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aspetti psicologico-clinici in odontoiatria
NOTA INFORMATIVA: Il presente saggio è stato presentato quale relazione nell’ambito del “I Encuentro Cuba-Italia”, Universidad de La Habana, Ministerio de Salud Pública, Dirección Nacional de Estomatología, APOR (Associazione di Parodontologia e Odontoiatria Riabilitativa), La Habana, Cuba, 5-8 ottobre 1998. Published in www.anthropos-web.it 2007. Published in www.anthropos1987.org 2009. ASPETTI PSICOLOGICO-CLINICI IN ODONTOIATRIA Luciano Peirone Elena Gerardi PSYCHOCLINICAL ASPECTS IN DENTISTRY Summary: The paper discusses the convergences between clinical psychology and dentistry. As “border science” and “soft science”, psychology can cross the traditional discipline fences. The states of anxiety/depression/distress/burnout and the neurotic/psychotic/borderline syndromes are focused in their connections with dental patient. Finally, some suggestions for elementary diagnosis/treatment/management are provided. 1. La psicologia: disciplina di frontiera e di interfaccia In quanto scienza della soggettività, la psicologia presenta alcune caratteristiche che la rendono importante sotto un particolare profilo metodologico: quello relativo al rapporto fra le varie discipline. Utilizzando la propria qualità di disciplina “soft”, la psicologia possiede una duttilità, una flessibilità, che le permettono di essere eclettica nonché di cucire fra loro settori e modelli differenti, per cui la sua struttura concettuale le permette di giocare un ruolo di “metodo integrativo”, in grado di superare i tradizionali steccati che separano le differenti discipline. La psicologia può pertanto porsi quale disciplina di frontiera che travalica le frontiere: la sua azione di “interfaccia” avviene mediante un approccio trans-versale che tiene conto dei confini per superarli. La psicologia è in definitiva una tipica disciplina di “movimento”. 2. Introduzione alla convergenza fra psicologia clinica e odontoiatria, nella diagnosi e nel trattamento La medicina è una scienza “dura”; la psicologia è una scienza “morbida”. Spostando leggermente il punto di vista, si può dire che la medicina è una scienza “forte”, mentre la psicologia è una scienza “debole”. In ogni caso, è possibile far incontrare una scienza “dura e forte” con una scienza “morbida e debole”. Medicina e psicologia possono pertanto convergere, e - al loro interno possono convergere odontoiatria e psicologia clinica. Queste due sottodiscipline possono collaborare in quanto possiedono l’approccio clinico quale terreno comune: in dettaglio, è nella diagnostica patologica e nella metodica terapeutica che esse possono fondersi. D’altra parte, ogni paziente possiede sempre un soma ed una psiche. L’approccio olistico è quindi “obbligato” quale metodica di fondo. Nella fattispecie, il paziente odontoiatrico è sì un corpo, ma anche un’anima. E quest’ultima si evidenzia - fra l’altro - nella cooperazione/collaborazione/alleanza contrapposta 1 alla riluttanza/resistenza. Come pure si evidenzia in una serie di problematiche di piccola o grande “clinica psicologica” che anche il medico dentista e l’odontoiatra si trovano non di rado a dover gestire. In definitiva, più in generale, sapere con chi si ha a che fare sotto il profilo umanoesistenziale è un’esigenza sempre più sentita in vari settori professionali, indipendentemente dall’oggetto specifico su cui si interviene e dal bene/servizio che viene prodotto/erogato. 3. Il problema degli stati ansiosi L’ansia è l’emozione - e talvolta anche la dimensione patologica - che più di frequente si riscontra nel settore odontoiatrico, anche perché essa risulta diffusissima in tutta la popolazione (clinica e non, odontoiatrica e non). Conoscere e gestire l’ansia diventa allora per il dentista un compito pressoché quotidiano: si pensi soltanto a quanto rilevante essa sia in certi soggetti in età evolutiva o di sesso femminile. Strumenti diagnostici elementari sono disponibili al bisogno, quali alcuni tests psicologici: ad es., l’ASQ (Scala d’Ansia IPAT), il TAI (Test Anxiety Inventory), il Questionario Scala d’Ansia per l’Età Evolutiva, la Scala per la Misura della Fragilità Emotiva, il POMS (Profile of Mood States), etc. Strumenti terapeutici elementari - finalizzati soprattutto all’allentamento della tensione emozionale - sono alla portata dell’operatore, soprattutto se quest’ultimo sa “giocare” bene la propria personalità. 4. Il problema degli stati depressivi La tendenza depressiva è l’altra grande componente - oltre a quella ansiosa - della personalità umana. Essa diventa particolarmente rilevante nei compiti da eseguire, in quanto il soggetto risulta più o meno “frenato” a seconda dell’entità di tale condizione psichica. E’ importante rilevare che, mentre il paziente ansioso-angosciato risulta caratterizzato da una psiche in “movimento negativo”, il paziente depressivo risulta caratterizzato da una psiche in “stasi negativa”, per cui - nell’uscire dal malessere - il primo va “orientato e frenato” mentre il secondo va “spinto e stimolato”. Dal punto di vista psicodiagnostico si hanno agili strumenti, come ad es. il CDQ (Scala di Depressione IPAT), il CDI ( Children’s Depression Inventory), il CES-D, etc. Ovviamente, la gestione della emozione depressiva risulta più impegnativa rispetto a quella ansiosa, anche perché di solito essa è più profonda e maggiormente stratificata, quindi con una componente cronica decisamente più accentuata. 5. Il problema dello stress/distress e del burnout Strettamente affine all’ansia si trova lo stress, a proposito del quale è doverosa una importante distinzione: esistono stimoli benigni e produttivi (che portano all’eustress) ed esistono stimoli maligni ed improduttivi (che portano al distress). E’ proprio in questa seconda direzione che si collocano tantissimi problemi della quotidianità moderna, che ovviamente si riversano in mille rivoletti problematici, per cui praticamente non esiste area esistenziale immune da questo sottile ma pericoloso flagello. Immediatamente accanto si colloca il burnout (letteralmente “bruciato”, metaforicamente “fuso”), fenomeno che consiste in una commistione di emozioni ansiose, in atto da tempo, in situazione di difficile via d’uscita, con un “consumarsi agitato” che rende il soggetto fragile e nevrotico. 2 Distress e burnout sono spesso all’origine (talvolta costituendo però solo la parte terminale di sindromi psiconevrotiche ben più antiche) di quel particolare problema psicosomatico e dentistico chiamato bruxismo. Lo stress cattivo ed il burnout sono quindi, a lungo andare, due fattori di potente (anche se poco visibile) destabilizzazione dell’equilibrio psicosomatico, i quali in particolare producono défaillances mentali (sul piano cognitivo-intellettivo) che a loro volta ricadono con effetti negativi sulle relazioni interpersonali. E, ancora una volta, risulta minata la capacità di ottimizzare la collaboratività del paziente, il quale va “ripescato” con interventi adeguati, a partire da valutazioni diagnostiche realizzate mediante facili tests quali la Scala di Paykel per gli Eventi Stressanti, l’MBI (Maslach Burnout Inventory), il PS Experience Blank (Psycho-Somatic Inventory), etc. 6. Le sindromi nevrotiche/psicotiche/borderline Il cuore della negatività umana emerge nella triade nevrosi/psicosi/disturbi borderline. Nella nevrosi (definita come un conflitto dell’individuo con se stesso, e quindi con difficoltà emotive interne) si ritrovano manifestazioni patologiche quali isterie, fobie, ossessioni. Nella psicosi (definita come un conflitto fra l’individuo e il mondo esterno, e quindi con difficoltà logico-cognitive nei riguardi della realtà) si ritrovano manifestazioni patologiche quali schizofrenia e paranoia. Nella condizione borderline (al presente sempre più diffusa) si ritrovano soggetti che stanno passando dalla nevrosi alla psicosi o che “saltellano” fra l’una e l’altra. Ovviamente, qui l’attenzione clinica si fa pesante e non facile da esercitare. Però una valutazione di massima risulta pur sempre possibile, sia sotto il profilo colloquiale sia sotto il profilo testistico, mediante strumenti quali il PNP (Dépistage delle Tendenze Patologiche), l’IBQ (Illness Behaviour Questionnaire), l’SQ (Symptom Questionnaire), lo SRT (Symptom Rating Test), l’EDI-2 (Eating Disorder Inventory), etc. Per valutazioni più accurate e per suggerimenti sulla gestione del paziente, è opportuno rifarsi a competenze decisamente specialistiche. E’ interessante peraltro vedere quanto impatto possano avere certe tipologie nevrotiche/borderline/psicotiche in campo odontoiatrico: si pensi agli eating disorders (anoressia, bulimia, bulimaressia, vomiting), comportanti danni organici stomatologici e acuti conflitti emozionali nei riguardi delle cure di questi ultimi. 7. I profili di personalità dei pazienti Al di là delle dimensioni patologiche o pre-patologiche, è comunque importante saper “inquadrare” chi si ha di fronte. L’”Altro” è sempre degno di attenta ed obiettiva conoscenza, per poter instaurare con un lui una relazione adeguata. La personalità ed il carattere (suo nocciolo duro) sono pertanto oggetti di indagine (anche non strettamente clinica): in tal senso strumenti come il 16 PF (Personality Factors)-C, l’ACL (Adjective Check List), l’EPI (Eysenck Personality Inventory), etc. forniscono informazioni sul fatto che un soggetto sia introverso o estroverso, rigido o flessibile, pragmatico o sognatore, ingenuo o smaliziato, fiducioso o diffidente, autonomo o dipendente, volenteroso o pigro, maturo o immaturo, e via dicendo. Accanto alla considerazione dei dati obiettivi (di ordine tecnico, fisiologico e comportamentale), si pone spesso - nella pratica clinica quotidiana - la necessità di considerare i dati soggettivi (sensazioni, umori, emozioni, affetti, relazioni): in ciò avviene lo “scivolamento” che porta le scienze naturali ad aprirsi verso le scienze umano-sociali. Il dentista (medico stomatologo oppure odontoiatra che sia) è pur sempre un clinico, e come tale può incontrarsi/scontrarsi con le dimensioni cliniche soggettive del proprio 3 paziente. Ciò comporta una attenzione ed una responsabilità deontologica che possono andare anche al di là delle competenze del proprio ruolo strettamente inteso. 8. Le applicazioni dell’ipnosi Uno strumento operativo importante è sicuramente l’ipnosi. Basata sul cosiddetto “monoideismo plastico suggestivo”, essa utilizza la capacità di concentrazione che la mente possiede nel focalizzarsi sul compito da eseguire, facendo lavorare la calda componente delle immagini (“visualizzazioni”). L’ipnosi è in grado di agire sia come dispositivo diagnostico (ipnoanalisi) sia come dispositivo terapeutico. L’ipnosi classica, capace di indurre stati di trance profondi, è la cosiddetta “hard hypnosis”, potente ma non sempre precisa. Sondando a fondo nell’inconscio in modo etero-diretto, essa è in grado di dare talvolta grandi risultati psicoterapeutici. In campo odontoiatrico, sfruttando dell’ipnosi la sua capacità di produrre inibizione/controllo sia della sensazione (per cui: “an-estesia”) sia del dolore (per cui: “analgesia/ant-algia”), si può ipnotizzare il paziente e lavorare così con una “copertura” psichica a volte sostitutiva del farmaco anestetico-antidolorifico. Tuttavia, è doveroso sottolineare i limiti delle indicazioni applicative. Occorre molta prudenza, molta cautela, in quanto il risultato dipende - in ultima analisi - dalla ricettività del paziente. Non va pertanto dimenticato che l’ipnosi (sia hard sia soft) richiede sempre una partecipazione-collaborazione da parte del paziente, e che non tutti i pazienti sono in grado di fare ciò, e che non tutti i pazienti che ci riescono lo fanno allo stesso modo. La soggettività del paziente - componente indispensabile per realizzare la trance e per ottenere i risultati talvolta può rivoltarsi contro i progetti del clinico. 9. Le tecniche di rilassamento Di maggiore applicabilità risultano quelle tecniche ipnotiche che lavorano a minore profondità psichica: il rilassamento induce stati di trance superficiali, mediante i quali si può fare un ottimo lavoro psicologico, anche perché quasi tutti i pazienti rispondono bene alla “ipnosi dolce”. In essa ricadono varie metodiche: da quelle più sfumate (ad es. lo yoga e la meditazione) a quelle più tecnico-cliniche (ad es. il training autogeno, indubbiamente lo strumento più efficace nel campo della “soft hypnosis”). Sulla base costituita dal rilassamento si dipartono gli approfondimenti terapeutici. Però qui la trance è meno potente, meno “violenta”, ed il paziente è sempre perfettamente cosciente (al punto tale che si parla di “auto-ipnosi”). Si ha quindi uno strumento assai efficace per l’analisi e la modificazione dei sintomi (anche somatici) all’interno di un trattamento, meno efficace invece nel fronteggiare il dolore (che è un fatto acuto). Ottimale risulta l’impiego del training autogeno per il controllo dell’ansia e della fragilità emotiva (timidezza, insicurezza, etc.), e quindi la sua utilizzazione al fine di tamponare le paure dei pazienti odontoiatrici si dimostra ampiamente proficua. 10. Lo “psico-dentista” Da quel che si è venuto sin qui dicendo, si comprende come possa rivestire una certa importanza (a volte piccola, a volte grande) il riuscire a discriminare - in campo odontoiatrico 4 - fra un paziente (che oltretutto, non lo si dimentichi, è pure un “cliente”) ansioso oppure no, depresso oppure no, distressato/bruciato oppure no, nevrotico oppure no, borderline oppure no, psicotico oppure no. E oltre a queste competenze conoscitive minime, l’operatore odontoiatrico potrebbe talvolta essere costretto a prendere decisioni (anche immediatamente operative) ed intervenire “facendo qualcosa”. Insomma, un certo bagaglio psicologico costituisce un pacchetto di risorse potenzialmente attivabile in numerosi settori non psicologicamente specialistici: l’area odontoiatrica - per le sue proprie oggettive caratteristiche cliniche (vale a dire di intervento tecnico nonché di aiuto e assistenza alla persona in presenza di malattia e dolore) - costituisce uno dei terreni più fecondi in tal senso. Il dentista, nella sua pratica “psicologica” quotidiana, dovrebbe in sostanza riuscire a capire se il paziente che ha di fronte agisce/reagisce in modo razionale oppure irrazionale. Dovrebbe inoltre percepire-valutare i problemi soggettivi e la loro portata, decidendo di volta in volta se fare qualcosa in modo autonomo, ovvero appoggiarsi a chi ne sa qualcosa di più, ovvero ancora delegare al collega il da farsi inviandogli il paziente. Ad ogni modo, direttamente o indirettamente, l’odontoiatra può fornire un “first psychological help”, dove - accanto alla gestione del problema oggettivo - si pone anche, per l’appunto, una gestione del problema soggettivo. Un elementare, ma non per questo inefficace, “personal management” (per l’appunto rivolto alla soggettività della persona) è quanto il paziente odontoiatrico può fruire dal punto di vista psicologico. Questo “lavoro” psicologico attuato da un non psicologo risulta basato ovviamente non sulla “terapia” in senso stretto ma sicuramente sullo “helping/supporting/counseling”, il che potrebbe già risultare sufficiente ancor prima di ricorrere ad una consulenza interdisciplinare oppure ad un invio specialistico. In definitiva, senza essere necessariamente uno psicologo ufficiale né sostituirsi a quest’ultimo, può aversi una figura di dentista con una “attenzione” psicologica, dotato quindi di qualche qualità sia introspettiva sia empatica, al fine di conoscere il paziente e (perché no?) al fine di aiutare il paziente nonché aiutare se stesso nell’aiutare il paziente. 5