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The wall and the city / Il muro e la città / Le mur et la ville
The Wall and the City
Il muro e la città
Le mur et la ville
edited by / a cura di / coordonné par
Andrea Mubi Brighenti
Cover image: John Fekner, My Ad Is No Ad (1980), used with kind permission by the Author.
Città al muro photo credits: Cristina Mattiucci
Chapter pictures credits (if not specified): the Authors
Questo libro è realizzato nell’ambito del progetto di ricerca “Nuovi regimi di visibilità: lo spazio pubblico
nelle trasformazioni della città europea” coordinato da Andrea Mubi Brighenti presso il Dipartimento di
Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento.
The Wall and the City
Il muro e la città
Le mur et la ville
edited by / a cura di / coordonné par
Andrea Mubi Brighenti
2009
Table/contents/indice
Introduzione / Introduction
1. Béatrice Fraenkel, Actes d’écriture: quand écrire c’est faire
2. Ella Chmielewska, Writing on the ruins, or graffiti as a design gesture
3. Lorenzo Tripodi, Towards a vertical urbanism. Space of exposure as a
new paradigm for public space
4. Andrea Mubi Brighenti, Walled urbs to urban walls – and return? On
the social life of walls
5. Cristina Mattiucci, Il muro come dispositivo percettivo
6. Claudio Coletta, Francesco Gabbi, Giovanna Sonda, Muri come trame
e infrastrutture urbane. Organizzare la città attraverso sensi, pratiche,
narrative, controversie
7. Francesca Cozzolino, Un exemple de prise de parole sur le mur. Les
peintures murales d’Orgosolo
8. Luciano Spinelli, Un regard vidéo participatif: les graffitis sur le web
9. Marco Solaroli, Illegal business? La costruzione dell’identità culturale
dei graffiti writers nella pubblicità visuale: il caso Montana
10. Ricardo Campos, On urban graffiti. Bairro Alto as a liminal space
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Festival Città al muro /Cities at the wall, July 2008
Herzog in azione / Herzog in action
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Introduzione
I testi raccolti in questo libro nascono dal primo incontro del gruppo
indipendente di ricerca On Walls, che si è riunito per la prima volta nel
luglio 2008 a Trento. Durante questo primo incontro si sono delineate
le linee di ricerca principali del gruppo, che si trovano qui pienamente
rispecchiate. Essenzialmente, si tratta di un interesse per la spazialità urbana e gli artefatti nello spazio pubblico e, più in particolare, per le pratiche sociali di uso degli spazi e degli artefatti grafici e visuali.
In questo contesto, il muro assume il significato molto ampio di un
termine ombrello che, nelle nostre intenzioni, serve come dispositivo
euristico per indagare le complesse interconnessioni fra le trasformazioni dello spazio pubblico, le nuove forme di controllo e il funzionamento del capitalismo contemporaneo. On Walls si propone di promuovere
e compiere una serie di ricerche e analisi sulle traiettorie, i percorsi, le
controversie, i conflitti, le visibilità, la medialità, i graffiti, la pubblicità e i
loghi, non solo come oggetti, ma anzitutto come pratiche che si sviluppano all’interno dello spazio urbano, al fine di coglierne la più ampia
portata culturale, socio-tecnica e biopolitica.
Dal luglio 2008 ad oggi, il gruppo è cresciuto fino a raggiungere circa
venti membri dislocati in tutto il mondo, appartenenti a discipline che
vanno dalla filosofia, all’etnografia, dalla criminologia agli studi culturali, dall’architettura all’urbanistica. I materiali qui presentati riflettono
quest’ampiezza di orizzonti, insieme alla convinzione che le questioni
inerenti allo spazio pubblico, la città, l’organizzazione sociale, le pratiche
sociali e la comunicazione siano intrinsecamente plurali: questioni naturalmente portate ad attraversare discipline differenti e, in ultima analisi,
impossibili da rinchiudere in compartimenti disciplinari separati.
Nel capitolo iniziale, Béatrice Fraenkel pone le linee guida fondamentali di un’antropologia della scrittura nello spazio pubblico urbano. Il suo
intervento invita a considerare la scrittura non semplicemente come un
supporto del dire, ma propriamente come un atto. A partire da questa
considerazione, Fraenkel propone di andare a studiare tutta una serie di
artefatti grafici presenti nello spazio urbano – che vanno dal graffito ai
pannelli, dalle insegne alle targhe –come “atti di scrittura”. Spesso, sottolinea l’autrice, questi atti di scrittura ed etichettatura sono inseriti in
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più ampi dispositivi organizzativi e istituzionali attraverso i quali la città
viene gestita. A volte, poi, in circostanze particolari ma estremamente
importanti, gli atti di scrittura diventano addirittura forme di enunciazione collettiva che danno forma all’identità stessa della città, come nel
caso degli altari commemorativi a New York dopo gli attentati dell’11
settembre 2001.
Ella Chmielewska propone una riflessione sul complesso rapporto che
si instaura quando l’architettura e il design si confrontano con oggetti
apparentemente residuali quali i graffiti. Chmielewska considera due
casi: il primo è la copertina dell’edizione inglese di un libro di W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione; il secondo è The Reichstag Graffiti, libro curato dallo stesso architetto Norman Foster che del restauro del
Reichstag berlinese è artefice. In entrambi i casi si evince un rapporto
problematico della rappresentazione discorsiva mediata con il graffito,
proprio perché il graffito, sostiene l’autrice, è sempre un segno toposensibile e in buona parte deittico, in quanto punta intrinsecamente a
un soggetto dell’enunciazione e a un contesto situato di tale enunciazione. L’analisi dei graffiti richiede pertanto un’attenta considerazione
della situazione spaziale e temporale in cui il graffito si colloca, una situazione che si estende dal qui-ed-ora al più ampio contesto storico e
politico di genesi di questo particolare tipo di iscrizione, che “ha luogo”
[takes place].
Il capitolo di Lorenzo Tripodi viene a integrare queste riflessioni attraverso le due nozioni di “spazio di esposizione” e “urbanistica verticale”.
Tripodi sviluppa tali nozioni mostrando il legame che esiste tra il capitalismo contemporaneo e la trasformazione delle superfici ad alta visibilità
presenti nello spazio urbano, convertite in luoghi ad alto valore commerciale. La città contemporanea, argomenta l’autore, viene così a coincidere sempre più marcatamente con un palinsesto visuale orientato
al consumo. Lo spazio urbano contemporaneo è perciò prodotto dalle
istanze del capitalismo e della sua economia dell’attenzione, che delineano una “città cinematica”. I casi di Potsdamer Platz a Berlino, del centro post-totalitario di Bucarest, del quartiere Sant’Elia (Cagliari) progettato dall’architetto Rem Koolhaas e dello skyline dell’isola di Manhattan
mostrano la complessità della produzione e del consumo di immagini
nella nuova economia urbana, caratterizzata da un’accentuazione della
fluidità e della motilità personale, dal predominio della dimensione visuale e dalla crescente mediazione delle relazioni interpersonali attraverso
dispositivi tecnologici avanzati. Queste caratteristiche, invita a riflettere
l’autore, non mancano di sollevare preoccupazione rispetto alle nuove
diseguaglianze che essi creano e accrescono, alla dissipazione dello
spazio pubblico e alla compromissione – se non alla profonda messa in
crisi – del diritto alla città.
Questa ipotesi viene sottoscritta anche dal mio capitolo, in cui, dopo
la definizione di una griglia analitica per lo studio del muro nello spazio
urbano, prendo in considerazione il percorso storico che ha condotto
dalla città murata al muro urbano e che oggi pare invertirsi per tornare a
puntare in direzione di una città partizionata o segmentata. Nella nuova
condizione storica contemporanea in cui ci troviamo, tuttavia, il muro
come strumento di partizione e governo della popolazione non è più
soltanto il muro di pietra, mattone, cemento – o, a partire da metà del
diciannovesimo secolo, vetro – bensì – per quanto la dimensione materiale non scompaia affatto – un più complesso insieme tecnologico e
mediale il cui effetto è la produzione di nuove stratificazioni sociali e di
un nuovo triage della popolazione. Il mio invito è perciò di intraprendere seriamente il programma di ricerca di una sociologia dei muri, al
fine di comprendere la vita sociale del muro urbano a partire da una
serie essenziali di tratti analitici: materialità, territorialità, visibilità, ritmo e
modalità d’uso del muro stesso.
Il capitolo di Cristina Mattiucci propone di leggere il muro come
dispositivo percettivo che concorre alla definizione di una “immagine
della città”, così come teorizzata da Kevin Lynch. L’autrice mostra che
storicamente già a partire dal diciannovesimo secolo il muro urbano si
configura come quinta scenica, elemento organico di una più ampia
organizzazione ottica della città. L’organizzazione spaziale che il muro
consente di ottenere non è dunque legata unicamente alla sua dimensione materiale ma anche, attraverso la dimensione propriamente visuale, alla trascrizione psicologica percettiva dello spazio. Nei termini di
Lynch, il muro si configura come un “margine” percepito, ovvero come
un “confine tra due diverse fasi, interruzione lineare di continuità”, su cui
è possibile fondare una precisa disposizione degli spazi ad esso relativi.
La città contemporanea ci pone di fronte a un proliferare di tali margini,
nella forma di spazi chiusi e nuove enclosures, quali ad esempio le gated
communities, fondate su un’esclusione anzitutto visuale dello spazio esterno.
Ma, per quanto indubbiamente il muro abbia una vocazione escludente, Claudio Coletta, Francesco Gabbi e Giovanna Sonda mostrano
come esso crei costantemente relazioni e connessioni. Il muro può venire infatti osservato come un elemento organizzativo che fa pienamente
parte delle trame e delle infrastrutture urbane. Gli autori considerano il
caso della controversia circa la costruzione del muro di cinta di un capannone industriale a Trento, che nel rendering circolato prima della
costruzione appariva decisamente più basso di quanto poi l’artefatto
effettivo si è presentato agli occhi degli abitanti della zona. Ricostruendo la polemica relativa alla costruzione di questo muro si evince come
l’artefatto in questione sia in effetti una “infrastruttura costruita su diversi
piani”, in cui convergono oggetti, pratiche e narrazioni differenti e ibridi.
Situazione analoga si verifica ad esempio quando si deve organizzare
la “trama sonora” della città. Gli autori si rivolgono in questo caso alla
ricostruzione una prolungata controversia sui musicisti di strada che ha
avuto luogo sempre a Trento. L’amministrazione municipale si è trovata
in questo caso a dover normare un fenomeno estremamente difficile da
misurare in termini del suo impatto spaziale. Come osservano gli autori,
“i fenomeni sonori si situano oltre la portata degli strumenti normativi,
ma devono essere comunque regolati, ricondotti entro una cornice istituzionale, visualizzati, misurati e ‘murati’”.
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Collegandosi a considerazioni vicine a quelle iniziali avanzate da
Fraenkel sugli atti di scrittura ed estendendole a un caso di controversia territoriale e di conflitto sociale, Francesca Cozzolino analizza il ruolo
del muro come spazio per una “presa di parola” collettiva da parte di un
movimento sociale a Orgosolo, in Sardegna. Il periodo culminante di
queste lotte e mobilitazioni della popolazione locale si registrò verso
la fine degli anni Sessanta. A quel periodo risale in particolare la mobilitazione contro il progetto di realizzazione di una base militare NATO
a Pratobello. Durante questi e altri eventi storici minori, ma non meno
socialmente rilevanti per la comunità locale, il murales si presentò come
strumento ideale di lotta e comunicazione politica di un piccolo gruppo
altrimenti condannato al silenzio e alla mancanza di parola.
Focalizzati specificamente sul graffito hip hop, i successivi due capitoli,
rispettivamente di Luciano Spinelli e di Marco Solaroli, propongono due
accostamenti metodologici diversi. Spinelli analizza l’importanza del
web nella diffusione della cultura del graffito in Brasile, mentre Solaroli
sviluppa l’analisi della comunicazione promozionale di una notissima
marca di bombolette spray per graffitisti, la Montana. Spinelli documenta la realizzazione di un atelier di video partecipativo da lui stesso
condotta presso una crew di graffitisti brasiliani, video successivamente
diffuso via internet. La realizzazione di una documentazione video della
preparazione di un graffito consente al ricercatore di far esplicitare ai
soggetti stessi della sua ricerca tutta una serie di assunti, valori, orientamenti e dinamiche inerenti alla cultura dei grapheurs. Solaroli giunge
allo stesso oggetto, la cultura dei graffitisti, situata all’interno campo culturale dell’hip hop, da una via diversa, ovvero considerando come una
marca inizialmente creata da graffitisti si rivolge ai propri interlocutori.
Al centro della sua analisi è il concetto di codice sociale, in quanto nella
pratica del writing è proprio attraverso il codice che la rivendicazione
spaziale corrispondente alla forma culturale viene portata avanti. Solaroli mostra in dettaglio come il testo pubblicitario si serva esplicitamente
dell’elemento dell’ “oscurità” dello spazio notturno urbano come metafora dell’ambigua collocazione del graffitismo tra sfera legale e illegale.
Chiude il volume un capitolo di Ricardo Campos, in cui l’attenzione
non solo al graffito ma anche alla street art si colloca nell’analisi più ampia delle trasformazioni e delle controversie sull’uso degli spazi che investono il quartiere del Bairro Alto a Lisbona. Seguendo la letteratura
antropologica, Campos definisce il quartiere come uno “spazio liminale”,
collocato ambiguamente fra una forte identità culturale tradizionale e
una fortissima spinta innovativa proveniente dalle culture giovanili notturne. La produzione di graffiti e street art che investe in modo “sregolato”
ed “eccessivo” i muri del Bairro Alto viene descritta da Campos come un
elemento di un più ampio confronto circa l’immaginazione della città.
In conclusione, il libro fornisce un primo insieme di indicazioni teoretiche, metodologiche e applicate per sviluppare lo studio e l’analisi
delle pratiche sociali di uso degli spazi e del ruolo che gli artefatti grafici,
visuali ed estetici giocano nella riconfigurazione contemporanea delle
visibilità urbane. Si tratta, a nostro modesto avviso, di un materiale molto
ricco, in cui è possibile individuare una serie di elementi trasversali ricorrenti, articolati con modalità di comprensione, categorie interpretative
e sensibilità di ricerca differenti. L’auspicio è che questo contributo rappresenti perciò un percorso di ricerca che possa dare l’avvio a una serie
di fruttuosi scambi e discussioni.
Un ringraziamento particolare va all’artista John Fekner, veterano della
stencil art, che ha fornito la fotografia originale del suo pezzo My Ad Is
No Ad (1980). Sentiti ringraziamenti vanno anche ad Andreas Fernandez,
Francesca Quadrelli, Michele Reghellin, Marco Dalbosco.
a.m.b.
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Introduction
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The texts collected in this book were presented and discussed at the
first meeting of the independent research group On Walls in July 2008
in Trento, Italy. During the meeting, the research agenda of the group
has been defined. The group focuses on urban space and artefacts in
public space as well as the social practices that involve the use of spaces
and visual artefacts.
In this context, walls are defined rather loosely, serving as a heuristic
notion to study the complex links between the transformation of public
space, the new forms of control and the functioning of contemporary
capitalism. On Walls aims to promote independent research on trajectories, paths, controversies, conflicts, visibilities, mediacities, graffiti, advertisement and logos, not simply as objects, but above all as practices
in the urban space, in order to understand their cultural, socio-technical
and bio-political significance.
The group is now formed by about twenty members from all over
the world, with a disciplinary background in philosophy, sociology, ethnography, criminology, cultural studies, architecture and urbanism. The
chapters of the present edited collection mirror such diversity, together
with the belief that the issues at stake in the use of urban public space
are inherently plural. These are issues that cut across different disciplinary fields and cannot be confined within separated disciplines.
In the first chapter, Béatrice Fraenkel defines the basic framework for
an anthropology of writing in public space. Writing, she suggests, should
not be conceptualised as simply the support of thought or discourse,
but rather as an act. Fraenkel reviews a series of graphic artefacts ranging from graffiti to ads, from signs to plates, as “writing acts”. Often, she
remarks, such acts are part of larger organizational and institutional systems through which the city is managed. On some rare but extremely
important occasions, such writing acts turn into collective enunciation
that shape the identity of a city, as in the case of the local memorials in
post-9/11 New York.
In the next chapter, Ella Chmielewska advances a reflection on the
complex relationship between architecture and design vis à vis a
number of apparently residual objects such as graffiti. Chmielewska
considers two cases: the first one is the cover of the English edition of
W.G. Sebald’s On the Natural History of Destruction; the second is The
Reichstag Graffiti, a book edited by Norman Foster, who was also the
architect in charge of the restoration of the Reichstag in Berlin. In both
cases, a problematic relationship between discursive representation
and graffiti emerges. According to Chmielewska, graffiti is always a
topo-sensitive and deictic sign, which points towards a subject and a
situated context of enunciation. Consequently, analysing graffiti calls for
a specific attention towards the spatial and temporal location, which
stretches from the specific here-and-now to the wider historic context
in which the actual inscription takes place.
The chapter by Lorenzo Tripodi contributes to this reflection on the
relation between architecture and writing elaborating the two notions
of ‘space of exposure’ and ‘vertical urbanism’. Tripodi develops these
notions showing the interconnection between contemporary capitalism and the transformation of high-visibility urban surfaces into spaces
with high commercial value. Because of this, Tripodi argues, the city is
increasingly turned into a visual palimpsest functional to consumption.
In other words, contemporary urban space is the product of a capitalist economy of attentions that corresponds to a “cinematic city”. The
cases of Potsdamer Platz in Berlin, post-totalitarian inner-city Bucharest,
Sant’Elia’s borough in Cagliari designed by Rem Koolhaas and Manhattan skyline show how the production and consumption of images is organised in the new urban economy characterised by enhanced personal fluidity and motility, the predominance of the visual dimension and
the increased mediation of interpersonal relations through high-tech
devices. All these features, the author contends, raise concerns about
new inequalities as well as about the dissolution of public space and the
weakening – if not the crisis – of the right to the city.
Such hypothesis is endorsed by my chapter, too. After setting out an
analytical grid for the study of walls in urban space, I consider the historic path that has led from the walled city to the urban wall. Today, the
trend seems to be turned into the opposite direction, towards a newly
partitioned or segmented city. In the new historic context, however, the
wall which serves as a tool for partition and the government of the population is no longer simply the wall made of stones, bricks, concrete or
– since the mid 19th century – glass. Today, the wall is a more complex
technological and a mediating ensemble whose effect is the production of new social stratifications and a new triage of the population. My
recommendation is therefore to undertake seriously the research programme of an encompassing sociology of walls, in order to understand
the social life of urban walls from the vantage point of a series of analytical traits: materiality, territoriality, visibility, rhythm and modes of use.
The chapter by Cristina Mattiucci frames the wall as a perceptive device
that defines a certain ‘image of the city’, first theorised by Kevin Lynch.
Following Virilio, Mattiucci recalls that since the mid 19th century the
urban wall is turned into a theatrical background, an organic element of
the optic organisation of the city. The spatial organisation that the wall
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makes possible is tied not only to this material aspect but also, through
the visual dimension, to the psychology of perception. With Lynch, the
wall appears as a perceptive ‘margin’, that is, as a ‘boundary between
two different regions, linear interruption of continuity’, upon which it
becomes possible to project a spatial pattern. The contemporary city
presents a proliferation of such margins, as in the case of the new enclosed spaces of the gated communities, founded upon the visual exclusion of outer space.
Despite the inherently exlusionist attitude of the wall, Claudio Coletta,
Francesco Gabbi e Giovanna Sonda show how in fact the wall constantly creates relations and connections. Thus, the wall can be observed as
an organisational item in the urban pattern. The authors reconstruct the
controversy about the building of a wall around a factory settlement
in Trento, Italy, which in the computer rendering circulated in advance
looked neatly smaller than the eventual manufact. Tracing the debate
about this specific wall, which entailed protests, newspaper articles etc.,
one can appreciate the artefact itself as an ‘infrastructure built on different layers’, in which different and hybrid objects, practices and narrations converge. A similar situation takes place when it comes to organise
the ‘sonic texture’ of the city. In respect of this, another controversy over
street musicians is reviewed. In that case, the local public administration
attempted to regulate a phenomenon extremely difficult to measure
spatially. As the authors observe, from the point of view of the public
administration ‘sonic phenomena are beyond the reach of conventional
normative tools, but must nonetheless be regulated, brought back into
an institutional framework, visualised, measured, and “walled”’.
Linking back to an approach similar to Fraenkel’s on writing acts,
Francesca Cozzolino analyses the role of walls as spaces for collective
word-taking [prise de parole] on the part of a social movement in Orgosolo, Sardinia. The culminating period of struggles and mobilisations
took place towards the end of the 1960s. At that time, there was a major
mobilisation against the NATO project to build a military base in Pratobello. During such historically ‘minor’ but locally fundamental events,
locally produced murales graffiti became the ideal tool of struggle and
political communication which a small and otherwise ‘mute’ group of
citizens decided to use extensively.
The following two chapters, respectively by Luciano Spinelli and Marco Solaroli, focus on hip hop graffiti. While Spinelli analyses the importance of the internet in the spreading of graffiti culture in Brazil, Solaroli
analyses an advertisement by the most famous spray brand for graffiti
writers, namely Montana. Spinelli also documents a participatory video
atelier he co-conducted with a crew of Brazilian graffiti writers and considers the effect of the web-sharing of the final video. By doing so, the
researcher had graffiti writers articulate in detail the assumptions, values
and orientations of their culture. On the other hand, Solaroli approaches
hip hop graffiti culture from a different prespective, looking at how a
brand originally created by graffiti writers imagines and addresses its
own customers. At the core of Solaroli’s analysis is the notion of social
code: it is through the code that it becomes possible to claim a space
that corresponds to the needs of a specific culture. In respect of this,
Solaroli describes how the Montana ad exploits the aspect of ‘darkness’
of urban nightscape as a metaphor of the ambiguous role of graffiti in
between legality and illegality.
The final chapter by Ricardo Campos considers graffiti and street art
in the context of the transformations and controversies over the use of
space in the Bairro Alto in Lisbon. Drawing on anthropological literature,
Campos defines Bairro Alto as a ‘liminal space’, endowed with a strong
traditional identity but also thriving on the innovation brought about
by youth night cultures. The production of graffiti and street art that
takes place in an ‘unregulated’ and ‘excessive’ way on the walls of the
Bairro Alto is described by Campos as an element of the confrontation
between different ways of imagining the city.
In conclusion, the book provides an initial set of theoretical, epistemic, methodological and applied suggestions to develop the study and
analysis of the social practices of the use of vertical spaces, and the role
graphic, visual and aesthetic artefacts play in the current transformation
of urban visibilities. It is, I believe, a rich material, in which it is possible
to identify a number of recurrent topics that can be approached from a
plurality of points of view. This collection is thus intended as a starting
point for further research and exchange.
Special thanks to John Fekner, a veteran artist of stencil art, who provided me with an original picture of his piece My Ad Is No Ad (1980).
Many thanks also to Andreas Fernandez, Francesca Quadrelli, Michele
Reghellin, Marco Dalbosco.
a.m.b.
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Festival Città al muro /Cities at the wall, July 2008
Tristan Favre, Untitled / Senza titolo (2008) Performance
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Actes d’écriture:
Quand écrire c’est faire
Béatrice Fraenkel
« L’équipe dont je faisais partie cette nuit-là circulait dans la voiture de
Pierre-Antoine – une Renault pourrie, de faible cylindrée – et devait
opérer dans le centre-ville. Jean-Noël était au volant – c’était un excellent conducteur, rapide et sûr –, Ginette faisait le guet, Gabriel et moi
badigeonnions. Dans ce domaine – le badigeon –, j’étais moi-même
assez intransigeant, mais ce n’était rien à côté de Gabriel, qui apportait
à la moindre inscription murale le même soin que s’il se fût agi des
fresques de la chapelle Sixtine. Ce perfectionnisme avait l’avantage de
donner lieu à d’irréprochables badigeonnages – et les masses étaient
toujours plus sensibles à ce qui traduisait de l’application et du doigté
– et l’inconvénient de nous retarder. Il était impossible de soustraire Gabriel à son ouvrage tant il estimait pouvoir l’améliorer. Nous venions de
terminer un travail particulièrement soigné, en recouvrant de slogans
aux lettres impeccablement tracées, d’une belle couleur rouge, la mairie de M., lorsque nous avons été repérés par une voiture de patrouille
de la police. » (Rolin 1996 : 46-47).
Actes d’écriture : slogans, pichação et graffitis
Partons de cette scène fort suggestive qui a le mérite de poser d’emblée les éléments dont nous allons débattre. Nous sommes en janvier
1970, au sein d’un groupe de militants maoïstes, en banlieue parisienne,
à M. Cette nuit-là, l’équipe a décidé de couvrir les murs « d’injonctions
trilingues à la séquestration des patrons », c’est-à-dire d’écrire le slogan
« On a raison de séquestrer les patrons » en français, arabe et portugais,
langues majoritaires dans les usines du quartier.
Écrire des graffitis politiques fait partie du « répertoire d’action collective » (Tilly 1986 :541) de nombreux groupes militants, en particulier
de ceux qui se situent aux frontières de la légalité. Les énoncés graffités
dans ces circonstances appartiennent souvent au genre très général du
slogan. Ils répondent à des normes lexicales, syntaxiques, sémantiques
et rhétoriques qui ne sont pas explicites et instituées, mais sont réglées
par une mémoire activiste et des pratiques d’imitation de modèles
connus.
Ces slogans se présentent souvent comme des actes de langage :
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mot d’ordre, revendication, exhortation, protestation, dénonciation etc.
L’énoncé badigeonné sur les murs de la mairie, « On a raison de séquestrer les patrons », comme les slogans très connus de mai 68 – « Ce n’est
qu’un début, Continuons le combat », « Usines, Universités, Union » – en
sont des exemples typiques (Cf. No copyright 1998). Il s’agit d’exhortations qui appartiennent à la catégorie des exercitifs ainsi définie par Austin (1970 : 157) : « Il y a exercitif lorsqu’on formule un jugement (favorable
ou non) sur une conduite ou sur sa justification. Il s’agit d’un jugement
sur ce qui devrait être plutôt que sur ce qui est : on préconise ce qui
devrait être plutôt qu’on apprécie une situation de fait ». Le slogan présente à la fois un énoncé et une action. (Austin 1962 :273).
La description que nous offre Jean Rolin est aussi un témoignage puisque l’auteur a appartenu à un groupe maoïste français et qu’il militait
pendant l’hiver 1969-1970. Son texte nous revèle qu’au delà de l’acte de
langage impliqué dans l’écriture du slogan, c’est surtout à une « action
d’écriture » que l’on a affaire. Son récit met l’accent sur la réalisation de
l’acte graphique lui-même, le badigeonnage. C’est bien le fait de s’appliquer, de tracer les lettres rouges « impeccablement » qui compte ici
autant, voire plus, que le slogan lui-même. De plus, en choisissant le mur
de la Mairie et non un quelconque support, les militants accomplissent
un acte de bravoure qui donne à l’écrit une valeur spécifique. Finalement
l’énoncé se présente comme une inscription exceptionnelle, une sorte
de « coup » d’écriture. Il est doté d’une force performative certaine.1
En fait, de nombreux écrits s’offrent à nous dans les rues de nos villes
selon le même principe : un acte d’écriture remarquable retient notre attention. Les Pichação brésiliens par exemple, ces graffitis tracés au sommet de hauts immeubles, suggèrent immédiatement qu’une prouesse
a été réalisée pour réussir à écrire les signes. Le message est souvent
illisible pour les non-initiés, ce qui n’empêche pas les énoncés d’être remarqués et de délivrer un message. On se souvient qu’à Manhattan, aux
débuts des années 70, les citadins en voyant passer des métros entièrement graffités saisissaient immédiatement les dangers bravés par les
graffiteurs, les risques d’électrocution notamment. Dans ces conditions,
le fait même d’écrire est reconnu comme un acte à part entière, porteur
de signification. Les inscriptions sont lestées d’une force graphique particulièrement efficace.
Tout les cas que nous venons de citer appartiennent à la catégorie très
large et assez floue des graffitis. Tout ces actes peuvent être considérés
comme relevant d’une même « famille » : graffiter.
Actes d’écriture et de lecture
Une autre scène, relevant de la « même sphère d’activité », celle de
l’action politique, permet de poursuivre l’analyse du point de vue de la
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1 La théorie des actes de langage (speech acts) est ancrée dans la découverte
faite par Austin que certains énoncés, les énoncés performatifs, servent à accomplir des actes. Ainsi, lorsqu’une personne habilitée prononce la formule :
« Je baptise ce bateau le Queen Elisabeth », elle fait plus que dire une phrase,
elle effectue une action, celle du baptême (Austin 1991 : 41).
lecture. Il s’agit d’un extrait du témoignage d’un militant parisien de mai
68 :
Je me souviens de cette inscription qu’on avait mis sur le mur de la
Poste de la rue des Archives : « A bas le vieux monde ! », je la regardais et
je croyais que le vieux monde allait disparaître parce qu’on l’avait écrit.
On avait une idée biblique de la parole ! (Le Goff 2006 : 76-77)
Ici, la scène n’est plus décrite du point de vue du scripteur et de l’acte
graphique, mais du point de vue du passant. C’est une scène de lecture
qui rend compte, elle aussi, d’un acte mais du point de vue de son effet.
L’énoncé est toujours un slogan, mais ce qui est souligné par le récit c’est
la force particulière produite par la lecture de cette inscription, installée
dans l’espace public. Ce n’est pas uniquement le message qui porte la
force de l’énoncé, même s’il en est constitutif, c’est bien son affichage,
son exposition. La même phrase écrite dans un livre ne produirait pas le
même effet. Comment alors qualifier cette scène par rapport à la précédente ? En quoi lui est-elle liée ?
De même que le récit du badigeonnage de la Mairie nous montre
l’importance du fait d’écrire plus que de ce qui est écrit, de même l’accent est mis ici plutôt sur la situation de réception du message que sur
son sens. C’est le fait de « regarder » et non de lire l’inscription qui agit
sur l’auteur : « je la regardais, écrit-il, et je croyais que… ». On comprend
que la signification de l’énoncé « A bas le vieux monde ! » est transformée par le fait qu’il est intégré à l’environnement, plus précisément par
le fait qu’il s’impose quotidiennement à la vue du passant, qu’il dure. La
permanence de l’inscription suggère au militant que l’énoncé peut se
réaliser : si de tels slogans ne sont plus effacés, n’est ce pas le signe qu’ils
deviennent légitimes et que le vieux monde est en train de disparaître ?
On peut dire que le graffiti politique atteint ici un de ses objectifs, persuader. Mais cette persuasion n’est pas la conséquence du message. Elle
est le résultat de la force performative de l’écriture exposée elle-même.
Nous retrouvons, mais du côté de la réception et non de la production,
l’idée qu’un énoncé vaut non seulement par ce qu’il dit mais aussi par le
fait même qu’il est écrit. Les actes de bravoure que nous avons donnés
en exemple plus haut, ne sont donc pas les seuls cas dans lesquels on
peut identifier une sorte de « force illocutoire » (Austin) propre à l’écrit.
Ici, c’est tout simplement le fait que l’inscription dure qui lui donne une
force persuasive particulière.
Ce cas nous invite à considérer tout acte d’écriture comme susceptible de produire des effets de lecture. Ces effets ne s’attachent pas uniquement à la transmission du message écrit, ils sont provoqués par la
manière dont l’énoncé est présenté au lecteur. Au delà de cet exemple lié à des évènements politiques remarquables, nous devons nous
demander si d’autre modes d’exposition de l’écrit sont susceptibles de
produire des effets aussi puissants. À bien y réfléchir, nous sommes tout
à fait familiers de ces dispositifs performatifs : nos villes sont régies par
des lois concernant l’affichage, certains écrits sont revêtus d’une force
performative officielle. C’est le cas par exemple des affiches appelant à
la mobilisation des citoyens en temps de guerre. Mais c’est aussi le cas
23
de coutumes d’affichage très routinières comme l’obligation de publier
(et donc d’afficher) des bans avant un mariage.
Récapitulons : l’examen de cas d’écriture et de lecture remarquables
nous a amené à découvrir l’importance de l’écriture comme faire indépendamment de son importance comme dire. Nous avons proposé la
notion d’acte d’écriture pour qualifier ces phénomènes. Nos exemples
concernaient un type d’acte en particulier, l’acte de graffiter.
Nous souhaitons maintenant examiner l’hypothèse qu’en écrivant,
nous réalisons toujours des actes d’écriture, et pas seulement dans des
situations exceptionnelles comme celles que nous avons mentionnées.
Nous partirons de l’idée que chaque énoncé écrit comporte à la fois une
signification en tant qu’énoncé appartenant à la langue et une valeur
spécifique attachée au fait qu’il est écrit, qu’il résulte d’un acte d’écriture.
Reprenant l’analyse d’Austin qui a mis en évidence que tout énoncé linguistique peut être analysé comme un acte de langage, nous cherchons
à dessiner un modèle d’acte d’écriture qui puisse rendre compte de la
force graphique des inscriptions, des effets des dispositifs de présentation des écrits, et de tous les aspects de l’écriture et de la lecture en
action, tels qu’on peut les saisir à partir de l’analyse de situations spécifiques. Nous proposons de considérer l’ensemble de ces actes d’écriture
au sein d’une anthropologie pragmatique de l’écriture.
À ce point de notre enquête, nous devons nous tourner vers des situations plus banales, moins spectaculaires. Une grande majorité d’écrits
sont produits selon des routines éprouvées, dans des situations courantes. Notre hypothèse doit donc être passée au crible de ces écritures
« sans qualité ». Hormis les pratiques d’écriture graffitiques, exceptionnelles et relativement marginales, qu’en est-il des situations d’écriture au
quotidien ? Peut-on aussi y déceler des actes d’écriture et lesquels ? Par
souci de cohérence, nous continuerons notre enquête en restant sur le
même terrain, celui des écrits de la ville.
24
Panneaux, enseignes, plaques de rues: l’étiquetage comme
acte d’écriture
Trois cas retiendront notre attention, celui des écriteaux, des enseignes et des plaques de rues. Nous partirons de nouveau d’écritures urbaines, mais cette fois-ci d’écrits normatifs, les écriteaux. Cette catégorie
d’écrits a retenu l’attention d’Austin (1991 : 83) qui remarquait en prenant l’exemple des panneaux « Virages » ou « Virages Dangereux » qu’ils
étaient écrits dans « un langage primitif constitué d’énonciations d’un
seul mot » (Austin 1991 : 92). Ce sont cependant des avertissements,
c’est à dire des actes de langage appartenant de nouveau à la catégorie
des exercitifs. Le monde de la signalétique routière est rempli d’avertissement de ce type. Ailleurs, Austin mentionne un autre cas :
Même le mot ‘Chien’ à lui seul, peut parfois (au moins en Angleterre,
pays pratique et peu poli) tenir lieu de performatif explicite et formel :
on effectue par ce petit mot le même acte que par l’énoncé ‘Je vous
avertis que le chien va vous attaquer’ (Austin 1962 : 274).
Ces écriteaux nous paraissent être de bons exemples d’actes d’écriture
banals, courants, dont la performativité est bien réelle même si elle n’est
pas spectaculaire. Pour aller plus loin que l’analyse linguistique proposée par Austin, il faut prendre en compte le fait que ces énoncés figurent
sur des écriteaux posés en certains lieux. En effet, « Chien Méchant » et
« Virage Dangereux » prennent tout leur force performative seulement
quand les panneaux sur lesquels ils ont écrits sont installés aux bons
endroits.
Mais les panneaux une fois installés font beaucoup plus que d’offrir à
tous ces « exercitifs » les conditions indispensables à leur efficacité. Ils
modifient aussi les lieux : dans le cas de « Chien méchant », la maison qui
s’orne de cette pancarte devient une maison interdite, protégée, exactement comme le panneau « Pelouse interdite » modifie le statut d’une
pelouse ou l’inscription « défense d’afficher » change le statut du mur où
elle apparaît. La pelouse comme le mur acquièrent de nouvelles qualifications, ils sont protégés par des lois avec toutes les conséquences que
cela implique pour les usagers. S’installer sur cette pelouse, apposer une
affiche sur ce mur, c’est commettre des actes délictueux. L’acte d’écriture
est facile à identifier, il consiste en un acte d’attachement d’un écrit à un
lieu. Le verbe français le plus proche de cette action est celui d’étiqueter.
Nous l’utiliserons pour désigner tous les actes qui consistent à attacher
un objet écrit à un lieu, à un autre objet ou à un humain.
Les enseignes qui foisonnent dans les quartiers commerçants des villes offrent un autre exemple de pratiques d’étiquetage. Elles indiquent
le nom d’un commerce et réalisent un acte de nomination. Karl Bühler,
dans sa théorie de la langue, avait donné à ce type de phénomènes le
nom d’« agrafages à distance » (cf. Mulligan 2004 : 5). Son contemporain,
Ludwig Wittgenstein considérait dans ses Investigations Philosophiques
que la nomination pouvait être comprise comme un étiquetage : « Dénommer quelque chose est analogue au fait d’attacher l’étiquette d’un
nom à une chose » (1961 : §15). Ces réflexions témoignent de l’intérêt
récurrent manifesté par nombre de théoriciens pour des pratiques qui
sont en fait des techniques d’écriture assez banales mais très efficaces.
Ces techniques de nomination mettent à profit l’objet écrit, sa plasticité
et sa capacité à s’insérer dans toutes sortes d’environnement.
L’enquête menée par Bruno Latour et Emilie Hermand (1998 : 27-35)
sur la signalétique de Paris, en particulier sur la pose des plaques de rues,
mérite d’être intégrée à notre réflexion. Considérant le travail du service de la Voirie, suivant ses agents dans leurs tournées, puis remontant
jusqu’aux divers services administratifs impliqués en amont, le Parcellaire, le service technique de la Documentation foncière, le service de la
Nomenclature etc., les auteurs font apparaître le vaste réseau d’écritures
et d’acteurs qui conduit à la pose d’une plaque dans la rue Huysmans
à Paris. En traitant l’étiquetage des rues pour ce qu’il est, à savoir un travail, il devient possible de sortir d’une approche éthérée de l’énonciation. L’on voit se dessiner des « cours d’action » exactement comme le
témoignage littéraire de Jean Rolin faisait apparaître les circonstances
du badigeonnage d’une Mairie. C’est à une ethnographie des pratiques
d’écriture que nous sommes conviés. L’acte d’étiqueter prend alors une
25
dimension nouvelle, il ne renvoie plus uniquement à l’exposition d’un
énoncé dans une rue, mais à une parcelle d’un dispositif beaucoup plus
vaste destiné à gérer les écrits de la ville.
Ces exemples mettent en évidence l’importance des objets écrits
dans les processus d’écriture et de lecture. En fait, ces trois cas d’étiquetage nous obligent à nous interroger sur l’écriture comme artisanat,
comme fabrique d’artefacts spécifiques. Nous sommes si familiers des
objets que nous écrivons – écrits, cahiers, carnets, feuilles – , que nous
éprouvons des difficultés à concevoir l’acte d’écriture comme un acte
artisanal. Or, il est bien évident que lorsque j’écris dans un cahier par
exemple non seulement je le remplis mais aussi je le réalise. Je le produis
comme objet écrit. Il en va de même de toutes nos activités d’écriture :
nous ne cessons de produire des objets écrits sans même y penser. Chaque acte d’écriture est ainsi encastré dans une action plus large qui mêle
acte graphique, acte linguistique, acte de fabrication et, dans le cas des
écritures exposées, acte de placement dans un environnement. Notre
approche cherche à saisir ces actes dans toutes leurs dimensions anthropologiques, c’est pourquoi nous devons considérer l’acte d’écriture
sans le couper artificiellement de son cours d’action.
26
Évènements et actes d’écriture : Quand la ville écrit
À ce point de notre investigation nous pensons avoir apporté plusieurs types d’arguments pour soutenir à la fois la pertinence de la notion d’acte d’écriture et l’intérêt d’une méthode qui privilégie l’analyse
des situations. En examinant plusieurs cas d’écritures urbaines nous
avons distingué deux types d’actes, « graffiter » et « étiqueter ». Le premier nous a aidés à prendre la mesure de la force graphique intégrée à
tout acte d’écriture, le second nous a entraînés à prendre en considération les usages performatifs des objets écrits. Nous avons cherché à
comprendre ces actes d’écriture en les resituant dans des cours d’action
qui les englobent. L’inscription d’un graffiti politique fait partie des activités de nombreux militants, la pose d’une plaque de rue est aussi une
activité typique des agents de la Voirie : dans ces deux cas et plus généralement, il nous semble indispensable de saisir l’écriture dans la sphère
d’activités qui est la sienne.
Notre dernier exemple ne concerne pas des activités, mais un événement d’écriture. Pour rester dans le domaine des écritures urbaines,
nous nous appuierons sur l’enquête que nous avons menée à New York
après les attentats du 11 septembre 2001 (Fraenkel 2002). L’installation
dans l’espace public de milliers d’autels faits d’écrits divers – panneaux,
feuilles de papiers, banderoles, billets etc.– , de fleurs et de bougies nous
incite à parler d’ « événements » d’écriture tant la dimension du phénomène a été exceptionnelle. La création de « sites » où l’on se rassemble
pour écrire, lire en silence et être ensemble dans cet environnement
saturé d’écrits pose des questions délicates. Il est évident qu’en écrivant
dans ces sites chacun accomplit un acte particulier dont les effets sont
d’un ordre émotionnel, intersomatique (Fraenkel 2007). Comment qualifier ces actes-là ? Comment prendre en compte ces formes nouvelles de
réactions aux catastrophes et à leurs commémorations qui impliquent
des pratiques d’écriture encore peu stabilisées, des actions d’écriture difficiles à élucider?
À New York, en septembre 2001, des milliers, peut être des millions,
de citadins ont déposé qui un message, qui une signature, qui une
lettre dans de multiples lieux de la ville. Cette écriture à l’unisson reste
cependant individuelle car chacun écrit de sa main. Elle est faite d’innombrables actes de langage et d’écriture qui, pris chacun séparément,
n’ont pas grande signification. L’analyse de plusieurs sites montre que
les énoncés sont répétitifs, convenus (« God Bless America »), souvent
réduits à un mot ou à une formule toute faite. C’est la constitution d’un
écrit à l’échelle de la ville entière, qui porte la valeur de ces actes d’écriture. On peut donc considérer que la force performative des écrits de
New York est fondée à la fois sur la prolifération et sur la dissémination
des écrits. L’acte qui en résulte est de faire apparaître un sujet collectif,
monumental, comme si l’ensemble des citadins formait un corps unique capable d’agir par l’écriture.
Ce type de construction n’est pas sans faire écho à la notion de « personne morale » imaginée par le droit grâce à laquelle une ville peut,
par exemple, signer un contrat. Dans les situations extrêmes comme
celle créée par les attentats du 11 septembre 2001, chaque citadin peut
éprouver, en écrivant dans la ville et avec tous les autres, une curieuse
sensation : celle d’être un « je » qui prend la plume, un « nous » qui
résulte de la participation à une action d’écriture commune et surtout
l’impression de donner vie au corps collectif de la ville de New York. ( Ce
corps collectif pouvant être éventuellement considéré comme la face
humaine de la personne morale de la ville ).
En décrivant un événement comme celui-là, on ne peut éviter de
s’interroger sur le type d’actes que permet l’énonciation à plusieurs. Les
écrits de New York ne sont pas les seuls à proposer des situations où le
sujet de l’énonciation n’est pas confiné à une seule personne. Bien au
contraire, nous avons montré (Fraenkel 1992) que la plupart des actes
juridiques écrits qui sont, d’un point de vue historique, parmi les formes
les plus anciennes d’écrits performatifs, rendent obligatoire la co-présence de plusieurs personnes. Pour valider un acte solennel de chancellerie, il faut la signature du roi, celle du chancelier et celle du bénéficiaire de l’acte, parfois une liste de témoins apparaît. Plus classiquement,
deux signataires sont nécessaires : celle de l’auteur de l’acte, c’est-à-dire
l’autorité qui en est le garant (le chancelier, le notaire etc.), et l’auteur de
l’action, celui qui agit. Ainsi la polygraphie remarquable que nous avons
observée à Manhattan est une constante de notre culture juridique.
Ce dernier exemple propose de revenir en quelque sorte à des actes
d’écriture élémentaires comme celui de signer et d’écrire à plusieurs. Il
nous semble qu’alors l’acte d’écriture ouvre à des formes d’existence
collective très particulières qui demanderaient à être mieux identifiées
et analysées. Nous sommes loin d’un monde choral où la voix de chacun se dissout dans celle de tous; nous sommes dans un monde de la
contiguïté où chaque signataire se renforce de l’écart à son voisin. Mais
27
lorsque cette polygraphie se déploie à l’échelle d’une ville, elle devient
énigmatique. Nous gagnerions à distinguer plus finement comment se
combinent les ressources visuelles des signes graphiques, les effets de
réel attachés à la perception du monde environnant, les émotions générées par la co-présence.
Perspectives anthropologiques
Au terme de ce parcours, les écrits urbains nous apparaissent comme
un laboratoire exemplaire pour déployer une anthropologie de l’écriture.
Le fait qu’une grande partie de ces écrits soient formés d’énoncés brefs,
parfois même de mots isolés a le mérite de nous couper de nos habitudes d’analyse textuelle. La forme des lettres, l’emplacement d’un écrit,
l’étrangeté d’un document ne cessent de s’imposer à notre réflexion. La
notion d’acte d’écriture est un modèle qui nous aide à rassembler des
éléments que l’on traite toujours séparément. Elle offre la possibilité de
penser en même temps le fait linguistique, le fait graphique, le hic et
nunc des situations. Mieux encore, la théorie des actes d’écriture appliquée à l’espace urbain nous fait percevoir la part écrite de notre environnement, la manière dont les inscriptions le façonnent, l’aménagent, le
bouleversent. Ce faisant nous répondons en partie aux deux questions
que nous nous proposons de traiter dans le cadre d’une anthropologie
de l’écriture : Que faisons-nous avec l’écriture ? Que nous fait-elle faire ?
28
Bibliographie
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Petrucci A. (1993 [1980]) Jeux de lettres. Formes et usages de l’inscription en Italie, 11e-20e siècles. Tr. de l’italien par Monique Aymard. Paris :
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Tilly C. (1986) La France conteste de 1600 à nos jours. Paris : Fayard.
Wittgenstein L. (1961) Tractatus logico-philosophicus ; Investigations
philosophiques. Tr. de l’allemand par P. Klossowski. Paris : Gallimard.
29
Festival Città al muro /Cities at the wall, July 2008
Sparki, Untitled / Senza titolo (2008) Graffiti
30
Writing on the Ruins, or
Graffiti as a Design Gesture
Ella Chmielewska
Wall writing occupies a curious position in urban space and in public discourse as a social problem, a political act and increasingly, as an
aesthetic phenomenon1. Ever more present in the contemporary visual
and conceptual vocabulary, it is increasingly deployed by the worlds of
high art, politics, commerce and academia. Appropriated as a photogenic empty sign – figuratively ‘torn off the wall’ – its potent meanings
abstracted from its material surface, wall writing has become a powerful
rhetorical tool.
Paris graffiti of ‘68, New York subway art of the 70s and the pre-1989
writing on the Berlin wall combine into an amalgam of aesthetic protest: a graphically raw and resolutely awkward idiom that transforms an
image of writing into a potent new text. The messiness of its lines, the
untamed styles and the rebellious attitude towards the material surface
it occupies all conspire to create the myth of graffiti’s freedom and unrestrained individual expression, further extended to associations with
democratic ambitions. Supported by the popularity of hip-hop culture
and notions of the contemporary urban cool, graffiti becomes a handy
implement to evoke the individual voice, and to endorse place identity
or authenticity.
Notably, at the same time that Banksy’s books were rubbing shoulders
with albums of work by Braque and Botticelli in art history sections at
Boarders bookstores2, Tony Blair was striking a formidable pose for press
photographers. Training the power-hose on a graffiti covered wall, presumably he was taking on the heroic task of eradicating the most press1 This work first appeared as a keynote address at the Third Architectural
Humanities Research Association (AHRA) Annual Student Symposium, The
University of Edinburgh, April 2006, published in Edinburgh Architecture
Research, volume 31, 2008: 7-15. Subsequently, it has appeared as “The wall as
witness-surface / Il muro come superficie di testimonianza” in lo Squaderno
no. 8 (June 2008): 24-29.
2 Banksy’s album Wall and Piece came out just before Christmas of 2005. It
has been selling briskly since. Some bookstores, such as Boarders, displayed
it first in the Art History section. Now, many stores, such as Blackwell’s and
Waterstone’s keep the book in their new and growing graffiti sections.
31
ing of social concerns.3 In rhetorically powerful shorthand, the target
of the government campaign, antisocial behaviour, was illustrated by
its most evil symptom and the nastiest of its possible outcomes: spray
can art. Even through there was no mention of graffiti in the articles
reporting on the proposed radical ways of improving social order, all
newspapers carried similarly incriminating images on their front pages.
Large bright pictures assured us that once the unauthorised lettering on
public walls is dealt with, the issues of urban poverty, property neglect,
youth delinquency, drunken brawls, as well as crimes of aesthetics, such
as loitering and littering, would have been effectively addressed.4
We are all familiar with images of graffiti, and we do not have to study
this urban subculture to be stunned by its raw beauty. And while in their
ubiquity graffiti images may have lost their shock value, some still hold
the power to arrest our attention and generate strong emotions. Examining a photograph of graffiti scrawled on the usually pristine gallery
walls of Montréal’s Canadian Centre for Architecture (CCA) has an unsettling effect. The familiar space of the gallery is covered with colourful smears and slogans intent on representing the resolutely bilingual
urban surface of Montreal. In this image, the walls are prepped for the
1994 show Urban revisions, an exhibition of urban interventions. None
of the projects presented in the show had a local dimension or were
related to specific local conditions. While no mention of the urban graffiti could be found in the catalogue filled with learned essays on the
American city, the painted ‘wallpaper’ of the gallery space provided the
familiar ‘vernacular’, a connection with the street and with the particular,
even if quite obviously rendered as a singular design gesture. The shock
32
3 Blair’s campaign, which began in early 2006, promoted measures of combating yobbish behaviour. British papers ran the front page articles illustrated
with graffiti images. See The Daily Telegraph, Scottish edition. Wednesday, January 11, 2006. pp.1-2. The front page carried the image of Tony Blair cleaning
graffiti with a high-powered hose. Also see, The Guardian, Wednesday, January 11, 2006, pp. 1-2, the first page image of the police officers with graffiti in
the background, and page 27 “Comment and Debate” - Steve Bell’s cartoon
referencing the spectacular image of Tony Blair cleaning graffiti off a red brick
wall during his visit in Swindon.
4 Of course, Britain is not the only place where the graffiti phenomenon and
graffiti art have been set in such a paradoxical position. In Montreal, Canada,
while the municipality employed one of the city’s quirkiest graffiti artists to
improve the aesthetic quality of the bike paths with his very special signature
art, the artist, Roadsworth, was charged with several counts of misdemeanor
for the very work he has been known for. In the winter of 2006 he faced a
prison sentence. See: http://www.goodreads.ca/reidcooper/, http://spacing.
ca/art-roadsworth.htm. At about the same time, the Calgary Art Gallery (the
main gallery in that booming town of the Canadian West) was running a show
entitled Painting Under Pressure. Local curators and hip academics were riding
high on the street credibility of the sophisticated graffiti art scene in Canada,
while blatantly ignoring copyright and intellectual property claims from the
graffiti magazine and international graffiti convention Under Pressure, as well
as dismissing a number of major ethical questions posed by some of the material used in the exhibit. Perhaps not surprisingly, there is no press coverage
to be found on this issue.
of seeing the messy scrawls in the high temple of architectural asceticism and design purity, drew the crowds to the exhibition and attested
to the radical vision of the curators.5
While so visible, so much in the public eye, while increasingly exploited by the world of politics, high art, commerce or academia, graffiti is
rarely examined in depth or in context, rarely engaged through a rigorous study. Material forms of writing are not given much space in the
curricula or in critical, theoretical or historical reflection and graffiti is
most often treated as a visually attractive (photogenic or more generally, ‘mediagenic’) empty sign, invested with meaning external to it and
colonised by often conflicted discourses of politics, business, advertising,
and critical theory. Certainly, there are exceptions, as demonstrated, for
example, by Roy Harris (2001) in his theoretical treatment of the graphic
space of linguistic signs or Paul Carter (2004) both in his critical reflection and public art praxis. We can safely make a claim, though, that little
is known about public writing and that typically it is not investigated in
ways that yield questions more challenging than the standard labelling
dilemma of art versus crime and the base narratives that follow one or
the other trajectory.
Contemporary art and design abounds with images of graffiti scrawls
and messy handwriting. In addition to a preoccupation with hip-hop
culture and historical links with New York, Paris, and Berlin as well as
conventional associations with avant-garde art and the urban scene in
general, graffiti or graffiti-like writing is increasingly employed to evoke
the individual voice or place identity, to endorse authenticity, and even
to substantiate historical memory. Moreover, having gathered steam
since the 90s, the graffiti aesthetic has come to shape both the common imaginary and the professional design vocabulary. It has become
not only accepted but emulated and venerated, and recent generations
of graphic designers as well as the viewers of images have been formed
through looking at or creating various reiterations of the graffiti idiom.
For instance, Steven Heller and Mirko Ilic (2004) in their book on the position of handwritten mark in the age of digital design, discuss the roots
of handwritten mark yet, astonishingly, they do not mention the influence of visibility of graffiti in various mediated forms on the renewed
popularity of a handwritten mark in design. In the current design milieu,
as Heller and Ilic claim, after reducing the history of handwritten graphics to a quick run, most handwritten work is not so much about polemic
as it is a formalist response to digital perfection. As “a vernacular’s vernacular” then, graffiti is mined for its power, exploited as an empty sign
that could be filled in with any kind of meaning we may want.
What I would like to offer here is a reflection on the paradoxes of let5 What is described here was not a photograph that accompanied the press
release. With the exhibition’s installation completed, graffiti faded into the
background, into its role as wallpaper, i.e., as background visual urban ‘noise’.
The photograph, then, is merely a “flick”, the shot taken by the artist proud of
his “piece” and part of “installation documentation” that the CCA routinely collects. To view the image, see Chmielewska (2007b: 145, 169).
33
34
tering in relation to place and history. I will examine graffiti marks in
context – in their place of display – and I will attend to their signifying
surface. I propose to treat graffiti as a topo-sensitive mark and a materially consequential act and as such work that demands an examination
in situ, and that requires a close reading that could account for the temporal and spatial dimensions of the siting as well as the specific positioning in the historical and political context of the surrounding discourse.
I will probe two cases that in interesting ways foreground seemingly
different uses and treatments of graffiti: one is an ephemeral, local and
perhaps a not very consequential design gesture; the other is a major
architectural monument of historical ambition and international significance. The former is a case of designed writing, the latter of a restoration
of authentic graffiti marks. The first, a rushed journalistic commission,
the second a painstakingly detailed and elaborate major work of (public) art. Both make claims on the historical memory of a specific place
and as such, I argue, highlight the complexities and ethics of the uses
of graffiti in contemporary design. In each case, a close examination of
the writing in context yields an insight into the relationship of graffiti to
place and may illuminate larger issues often hidden behind the current
glib discourse and expedient aesthetic preoccupation with the expressive style and subversive nature of graffiti. My aim here is to argue for the
value of a close reading of graffiti (and images in general) as a technique
of disturbing recalcitrant conceptual habits and attending to the nuance, materiality, and historical and political prescience of the intense
visual statements around us (Poynor 2002: 71).
I will elaborate this discussion without much visual support. The conference presentation of this material involved over 20 slides, all necessary
for the substance of the argument and for the close reading proposed
as a method of analyzing writing in context. Here, however, by unfortunate necessity, the reader is challenged to contemplate the absence
of the images discussed owing to various limitations of access to the
visual material and the related implications of the restricted possibilities of research on graffiti. The limitations on copyrights for the material
intended for inclusion here imposed an unacceptable revision to the
emphasis of the argument pursued. A radical step has been taken then,
to retain the original argument but to engage the reader with images
through verbal description, a literal “reading” of the visual. The reader is
asked to consider the absence of images and in that reflection to face
the kinds of problems that annexations and the re-positioning of graffiti
bring about. In this essay, therefore, I am including only a single image
intended merely to illustrate the concluding argument (Picture 1). While
not essential to the argument, this image of a graffiti piece is a visual
provocation. Graffiti marks are an inherently public statement. They often attempt to make territorial claims, but typically make no assertions
on property ownership. Once repositioned as a work of art, elevated
to a monument, or revised into an instrument of ideology, graffiti is no
longer open to the elements and its access becomes (safe)guarded.
Possibilities for conducting visual research, therefore, become limited
by the types of access allowed.
On the wall of the ruined city
A striking image of graffiti-like lettering draws us to the cover of The
Globe and Mail Books review supplement. This is an illustration for the
featured interview with W.G. Sebald (originally recorded for a highly regarded CBC programme Writers’ and Company) and an announcement
of the Canadian edition of Sebald’s last (posthumously published) book,
On the Natural History of Destruction.6
This grainy black and white photograph depicts a group of people
walking toward the viewer. The group is flanked by the rubble and ruins
of destroyed buildings. Overlaid on the image of the ruins are words rendered in stylised scrawls suggesting writing on the wall, crude graffitilike lettering hastily rendered by what seems like many different hands.
The scribbled words are carefully composed, overlapping, yet clearly differentiated and presented in a palette of grave colours. The bruised grey
of SURRENDER separates the black ink of BOMBS and HATRED; the bright
red of STENCH balances the more muted red of TERROR; the colour of
rust is assigned to GUILT and that of dried blood to HORROR. Next to
BOMBS is RUINED rendered in pewter. Lettered in laden grey, SILENCE
eloquently falls into the empty space between the group in the foreground and the lonely figure walking away from the viewer. The lettering seems deliberately positioned so as not to cover any of the faces of
the people depicted, and thus, remains confined to the ruins on the periphery, which as a backdrop to the superimposed lettering, have been
conveniently ‘faded’. One could infer that behind the placement of the
textual fragments is the ambition to retain the visual and political power
of ‘writing on the wall’, even if the walls themselves have been reduced
to rubble and their photograph further manipulated to render them almost immaterial.
A small caption in a neutral type relates the cover illustration to the
content of the issue. If the words shaped, coloured and placed on the
image above are to evoke some sort of “authentic” gesture, the Gibsonian “trace that outlasts the act” (Gibson 1966: 229), how are they related
to collective memory? What is the link between the words, both their
choice and their graffiti-like form, and their subject matter, the war time
devastation? Why are the words deemed necessary to depict the horror of destruction? Why proclaim RUINED instead of showing the ruins
themselves? Why employ the gauze of text over the image of the mortal
wounds of the street? Is the image of the rubble not eloquent enough?
And why use crude lettering? Why is the expressive scrawl seen as an
appropriate design choice that befits the ruins? Is the stylised scribble of
the word BOMBS more evocative than the archival image of the bombs’
material consequences? Is the graffiti supposed to evoke a personal
6 The February 22, 2003 issue of BOOKS, The Globe and Mail’s (a Canadian
English-language nationally distributed newspaper) weekend supplement. The credits provided on page 2 indicate CORBIS/MAGMA and Cinders
McLeod/Globe and Mail.
35
Picture 1. Me
36
statement marking the wall of the wounded city? If so, whose statement?
If the writing is to suggest a personalised, spontaneous expression then,
what is the meaning of its language? Of course the cover addresses an
English speaking reader, but does not the language impose an uneasy
specificity here, a certain semantic ambiguity? Whose SHAME? Whose
GUILT? And whose HORROR? The language of those who smelled that
STENCH, those on whom the BOMBS fell, was not English. However, the
English language was strongly implicated in the RUINED. Its symbolic
position is not neutral in the context of this specific historic moment if
these ruins are to refer to the subject of Sebald’s book, that is, the Allied
Forces’ bombing of German cities.
Which city is it? Dresden? Berlin? The rubble hidden behind the lettering gives no clues. The people in the photograph cannot be clearly
placed either. An old woman in the background in her kerchief seems
timeless, placeless perhaps, if not vaguely East European. The skirt of a
younger woman to the right has a hint of a bias cut of the ‘70s. And the
bucket carried by the woman in the foreground seems strangely contemporary. Is it plastic?! Could it be that the photograph is from another
place? From another war? Could it be an image from the Balkan war
rather than the one Sebald’s reflections probed? And does it matter? Is
not a bombed city just a bombed city? Don’t they all look the same, after
all? Don’t they all speak of the same horror once transposed to a generic
archival image? Don’t they all provide a good background for a letter- or
word-play? And would not just any bombed city “do” as a fitting illustration for Sebald’s book?
The letters seem blatantly didactic while pretending to represent the
emotion of the historical moment. Shaped into a sign of angry proclamation, they label the obvious while drawing attention to themselves,
obscuring the place they write over, veiling its trauma. The writing here
offers a simplistic abstraction of history that forces a particular historical
event into a standard image. It is a generic expressive lettering overlain
onto unspecific ruins. Yet its rhetoric depends on the power of handwriting, and the deliberate pairing of the archival image with the writing
is meant to illustrate specific thoughts and texts presented in the review. The article on Sebald’s work is entitled, “You Must Remember This.”
“This” is hardly generic. For Sebald, time and place were burdened with
history. For him, not only words but photographs and mental images of
a place, formed the consequential evidence of a specific moment and a
particular memory. His family history and memories were implicated in
the bombing of Dresden. And in his last book he attempts to break the
silence on the trauma inflicted on the civilian population by the Allied
Forces’ systematic fire bombing of German cities.
The photo credit on page 2 of The Globe and Mail’s supplement dutifully notes CORBIS/MAGMA image pool. The place of the photographed
scene, however, is not acknowledged: the value of copyright having
been placed above the worth of history. It is not deemed important for
the designer to identify the image. The place obviously functions here as
a generic entity. After my insistent inquiries, the art director of The Globe
and Mail confirms that the photo was taken in Mannheim, Germany,
in 1945. He does not sound convincing, however, more likely annoyed
by such irrelevant probing, as if suspicious of my motives for questioning. The designer, clearly uneasy when asked about his design decision,
speaks rather defensively of the deadliness and pressures to produce an
eye catching cover image.
By contrast to this focus on expediency, Sebald’s writing is nuanced,
complex, and has nothing of the clearly didactic feel of the blatant verbalizations. It addresses the public memory of the German post-war society, the silenced memory, and the repressed feelings rather than the
overtly proclaimed. It is all about dwelling in detail. The book cover of
On the Natural History of Destruction is respectful of the writer’s sentiments. It features a plain but most expressive photograph, split by the title into the immediate cause (bombers) and effect (burning city) on the
front cover, and shown in one piece on the back of the jacket. Sebald’s
words quoted on the back cover reflect the importance of documentary
images for his writing, with both text and photographs implicated, “embedded in the recall of past time.”
Here, design credits clearly identify the photograph to reveal other
layers of history, and other players involved in the construction and de-
37
struction of public memory in post-war Germany. This photograph of a
street in Berlin was taken on the day when the Soviet Army raised its red
flag over the Reichstag thus marking the complex ways that German
and Soviet history and memory are bound up together. Placed on the
book cover, the photograph unambiguously draws the Allied forces into
this complex historical mesh. A larger question that drives these reflections is: can the place-specific memory be conveyed through stock photography (generic imagery) and stylised type (generic graffiti)? Each, the
archival photograph and the stylised lettering are used to add a sense of
authenticity to the representation. However, neither the authenticity of
the image nor that of the writing, is separable from references to place
and place-representation. Each is a record of place: a document of a
scene or a trace of an action. Each is a piece of evidence of the specific:
the photographer’s particular point of view; the framing of the particular
visual situation; the gesture and intention of the writer; and the personal
statement and emotional content of crude handwritten lettering.
38
Commemorating writing
Published at the same time as Sebald’s On the Natural History of Destruction, architect Norman Foster’s (et al. 2003) book The Reichstag
Graffiti also addresses the questions of German collective memory. In
essays, archival documents, exquisitely detailed drawings and stunning
close-up photographs by Reinhard Görner, the book documents what
Foster terms “the process of revelation” and the procedure and method
that for him reflected “a clear ethos of articulating [the] new intentions
with the surviving historical fabric” (ibid., 11-12). Here, history served as a
design tool. First, it presented a unique aesthetic opportunity when during the asbestos removal from the earlier reconstruction of the building
the palimpsest of older surfaces and the powerful victorious Soviet graffiti were revealed. Second, a forceful historical rhetoric was employed
to counter the ensuing debate over the wisdom and political implications of the graffiti restoration or removal. Foster’s vision for retaining
the marks and incorporating them into the new interior was eventually approved and carried out to completion. Now, history served as an
instrument of justification: a powerfully articulated argument backing
up the decision of restoration and creating a protective mechanism
to guarantee that critical voices stay at bay. The fierce dispute over the
symbolism of the Soviet graffiti on the walls of the German parliament
was not over at the time the book The Reichstag Graffiti was published.
It is an important book, claims Foster, because it attests to the enduring
power of graffiti. Indeed it is and indeed it does, although my interpretation may carry Foster’s intentions further than he would have expected,
as I believe, any work’s power can only benefit from serious scrutiny.
The restored Reichstag features fragments of the original walls embedded in the new structure. The walls showcase the outlined palimpsests of scribbled Cyrillic letters. No need for golden frames (a suggestion
made by a Russian artist, Iliya Khabakov, which was not approved by the
Bundestag’s Arts Committee). The kind of framing that Foster employs is
far more powerful. He uses the material historical record itself to outline
graffiti pieces: fragments of the older walls act as shields signalling territorial boundaries. The Bundestag commenced regular parliamentary
sessions in the Reichstag in 1999 but the debate over restored graffiti
continued into the next decade, and it is not a mere domestic dispute.
The Russian ambassador in 2001 warned that erasing the graffiti would
endanger the process of reconciliation between “the two peoples” particularly against the background of the anniversary of the German attack
on his country (ibid., 36). Graffiti, in this dispute became a symbol of a
unilateral historical truth: a re-inscribing of the Yalta agreement that interprets the history of the Second World War as an honourable conflict
between two giants, with no mention of the consequences for the political and human bodies between them. The restoration monumentalises
the inscriptions, affording them the kind of attention that only the most
precious frescoes or archaeological artefacts are typically granted (ibid.,
33). It also remakes the wall writing fragments into aesthetic statements,
exquisite visual fields composed into a ‘correct’ and agreed upon visual
narrative of history.
The book canonises graffiti: it reveres the process of restoration and
its product, as a significant work of art. The book’s pages linger over the
annotated reproductions of the crude scrawls preserved in carefully arranged compositions within the planes of the building interior walls.
The images in the volume highlight the act(s) of preservation as/(and)
framing: the palimpsest of historical traces is composed of outlined elements arranged to indicate the layers of “history” through a play of surfaces and the juxtaposition of the “spontaneity” of the lines of graffiti
and the controlled crispness of the older traces against the building’s
modern surfaces. The elevation drawings of the positions and details
of the carefully delineated elements highlight the beauty of this visual
choreography; the skill of the architect behind this composition and its
rendering.
The exotic shapes of the Cyrillic letters, which in the linguistic context
of contemporary Berlin legible to most only at a symbolic level, and the
crudeness of their lines evoke the magical powers of primitive surface
markings. The specific historical symbolism has little to do with this. The
“individual mark” is used merely for its emotional content, its power to
evoke spontaneity that breaks the rigidity of yje largely homogeneous
architectural planes. If the walls of Reichstag speak of any conflict, it is
the conflict between the emotional and historical content of the letters and the image they form once they are carefully composed, first on
the walls and further on the pages of the book, thereby confirming the
project’s status as a work of art (ibid., 36). What is monumentalised here
is a designer’s (artist’s) hand, the artful act of memorialization itself.
The book remains the only place in which the restored writing has
truly public access. The actual spaces that contain restored graffiti are
not open to the elements, be they the stresses of social discourse or
environmental weathering, nor are they easily accessible to the general
public. Thus, this loaded public writing is removed from the public realm,
39
40
set within the frame of “historical evidence”, and further (dis)placed into
the volume that presents it for specifically guided viewing. The printed
volume is the only place where the images can be closely read, that is,
where the German speaking public, whose history is exposed in this
“living museum” can decipher the Cyrillic writing. The writing itself is difficult to examine in situ, so Foster’s book is a precious tool providing
access to his project. It forms a separate site of display, and in so doing,
it creates its own defensive wall. It monumentalises the project of restoration in what is effectively a catalogue of Foster’s artwork.
But Foster is not a neutral artistic force here; his project is the British offering towards the re-building of unified Berlin. Yet to justify the design
choice, the presented history of the Second World War “paints over” the
role the Soviets played in building Hitler’s power and in subjugating Europe after the victory of 1945. One just needs to reflect on the names of
places along the “victorious” route to Berlin (Grozny, Kiev, Lviv, Warsaw).
The War chronology presented in the book is silent on the relationship
between the “two peoples” in the time between September 1939 and
February 1941 (ibid., 123). Equating the fascist representation of Bolsheviks with those of Jews in 1937 exhibitions housed in the Reichstag and
presenting a chronology of the war in a fast-forward mode from 1937
to 1945 suggests a continuity of Soviet “struggle” with fascism and relegates the tragedy of the millions located in the territories East of the
Reichstag to outside of the viewing frame. In fact, this is very much in
line, with Soviet war and post-war propaganda.
Wars are composed of battles over the right to write history on the
walls of cities. Graffiti that covered the sandblock stones of the Reichstag, began as spontaneous acts commemorating fallen comrades, expressing pride or vengeance, marking a triumphant arrival at the end of
the arduous journey. But it soon formed a collective theatre. A staged
event of propaganda that folded an individual soldier into the grand
performance of marking: the Reichstag was a ‘guest book’ set out for
commentary on the “final” act of the war, and (again) “the venue for
propaganda exhibitions” (ibid., 8). Delegations from various Soviet cities
would make ritual visits, signing the historical ‘pages’ with their marked
presence (ibid., 27). Crowds would arrive to partake in this ritual of signing. The officers scribbled (in blue crayons) along the more accessible
surfaces; more daring writers, soldiers armed with charcoal, climbed the
walls to those spots that would ensure the high visibility of their signatures (ibid., 24). The ‘writers’ knew that for graffiti, ‘getting [high] up’ was
crucial.
The Reichstag wall writing had attained the symbol of a relic, with
graffiti-covered stones transposed and on display at the National Army
Museum in Moscow as “moving testaments to Soviet victory” (ibid.,
28). It became a powerful image of triumph: just like Yevgeny Khaldei’s
photograph of the Red flag over the Reichstag (a staged, re-enacted
scene to create a propaganda image). Graffiti was even more powerful
as a performance aimed at the domestic audience: while there could
be only one flag over the Reichstag, the writing could be unlimited: it
was the people’s symbol of victory. An ordinary soldier could make his
own mark and his triumph could be personalised (ibid., 27). The writing on the walls of defeated Berlin spoke most eloquently through its
crude lettering. No big words describing the city’s trauma, its horror, its
stench, its ruins, its eerie silence or the cheering after the battle. There
was no need to verbalise the obvious: the ruined city spoke expressively
of its pain and defeat, without any alphabetic transcription. The writing
on its walls was the voice of the victors. Not a subversive political act of
rebellion but a staged happening, a proclamation of pride in the Soviet
Nation (and its Great Leader) who defeated the Germans.
The Reichstag Graffiti book is a rhetorically powerful but historically
problematic artist’s statement. While evoking the ethos of the restoration of collective memory and the argument for the creation of a “living museum” of German history, it uses fragments of history to justify
design choices. The images of the markings, and the discourse that
frames them, construct a simplified argument that frames history.7 The
contentious question of the appropriateness of this restoration project
is framed into the opposing arguments of the “open minded pro-graffiti group” and the dark forces of the ultra right wing anti-graffiti lobby
(ibid., 35). The advocates of the removal of the graffiti are likened to the
Holocaust deniers, and the book ends with powerful words by a Jewish
teacher calling for the necessity of examining memories. The victorious
Stalinist rhetoric is thus propped up by the trauma of the Holocaust.8
The Second World War is shown as a struggle between two mighty enemies, the Soviet Union and Nazi Germany and the Holocaust is conveniently factored in as a rhetorical tool positioned on par with the Bolshevik struggle. Soviet historical accounts from the 1960s are validated
as historical documents. Quoted at length they set the rhythm for the
book’s narrative, and they seem to be given as much power as the invocation of the restorative forces of memory conveyed through the words
of a Jewish teacher, Baal Shem Tov, that close the book (see for example
quotations marking each of the sections of the book/clusters of graffiti
inscriptions ibid., 38, 57, 70, 85, 121).
7 Sources used for support of the historical arguments are at times astonishing. See, for example, the references to 1949 film The Fall of Berlin (Foster
et al. 2003: 28). This filmic glorification of Stalin, was clearly inspired by Leni
Riefenstahl’s Triumph of the Will and presented a massive rewriting of history
attempted at the time of Berlin’s blockade. It is perplexing to see this Stalinist
propaganda material enjoying uncritical print space in a publication on the
piece of art whose main goal is stated as “provision of living history” to German democratic nation.
8 In closing the book, Deborah Lipstadt who specialises in the examination of
the Holocaust denial, provides a powerful argument against the “inconvenient
history” and in a way closes off the possibility for considering a number of
other awkward histories that the Reichstag is knowingly and more probably
unknowingly, immersed in. The Warsaw ghetto appearing in the Afterward is
the only place to the East of the Reichstag whose histories have been shadowed by the long presence of Cyrillic letters and the Red Army flags in the
symbolic landscapes marked on the victorious Soviet journey (Foster et al.
2003: 119).
41
Forster underscores the power of graffiti as he marvels over “how the
scarred and graffiti-marked fabric of the Reichstag records the building’s
troubled past, and how these scars, once revealed, could be preserved,
allowing the building to become ‘a living museum of German history’”
(ibid., 17). Indeed, graffiti contains in its emotional gesture the imprint
of the past, an individual voice, here validated even further by a meticulous restoration that renders the fragment precious. The history that is
contained in these markings, however, is far too complex for the book’s
myopic frame. The marks themselves are far more eloquent. Graffiti’s political power is always context-bound, locally nuanced and the book unwittingly submits to the demonstrative (deictic) power of graffiti marking. Foster is right on his account of graffiti: the Reichstag writing does
speak eloquently of the local condition. But what he misses is that it
attests both to the victory and the defeat. The presentation of history in
the book, elevating the historical import of the restorative gesture and
deflecting possible criticism, is in itself a defeat of historical and ethical
discernment.
How do these images published in the exquisite catalogue, inform
the relationship between design and graffiti? Graffiti is used here as a
design tool and its historical significance becomes its copyright.9 Here,
a mark that is inherently specific validates a generic image of a selected
historic memory. Or no longer historic, perhaps, but art historical, since
the album privileges the aesthetics of the image of the mark and the
composition of the page that displays it. In this art project, the “tragedies
and traumas of the past” are used as instruments for legitimating an aesthetic gesture of fitting graffiti scrawls into the compositional plane of
the “architectural palimpsest.”
Lettering place and history
The Cyrillic letters unambiguously mark Berlin: they have grown to become a symbol of its conflicted history (see the cover of Barber 2001).
But they also mark a larger field of significance in this part of Europe. The
writing on the Reichstag tells not only the story of the victory over fascism but also of the subjugation by the Soviets of the national and cultural territories of “Eastern Europe.”10 While Sebald is aware of the tragic
material commonality of fate between Warsaw and the bombed German cities, Foster seems too preoccupied with his self-assured design to
consider the complex semantic implications of the writing he so beauti-
42
9 Each of the four Allied powers was represented by a work of art and Foster’s
design was the British contribution. Since the graffiti has become part of an
artwork, it is integral to the design and as such protected by Foster’s artistic
copyright. Now, “[t]o clean the walls would be the equivalent of painting over
part of the canvas” (ibid., 13, 36).
10 Viewed from Warsaw, the project of the restoration of Soviet markings on
the Reichstag looks highly problematic. Warsaw carries the scars of both the
1939 Nazi and Soviet alliance, conveniently overlooked in the chronology of
the war events set out in the book, as well as the scars of the consequences
of the Soviet victory. But few walls in the city are left to remember. See
Chmielewska (2007b).
fully weaves into his artwork.
Can the nuance of historical memory be evoked through generic imagery and stylised type, be it in the restoration monumentalised in a catalogue, or in a design gesture of lettering pretending to evoke personal
trauma? The paradox of each rests in the fact that both use the traditionally subversive, illegitimate act of graffiti to endorse design choices. And
both are highly effective as acute visual statements. The authenticity
and ethics of either, however, need to be critically positioned in relation
to the specificity of the place whose memory (and history) they purport to represent. In a sensitive representation, there should be no need
for verbalization of the obvious. The material surface of the ruined city
speaks expressively enough of its pain, without the need for an alphabetic translation and the rhetorical props of stylised letters. And a close
reading of an image of inscription adds a layer of complexity to a difficult
procedure of deciphering contextual references and their significance.
This is a challenge that a designer may want to avoid – eschew him/herself and intentionally minimise it for the viewer – by opting for treating
graffiti as a design gesture and history as a design prop. A critical reader,
however, must not. Sebald spoke eloquently of that challenge and the
deep meaning of images implicated and embedded in the recall of past
events, “attesting to acute visual situations” (ibid., back cover).
Graffiti is seductively photogenic, it is open to many compositional
possibilities, and it promises the thrill of apprehending a fleeting expression and an individual gesture. Its paradox lies in the ways it resists
representation in an image: once freeze-framed, bracketed by the camera’s lens, its original grounding in the marked surface and larger spatial context is compromised. Without the material link and temporality
contained in the fragile surface connection, graffiti becomes something
else: a detached rhetorical tool. Once an inscription is transposed into
an image – whether in a designed script, a photograph, or an exhibition
– it transforms into an aesthetic statement or a record set within the
new frame. Carefully selected and re-produced on the pages – through
intricate drawings and powerful close-ups that examine the trace of
chalk on the grain of the sandstone – the graffiti is transformed into
a different site of display. It attains a different demonstrative power; it
points to something else.
A graffito is a manifestation of uniqueness, it is an unrepeatable mark.
Like a signature, it is “simultaneously familiar and exceptional” (Fraenkel
2002: 315-317). It is explicitly present in its material context retaining an
emotion of an individual hand engaged in furtive writing. It designates
its particular context, marking a spatial entity with the temporal dimension of a specific trace. It creates what Michel de Certeau considered to
be a place, an entity that is “marked, opened up by memory” (de Certeau
1988: 106). The power of a graffiti mark rests in its authenticity, in its
immediate affinity to a specific moment, its “seismographic”, as it were,
act of recording the emotion contained in a particular gesture. This specificity can hardly be abstracted, if after James J. Gibson, we consider a
graphic mark a fundamental act of surface manipulation (Gibson 1966:
43
229). In such an act, the shape and power of the letters are immanently
linked to the materiality of both the tool and the surface, as well as the
discrete gesture with its intentional and emotional content.
Graffiti inscriptions contain complex tensions: between a desired permanence of broadcast and their acknowledged instability of presence;
between their vulnerable position – so open to replacement and writing
over – and the relative solidity of their supportive surface; and between
the individual gesture of marking and the public nature of presentation.
These tensions are played out against the specific context of display.
Graffiti is site-specific even if its placement may seem arbitrary; it attaches itself parasitically to the particular site at the very moment it appears.11 The choice of location is deliberate, governed by numerous criteria of visibility, accessibility and the related danger and fame potential
associated with the act. By taking place, graffiti designates its context
by marking a spatial entity with the temporal dimensions of a personal
trace. By taking place, it also makes itself public and thus vulnerable to
the elements, exposed to a chance apprehension and intervention, and
open to being written over.
When graffiti is used as a design tool and its historical significance
becomes its copyright, the validity of the mark as a surface witness is
compromised. A mark that is inherently specific and fused with the surface, becomes a generic image and a portable implement of selective
memory. The “tragedies and traumas of the past” become instruments
for legitimating an aesthetic gesture of fitting graffiti scrawls, like adornments, into the compositional plane of the “architectural palimpsest.”
A presence inscribed into a public place, a graphic witness to an event,
a trace of an expressive gesture, graffiti is most often a visual shout; it is
there to be noticed. This loud assertion of a personal voice against the
cici rules of the public place needs the materiality of the surface wall to
make its presence visible, to make its cry linger after its author has left
the scene. Graffiti is a topo-sensitive mark and a materially consequential
act and as such it accounts for the temporal and spatial dimensions of
the signifying surface. Its specific presence in the historical and political
context of the surrounding discourse is predicated upon this substrateas-witness. It is the presence and the where of graffiti that signify. Using
the surface for visibility, it makes itself present. Graffiti is a marker of presence: a place-specific sign, an equivalent to a linguistic shifter. Attached
to another surface it references only its new surface of display. Graffiti is
mostly exclamatory: it is an exclamation mark placed on the surface. It
uses the surface for visibility, it marks it to make itself visible. Even when
transposed into an image it retains the power of context-dependency.
Affixed to another surface it speaks only of its new site of display, but still
proclaims the same message: Look HERE! No matter where it is placed
it can only declare: Look at ME!. “Look at ME!”, cried Tony Blair. “Look at
44
11 I am using the terms “site-specific” and “place-specific” based on Edward
Casey’s (1997: xiii) distinction of site and place: “place brings with it the very
elements sheared off in the planiformity of site: identity, character, nuance,
history”. See also Chmielewska (2007).
ME!”, pleads the art gallery displaying graffiti art. “Look HERE!”, shouts
The Globe and Mail cover. “Look at ME!”, implores Sir Norman. Graffiti is a
self-pointing gesture, a cry for attention to itself, but it is a different self
every time. It’s a form of writing that ‘changes surfaces’. Every transposition results in a different territorial claim governed by the new place of
adherence. As Brassaï (2002; 152) asserted: ‘Here, everything arises from /
The material / As if predetermined by it. And it is this surface attachment
of the graffiti mark that we need to be attentive to for it holds immense
deictic power.
45
References
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Poynor, Rick (2002) Typographica. Newhaven: Princeton Architectural
Press.
46
Towards a vertical
urbanism
Space of exposure as a new paradigm for public space
Lorenzo Tripodi
Introduction
Object of this paper is to provide a framework to understand the semantic value of walls and, more in general, of urban surfaces, as key
elements in the contemporary urban economies, and as a contested
terrain in the quest for domination of the daily visual landscape of citizens. Vertical architectural surfaces reveal nowadays an increasing importance as communication devices: they are constitutive parts of the
system of distribution and display of symbolic values. We are talking
about a process geared to the general shift towards symbolic economy
(Harvey 1989; Lash e Urry 1994). No more site of production for material
goods, no more privileged field for residential concentration, inner city
becomes mainly the site for representational exchange. The contemporary city takes the substance of a node concentrating and regulating
flows of diverse nature, which increasingly manifest themselves as image production and consumption forms. In my research I argue that we
are observing the early symptoms of a vertical urbanism (Tripodi 2008).
It is not my intention with this term to refer to phallic apotheosis à la
Delirious New York, still describing an extreme extrusion of horizontal
surfaces declined to particular architectural solutions as skyscrapers and
high rise building. Rather, what is meant here is a trend in urban development in which the semantic use of vertical surfaces tends to overcome the horizontal logistic use of spaces in engendering value and
determining urban transformation.
The following paper is aimed at investigate such transformations,
adopting the concept of cinematic city to describe an emerging incarnation of the post-fordist metropolis; one where image production
stands out as the complex production/consumption chain reshaping
the urban experience of citizens as an essentially visual one; a metropolis where the space of exposure becomes the structured embodiment
of public space, designed to optimise the exposition of city users to the
spectacle of goods, impressed, entertained, directed by flows of commodified images.
Before entering the discussion of seemingly abstract definitions, I will
provide some examples illustrating the phenomena I am referring to,
47
Picture 1
suggesting how image production is becoming a fundamental structural force of contemporary spatial production.
48
Reading the urban palimpsest
With this first example (Picture 1) I come back to a case already presented in a former paper (Tripodi 2008), extending my previous observations. What in fact appeared to me at a first glance as a peculiar case
and a stimulus to start a reflection, revealed to be a sign of a general
tendency increasingly marking contemporary urban landscape. In 2006
in Berlin, it happened to me to observe carpenters installing a huge
scaffold in Leipziger Platz, close to Potsdamer Platz. What I initially supposed to be the beginning of a construction process for a new building completing the few ones already existing, revealed to be merely the
installation of a tri-dimensional trompe l’oeil simulating the presence of
a new commercial architecture. It could have appeared as a sporadic,
temporary episode, but in fact during the following month the process
went on, with new simulacra completing the ring, designing a whole
360° urban scenery.
It is a symptomatic example of image production processes leading
to physical transformation of space (Pictures 2, 3, 4). The space of a new
square, existing in fact only in the toponomastics and in the viability
Pictures 2, 3
49
Picture 4
50
system, which until the 90s was just a huge esplanade between the two
berlins, is designed according to pre-eminently visual issues. It is the
representation of a possible place, composed by simulacra of a building,
aimed at attract capitals and interests, and advertising for its own realisation. While mimicking a future potential, such ephemeral architectures
represent a productive resource for the media enterprise, supporting
Ad campaigns of major agencies. Leipziger Platz is located on a crucial
node of today’s Berlin, directly connected with the redevelopment plan
for Potzdamer Platz, a global tourist spot, a directional centre of the
symbolic economy, and a central place in Berlin’s imagery. It is not surprising that media corporations want to exploit such an ideal space of
exposure. What is more surprising is to substitute concrete architecture
with scenery, settling structures deprived of any logistic purpose but
the distribution of images through their vertical surfaces, as a mean to
extract visual rent from the location. The tendency to move towards a
three-dimensional image environment designed in function of the visual perception of the passer-by, already perceivable in the whole Potsdamer Platz project, is pushed here to the limits.
The phenomenon observed in Berlin is an extreme case, but not an
exception in the contemporary urban landscape. The colonization of urban surfaces for communication purposes, mainly commercially driven,
is a matter of fact at a global scale and can assume other radical connotations. It is in particular the case of post-socialist countries, where market forces are penetrating with dramatic intensity in the urban / media
Pictures 5, 6
51
52
landscape.
Here (Pictures 5, 6) we are in Bucharest, where huge advertisement
billboards punctuate the main crossroads and squares of the monumental axes built under Ceaucescu’s regime. The dominating corporate
image covers the hard shaped, materially encrusted rhetoric of the communist power: but, seemingly, in the same contempt of bodily issues,
neglecting the daily life of people actually inhabiting those architectures. Although realised with apparently transparent tissues, the huge
billboards wrap entire facades, covering balconies and windows, and
“packing inside” people living and working in the apartments. The same
phenomena happens also at a smaller scale, with huge billboards invading and denying the view of small valuable villas, in order to exploit the
favourable position of their gardens.
The world of (commodified) images dominates the daily life of inhabitants, pushing the lived experience in the background of the represented, behind the screens of mass visual communication. Ironically
enough, much of the advertisement, together with telecommunication,
cars and financial services, is about new luxury condominiums promising high rank lifestyles in the outskirts. Is worth to note that most of the
new business appearing in Bucarest are related with representational
exchanges, such as banks, money change, transfer services, telephony,
betting agency and casinos, while the evident effort of urban communication is to build a dynamic, modern image for the rumenian society,
inspired by aggressive neo-liberal models.
My third pictorial example (Picture 7) derives from the presentation
of Sant’Elia Master Plan designed by OMA, the studio of Rem Koolhaas.
Sant’Elia is a problematic neighbourhood in the eastern periphery of
Cagliari, a typical case of modernist social housing settlement built in
the late seventies, today stigmatized as a deprived area and as a centre for drug dealing. At a political level, it is a key issue for maintaining
consensus in the eventuality of next elections. Among the planning issues for the area, the substitution of the old football stadium with a new
structure, and the realization of a new Contemporary Arts Center on the
waterfront of Betile, designed by another star of the international gotha
that is Zaha Hadid.
The so called Master Plan for Sant’Elia, has been recently presented in
Cagliari in the context of FestArch, a festival dedicated to architecture
and landscape. The collocation itself speaks of a carefully conducted image operation, directed at endorsing the future vision of Cagliari and
the Sardinia proposed by its progressive president Soru. Both Koolhaas’
plan for Sant’Elia and Hadid’s project for the museum are at he moment
far to get any solid base to be realised, representing basically an imageconstruction campaign aimed at mobilize consensus and capitals. They
show the most typical interpretation of what we have called the process
of image production as a factor of transformation of urban space. But
what I want to analyse is specifically the above picture, which is a rendering of the future Sant’Elia Stadium presented to the public of the festival
by Floris Alkemade of OMA studio. The designer explains that the choice
Picture 7
to remove the south section of the stadium has been taken in order to
open up a view on the future Contemporary Arts Centre of the AngloIranian architect. To reinforce the concept, the designers have chosen to
render this image as a television plan during a football match, showing
the image that would be broadcasted. Notice, by the way, that despite
the will to wink at the local football team’s faith through the representation of a fictional match where Cagliari is triumphantly winning against
the historical enemy of Napoli F.C., in fact, they demonstrate little fair
play: by eliminating the curva sud, the south sector traditionally gathering place for supporters and clubs coming form the outskirts of the city,
they are erasing a topos marked by strong and recognised local identity.
On the other hand, the argument for the presented solution is: imagine
that every Sunday evening, when millions of Italians will be watching
the sport news, the correspondent from Cagliari will be framed by the
new architectural jewel designed by Zaha Hadid, advertising for the Sardinia Region with a prestigious architectural landmark. The process of
image production is even more sophisticated here: we could observe a
second level of penetration of image production in determining spatial
relations, where from the very beginning the architectural project is designed according to the need to produce specific photographic plans.
The design is already explicitly concentrated on producing an image of
a place, destined to be televised and managed by media as an iconic
value. Symbolic value of architecture overcomes its direct use value.
That the visual perception of a landscape is considered a productive
53
Picture 8
resource, it is again not a novelty; the visual perspective of a city is definitely part of its economic assets; however, in the present condition this
factor appears to be progressively more relevant, while housing sector
consolidates as a key sector and an important source of profit in the financial market. The image I present to close this sequence of glances is
a scan from the real estate supplement the International Herald Tribune
(Picture 8). The advertisement for a new luxurious residence in Manhattan points on the “skyline made famous in a million films and photographs” as the added value of a property shown only through its view.
New York City is probably the most exemplar case, the real prototype of
the cinematic city: a city whose identity have been profoundly reshaped
by the cinematic realm, whose skyline is a fundamental component of a
multitude of film and television productions, whose image is constantly
broadcasted, exposed to a global audience, through a multitude of media channel, in an inextricable mix of fictional representation and historical facts that has probably reached its paramount after 9/11.
54
Image production in the urban economy
The above listed examples show different situations in which the
process of image production assumes an important role in the urban
life, redirecting capitals toward specific spatial transformation, redefining the architectural consistency of the city, or reshaping citizens’ everyday experience through intensive mediation of personal interchanges.
Image production stands out as the complex production/consumption
chain reshaping the urban experience of citizens as an essentially visual
one; engendering a metropolis where the space of exposure becomes
the structured embodiment of public space, designed to optimise the
exposition of city users to the spectacle of goods, being impressed, entertained, directed by flows of commodified images. It is an emerging
form of production that implies a massive use of tools and techniques
derived from media and entertainment industry, able to engender and
exploit value from the urban location. Spatial transformation process
are increasingly influenced by the necessity to the capture potential attention of citizens/spectators, determining what has been also depicted
as an attention economy (Goldhaber 1997), and connected more and
more with the distribution of information through digital networks. It
is not a coincidence if among the most important players in the urban
new economies we find today big corporations of the entertainment
and media sector, which deploy an aggressive attitude to monopolize
control on urban surfaces and exploit their communication potential.
The landscapes of major capital cities, as well as the emerging urban
spots of developing countries, are shared and dominated by such holdings as Viacom (a division of Warner Bros), CBS, JPDecaux, Wall, etcetera:
companies that from being concessionaires of advertising spaces have
expanded their influence on controlling services and mobility features,
retail and urban furniture, investing in future developments and influencing public space uses and regulations. Their strategies are easily
inscribed in the entrepreneurial transformation of urban government,
significantly contributing to a neo-liberalist urbanism focused on private-public partnership and remarkably unbalanced towards speculative attitudes (Harvey 1990).
An archetypical and extreme example of such tendencies is that of
New York’s Times Square Business Improvement District, a model for
the numerous BID which since the 80’s has been established in American cities. A BID is literally a “self taxing enclave aimed at enhance business oriented areas” (Kahn 2002), in fact a private corporate entity taking over the local governance of an urban district, providing services,
maintenance, sanitation, security on its own. It is a typical instrument
of management of the neo-liberal urbanism (Tripodi 2004). In the case
of Times square, it is also a development lead by media companies that
owns the main properties on the area, namely the New York Times, from
whose general quarter the square takes its name, and other like Disney, Reuter, etc. It is an urban district conceived as a theatrical space,
concentrating in one place one of the densest quantity of screens in
the world, overexposing the passers-by to a frantic explosion of shiny
digital images. Times square is the ultimate global district, a monument
to, as well a productive site of the advanced corporate global economy.
The Business Improvement District has been the means through which
55
the area has been cleaned up and cleared of the variegated population that has always characterized it, transforming it into an epitome
of the post-modern urbanism. While reconfiguring as a global space
of flows, it looses in the meantime its traditional character, its historical identity and the remnants of past communities and cultures. (Boyer
2002; Eeckhout 2002). Times Square has been sanitized since the 80s
trough a huge restyling / regeneration process in which the public sector has consistently yielded its competencies in favour of private actors,
defending essentially commercial interests. The private managing of a
prominent global space of exposure includes even extreme solutions as
the institution of a semi-private justice court, the Midtown Community
Court, defined as “quality life defendants”, allowed to prosecute small
crimes against property and decency, including prostitution, loitering
and graffiti, and allowed to sentence perpetrators to social work. “Wearing bright blue vests, quality-of life offenders at Midtown pay back the
community through visible community service projects—painting over
graffiti, sweeping the streets, and cleaning local parks”1. The “criminals”
are exposed as an example of industrious redemption to the view of
the citizens. Similar policies, on one side endorse the prominence of an
economy of image discouraging any spontaneous, dissonant use of the
space, on the other reinforce the hegemony of few corporate actors in
monopolizing their communication potential. What was once the result
of a distributed capacity to create the image and the identity of a place,
with all its chiaroscuro tracts, is now a bright, spectacular and flat movie
show totally dominated by concentrated corporate actors (Picture 9).
Managing the space of exposure
If we look at contemporary urban debate, the management of imagery is more or less evident at the core of the main phenomena affecting contemporary urban world and in many terms inhabiting current
disciplinary discourse. Urban renewal, urban marketing, gentrification,
disneyfication, festivalization, mass tourism, cultural heritage, cultural
economy, creative city, are all locutions describing social phenomena,
structural adjustments or transformations of the urban economy strictly
related with image production forms. They speak of building, changing,
preserving the image of the city. To renew the image of a place is the first
step towards financial investment and physical transformation. The new
creative class (Peck 2005) invoked as a panacea for revitalizing declining
cities, is one mainly composed on image professionals. This brings tools
and techniques initially refined by visual arts and media industries to
assume a relevant role in the design and management of urban space,
in combination with disciplines as planning, architecture marketing and
policy making. Film production in itself is becoming a model for spatial
production, where the development of fictional narratives is the framework for the realization and consolidation of actual processes of urban
56
1 http://www.courtinnovation.org/index.cfm?fuseaction=Page.ViewPage&Pag
eID=591&currentTopTier2=true
Picture 9
restructuring. Set and light design, graphic design, digital rendering are
contributing to redefine urban design as a discipline dedicated to manage the visual perception of the city.
The architect itself is renewed as professional figure. Its role in the urban production process its more spectacularized than ever. The term
ArchiStar recently entered in the common use, conveys the idea that
professionals in architecture have a similar function to that of the stars
of entertainment business, enlighting on the basis of their fame and recognized public image every production they take part to with sure success. Entertainment industry and spatial production increasingly share
similar attitude. Contemporary urban landscape is no longer divisible
from the related mediascape.
Urban planning tends progressively towards the logistics of perception.
The concept, introduced by Paul Virilio (2000), was originally intended to
describe the evolution of military technologies but can easily applied to
contemporary urbanism. If the structural relationship between military
and media industry is nowadays taken for grant, not less substantial is its
reflex on spatial production and the relative global urbanization. Control
on visual means is a way to obtain strategic domination of space. It can
be objected that this is nothing new: speaking in general, architecture
always acted as a mass media. But new media are now in unprecedented way proliferating embedded in the architecture. Alongside the diffusion of information technologies, fostering communication tools and
practices to permeate all sectors of human activity, the representational
world of images is gaining an hegemonic role in the everyday realm of
citizens. Pictures, screens, projections movies multiply in public as well
57
as in private spaces: a process rendering the difference between the
public and private realms a biased and ineffectual one, redefining, in the
meantime, the concept itself of public space (Tripodi 2004).
The proliferation of new media substantially endorse the domination
of a cinematic experience of the city, that is a relationship with the environment, as well as with the others, intensively mediated by moving
images and managed through digital devices. The cinematic experience
is no longer a sacral, separated moment outside the ordinary and the
concrete life; rather, liberated from the constrains of dedicated space,
extracted from the camera obscura of theatrical venues or from domestic living rooms dedicated to television rituals, pops out in the urban
fabric through all possible surfaces. Images appear on walls, facades,
billboards, signage, personal and public screens, and through any other
kind of transparent or opaque, passive or active surface carried on both
the internal and external structure of public transports, broadcasted
through a myriad of constantly smaller, more mobile and connectible
personal devices, in the personal screens of computers, cell phones and
consoles, set in the programmable surfaces of new architectures, images pervasively inhabit the city: they build up a parallel meta-urbanity.
It is a colonization operated by the cinematic realm on the lived space of the everyday, but as well vice versa, as production and consumption increasingly merge in the post-modern condition, and everyone
contributes, consciously or not, to the proliferation of images. A new,
possessive attitude towards the image, push individuals to produce and
insert in the consumption circuits an uncountable amount of pictures,
unceasingly contributing to the construction of the metacity of data. In
a hypermodern condition where no experience is fully lived if it is not
digitally recorded, tracked, encoded, such a proliferation strongly contributes to endorse new fluid, mediated and primarily visual forms of
relation with and within the urban space, giving place to what we can
described as a cinematic urbanism (Picture 10).
58
Understanding the cinematic city
There are different ways of using such term in the current critical discourse. In the main view, with cinematic urbanism is meant a way to
analyse the urban environment through the cinematic sphere and to
assess how cinematic image contributes to the formation of the urban
identity. Namely, a cinematic epistemology of the city (Nazer AlSayyad
2006; Clark 1996). But if the role that more and more cities have in modern cinema is unquestionable not enough attention has been payed to
the complementary underlying process: that is, the substance that moving images are increasingly assuming as a constitutive element of the
urban landscape. In my personal view, with cinematic urbanism should
be understood as well a way to grasp structural transformations of the
urban environment endorsed by the pervasiveness of cinematic devices
and new media in the information age.
Thus the cinematic city is the result of three deeply intertwined processes, affecting at a global scale all realms of human life:
– the progressive fluidization and mobilization of human behaviour in
connection to the increased mobility of goods, people and money;
– the overwhelming production of images and data constituting the
dominant form of production in the urban contemporary landscape.
– the increasing mediation of interpersonal relationships through
technological devices and institutional protocols;
Such processes engender epistemological spaces which can be alternatively analysed as space of flows, mediated space or space of exposure;
they concur to define the cinematic space as a new identity of the civic
urban form. Furthermore, they represent the three constitutive dimensions of public space:
– the inherently horizontal dimension of mobility, producing an interpretation of public space specifically as transport infrastructure, articulated as a system of roads, squares, open spaces, airports and railways.
– the essentially vertical articulation of semantic surfaces, that is the
representational space where symbolic productions are displayed, distributed, exposed to the public. This includes shop windows and billboards, signage and architectural facades, but also, and increasingly so,
screens of computers, televisions and other personal digital devices.
– a networked dimension, that is the mediated space of information
communication technologies; linking together both the former dimensions, it has the extensivity of the first combined with the parametric
temporality of the second. In this last perspective, public space becomes
Picture 10
59
essentially interface. It has no inherently spatial nature, but instead is
strictly dependent on the material presence and performativity of wires,
cables, antennas, chips, encoders and decoders, magnetic supports and
data storage devices.
Towards vertical urbanism
The urban production process in the global system is increasingly
distributed in delocalized networks, but emerges from production to
consumption through the vertical articulation of surfaces that represent
the predominant aspect of the contemporary global city, determining
an urban palimpsest experienced as succession of frame. Programmed
flows of images represent the core of the urban experience. The screen
becomes the main morphological element in a city where to be visible
is as important as what is actually done inside architecture, if not more.
Persistence succeeds existence in the essential urban ontology (Virilio
1984).
I already argued in my research that we are observing early symptoms
of a vertical urbanism, a urbanism in which the semantic use of vertical urban surfaces is overcoming the horizontal logistic use of spaces in
engendering value and rent (Tripodi 2008). Urban design moves from
fields to frames: land’s logistic use of horizontal surfaces lose (relative)
relevance in respect to the semantic use of vertical ones. If, in the past,
the design of the city has been basically drawing plans from an aerial
point of view, distributing functions through the physical space in a primarily horizontal articulation, now we face the emergence of a discipline aimed at organising the visual perception of an urban palimpsest,
constituted by an essentially vertical succession of frames. This new perspective calls for fundamental issues about who are the actors producing, regulating and controlling such visual articulation that is becoming
a substantial expression of contemporary social space.
60
Some conclusive concerns
As a matter of fact, private actors, and expressly corporate identities,
represent the main force shaping such a vertical dimension of planning.
The horizontal modern organization of urbanism had to deal with the
territory, as a cultural determination of natural assets and productive
labour, and with such notions as locus, place, and consequently, states,
national identities, or, in general, with political representations. The essentially public character of the concept of territory, with its environmental balance issues and its implicit nature of common resource has
always been recognized. The vertical post-modern urbanism is rooted
in a technological reproductive capacity connected to market economy.
The whole technological infrastructure supporting the mediated social
space is privately owned and developed, as well as deeply geared to
an implicitly entrepreneurial military industrial capacity (lets think of the
internet’s as well as locative applications’ original development, and in
general, of computing), expressing the less trustworthy incarnation of
state powers. The development of the urban palimpsest is almost left
over the entrepreneurial capacity of aggressive conglomerates of media
powers: it is a phenomenon particularly critical in the context of new
mediated spaces of web 2.0, for instance, but appears increasingly relevant in urban street life and in the hyperreality of new public/private
spaces. The sociability created through such a concatenation of information technologies and spaces is subsumed into a production / consumption chain, and put at work as a productive process substantially
commoditizing every form of social interaction (Debord 1971).
On the other hand, such a monopolization of the urban semantic
sphere engenders a multiplicity of resistance and expression practices
reclaiming the public character and the right of self determine the visual
space of our cities. In such a dynamic can be inscribed practices as graffitism, street art and all forms of public art reclaiming visibility in public
space, and activist practices trying to interfere with the concentrated
control on the mediascape and to react against the visual pollution of
the city, as in the case of subvertising practices, of the Anti Pub campaigns, and other forms of detournement and sabotage of corporate
commercial communication. Such are practices developing parallel
and intertwined with the multifarious forms of media activism, which
try to build up alternative models for the construction of information
networks and to contrast the domination of mainstream media. There
is ultimately a strong connection of such spatial issues with the themes
of intellectual property and copyright reinforcements, and the risks of
an uncritical and restricted understanding of those concepts and their
reflex on spatial politics. A new political consciousness of the cognitive
nature of urban space is needed to defend an open and cooperative
vision of cultural production in opposition to a competitive and proprietary based attitude. Social life is increasingly becoming a by-product
of mediated infrastructure, and managed as a content conveyed by privately owned channels: what we have to fear, acknowledging the progressive conflation of traditional horizontal space with the incoming
vertical cinematic space, is the progressive extension of a pay per view
philosophy to all the realms of urban social life.
61
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62
Walled Urbs to Urban Walls –
and Return?
On the social life of walls
Andrea Mubi
Brighenti
Walls seem to be surprisingly under-researched. One can find a wealth
of reflections on the symbolic value of walls – they are universally known
as symbols of segregation, containment, division, securitisation. In most
cases, stories of walls are sad stories about hate and fear of others. Indeed, the immediate relevance of architectonic artifacts to social life is
evident. Georg Simmel (1994 [1909]) first drew sociologists’ attention
to ambiguous architectonic devices that simultaneously separate and
connect, such as the bridge and the door, stressing the specific human
talent to ‘separate the connected or connect the separate’. However, despite such early interest, little subsequent research has been devoted to
understanding how walls specifically work from a sociological point of
view. The preeminence of the symbolic interpretation, together with a
rather simplistic understanding of space in traditional sociological theory, can explain this lack of interest. Symbolically speaking, walls appear
as rather univocal and consequently do not deserve extensive enquiry.
Symptomatically, the same sociologist who first devoted serious attention to the spatiality of social formation opposed doors to walls, on the
basis of the fact that the former ‘speak’ while the latter are ‘mute’. Function, meaning, and symbolism soon became prominent in sociology,
and ultimately, walls do not have much to say from that point of view.
Only recently has an interest in materiality reappeared in sociology.
In this context, the question can be finally raised: is it possible to study
walls beyond general symbolism of separation and exclusion, tackling
how they concretely shape social relationships? In other words, is it possible to set a research programme devoted to analysing the social life of
walls at large? In this chapter, I would like to suggest a series of points
that could help us define what a full blown sociological study of walls
needs. First of all, we can identify a series of features that walls have,
which also represent a series of aspects upon which an enquiry can be
based :
a. Materiality. ‘Walls’ is in fact an umbrella term and a shorthand for a
series of wall-like artifacts, i.e. objects that are primarily aimed at creating and sustaining some sort of boundary. This type of object includes
a group of separating artifacts, such as barriers, fences, gates, parapets,
63
64
barricades, barbed wire (on the latter, see in particular Netz 2004), and
so on (for the vivid reconstruction of a particularly tragic story, see Weizman 2007). Overall, these objects certainly rank as low-tech devices
compared to smarter population management devices – used for both
human and animal populations. The undeniable effectiveness of walls,
however, is due to the fact that they impact directly on bodies, on the
materiality of the social. Originally, boundaries act upon bodily movements, hampering some trajectories and facilitating others. This explains
why walls are still among the most effective and direct devices for the
government of populations around the world. Thus, wall-like artifacts
should firstly be classified and studied comparatively, on the basis of
the differential degrees of superability they have, but also permeability, transparency, and so on. Materials technologies and building technologies – more precisely, the relationship between these technologies
and bodily movements and the mobilities they enable – are the point
of departure of our study. Materials range from stone, through glass (a
crucial mid 19th century innovation in architecture), to smart electronic
movement-sensitive devices. In any case, it is clear that fixity cannot be
taken as a defining feature of walls, given that tactical uses can exploit
movable surfaces such as trains, lorries, and so on as visible walls (see
the points on visibility and uses below).
b. Territoriality. Taking the material dimension seriously does not mean
discarding the immaterial, but instead studying precisely the points of
convergence between the two layers. Walls’ territoriality is a case in point
because every territory is in fact a mixed entity, material and immaterial at the same time. What territories do is inscribe relationships into
a given material support. Territories are better imagined as processes
than objects. In fact, making territories equates to drawing boundaries
and sustaining the relationships that are defined by and depend upon
those boundaries (Brighenti 2006). In this respect, walls are fundamentally vertical, and the first meaning we can give to verticality is impediment. As vertical boundaries, walls constrain people flows transforming
a smooth space into a striated one. The well known historical example
is urban residential segregation, which begins in the form of the walled
Jewish ghetto (see e.g. Calimani 2001 on the Venice ghetto). Incidentally, walls are not the only tools of segregation. Shantytowns and favelas are segregated without being walled, as not many people from the
outside wish to go there. More generally however, urban space would
hardly be conceivable without wall-like artifacts and to all appearances,
the history of the city is a history of boundaries no less than a history
of flows. Most importantly, boundaries are not all-or-nothing barriers,
but always a matter of degree and relative speeds. On the basis of a
processual and relational view on territory, walls should be studied not
so much in terms of their physical extension and location, as much as in
terms of the affects that they create. Here, we can also appreciate that
the difference between a wall and a door is in fact quite relative. People
who are not admitted will experience the wall-like quality of doors and,
for some, taking walls as doors can even become a personal, political,
Picture 1. John Fekner, My
Ad Is No Ad (1980)
or economic challenge. Walls demarcate a within and a beyond and, by
doing so, they define flows of circulation, set paths and trajectories for
people and, consequently, determine the possibilities and impossibilities of encounters.
c. Visibility. As soon as we analyse the territoriality of walls, we realise
that not only are walls boundaries between territories, but are themselves territories. To people, they are meaningful, not only for what they
separate or hide, but also in themselves. Consequently, we encounter a
second meaning of verticality, namely surfaceality. Logically speaking
walls are in-between people, vehicles, etc. – yet phenomenologically
speaking they constitute a horizon, however relative, which is meaningful in itself. In a significant sense, architecture is the science and the art of
this relative and close horizon. Also, recent studies on ‘cinematic urbanism’ (Alsayyad 2006) originate precisely in the consideration that urban
walls are like surfaces of projection. If for Simmel walls were mute, 1968
– Guattari reminds us – taught us to read desire on the walls (see also
Fraenkel, chapter 1). Although not in a politically explicit way, a whole
generation of graffiti writers and street artists understood quite clearly
the lesson of walls’ visibility – as did advertisers, at least since Simmel’s
times. Street artist John Fekner best represents such ambivalence in his
1980 stencil ‘My Ad is No Ad’ (Picture 1). As Iveson (2007) remarks, walls
deliver a sort of constant ‘public address’. Outdoor advertisement and
graffiti are both part of such process of attention claiming that repre-
65
66
sents an essential part of the new type of urban capitalism and entrepreneurialism (Chmielewska 2005; Cronin 2008). From this point of view,
walls are to be studied in terms of the differential visibilities they possess
and consequently confer, as well as in terms of the social effects of such
visibility. A politics of visibility – which, with Tripodi (2008), we may also
call a politics of verticality – is crucial to appreciate the stakes of the social life of walls: corresponding to every definition of a field of visibility
are demands and tensions which endeavour to establish a connection
between the possible and the proper, between what can be seen and
what should or should not be seen, between who can and who cannot
see others. Thus, the symbolism of the wall as an exclusionary and containment device can be better understood as a single specific arrangement in a wider field of the politics of visibilities.
d. Rhythm. A sociological study of walls cannot abstract itself from
the fact that walls possess rhythms. As any other boundary artifacts,
walls have life cycles, which correspond to successions of points and
moments of concentration and dispersal of people, objects and events.
Rhythms occur at different time scales, ranging from temporary, occasional, and emergency-related (e.g. cordon sanitaire, police no-crossing
line etc.), through regular (to retrieve Simmel once again, a door can in
fact be observed and described as a rhythmic wall) and cyclic (circadian,
hebdomadal, monthly, seasonal, and yearly cycles – like Middle Age city
gates but also the Jewish eruv), to generational (with the Berlin wall providing a clear example of generational wall), historic, and ‘immemorial’
walls. All these different rhythms are not simply successive or alternative to one other, rather coexistent, stratified, modulating each other.
Urban renewal megaprojects, for instance, can be observed from the
point of view of the heavy impact they have on the rhythms of walls in
the affected zones. The social life of walls also includes conflicts over the
rhythms of these artifacts. Thus, in our study of walls we need to include
an analysis of rhythms, based on the factors and determinants of each
rhythm, its scale, variance, predictability, and so on.
e. Uses. By far the most complex dimension is related to the different
uses of walls. In the political economy of urban spatiality, walls appear
as governmental objects. Recall that Foucault (1991 [1978]) describes
governmentality as comprising three interlocked elements: a set of institutions and procedures for the exercise of power over a population,
the emergent historical configuration of such governmental savoirs,
and the application of these tools to political institutions, in particular
the administrative state. Within this broad framework, one can appreciate the fact that walls are planned and built as part of a strategy aimed
at controlling people by means of controlling spatial displacement. A
vision, or plan, is at the core of wall-building sciences. From the strategic point of view, walls appear as useful separators and flux managers. Further, not only must walls be built, they must also be maintained,
repaired, reconfigured. However, walls do not lend themselves only to
strategy. While they are introduced as strategic, they are also always subject to tactical uses. Both strategies and tactics (as classically described
by de Certeau 1984) can be regarded as territorial endeavours (Kärrholm
2007). Notably, the classical distinction between strategy and tactics
does not mean that established power is only strategic and the powerless are only tactical. On the contrary, social movements, oppositional
and subcultural groups often develop strategic lines and, conversely, we
often see situations in which the establishment acts tactically. In any
case, situational interaction constantly modifies and reshapes the significance, impact and meaning of walls. For instance, graffiti are tactical
interventions upon walls, in the sense that walls are built by day and
painted by night. Whereas strategy aims at naturalising walls, pushing
them to the background, tactics re-thematize them in various guises,
pulling them towards new foregrounds. From the tactical perspective,
the most remarkable feature of walls is that they offer a visible surface,
which becomes a surface of inscription for stratified, criss-crossing and
overlapping traces. Such traces are highly visible interventions that define a type of social interaction at a distance. Besides immediate direct
interaction between people, urban environments are full of, and sometimes saturated with, such types of mediated interaction. Our study of
walls must then account for the strategic and tactical uses of walls. We
want to tackle how they define, not simply closures, but also fixtures,
interstices, and all sort of mediated interaction.
Having thus set out the fundamental aspects or analytical dimensions
of walls, two hypotheses can be put forward, which a comprehensive
sociological study should address. The first is a historical hypothesis.
Compared to the medieval walled city, the modern city transforms walls
into elements of a spatial political economy of government. The outer
boundary and its capacity to protect the city from external invasion is
no longer what really matters (siege being the definitional event of this
historic configuration), instead it is the capacity to manage enclaves
within the city. As said above, walls become tools for the government
of the population. Consequently, it is the power to control settlements
and fluxes of people in the urban space that becomes essential. Housing and logistics (stockage, transport, distribution, and delivery) become
prominent goals for planners from both economic and political perspectives. The Fordist industrial economic model corresponds to such spatial
organisation, in which walls separate classes, qua large occupations
groups, that have different experiences of the city. At a further, third
stage, the contemporary city presents us with a new development in
the social life of walls. New forms of segregation emerge, based on new
‘smart’ technologies that increase selectivity in individual access. Walls
become virtual: they are pluralised and potentially everywhere. Once
the technological infrastructure is implemented, it takes no more than
an instant to actualise an ad hoc wall. Thus, we seem to be faced with
a new ‘partitioned city’ (Marcuse 1995; Caldeira 2001), or dual city. As
observed by Stavros Stavrides (2006), ‘in today’s partitioned cities thresholds are rapidly being replaced by check-points, control areas that regulate encounters and discriminate between users’. Lianos (2001) sums up
the features of new ‘post-industrial’ social control as consisting of three
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major aspects: privatisation (fear of ‘exposed’ public space), cindynisation or dangersation (the city interpreted as a field of threatening potential events), and periopticity (social control enacted no longer through
panoptic surveillance, rather through autonomous and differential individual motivation grounded in competition for access and inclusion). In
short, the first hypothesis is that the impact of governmental diffusion,
as well as the capillarisation and infiltration of power devices at every
scale, entails a concurrent multiplication of walls and wall-like artifacts
(Brighenti forthcoming). The encompassing external boundaries of the
walled medieval city are replaced by the dispersed, articulated, selective
and ultimately virtual internal boundaries created through the work of
wall-like artifacts within the modern city.
The second hypothesis argues that despite or maybe precisely because of current transformations in governmental social control, walls
retain a potentiality for being places not only of conflict and resistance,
but of public life properly speaking. In particular, a comparative perspective on different designs and uses of walls should be able to assess walls’
situational capacity to create the public, i.e. to stir movements and affects that resist enclosure, privatisation, exclusion, and eviction (see e.g.
Blomley 2004; Delaney 2004). Struggles take the form of in/visibilisation
strategies and tactics. Social and political conflict is thus technological,
cultural, and legal at the same time, as it is fundamentally articulated
around the techniques or ways of making walls and wall inscriptions
either visibile or invisible according to different plans, as well as around
the meaning that is attributed to such in/visibility and the effects that
follow from these attributions. Understood as convergence zones between the material and the immaterial, walls basically concern the relationship between bodies and their environment, speeds and affects,
the engineering of affects and mobility through one another. From this
point of view, comparative analysis of different types of walls is essential
for our study. For instance, the role of walls in airports and urban graffiti
can be meaningfully compared. With respect to the former, Adey (2008:
443) observes:
Passengers follow the usual procedures of checking-in, going through
security control, waiting in departure lounge, going to gate, waiting
in gate, boarding plane. Between these processing sites, corridors and
walls are constructed to limit possibilities. Such designs are premised
upon the imagination of the passenger-as-tick; rendered with a limited
set of actions and reactions by the building.
It is precisely the range of reactions to walls that graffiti culture has
been constantly challenging. Hostile reactions and anti-graffiti campaigns (Ferrell 1996; Austin 2001; Dickinson 2008) should be analysed in
specifically in connection with the affective challenge that graffiti issue.
So, in a recent ethonography, Schacter (2008: 42-43) has found that:
68
The dominant motif that emerged from conversations with members
of the anti-graffiti establishment was the ability of these illegally based
images to physically attack, rob, or commit violence to their victims
and the local communities […] Graffiti was frequently condemned for
not only providing an unpleasant, ‘ugly’ aesthetic and an ‘unsightly’ surrounding to live amongst, but also for the way it violently confronted
the viewer in a bodily manner.
The least that can be added is that such perceived violence is overabundantly counterbalanced by the legal violence with which graffiti
writers are prosecuted under contemporary zero-tolerance policies – often with the schizophrenic effects described by Ella Chmielewska (chapter 2), whereby graffiti star simultaneously as profitable, chic street art for
the ‘creative class’, and as the folk devils of securitarian, punitive bigotry.
Sad as this scene appears, it is nonetheless revealing of the potentiality
of walls to create the public, i.e., an arena of mediated interaction and a
socio-technical and legal-political battleground.
Ultimately, a comprehensive sociological study of walls can be conceived as a territorology, attentive to the interweaving of material and
social relations. Walls manage space, command attention, and define
mobility fluxes that impose conduct, but they are also constantly challenged because of the meaning they assume: they can be reassuring
as well as oppressive, they can be irritating as well as inspiring. The territorological study of walls investigates the convergence of the sociotechnical and the legal-political. On the one hand, it recognises the
political import of technology. Technology is an inherently political
problem, which new virtual-wall-building technologies pose most dramatically. Therefore we must first study how walls are actualised, how
they take place through a range of different technological set-ups. On
the other hand, law and politics are also a technological problem. In fact,
our second field of enquiry must be the ways in which law and politics
work as concrete technologies of power. In other words, they are not abstract schemes (e.g. contracts, rights etc.), rather materially based practices that concern spatial displacement and the creation of visibilities
and affects through different spatial uses coming together in territorial
processes and relationships. Here is where a socio-technical and legalpolitical – in short, a sociological – study of walls begins.
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71
Festival Città al muro /Cities at the wall, July 2008
Marco Dalbosco, Paper Religions III (2008) Installation
72
Il muro come dispositivo
percettivo
Cristina Mattiucci
Il muro e l’immagine della città
L’evoluzione dei fenomeni urbani è intimamente connessa alla costruzione (e distruzione) delle mura. Le mura rappresentano un tema di lunga durata che si esprime come condizione problematica (Le Goff 1989)
per una presenza che si registra a partire dal Tardo Antico fino al XIX
secolo e permane in un certo senso fino ai giorni nostri, manifestandosi
con le sue proprie peculiarità, dovute alle differenti condizioni territoriali
e contestuali ove è rintracciabile.
Attraverso la genealogia delle mura, si può tracciare un modello urbano polisemico essendo le mura stesse al contempo un fenomeno
tecnico, militare, economico, sociale, politico, giuridico, simbolico ed
ideologico (Le Goff 1989). L’esistenza delle mura è per certi versi una
condizione ontologica della fondazione delle città, connaturata all’atto
di traccia dei loro confini, che a sua volta ed in modo complementare determina per esclusione tutto il “non-urbano” (Mattiucci 2007). Se, a
partire dalle mura come espressione materiale di una modalità di organizzazione del territorio, ci si sofferma sui muri come segmento elementare di un più complesso dispositivo perimetrale e fattore generativo di
particolari condizioni visivo/spaziali, la ricognizione della loro presenza
nella città contemporanea può suscitare molteplici riflessioni.
Al di là della mera condizione spaziale, e della dimensione scalare a
cui questa si manifesta, l’elemento diaframmatico rappresentato da un
muro assume un ruolo determinante nel definire un dentro e un fuori e
le relazioni dialettiche tra chi sta da una parte e dall’altra, che esplicitano
in primis in termini di visibile e non visibile e quindi in termini di una
lontananza (ovvero vicinanza) gestita sia dai collegamenti fisici che da
quelli mentali che il muro stesso contribuisce a costruire.
Un muro si erge per diversi motivi, per delimitare un’area in cui vigono
determinate regole o per questioni di sicurezza, per esempio, ma è possibile riconoscere in ciascun muro una sorta di comune denominatore
nella condizione di visibilità che genera e che, seppur nell’evoluzione
della natura del diaframma, determina quella dimensione visuale che
ha un ruolo centrale nell’interazione sociale (Brighenti 2007) e numerose implicazioni nell’organizzazione dello spazio e del territorio. Con
73
74
riferimento alla dimensione visuale è possibile estendere la riflessione ai
muri contemporanei e più in generale alle superfici-diaframma della città contemporanea, seppur nella loro varia natura materiale, a partire dal
riconoscimento del muro come elemento di costruzione dello spazio
visivo, che organizza di conseguenza lo spazio urbano. Il muro, infatti,
oltre che occultare, guida lo sguardo, soprattutto nei modi in cui definisce i limiti della visione e di conseguenza determina percorsi, influenza
le accessibilità e più in generale costruisce l’immagine della città.
Anche quando le mura come cinta fortificate scompaiono nella crescita della città moderna, per ricomparire poi nei recinti della città industriale e riproporsi nelle superfici discriminanti della città contemporanea, l’evoluzione del fenomeno materiale non implica la contestuale
scomparsa e alterazione di un immaginario che si costruisce attraverso
la definizione di ciò che si vede e non si vede, o piuttosto si espone e si
nasconde, e che concorre a definire sia l’immagine pubblica che quella
esperita di una città.
L’attenzione alle parti più visibili della città è per esempio alle radici
molte esperienze europee che a cavallo tra il XIX e il XX secolo si sono
misurate con i teorici della forma urbana (Sitte 1889) che la ponevano
proprio nei termini di composizione teatrale e articolazione dei luoghi
più rappresentativi mediante delle “quinte sceniche”. Tali quinte, seppur
nei limiti di un approccio esclusivamente morfologico, interpretato o
contrastato da figure come quella di Berlage o Le Corbusier, risolvevano
in termini visuali anche le grandi questioni che la città moderna stava
rendendo urgenti, come l’aumento della popolazione inurbata e tutte le
problematiche sociali, politiche ed economiche che essa implicava.
La cura delle rappresentazioni a volo d’uccello, simulazioni tridimensionali di quello che si sarebbe o meno visto, che nel solco di questa tradizione hanno accompagnato la progettazione urbana, possono essere
lette proprio come un aspetto di questa attenzione al visibile che, dal
campo della rappresentazione pubblica, si estende anche a quello della
città vissuta, con differenti ragioni ed esiti. Lo spazio e la città nella loro
articolazione materiale sono infatti percepiti innanzitutto da chi li abita
e l’importanza della percezione dello spazio per il controllo dello stesso
era ben nota agli urbanisti che si sono concentrati sulla percezione visiva dello spazio pubblico, articolandolo a partire dall’analisi si quello che
era meglio fare o meno vedere.
L’organizzazione di spazi ottici nella metropoli moderna è un fatto fondamentale (Dubbini 1994). Si manifesta con evidenza nei boulevards,
nelle vetrine dei primi grandi magazzini che rassicurano sullo stato di
benessere crescente attraverso le merci esposte, nei passages. Nei boulevards haussmanniani, al di là della funzione circolatoria, si realizza una
condizione rappresentativa di straordinaria importanza, con la costruzione di scorci e prospettive convergenti verso emergenze monumentali.
Queste offrono un’epifania rassicurante attraverso uno squarcio e uno
sventramento nei quartieri più miseri, che non solo metaforicamente
mettono dietro quei muri costituiti dalle cortine dei grandi assi urbanovisivi tutte le contraddizioni e le miserie che in essi continuavano a per-
petrarsi.
È possibile riconoscere in quelle azioni di sventramento la coscienza politica in nuce dell’importanza della visione – seppur costruita attraverso operazioni di facciata che semplicemente “mettevano dietro”
al muro concettuale che definiva il campo del visibile, separandolo da
tutte le visioni indecorose e poco rassicuranti, anticipando in tal modo
la coincidenza consapevole della visuality as politics (Pousin 2003) del
paesaggio urbano contemporaneo. La complessità spaziale della città
contemporanea, sicuramente non governabile attraverso la costruzione
di pochi spazi pubblici rappresentativi, fatta di visioni molteplici difficilmente sintetizzabili in un’unica storia, o un unica visione, in crisi come
le altre grandi narrazioni moderne, non ha tuttavia smesso di essere gestita, soprattutto nelle condizioni più conflittuali, con il ricorso alla presenza di un muro e di un diaframma, in virtù del suo potere di occultare
o meno alcune zone, per cambiare l’aspetto di interi quartieri, quando
non addirittura per costituirne parti nuove.
Dal punto di vista concettuale il muro – nella sua accezione più estesa
– come dispositivo percettivo, continua a esercitare il suo ruolo di elemento di organizzazione spaziale, proprio per la sua capacità di controllo dello spazio della visione che influisce in modo diretto sull’atto primario della percezione, quello visivo (Merleau-Ponty 1945). La percezione
implica la leggibilità dello spazio in termini di segni, che si realizza attraverso la visione di quegli stessi segni nella scena del visibile, alla cui configurazione concorrono in modo interattivo tanto il soggetto percettore
che gli elementi della scena stessa. E sebbene lo spazio contemporaneo
della visione non sia che parzialmente euclideo, includendo potenzialmente molteplici geometrie, soprattutto in funzione della molteplice
natura che le superfici diaframmatiche contemporanee e future presentano, amplificando la possibilità della percezione come percezione delle
dimensioni qualitative, secondo gli assunti della Gestaltpsychologie, i
materiali che compongono le geometrie del sistema segnico percepito
conservano un ruolo fondamentale, a cominciare dai margini.
Il soggetto che percorre uno spazio considera le partizioni spaziali, le
emergenze e lo sfondo innanzitutto come componenti sceniche ed elementi della geometria della visione. Quindi, attraverso una relazione che
non è necessariamente topologica, ma nasce dal collegamento visivo
e mentale e dall’attribuzione di senso alla struttura segnica, il soggetto
puà attribuire un valore semantico agli elementi che concorrono alla
struttura segnica visibile (Castelnovi 2003). Il ruolo del muro come dispositivo basilare della percezione in quanto elemento che circoscrive
la struttura segnica visibile afferma così la propria centralità anche nella
determinazione delle relazioni non topologiche che tale struttura può
suscitare.
Il muro in tal senso è interpretato in modo emblematico dai margini,
che Kevin Lynch (1960) ha definito come elementi di costruzione della
visione e che si ripropongono nelle successive interpretazioni e sperimentazioni che a tutt’oggi si realizzano a proposito dell’indagine della
percezione dei luoghi:
75
Margini sono gli elementi lineari che non vengono usati o considerati
come percorsi dall’osservatore. Essi sono confini tra due diverse fasi,
interruzioni lineari di continuità: rive, linee ferroviarie infossate, margini
di sviluppo edilizio, mura. Piuttosto che coordinate assiali, essi sono
riferimenti esterni. Margini di questa natura possono costituire barriere,
più o meno penetrabili, che dividono una zona dall’altra, o possono
essere suture, linee secondo le quali due zone sono messe in relazione
e unite l’una all’altra. (Lynch 1960: 66)
La percezione dello spazio non è tuttavia riducibile a un semplice atto
visivo. L’oggetto stesso della percezione si presenta come un sistema
complesso nelle sue molteplici dimensioni, fisiche, simbolico-culturali,
personali e intersoggettive-collettive (Backhaus et al. 2008), integrate e
interrelate tra di loro, profondamente connesse a una dimensione interiore (innerscape) che rimanda all’immaginario personale e collettivo di
ciascuno. Ma, sebbene si percepisca sempre più di quello che si vede,
l’atto visivo resta il momento fondativo per la comprensione del mondo
a partire dalla sua dimensione fenomenica.
La condizione della visione, così come della non-visione, si rivela ancora una volta come condizione essenziale per la conoscenza. I dispositivi
che modulano la visione sono, a loro volta, fondamentali perché, come
sottolineava De Carlo a proposito del piano di Urbino allora in corso, se
si riducono le occasioni di contatto tra alcuni luoghi “se ne riduce la percezione e perfino la memoria dei loro valori” (De Carlo 1966: 104), anche
in termini semplicemente di coscienza.
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L’esclusione dalla visione
L’immagine dunque è una forma di coscienza (Sartre 1940) e, seppure
nell’incommensurabilità che lo stesso Sartre postulava tra percezione
ed immaginazione, ogni situazione reale e concreta di coscienza parte dall’atto visivo e in nuce percettivo. L’esclusione dalla visione di fatto
occulta e fa dimenticare molte cose e fa venir meno la condizione essenziale affinché una coscienza immagini – “ragioni, sia presente, si realizzi” – ovvero che essa sia nel mondo – “in situazione nel mondo” (Sartre
1940: 277). L’essere nel mondo come condizione necessaria all’immaginazione fa comprendere come spesso del mondo non basti il racconto,
facendo emergere in modo evidente il potere dell’esclusione della visione, rispetto al quale il ruolo del muro che fa da limen-discrimine diventa
centrale.
Senza voler analizzare in questa sede alcune presenze della città contemporanea nella loro intera complessità, la condizione dell’enclave
esprime in modo emblematico la condizione del murarsi (anche) per
“non far vedere” in termini dicotomici l’interno dall’esterno e viceversa.
Attraverso la definizione di uno statuto (una sorta di regolamento di un
condominio) e di un recinto, si imposta “un muro” come atto fondativo contemporaneo di queste microcittà, territori chiusi, non pubblici,
spesso blindati e murati che influenzano la fruizione della città tutta, nel
senso di influenzarne – spesso in modo molto meno sottile di quanto si
facesse con i muri nella città moderna – visibilità e mobilità, mettendo
in crisi attraversamenti, ibridismi, spazi pubblici, prospettive. All’interno
del potenziale orizzonte infinito dello spazio vivi-visibile, si realizza quello che si può definire un arcipelago di spazi densi di potere (Foucault
1977), circoscritti visualmente attraverso una fortificazione fisica che
esplicita una distinzione.
Le complessità della mixité (etnico, sociale, economica) delle città del
XXI secolo, sembrano ridursi tutte attraverso l’applicazione di un sistema
binario, scandito da un limite dentro/fuori il cui oltre-passaggio diventa
discriminante per la propria condizione. Un limite tutto concentrato nel
potere che un muro – seppur nella fragilità dimensionale data da una
profondità sempre più sottile, per l’applicazione di tecnologie materiali
sempre più sofisticate – si porta dietro, reiterando ancora oggi i meccanismi ancestrali delle mura medievali. L’enclave, il cui termine deriva dal
francese “chiudere a chiave”, con la chiusura della porta assicura lo spazio
privato che rassicura dall’agorafobia di quello pubblico, esprime tutta
la propria sicurezza attraverso un’architettura della difesa che è visuale
prima che fisica (Montezemolo 2004). Il recinto che occlude la visione
esprime la propria forza attraverso l’esposizione di sé. “Trespassers will
be shot” dicono spesso i cartelli su questi muri, quasi per compensare la
mancanza di una loro sicurezza effettiva, come quella che pagheranno
sulla propria pelle i giovani protagonisti del film La Zona di Rodrigo Pilà
(2007), che oltrepassano un pezzo del muro di recinzione di una gated
community a Città del Messico, caduto in una notte di temporale per
un fulmine ed un cartello pubblicitario abbattuto. È proprio attraverso
cartelli del genere, telecamere di sorveglianza e così via che ritorna in
un certo senso quell’atteggiamento medievale per cui vale piuttosto
l’esplicitazione di uno status, la visibilità della difesa, per affermare scenograficamente la propria differenza da ciò che sta fuori le mura, che
la difesa in sé. Lo spazio chiuso, circondato da tutti i lati, determina di
fatto nel tessuto urbano una discontinuità, dapprima visiva e quindi fisica, generando inclusione e di conseguenza esclusione, con l’escluso
che esclude a sua volta il racchiuso dalla propria esperienza, a partire
dall’esclusione visiva.
Le conseguenze dalla non-visione sulla percezione e sulle relazioni
sociali non sono secondarie: preservare l’omogeneità interna, definire
se stessi per alterità rispetto dall’altro (Remotti 2007) dà quell’utopica
percezione di conservazione eterna, il cui potere si alimenta di un’illusione collettiva che sta tutta nella presenza o meno di un muro/recinto
separatore. Sebbene l’enclave nei termini di spazio recintato e controllato sia una categoria complessa, necessaria a comprendere e definire le
geografie interne al territorio contemporaneo, è banalmente nel muro
come elemento fondativo e costitutivo che si concentra tutta la sua essenza, per il meccanismo di isolamento che assicura e le condizioni di
visibilità che istituisce, soprattutto nelle stagioni ricorsi storici di crisi e di
incertezze.
Il principio di clausura opera con un approccio spaziale ed istituisce
luoghi chiusi e delimitati, che attraverso il meccanismo della visione
permettono la gestione della complessità anche interna. Laddove pos-
77
78
sibile viene applicato il dispositivo del panottico, che colloca ciò che
sta dentro in uno spazio di costante visibilità e quello che è fuori in una
condizione di esclusione, sia a livello fisico che concettuale. La divisione
tra visibile e non visibile in microspazi controllabili si determina con un
diaframma, che frammentando lo spazio assicura inoltre la risoluzione
dei problemi di governo del territorio: divide et impera.
Quello innescato dal muro è un meccanismo per certi versi molto
banale, che contempla non solo la protezione della propria comunità
murata ma che, se imposto nella posizione opportuna, attraverso la
gestione dell’osmosi visiva può avere molteplici conseguenze. Talvolta,
con l’esclusione dalla visione, diventa perfetto per presentare una città
in modo “decoroso”. Penso per esempio ai muri che cingono a Nampula
(Mozambico) i quartieri vicini all’aeroporto, che come una porta contemporanea offre il primo accesso alla città, attraverso lunghi e larghi
viali di collegamento con il centro “recinti” da muri che fanno da margine
ai quartieri informali che vi sono a ridosso. Percorrerrendoli in auto quasi
non ce ne si accorge, per l’ordine che quelle quinte grigie ispirano; ma
a chi li percorre a piedi resta l’immagine di quelle fessure oblique che
interrompono le pareti sottili, da cui traspirano voci, colori, odori, rivoli
d’acqua, rifiuti, persone, lasciando la sensazione che dietro ci sia qualcosa di compresso con un espediente posticcio, non foss’altro per lo
spazio di risulta che si vede stretto tra l’ultima casa, quella prospiciente
la strada, ed il pannello che la nasconde ad uno sguardo che non sia
abbastanza lento, curioso e profondo.
La gestione delle apparenze e l’apparente gestione dei conflitti attraverso la costruzione di un muro, soprattutto in situazioni in cui la separazione visiva tra due contesti in potenziale contrasto garantisce quello
che potremmo considerare una sorta di “primo livello” di tranquillità,
dato dall’esclusione dapprima dalla visione, quindi dalla coscienza e in
terzo luogo da una possibile reazione che visione e coscienza potrebbero generare dall’una o dall’altra parte del muro, è una procedura che
si può riconoscere in diverse situazioni. Spesso la costruzione del muro
conferisce una rassicurazione data dalla costruzione dei confini del proprio mondo e dalla conseguente ignoranza – nel senso originario di non
conoscenza – di quanto sta fuori proprio a coloro che con il muro si
son voluti isolare, senza che questo implichi che le contraddizioni ed i
conflitti esterni siano realmente cessati. E paradossalmente è proprio la
visione a contenere il maggior potenziale di mettere in crisi il sistema
che si fonda sulla costruzione del muro.
Sebbene quello che si costruisce tra la case di una vedova palestinese
in Cisgiordania e quella del ministro della difesa israeliano di recente
trasferitosi vicino – nel film The Lemon Tree, di Eran Riklis (2008) – non
sia all’inizio un vero e proprio muro, quanto piuttosto un limite, una zona
di sicurezza che i servizi segreti ritengono di dover controllare perché
possibile nascondiglio ideale per i terroristi, stabilendo di abbattere gli
alberi del limoneto che vi erano cresciuti, una delle conseguenze del
provvedimento è l’interdizione di fatto della signora. Relegando lo spazio di movimento dall’una (ma anche dall’altra) parte fuori da questa
zona di confine, si determina di fatto l’esclusione dalla reciproca vista
delle umanità che lo vivono, in un equilibrio che resiste finché tale stato
di esclusione permane. La moglie del ministro israeliano infatti “metterà
in crisi” quell’equilibrio – con una serie di conseguenze nella vita privata
e pubblica del marito – proprio quando, incrociando lo sguardo della
propria vicina, inizierà a comprendere l’assurdità di quel muro.
Senza voler scomodare i muri della Storia con la S maiuscola che,
sebbene intrisi di molteplici e complessi significati simbolici e politici,
hanno espletato comunque tra le altre anche la funzione primaria del
controllo delle parti murate attraverso l’esclusione dalla visione e dalla
reciproca conoscenza, molti episodi di cronaca recente possono essere letti in termini di visibilità e percezione, modulate dalla presenza di
un diaframma. Il “muro” di via Anelli a Padova, una recinzione costruita
nell’estate del 2006 per separare una zona residenziale da una di noto
spaccio di stupefacenti della periferia padovana, ha funzionato come
dispositivo fisico-funzionale per regolare gli accessi e rassicurare i cittadini residenti, nei termini di una non reciproca visione che proteggeva
soprattutto dall’occhio indiscreto dell’escluso e dalla consapevolezza
delle questioni di insicurezza del proprio quartiere, che invece persistevano. Panacea simbolica dei conflitti sociali, il muro come dispositivo di
controllo si costituisce non solo nei termini di elemento di gestione del
passaggio di persone con diritti di cittadinanza diversi, ma come dispositivo di “controllo inverso” che esclude dalla visione e dalla comprensione di quello che accade.
La presenza dei muri ha stimolato spesso e di contrappunto numerose esperienze di “sfondamento” in nome di un diritto alla conoscenza
che si reclama nell’atto stesso in cui viene vietata, reinterpretando il
mito dell’alterazione di un divieto in nome della curiosità umana, che
caratterizza il genere umano fin dal primo morso alla mela nell’Eden.
Esplorazioni, détournement di ispirazione situazionista ed esperimenti
di vario genere hanno messo in campo energie critiche soprattutto in
quei contesti periferici che rivelano una città di recinti e di zone bianche
(Vasset 2007) escluse dallo sguardo e molto spesso anche dalle attenzione degli interventi di pianificazione, talvolta per comodità di gestire lo
spazio dall’alto di una mappa, talvolta perché il muro occulta un’attività
che si preferisce escludere dai temi del piano stesso.
Dal novembre 1999 al maggio 2000 si è svolto a Napoli il seminario di
studi urbanistici Know Enclosures che, proprio a partire dalla presenza
di varie forme di enclosures nella periferia orientale della città, definiva il
proprio oggetto di studio. Organizzato dal TerzoPianoAutogestito della
Facoltà di Architettura di Napoli, il seminario si concentrava su quelle
parti urbane che erano percepite come estranee alla vita della città:
mercati generali, cantieri portuali, fabbriche dismesse, orti urbani, cimiteri o parchi maltenuti – tutte situazioni che, escluse dalla visione ordinaria, al comune cittadino apparivano come territori “altrui”, spazi esterni
alla sfera pubblica, che anche quando mancavano di effettivi ostacoli o
delimitazioni fisiche, sembravano cinte da un invalicabile recinto.
Quell’esperienza nasceva da un’esigenza di ampliare il campo del visi-
79
bile che pose tutti noi – ricercatori, studenti, attivisti – di fronte ad una
periferia fatta di pezzi, dove la frammentazione determinata da muri
concettuali in varie forme definiva le varie scale della periferia orientale.
Ciò avveniva non sempre mediante segni netti, eppure con confini, gerarchie, passaggi di scala tra quartieri, bordi inedificati, che si manifestavano attraverso piccole segnalazioni: reti, muretti, cancelli, strade senza
uscita, interruzioni. Lo spazio non sembrava mai davvero concluso, ma
piuttosto un terrain vague, uno “spazio di risulta”, generato da quello che
il pensiero sulla città e l’ordine visuale che sosteneva avevano escluso
o dimenticato. Quell’esplorazione aveva reso evidente le contraddizioni
di uno spazio di periferia, che possono essere applicate per estensione
anche ad altri tipi di luoghi.
Se da una parte con l’organizzazione proposta attraverso questi “muri”
(recinti) la città contemporanea fa registrare la presenza di spazi urbani
che tendono a quell’ordine fisso e rigido che Foucault (1975) fondava
sulla stessa rigidità delle membrane delle istituzioni totali, dall’altra il disordine totale di quei “muri” (recinti) non impedisce la comunicazione e il
movimento, ma ne filtra, rallenta, definisce e regola la portata, come in
modelli dinamici che permettono ai corpi di muoversi attraverso spazi
regolati da barriere di varia natura (Deleuze 2000).
La gestione del territorio a sempre più vasta scala diventa possibile attraverso la gestione dei confini, di cui piuttosto che l’integrità, si preferisce
controllare l’accesso e filtrare i flussi, sostituendo alla presenza di una
barriera fisica una barriera invisibile, come una telecamera. Ciò che garantisce il controllo è la possibilità della visione. Attraverso le telecamere
di accesso ai centri storici e le sofisticate tecnologie localizzative di gps
e telefonini, che consentono anche il controllo attraverso una visione
reciproca a costante, lo spazio della visione paradossalmente si estende,
pur restringendosi quello delle libertà di movimento.
80
La dematerializzazione delle superfici e l’ampliamento della
percezione
Volendo provare a concludere questa genealogia dei muri basata su
una lettura diacronica a maglie larghe del muro come dispositivo percettivo, è necessario fare riferimento non solo all’evoluzione del suo ruolo
nella definizione della visione (e della città) ma anche all’evoluzione della percezione individuale dello spazio che essa ha determinato. La progressiva dematerializzazione delle superfici contemporanee (Mattiucci
2008) ha infatti determinato una diversa concezione del sé nello spazio
e nel tempo, proprio a partire dall’allargamento della visione possibile
che la condizione della postmodernità (Harvey 1990) ha provocato.
Uno degli interpreti più lucidi di questo processo di dematerializzazione delle superfici è senz’altro Paul Virilio il quale già ne L’espace critique
esprimeva la consapevolezza dell’annullamento dello spazio attraverso
il tempo, che muoveva da un pensiero critico diffuso già alla metà degli
anni Sessanta, agli albori di quella rivoluzione informatica che lo stava
determinando (Virilio 1984; Harvey 1990). Una delle conseguenze più
significative dell’abolizione delle distanze temporali e spaziali introdot-
ta dall’evoluzione dei sistemi di telecomunicazioni è stata senz’altro la
centralità che assumono nell’organizzazione dello spazio l’interfaccia
(opto-elettronica) e la superficie (limite), quali evoluzioni degli elementi
di separazione materiale ed effetti della topologia elettronica, dove le
unità della geometria euclidea non bastano più a misurare la distanza
tra le cose.
Se si ragiona in termini puramente posizionali e materiali, i parametri
per la definizione tra lo spazio del sé e dell’altro da sé sono abbastanza
semplici: un muro materico e opaco che separa un intra e un extra, una
porta per attraversarlo, una finestra per guardare fuori. Quando però si
introduce la “terza finestra”, quella dell’interfaccia, dello schermo televisivo piuttosto che del computer, cambia totalmente la percezione
dello spazio e del sé nello spazio, attraverso la possibilità di realizzare
“un’ubiquità optoelettronica” (Virilio 1984: 79) che ha profonde conseguenze nell’organizzazione del territorio e della vita quotidiana.
Il continuum tra la posizione dell’istante e l’oggetto della configurazione istantanea si realizza attraverso l’interfaccia-schermo, per prossimità
concettuale piuttosto che posizionale (Castells 1996) con una serie di
conseguenze sulla percezione della realtà da parte dell’individuo, dove
l’altrove comincia da qui (Virilio 2004), e viceversa. Si introduce il giorno
elettronico, che annulla l’organizzazione del territorio e del tempo secondo la naturale alternanza giorno-notte, ampliando le possibilità di essere ovunque pur essendo in nessun luogo. La profondità multidimensionale del tempo consente l’ampliamento dell’esperienza spaziale. La
topologia da sempre connessa all’esistenza di reti materiali (di trasporti,
per esempio) è ora influenzata dalle reti di informazioni, così fortemente
da “annullare l’Atlantico” (Virilio 1984: 114).
In tal modo, con la consuetudine sempre più comune di guardare il
mondo attraverso l’interfaccia optoelettronica, lo spazio della visione
si estende fino all’ampliamento progressivo della visibilità – non solo
in termini metaforici – inversamente proporzionale alla riduzione del
muro a quello interno delle mura personali, laddove il corpo può essere
considerato la condizione estrema di un muro totalmente dematerializzato.
Le conseguenze della perdita della tangibilità a causa del predominio
della visione, la comprensione e l’esperienza del mondo sono molte. La
diffusione dei media come estensione dei sensi (McLuhan 1964) ha catalizzato la crisi del muro come organismo percettivo, che non basta più
a determinare il campo del non-visibile. Quelle enclosure esplorate dieci
anni fa erano fatte di mura e recinti, ma la virtualità delle visioni contemporanee consentita dalla diffusione dei dispositivi reali che dall’alto
permettono di vedere oltre il muro mette in crisi il ruolo stesso di quei
recinti. Viene meno il carattere di non visibilità, che era la maggiore sicurezza di alcuni luoghi, dapprima anche non diffusamente mappati, rendendoli profondamente vulnerabili, di quella vulnerabilità che solo una
visibilità estesa ed in un certo senso impudica può provocare, mettendo
a nudo i luoghi attraverso visioni satellitari – per esempio – che estendono le possibilità della percezione e si impongono con il cammino vo-
81
race dell’ampliamento dello spazio della visione, e della conoscenza.
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82
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83
Festival Città al muro /Cities at the wall, July 2008
Herzog + Kato, Untitled / Senza titolo (2008) Stencil / Graffiti
84
Muri come trame e
infrastrutture urbane
Organizzare la città attraverso sensi, pratiche,
narrative, controversie
Claudio Coletta,
Francesco Gabbi,
Giovanna Sonda
Come operano i muri nel dare forma allo spazio e alle pratiche urbane? Di che cosa sono fatti? Il capitolo propone una riflessione sui muri
urbani interrogandosi sulla loro composizione, sulla capacità d’azione
e sulla dimensione organizzativa che essi chiamano in causa. Lo studio
prende le mosse dall’analisi di alcune controversie urbane che hanno
avuto luogo nella città di Trento e che hanno avuto risalto nella stampa
locale. Si tratta di episodi che permettono di seguire il modo in cui lo
spazio prende forma nelle narrazioni e nelle pratiche. Il materiale giornalistico raccolto non è stato trattato tanto per la funzione informativa
quanto per la capacità performativa delle notizie di orientare il discorso
pubblico (Park 1949): nel connotare e organizzare il discorso degli spazi,
la stampa locale contribuisce infatti a creare un immaginario e uno status specifico del luogo.
Il Muro Cavit
In una zona industriale di Trento sud la parete ovest di un magazzino
è stata al centro di un animato dibattito di cui la stampa locale si è occupata per diversi mesi. La controversia sul “Muro Cavit”, come è stato
battezzato dal nome della cooperativa vinicola proprietaria del magazzino, permette di seguire il processo di traslazione, che sposta il discorso
da un ambito esclusivamente urbanistico e architettonico ad un ambito
sensoriale, sociale, organizzativo. Le lunghe vicende che hanno interessato la questione offrono uno spunto interessante per affrontare il
discorso sugli standard della pianificazione, sulla composizione organizzativa e materiale del muro, sull’esperienza sensoriale del fatto urbano,
nonché sulla capacità politica e proattiva degli artefatti. A scatenare il
caso l’altezza di un nuovo magazzino di una casa vinicola. A progetto
approvato e già in fase di lavori in corso la posa del primo pilastro scatena le opposizioni degli abitanti locali per l’atezza imprevista. La sfasatura
tra il rendering e l’esito progettuale era evidente.
La procura ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta del “Muro Cavit”. Il
rendering della discordia non era dunque fuorviante? Secondo gli inquirenti è pacifico che le proporzioni di quel disegno erano sbagliate e
potevano ingannare l’occhio di chi doveva decidere, ma non c’è stato
85
86
dolo (Trentino, 8 gennaio 2009: 17).
Il rendering del Muro Cavit di Ravina rappresenta un “falso macroscopico”: su questo la procura non ha dubbi. Ma dopo mesi di indagine gli
inquirenti sono giunti alla conclusione che non vi sia alcuna certezza
sull’effettivo utilizzo della contestata documentazione fotografica da
parte dei consiglieri comunali al momento di deliberare la concessione
in deroga per la realizzazione del magazzino (L’Adige, 8 gennaio 2009:
20).
L’accusa di falsa testimonianza imputata al rendering mette in luce i
problemi di traduzione legati alla rappresentazione. Le stesse mappe
sono artefatti che rappresentano e riducono lo spazio, ma allo stesso
tempo lo traducono e in questa traduzione pone dei problemi di interpretazione e di leggibilità: da una parte la natura distribuita del muro, e
dall’altra il carattere paradossale e performativo della rappresentazione.
In questo senso il rendering di un muro costituisce già un pezzo muro,
non solo in quanto ne anticipa la forma, ma soprattutto perché orienta e
sostiene il processo di costruzione. In altre parole, il rendering è l’indizio
che permette di seguire il muro nel suo processo di traduzione: prima
di diventare “Muro Cavit”, questa entità passa attraverso schermi di pc,
pratiche amministrative, diventa parete di magazzino, cronaca locale.
Il magazzino è stato costruito in una zona industriale che confina con
un’area residenziale. Da un punto di vista legale ciò non presenta alcun
illecito, e anzi è coerente con la vigente destinazione delle aree. Il presidente della cooperativa di viticoltori in un’intervista a un quotidiano locale afferma in maniera abbastanza esplicita questo punto rovesciando
la questione:
C’è da dire che quella nella quale realizziamo la nuova sede è una zona
industriale. Lo era anche prima che lì venissero costruite delle case. Dunque forse è l’area urbana che non andava realizzata lì. (L’Adige, 13 gennaio 2008: 15).
Ciò non toglie che la presenza di una muraglia alta 22 metri ad un
passo dalle case ha avuto un rilevante impatto sugli abitanti. I quotidiani
parlano di “obbrobrio”:
“Una cosa orrenda dal punto di vista paesaggistico e ambientale” –
“porta via la visuale sulla valle ed è un orrore” – “è come avere una diga
davanti a casa” – “sta roba qua, brutto è brutto” – “uno scempio” – “su via
delle Masere non hai più una visione della vallata” – “un mostro, di impatto ambientale devastante”. (L’Adige, 3 luglio 2008: 16)
Si assiste ad una sorta di sineddoche che riduce l’intero magazzino ad
una sua parte: il muro appunto, entità scorporata dalla sua destinazione
originaria, carica di significati che evocano divisioni, interferenze e mettono in discussione il percorso istituzionale che lo ha generato. Il muro
si presenta come luogo dell’eccesso. Posto entro un confine urbanistico
già pianificato, il “Muro Cavit” tracima in termini estetici e sensoriali: da
una parte esso ostruisce la visione ed è al contempo qualcosa di assolutamente visibile, che si impone allo sguardo. La drammatizzazione visiva
segnala la prima traccia di questa eccedenza. Se, come insegna l’antropologia, la sensorialità si qualifica come culturalmente orientata (Matera
2002), è possibile considerare la questione visiva dei muri parallelamente a quella del dispositivo che forgia e rende visibili tali oggetti. In questo senso, nell’ambito degli studi organizzativi, Pasquale Gagliardi (1991)
parla degli artefatti come “vestigia” [remains] e “tracciati” [pathways] per
l’azione. In altre parole, secondo Gagliardi gli artefatti e i setting spaziali incorporano l’ordine culturale alla base di una particolare impresa o
istituzione, ne custodiscono la memoria e suggeriscono ai suoi membri
corsi di azione appropriati. Il pathos, “il modo in cui percepiamo e sentiamo la realtà” (Gagliardi 1991: 13), è la modalità peculiare attraverso cui
gli artefatti offrono accesso alla cultura organizzativa.
Una volta stabilita la connessione tra sensorialità, organizzazione e artefatti, si tratta di comprendere come queste dinamiche si sviluppino
a scala urbana, ovvero come, per i muri, il discorso della composizione
dello spazio urbano si leghi a quello tecnico, organizzativo e politico.
Il dibattito sulla natura politica degli artefatti è stato avviato nel 1980
dal filosofo Langdon Winner (1985), con un articolo che insiste sull’ideologia sottesa ad alcune scelte urbanistiche dell’architetto Robert Moses
a New York. Secondo l’autore, l’altezza ridotta dei ponti costruiti da Moses avrebbe consentito l’accesso alle spiagge soltanto alle automobili e
non agli autobus, operando così una discriminazione tra la popolazione abbiente che possedeva un mezzo proprio, e la popolazione nera,
che dovendo muoversi con i mezzi pubblici, non avrebbe potuto recarsi
agevolmente al mare. In questo senso, gli artefatti incorporano relazioni
di potere. Bernward Joerges (1999) ha di fatto sconfessato la posizione
di Winner, sottolineando il fatto che l’impianto teorico si reggesse abilmente su di un ordine retorico fondato sul buon senso e sulla morale.
Al contrario, l’abbassamento dei ponti ha poco a che vedere con le intenzioni politiche di Moses (tant’è che vi erano diverse vie di accesso
alle spiagge) e piuttosto la loro politicità riguarda non l’ordine sociale
che essi incorporano e veicolano, quanto la capacità di agire come mediatori e il modo in cui sono connessi ad altri mediatori. Ciò non toglie,
prosegue Joerges, che l’opera di Moses centrata sull’uso dell’automobile
abbia cancellato le funzionalità di interi quartieri. In altre parole, l’architetto Moses, lungi dal portare avanti ideologie razziste, sarebbe un interprete della cultura organizzativa e della pianificazione urbanistica di
quegli anni. L’acceso dibattito Winner-Joerges ha contribuito, secondo
Steve Woolgar (1999), alla creazione di una “leggenda metropolitana”
sui ponti di Moses: nonostante gli argomenti di Joerges contro Winner
siano validi, sostiene Woolgar, ciò non toglie che l’idea dei ponti che incorporano politiche discriminatorie persista. Questo perché i testi sono
contemporaneamente delle “cose”: il ponte di Moses è una sorta di motore narrativo che anima diverse storie sui ponti, e le storie a loro volta
creano (o tagliano) dei veri e propri ponti, che possono essere disciplinari, urbani, organizzativi, esperienziali. A questo punto, continua l’autore,
non ci resta che studiare gli artefatti dando voce a tutte le storie che li
accompagnano, tenendo sempre presente che gli artefatti hanno un’intrinseca ambivalenza in relazione all’esperienza che se ne fa:
La tecnologia è buona e cattiva: è abilitante e oppressiva; funziona e
87
non funziona; e soprattutto ha e non ha natura politica. Tali tensioni
sono una significativa manifestazione dei controversi discorsi a cui è
soggetta la nostra esperienza della tecnologia, ed entro cui noi costruiamo un senso. (Woolgar 1999: 443)
88
Più recentemente, Bruno Latour (2004) è tornato sull’argomento dei
ponti di Moses sottolineando l’azione incorporata dagli artefatti e la loro
autonomia rispetto alle decisioni progettuali:
Se gli artefatti fanno di più che “oggettivizzare” qualche schema politico precedente, se la loro progettazione è carica di conseguenze inattese, se la loro durabilità significa che tutte le idee originali che i loro progettisti hanno concepito su di loro diventeranno qualcos’altro in pochi
decenni, se, in aggiunta, gli artefatti fanno qualcosa di più che veicolare
potere ed egemonia, e offrono anche permessi, possibilità, inviti operativi, allora significa che questi fanno politica in un modo che non è stato
anticipato dall’influente articolo di Langdon Winner. In altre parole, gli
artefatti devono trovare chi li rappresenta. Essi sono un assemblaggio
materiale, con un disperato bisogno di assemblee. (Latour 2004: web)
Come si configura il “Muro Cavit” alla luce di questo dibattito? Il Muro
Cavit diviene sì una vestigia e un modello di una cultura organizzativa,
come sostiene Gagliardi, ma è anche qualcosa di autonomo dall’ambito
organizzativo che lo ha prodotto, qualcosa che lo eccede. Investe gli
aspetti sensoriali, ma anche quelli politici. Inoltre, il muro è un assemblaggio materiale, ma anche un insieme di discorsi di attori che ne modificano lo status. Di conseguenza, il muro è il testo che ne risulta, ma
anche la trama che orienta il senso di quegli stessi discorsi.
L’insieme contraddittorio e complesso di tali caratteristiche fa del muro
una sorta di infrastruttura costruita su diversi piani, associando narrazioni, oggetti, pratiche, permettendo o meno la circolazione di attori, regolando le differenze tra gli spazi, orientando il modo in cui le relazioni si
sviluppano e, in ultima analisi, operando una riterritorializzazione dello
spazio urbano. Consideriamo questo passaggio da Gomorra, di Roberto
Saviano:
E piuttosto che d’acqua, il mare del golfo sembra un’enorme vasca
di percolato. La banchina con migliaia di container multicolori pare un
limite invalicabile. Napoli è circoscritta da muraglie di merci. Mura che
non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura. Non ci
sono eserciti di scaricatori, né romantiche plebaglie da porto. Ci si immagina il porto come il luogo del fracasso, dell’andirivieni di uomini, di
cicatrici e lingue impossibili, frenesia di genti. Invece impera un silenzio
di fabbrica meccanizzata. Al porto non sembra esserci più nessuno, i
container, le navi e i camion sembrano muoversi animati da un moto
perpetuo. Una velocità senza chiasso. (Saviano 2004: 16-17)
La qualifica di infrastruttura getta luce sul carattere eccedente, ibrido
e controverso dei muri ed è utile ad invertire l’appiattimento sensoriale
sulla visione e sulla percezione, per dare voce ai meccanismi silenziosi che sostengono un oggetto apparentemente monolitico e neutrale:
“ideate per essere frontiere inerti, nella storia delle città si sono a volte
metamorfosate in confini attivi” (Sennett 2008: 217).
L’aspetto sensoriale dei muri è rilevante in quanto connesso con l’intreccio di pratiche, di discorsi e rappresentazioni che lo tiene in piedi. Se
ne decodifichiamo il rumore bianco, il “Muro Cavit” – così come il porto
di Saviano o i ponti di Robert Moses – è tutt’altro che statico e muto.
La controversia che ruota attorno al Muro Cavit, a sua volta generata
dalle forme di regolazione che intendono stabilire la funzione delle singole zone, offre una pista per esplorare la dimensione organizzativa dei
muri. Il muro incriminato si trova così ad incorporare la politica di un lavoro amministrativo: prima di essere fatto di mattoni e cemento, il muro
poggia su delibere, rendering, standard tecnici. Quello che infatti questo
muro mette in crisi è il modello dello zoning come modello di governo
del territorio, lo stesso da cui il muro discende. Il confine tra zona industriale e zona residenziale, leggibile sul piano regolatore generale, diventa improvvisamente ingombrante non appena un muro di calcestruzzo
viene eretto. E d’altra parte, il muro materiale e quello organizzativo si
saldano insieme, dando adito ad una controversia che ci “consente di
esplicitare la faziosità di rappresentazioni situate; aiuta a capire che mappe e territori si interfacciano tramite relazioni di senso, e non per mezzo
di corrispondenze mimetiche ed ontologiche” (Attili 2008: 44).
In questo senso il muro si situa a diversi stadi di oggettività, è sia passibile di trasformazioni sia capace di produrre una configurazione delle
parti più o meno durevole a seconda del modo in cui gli attori che lo
compongono si saldano tra loro. Per comprendere dunque la capacità
performativa del muro, occorre guardare in modo parallelo a come è
fatto, perché il muro è testimonianza della visione organizzativa che sottende, con tutti gli eccessi legati alle aporie della razionalità amministrativa. In questa maniera un muro incarna qualcosa di più di una barriera
visiva, ci suggerisce di guardare dentro alle pratiche che lo istituiscono e
ai prodotti e sottoprodotti di questo artefatto.
Una volta che viene stabilita la connessione tra la sensorialità materica
del muro e le trame organizzative che lo sostengono, l’ottusità monolitica e muta della tecnica comincia a popolarsi di voci. Gli stessi muri
assumono configurazioni variabili, al cemento si aggiungono dispositivi
di regolamentazione, artefatti, modus operandi della pubblica amministrazione, non per questo più blande nel tenere divise le parti della città.
Il muro è anche fatto di norme e di flussi oltre che di mattoni.
Trame sonore, organizzative, connotative
Se il “Muro Cavit” si configura come infrastruttura che incorpora una
serie di pratiche, discorsi e standard, le trame organizzative legate agli
usi e alla gestione dello spazio urbano costituiscono dei muri altrettanto
materiali, anche se meno visibili. Nel caso della controversia sul rumore
nel centro storico di Trento, che ha visto protagonisti artisti di strada e
studenti universitari, la questione dell’adeguatezza e dei confini dello
spazio urbano entra in relazione con le modalità territorializzanti del paesaggio sonoro.
Tra il febbraio e il marzo 2008, il Consiglio Comunale di Trento approva
una serie di modifiche alle norme sull’arte di strada. Il provvedimento
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viene adottato a seguito dei reclami dei residenti e di coloro che lavorano nel centro storico, a causa dei rumori molesti prodotti dai musicisti.
La nuova disciplina, su proposta del servizio di Polizia Municipale, individua 27 aree fuori dal centro storico riconoscibili da specifici cartelli nelle
quali ai musicisti è permesso esibirsi senza restrizioni di tempo e senza
dover dare alcuna comunicazione. Con l’istituzione delle aree, la disciplina del rumore si intreccia con la disciplina dello spazio urbano, in linea
con le modalità operative del servizio di Polizia Municipale:
Noi coordiniamo l’uso delle strade. Abbiamo un preciso controllo, possiamo sapere dall’ufficio quali sono le vie già occupate e da quali artisti.
Dal piano creato dalla nostra segreteria possiamo immediatamente determinare se una strada è già occupata o se è disponibile parzialmente
perché magari un artista la occupa la mattina ma nel pomeriggio è di
nuovo disponibile. È l’artista a scegliere. (intervista al Vice Comandante
dei Vigili Urbani di Trento)
Il carattere ingovernabile del suono mette in discussione i confini tra il
pubblico e il privato, tra spazio urbano e ambiente lavorativo e domestico. I fenomeni sonori si situano oltre la portata degli strumenti normativi, ma devono essere comunque regolati, ricondotti entro una cornice
istituzionale, visualizzati, misurati e “murati”. L’organizzazione dello spazio
e delle pratiche si realizza in due modi: attraverso un dispositivo normativo che viene incorporato in appositi segnali ad indicare gli spazi
per la performance (figura 1), e attraverso una notifica che l’artista deve
richiedere nei tre giorni precedenti all’esibizione recandosi al corpo di
polizia municipale.
Questa autorizzazione permette l’individuazione dell’artista in un
preciso spazio-tempo. Succede qualcosa di simile a quello che accade
quando l’intento di far rallentare gli automobilisti viene “iscritto nel cemento” (Grasseni e Ronzon 2004: 133). Lo scopo è ottenuto attraverso
dei “delegati”, degli artefatti che stabilizzano uno standard e prescrivono un comportamento. Si tratta di una mediazione tecnologica che “dà
all’azione umana una realtà permanente, analitica e visibile: la impianta
in corpi e condotte quotidiane” (Grasseni e Ronzon 2004: 133). Questi
dispositivi svolgono una funzione di organizzazione, di mediazione, di
controllo e di prescrizione nella medesima forma per situazioni diverse.
L’analisi della distribuzione delle aree porta ad un ulteriore risvolto della questione. Tutte le aree meno una sono collocate al di fuori della zona
monumentale di Trento, che coincide appunto con il centro storico:
Nel dettaglio il nuovo regolamento prevede che i musicisti possano
esibirsi nel rispetto di tali limiti in quello che praticamente è il salotto
buono della città. In pieno centro poi, ogni artista potrà esibirsi per un
massimo di 40 giornate l’anno, e dovrà inoltre darne comunicazione
al comando della Polizia Municipale. Sono stati invece individuati una
quarantina di siti liberi tra piazze, strade e parchi indicati dal comune
e accomunati dalla particolarità di non essere posti troppo nei pressi si
appartamenti o esercizi commerciali in modo che il disagio per residenti
e operatori sia minimo. (L’Adige, 12 marzo 2008: 25)
La ratio su cui poggia tale scelta fa riferimento alla Zona a Traffico Li-
Figura 1. Aree predisposte dal Comune di Trento per i musicisti di strada
mitato (ZTL), l’area della città dedicata ai pedoni dove possono circolare
solo le auto dei residenti che hanno richiesto l’autorizzazione pagando
una quota annuale:
Ricercatore: Ma il Centro Storico in un caso del genere come viene
delimitato?
ViceComandante: È stata più o meno utilizzata l’indicazione della zona
a traffico limitato. (intervista al Vice Comandante dei Vigili Urbani di
Trento)
La ZTL, in quanto artefatto, non è soltanto una mappa che permette
di regolare il traffico urbano, ma ha una capacità d’azione autonoma e
contribuisce a definire pratiche e funzioni che eccedono la regolamentazione della viabilità. In particolare, la ZTL dispone uno specifico allestimento del Centro Storico, con i suoi confini e i suoi accessi filtrati, nonostante ciò non rientri nel piano della polizia municipale: essa funge sia
da membrana, da confine poroso che consente e interdice dei passaggi,
91
degli scambi specifici tra un dentro e un fuori.
D’altra parte queste “mura invisibili” a protezione del cuore cittadino si
trovano a fare i conti con le esigenze dei commercianti che temono che
il previsto allargamento della ZTL possa scoraggiare gli accessi in centro
e dunque il consumo.
I commercianti del Centro Storico non vogliono sentir parlare di allargamento della zona a traffico limitato […] “Siamo riusciti a trovare un
compromesso ragionevole che dice sì alla ZTL ma in cambio di una rivalutazione dell’arredo urbano e di una serie di iniziative a beneficio dei
cittadini”. (Trentino, 12 febbraio 2008: 18)
Lo spazio del centro storico, nonostante la ZTL, rimane uno spazio
conteso, che si lega ad altri discorsi o “leggende”, nel senso sopra illustrato di Woolgar. Se per la polizia municipale il centro storico coincide
con la Zona a Traffico Limitato, per gli artisti di strada il centro storico
rappresenta la “bella cornice”, la quinta naturale per le proprie esibizioni,
mentre altrove si carica di una valenza morale, configurandosi come “il
salotto buono della città”. Queste trame che compongono il centro storico vengono in attrito con gli usi emergenti degli spazi, come abbiamo
visto nel caso degli artisti di strada, e come si ripete nel caso degli happy
hour, dove la controversia si gioca analogamente sul rumore.
La pratica dell’happy hour raduna numerose persone attorno ai bar
del centro. L’affollamento e il baccano collidono con il bisogno di quiete
e di ordine messi in crisi dall’accumulo a fine serata di bicchieri di plastica, sigarette, vetri di bottiglie:
Ci sentiamo abbandonati. Il martedì sera questo posto sembra un
campo di battaglia e spesso non vediamo nessuno pulire per giorni e
giorni (L’Adige, 17 settembre 2007: 15)
La risposta istituzionale insiste sulla necessità di regolare il fenomeno,
come afferma il Sindaco della città:
È un problemaccio perchè purtroppo i ragazzi faticano a trovare un
punto di equilibrio e divertirsi senza trascendere. (L’Adige, 18 settembre
2007: 20)
Il “divertirsi senza trascendere” rappresenta il tema portante che si iscrive successivamente in una campagna pubblicitaria e marca in modo
netto il centro storico come luogo del riposo e del silenzio (figura 2). La
questione del rumore fa dunque emergere le dissonanze tra le molteplici versioni del Centro Storico. Rispetto al “problemaccio” degli aperitivi, il
vice comandante della polizia municipale conferma la difficoltà di trovare una tipologia di intervento per risolvere la situazione:
92
VC: Lì non esiste un problema di traffico. Riescono a passare ciclisti,
pedoni e anche le poche automobili che circolano nella ZTL. Non è che
ci siano dei blocchi. C’è un gruppo numeroso di ragazzi che si trovano
in orari non tardissimi, perché il pubblico esercizio chiude verso le 23,
che porta ad avere tantissima gente che trascorre un paio d’ore per
discutere, parlare. Come in tutte le situazioni l’utilizzo improprio di
alcolici o superalcolici porta magari ad avere un equilibrio precario nel
tono della voce o nella discussione.
R: Quando c’è in questo caso il vostro intervento?
VC: Mah, il disturbo…, l’occupazione del suolo è nella norma. Non
ci sono vincoli normativi che impediscono l’utente che acquista
all’interno del pubblico esercizio a consumare all’esterno. Di disturbo
diventa difficile parlare perché non utilizzano strumenti e anche per via
dell’orario, chiudendo alle 23 non si configura il disturbo al riposo delle
persone. In questo caso qui è stato addirittura il titolare ad autoridursi
l’orario per assicurare il riposo alle persone e dunque non c’è la possibilità di intervenire in quella maniera lì. Noi possiamo fare verifiche per
il discorso di ordine pubblico qualora si riscontrino problemi di quel
genere lì.
R: Perciò la situazione è abbastanza normata?
VC: No, la situazione non è normata, perché se fosse normata il legislatore, prendendo spunto da quanto accade, dovrebbe dare delle indicazioni normative a questo tipo di attività. Ora non si sa quanto si possa
consumare all’esterno, quante persone… se ci fossero dei limiti che
stabiliscono ad esempio quante persone possono consumare in base
alla metratura del locale sarebbe diverso. (intervista al Vice Comandante dei Vigili Urbani di Trento)
Il suono mette in crisi la pratica dello zoning perché in entrambi i casi il
tentativo di delimitare una zona è vanificato dalla percezione sensoriale
che entra nel processo di ridefinizione organizzativa degli spazi urbani.
Oggetto del contendere è ancora una volta un eccesso: la musica e il
vociare attraversano le barriere fisiche così come il muro “usciva” dal suo
contenitore, la zona industriale, e aveva un impatto visivo sulla comunità
di Ravina. E come a Ravina, vi è una controversia che nasce completamente all’interno della cornice legale: il bar in questione chiudeva prima
delle 22 e i ragazzi si fermavano sul suolo pubblico, cosa che naturalmente non può costituire reato.
Eppure, come afferma un dirigente comunale che ha preso parte alla
stesura del piano strategico del comune, il centro storico si configura
appunto come quel “luogo in cui convergono gli abitanti che abitano
nella periferia o in altre parti del territorio per il loro tempo libero”. In un
certo senso, l’intreccio di trame che circonda e definisce l’adeguatezza
del centro storico di Trento deve essere attraversato dall’esterno verso
l’interno. La natura del centro storico come attrattore si esplicita nelle
politiche di marketing urbano con la creazione di grandi eventi che stravolgono sensibilmente l’assetto della città: la notte bianca, i concerti,
le feste patronali, i festival, le fiere. Il rumore e il caos sono tollerati solo
quando diventano “eccezione pianificata”, come parte di eventi culturali
promossi a livello istituzionale.
Come interpretare allora il carattere bifronte del centro storico della
città, che vuole essere luogo del silenzio e del divertimento, della tradizione e dei grandi eventi mondani? Sembra che il mantenimento del
centro storico come bella cornice, salotto buono, ZTL, servano come
presupposto per gli eventi straordinari. In questi casi eccezionali il centro storico diviene una cornice adeguata, uno sfondo adatto all’esibizione di musiche e balli. Il centro storico è paesaggio da contemplare
più che paesaggio in cui abitare e dunque l’eliminazione di rumori e
pratiche come le esibizioni degli artisti di strada e gli happy hour rientra
93
Figura 2. Campagna di sensibilizzazione del Comune di Trento
nel mantenimento di una certa immagine del centro. Si riafferma così il
primato della vista, anche se l’immagine non è mai solo visiva: “Ogni immagine è sempre accompagnata da una sua atmosfera sonora che per
quanto silente produce comunque degli effetti sul nostro corpo come
sul nostro immaginario, influenzando la relazione che stabiliamo con un
luogo” (Rinaldi e Zanini 2008: 17).
94
Conclusioni: Il muro del decoro urbano
L’insieme degli allestimenti prodotti a seguito delle controversie sugli
artisti di strada e sugli happy hour chiama in causa la questione del decoro urbano. La parola “decoro” deriva dal latino “decere”, ovvero “essere
appropriato”, “convenire” e chiama in causa la questione dell’adeguatezza
dei luoghi e delle azioni. Cosa si conviene dunque al centro storico? Per
cosa è adeguata questa parte di città? Gli attori in gioco si accordano sul
centro storico attribuendo forme e significati che a volte si reggono sulla
consuetudine, altre volte su categorie estetiche e sociali, altre ancora su
regolamenti e documenti istituzionali, su campagne mediatiche. Siano
essi artefatti linguistici (metafore) o artefatti visivi e normativi (mappe,
manifesti e regolamenti), questi fissano confini, prescrivono l’uso degli
spazi, stabiliscono le modalità di accesso.
L’idea di decoro del centro storico coagula attorno a sé tali elementi creando delle barriere, dei muri che a loro volta formano delle infra-
strutture, e consentono il passaggio di elementi ridotti ai requisiti e alle
regole di filtraggio. Si tratta comunque di una stabilizzazione precaria,
in cui infrastrutturazioni differenti del centro storico si connettono e interferiscono tra loro: c’è un centro storico commerciale, un centro storico monumentale, una ZTL, un centro storico circoscrizionale, un centro
storico come luogo del leisure. Se il rumore di aperitivi e artisti di strada
è in contraddizione con l’idea del centro storico come salotto buono, ciò
non vale per l’idea del centro storico come luogo del commercio e del
consumo, né per le eccezioni pianificate. L’identità del centro storico si
costruisce dunque sulla base di “paradossi del decoro” che si risolvono
nella prassi: silenzio e attrattività, storicità e attualità, regola ed eccezione. Di fronte a tali questioni insolubili, il centro storico si configura ora
come “luogo controverso” ora come un “luogo comune”, un minimo comun denominatore che media e riduce gli interessi dei residenti, quelli
dei commercianti, dei turisti, degli artisti, degli universitari che si ritrovano per l’ora dell’aperitivo.
Alla luce delle questioni prese in esame, i muri prendono forma nella
composizione di trame organizzative e materiali, incorporando e rendendo visibili le aporie che si sviluppano nella relazione tra politica e uso
degli spazi urbani. Di conseguenza:
a. Il muro è luogo di controversie. Il muro incorpora una sorta di hybris
originale che ci costringe ad inseguire gli effetti problematici delle stesse soluzioni, chiamando in causa entità dapprima silenziose che vengono mobilitate dall’istituzione di differenze. Più che risolutore il muro
incorpora quegli stessi problemi che intendeva risolvere e rende visibili
gli effetti collaterali del piano che l’ha istituito.
b. Il muro è luogo di un “eccesso regolatore”. La natura paradossale del
muro si mostra nel suo eccedere i confini prestabiliti, rendendosi entità
autonoma rispetto al piano.
c. Il muro è un’infrastruttura. In quanto tale, unisce elementi sensoriali,
materiali, narrativi e li compone in una trama organizzativa.
d. Il muro è una soglia e una membrana. Il muro istituisce dei confini,
crea un dentro e un fuori e determina le regole per il passaggio, gli standard di appartenenza o esclusione.
Nei termini di Latour, il muro potrebbe così configurarsi come “fatticcio” (Latour 1996): “ciò che permette il passaggio dalla fabbricazione alla
realtà; ciò che dona l’autonomia che non possediamo a degli esseri che
non ne hanno più, ma che, per questo fatto, ce la donano”. In altre parole,
il muro ci permette di comprendere come non esista un soggetto e un
oggetto dell’azione, in quanto l’azione è un processo di mediazione e di
continuo rinvio tra attori, che ne traduce e anche tradisce le esigenze.
95
Riferimenti
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Grasseni, C., Ronzon, F. (2004) Pratiche e cognizione. Note di ecologia
della cultura. Roma: Meltemi.
Joerges, B. (1999) “Do Politics Have Artefacts?”. Social Studies of Science, Vol. 29(3): 411-431.
Latour, B. (2004) “Which Politics for which Artefacts?”. Domus, giugno
2004. Online: http://www.bruno-latour.fr/presse/presse_art/GB-06%20
DOMUS%2006-04.html.
Latour, B. (1996) Petite réflexion sur le culte moderne des dieux faitiches. Paris: Les empêcheurs de penser en ronde. Trad. it. Il culto moderno
dei fatticci. Roma: Meltemi, 2005.
Matera, V. (2002) “Antropologia dei sensi. Osservazioni introduttive”. La
ricerca folklorica, Vol. 45: 7-16.
Park, R. (1940) “News as a form of knowledge”. American Journal of
Sociology, Vol. 45: 669-686.
Rinaldi, R., Zanini, P. (2008) “Il punto di vista dell’orecchio”. lo Squaderno, no. 10: 15-18.
Saviano, R. (2004) Gomorra. Milano: Mondadori.
Sennett, R. (2008) The craftsman. New Heaven: Yale University Press.
Trad. it. L’uomo artigiano. Milano: Feltrinelli, 2008.
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Woolgar, S. (1999) “Do Artefacts Have Ambivalence? Moses’ Bridges,
Winner’s Bridges and Other Urban Legends in S&TS”. Social Studies of
Science, Vol. 29(3): 433-449.
96
les peintures murales
d’Orgosolo
Un exemple de prise de parole sur le mur
Francesca Cozzolino
Les murs appartiennent
aux « demeurés »
aux « inadaptés »
aux « révoltés »
aux simples
à tous ceux qui ont
le cœur gros
il est le tableau noir de l’école buissonière
le mur
refuge des interdits,
donne la parole
à ceux qui sans lui,
seraient condamnés au silence.
Brassaï (2002: 152)
Des murs-supports de parole
Souvent les murs ont servi de support où se jouent la visibilité et la
prise de parole d’un groupe ou d’individus d’un milieu social précis. La
matérialisation de cette prise de parole peut se présenter sous forme
de tag, de graffiti, ou encore sous forme de peinture murale, ou mieux,
sous toute forme d’écriture exposée (Fraenkel 1994). Pour comprendre
cette assimilation entre mots et images, il nous faut nous pencher sur la
définition de « l’écriture exposée » que fait Armando Petrucci dans son
étude sur les écritures d’apparat :
Par écriture exposée, on entend n’importe quel type d’écriture conçu
pour être utilisé dans des espaces ouverts, voire dans des espaces fermés, de façon à permettre la lecture à plusieurs (groupe ou masse) et
à distance d’un texte écrit sur une surface exposée ; la condition nécessaire pour qu’elle puisse être comprise est que l’écriture exposée soit
de taille suffisante et qu’elle présente d’une manière suffisamment évidente et claire le message (des mots et/ou des images) dont elle est
porteuse. (Petrucci 1993 : 10)
97
Illustration n. 1
98
Toutes ces formes ne sont pas que le résultat écrit d’un énoncé linguistique ou visuel (dans le cas d’un dessin), il s‘agit bien sûr d’actes
d’écriture (Fraenkel 2007) émanant d’un individu dans le cas d’un tag,
plus souvent d’un groupe dans le cas de la peinture murale.
Si nous nous en tenons à la seule pratique de la peinture murale, nous
pouvons citer de nombreux exemples, à commencer par les célèbres
murales mexicaines ou les fresques de William Wolker avec son « Wall
of respect » réalisées à Chicago en 1967. On peut aussi évoquer les expériences fécondes des brigades muralistes chiliennes qui utilisent la
peinture murale pour diffuser les communiqués du gouvernement de
Unidad Popular de Salvator Allende.
Et comment ne pas mentionner les fresques qui couvrent les murs
de Belfast en Irlande du Nord et qui témoignent des événements du
célèbre « dimanche sanglant » (le 30 janvier 1972) et des revendications
des membres de l’IRA ? De ce passage à travers l’Europe notre mémoire
nous conduit également à Berlin en Allemagne où les peintures réalisées sur le mur ont maintenant totalement disparu.
Presque partout dans le monde, on pourra trouver des exemples de
peintures murales, comme l’illustrent François Chatel et Frank Popper
(1981), dans le panoramique des murs peints qu’ils ont réalisé dans le
catalogue L’art public, édité suite à l’exposition qui a lieu en 1980 au
château de Caen et qui a tourné dans toute l’Europe.
Les peintures murales d’Orgosolo apparaissent également dans ce livre. Il s’agit d’un village de montagne dans le nord de la Sardaigne (Italie)
où nous remarquons un cas tout à fait particulier de muralisme. Nous
parlons ici d’une pratique de peinture murale dans laquelle nous pouvons observer un phénomène « d’écriture exposée » (Fraenkel 1994). Elle
présente en effet les critères de visibilité (écriture destinée à être vue), de
publicité (offerte à la lecture publique) et de lisibilité (ce qui n’implique
pas qu’elle soit effectivement lue). Le métissage de ces deux éléments,
écriture et image, a donné lieu à l’exposition remarquable d’une parole
collective à laquelle les murs du village servent de support.
À partir d’une analyse des écrits de ces peintures, nous tenterons de
saisir cette forme singulière d’écriture qui a donné lieu à un « phénomène d’écriture collective », selon la distinction qu’en propose Béatrice
Fraenkel (2002 : 56) dans son étude sur les écrits de New York en commémoration du 11 septembre 2001 :
On connaît plusieurs formes d’écrits collectifs. Il y a des textes écrits
à plusieurs mais signé par un seul (on aide un ami à rédiger une lettre
importante ) ou, à l’inverse, un seul rédigé au nom d’un collectif (une
équipe, un syndicat, une association.
Les écritures que nous présenterons ici appartiennent au deuxième
cas: elles sont souvent écrites par un seul au nom d’un collectif, mais
même si le scripteur qui « tient la plume » est un seul, la rédaction du
texte est réfléchie à plusieurs. À des écrits de New York, ils ne nous
« montrent pas des “mains” différentes, ils mettent en évidence la pluralité des sujets » (ibid., 57), mais ce sont des écrits produits par une seule
main et dans lesquels résonne la voix d’un sujet pluriel.
À partir des témoignages de plusieurs personnes appartenant à la
communauté d’Orgosolo nous chercherons à vérifier l’hypothèse d’une
écriture à l’unisson, par un scripteur en lequel se réunissent les voix des
plusieurs individus : les habitants du village.
Naissance et développement de la peinture murale à Orgosolo
Il nous faut des chiffres pour comprendre la persistance de ces peintures, ainsi que la portée du phénomène. Nous parlons d’abords d’un
village de cinq mille habitants, Orgosolo, qui présente plus de trois cents
peintures murales.
Dans toute l’île, on peut compter plus de soixante-dix villages qui présentent des peintures murales, soit un total de presque mille fresques. Il
s’agit d’une présence qu’on ne peut pas ignorer, surtout si nous comparons ce phénomène à d’autres cas de peintures murales, qui ont donné
suite à un numéro bien inférieur d’images, et qui ont été réalisées dans
un contexte de commande et qui laissent des traces beaucoup plus
éphémères de leur existence par rapport aux peintures sardes.
Ici il s’agit d’une pratique exceptionnelle de peinture murale qui s’est
développée à la fin des années 1960 en Sardaigne. Les premières furent
réalisées au départ par l’artiste Pinuccio Sciola depuis la fin des années
1960 dans le village de San Sperate (Cagliari). Le but de l’artiste était de
réaliser des peintures murales dans l’espace public afin qu’elles puissent
devenir un moyen pour les gens de s’exprimer et de sortir l’art du musée. À ce propos, il crée l’association « village-musée ».
99
Illustrations n. 2, 3
100
Au milieu de la décennie suivante, cette pratique trouve un développement important à Orgosolo, un village de montagne dans le nord
de l’île. Ici les peintures vivent de l’héritage d’un fort militantisme de
contestation qui a animé le village au cours des années 1968 à 1970
durant lesquelles l’activisme de certains habitants a donné naissance
au Circolo Giovanile d’Orgosolo. L’héritage et la mémoire de ces trois
années d’activité du Circolo Giovanile d’Orgosolo alimentent la sensibilité qui est à la base de la réalisation de toutes les peintures murales
du village à partir de 1970 et ce pendant vingt ans. C’est dans les locaux
de son siège que, grâce à la participation active du professeur de dessin
de l’école d’Orgosolo, Francesco Del Casino, seront produites toutes les
affiches de contestation et de revendication qui décoreront les murs du
village pendant des années et qui seront ensuite traduites en peintures
murales (illustration n. 1).
En 1975, dans le cadre d’un projet éducatif, ce même professeur propose à ses élèves de fêter le trentième anniversaire de la libération de
l’Italie du fascisme en réalisant une recherche sur les résistants de la région pour les peindre sur papier, puis sur les murs (illustration n. 2).
Il s’agit tout d’abord de reproduire des événements de la vie quotidienne locale, mais les thèmes vont ensuite bien au-delà : la critique de
la société capitaliste s’accompagne souvent d’une sensibilité tiers-mondialiste (illustration n. 3) et traduit parfois certaines désillusions vis-à-vis
de la politique de centralisation du gouvernement italien. Nous passons
ainsi des premiers travaux réalisés par les mains inexpertes d’élèves à
des oeuvres plus élaborées. À la suite de cette aventure, la peinture murale devient pour le village d’Orgosolo un véritable moyen de communication et d’expression auquel les habitants du village feront appel en
différentes situations, dans le cadre d’un projet scolaire ou d’une manifestation politique ou artistique. Progressivement, les murs de ce petit
village de Sardaigne commencent à devenir les porte-parole d’une histoire, celle de la ville et de ses citoyens.
Aujourd’hui le village, qui compte presque cinq cents peintures murales, est devenu un attrait important pour le tourisme national et international (Satta 2001).
Eléments d’analyse des écritures des murales d’Orgosolo
Le phénomène qu’on se propose d’analyser présente une complexité
particulière car il s’agit d’une pratique remarquable de peinture murale
dans laquelle nous pouvons observer un phénomène d’écriture exposée. Pour saisir le rôle des écritures qui accompagnent ces oeuvres, leur
présence dans les images et leur efficacité, il nous faudra tout d’abord
procéder à une analyse de ces écrits. Il sera nécessaire d’entamer cette
investigation au sein d’une anthropologie de l’écriture. C’est une discipline qui prend en compte, à partir de la notion d’acte d’écriture, toute
forme d’écriture, pas seulement les énoncés mais également le processus de fabrication d’un écrit jusqu’à l’artefact qui dérive d’une action
d’écriture.
Nous prendrons en considération au fur et à mesure les différents éléments constitutifs de ces écritures : le support, la mise en page, la mise
en espace, le contenu, le système d’écriture utilisé ainsi que le langage
et enfin nous porterons notre attention sur les scripteurs et la façon
dont ils ont réalisé ces écrits. Il s’agit d’écritures exposées dont le support est le mur, pour la plupart des murs privés, sur lesquels, après avoir
obtenu l’autorisation du propriétaire, l’artiste écrit et peint directement
sans aucune préparation.
C’est seulement à partir des années 1990, avec la naissance des premiers « concours de peintures murales » et le développement de l’intérêt des politiques culturelles pour ce phénomène, que les réalisateurs
prépareront les murs avant de les peindre. La phase préparatoire consiste alors en une couche d’enduit sur la surface à peindre afin de la lisser.
101
Illustrations n. 4, 5
Ensuite une couche de couleur blanche couvre l’enduit.
Les écritures sont disposées dans l’espace de l’image, c’est-à-dire qu’elles sont inscrites sur la surface peinte du mur, mais leur mise en page
prend des aspects variés :
– elles entourent le dessin, surtout s’il s’agit d’un portrait (illustration
n. 4) ;
– elles sont disposées en haut ou en bas de l’image, en légende ;
elles se présentent sous la forme de titre de la peinture ;
– les écritures sont présentées dans des bulles, comme dans les bandes dessinées elles deviennent les voix des personnages représentés ;
– l’écriture et l’image entrent en relation avec le nom de la rue où elles
se trouvent ;
Les phénomènes de mise en abîme sont fréquents. Souvent des affiches sont reproduites dans des peintures, ou bien c’est la peinture qui se
présente sous forme d’affiche (illustration n. 5) et témoigne ainsi de son
héritage des affiches militantes. Parfois nous faisons face à une véritable
mise en scène de l’écriture : des pancartes ou des pages de journaux,
découpés, sont insérés dans l’espace de l’image.
Toujours réalisées à la main, ces écritures sont peintes, souvent en noir,
sur un fond blanc, mais elles peuvent être en blanc ou rouge si le fond
de la peinture est d’une couleur foncée. Souvent l’écriture est réalisée
avec la peinture qui reste une fois le dessin terminé. Au cours d’un entretien, Francesco Del Casino dit :
102
Souvent les couleurs on ne les achetait pas, chacun de nous amenait
des restes qu’il avait chez lui et on faisait avec, même si ce n’était pas
la bonne couleur. D’autres fois on faisait des collectes auprès des gens
qui passaient dans la rue, mais dans tous les cas on choisissait les couleurs les moins chères. De plus à cette époque, il n’y avait pas certaines
préoccupations comme maintenant par rapport à la durée et la qualité
de la peinture, maintenant on fait attention, on choisi des couleurs qui
vont rester dans le temps. (Entretien avec Del Casino, Sienne, 18 avril
2005)
La plupart du temps, la mise en espace du texte semble suivre les
modèles conventionnels : on écrit de gauche à droite, en suivant une
ligne droite (sauf certains cas particuliers où l’écriture entoure l’image
ou le portrait de quelqu’un) et en respectant les minuscules et les majuscules, surtout pour les noms propres, sauf quand le texte se présente
en « lettres capitales ». Les écritures semblent s’uniformiser au modèle
subjacent du livre. Par contre le moment où on va à la ligne n’est pas
donné par la « ponctuation » mais est décidé en fonction de la place qui
reste à côté du dessin. Dès que l’écriture se rapproche de l’image, nous
commençons une nouvelle ligne, l’écriture ne se superpose jamais aux
dessins.
Le système d’écriture utilisé est celui de l’alphabet latin. Il existe un
seul cas d’écriture japonaise lié à la visite d’un couple japonais de dessinateurs de bandes dessinées, qui a réalisé une peinture murale dans le
village accompagnée par une écriture qui utilise les caractères nippons.
Mais par qui sont réalisées ces écritures ? Et comment? Qui commande l’inscription et décide du contenu du texte ? Selon les témoignages,
nous pouvons distinguer plusieurs cas. La plupart du temps, elles étaient
écrites par des élèves de Del Casino qui étaient invités par le professeur
pour l’aider. Dans ce cas, les élèves écrivaient ce que le professeur leur
disait. Mais souvent la création du texte fait suite à une action pédagogique qui commençait à l’école où les élèves discutaient d’un thème
avec le professeur (comme dans le cas du projet pédagogique de 1975
concernant la recherche sur les partisans de la région). À l’occasion de
cette discussion, les élèves devaient décider du dessin à réaliser avec
leur professeur et quel texte l’accompagnerait.
D’autres fois l’écriture était réalisée par des habitants du village venus
prêter main forte au peintre. Alors les textes étaient rédigés après une
discussion collective entre l’artiste et les habitants du village qui, en
passant devant le mur sur lequel le peintre était en train de travailler,
commençaient à discuter avec lui à propos du thème de la peinture.
Souvent, un texte commun était rédigé, et inscrit sur le mur par l’artiste
ou un collaborateur.
Dans d’autres occasions, à la fin de la discussion, venait prise la décision de disposer à coté de la peinture, un texte préexistant que les personnes participants au débat jugeaient pertinent. Différents types de
textes pouvaient être choisis : il pouvait s’agir de la poésie d’un poète du
village comme dans le cas des textes de Peppino Marotto, ou de la citation d’un texte d’un auteur connu (comme Bertold Brecht). D’autres fois
il pouvait s’agir également de reproduire le texte d’une lettre. C’est le cas
de la peinture murale réalisée sur la façade de l’ex-mairie en mémoire
des événements de la lutte de Pratobello (voir infra ; illustration n. 6).
Quand il s’agit d’une citation ou de l’extrait d’un texte, le nom de
l’auteur est toujours indiqué en respectant majuscule et minuscule.
Mais quand il s’agit d’un texte collectif, rédigé par plusieurs personnes,
aucune signature n’apparaît. En ce qui concerne les peintures murales,
le nom de l’auteur n’apparaît que récemment et souvent c’est la seule
forme d’écrit qui subsiste, mais il s’agit de peintures réalisées par des
103
104
peintres qui n’habitent pas le village. Dans toutes les peintures réalisées
par Francesco Del Casino ou d’autres peintres locaux, il n’y a jamais de
signature. Par contre, un groupe d’anciens élèves de Francesco Del Casino a revendiqué à chaque fois ses réalisations sous le nom du collectif
« Les Abeilles ».
Les types et le contenu des textes sont variés. Dans les peintures les
plus anciennes, il s’agit en général d’écrits à caractère de revendication
politique. Nous trouvons alors des phrases telles que : « Femmes unies
dans la lutte », « On veut des engrais et pas des balles », ou encore « Le
moment est venu, peuples, d’en finir avec les abus. Renversons les mauvaises coutumes, renversons l’arrogance ». Ce sont des énoncés qui appartiennent souvent au genre très général du slogan.
Il s’agit pour la plupart de peintures concernant des débats locaux
ou des événements de politique nationale et souvent de critiques aux
représentants du gouvernement italien. Une fois que les ferveurs militantes de la fin des années soixante se furent éteintes, les écritures ont
continué à parler des combats locaux mais avec une fonction commémorative. Nous pouvons citer en exemple la peinture murale réalisée
sur la façade de l’ex-mairie en mémoire des événements de la lutte de
Pratobello.
Ces écritures étaient exposées au regard de tout public. Mais le fait
qu’elles soient exposées ne signifie pas qu’elles sont lues par tout le
monde. Elles s’adressent en effet à un public précis : les habitants du
village, les seuls qui peuvent comprendre le langage utilisé. En effet, la
majeure partie du temps, le langage choisi pour les écrits est la langue
locale, l’orgolese, une variété du sarde, élément qui nous fait avancer
l’hypothèse que ces peintures qui maintenant attirent tellement les
regards étrangers, n’étaient au départ destinées qu’aux seuls habitants
d’Orgosolo : c’était une communication restreinte et interne.
L’utilisation du sarde est également un choix lié au désir d’affirmer une
identité culturelle souvent dévalorisée. Nous en rencontrons un exemple dans la peinture réalisée en 1985 par Francesco Del Casino concernant les théories sur la physionomie de Lombroso et son individuation
du type criminel dans les caractéristiques physiques des sardes.
C’est seulement à partir des années 90, après la diffusion de la pratique de la peinture murale dans toute l’île et la naissance d’une reconnaissance intellectuelle qui commence à faire connaître ces peintures
hors du territoire local, et qu’elles deviennent un important attrait de
tourisme national et international, que l’on commence à trouver des
écritures en italien, parfois en latin, en français ou en espagnol. Il s’agit
d’écritures qui accompagnent des peintures réalisées dans le cadre d’un
projet éducatif scolaire ou d’un programme d’échange avec des élèves
d’écoles d’autres pays.
C’est également à partir de ce moment que l’enjeu touristique devient
manifeste et influence les choix linguistiques. Dans les années 1970,
Francesco Del Casino écrivait en sarde et n’imaginait pas que vingt ans
plus tard des foules de touristes se rendraient chaque été dans le village
pour voir ses peintures qui seront alors considérées comme une « forme
Illustration n. 6
d’art » : «À cette époque, quand on faisait des peintures murales on ne
pensait pas du tout à faire de l’art, on n’était pas non plus sur la même
position que d’autres villages, qui voulaient rendre l’art public et de le
faire sortir des musées », dit Francesco Del Casino dans un entretien récent avec nous (8 août 2006).
La peinture murale comme porte parole d’une communauté
Il ne s’agit ici que d’une première étape dans l’analyse des écrits qui vise
à aller bien plus loin pour aider à la connaissance du phénomène que
représentent les peintures murales de la Sardaigne mais qui peut déjà
nous donner des éléments de compréhension des transformations qui
ont touché ces fresques. La prise en compte d’un phénomène d’écriture
exposée dans un contexte bien plus large, celui de la peinture murale, se
présente comme une étape indispensable pour se rapprocher d’autre
problématiques, comme celle de leur restauration ou encore leur reconnaissance comme ouvres d’art par la Directions aux affaires culturels de
la Région Sardaigne (Merlini 2006 : 7).
Nous nous trouvons face à une pratique d’écriture exposée tout à fait
particulière, composée de mots et d’images, où la relation entre texte et
représentation est étroite, mais qui penche en faveur de l’image. Cette
alliance a été la stratégie adoptée pour la prise de parole d’un groupe,
105
celui des militants du Circolo Giovanile d’abord et de tout un village
ensuite, et l’affirmation de leurs idéaux et de leur identité.
Pour comprendre ce processus, on prendra en exemple une peinture
représentative de ce phénomène. Il s’agit de celle qui illustre la lutte
de Pratobello et qui se trouve sur la façade de l’ex-mairie d’Orgosolo,
sur la rue Corso Repubblica et communément appelée « le mural de
Pratobello ».
Cette lutte, qui fut l’un des combats les plus importants contre ceux
que les militants du Circolo Giovanile affrontaient, impliqua tous les habitants du village qui, sur l’impulsion des membres du Circolo, occupèrent les pâturages de la zone de Pratobello où les militaires de l’OTAN
voulaient installer leurs bases militaires. La grande participation populaire à cette manifestation obligeât alors les militaires à abandonner leurs
projets ainsi que les territoires de Pratobello, quand par ailleurs le Circolo
obtînt la faveur et le consensus de tout le village.
Les membres du Circolo Giovanile s’étaient organisés pour l’appel
à l’action en se servant d’affiches visant à sensibiliser les habitants sur
« l’affaire Pratobello ». Elles sont dessinées par le professeur de dessin
Francesco Del Casino et produites à l’aide d’une polycopieuse, comme il
l’explique au cours d’un entretien (Sienne, 18 avril 2005):
Au départ on a créé un petit atelier de sérigraphie, on utilisait de la
masonite parce qu’il n’y avait pas de linoléum, et le contreplaqué c’était
trop cher. La première affiche qu’on a faite, c’était à partir de la maquette
de la célèbre affiche française où il y avait un policier avec le sigle « SS »
écrit sur le bouclier. Pour dépenser moins d’argent on a utilisé de l’encre
à polycopie, on avait une production de plus ou moins deux cents affiches par semaine et chaque semaine on faisait un nouveau dessin. La
peinture qu’il y a sur les murs de l’ancienne Mairie d’Orgosolo donne un
exemple des affiches qu’on faisait.
Les productions qui ont été affichées un temps sur tous les murs du
village sont fidèlement reproduites dans la peinture murale. Ici l’image
est accompagnée de différents types d’écriture : les écrits des affiches
produites en 1969 par les militants du Circolo Giovanile et le texte du
télégramme envoyé par Emilio Lussu en soutien aux habitants d’Orgosolo1.
Il s’agit d’une mise en abîme de l’écriture. Les énoncés appartiennent
souvent au genre très général du slogan. Ceux-ci se présentent souvent
106
1 Militant de la première guerre mondiale, Emilio Lussu fut, de 1921 à 1924,
député du Partito Sardo d’Azione qu’il avait lui même créé. Il fut arrêté en
1926, accusé d’avoir tué un fasciste et il fut emprisonné à Lipari d’où il réussit à
s’enfuir. Il se réfugia par la suite à Paris où il fut membre du comité de création
du mouvement qui portait le nom de Justice et Liberté. En 1943 il retourna
en Italie où il fut militant pendant la résistance. Il occupa un poste de ministre
à plusieurs reprises de 1945 à 1963, année où il se retira de la vie politique. Ici
la traduction du texte: «Ce qui s’est passé à Pratobello, contre l’agriculture et
l’élevage, n’est que de la provocation colonialiste. Il faut remonter à la période
fasciste pour trouver un abus similaire, pour cette raison je me sens solidaire
inconditionnellement avec les bergers et les paysans d’Orgosolo qui n’ont pas
capitulé. Si j’étais en meilleure santé je serais là avec eux ».
comme des actes de langage : mots d’ordres, revendications, exhortations, protestations, dénonciations : « Hommes et femmes unis dans la
lutte », « Non à la répression », « Avant de sauver les moutons, sauvez
les hommes », « Assemblée populaire », « Dehors, vautours de la Sardaigne! », « Le peuple décide, le Maire signe », « Pâturages libres des
patrons et des canons ».
C’était une période de grande ferveur militante, le but étant de donner un message, rapide, compréhensible par les habitants du village et
de les encourager à prendre position ou à s’impliquer dans un débat. Le
mur devient le support de narration de cette parole contestataire. Ces
peintures se chargent donc d’une réelle valeur politique en devenant
un moyen pour la population de prendre la parole et de manifester ses
idées, Pietrina Rabanu écrivait même dans son analyse du muralisme en
Sardaigne :
Sur les murs des idées sont exprimées d’une façon totalement publique. Ce n’est pas un changement facile. Peintes sur les murs les opinions prennent une importance que le mots n’ont pas. Pour les exprimer
il faut du courage (Rabanu et Fistrale 1998 : 9)
Porteuse des idéaux du Circolo Giovaile et gardienne de la mémoire
des habitants du village, cette peinture accompagnée d’un texte est devenue un acte d’écriture qui se charge d’une valeur symbolique reconnue par la majorité de la communauté grâce à sa fonction commémorative. Elle représente pour les gens du village en vrai monument public,
à tel point que, à la différence d’autres peintures, elle a été (à partir des
années 2000) l’objet de nombreuses opérations de restauration voulues
par le service des affaires culturelles de la ville et a été archivée par la
Direction aux Biens culturels de la région Sardaigne.
Au fil des ans, ces murs sont devenus un moyen pour les habitants du
village de raconter leur histoire, l’image d’une mémoire collective dans
laquelle ils se reconnaissent et ils leur confient leur parole comme l’indiquent les témoignages recueillis :
La peinture murale, finalement, c’est une forme de communication
d’un événement ou d’un malaise, ensuite il y a l’écriture, car dans la
peinture murale en plus de l’image il y a l’écriture, précisément parce
que pour les gens l’important c’est de donner un message (Entretien
avec Titina Congiargiu, Orgosolo, 19 septembre 2007).
Cette perception de la peinture murale comme porte-parole est tellement forte que dès qu’une peinture dans le village ne concerne pas
Orgosolo, elle est perçue de manière différente, comme nous pouvons
le lire dans le récit de M. Manca qui parle avec ironie de celles réalisées
par des étrangers dans le cadre d’un concours de peinture murale:
… tu vois ces peintures murales ? Elles n’ont plus un caractère de
revendication politique, elles ont été réalisées dans le cadre d’un concours, pour voir qui fait la plus belle, mais tu vois, ça ne nous concerne
plus nous, ça ne concerne plus le village et notre situation. (Extrait
du parcours commenté effectué dans le cadre d’un projet ANR avec
Mauro Manca, à Orgosolo, le 28 septembre 2007)
107
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108
Un regard vidéo participatif:
les graffitis sur le Web
Luciano Spinelli
Phénomène de la culture hip-hop, de communication visuelle de
masse, de la postmodernité, la tribu urbaine des grapheurs obéit à une
nouvelle logique d’organisation (Lemoine et Terral 2005). Dans un réseau
informel assez flou, l’insertion d’une personne dépend uniquement de
la volonté de celle-ci de s’inscrire dans la ville. Pour participer, il faut se
faire voir par ces pairs. Cette démonstration qui adopte la rue comme
une toile, a outrepassé les barrières du physique, dès lors que certaines
actions de graphitage sont pérennisées à travers les photos et vidéos
qu’elles produisent plutôt que par leur réelle visibilité.
Voilà que le graffiti devient hyperréel, détaché de son support sans
quitter pour autant son entourage et imprégné sur un support virtuel.
L’enjeu est d’opérer le passage de l’action de graphitage à une mise en
réseaux du résultat, filmé et photographié et ainsi montré comme un
trophée sur des sites internet où le graffiti sera discuté par les internautes. Cette transcription du graffiti du support physique à un support virtuel peut être réalisée à partir d’une méthode de vidéo participative. La
vidéo participative sous-tend une logique d’action collective pour filmer
l’action d’une communauté sans dénaturer la cohésion de celle-ci, c’està-dire sans introduire un élément étranger – soi-disant professionnel –
dans la communauté mais en incitant ses membres à « se filmer ». Cette
méthode a donc l’avantage de porter un regard intégré sur les activités
d’une communauté, et en ce qui nous concerne, sur la préparation, la
réalisation et le rendu des activités des grapheurs.
Sur la scène du graffiti au XXIème siècle, l’importance d’Internet ne peut
pas être négligée en tant qu’un medium (McLuhan 1968) sur le quel
des réseaux se tissent et consacrent un savoir faire international. Cette
idée de médium sera étoffée au cours de cet article pour montrer l’importance de la construction du lien social par la mise en réseaux. Nous
allons observer l’usage que les grapheurs font du Web pour la diffusion
d’informations, d’images et de vidéos. Il sera ensuite question d’appréhender la vidéo participative et sa diffusion online comme une façon de
rapprocher des personnes, de tisser des liens sociaux autour d’un milieu
d’expression audiovisuel.
En tenant compte que le graffiti est un produit visuel, l’usage de l’ima-
109
ge dans la recherche qualitative de terrain est ici d’une importance première, observée comme une écriture en parallèle, capable de nourrir
un regard singulier sur l’enquête. La méthode de la vidéo participative
s’inscrit dans une perspective ethnographique et permet de cerner et
de développer les usages du graffiti dans la ville. Elle s’inspire de l’exemple interactionniste nord-américain (Goffman 1973 ; Becker 1985) selon
lequel le fait d’accompagner les grapheurs en action est à l’origine de
l’insertion dans leurs «tribus urbaines » (Maffesoli 2000). Cette recherche
ethnographique de terrain a été développée premièrement auprès de
l’Universidade Federal do Rio Grande do Sul, puis à l’Université de Paris V
et fait sujet de quelques articles sur le graffiti publiées par des revues de
sociologie et communication (www.graffiti.org/faq/spinelli). L’enquête a
été menée avec des grapheurs de la ville de Porto Alegre, au Brésil, entre
2003 et 2005 avec des grapheurs français depuis 2006, puis s’est poursuivie en France, à Paris afin de comparer les techniques et les graphs
dans ces deux pays.
Pendant les deux années enquête au Brésil, certaines techniques collectives de vidéo documentaire ont été empruntées auprès des grapheurs à fin de les inciter à filmer leurs actions, ce qui a abouti aux vidéos
Dano 163 et Trensurb 2004. Après deux ans en ligne sur le site Youtube,
la première vidéo compte plus de cent mille visualisations.
Cependant, l’usage de la vidéo ne s’est pas fait exactement sous la
forme d’un atelier vidéo participatif, car le façonnage de cette méthodologie de recherche n’en était qu’à ses débuts. Dans cette première étude
de cas avec des grapheurs au Brésil, l’idée d’attribuer des voix et des
images aux acteurs de cette pratique s’est nourrie, d’une part, de liens
tissés par exigence de l’enquête et de l’autre, par des liens plus informels
de l’ordre des amitiés.
Nous allons finalement cerner l’importance d’une production vidéo
documentaire dans le milieu du graffiti pour observer la restitution de
l’action du grapheur envers ses paires et la ville. Il est alors possible d’envisager une médiance (Berque 1990) entre le support, le paysage urbain
et le grapheur même, une médiance qui s’opère par la bombe de peinture qui « relie » le grapheur au mur. Quant à l’aspect imagé, on peut
envisager une reliance (Maffesoli 1993) entre l’action du grapheur et le
public qui voit le graffiti, qui est dans ce cas médié par la caméra vidéo
ou l’appareil photo. Dans cette situation, l’image du graffiti est alors exportée vers un support extra-urbain, qui lui confère un rendu hyperréel,
comme ceux qui sont visibles sur Internet, dans une galerie d’art, ou
même imprimées dans les pages qui se trouvent à la fin de ce texte.
110
Grapheurs et graffitis dans le monde virtuel
Support avantageux pour la diffusion des productions des grapheurs,
Internet constitue le milieu où circulent les informations qui composent
la culture du graffiti. Le choix d’Internet comme espace de contact répond à plusieurs principes tels que l’interdiction de la pratique du graffiti, qui rend difficile une diffusion effective des actions dans les milieux
de communication. La revue française Graff-It à souffert une procédure
judiciaire de la part de la RATP à titre de dommages et intérêts punitifs
en décembre 2003 à cause de la publication de photos de graffitis sur
leurs trains. La revue en question gagné le procès. D’ailleurs la RATP a
déjà publié des photos de leurs trains graphés dans leurs revues et journaux internes. Internet est caracterisé par la gratuité du service; la possibilité de véhiculer tout type d’information sur les supports les plus divers
(texte, photo, vidéo); l’échange dans le virtuel et qui est en même temps
réel car ce sont des données binaires transférées par le peer2peer, de
personne à personne, ce qui constitue une nouvelle possibilité d’« être
ensemble » (Maffesoli 2000: 148).
Ce réseau virtuel qu’est Internet, est pris en compte, quant à l’usage
qu’en font les grapheurs, dans la définition que Hakim Bey fait du Web. Il
affirme qu’« à l’intérieur même du Net émerge une sorte de contre-Net,
que nous appellerons le Web (comme si le Net était un filet de pêche, et
le Web des toiles d’araignées tissées dans les interstices et les failles du
Net). En général nous utiliserons le terme Web pour désigner la structure
d’échange d’information horizontale et ouverte, le réseau non hiérarchique » (Bey 1997: 26)
L’importance d’Internet a sensiblement augmenté en tant que moyen de communication et « structure d’échange » ; on peut dire qu’elle
constitue ce que Marshall McLuhan (1968) nomme « médium ». Sur ce
support virtuel entendu comme Web, de nouveaux modes d’action
ont été discutés sur les forums des sites de graffitis. Une de ces pages
web rend compte, par exemple, des recommandations données par un
groupe d’avocats en cas d’une arrestation par la police pendant l’exécution d’un tag ou d’un graf. Une autre propose le téléchargement gratuit
de vidéos de toutes sortes.
Les représentations personnelles dans le Web se font, tout comme
dans le milieu du graffiti, d’une manière symbolique, par le « nickname », le pseudonyme qui est une constante dans les relations virtuelles.
Ce nom de login, qui peut être un nom fictif, est une caractéristique
de la tribu qui réalise des graffitis puisque le tag et le graf consistent
à l’écriture d’un « nom » inventé. Il s’agit dès lors d’une identification
personnelle qui, une fois écrite dans la ville souligne plutôt une forme
visuelle et graphique. Cependant, quand ce nom/tag/graffiti est écrit en
type graphique d’ordinateur sur internet et se voit privé de ses contours
visuels complexes, il laisse transparaître la graphie d’un véritable « nom »
qui peut être une abréviation, verlan, sigle ou même une séquence de
nombres. Ce pseudonyme est fondamental pour identifier le grapheur
internaute dans le Web. Dans ce lieu d’interaction horizontale, l’offre
d’informations se fait via des sites personnels qui sont reliés à des modes de communication individuels et collectifs.
Usage du web par les grapheurs
Sur Internet, l’écriture des textes est faite dans les Blogs (dont le format est déjà pré-stipulé et facilité), cependant l’attraction exercée sur les
grapheurs réside dans la possibilité d’échanger des images. Il n’est donc
pas surprenant que nombre d’entre eux maintiennent et actualisent
111
des Fotologs ou des Flickrs. Ces supports présentent et archivent des
images et unissent les utilisateurs de la même plate-forme comme un
réseau de relations. La possibilité de commenter, de joindre en lien et
des adresses de sites créés par d’autres personnes permet de prolonger
et de suivre ces réseaux de relations. D’autres informations sont rendues
disponibles à partir de cette mise en interaction de sites mais aussi de
personnes. Ces dernières, qui peuvent se connaître ou pas, tissent des
liens individuels avec le Msn (Windows Messenger), les Forums et l’email.
Celui-ci est déjà un niveau plus proche et complet de communication
dans lequel se démarquent Msn et d’autres dérives du service comme
GTalk et Skype. Par ce biais, les grapheurs dialoguent et communiquent
en temps réel, par texte ou de vive voix et échangent toutes sortes d’archives, en particulier des photos et des vidéos. Msn permet de combiner
l’organisation d’actions et de rencontres. Avoir enregistré dans son Msn
les contacts de plusieurs grapheurs et répertorié sur son site personnel
le site d’autres grapheurs, est une manière de bâtir un réseau international et virtuel qui partage un secret, un mode d’action, un ethos.
En ce qui concerne l’image en mouvement, le peer2peer et plus particulièrement les sites Youtube et Dailymotion sont devenus fondamentaux pour diffuser toute une sorte de vidéos illégales produite par les
grapheurs. Ces vidéos, qui ne sont pas vendues en magasin, donnent à
voir leurs actions, les éléments qui les constituent et leur mode de réalisation partout dans le monde. Le crew CLM (Contrôle Le Métro) sur qui
cette enquête se pose à Paris était déjà connu des enquêtés de Porto
Alegre à cause de leur apparition dans la Vidéo Dirty Handz 2 qui circule
sur Internet. Pourtant, la nécessité pour le grapheur de documenter son
travail en photo ou vidéo et ainsi conférer un certain rayonnement à
son graf, à son blaz1, est un moyen de sortir du lot dans les milieux du
graffiti à une ampleur internationale.
La possibilité de donner à voir son graffiti au travers le monde est sans
doute un des intérêts des grapheurs sur qui cette recherche se pose,
d’intégrer un atelier de vidéo participative. Le fait de connaître d’autres
vidéos de graf leur donne un regard déjà pointu sur cette pratique et les
amènent à en réaliser aussi. La diffusion facile et gratuite en streaming
sur le site Youtube et la grande visibilité obtenues sont des atouts de la
vidéo qui incitent quelques grapheurs à dominer cette technique de
communication assez complexe. C’est dans ce contexte que nous devons prendre en compte la réalisation de l’atelier vidéo documentaire
qui est à origine la vidéo Dano 163 dont nous parlerons par la suite.
Un atelier vidéo avec des grapheurs brésiliens
Il s’agit à présent, d’envisager une pratique de réalisation vidéo documentaire associée à des méthodes qualitatives d’enquête etno-socio-
112
1 Le blaz est le pseudonyme de la personne qui intervient avec sa marque
dans l’espace public. Il représente le nom tribal écrit au travers de plusieurs
graphies et identifie la personne à son œuvre. Dans certaines occasions, la
signature du blaz peut être elle-même l’œuvre.
Illustrations n. 1, 2
logique afin de produire un rapport imagé. L’intérêt est de considérer la
vidéo participative comme le moyen d’inciter des personnes à observer
leur quotidien avec un regard particulier à travers l’écran de la caméra
qui reflète une réalité médiée.
Pour réaliser des photos et vidéos d’une action subjective, comme la
réalisation d’un graffiti, il convient d’avoir un sens de l’enchaînement des
gestes propres à cet acte créatif (Illustrations n.1-5). Connaître les pas,
les mouvements, les techniques du corps, a permis d’accompagner le
grapheur en action. Le cinéma est comme une danse, enseigne Jean
Arlaud – directeur du Laboratoire d’Anthropologie Visuelle et Sonore du
Monde Contemporain et professeur à l’Université de Paris 7, réalisateur
de plusieurs documentaires ethnographiques – en faisant allusion au
rapport de proximité et de complicité établie entre le réalisateur et ses
sujets pendant la production d’images. Il est indispensable de connaître
les pas de son partenaire, le rythme de la musique et les mouvements
de la danse pour accompagner le tout sans incongruité.
La recherche réalisée avec les grapheurs à Porto Alegre a ainsi intégré
un rapport imagé de la situation de terrain. Etant donné que le graffiti
est une œuvre éphémère qui peut être effacée du jour au lendemain, sa
prise en photo et en vidéo est une pratique qui se rapporte à l’ethos de
cette tribu postmoderne. L’entrée en matière sur le terrain ethnographique est passée par une réalisation photographique (Spinelli 2007). En
113
Illustrations n. 3, 4
114
effet, Luis Eduardo Achutti affirme qu’ « Avec la photo-ethnographie, il
est possible de construire des textes d’images sur la culture de l’autre, de
faire des constructions descriptives et narratives. Une narrative visuelle
qui est enrichissante avec de nouveaux angles, avec une autre graphie »
(Achutti 1997: 77).
L’entré en matière
Le développement de la recherche, couplée à la relation de confiance
tissée avec les grapheurs a ensuite conduit à la vidéo. Certains d’entre
eux possédaient déjà des caméras et les avaient amenées à l’occasion
des sorties nocturnes. Mais l’usage de la caméra vidéo se limitait à reproduire un regard photographique qui ne faisait que figer en image le
graffiti fini, afin qu’une fois effacée de son support physique il ne soit pas
condamné à l’oubli.
Toutefois, les grapheurs en question avaient une bonne connaissance
de la production internationale de vidéos de graffitis qui circulent sur
internet. Ces vidéos définissent elles-mêmes une forme d’action, une
manière de grapher et même une hiérarchie. Leur importance est telle
que l’on peut dire qu’elles édifient une sorte de standard au sein du graffiti international. Au cours des actions suivies au Brésil, certaines avaient
pour objectif de re-interpréter ce qui avait été antérieurement vu sur
des vidéo de graf.
Par exemple, cette culture internationale diffusée dans les vidéos de
graffitis a conduit les grapheurs de Porto Alegre à valoriser les graffitis
peint sur les trains, une pratique qui est largement répandu en Europe
du fait de la popularité de ce transport urbain. Pourtant, la ville de Porto Alegre ne compte qu’une seule ligne de train, ce qui signifie qu’un
graffiti sur ce train aura certainement moins de visibilité qu’une oeuvre
bien placée au centre ville ou même sur un autobus, qui est le moyen
de transport commun prédominant. Mais en raison de cette culture
mondialisé diffusée dans les vidéos de graffiti (la vidéo préférée des enquêtés qui était souvent vu avant les sorties était l’espagnole « Cebo: la
conquista », avec presque deux heures de graffiti peints sur des trains)
les grapheurs qui participaient à cette étude s’obstinaient à peindre le
train et ils l’on fait à plusieurs reprises.
En parlant de ces vidéos européennes et en les regardant, la question
s’est posée d’en réaliser une à partir des actions des grapheurs et de
leur graphs. Les discussions ont alors porté sur la manière de filmer les
actions, les différents plans pour constituer une narrative visuelle, la manière d’opérer la caméra et de mêler la réalisation vidéo à l’action furtive
et illégale du graffiti. Après quelques essais réalisés avec la caméra, ils ont
tourné quelques séquences puis ils ont commencé à filmer eux-mêmes
leurs actions. Après un an, ils comptaient déjà une vingtaine de cassettes avec des graffitis de tous types. Ces cassettes étaient visionnées par
les membres du groupe avec enthousiasme; cependant, l’absence de
montage donnait au tout un rythme proche du temps réel, semblable à
celui d’une vidéo amateur en famille…
Un montage, une édition de l’ensemble, était alors nécessaire. Pen-
115
dant l’atelier de montage, ils se sont retrouvés autour d’un ordinateur,
de façon à choisir quelles images ils allaient montrer et qu’est ce qu’ils
allaient raconter. Finalement, les images filmées rendaient compte de
scènes d’action et illustrée des histoires déjà vécues. Au terme d’une
année de travail en groupe, le résultat a été intitulé Dano 163 (www.
youtube.com/user/dano163).
116
La pratique de la vidéo participative
C’est au cours de cette première expérience d’ethnographie visuelle
que certaines techniques vidéo participatives ont été testées et apprivoisées. Il s’agit à présent de décrire et d’interpréter ces techniques dans
le but de comprendre la mise en place d’un atelier vidéo participatif et
sa pertinence ethnographique dans la perspective d’aboutir à ce que
Clifford Geertz (1986: 16) nomme une « description dense ».
La vidéo participative est comprise ici à partir de la définition donnée
par les frères Nick et Chris Lunch (2006: 16) qui l’observent comme « une
série de techniques qui impliquent un groupe ou une communauté à
développer et créer leur propre film ». La vidéo participative donne alors
accès aux outils nécessaires pour construire une narrative visuelle à partir de sa propre culture.
C’est au travers de jeux et d’exercices ludiques que se fait le rapprochement entre les participants de l’atelier et la caméra vidéo. Une relation
non hiérarchique entre ces personnes et l’animateur est une condition
nécessaire pour intégrer les participants au sein d’un projet commun où
ils filment leur quotidien sous un regard extra-ordinaire.
Les premières expériences vidéo participatives remontent à 1967
quand le Canadien Don Snowden a organisé un atelier avec des pêcheurs des îles Fogo. Les vidéos produites par les pêcheurs ont circulé
entre d’autres communautés de pêcheurs sur cette même île et leur ont
permis de comprendre et résoudre des problèmes communs. Alors que
l’attention portée sur ces tribus traditionnelles s’orientait de plus en plus
vers des tribus urbaines, l’évolution de l’appareillage technique a aussi
permis la popularisation de la réalisation vidéo. Le prix très accessible
d’une caméra mini-dv et d’un ordinateur portable a permis l’implantation de projets participatifs à travers le monde auprès des communautés les plus démunies. A la fin des années 90 certaines de ces vidéos
étaient déjà disponibles sur internet.
La vidéo participative se distingue d’un documentaire traditionnel par
son façonnage, son montage collectif et son résultat final. Dans le premier cas, ce sont les participants de l’atelier qui décident quoi et qui
filmer, comment monter les images et quelle histoire raconter. Il s’agit
de leur point de vue sur des questions qui leur sont pertinentes, de façon à diffuser et/ou valoriser leur culture, communauté et travail. Dans
le deuxième cas, le réalisateur d’un documentaire traditionnel fait état
d’un script avec une histoire à confronter auprès d’un sujet réel, le résultat peut se rapprocher au maximum d’une réalité observée mais demeure tout de même le point de vue du réalisateur.
Le résultat de ces ateliers participatifs donne corps à des vidéos dans
lesquelles le contenu surmonte la forme. Les vidéos témoignent de dialogues entre les participants de l’atelier et leurs proches avec des images
de type amateur, filmées dans un cercle intime dans lequel un professionnel de la vidéo peut difficilement pénétrer. La vidéo participative est
mise en place, en général auprès de communautés qui sont à la marge
de la culture mainstream de la télévision.
Selon Shirley White (2002), la vidéo participative tend non seulement
à donner accès mais aussi à conférer un certain pouvoir d’action à des
groupes sociaux. Elle caractérise le processus de développement d’un
groupe auprès d’une forme participative de communication qui peut
être défini « en tant que un catalyseur pour une action et un facilitateur
pour l’apprentissage et l’échange de connaissances entre les personnes » (White 2002: 37).
Ici, l’enjeu est d’envisager l’introduction de cette méthode vidéo documentaire auprès de quelques tribus urbaines qui, même immergées
dans une culture vidéo, font face à un tout nouveau défi: celui de produire leurs propres vidéo de façon à mettre en images une culture orale
répandue dans leur réseau néo-tribal. Une tribu postmoderne, comprise à partir de la notion de Michel Maffesoli (2000: 137) pour qui « néotribalisme caractérisé par la fluidité, les rassemblements ponctuels et
l’éparpillement. C’est ainsi que l’on peut décrire le spectacle de la rue
dans les mégapoles modernes ». Cette étude s’est focalisée sur une tribu
particulière dont l’adhésion dépend de l’envie et de la pertinence de la
personne intéressée.
Au sein de ces groupes urbains, la caméra se laisse traîner et entraîner par les participants de l’atelier. Il en résulte des images qui différent
d’une métrique télévisuelle, d’une esthétique cinématographique, tout
comme d’un rythme vidéoclipé. Cependant, la performance face à l’objectif se fait légère et informelle, à tel point que de temps en temps,
l’existence de la caméra peut être momentanément oublié. Ceci est
possible dès lors que les personnes qui opèrent la caméra font partie
du même cercle social que les personnes qui se voient face à l’objectif.
Du reste, la certitude qu’ils vont voir et monter les images qu’ils réalisent
avant de les diffuser leur donne le courage d’expérimenter.
Pour ces tribus postmodernes, qui baignent dans une culture vidéo
ludique de la télévision câblée et de la diversité soi-disant infinie d’internet, la vidéo participative présente un champ de possibilités très élargi.
Stimuler cette technique de communication visuelle auprès de ces
groupes sociaux permet d’observer leur quotidien sous un autre regard;
de donner voix à des idées qui étaient au préalable transmises par une
culture orale; de fortifier l’identité de groupe et d’affirmer l’existence de
celui-ci.
Un rapport médié entre graffiti, support et publique
L’étude de cas avec les grapheurs pendant un atelier vidéo participatif
a aussi révélé le graffiti à un public situé hors des frontières du lieu où
il a été inscrit. Le graffiti dans cette situation a d’abord été pensé pour
dialoguer avec le mur comme support physique; puis a permis un dia-
117
logue avec la caméra qui rend compte de la performance technique et
corporelle du grapheur; et finalement a engendré une mise en relation
avec un public extérieur placé face à des écrans d’ordinateurs.
Le grapheur et son corps performatifs sont observés de manière à
comprendre le graffiti comme une mise en relation médiée entre acteur
et support à travers un objet qui, dans ce cas, est la bombe de peinture.
Le regard s’oriente vers une relation entre le grapheur et son milieu citadin proche à ce qu’Augustin Berque (1990) entend par « médiance »,
quand la technique devient une extériorisation qui prolonge la corporalité hors du corps. Pour l’auteur c’est la pulsation existentielle qui, animant la médiance, fait que le monde nous importe. Elle est « issu de
notre chair sous forme de techniques et qu’il y revient sous forme de
symboles ». Le graffiti peut être, à son tour, un exemple de l’extériorisation technique de l’homme sur son habitat dit naturel, qui nourrit une
interrelation symbolique entre d’autres hommes qui lisent ces codes visuels qui intègrent le paysage urbain.
Puis ce rapport médié peut aussi être observé entre la caméra vidéo
et le grapheur en action car, en même temps que ces derniers se représentent eux-mêmes, l’image vidéo restitue leurs œuvres. Il apparaît alors
ce que Michel Maffesoli (1993) nomme « reliance », qui souligne le lien
créé par les lieux et principalement le lien « affectuel2 » qui résulte de
« l’être ensemble » néo-tribal. Ainsi, on peut dire que la relation établie
par les grapheurs autour et devant la caméra renforce son importance
au sein du groupe. La caméra est tout à la fois un catalyseur et un outil
pour la communauté, elle induit la communication du mode de vie et
des envies de la tribu en affirmant le pacte entre les membres de mener
un projet ensemble.
Le lien affectuel se rapporte aussi au grapheur et à son milieu urbain
car on peut dire que la bombe le relie au mur et ainsi à sa tribu urbaine,
tout en sachant qu’il n’est en général pas vu et qu’il n’a aucun contact
avec le mur, hormis le flux continue de peinture qui sort du spray. Quant
à la caméra vidéo opérée par les grapheurs, certes elle filme leurs paires,
mais elle relie aussi leurs actions et leurs graffiti à un univers plus large:
celui de tous les grapheurs qui visionnent ces images à travers le monde
au moyen d’un support de diffusion virtuel, qui tisse et confirme des
« liens tribaux » entre des groupes internationaux.
Cette perspective ré-interprète une valeur du graffiti qui est fait pour
se donner à voir et circuler. Un graffiti peut, comme on l’a vu précédemment, être réalisé sur un train, qui entraîne l’écriture de quelqu’un sur le
parcours sinueux de ces rails, puis cette action de graffiti sur train peut
être filmée et exportée vers un réseau binaire comme internet. Un tel
118
2 La notion d’affectuel est interprétée selon Michel Maffesoli qu’écrit: « Insistons sur ce terme d’ ‘affectuel’ en ce qu’il rend attentif au retour d’une sorte
d’érotisation. L’orgie dionysiaque, non pas comme voudraient le croire des
esprits malins, en sa simple dimension sexuelle, mais bien comme expression
d’un orgiasme cosmique. Je veux dire par là une communion qui, au-delà des
égoïsmes divers, au-delà aussi de l’individualisme théorique, favorise la ‘reliance’ et conforte le sentiment d’appartenance » (Maffesoli 2004: 8).
réseau donne à voir des images rendu hyperréelles qui portent sur la
performance médié d’un grapheur. Une représentation « hyperréelle »
comprise selon la définition de Jean Baudrillard (1981: 233) qui emploie
ce terme pour définir l’existence née de la confusion entre le réel et
l’imaginaire, de quelque chose qui n’existe pas réellement, voire qui n’a
jamais existé. Le graffiti, avec son caractère éphémère et fantasmagorique, se prête à ce rendu hyperréel qui garde sa trace fortuite et controversée en l’étendant à un réseau virtuel.
Dans ce processus, le graffiti se donne à voir sur des supports multiples: sur le mur ; sur une pellicule ; sur le papier baryté d’une photographie ; ou encore sur écran. L’importance de faire un graffiti sur des
supports divers vient du fait que le circuit du train va probablement se
terminer dans l’entrepôt de nettoyage, quand la vidéo avec la réalisation
de ce gaffiti, elle va certainement circuler sur internet, à la rencontre
d’autres vidéos de graffiti sur trains provenant du monde entier.
La médiance entre graffiti, paysage urbain et observateur n’est pas
seulement consistante au moyen de la caméra, mais elle donne à voir
une nouvelle perspective ouverte à un angle de cinquante millimètres
sur la réalité de façon à découper un point de vue. Cette vision sur la
réalité passe alors par le prisme du montage, qui déconstruit et reconstruit les prises de vues selon une métrique et un rythme certes bien
trop rapides par rapport au temps réel d’exécution du graffiti, mais qui
sont pour autant attendus. Cette déformation temporelle reconstitue et
localise à la fois graffiti, graphitage et grapheur dans une unité de temps
et d’espace propre à la vidéo sinon même au vidéo-clip. Pour finir, avec
l’entrée de cette vidéo sur le support virtuel d’un site d’échange comme
Youtube le train et les graffitis en question se perdent dans la Toile de
manière à diffuser le nom néo-tribal de quelqu’un et à re-signifier un
acte de graffiti sur train avec ses préalables notions de temps et d’espace, à présent rendues hyperréelles.
La vidéo participative, à son tour, est porteuse d’un regard intra-communautaire en même temps qu’elle s’adresse à un public élargi, constitué par des personnes qui n’ont pas nécessairement contact au préalable
avec le sujet du documentaire. Tandis que les vidéos participatives des
années 1960 étaient diffusées en direct dans les communautés voisines,
dans un milieu néo-tribal, l’évolution des technologies en réseaux et de
l’internet a transposé la vidéo participative vers des supports virtuels.
Pour ce qui concerne le graffiti, l’union des membres d’un crew autour
d’un projet commun lui donne une valeur édifiante, associée au nom du
groupe et de leurs origines locales, de leur lien avec leur ville. À la différence d’une vidéo d’un grapheur en action qui restituerait son graph sur
un support virtuel, la vidéo participative gagne une ampleur collective.
Elle atteste de l’existence du groupe qui l’a réalisée, non seulement à travers leurs graphs et ceux de leur crew, mais tout en affirmant un ethos,
tissant des liens et diffusant un savoir faire.
119
Illustration n. 5
Bibliographie
120
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de antropologia visual sobre o cotidiano, lixo e trabalho. Porto Alegre:
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empower. London: Sage.
Illegal business?
La costruzione dell’identità culturale dei
graffiti writers nella pubblicità visuale. il caso
Montana
Marco Solaroli
Il muro, come si sa, invoca la scrittura, non c’è muro in città, senza
graffiti. È in qualche modo il supporto stesso che sprigiona un’energia
di scrittura, è lui che scrive, e quella scrittura mi riguarda: nulla appare più voyeur di un muro scritto, perché nulla è osservato, letto con
maggiore intensità … Nessuno ha scritto sul muro – e tutti lo leggono.
Per questo, emblematicamente, il muro è lo spazio eletto della scrittura
moderna.
R. Barthes, Variations sur l’écriture
1. Introduzione. Dal contesto al testo: cenni storici su cultura
hip hop e pratica del writing
Un codice oscuro cancella dal muro la traccia che ho segnato al buio in
un luogo poco sicuro, duro…
Studia la chiave d’accesso, il calibro giusto, sfonda dove non ti è concesso, lascia il tuo segno
sveglio, tieniti sveglio, attento al buio, un solo passo falso hai chiuso
noi siamo qui, noi siamo la sfida, noi, che bombardiamo di sogni la
zona proibita dell’ombra
“Uniti siamo una potenza!”, ricordi? E “ciò che non ci distrugge ci rende
più forti”
Speaker DeeMo, Sfida il Buio (1992)
Parlare di cultura hip hop, oggi, significa identificare innanzitutto quattro discipline artistiche: il rap o MCing (l’espressione verbale del rapper
o MC - Master of Ceremony), il turntablism (la pratica del DJ di produrre musica manipolando i giradischi), il breaking (l’espressione del ballo,
nota anche come breakdance) e il writing (l’espressione grafica, della
pittura, spesso definita aerosol art oppure, in modo - come si vedrà in
seguito - contraddittorio, “graffitismo”). Ma parlare di hip hop significa
anche incorporare queste forme artistiche all’interno di una cultura
urbana, caratterizzata da uno specifico stile di vita, una mentalità, un
121
122
linguaggio, una serie di segni di riconoscimento, un sentimento di appartenenza, una storia, una memoria, una prospettiva e un’economia.
In queste pagine l’attenzione sarà focalizzata sulla ricostruzione delle
caratteristiche storico-culturali della pratica del writing indagato come
sottocampo culturale all’interno del più ampio campo culturale dell’hip
hop. In particolare, ci soffermeremo sul processo di costruzione sociale
dell’identità culturale degli attori del campo, offrendo un’analisi testuale
di una campagna pubblicitaria della Montana, una delle marche commerciali di bombolette spray più note e utilizzate tra i writers.
La nascita temporale e l’iniziale diffusione della pratica del writing,
come una ormai ampia letteratura rivela, è collocabile tra la fine degli
anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, sui vagoni della metropolitana e sui muri di aree periferiche di Philadelphia e New York, ad opera in
particolare di giovani afro-americani e ispanici (Goldstein 1973; Mailer
1974; Cooper e Chalfant 1984; Chalfant e Prigoff 1987; Lachmann 1988;
Bazin 1995; AA.VV. 1996; Lucchetti 1999; Calciati e Leotta 1999; Austin
2001; Ganz 2004; Riva 2007). Nonostante la maggioranza dei membri
di questa prima generazione statunitense di writers provenissero “dai
ghetti degradati della periferia, figli dei detriti e delle macerie di una
metropoli fredda e violenta” (Lucchetti 1999), è necessario sottolineare come nel corso degli ultimi tre decenni alcune delle caratteristiche
distintive della pratica originaria del writing siano state diffuse a livello
globale e riarticolate all’interno di nuovi e diversi contesti sociali. Sarebbe estremamente limitante, se non addirittura fuorviante, considerare
oggi la pratica del writing come mera espressione di una devianza o di
una marginalità sociale, come cioè riflesso diretto dell’appartenenza ad
uno specifico contesto economico-culturale svantaggiato. Reputiamo
invece più adeguato, seguendo Brighenti e Reghellin (2007, 370), interpretare il writing “dal punto di vista della resistenza situata, di una ricerca
espressiva non reattiva, quanto piuttosto trasformativa, volta a dar vita
a esperienze sociali innovative”. Evidenziando il carattere situato e trasformativo, processuale, della pratica del writing, questa prospettiva si
affianca in modo fertile ai recenti tentativi di riarticolazione della statica
contrapposizione dicotomica – che ha storicamente caratterizzato gli
studi sul writing a livello internazionale – tra i due fondamentali concetti
di resistenza e stile. Da un lato, infatti, è ormai evidente che pratiche
artistiche come quella del writing non possano essere indagate esclusivamente nei termini di dinamiche oppositive tra cultura dominante e
subculture sovversive (Hall e Jefferson 1976; Hebdige 1979), nonostante
tuttavia la maggior parte delle opere prodotte dai writers possano sicuramente essere codificate “come re-azione alla logica del potere perché,
in un certo senso, la loro resistenza è una sorta di sfida visiva contro il potere egemone che, per esempio, vorrebbe limitarli non riconoscendoli
come arte” (Taronna 2005: 93). Dall’altro lato, è altrettanto evidente come
il dialogo, certamente in alcuni casi anche molto critico, che i writers instaurano con il tessuto sociale urbano attraverso diverse dinamiche di
appropriazione creativa dello spazio pubblico, implichi la definizione di
una propria poetica culturale non necessariamente connotata in termini
politici, o meglio non forzatamente militante, bensì basata sulla ricerca
continua di una varietà di stili espressivi:
La stessa progressiva evoluzione dello stile – uno dei cardini attorno a
cui ruotano i riferimenti identitari dei singoli writers e dei diversi gruppi
che lo praticano – con differenti modalità espressive a seconda delle
zone, e, in seguito (con l’espansione del fenomeno anche fuori degli Stati Uniti, e segnatamente in Europa), dei paesi in cui viene praticato, diventa emblematica della volontà di creare una serie di codici sempre più
sofisticati di riconoscimento e di scambio di informazioni interni: stile e
linguaggio diventano così il luogo virtuale dove far confluire estetica individuale, cultura del gruppo (le cosiddette crew) e l’identità territoriale
della propria azione, tra l’iniziale indifferenza e la totale incomprensione
di chi non è inserito al’interno del movimento. (Riva 2007: 35)
Prima di procedere con l’analisi ci sembra utile sottolineare come le
caratteristiche delineate finora, a partire in particolare dal concetto di
stile, siano riscontrabili trasversalmente all’interno delle diverse discipline artistiche del campo culturale dell’hip hop (Gatti 1984; Bazin 1995).
In particolare, si potrebbero tracciare, in prima approssimazione, alcune
categorie interpretative per meglio comprendere le affinità tra le modalità di produzione culturale all’interno dei diversi sottocampi. In questa
direzione, seguendo Bazin (1995: 159-161), risulta necessario tenere in
considerazione: la dimensione performativa, il gusto della performance:
nel caso specifico del writing, “la realizzazione di un graffito costituisce
una performance che risponde ad alcuni criteri: la collocazione (visibilità,
altezza, difficoltà d’esecuzione), il pericolo inerente a una pratica illegale,
la raffinatezza formale (livello delle forme, armonia dei colori), la misura”;
la dimensione tecnico-stilistica, la ricerca dell’innovazione espressiva: “il
graffito condivide con il rap l’amore per il testo ben fatto, per la maestria
tecnica; non a caso viene considerato dai graffitari una forma di poesia
urbana”; infine, la dimensione esistenziale, il nesso stretto e irriducibile
tra pratica artistica, valori culturali e stile di vita: “i graffitari, come tutti gli
artisti dell’hip hop, si considerano portatori di una visione del mondo
più che di una tecnica”.
1.1 Writing e spazio urbano: processi di codifica e significazione
È un’attitudine notturna, i suoi soggetti sono in crescita costante, fondamentalmente recidivi a tutto
di fatto non li senti, non li vedi e non afferri i loro schemi, a te sfugge il
concetto
vedi solo nomi, per te è una cosa semplice, due bombole d’argento e
una pressione grazie all’indice
non chiamare affreschi quelli che vedi sui palazzi, la terminologia corretta è “pezzi”…
Il sole mostra inesorabile il loro passaggio, per chi cancella anche il
domani sarà peggio…
123
Quando il sole scende, si nasconde, le ombre si fan lunghe,
un writer veste scuro e si confonde con il nero…
Sull’acciaio, sul muro lascia tracce di colore con un codice,
il concetto che ti è estraneo rende tutto più difficile
Kaos One, Il Codice (1996)
Sostenere che uno degli elementi distintivi del writing come pratica culturale sia costituito dal particolare intreccio di stile e messaggio,
estetica e significato, costruito all’interno di peculiari dinamiche d’interazione con l’ambiente urbano, implica indagare la tensione creativocomunicativa alla base del processo di produzione artistica. Il writing si
articola all’interno di uno spazio particolare, che crea e modifica costantemente: uno spazio sociale come spazio significante, sulla cui base i
membri dell’hip hop sviluppano modelli di socialità alternativa.
L’hip hop “assorbe” lo spazio della città, che si “dilata” fino a diventare
un universo sociale, culturale e simbolico, uno spazio portatore di un
senso riconosciuto e perfino rivendicato. L’estrema mobilità dei membri dell’hip hop è possibile perché è innanzitutto una mobilità individuale, anche quando attraversa delle traiettorie collettive ... La mobilità
(dell’hip hop) è espressione di una strategia formativa (“essere autori della propria vita”) che soddisfa le esigenze della post-modernità: capacità
di adattamento, propensione al cambiamento, immaginazione... (Bazin
1995: 45).
Affermare che lo spazio sociale in cui i membri dell’hip hop compiono le proprie performanze significanti è a sua volta significante implica
quindi considerare lo spazio come
un insieme di entità fisiche diversamente articolate che parla del modo
in cui si dispiega, parla di se stesso ma molto più spesso parla d’altro,
parla della società come serbatoio complesso di significati e di valorizzazioni, di progetti d’azione e di tumulti passionali … un codice sociale
che parla di codici sociali: un modo in cui la società riflette su se stessa,
ma anche in cui si riflette in se stessa (Marrone 2001: 293).
124
Specifici codici sociali diventano fondamento, nel writing, per le pratiche di rivendicazione spaziale. Il codice diventa fattore legittimante
all’interno del gruppo e discriminante nei rapporti tra il gruppo e la società esterna, quindi a livello di posizionamento in vs. out degli attori.
Le performanze dei writers, infatti, significano proprio in base al loro
rapporto con lo spazio urbano, che subisce una risemantizzazione per
diventare da “estraneo, altrui” ad “interno, nostro”. In questo senso, il testo
espresso su un muro così come la propria firma (tag) rappresentano per
il writer una dichiarazione di appropriazione simbolica di un oggetto di
valore, un modo per affermare che io, autore di tale opera, “esisto, sono
il tale, abito in tale o tale via, vivo qui e ora” (Baudrillard 1979: 92; Taddei
2002):
Oltre a un tumulto di passioni, ciò che gli spettatori riescono principalmente a cogliere dinanzi a un graffito è la simbiosi che si crea tra l’artista
e il muro la cui relazione è stata a lungo soggetto a varie interpretazioni
critiche. Il muro, dunque, diventa la struttura fisica e simbolica che ospita
le scritte, i graffiti, i segni ormai diventate pratiche semio-linguistiche
e tracce che rivelano l’identità e l’appartenenza ad un gruppo e ad un
territorio … prodotti tra gli interstizi, o le barriere della metropoli, gli
ingorghi e le rarefazioni dei flussi urbani. (Taronna 2005: 93-94)
In questo contesto è tuttavia fondamentale osservare che la codificadecodifica del processo di produzione artistica del writing avviene su
dimensioni (culturali, estetiche, linguistiche) diverse e interrelate:
[I graffiti] attirano l’attenzione su di sé. Sono espressioni di esistenza
e resistenza che mettono a nudo la loro forza nella visualità e nella deformazione. Le lettere, per esempio, deviano la conoscenza della comunicazione ufficiale verso una struttura simbolica della parola/scrittura. I
writers hanno elaborato un intercettibile codice linguistico visuale abbastanza criptico, talvolta insidioso, che disarticola la lingua convenzionale conosciuta e spezza le linee di associazione pattuite dalle regole
della lingua ufficiale. (Taronna 2005: 94)
Infine, nel caso in cui le opere dei writers vengano effettuate sui vagoni dei treni, il processo di appropriazione si dota di un surplus simbolico
rappresentato dalla mobilità fisica dell’opera. Anche per questo risulta
evidente il valore disforico della sanzione conseguentemente messa in
atto dagli agenti sociali esterni al campo culturale dell’hip hop, nel momento in cui questi vivono una spoliazione sia materiale (l’oggetto di
valore privato, come il muro) che simbolica (la libertà di scegliere di non
vedere, come nel caso del treno) (Taddei 2002).
1.2 Tensioni etimologiche: graffiti, writing, arte, vandalismo
“Scusi, ma lei fa ‘graffiti’?...”
Odio quella parola con la “g” e non l’userò mai più
Si fottano i giornali, i giornalisti e la TV, se la pensi come loro allora
fottiti anche tu
Sir2 (Covo delle Bisce), Zero Tag Tour (1998)
Da un punto di vista metodologico, è doveroso rilevare la mancanza di
un vocabolario ufficiale del campo culturale del writing, causata anche
dalla scarsa istituzionalizzazione sociale di molte delle proprie pratiche
artistiche, che rende ancora debole la costituzione del campo stesso.
Poiché l’esigenza di un’adeguata terminologia per descrivere pratiche,
strumenti e testi è strettamente collegata al processo di codifica e decodifica, a livello analitico risulta necessario appellarsi ad un insieme di
nozioni enciclopediche sviluppate e condivise dagli attori sociali interni al campo culturale del writing. Per iniziare, possiamo osservare che
il lessema “graffito” è oggetto di forti polemiche in quanto considerato
dagli stessi writers inadeguato per descrivere i propri manufatti. Questo per motivi strettamente etimologici (“graffito” indica un testo inciso
con punta dura su un supporto) ma anche, soprattutto, per motivazioni storico-culturali. Il termine “graffiti” fu infatti scelto dai media per descrivere il fenomeno che stava sempre più caratterizzando le metropoli
125
126
degli Stati Uniti negli anni Settanta, veicolando un sema di /negatività/
e /stigmatizzazione/, e venendo quindi considerato dai writers come
frutto di una strategia messa in atto dalle istituzioni per appropriarsi simbolicamente, attraverso un processo di labeling identificativo, di questo
campo di pratiche artistiche in via di formazione (AA.VV. 1996: 6; Macchiavelli 1999: 4; Lucchetti 1999: 10). Inoltre, la negazione del termine
“graffiti” rientra anche all’interno di specifiche strategie di inclusione ed
esclusione sociale atte a definire una condivisa atmosfera verbale costituita in gran parte da termini inglesi che identificano stili differenti della
pratica del writing (ad es., wild style) e delle possibili tipologie di testi (ad
es., tag, throw up, outline, masterpiece, piece).
A prima vista la questione etimologica potrebbe sembrare di scarsa
rilevanza (se non, forse, per quegli attori del campo che operano prevalentemente in contesti linguistici transnazionali). In realtà, come sappiamo dagli studi di Hughes (1958) sulle culture professionali e soprattutto
di Bourdieu (1993: 260) sulla costituzione di un campo di produzione
culturale, l’adozione di un linguaggio artistico condiviso gioca un ruolo
cruciale, poiché è attraverso il linguaggio che prende forma il potere di
nominazione (e quindi di definizione sociale) delle opere e degli attori
del campo (cfr. Brighenti e Reghellin 2007: 371; Santoro e Solaroli 2007).
Ed è sempre attraverso il linguaggio che gli attori del campo possono
operare distinzioni tra insiders e outsiders, possono cioè tracciare confini simbolici, intesi, seguendo Lamont e Molnár (2002: 168), come “distinzioni concettuali attraverso le quali gli attori sociali categorizzano gli
oggetti, le persone, le pratiche, e anche lo spazio e il tempo … strumenti
attraverso i quali gli individui e i gruppi si confrontano per giungere a
concordate definizioni del reale”.
In questo contesto, la più controversa e cruciale distinzione da tracciare riguarda il confine tra writing e vandalismo. Come Marrone (2001:
347) ha notato, “l’azione distruttiva del vandalo non è legata a un processo di trasformazione del Soggetto che la compie, non mira cioè alla
congiunzione con uno o più Oggetti di valore; tale azione mira invece
alla trasformazione disgiuntiva di un Antisoggetto dai suoi Oggetti di
valore”. Al contrario del vandalo, il writer è un soggetto che mira alla
sua propria congiunzione con un proprio oggetto di valore. L’obiettivo del writer, cioè, non è privare altri del proprio oggetto di valore, ma
appropriarsene direttamente attraverso una trasformazione congiuntiva riflessiva. Sebbene la conseguente sanzione può essere la medesima (operata dal medesimo soggetto collettivo giudicante) in entrambi
i casi, la differenza resta evidente in termini di riconoscimento del valore
culturale e del significato sociale degli spazi in cui i testi dei writers o
dei vandali vengono inscritti. Questo è il motivo per cui i writers evitano
tendenzialmente monumenti artistici o religiosi scegliendo invece simboli del (degrado) moderno come muri di periferie e stazioni ferroviarie,
che incarnano i valori da sconfiggere come l’anonimato, l’isolamento,
l’alienazione.
È rilevante tuttavia ricordare che la confusione etimologica è anche
fortemente legata allo statuto di illegalità (in quanto reato, in base all’art.
639 del codice penale) della pratica del writing. Tag e graffiti, infatti, “per
quanto ricercati possano essere, restano atti illegali; ed è principalmente sull’illegalità, e non sull’espressione artistica, che lo sguardo esteriore
sarà tentato di basare il suo giudizio” (Bazin 1995: 183; cfr. Snyder 2006).
Ma l’atto di creazione artistica difficilmente può essere disgiunto dal suo
carattere illegale: i writers “per agire direttamente sulla città … devono
per forza di cose agire in maniera illegale” poiché il writing è “ un’arte di
disturbo, di disordinazione sociale … il cui compito primario è quello
di mettere in crisi le nostre certezze acquisite sul modo in cui viviamo
la città” (Riva 2007: 30). Il writer rappresenta quindi una figura sociale
“in grado di separare le identità dai territori andando a toccare qualcosa di pubblico, rendendo così visibili una serie di questioni inerenti alle
norme e ai diritti che definiscono la natura dell’interazione sociale negli
spazi pubblici” (Brighenti e Reghellin 2007: 374).
2. Analisi del testo pubblicitario
Su queste basi, è ora possibile passare all’analisi semiotica del testo
pubblicitario in oggetto: una delle principali e più diffuse pubblicità visuali presenti all’interno della campagna promozionale della Montana
a partire dal 2004 (Figura 1). La Montana, lo ricordiamo, è una delle più
vendute e utilizzate marche di bombolette spray all’interno del campo
culturale del writing a livello internazionale. Nello specifico, il testo pubblicitario in oggetto negli ultimi anni è comparso su siti web e riviste di
settore, magazine musicali e fanzine hip hop in diversi paesi europei, ed
è tuttora presente e visionabile nel sito web ufficiale della casa madre.
2.1 Analisi del significante
Il piano dell’espressione del presente testo pubblicitario è chiaramente organizzato, secondo una strategia frequente nelle pubblicità conFigura 1
127
128
temporanee, in formanti figurativi che creano uno specifico effetto di
senso definibile “di realtà”. Come si può subito notare, l’elemento iconico è preponderante mentre quello verbale si limita ai loghi della marca
(“Montana cans”) e sub-marca (“Platinum – original german paint quality”), alla definizione del prodotto specifico (“The New Platinum”, il nuovo modello di bomboletta spray rappresentato nel visual), e ad alcune
sue caratteristiche tecniche (“600ml 20Colors Thick Paint” insieme ai dati
relativi alla resistenza a temperature sottozero e alla compatibilità con
particolari tipi di tappi). C’è anche da notare che alla base dell’immagine
viene rappresentata l’offerta cromatica disponibile per il prodotto (con
la definizione di ogni colore), nonché i contatti di quello che si presume
essere l’unico rivenditore autorizzato in Italia insieme all’indirizzo Internet dell’azienda (www.montana-cans.com).
Se consideriamo ora lo spazio di rappresentazione, vediamo che l’immagine occupa l’intera pagina senza cornici limitative, se non assumiamo come tale l’offerta cromatica disposta orizzontalmente alla base. Lo
sfondo è caratterizzato da una campitura uniforme nera su cui si staglia
l’immagine della pagina di un quotidiano il cui titolo è parzialmente coperto e la cui lettura si limita quindi a “The T(…)”. Anche se immerso
in una dimensione mitica, il quotidiano beneficia di un effetto di realtà
attribuitogli, in primis, dai bordi delle pagine sottostanti alla principale che tradiscono una profondità e, in secondo luogo, dalla categoria
eidetica orizzontale con cui è reso, quasi a suggerire il piano su cui sia
appoggiato. Seguendo questa logica, si può descrivere la bomboletta
spray, oggetto centrale del testo pubblicitario, come se “appoggiata sopra”, pendicolarmente, alla pagina di giornale. In base all’organizzazione
topologica dell’immagine, la bomboletta occupa lo spazio della metà di
destra della pagina e quindi del testo nel complesso, e questa sua posizione fa sì che ricopra e quindi nasconda alla vista del lettore non solo
la seconda metà del nome del giornale ma anche la sezione superiore
della foto stampata nella pagina di giornale, che sembra rappresentare
la performanza di un writer a cui però viene in questo modo celato il
viso, cioè la parte identificativa.
Dal punto di vista dell’organizzazione eidetica è da notare anche la
presenza dell’ombra generata dalla bomboletta (contro la sua assenza
nel giornale, quasi ad esaltare l’effetto di realtà della bomboletta, oggetto pubblicitario primario) che viene a costituire una linea diagonale
che, se considerata dalla prospettiva pianale del giornale, risulta essere
indirizzata dal centro allo spigolo in alto a sinistra, quindi “a specchio” rispetto alla linea della bombola che secondo la stessa prospettiva tende
dal centro verso lo spigolo in alto a destra. Un altro aspetto rilevante riguarda le dimensioni della bomboletta, il cui diametro di base viene rappresentato graficamente come in una graduale crescita dal basso verso
l’alto, che oltre a tradire la prospettiva strategicamente adottata in fase
di impostazione dell’immagine sembra anche rivestire un implicito valore simbolico, quasi un “venire incontro” al lettore interpretabile sia come
gesto passivo (invito ad essere afferrata) che attivo (“attacco”, “desiderio
di uscire” dal contesto dell’immagine – la qual ipotesi potrebbe trova-
re riscontro nel fatto che l’ugello della bomboletta, come chiaramente
indica la punta di freccia rappresentata sulla sua estremità superiore, è
indirizzato fuori dall’immagine, nella direzione del lettore, ed è sporco di
vernice nera come se la bomboletta fosse stata appena utilizzata).
È la categoria cromatica che comunque assume una rilevanza determinante nel testo, giocato nella maggior parte dei suoi elementi sul
contrasto tra colore nero e colore bianco. Intanto, bisogna notare che
la campitura di sfondo nera presenta headline, loghi e indirizzo Internet
tutti in bianco. Allo stesso modo, mentre la carta del giornale è di colore
tipicamente bianco opaco con testo a caratteri neri, la parete esterna
della bomboletta è di colore nero lucido con stampa del logo “Montana” in bianco, così come l’ugello è bianco con macchia di vernice nera.
È particolarmente importante notare anche il bianco e nero della foto
stampata sulla pagina giornale, che sembra rappresentare un contesto
d’azione notturno, nero o comunque molto scuro, illuminato sullo sfondo da una luce bianca o comunque molto chiara.
2.2 Analisi del significato
Dall’analisi del significante del testo pubblicitario in oggetto emerge
con chiarezza un meccanismo semi-simbolico che mette in rapporto di
corrispondenza una categoria del piano dell’espressione e una categoria del piano del contenuto. Infatti, una serie di contrasti che abbiamo
visto essere espressi a livello cromatico come nero/bianco, oscurità/luminosità e spazio notturno/spazio diurno rimandano abbastanza esplicitamente, anche sulla base delle considerazioni sulla pratica del writing
svolte nella parte introduttiva della nostra analisi, a contrasti espressi sul
piano del contenuto come performanza/sanzione e, ad un livello successivo, illegalità/legalità.
Nel caso specifico del testo in oggetto, la posizione della bomboletta spray gioca un ruolo assolutamente determinate nell’evidenziare tali
contrasti. Il contrasto cromatico si attiva, ad un primo livello di significazione, nella foto stampata sulla pagina del giornale, dove al nero con
cui è resa l’oscurità dello spazio notturno in cui avviene la performanza
del writer si oppone il bagliore in lontananza che dalla direzione lineare uscente da una sorgente circolare sembra rappresentare il fascio di
luce proiettato dal fanale di un automobile, in cui quindi il bianco della
luminosità (naturale nello spazio diurno) può tradire la presenza di un
soggetto pronto ad operare una sanzione. Inoltre, ad un secondo livello di significazione, la presenza della bomboletta sottrae alla vista non
la presenza del writer ma il suo riconoscimento (necessario ai fini della
sanzione). Infine, in quello che potremmo definire un meta-livello di significazione, la bomboletta tiene nascosto il volto del writer e allo stesso
tempo si impone sopra alla pagina della rivista (in modo accentuato dalla presenza dell’ombra), cioè inserisce una presenza nuova sopra ad una
superficie vecchia, esattamente come il writer, attraverso quella stessa
bomboletta, tiene nascosta la propria vera identità e allo stesso tempo
impone una presenza nuova sopra un muro. È quindi possibile identificare due isotopie caratterizzanti il testo: /far vedere senza far riconosce-
129
re/ e /illegalità/.
In questo contesto è interessante analizzare anche i due loghi, della
marca (“Montana”) e della sottomarca o catena di prodotto (“Platinum”).
Graficamente sono infatti realizzati con il carattere Wild, abbreviazione
di Wild Style, estraneo alla tipografia istituzionale ma centrale nel linguaggio stilistico del campo culturale del writing. Come Jean Marie
Floch (1995) ha osservato in una sua nota analisi semiotica del testo e
del paratesto di un piatto gastronomico, il carattere tipografico deve essere considerato elemento degno di attenzione in quanto parte componente della creazione di una certa identità visiva. Nel nostro caso lo
stile Wild concorre alla creazione di un effetto di senso opposto a quello
analizzato da Floch nel saggio “L’Eve e il finocchio delle Alpi”, in quanto
i due loghi della Montana sono costituiti da lettere corpose, arrotondate, grosse. Inoltre, nel caso del logo che identifica la collezione, la “P” di
“Platinum” (che, come si legge nel sito Internet della Montana, è stato
realizzato da un noto writer danese), è importante osservare che il colore, oltre a svolgere una funzione distintiva e attraente, riempie l’interno
della superficie aumentando la sensazione di pienezza e saturazione. Il
modo in cui i due loghi sono costruiti, quindi, origina un effetto di /solidità/ e /robustezza/, come a comunicare un contenuto di compattezza
e resistenza.
130
2.3 Lettura narrativa
Sulla base delle precedenti analisi diventa possibile identificare la contrapposizione tra il PN (Programma Narrativo) del Soggetto (il writer, simbolicamente identificato dalla bomboletta, quindi dalla marca) e il PN
dell’Anti-Soggetto (le “istituzioni” sociali come agente collettivo estraneo
e avversario al campo culturale dei writers, simbolicamente identificate
dal giornale). Considerando anche il primario obiettivo commerciale del
testo pubblicitario, si può ora svelare il punto di vista adottato a livello
narrativo, in fase di costruzione del testo, sulla base di una serie di indicatori testuali. Intanto, il titolo del testo esplicitamente rappresentato nella
pagina del giornale (“Graffiti vandalism taking over the city”) contiene
due lessemi, “Graffiti” e “vandalism”, che come abbiamo visto sono considerati esterni al campo artistico del writing mentre sono tipicamente
associati a canali massmediatici mainstream.
La scelta di questi due lessemi, quindi, svolge due funzioni operative:
in primo luogo, identifica il punto di vista dell’Anti-Soggetto, e in secondo luogo, per il valore simbolico che i due termini rivestono all’interno
del mondo artistico del writing (e che resta incodificabile, quindi irrilevante, ad un pubblico sprovvisto delle necessarie conoscenze linguistico-culturali), tradiscono nello specifico il target di riferimento del testo
pubblicitario. Tale supposizione trova conferma anche nella scelta operata all’interno del testo scritto rappresentato nella pagina dove il nome
di quello che sembra un casuale cittadino a cui è chiesta un’opinione al
riguardo, Karl Kani, è in realtà quello di un famoso stilista a capo della
omonima marca di abbigliamento streetwear (una tra le più diffuse nel
campo dell’hip hop), il quale non casualmente prende posizione, sep-
pur non estrema, a favore del writing, affermando che “anche se non è
bello … è comunque una risposta sensata a tutti i manifesti pubblicitari
esposti in città”.
Da notare, in particolare, l’utilizzo, all’interno del discorso di Kani, del
termine “illegal” riferito alla pratica del writing, che diventa componente linguisticamente esplicitata di una delle due isotopie riscontrate nel
testo pubblicitario, /illegalità/, e che contribuisce alla costituzione della
relazione antagonista tra Informatore (il writer che performa) e Osservatore (le istituzioni che sanzionano).
3. Conclusioni. Dal testo al contesto: la costruzione dell’identità
comunicativa della Montana e dell’identità culturale dei writers
La pubblicità, tendenzialmente, impone un far fare o un far volere attraverso l’attribuzione di un determinato valore strumentale e/o simbolico ad un prodotto commerciale. Nel caso del testo analizzato, si può
affermare che la valorizzazione messa in atto dalla campagna pubblicitaria della Montana sia di tipo utilitario, ma allo stesso tempo rientri
all’interno di un universo simbolico che la rende più una campagna di
marca che di prodotto. La marca, infatti, evocando determinati universi
figurativi, induce il pubblico non tanto a desiderare quel prodotto quanto a desiderare il valore che quel prodotto rappresenta e che contribuisce alla costituzione del mondo che la marca stessa ambisce a creare.
Come ha osservato Semprini (1993), “i mondi costruiti dalle marche sono
mondi che non si indirizzano quasi mai a tutti indistintamente. Sono i
mondi che selezionano per così dire i loro possibili abitanti”. Quindi, solo
se il potenziale acquirente-consumatore è in grado di identificarsi con
le caratteristiche distintive e i valori culturali della marca riconoscendoli
come propri potrà aderire simbolicamente al mondo che gli/le viene
rappresentato.
La Montana è diventata una delle più vendute e diffuse marche di
bombolette spray anche grazie ad una studiata pianificazione strategica
di marketing mix, che ha visto le proprie inserzioni pubblicitarie comparire prevalentemente all’interno di pubblicazioni – riviste musicali specializzate, fanzine o siti web – di settore. Il riferimento a – e la costruzione
sociale di – uno specifico e delimitato target è evidente anche nel testo
analizzato, dove è assente un body esplicativo facilmente interpretabile senza conoscenze pre-acquisite: i riferimenti testuali presenti, come
i loghi, risultano decodificabili soltanto dai membri culturalmente alfabetizzati interni al campo dell’hip hop. La stessa funzione di costruzione e delimitazione del mondo possibile è svolta anche dai dati tecnici
del prodotto pubblicizzato (“funzionalità sottozero”, “resistenza a difficili
condizioni ambientali”, “ampio raggio di copertura del getto”, “estrema
velocità di spruzzata”), che rifacendosi alle due isotopie individuate (/
far vedere senza far riconoscere/ e /illegalità/) implicano conoscenze e
codici tipici del campo culturale dei writers.
Nella stessa direzione va il nome del rivenditore italiano indicato in
calce al testo, “TAG”, che è anche uno dei principali termini emic dei
writers e che identifica la loro “firma”. Allo stesso scopo è utile notare il
131
fatto che il linguaggio del testo sia totalmente in inglese, che mentre
da un lato può costituire una strategia commerciale atta ad utilizzare lo
stesso testo in diversi contesti geo-linguistici (strategia confermata sul
sito web dell’azienda, dove è possibile visualizzare e scaricare i vari testi
pubblicitari), dall’altro sembra suggerire l’internazionalità del campo di
riferimento e quindi del mondo artistico rappresentato e costruito dalla
marca, un mondo costituito a livello internazionale da valori culturali,
pratiche sociali e stili espressivi condivisi piuttosto che da formali confini
geo-politici.
In conclusione, l’analisi di questo paradigmatico caso pubblicitario
contribuisce ad evidenziare come, da un lato, il processo di costruzione del significato culturale della pratica del writing prenda forma attraverso dinamiche interazionali continue tra i diversi attori diversamente
posizionati all’interno al campo, ma anche come, più significativamente,
dall’altro lato, tale processo avvenga all’interno di uno spazio sociale tuttora debolmente costituito e istituzionalizzato. Nello specifico, giocando, da un lato, su alcune delle caratteristiche che rendono tale spazio in
attesa di una condivisa definizione sociale, giocando cioè sugli elementi
più ambigui se non contraddittori della pratica del writing – la contesa
definizione di uno statuto d’arte, l’ambito distanziamento dalle facili accuse di vandalismo – e rievocando, dall’altro lato, valori culturali e codici
tecnico-stilistici interni al campo – la riappropriazione dello spazio urbano come resistenza creativa, la costante ricerca di uno stile individuale
come pratica distintiva, l’in-visibilità associata all’efficacia performativa –
la pubblicità della Montana è riuscita a coniugare con successo lo scopo
commerciale con la necessaria pretesa di autenticità della ri-produzione
dell’universo simbolico rappresentato.
132
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134
On urban graffiti
Bairro Alto as a liminal space
Ricardo Campos
Being human – human be-ing-ness – means to be creative in the sense
of remaking the world for ourselves as we make and find our own
place and identity. (Paul Willis 1990:11)
Starting out from a localised case-study, this paper reflects upon the
metamorphoses that contemporary urban space goes through. Focussing on Bairro Alto, a Lisbon district with a long urbanistic biography
and a strong social and cultural identity, I will attempt to describe and
analyse some of its most recent mutations, having in mind questions
of ideological and political nature, which come together in the social
construction of this most unusual place.
Bairro Alto has recently been subject to enormous public scrutiny. The
social perception it generates has suffered a gradual change, influenced
by mass-media and official discourses. In fact, this is a place that suggests different representations and imaginaries because it is, to a great
extent, a hybrid space – in that it merges multiple functions and actors,
cultural logics and symbolic as well as historical referents. The district is
regarded as important historical patrimony of the capital city. Great symbolic value is invested in it, in what concerns the fabrication of Lisbon’s
memory and representation. Every day, it is accessed by a significant
number of non-residents that rove through its streets and contribute
to the configuration of its urban identity. These non-residents come not
only as tourists, but also as consumers of a large range of activities provided by an assertive economy devoted to leisure, sociability and cultural performance (restaurants, bars, discos, musical and theatrical performance venues, and others). Within the scope of this specialised urban
supply, youngsters have become temporary occupiers of this scenery,
travellers of cheerful nocturnal wanderings. The night in Bairro Alto has
been juvenilised, acquiring the symbols of an urban youth condition in
mutation.
In the last few years, this district has been invaded by graffiti and street
art. This situation has led to a strong reaction from various agents (residents, the media, political power). With increasing public visibility, graffiti in Bairro Alto was turned into a serious urban and social problem.
135
Recently, urban authorities, urged by the media and by different local
social actors, have decided to act, triggering a vast project of urban
cleansing and promoting a new image for this territory. This was the
consequence of a conflict that derives from a clash between antagonistic usages and representations of space, a manifestation of the uneven
powers and identities that interplay in the metropolis.
In the context of research on urban graffiti, I have had the occasion to
assess the energies and processes that are generated within this quarter. Walking through it at different times of the day, listening to the stories that graffiti writers told me, and filtering the news in the media, I
watched out for detectable metamorphoses on its surface (Picture 1).
What is particularly interesting about this case-study is that it enables
an analysis of emergent and marginal formats of public space appropriation by citizens. Namely, this may be perceived in the way that the
city is converted into a textual support, a repository of symbolic writing that contributes to the construction of urban identities of the topos.
Therefore, it seems to suggest a reading inspired by the propositions of
anthropologist Massimo Canevacci on the polyphonic city:
The polyphonic city – it means that the city in general and urban communication in particular may be compared to a singing choir where a
multitude of autonomous voices are intersected and related, overlap
each other, are isolated or in contrast with one another. (Canevacci
1997: 17)
These views may be placed within an Anthropology of Visual Communication such as it was understood by authors like Sol Worth (1981), Jay
Ruby (1981, 2005) and, also, Canevacci (2001). Specifically, it suggests an
approach to the processes of social construction of visuality in the contemporary metropolis. This takes the shape of an interpretative search
that stresses communication languages and circuits of visual nature,
brought to life by different agents. In this context, the city is seen as the
visible product of combined individual and collective wills, an expressive ground for human performance and communication.
136
The city under construction
The city has turned out to be one of the most studied and debated
subjects in the Social Sciences, particularly in Sociology. This academic
discipline has taken the urban environment as the privileged habitat for
the observation and portrayal of the societal and psychological complexity of a shifting modernity. Within its boundaries there seem to lie
the great problems and challenges of our civilization, announcing the
vast aesthetic, economic, social, technologic, scientific or ideological
changes that are to come.
George Simmel, one of the first to theorise on these issues, found a
specific attitude in the city, a typically urban way of being and acting
(Simmel 1997 [1903]). Ever since the pioneer observations of Simmel,
that different studies and approaches of the social sphere have recognized the significance of space for structuring subjectivity and the processes through which we understand the world and our place in reality,
Picture 1
Robert Park, one of the most eminent representatives of the Chicago
School, in a work that has become a classic, argued that the city was a
true laboratory for the study of human behaviour (Park 1997 [1915]), an
advantaged field for the empirical study and evaluation of new social
and cultural phenomena.
Current perspectives suggested by different authors (Mela 1999; Canevacci 1997; Savage and Warde 2002; Featherstone 1997; O’Connor
and Wynne 1996) make us look at the city as a cultural melting pot, a
patchwork of identity affiliations, an environment inhabited by multiple
communities and social groups. This appears to be an especially suitable
ground for cultural mixing and symbolic inventiveness, for the constitution of hybrid social patterns, for mobility and metamorphosis. The experience of urbanity also favours a feeling of cosmopolitanism, insodar
as the presence of the Other and the universes of difference become
more explicit in this space (Mela 1999; Hannerz 1996; Nava 2002). The
urban space is the stage where alternative cultural trends and lifestyles
are more vehement, unfolding an increasing the degree of aestheticisation and stylisation of life; where commercial commodities, cultural and
mediatised goods circulate more intensely; where consumption and
leisure are more fully expressed in the social construction of identities
(O’Connor and Wynne 1996).
In the city, the feeling of cultural fragmentation and symbolic dispersion is more intense and visible, providing a wider field of opportunity for trying out multiple lifestyles and life projects. This also means
that the city represents a field of overlapping and conflicting activities,
where the coexistence of diverse conditions, practices and representations may just as easily lead to mutual tolerance, as they may generate social and cultural tension. Given the dynamics and complexities of
137
urban cultural circuits, it is not surprising that the idea of a youth culture came to be forged within the metropolis. In fact, it is impossible to
consider the more established notion of youth culture and youth subcultural movements without relating them to the urban environment.
These have a localized empirical expression, regardless of the inevitable
flow of images and imaginaries that tend to elicit globalised versions of
these manifestations. Punks, Hippies, Skinheads, Rastafarians, or Graffiti
Writers, correspond to emblematical urban social categories. They imply
a coherent aggregate of symbols and practices that make up specific
metropolitan lifestyles. The Social Sciences’ approach towards western
youth cultures has always considered the city as a privileged setting for
collective performance and identity construction. Studies focusing on
youth and urban space suggest that:
[…] the space of the street is often the only autonomous space that
young people are able to carve out for themselves and that hanging
around, and larking about, on the streets, in parks and shopping malls,
is one form of youth resistance (conscious and unconscious) to adult
power. (Valentine, Skelton and Chambers1998: 7)
Image and visuality have been considered as fundamental elements
for the construction and depiction of the contemporary city. For George
Simmel (1997 [1903]), the vibrating metropolis made a powerful impression on human senses, especially that of vision. Louis Wirth (1997 [1938])
argued that the city values visual recognition, an essential skill for guidance in an environment where anonymity and distant, heterogeneous
social contacts stand out. Renowned authors such as Walter Benjamin
(1997 [1935]), Michel de Certeau (1984) and Massimo Canevacci (1997)
have reflected upon the urban ocular experience and the visually mediated relations that are established within the city. This dimension seems
to gain additional significance if we consider the observations of authors such as Robins (1996), Jencks (1995), Mirzoeff (1999), Baudrillard
(1981, 1991, 1995), Synnot (1992) or Classen (1997) who argue that we
are creating a society that is increasingly focused on sight and image.
This ocularcentrism, strongly connected to optical and visual technologies (Robins 1996; Sicard 2006) where existence is becoming progressively more visualized (Mirzoeff 1999), carries forth to the surface of its
material world (material body, artefacts, habitat, and so on), this strong
visualist tendency.
Different actors and institutions apply the resources of visuality1 to the
production of the city. This is explicit in the domains of architecture and
urban furniture, in normative signs, in political propaganda and advertising, but also in the more elementary mundane expressions - in bodily
styles and style fashions, in graffiti and other displays of public and private space adornment. In this context, urban youths have been identified as social actors that are particularly skilful in the usage of everyday
138
1 We should clearly separate the notions of vision and visuality (Rose 2001;
Walker and Chaplin 1997). Vision is essentially related to the human physiologic skills that allow us to look at what is around us. Visuality has to do with how
this look is constructed, according to the historic, social and cultural context.
raw materials. Paul Willis argues that “young people are all the time expressing or attempting to express something about their actual or potential cultural significance” (Willis 1990: 1). Through symbolic work2 and
creativity, youngsters produce and reproduce place-specific identities;
affirm vital capacities and develop a sense of agency and, finally, configure their familiar world by giving it a meaning. Visuality seems to be
one of the main dimensions in this process. The body may be covered
with several ornaments, clothing or incisions, the right attitude carefully
chosen, and familiar locations decorated, in order to assert identities in
the arena of visuality (Campos 2007; Ferreira 2007; Feixa 2006; Feixa and
Porzio 2008). This also refers to a specific usage of urban space (Magnani
2002, 2005; Pais 2005; Skelton and Valentine 1998). The city is accepted
as a familiar haven and stage for the social performance of youngsters
that make it up as a repository of signs that go well beyond their expressed content unveiling invisible symbolic hierarchies and political
conflicts. Graffiti is part of this process.
Order and chaos in the metropolis: images, representations
and space usages
Society organizes reality, giving it a common meaning that is both
ideological explanation and practical reasoning for individual and collective behaviour in the world. Therefore, a cognitively and symbolically
ordered and shared universe is an essential attribute of collective life,
allowing a notion of belonging to develop. The order bestowed upon
reality is, subsequently, the result of a social construction (Berger and
Luckman 1990 [1966]). So it is that the habitat is the object of symbolic
categorisation and hierarchisation. It possesses a meaning that we learn
by means of the names and qualities attributed to its multiple elements.
Everything has a place, a function and a meaning according to a specific worldview. This means that there is a spatial arrangement that determines the place of worldly objects and people and establishes what
may be morphologically and symbolically admitted and what may not.
However, in spite of dominant representations that tend to fix relatively
agreed positions about how reality is collectively built and accepted,
complex societies multiply the chances of dissension and conflict between antagonistic views. The metropolis is, in this sense, a coalescent
consequence of concomitant elaborations and the object of quarrels
around symbolic content and everyday habits.
These reflections are suggested by the practice of graffiti as a human
manifestation inscribed in space. It is assumed here, according to previously mentioned ideas, that it should have a place, a function or meaning in this city’s ordered territory. We could certainly state, without fear
of dispute, that graffiti interprets the dissident voice of a minority in the
2 In his fundamental book Common Culture, Paul Willis (1990:12) defines
symbolic work as “the application of human capacities to and through, on and
with symbolic resources and raw materials (collections of signs and symbols –
for instance, the language as we inherit it as well as texts, songs, films, images
and artefacts of all kinds) to produce meaning”.
139
Picture 2
140
polyphonic city identified by Canevacci (1997). Official discourse and the
media, which usually find an echo in the common citizen, tend to label
graffiti as vandalism, i.e., an aggression, violence perpetrated on the city
and, by derivation, on society. It is an incision in the bodily manifestation
of society, hitting the core of its collective self. To paint graffiti is not only
to attack the ordered material expression of space, but, more seriously,
to fracture the consensus. Hence the lack of understanding and the repression that strike graffiti, for it shatters conventions, shakes convictions
and destroys the harmony of place, such as it is established by dominant
powers. It is not by chance that it is considered dirty, devoid of sense,
plain pollution. The ideas of order, impurity and contamination spring
to mind and lead me to look for inspiration in the essay Purity and Danger by Mary Douglas(1969). This author tells us that the idea of purity in
the West is especially associated with the concept of hygiene. However,
she argues, if we give a deeper meaning to the dialectical relationship
between purity and impurity, we will discover a strong symbolic component that qualifies the physical and social universe. This is because
“dirt is essentially disorder […] Dirt offends against order. Eliminating it
we are not doing a negative movement, but a positive effort to organize
the environment” (Douglas 1969: 2).
Summing up, graffiti is viewed as a kind of disorder in a legitimate
communication ecosystem, an anomaly that needs to be destroyed
(Pictures 2, 3). Its presence bears the risk of contamination, of toxic dissemination, which threatens the sanitary foundations of a hygienised
city as well as the convictions that are rooted deepest in the citizens’
minds. That explains why it is that, in a disciplined and hygienised city,
all forms of pollution (either material or symbolic) are reproached, discriminated, camouflaged or cast away to the surroundings of a strati-
Picture 3
fied space. Be that as it may, and in spite of how strange this statement
might seem to the reader, we can still recognise in the usage of certain
pollution categories a crucial strategic resource for individual or collective enunciation. To borrow Douglas’ considerations, impurity is something that destabilizes order and it should be eliminated or relegated
to the fringes. Subsequently, toxic elements represent disorder, and are
challenges to conventions, symbols of an anomic or antagonistic condition. As a symbol, they may be used as statements and actively regarded
as units of meaning for human communication.
I believe certain uses of illegal graffiti may be understood in this context. That is why, notwithstanding the apparent incongruence, for many
people graffiti as vandalism is a mission of political nature. To use illegal inscriptions in the city as a metaphor for pollution and disorder is
a demonstration of dissidence, a rupture in a presupposed unanimity
and a provocation directed to the dominant discourse. The language of
graffiti is actually an aesthetic sabotage (Ferrell 1996), a form of cultural
resistance, subverting aesthetic models, manipulating both the language of mass culture and mass media, altering the functionality of urban objects. As Jeff Ferrell (ibid., 53) puts it, graffiti should be thought of
in terms of crime, power and resistance, but also considering aesthetic
imperatives that develop amongst writers setting the basis for a unique
idiom. Graffiti is not a simple illegal activity; it is a crime of style. A similar
condition may be recognized in many youth cultural processes that are
labelled alternative or marginal. Dick Hebdige (1979) found in many
youth subcultures, especially punks, a political manifestation, a sign of
symbolic resistance where style was the privileged means of discourse.
Here, style is a resource, revealing a semantic disorder mechanism that
enables “violations of the authorized codes through which the social
141
world is organized and experienced” (ibid., 91). This is precisely what we
are talking about when train carriages, traffic signs, outdoor billboards,
or immaculately white buildings, turn into unexpected colourful canvases. Shock, public outrage, political reactions, police repression, are all
results of these actions of urban guerrilla. Disorder is, simultaneously, a
symbol for danger and power (Douglas 1969).
It is not by accident that many writers feel they are waging a battle against the established powers (Campos 2007; MacDonald 2002;
Figueroa-Saavedra 2006; Ferrell 1996), state’s authority or great corporations. The street seems to be a political arena (Figueiroa-Saavedra 2006)
where conflict takes place and the agents of chaos and toxicity (writers
and other vandals) face the agents of order (the authority represented
by the police, surveillance systems, urban regulations, and so on). The
city seems to be a democratic medium, within reach of those deprived
of power and resources, aspiring for the possibility of expression in the
public space. As Jean Baudrillard states, in regard to the French May of
‘68, the street “is the alternative and subversive form of all mass media,
because it is not, as they are, an objective support for messages without
reply, being a long distance traffic network, it is the open space of the
symbolic exchange of word […]” (Baudrillard 1981: 225-226).
Bairro Alto as a hybrid topology
To pursue urban culture as “lived figuration” is to attend to it as peculiarly condensed material. In this sense poetics is not the ornamental
“forth” perched in a more fundamental reality; it is rather the experience of ambiguity, of thickly compressed meanings, that can’t be
untangled and arranged into neat legible patterns. (Highmore 2005: 6)
I believe that visual communication in the city may be subject to ethnographic scrutiny, taking into account the ethnographer’s immersion
in the field and his ability to detect, and theorise upon, the visible details of the metropolitan setting. I have sought to apply these principles
while exploring this area of the city of Lisbon. For this purpose, conversations and interviews with writers, news in mainstream press or articles in
specialised magazines, have been essential to allow visual observations,
initially devoid of direction, to become deep and meaningful information. Gradually, both the visible surface of this setting and the images
manufactured by digital technology gained conceptual and interpretative content.3 I would now invite the reader to accompany me along the
reflections suggested by the photographic gaze. Let’s move on to the
streets of this Lisbon district.
Bairro Alto is one of the main historic quarters of Portugal’s capital city.
This means that, in what concerns tourism, it is one of the most visited and famous areas. Apart from this touristic specificity, this district
142
3 Using photographic resources and visual technology in fieldwork is, nowadays, frequent practice in the Social Sciences, particularly in ethnographic
projects. For a detailed analysis of theoretical and methodological implications of this practice see, among others, the works of Michael Ball and Gregory
Smith (1992), Sarah Pink (2001) and Howard Banks (2001).
has developed over the last three decades a strong nightlife economy,
devoted to leisure, arts and cultural events. Numerous restaurants, bars
and clubs, performance venues, art galleries and music or fashion stores,
have settled in this area. For this reason, it has become over the years one
of the main centres of artistic and nightlife dynamics in the capital. However, being an old quarter, traditional forms of economy and sociability
still endure, sustained by physical proximity and neighbourly relations.
In fact, this territory suffers a surprising metamorphosis that follows the
transition from day to night, disclosing the strange dualities that may be
found within its boundaries. During the day, life in this district is marked
by the routine actions of an aged population and the quiet comings
and goings typical of neighbourhood economies (grocery shops, drugstores, butchers, cafés, etc.). On the contrary, sunset brings with it closing time for the traditional trade and the return home of its inhabitants,
that are slowly replaced by actors of a new kind that take over the many
restaurants and bars. Over the last few decades, the night in Bairro Alto
has been the stage for the performance of urban youth tribes that found
in it hospitable territories for meeting socially and sharing, making this
area an exciting mixture of contemporary urban singularities.
This district appears regularly in the news, not always for the best of
reasons. Somewhat frequently and often triggered by alcohol and drug
abuse, nocturnal excesses turn into quarrels and isolated cases of more
serious violence (there have been some cases of severe violence that
ended up in homicide). Recently, a new social problem was detected in
this urban area: the uncontrollable invasion of graffiti. The mass media,
and particularly the press, have made this issue noticeably visible, reporting the discontent of distinct local agents over this situation. In the
news, inhabitants, traders and tourists, are identified as victims of this
visual violence, caught helpless before an overwhelming multicoloured
stain, growing daily and turning historic façades, which were previously
clean and immaculate, into curious expressions of abstract art.
As we stroll through this area we notice that it is filled with different
signs, which suggests this is a territory strongly invested with symbols,
with a blatant communicational component that even the most distracted browser cannot fail to notice. The several roads we cross retain a
specific identity from the characteristics of those who walk there, setting
the collective paths and the chosen places for social gathering. This display on old building walls takes on a somewhat metaphorical meaning,
as if visually depicting nocturnal unruliness, manifold voices and tunes
in a loud cacophony, and the stylistic blend of distinct urban tribes. The
façades become material witnesses of the turmoil and semiotic hybridity
that spring forth from the night. Portuguese Anthropologist Pina Cabral
(2000) distinguishes between the diurnal and the nocturnal aspects of
social and cultural life in a way that is most interesting and useful, especially if applied here:
We must distinguish between a diurnal aspect of social and cultural
life, corresponding to the people, things, processes and meanings that
are legitimate, and a nocturnal aspect that corresponds to those re-
143
Picture 4
pressed and unable to find an obvious form of expression. (Pina Cabral
2000: 875)
144
The duality Pina Cabral refers to is expressed in the duplicity that lies
within these urban boundaries. Night seems to establish an inversion of
meaning by admitting chaos and pandemonium, as opposed to order
and harmony that are governed by day light. In a liminal spatial and
temporal context, challenges to order and conventions take on different
proportions, the forbidden becomes allowed, risks are taken, and new
meanings are invented.
Graffiti actions are different from other forms of communication in the
public space because they are actions in the realm of prohibition (Ferrell
1996; Figueroa-Saavedra 2006; Gari 1995; Spinelli 2007; Campos 2007). It
is here that the rebellious action emerges. It is also here that something
fundamental arises, something that eventually justifies youth actions in
this domain: the excitement of transgression. Inscriptions in places that
were not intended for that purpose reflect the disobedience to a normative structure, which sets clear rules in a universe of communication
controlled by public and private powers. This operation also symbolizes
a provocation of morals and conventions that may be led to its ultimate
expression with the use of obscene language and unseemly iconography, explicitly defying good taste.
It is in this context, where the production of illegal visual manifestations is pervasive, that original aesthetic interventions are tried out and
may develop. Street art has settled in Bairro Alto, setting the stage for
the exhibitions of beginner or experienced artists. In this new outdoor
gallery, very demanding and complex pictorial works are executed with
stencils; several stickers plague the traffic lights alongside tags and forgotten posters of past shows (Pictures 4, 5). In this way the public space
gains a coalesced expression of superimposed signs and languages,
which are inscribed as distinct narratives in previously mute walls.
The uniqueness of these new urban expressions is greatly derived from
the role played by several elements, which are not amongst the contents
of the message, that gain significant relevance in what concerns its final
meaning. Materiality is a crucial element of discourse. Embossment, disposition, placement, coarseness and the surface’s shape, are elements
that converge to a particular composition. Joan Gari (1995) claims that
graffiti is a break from the major Western convention of rectangular representation as a window to the world, based on a geometrical way of
thinking that starts with painting, but is extended later to other formats
and technologies such as photography, television or cinema. As stated
by Gari (1995: 125) “the discourse of the walls, in fact, is not entitled to
a sanctioned space where it may be practiced in equal terms to other
discourses and that is why it does not keep to any representational convention”. Taken as a text, it reveals a chaotic visual poetry, a consecration of nonsense and surrealism, product of different scripts played by
separate actors on the same stage. Different minds and hands, working in separate times and spaces, contribute to the production of an
intersubjective work. Its outcome is paradoxical and enigmatic, it plays
with unexpected articulations causing the surprise of passers-by. In this
patchwork of pictures, we find sketches of distinguished media characters together with anonymous figures and stylized drawings that seem
to tell a story. Images go together with anarchist slogans, messages of
football supporters or, even declarations of love or hate. Spatial appropriation entails denomination; it implies that enunciation is rooted in
the nature of actions that occur in space, as Michel de Certeau (1984)
pointed out. This enunciation, according to Silva Tellez, involves the very
signalisation of space (Silva Tellez 2001: 21):
In every city, its inhabitants have ways to mark their territories. A city
does not exist, neither grey nor white, that doesn’t in some sort of way
announce that its spaces are crossed and named by its citizens […] Territory refers more exactly to a complex symbolic elaboration that does
not grow weary of taking over things and giving them names, in an
145
characteristic existential and linguistic exercise: I name what I live.
Aesthetic sabotage (Ferrell 1996), target of reproach and repression,
is expressed in the operations perpetrated by vandals or artists. Sheltered in the darkness that protects the daring, these actors take over the
urban public space through the means of its symbolic reconfiguration.
Tags, slogans or stickers, all subvert the denotation of places and things,
as well as their functional and symbolic nature. Whether they are simply
polluting elements generating disorder, or objects supported by an artistic intention, they display social agency and state a common goal of
interfering in the city; they unfold discrepant usages and meanings of
urban space.
Political powers, so far unable to handle this phenomenon, have recently taken a more direct approach to fighting this urban scourge, by
setting in motion a vast program of cleansing and repressing graffiti in
Bairro Alto. More policing, video surveillance and stricter punishments
are complemented with a systematic cleansing of façades. Worthy of
note is also the intent to create a gallery of urban art in a chosen location, proposing a properly domesticated version of this form of expression. The symbolic conflict between apparently antagonistic images of
this territory, gave way to the planned eradication of the unsanctioned
inventiveness of unknown citizens. Certain usages of space seem to
contaminate its romantic postcard version, the typical neighbourhood’s
imaginary, historical preserve of architectural and social styles on the
brim of extinction urging for its conservation. The fact that this district is
seen as part of a patrimony imbues it with a feeling of sacredness that
does not go well with the profane excesses that take place at night. As
mentioned by Douglas (1969: 7), “for us sacred things and places are to
be protected from defilement. Holiness and impurity are at opposite
poles”. This is why graffiti and other marginal visual expressions hardly
have a place in this patrimonialised urban order.
146
Final remarks
Urban graffiti has been recognized as an inseparable component of
contemporary urban landscape. Especially so in what concerns its main
global tendency, which results from the North American graffiti movement (Gari 1995). This is a language that is built from everyday raw materials, a reinvention of communication models seeking inspiration in
advertising, film and television, in cartoons and comics (Castleman 1982;
Cooper and Chalfant 1984). Therefore, it is a hybrid expression, both in
shape and content; it is the result of permeable borders allowing the
flow of symbolic goods (different in nature), and of cultural processes
that call for a greater coalescence and merger of symbolic referents. In
this evermore interconnected world, the global dynamics of the graffiti
movement are hardly unusual. As we visit places such as Lisbon, São
Paulo, Barcelona, Paris or London, we keep finding the already familiar
presence of spray-painted lines, embedded in the visual turmoil of the
great metropolis, in a more or less ostensive way. However, every city
has its own history, caught between a complex circuit of agents, wills,
and various constructs. Wherever it appears, graffiti discloses a specific way to communicate and operate within a territory that cannot be
separated from the characteristics of its agents and the singular urban
dynamics that develop between people and their habitat.
The city of Lisbon witnessed its first displays of graffiti some two decades after it first appeared in the New York underground in the 1970s.
As the century approached its ending, what started out from a shy birth
in the 1990s has developed extensively. Public discussion and focus
from the media on this phenomenon started mainly during this period.
In the last few years, far from remaining quietly in the fringes, graffiti
has seized large and central parts of the city. Here, Bairro Alto plays a
very significant and symbolically powerful role in the Lisbon movement.
The words and images above have served as guides to unveil the singularities of this urban area, seen as a relentlessly shifting visualscape.
As a youth profane sanctuary, it welcomes nocturnal pleasures and excessiveness, turning out to be a visual metaphor for the turmoil of the
senses and the inversion of codes. Momentarily invulnerable, under the
cover of the darkness of the night, writers and street artists have taken
over the urban scene, endowing space with a visually powerful identity
that interferes with the city’s communicational ecosystem, arousing the
outrage of its inhabitants and local authorities.
The city, being a cultural artefact, bears meaning, is filled with ideology. However, there is no agreement about the uses and representations of the living habitat. As Figueroa Saavedra (2006) states, the street
is a battlefield where different entities with diverging views, ideologies,
messages and intentions face each other. Predominant rationales may
be disputed and fractured. Playing in the visual realm is a fundamental
way of standing out in a city overcrowded with symbols. This is why
Andrea Brighenti (2007) places the field of visibility in the intersection
between the political and aesthetic dimensions. Relationships of power
and meaning also take place in a field of visibility and display, where
manifestations of individual and collective will are disclosed or, quite on
the contrary, concealed.
As Michel de Certeau stated (1984), a spatial order provides an ensemble of interdictions but also of possibilities. In this realm tactical
uses of space, in the sense proposed by de Certeau, emerge. As he says
As he says “many everyday practices […] are tactical in character. And
so are, more generally, many ‘ways of operating’: victories of the ‘weak’
over the ‘strong’ (whether the strength be that of powerful people or the
violence of things or of an imposed order, etc.), clever tricks, knowing
how to get away with things, “hunters cunning”, maneuvers, polymorphic simulations, joyful discoveries, poetic as well as warlike” (de Certeau
1984: xix). In the case I have described, Bairro Alto is usurped from the
planned city to be converted into a gallery for the exhibition of pictures
and ideas in search of an audience, temporarily suspending the authority exerted over space by social codes and powers. Writers, street artists
147
or occasional pichadores4 take over the walls for their own purposes,
overcoming oppressing structures and expressing the ability to operate
in the interstices of a city that is not entirely disciplined. By doing so, they
claim to be boundless creators of unique symbolic goods, inventing a
new communicational formula and interfering with the public space. A
new platform emerges from these apparently rudimentary acts, where
identities, judgements of value and symbolic hierarchies are played out.
These are corrupt voices in the polyphonic city, subverting the communicational order and defying spatial harmony. Unintentionally, they
are political instruments. They stir up dominant thoughts and ideologies, provoke instated powers, reinvent aesthetic paradigms and claim
for new forms of action in city. The Bairro Alto that we find in Lisbon in
this early 21st century, may be looked upon as a good example of these
urban dynamics.
Picture 5
148
4 Pichador refers to those who write sentences, words or signatures that do
not correspond to the legitimate and conventional language of the graffiti
movement. The most common example are love and hate messages or the
political and satirical sentences that appear unexpectedly on the walls without an identifiable author.
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About the authors
Béatrice Fraenkel est directrice d’études à l’École des Hautes Études en
Sciences Sociales à Paris où elle enseigne l’anthropologie de l’écriture.
Elle a notamment publié : La signature, Genèse d’un signe, Gallimard, Paris, 1992 ; Illettrismes, Approches historiques et anthropologiques, Paris,
1993; Langage et Travail. Communication, cognition, action, CNRS, Paris,
2001 (avec A. Borzeix) ; Les écrits de Septembre : New York 2001, Textuel,
Paris, 2002. Elle dirige l’équipe « Anthropologie de l’écriture » du IIAC
(Institut Interdisciplinaire d’Anthropologie du Contemporain (EHESSCNRS). Elle est responsable (avec C. Licoppe, ENST) du programme de
recherche « Écologie et Politique de l’écriture » soutenu par l’Agence
Nationale pour la Recherche pour 2006-2009. Membre du Bureau du
réseau « Langage et Travail », CRG-École Polytechnique elle participe au
Comité de direction de IAWIS/AIERTI (International Association of Word
and Image Studies/ Association International des Études sur les Relations Textes / Images), et anime le réseau Identinet (Univ. Oxford, St Anthony College).
Ella Chmielewska teaches cultural and visual studies at the University of Edinburgh. Her research interest is centred on text and image in
public space, materiality of writing, and place identity. She is particularly
concerned with the problematic of visual knowledges and visual translation and the questions of methods and theories pertaining to urban
semiotic landscapes. Her research is substantially grounded in praxis;
graphic design and photography form important methodological tools
as well as objects of her research attention.
Lorenzo Tripodi is PhD in Urban, Regional and Environmental Planning, University of Florence, Italy. His dissertation is titled The Invention
of Public Space. Practices of Resistance to the Public Sphere’s Erosion in
the Global Landscape. Florence, New York, Berlin. He is an independent
reesarcher into Space, Architecture, Image, and Urbanism.
Andrea Mubi Brighenti is post-doctoral research fellow at the Department of Sociology, University of Trento, Italy. He holds a Ph.D. in Sociol-
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ogy of Law (University of Milano, I), an M.A. in Law &Society (Oñati International Institute, E), and a B.A. in Communication Studies (University
of Bologna, I). His research topics include social interaction, law, urban
studies, and social theory, with particular attention to the categories of
visibility, territory, respect, resistance, and diavolution. He has recently
published Territori migranti. Spazio e controllo della mobilità globale
[Migrant Territories. Space and Control of Global Mobility] (Verona, ombre corte, 2009).
Cristina Mattiucci, architetto, sta svolgendo un dottorato di ricerca in
Environmental Engineering all’Università di Trento. La sua ricerca si occupa di città, territorio e paesaggio nelle loro accezioni più ampie. In
particolare, esplora le potenzialità semantiche dei modi di percepire e
vivere lo spazio ed il paesaggio.
Penelope (Claudio Coletta, Francesco Gabbi, Giovanna Sonda) is a research project that investigates the narratives, symbolic imagery and organizational practices that shape cities. Since 2008 Penelope has been
studying urban controverises related to the city of Trento adopting an
evidential approach that take into account local news, uses of the city
and public policies: the aim is to shed light on the patterns of creation
of urban spaces, action nets, positions and narratives that are constantly
reassembling its own texture.
Francesca Cozzolino è una ricercatrice dell’équipe “Antropologie de
l’écriture” (EHESS Paris) diretta da Béatrice Fraenkel. Si occupa dei murales in Sardegna. Gli altri membri dell’équipe includono Clara Lamirau
(pratiche religiose di scrittura esposta), Marisa Leibaut (graffiti), Philippe
Arthières (manifesti di Solidarnosch), Padro Araya (scritture di contestazione in Cile), Francisco Lugo (murales del Messico). Attualmente l’équipe sta lavorando a una missione dell’Agence National de Recherche sulla “politica e regolamentazione della scrittura nello spazio urbano”.
Luciano Spinelli, membre du GRIS (Groupe de Recherche sur l’Image
en Sociologie), prépare une thèse sous la direction du Professeur Michel
Maffesoli sur le thème: “Une approche compréhensive de sociologie visuelle: habitation squat et communication urbaine.”
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Marco Solaroli è dottorando di ricerca in sociologia presso il Dipartimento di Studi Sociali e Politici dell’Università di Milano. Precendentemente ha studiato presso l’Università di Bologna e la University of
Pennsylvania (Philadelphia). Si occupa di sociologia dei media e del
giornalismo, cultura visuale, sociologia dell’arte e della musica, teoria
culturale e metodologie qualitative. Sta lavorando a due ampi progetti
di ricerca: il primo sulla cultura visuale di guerra e il campo professionale
del fotogiornalismo di guerra, il secondo sulla storia della cultura hip
hop e della musica rap in Italia. Dal 2006 è membro della redazione della
rivista Studi Culturali (il Mulino, Bologna).
Ricardo Campos holds a PhD in Visual Anthropology from FCSH-UNL,
Lisbon. He is post-doc researcher and is currently conducting an ethnography of the use of digital media and technology.
Festival Città al muro /Cities at the wall, July 2008
436, Untitled / Senza titolo (2008) Mixed technique
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professionaldreamers is a small, independent publisher that collects
and promotes essays on space and society. It aims to publish high
quality, original books from a variety of disciplines, including sociology,
anthropology, geography, urban studies, architecture, landscape
design, cultural studies, criminology, literary studies and philosophy.
www.professionaldreamers.net
The wall and the city / Il muro e la città / Le mur et la ville
ISBN 978-88-904295-0-7
published under Creative Commons Licence 2.5it
Impressum June 2009, Trento, Italy
The book explores the intersections between the material
artifact ‘wall’ and its strategic and tactical relevance in the
contemporary city. It deals with urban spatiality, public places,
trajectories, and territoriality; visibility, urban surfaces,
and urban visual landscape; materiality and immateriality;
governmental and corporate strategies in the use of walls;
writings in public space, graffiti, murals, street art, public art,
outdoor advertisement, logos; use of space, right to the city,
social practices, social actors, resistance, subcultures.
Andrea Mubi Brighenti is post-doctoral research fellow at the
Department of Sociology, University of Trento, Italy.
ISBN 978-88-904295-0-7
€ 20
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