto questo potrebbe essere condizionato dal modo in cui gli è stata ‘comunicata’ la malattia la prima
volta? Ci sono, in questa zona, margini per la riflessione e il lavoro dello psicologo?
Quanto pesa l’impatto psicologico di una complicanza o di
un’inabilità nell’economia della gestione-governo del diabete
da parte del paziente? Sostenerlo psicologicamente ‘nell’impatto’ può dunque avere un significato strategico ai fini della sua ‘buona tenuta’ in tal senso (motivazioni e collaboratività terapeutiche)?
Per quanto riguarda la dimensione ‘giorno per giorno’, in che
misura le glicemie possono essere sbilanciate anche da stress
emozionali e nervosi? Sarebbe opportuno entrare un po’ più
nel merito di questa eventuale correlazione?
Sarebbe il caso di verificare anche in che misura gli interventi
di educazione alimentare ottengano migliori risultati quando
il paziente ha accanto uno psicologo che, da un lato ne corrobora e sostiene l’impegno, e dall’altro cerca di lavorare sui
sottesi psico-affettivi del suo rapporto con il cibo?
E la delicatezza e la complessità di una prima diagnosi a un
bimbo con diabete tipo 1, con tutto quello che può scatenarsi
nelle dinamiche familiari, non espone anche una competenza
di tipo psicologico (la comunicazione, le relazioni), soprattutto considerando in quale gravosa misura il diabetologo è già
esposto riguardo alle sue competenze tecnico-professionali?
Quanti punti interrogativi! Ogni volta che uno di essi si trasfor-
122
ma in punto semplice, potremmo dire di essere di fronte a una
sfida vinta. Significherebbe avere capito una piccola o grande
cosa in più dell’assistenza al paziente diabetico, anche grazie
al coraggio di un’apertura multidisciplinare e come premio all’audacia di tale apertura.
Il report al diabetologo
Fare parte integrante di un Team significa poter lavorare letteralmente fianco a fianco con il diabetologo. Nei Servizi non
troppo grandi e dispersivi gli ambulatori sono contigui e le occasioni di scambio sono sistematiche.
In tali condizioni, il report interdisciplinare è quasi un implicito professionale; è raro che ricorrano domande non evase in
tal senso, tali da dover prevedere una formalizzazione del report stesso.
Alcune notizie più utili a livello interdisciplinare sono riportate in cartella clinica da dove già si può evincere l’andamento
della relazione professionale con lo psicologo, l’assiduità delle afferenze ecc.
La produttività dell’esperienza, con riferimento all’obiettivo
terapeutico prefissato, è evincibile direttamente dagli andamenti clinici e dai dati concernenti il suddetto obiettivo.
È evincibile indirettamente invece, dai report del paziente al
diabetologo in cui va a rappresentargli il come si sente e i propri giudizi e sentimenti riguardo all’esperienza professionale
con lo psicologo.
Altri report di altro livello possono essere garantiti, a seconda dei
casi, o da uno scambio diretto tra lo psicologo e il diabetologo
che ha inviato il paziente o, in una riflessione di Team, su uno
specifico caso clinico all’oggetto della discussione.
A ogni buon conto, nessun report a nessun livello potrà mai riguardare, per ovvi motivi, gli oggetti più riservati della comunicazione clinica psicologica.
I report riguarderanno sempre e soltanto il minimo indispensabile alla funzionalità interdisciplinare ai fini dell’efficacia terapeutica e della migliore assistenza possibile al paziente.
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Il supporto al Team
Lo psicologo è una risorsa per il Team non solo attraverso il
suo intervento sul paziente. Fare parte integrante di un Servizio di diabetologia significa anche mettere a disposizione
competenze e ‘contaminare’ i linguaggi: ‘psicologicizzare’ insomma l’ambiente.
Credo che un processo del genere non sia derogabile nel caso
di una malattia sociale, delicata e complessa come il diabete.
Parlo di ambiente in senso stretto: una maggiore sensibilità
alla dimensione intrapsichica e umana induce immediatamente una riflessione sugli aspetti comunicazionali, sia espliciti sia
impliciti, e perfino sulla comunicazione ‘pubblica’, dalla segnaletica alla bacheca, all’organizzazione degli spazi…
Aiutare l’ascolto reciproco
L’ascolto del paziente da parte del dottore è la prima dimensione di una solida alleanza terapeutica.
E, siccome il paziente, dopo aver portato al medico la propria
vita, deve riportare il proprio medico (i suoi consigli, le sue indicazioni) nella vita, l’ascolto del dottore da parte del paziente ne è la seconda dimensione.
Lo psicologo può essere strategico già nelle premesse ‘di fondo’ di questo discorso, contribuendo a creare (anche con il
suo apporto clinico) le condizioni di base (motivazione…). Restano infatti pregiudiziali (a tutto) dei sentimenti di accettazione della malattia e una corretta elaborazione psicologica dei
problemi a essa collegati.
124
Nella mia esperienza, discorsi e suggestioni di questo tipo
hanno definito sempre più precisamente il ruolo e i mandati
professionali dello psicologo in Diabetologia.
Ma non solo dello psicologo: in tal caso si sarebbe trattato ancora una volta solo di una figura aggiunta.
Contestualmente, discorsi e suggestioni di questo tipo, dovrebbero orientare tutti gli operatori verso un certo approccio
professionale e istituzionale.
Per intercettare tutte le cose in gioco, infatti, bisognerebbe
privilegiare molto la collaborazione interdisciplinare e un approccio veramente integrato.
È probabile che ‘la presenza in sé’ nel Team di uno psicologo
‘ricordi’ sempre a tutti l’importanza contestuale di ogni presidio terapeutico (anche quelli non farmacologici) e che, conseguentemente, l’importanza assegnata anche ai presidi non
farmacologici, costituisca in sé un invito implicito a costruire
(attorno a essa) una forma-Servizio diversa da quella di Servizi
tradizionalmente impegnati solo su temi più classici.
Insomma, potrebbe anche accadere che, attraverso passaggi
di questo tipo, ‘dover fare i conti’ con una figura professionale
diversa possa qualche volta contribuire ad articolare un Servizio, la sua organizzazione, le sue offerte istituzionali.
Intervenire sul clima relazionale
La presenza di uno psicologo nel Team potrebbe anche, semplicemente, contribuire un po’ a equilibrarne le dinamiche interne.
Un disagio (pur soggettivo) può venire, anche in termini amicali, meglio accolto da chi è abituato a frequentarli (i disagi)
professionalmente.
Se poi il disagio soggettivo deriva dall’ambiente lavorativo i
margini di azione sono senz’altro maggiori: con lo psicologo
può essere più semplice individuare i gangli delicati del sistema relazionale, i nuclei ammalanti.
Lo psicologo può aiutare a superare i piani della pura e semplice reazione e orientare verso risposte che vadano maggiormente nel senso della soluzione dei problemi.
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Un contributo ancora maggiore può essere fornito nel caso si
tratti di aspetti disfunzionali di tipo organizzativo: la presenza
dello psicologo può garantire riunioni di Team più produttive
(in fondo si tratta pur sempre di gestire la comunicazione all’interno di un gruppo).
Nella mia esperienza, un contributo interessante è stato costituito dalla corroborazione ‘ideologica’ e psicologica della logica di sistema: dell’abituarsi a parlare (e organizzare risposte)
sempre in questi termini e mai in termini personali.
Una circostanza ricorrente è data dalla difficoltà di rapporto
con qualche operatore nuovo che può avere, nella fase iniziale, per diversa formazione o per diverse esperienze, codici
molto incoerenti con quelli del Team.
È concretamente accaduto che qualcuno rischiasse di farne
una questione personale, con reattività ostili. In una logica di
percorso e di processo e, mi è parso, anche grazie allo psicologo, si è arrivati a considerare che le difficoltà con un nuovo
membro del Team, non sono né di un singolo operatore né di
una categoria professionale.
Si tratta di un problema istituzionale del Servizio: è il Servizio
che deve codificare modalità e strumenti per l’accoglimento
del nuovo personale, manuali di orientamento, veri e propri
Protocolli di progressiva integrazione nelle logiche funzionali e organizzative.
Sentire un problema non più come personale ma come ‘di sistema’ decongestiona psicologicamente, libera dal peso-responsabilità delle esposizioni individuali.
Con il tempo possono essere apprese modalità quasi pedagogiche di comunicazione: ci si abitua a non discutere sul momento, poiché a ‘caldo’ si tende sempre a ‘difendersi’ e si fatica a focalizzarsi sui contenuti.
Ci si abitua a non riferirsi troppo allo specifico episodio che ha
riguardato un soggetto, traendone piuttosto insegnamenti da
fissare in riunioni di Team come principi-regola concordati e
che valgano per tutti.
Ci si abitua a distinguere laicamente la critica sugli oggetti da
126
quella sui soggetti, consentendo in tal modo a ognuno di ‘riscattarsi’, prendendo le distanze dall’oggetto criticato.
Ci si abitua, quando proprio un’obiezione deve svolgersi sul
momento, almeno a non svolgerla in pubblico, bensì in una
forma più riservata per evitare che il dato psicologico della
mortificazione pubblica opacizzi il dato sostanziale del contenuto dell’obiezione.
Ci si abitua a evitare i toni troppo forti che opacizzano i contenuti e spesso sono un indicatore di debolezza: si tenta di fissare le cose con le urla, proprio perché si teme di cedere sul
contenuto dopo cinque minuti. Un contenuto-messaggio forte della sua tenuta stabile e coerente nel tempo non ha alcun
bisogno di toni forti.
Sono cose che uno psicologo dovrebbe sapere bene, dato
che le ha già frequentate con riferimento ad altri sistemi (familiare, scolastico…), e sono quindi tra le cose che possono costituire un indotto della sua presenza nel Team, anche (soprattutto?) in diabetologia.
Brevi cenni sul ruolo di responsabile per la Qualità
All’interno del Servizio di diabetologia della Asl Salerno 2
svolgo il ruolo di responsabile per la Qualità. Assegnarne la
funzione delegata a uno psicologo ha significato da una parte rimandare il messaggio di una domanda non burocratica di
Qualità, collegando il miglioramento dei processi e l’umanizzazione del Servizio; dall’altra identificare la funzione dello psicologo come supporto a tutti i componenti del Team.
Ero il collega a disposizione di tutti, che dava una mano un po’
per tutte le cose, il collega depositario di tante diverse cognizioni, carte ecc.
In occasione di una visita per accreditare la Qualità del Servizio,
un ispettore che mi vedeva un po’ ‘condurre il gioco’ (essendo
io il responsabile per la Qualità), chiese scherzosamente ai colleghi medici come avesse fatto uno psicologo a metterli sotto.
Nessuno di noi se n’era mai accorto o aveva mai visto (o vissuto) le cose in quei termini: nella ‘psicologicità’ della relazio-
127
ne, avevamo del tutto dimenticato gli aspetti gerarchici; non
avevamo una percezione finalistica di ciò che accadeva a questo livello (si esercitavano leadership empiriche e gradite in
base alle centralità funzionali e ai contributi forniti alle cause comuni).
Questa centralità gradita (perché contestualmente alleviava i carichi di lavoro di ognuno) è stata utile per collegare tutti i segmenti funzionali, per ricondurre a un nucleo organizzativo centrale e dare una logica più strategica al Servizio nel suo insieme.
È stata utile ancora di più, tuttavia, a un altro livello: ha fatto
entrare bene nel Servizio lo psicologo. La Qualità mi ha consentito di conoscere a livello interpersonale ogni collega. E
ogni collega ha conosciuto me, come persona e professionalmente: quando abbiamo cominciato a collaborare sui piani
clinici, c’era già un rapporto di fiducia e di stima.
Ci si poteva fidare degli psicologi se avevano quel senso del
lavoro, dell’ascoltare e dell’aiutare: la Qualità ha creato nei
fatti la relazione interdisciplinare, prima ancora che ci si interrogasse su di essa, sui suoi significati e la sua economicità.
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Il contributo
dello psicologo nelle attività
di educazione al paziente
Nell’assistenza alla persona con diabete l’aspetto dell’educazione è di importanza preponderante. Anche per quanto riguarda gli aspetti formativi, uno psicologo può aiutare a costruire più occasioni educazionali (in seguito ce ne sono degli esempi), oppure occasioni educazionali ‘più psicologiche’
(‘accompagnando’ le comunicazioni didattiche di altre figure professionali, per esempio la dietista nei corsi di dietoterapia), ma soprattutto può provare a informare ideologicamente di educazionalità il Servizio.
Ogni giorno il paziente dovrebbe avvertire un certo ‘clima’,
dalla sala d’aspetto (con tanti materiali educativi e documenti di facilitazione), all’organizzazione (con tante attività ‘oltre
l’ambulatorio’), dagli atteggiamenti del Team alla relazione
con il singolo operatore.
Informare ‘ideologicamente’ di educazionalità significa che, riguardo alle cose introdotte, lo psicologo può ‘mettersi in mezzo’ e puntellare (materiali, ‘bacheca’…), dare una mano (individuare i target, ‘campionare’…), organizzare gli incontri, farsi venire idee, ecc.
Ma, prima ancora, lo psicologo può contribuire a tenere alta la
temperatura educazionale, veramente dal punto di vista ideologico, per impedire che gli eventi educazionali diventino solo
un automatismo istituzionale, senza cuore, qualcosa di stereotipato e routinario.
Credo che lo psicologo debba recuperare ogni volta l’anima,
il senso e il tono termico dell’educazione e corroborare ogni
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volta le motivazioni, rilanciando tutti i discorsi sui suoi perché
e sui suoi per come.
Un medico, per capire, deve ascoltare, perché non conta solo
quale malattia ha quella persona, ma anche quale persona ha
quella malattia.
La collaboratività del paziente, importante per il buon esito
d’ogni percorso terapeutico, lo è particolarmente nel caso
delle malattie metaboliche e croniche che lo espongono a un
impegno diretto ‘sul fronte’ stile di vita.
Tale impegno può tanto più svolgersi con proprietà quanto
più il paziente si sente alleato con il proprio medico, fino a
prefigurarsi come un suo fidato agente terapeutico.
I mandati operativi che il medico dà al suo agente possono
essere poi di vario tipo, legati a cose da fare o da non fare,
riguardanti sia la terapia strumentale (corretta autosomministrazione insulinica) sia il terapeutico stile di vita, una corretta
profilassi esistenziale.
Ecco descritta, in poche ovvie parole, l’essenzialità dell’educazione.
La base sentimentale-motivazionale dell’educazione è fondamentale per non rischiare che essa sia relegata solo in eventi formali.
A questo livello è importante lo psicologo, sia per il suo lavoro
rivolto al paziente che per quello rivolto al Team.
Altrimenti si rischia che il singolo operatore celebri l’educazione negli eventi educazionali e poi la eluda nell’ambulatorio e
nelle strategie terapeutiche rivolte al singolo paziente.
Tutti sanno quali sono i modi tradizionali di fare educazione
nei Servizi di diabetologia.
Può essere importante tuttavia provare a capitalizzare anche
le eventuali ricadute educazionali di eventi non finalisticamente previsti in tal senso.
Per un paziente cronico, spesso esposto al rischio di umori
astenici, può essere importante, infatti, fare belle cose, farle
assieme agli altri, vivere situazioni stimolanti, esplorative, di-
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vertenti. Uscire di casa, incontrare persone, stare bene può
essere utile anche se e quando non c’è niente da imparare
(ammesso che possa esistere una circostanza di vita da cui sia
possibile non apprendere niente e non ricavare esperienza).
In collaborazione con le Associazioni di pazienti, si possono
fornire molti pretesti (organizzare eventi un po’ ‘fuori protocollo’) utili per migliorare la socializzazione, l’autostima e il
tono dell’umore delle persone con diabete.
Nella mia esperienza, hanno ben ‘funzionato’ delle feste etniche, in cui si sono esplorati i cibi, le musiche e le danze delle
etnie di appartenenza dei pazienti stranieri.
Hanno ben funzionato le mostre di pittura, scultura, fotografia,
di pazienti con talenti artistici. (Per inciso, si riscontrano molto
spesso sensibilità artistiche tra i pazienti diabetici).
Queste attività un po’ al limite dell’ambito istituzionale, per alcune loro ricadute, meritavano almeno un’evocazione in un discorso sui come dell’Educazione terapeutica.
Per quanto riguarda gli argomenti, l’intervento più decisivo
e complesso riguarda lo stile di vita, tutti quegli aspetti che il
paziente gestisce autonomamente e lontano dal Team, e su
cui, proprio per questo, il paziente stesso ha più bisogno di
essere educato.
Educare a un corretto stile di vita, dunque, può rendere il paziente un agente terapeutico del dottore, un protagonista del
progetto terapeutico: ma quali sono gli argomenti educazionali che nel loro insieme ‘fanno’ lo stile di vita?
Nella mia esperienza gli argomenti su cui educare, inerenti allo stile di vita, che maggiormente impattano il paziente
diabetico, sono tre:
gli aspetti psicologici;
l’esercizio fisico;
l’educazione alimentare.
‘L’educazione’ su tali argomenti andrebbe riferita sia alle situazioni ‘standard’ sia a quelle non ordinarie (imprevisti, viaggi ecc.).
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Due versanti educativi concettualmente semplici (ma complessi da mettere in atto) riguardano:
l’addestramento (all’autocontrollo glicemico e all’autosomministrazione insulinica);
l’informazione circa un corretto rapporto istituzionale con il
Servizio (come calendarizzare gli esami di laboratorio, le visite specialistiche e così via…).
L’addestramento non è educazione
Questa impostazione può apparire un po’ inconsueta in alcuni suoi aspetti.
A lungo, in diabetologia, l’educazione è stata riferita infatti,
quasi esclusivamente all’addestramento strumentale, fino a
diventarne (quasi) un sinonimo.
Si tratta in realtà di due aspetti diversi. ‘Diventare pratici’ nell’uso della penna o del lettore della glicemia è difficile ed è
importantissimo come ‘far evolvere le abitudini’ del paziente.
Ma non è la stessa cosa: quando si parla di dieta o di esercizio fisico non s’insegna una tecnica, ma si attiva un autentico
(e complesso) processo educativo.
Per questo motivo, ho distinto l’educazione dall’addestramento.
Una malattia dell’umore?
Non è consueto nemmeno l’ordine di priorità dei temi oggetto di educazione. Io credo che ricadano sulla glicemia, parlando di stile di vita, soprattutto gli umori, poi l’esercizio fisico e
il rapporto col cibo.
Gli aspetti psicologici implicati nel diabete sono evocati ogni
volta che si riflette sulla dimensione psicologica del paziente
diabetico:
sono importanti probabilmente già per quanto riguarda i
modi e i tempi dell’insorgenza della malattia;
incidono nel modo del paziente di accettare e vivere la malattia, con ricadute sulla sua gestione, in particolare quando
si tratta di bambini e adolescenti;
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intervengono, come in altre malattie croniche, nei diversi
modi di elaborare le eventuali inabilità legate a essa, alle
sue complicanze, e alla gestione della sua terapia;
intervengono direttamente nello sbilanciamento del valore
glicemico e pressorio;
determinano il tipo di rapporto con il cibo, e questo rende
importante la collaborazione dello psicologo nel caso di pazienti obesi, o nel caso di adolescenti con disturbi del comportamento alimentare.
Questi punti psicologici possono essere trattati sia nella loro
portata clinica sia in quella educazionale. La riflessione educazionale implica, ovviamente, un altro punto di vista.
È possibile lavorare in termini educazionali sul tono dell’umore così come facciamo con altri aspetti dello stile di vita del
paziente? Si potrebbe, intanto, fare un lavoro educazionale
iniziale per segnalare al paziente diabetico l’importanza del
tono dell’umore: già questo potrebbe indurre maggiori cautele e vigilanze su questi versanti.
È possibile aiutare il paziente a individuare i fattori e le modalità di relazione che sono potenzialmente fonte di stress emotivo. Questo avviene già nella ‘riabilitazione’ dei pazienti infartuati. In alcuni contesti, si insegna a mettere sempre un po’ di
distanza tra sé e i conflitti, i rischi d’esposizione stressogena: a
dare un po’ meno importanza alle cose, e a non fare una malattia di tutto.
Un altro lavoro educazionale potrebbe consentire l’individuazione degli atteggiamenti più sani e produttivi nei confronti
della malattia.
La maturazione di questi atteggiamenti (e l’elaborazione dei
conflitti) può avvenire solo in una relazione clinica psicologica
individuale. La loro individuazione, però, può benissimo essere materia educazionale nei gruppi.
Questo è quanto io ho sempre cercato di fare, segnalando
sistematicamente che, tra l’elusione dei fattori psicologici e
il loro rimando alla clinica specialistica, c’è tutto un mondo
(educazionale) in mezzo, che potrebbe essere maggiormente
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svolto nei Servizi di diabetologia, con un lavoro educazionale
possibile anche sugli aspetti psicologici.
L’esercizio fisico
Devo ammettere che, pur essendo l’esercizio fisico uno dei
vertici del discorso, quando si parla di stile di vita della persona con diabete, non mi ha molto esposto professionalmente come psicologo. Lo psicologo può aiutare, però, medico e
paziente, a considerare che l’esercizio fisico può essere bene
e a lungo praticato, quanto più si sgancia concettualmente
dalla prescrizione triste e dal ricatto terapeutico, e va a incontrare il soggetto, la persona paziente e il suo progetto esistenziale: non più solo la privazione e il sacrificio, il rito e il sudore
dunque, bensì anche il colore e il divertimento, la socializzazione, il rinnovamento della propria immagine.
Come la dieta, anche l’esercizio fisico potrà essere più sostenuto se è reso più sostenibile nel modo in cui è presentato e
organizzato, se tiene conto e ‘incontra’ in modo più coerente un progetto naturale e personale, per esempio di salutismo
e cura di sé, ringiovanimento dell’immagine, conquista di una
maggiore leggerezza e tonicità, di una migliore forma fisica.
L’esercizio fisico, diventato qualcosa di piacevole e complessivo, un nucleo della ridefinizione dei propri tempi e dei propri hobby, qualcosa di socializzato e divertente, è più probabile che costituisca un’esperienza duratura, come una sorta di
nuova filosofia di vita.
Nella mia esperienza l’esercizio fisico praticato in gruppo si è
fatto preferire: il contesto relazionale può, infatti, corroborare
la motivazione e rendere l’esperienza più leggera. Oltre a fare
spesso bene in sé (per un insieme di ovvi motivi psicologici), la
socializzazione può avere benefiche ricadute sull’esercizio fisico: nel gruppo può esserci più condivisione, sostegno, ma si
riscontra anche, in genere, uno svolgimento più appropriato e
produttivo degli aspetti educazionali.
Anche a tale riguardo, la mia esperienza ha suggerito una certa funzionalità della mediazione-corroborazione psicologica.
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L’alimentazione
Questo argomento dovrebbe esporre maggiormente la figura professionale dello psicologo. Implicare l’aspetto psicologico, infatti, nel caso della dieta può andare a descrivere un
approccio più complessivo alla questione, addirittura in termini di Protocolli.
Il medico e la dietista hanno la possibilità di essere (e di sentirsi) meno soli: ogni volta che una dieta segna il passo, possono
sollecitare un lavoro a un altro livello confortati dal sapere che,
con uno psicologo nel Team, tale lavoro è svolgibile, in una logica interdisciplinare, all’interno dello stesso Servizio.
Con lo psicologo accanto, il medico ha la possibilità di aggiungere valenze pedagogiche e psicologiche alla propria relazione professionale: oltre a stare sugli argomenti in oggetto,
potrà più facilmente intercettare anche i soggetti, le persone,
la loro vita, le loro difficoltà.
Introdurre la prospettiva Empowerment con un paziente obeso difficile, in fondo significa anche questo, forse soprattutto questo: partire non dall’oggetto-dieta, bensì dal soggetto-paziente.
Potrebbero valere, a questo livello, molte di quelle riflessioni
sulla contestualizzazione del presidio terapeutico, già svolte a
proposito dell’esercizio fisico.
Un’adeguata conoscenza del soggetto paziente potrebbe ancora una volta mirare meglio il passaggio da una prescrizione
esterna a un’intenzione-progetto personale, nel senso già indicato a proposito dell’esercizio fisico.
La conoscenza del soggetto potrebbe anche consentire di
meglio riferire la dieta a quelle risorse personali più utilizzabili caso per caso come molla terapeutica, come ‘gambe’ del
processo: se non si conosce bene il paziente, come si fa a sapere qual è, da questo punto di vista, l’approccio più efficace nel suo caso?
Là dove si organizzano corsi per gruppi di pazienti, lo psicologo (così è accaduto nella mia esperienza) potrebbe integrare
ogni incontro previsto con una parte accessoria più vicina alle
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sue competenze: aspetti psicologici, relazionali, antropologici, culturali e sociali del rapporto con il cibo.
I Campi scuola
Nella vita la situazione non ordinaria più ricorrente è quella
del viaggio, tanto meno ordinaria quanto più si tratta di una
partenza improvvisa, non prevista.
Il mio Servizio di diabetologia organizza Campi scuola (per i
giovani pazienti tipo 1) e le Vacanze assistite (per i pazienti anziani tipo 2) fondamentalmente come contesto ideale per delle comunicazioni educazionali su specifici temi. Si tratta però
di occasioni implicitamente educazionali anche riguardo alle
‘situazioni non ordinarie’.
Con il giovane diabetico, quando lo stesso non ha maturato
ancora sentimenti di accettazione della malattia, la presenza di
uno psicologo nel Team potrebbe aiutare la riflessione, caso
per caso, sulla strategicità dei tempi, nel modulare il lavoro
educazionale rispetto a quello strettamente clinico e viceversa.
La presenza dello psicologo potrebbe rendere più mirato il
reclutamento dei pazienti per ogni evento educazionale scegliendo quelli nelle condizioni complessive (con riferimento al
punto in cui stanno rispetto alla loro malattia) più adeguate ai
fini della produttività dell’evento stesso.
È importante che ci sia uno psicologo perché, stando l’intero
giorno tutti assieme, emergono moltissimo gli aspetti psicologici di ognuno dei soggetti coinvolti, e si tratta di dati-report
veramente utili.
Durante il Campo, si può conoscere meglio il dietro le quinte
dei pazienti, tanti aspetti che non sono mai fatti emergere nello scambio ambulatoriale, sempre un po’ tattico, difensivo…
Molte difficoltà del vivere con il diabete, molte ricadute sugli
umori, molte piccole e grandi ansie, nell’ambulatorio neanche
si immaginano...
Si tratta di disagi che il paziente, però, ha più difficoltà a tenere nascosti se è ‘esposto’ 24 ore su 24.
Nei Campi si può scoprire per esempio che, a livello quoti-
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diano, sulla psicologia del diabetico non ricadono solo l’ipo o
l’iperglicemia, la paura dell’una e dell’altra.
Il diabetico (reso ipersensibile dalla propria condizione) può
avvertire tutta una gamma di alterazioni ‘mediane’, con molte conseguenti variazioni di umore, molte piccole ansie, molti
piccoli allarmi, molte insicurezze…
Nella mia esperienza, la figura dello psicologo è stata spendibile, riguardo al Campo, sia direttamente nell’esperienza sia
nei preliminari aspetti organizzativi.
A questo secondo livello, infatti, pensando per esempio alla
fase del reclutamento, lo psicologo può valutare una domanda psicologica di esplorazione-socializzazione, sia quando è
espressa (voglio partecipare) sia quando è inespressa (a questa paziente, particolarmente introversa e timida, farebbe proprio bene partecipare).
L’addestramento all’uso degli strumenti
È ovvio che lo psicologo è molto più esposto nell’educazione rispetto a quanto lo sia nell’addestramento. Uno psicologo non entrerà mai, ovviamente, nel merito tecnico dell’addestramento.
Un contributo potrebbe offrirlo, però, integrando per esempio, con qualche spunto molto psicologistico quelle riflessioni generali che, sia riguardo all’autocontrollo glicemico sia riguardo all’autosomministrazione insulinica, non a caso negli
ultimi anni sono diventate molto più articolate e strategiche.
Uno psicologo nel Team potrebbe contribuire alla ‘vigilanza’
affinché un autocontrollo indotto come consumo e privo di
contestualizzazione educazionale non esponga il paziente al
rischio di ossessività autodiagnostiche, con esasperata attenzione tutta sul numero, e percorsi che non sono per nulla né
d’autonomia né d’emancipazione.
Allo stesso modo potrebbe contribuire alla vigilanza, affinché
un’emancipazione troppo precoce del bambino diabetico
non sia finalizzata solo a una sbrigativa risoluzione dell’eventuale stato di conflitto nella sua relazione con i genitori.
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Il rapporto istituzionale con il Servizio
Il rapporto istituzionale con il Servizio può rientrare anch’esso tra i temi educazionali, e può esporre professionalmente lo
psicologo se, per esempio, come nella mia esperienza, è toccato per vari anni proprio allo psicologo il primo colloquio di
accoglienza del paziente nuovo e l’illustrazione delle istruzioni per il corretto uso dei servizi offerti.
Un modo di rendere più psicologico e umano il primo impatto
istituzionale, spendendo una figura più ‘free’ (meno ‘ambulatorializzata’), con una visione più complessiva e strategica dell’offerta professionale e con maggiore competenza in fatto di
linguaggio, comunicazione e toni termici.
È evidente che, se ci si muove in questa direzione, è perché si
ritiene che non sia in gioco solo un’istruzione metodologica,
bensì un rapporto e il suo imprinting, il suo momento più delicato. Non significa solo sapere cosa fare, e non si tratta solo
di farlo (anche se già questo sarebbe molto importante) ma di
capirne e condividerne il senso.
Allo stesso modo, qualche introduzione e qualche passaggio
di tipo psicologico e motivazionale potrebbero aiutare una
comprensione e un utilizzo più corretto di tutti i Documenti di
facilitazione, in primis della Carta dei servizi.
Tali documenti potrebbero non essere più solo delle mediazioni burocratiche, bensì istruzioni d’uso veramente utili e partecipate.
In particolare, la Carta dei servizi, la più bella e concreta descrizione di un corretto rapporto istituzionale con il Servizio,
è uno strumento educazionale suscettibile di molti miglioramenti sul versante tecnico della comunicazione da un lato, ma
anche su quello della sua psicologicità (della comunicazione).
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Conclusioni: lo psicologo,
se lo conosci, non lo eviti
Se in astratto si possono temere resistenze all’inserimento
nel Team di una figura professionale non ancora consueta
in diabetologia, nella realtà concreta la situazione che si viene a creare, per quanto nuova, è molto meno problematica
di quello che si potrebbe ipotizzare. Soprattutto là dove vi è
un commitment preciso da parte del responsabile del servizio
che si traduce nella creazione di occasioni molteplici di incontro e di suppporto da parte dello psicologo. Lo psicologo, se
lo conosci, di norma non lo eviti: le riserve di carattere teorico
sono superate da contributi pratici.
Un’altra cosa tutta da verificare, quando la presenza di uno
psicologo nei Team diabetologici sarà più massiva, è lo spazio
che potranno avere i suoi oggetti professionali.
Avrà possibilità di svilupparsi un discorso scientifico, pubblicistico ecc. riguardo alla dimensione psicologica del paziente
diabetico, e avrà un suo ‘mercato’?
Quando saranno tanti gli psicologi in diabetologia sarà pensabile
la strutturazione di un discorso clinicoscientifico in tal senso?
Contributi istituzionali e clinici
L’utilità di uno psicologo nel Team diabetologico credo possa
essere riassumibile in tre ordini di contributi: quelli istituzionali, quelli clinici e quelli educazionali.
I contributi istituzionali, se lo psicologo non è solo una figura
professionale aggiunta, bensì un linguaggio che integra e arricchisce gli altri, non possono che essere costituiti dai proces-
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si di umanizzazione del Servizio, dal progressivo miglioramento dei climi relazionali (operatore-operatore e operatore-paziente), dal tono termico del Servizio, dalla sua cifra più complessa ed evoluta. I contributi clinici evocano immediatamente il sostegno psicologico ai familiari dei bambini tipo 1 appena diagnosticati, ai pazienti impegnati in una dieta, a quelli segnati psicologicamente dalle difficoltà di elaborazione della
condizione diabetica (la cronicità, le complicanze…).
Contributi educazionali
I contributi educazionali fanno subito pensare a una comunicazione educazionale tanto più produttiva quanto più ‘psicologica’. I linguaggi professionali dello psicologo potrebbero,
infatti, rendere educazionali-motivazionali anche circostanze ordinarie di comunicazione istituzionale (una Carta servizi
scritta in un determinato modo, un certo tipo di coinvolgimento istituzionale, un certo approccio nella spiegazione dell’importanza di una frequenza più puntuale, l’accompagnamento
dei ragazzi ai Campi scuola con la possibilità di una più equilibrata tenuta del gruppo).
Avendo uno psicologo nel Team, inoltre, ci si garantisce una
figura professionale più free (meno ‘schiacciata’ nell’ambulatorio) e quindi più spendibile in tante altre cose che potrebbero mancare o non essere svolte al massimo, proprio perché
nessuno ha mai tempo: molti aspetti di raccordo organizzativo e di comunicazione sia interna sia rivolta all’esterno, l’attenzione all’‘umanità’ dei percorsi, della segnaletica, della bacheca, i rapporti con gli altri Servizi, con l’Associazione pazienti,
con il Territorio.
I vantaggi di una soluzione strutturata
Il bisogno istituzionale dello psicologo nel Team potrebbe essere facilmente misurabile: basterebbe contare quante volte
si pensa che un paziente ne abbia bisogno, quante volte si è
costretti a demandare a uno psicologo esterno, quante volte
non si è soddisfatti dell’esito clinico del suddetto invio.
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E questo introduce già di per sé i vantaggi di una soluzione
strutturata.
Solo uno psicologo strutturato infatti può avere interesse a
integrarsi, a entrare nei gangli funzionali e nello spirito di un
Servizio, a lasciarsi coinvolgere in tutti i suoi aspetti (umanizzazione, educazione…) e non soltanto nella prestazione clinicoambulatoriale richiesta.
Uno psicologo non strutturato, inoltre, impegnato in tante diverse discipline, non ha superato alcun vaglio motivazionale
nei confronti della diabetologia: non c’è alcuna garanzia che
ne approfondisca i termini tecnici e maturi una competenza
organica nel settore.
Una generazione di psicologi strutturati diverrebbe presto
una generazione di psicologi specializzati riguardo alla dimensione psicologica del paziente diabetico, ai suoi specifici nuclei conflittuali. Potrebbe di conseguenza garantire più
produttività anche sul piano clinico. E in più potrebbe cominciare a fissare i termini teorici della psicologia applicata a questo settore.
Dell’esperienza di uno psicologo distaccato per poche ore a
settimana, è difficile che possa rimanere qualcosa a questo livello, che possano restare tracce importanti.
Non è una differenza da poco: allo psicologo ‘di passaggio’ si
può chiedere solo l’effettuazione di pochi colloqui per qualche paziente che ne ha bisogno.
Allo psicologo strutturato si può chiedere un impegno clinico
e scientifico in un nuovo e intrigante settore.
Questo potrebbe essere un buon motivo per preferire sempre, quando possibile, uno psicologo strutturato, anche se
questo dovesse avere un suo costo (a parte di budget): dovere investire comunque un impegno nel doversi confrontare con un’altra figura professionale, nel processo di integrazione nel Team, nella riconsiderazione dell’assetto organizzativo e funzionale, nel dover ridiscutere alcuni termini dell’assistenza e forse rivedere alcuni dei Protocolli di riferimento in
tal senso.
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La scommessa è costituita dal dimostrare, in questi anni, che
il suddetto costo è, a ogni modo, superato notevolmente dai
benefici, e che l’investimento è veramente fruttuoso.
Le alternative formali di collaborazione
Lo psicologo strutturato è una frontiera ancora pionieristica: la
stessa diabetologia si sta ancora istituzionalmente sagomando e, nella maggior parte dei casi, è prevista come semplice
ambulatorio presso qualche reparto ospedaliero di Medicina,
da cui gli stessi diabetologi sono in distacco orario.
Dunque, bisognerebbe pensare in prospettiva a una diabetologia che diventa Servizio, magari territoriale, con la possibilità di integrare diverse figure professionali nel Team, compreso eventualmente lo psicologo.
Solo a quel punto, ci si potrebbe porre la questione ‘raffinata’ del prevederlo ‘strutturato’ piuttosto che ‘distaccato’, contemplandolo nelle Piante organiche e attivando gli istituti giuridico-amministrativi del caso (Concorsi, Avvisi Pubblici ecc.).
Si tratta di una prospettiva remota e pindarica, anche in considerazione dei tagli alla Sanità e dell’attuale impostazione dei
Piani regionali.
Dobbiamo riflettere quindi sui sottordini e su come capitalizzare al massimo ciò che è possibile fare ‘qui e adesso’.
Là dove è possibile, per esempio, avere uno psicologo distaccato per un cospicuo numero di ore, è intanto importante che
esse non siano destinate tutte alla clinica ambulatoriale. L’ambulatorio, infatti, è un piccolo oblò che non consente in sé di
cogliere gli intrighi e le opportunità professionali di un’esperienza in diabetologia.
Lo psicologo rischierebbe quindi di essere uno dei tanti consulenti specialistici che rispondono solo al loro responsabile di
specialistica ambulatoriale e non maturano mai alcuna sensibilità nei confronti della problematicità organizzativa del Servizio e degli eventuali disagi dei pazienti: il Servizio non diventerebbe mai una ‘causa’ che lo riguarda.
Al contrario, qualora lo psicologo partecipasse a qualche riu-
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nione di Team, fosse coinvolto in qualche viaggio (un’opportunità formativa o qualche Campo), potrebbe cominciare a considerare che l’impegno in Diabetologia è particolarmente ripagante: quanti altri Servizi offrono, allo stesso modo, la possibilità di tenere gruppi, di organizzare eventi educazionali ecc.?
È importante dunque lo ‘spirito’ del distacco orario dello psicologo: non lo psicologo che serve per i colloqui, bensì lo psicologo utile non solo per i pazienti ma anche per il Servizio,
per il Team.
Da questo punto di vista, viene da sé che, per tutti i richiamati
motivi di integrazione e organicità, sarebbe importante (qualora si potesse scegliere) ‘distaccare’ sempre lo stesso psicologo. Sciatte e indifferenziate rotazioni non motiverebbero,
non farebbero maturare competenza e tradirebbero intenzioni non rigorose sia nel Servizio che chiede il distacco sia nell’Ufficio che lo assegna in questi termini. Significherebbe pensare solo a un distacco e non a un ‘discorso’, a una logica di
percorso istituzionale.
A un distacco che non costruisce prospettive forse sarebbe
preferibile addirittura qualche soluzione più precaria formalmente, ma più organica nella sostanza professionale: una collaborazione temporanea o una forma di convenzione garantirebbero infatti che, per quel dato tempo, lo psicologo potrebbe essere veramente presente per tutto il tempo, entrare nel
merito delle questioni, produrre cose capitalizzabili, lasciare
tracce più profonde.
In tal modo, si strutturerebbe una domanda che esporrebbe
in modo più tangibile e incalzante alla responsabilità di organizzare, in momenti successivi, delle risposte istituzionali e un
giorno, chissà, perfino normative.
Gran parte di quanto appena detto può valere anche per le
esperienze di volontariato o di tirocinio. Si tratta però di esperienze con due limiti: la relativa esperienza dello psicologo (il
paziente diabetico è un paziente complesso) e il conseguente limite giuridico allo svolgimento di molte prestazioni professionali.
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Il volontariato o il tirocinio possono costituire delle possibilità accessorie, particolarmente adatte al fine di appassionare
giovani psicologi alla materia. Si tratta di quadri professionali
spendibili in prospettiva, ma molto importanti già da subito al
fine della promozione anche culturale della ‘causa’ (lo psicologo nel Team diabetologico).
Una soluzione molto appropriata, in mancanza di una strutturazione dello psicologo in diabetologia, potrebbe essere
costituita da una Borsa di studio o di lavoro, finanziata dall’Azienda Sanitaria (non si tratta di un grande esborso), o da
qualche soggetto (pubblico o privato) sollecitato dall’Associazione pazienti o dal Servizio.
Il fatto che un tale progetto abbia un costo, già di per sé è un
indicatore riguardo alla serietà della motivazione del proponente. Inoltre una Borsa di studio o di lavoro può essere modulata su tempi diversi, su esigenze e obiettivi specifici, può
essere rinnovabile nel tempo, consente di valutare il grado di
qualificazione tecnico-professionale dello psicologo.
Si tratta insomma di una soluzione particolarmente adatta al
fine di costruire percorsi. Può accadere, infatti, che proprio
per le competenze maturate nel corso dell’esperienza, il borsista si ritrovi ad avere titoli professionali molto competitivi
che gli consentono di tornare nel Servizio di diabetologia anche in altre successive occasioni. Il borsista stesso quindi, interessato dalla materia, ha la possibilità di organizzare nel tempo un proprio discorso professionale nella diabetologia, con
collaborazioni dalla sempre più probante formalizzazione.
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00042001100 0407
P. Gentili, P. Di Berardino, C. Parmentola
L’approccio psicologico nel diabete
Nella formazione del personale medico gli aspetti psicologici giocano un ruolo di secondo piano. Eppure l’aspetto
motivazionale, cognitivo e relazionale è centrale nell’assistenza alla persona con diabete.
Quale apporto può dare la Psicologia nell’attività del Team
diabetologico? Questo libro affronta tre dei possibili aspetti. Nella prima parte Paolo Gentili, psichiatra e psicoterapeuta, traccia un’analisi psicologica del contesto nel quale
si svolge l’incontro fra paziente e medico.
Nella seconda parte Paolo Di Berardino, specializzato in
Medicina interna e Psicologia clinica, traccia alcune tra
le direzioni di ricerca della Psicologia che più possono
interessare il diabetologo, consigliando testi e studi di
particolare rilievo.
La molteplicità di ruoli che lo psicologo può svolgere nel
Team diabetologico è l’aspetto esaminato nella terza parte
del libro da Catello Parmentola, psicologo strutturato presso il Team diabetologico della Asl di Salerno.
P. Gentili, P. Di Berardino, C. Parmentola
L’approccio psicologico
nel diabete
Il dialogo, le teorie, l’esperienza
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