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Diapositiva 1 - Liceo Socrate

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Diapositiva 1 - Liceo Socrate
Le donne avvocato: una lotta per i diritti
Nell’antica Roma il fatto che il mestiere di avvocato fosse
esercitabile solo dagli uomini e non dalle donne sembrava
ai Romani, dalla mentalità maschilista, semplicemente
ovvio. Per questo motivo, non esisteva alcuna legge
specifica che vietasse alle donne di praticare la professione.
Tre donne, nel primo secolo avanti Cristo, si erano rese
conto di ciò grazie alla loro preparazione culturale
(facevano parte di famiglie agiate) e sfruttarono questa
assenza di divieti, presentandosi in tribunale come avvocati
in cause sia civili sia penali. Le loro storie sono raccontate
da Valerio Massimo, ma questo scrittore romano,
estremamente di parte e contrario all’emancipazione delle
donne, su certi punti è alquanto inaffidabile.
In tribunale per necessità: Mesia Sentinate
La prima donna dell’elenco di Valerio Massimo è Mesia di Sentino (Sentinate),
donna colta con grandi capacità oratorie. Mesia non era una ribelle, non
andò in tribunale per sfidare il potere maschile, ma fu costretta a
improvvisarsi avvocato. Questo perché era stata accusata di un crimine e
nessun uomo voleva difenderla da quelle accuse. Alla fine dovette
difendersi da sola, davanti a una corte di giustizia presieduta da un pretore
di nome Lucio. Mesia dimostrò la sua innocenza con grande forza d’animo,
e convinse molti dei giudici. Il verdetto di innocenza fu deciso quasi
all’unanimità. Valerio Massimo, nel raccontare la storia di Mesia, è senza
dubbio in imbarazzo, e ne parla in modo impreciso, omettendo molti
particolari importanti (di quale crimine fu accusata Mesia? Perché nessuno
era disposto a difenderla?). C’è un buon motivo: Valerio Massimo, anche se
è fermamente contrario alle donne avvocato, non può non riconoscere che
Mesia non aveva scelta e che l’alternativa per lei sarebbe stata un’ingiusta
condanna.
La ribelle del foro: Afrania
Nei confronti di Mesia Valerio Massimo è più perplesso che furioso,
mentre contro la seconda donna dell’elenco, Afrania, si accanisce
con odio smisurato. Questa donna, moglie del senatore Licinio
Bucco, voleva approfittare il più possibile del suo diritto di esercitare
la professione di avvocato. Si presentava perciò in tribunale
spessissimo, esprimendo la sua opinione su qualunque processo.
Sulle altre donne avvocato Valerio Massimo è relativamente
obiettivo, mentre parlando di Afrania associa a lei qualunque
genere di connotato negativo. La descrive come attaccabrighe,
impudente, incapace di tenere la bocca chiusa (“stancando
continuamente i tribunali con i suoi latrati”). Alla fine si sbilancia del
tutto, dicendo che “di un simile mostro bisogna far sapere ai posteri
più quando morì che quando nacque”. Infatti ci informa che morì nel
49 a.C., ma non ci dice il suo anno di nascita.
La figlia dell ’oratore: Ortensia
Ortensia, figlia dell’oratore Ortensio Ortalo, è l’unica donna avvocato di cui
Valerio Massimo parla con rispetto. Nel 42 a.C. i triumviri imposero alle
donne patrizie di Roma una pesante tassa. Le donne trovarono ingiusto il
provvedimento, ma nessun uomo voleva perorare la loro causa, perciò fu
una di loro, Ortensia appunto, a opporsi al tributo davanti agli stessi
triumviri, che cedettero e ritirarono la tassa. Gli argomenti di Ortensia
erano inoppugnabili: chi non è politicamente rappresentato non può essere
sottoposto a tassazioni di qualunque genere. Molti secoli più tardi le
femministe usarono questo argomento per ottenere il diritto di voto; alle
donne romane, che non avevano speranze di ottenere potere politico,
bastava essere esentate dalle tasse. Ortensia perorò la causa delle donne
con una straordinaria eloquenza e vinse. Perché lei fu rispettata e le altre
due no? Perché Valerio Massimo e i romani in generale videro in lei il
proseguimento dell’opera del padre Ortensio, e, mentre Ortensia parlava,
per loro era come se a parlare fosse il fantasma del grande oratore.
Sulpicia: “Finalmente è giunto l ’amore!”
Fin dal 1838, quando Otto Gruppe attribuì per primo i Carmi di Sulpicia a una puella di età augustea ,essi
hanno ricevuto una valutazione critica improntata alla loro caratterizzazione come produzione
dilettantesca ed amatoriale. Si legga il passo chiave dell’analisi di Gruppe: ”E’ vero,questi carmi sono
metricamente corretti,tuttavia allo stesso tempo essi sono più di questo. Evidentemente essi provengono
da una mano non esperta:espressione goffa la costruzione spesso si può mettere insieme solo con
difficoltà. E’ inconcepibile che Tibullo possa aver scritto in questo modo,fosse pure in annotazioni
sbrigative;ma è del tutto concepibile che una donna colta (Tibullo chiama Sulpicia DOCTA PUELLA)si sia
espressa in questo modo. Notiamo un certo numero di colloquialismi come IAM. A un’indagine attenta il
critico riconoscerà prontamente un latino femminile,impervio all’analisi condotta con un metodo
linguistico rigoroso,ma che trova espressioni naturali,semplici per idee di vita quotidiana senza
elaborazione stilistica cosciente ed artistica. Il dibattito sull’esistenza o meno di un vero e proprio latino
femminile continuò per tutto l’800,e, dopo molte critiche,venne infine superato. Ma il nocciolo
dell’argomentazione di Gruppe era che in realtà non pensava affatto che donne romane usassero un sottolinguaggio diverso. La poesia di Sulpicia ha una tendenza all’espressione spontanea e non artistica,una
certa obliquità di pensiero,e un rifiuto delle costrizioni rigorose delle strutture maschili della logica e della
sintassi. Questa valutazione è rimasta stabile fino alla considerazione di Sulpicia che si è avuto in
Santirocco(1979)che è stato praticamente il primo a prendere sul serio Sulpicia come un’artista
professionale. Gli approcci alla poesia romana si situano nell’ambito di quegli studi che sottolineano la
natura di costruzione culturale di un’elegia e la sua estrema letterarietà. In Sulpicia l’approccio
autobiografi sta è stato particolarmente forte(epistole,biglietti d’amore,note di diario),in quanto
appesantito da preconcetti sul femminile in quanto non riflessivo e non artistico,sulla donna in quanto
natura opposta all’uomo in quanto cultura. Questo carattere amatoriale delle poesie di Sulpicia è
sorprendentemente ribadito nella prima menzione femminista della poetessa. E’ in effetti sorprendente che
la prima frase del femminismo classicista che è stata soprattutto di carattere ginocritico,cioè rivolta alle
donne come scrittrici,e più in generale alla storia delle donne in quanto agenti della storia e della
cultura,non abbia prestato molta attenzione a Sulpicia. Matthew Santirocco(1989),nel suo articolo
significativamente intitolato “Sulpicia reconsidered”,tratta finalmente i carmi di Sulpicia come poesie. Egli
mette in discussione il carattere amatoriale di Sulpicia e guarda ala sua opera come alla produzione di
un’artista. Santirocco mette in luce procedimenti strutturali sofisticati nelle elegie di Sulpicia ed interpreta
la sua sintassi come parte di un programma poetico.
Elegia 3.13
Tandem venit amor, qualem texisse pudori
Quam nudasse alicui sit mihi fama magis.
Exorata meis illum Cytherea Camenis
Adtulit in nostrum deposuitque sinum.
Exoluit promissa Venus:mea gaudia narret,
Dicetur situi non habuisse sua.
No ego signatis quicquam mandare tabellis,
Ne legat id nemo quam meus ante, velim,
Sed peccasse iuvat,voltus conponere famae
Taedet: cum digno digna fuisse ferar.
Infine giunse l’amore, tale che la vergogna di
averlo celato sarebbe per me un disonore più
grande che non quello di averlo rivelato a
qualcuno. Esortata dalle mie Camene,
Cyterea lo portò qui e lo depose nel mio
petto. Venere mantenne le promesse: narra
le mie gioie colui che avrà sostenuto di non
averne di proprie. Io non vorrei consegnare i
miei messaggi a tavolette sigillate, affinchè
non li legga qualcuno prima del mio uomo.
Ma peccare è utile, mi dà fastidio accostare il
volto all’onore: che sia ritenuta di essere
stata io degna di lui, con uno degno di me.
Elegia 3.14
Giunge il compleanno odioso, che dovrò
tristemente trascorrere in una campagna
noiosa, e senza Cerinthus.
Che c’è di più dolce della città? O forse che
è adatta, per una ragazza, una casa di
campagna e il freddo fiume che scorre
nell’agro di Arezzo?
Su, sta’ tranquillo, o Messalla troppo
sollecito verso di me: i viaggi spesso non
sono opportuni.
Trascinata via, io lascio qui il mio cuore e i
miei sentimenti, anche se non permetti
che io segua la mia volontà.
Invisus natalis adest, qui rure molesto
Et sine Cerintho tristis agendus erit.
Dulcius urbe quid est? An villa sit apta puellae
Atque Arretino frigidus amnis agro?
Iam, nimium Messalla mei studiose, quiescas:
non tempestivae, saepe, propinque, viae.
Hic animum sensusque meus abducta relinquo,
Arbitrio quamvis non sinis esse meo.
Elegia 3.15
Scis iter ex animo sublatum triste puellae?
Natali Romae iam licet esse suo.
Omnibus ille dies nobis natalis agatur,
Qui nec opnanti nunc tibi forte venit.
Sai che il peso di quel triste viaggio è stato tolto
dall’animo della tua ragazza?
Ora le è consentito di essere a Roma nel giorno del
suo compleanno. Sia celebrato da tutti noi quel
compleanno, che ora giunge per caso a te che non
te lo aspettavi.
Elegia 3.16
Gratum est, securus multum quod iam tibi de me
Permittis, subito ne male inepta cadam.
Sit tibi cura togae potior pressumque quasillo
Scortum quam Servi filia Sulpicia:
solliciti sunt pro nobis, quibus illa dolori est,
Mi fa piacere che tu ti permetti ormai molto
ne cedam ignoto, maxima causa, toro.
riguardo a me, senza preoccuparti che io
possa all’improvviso cadere scioccamente in
rovina. Abbi pure a cuore una toga e una
prostituta gravata dal cestello piuttosto che
Sulpicia figlia di Servio. Ci sono alcuni
preoccupati per me, per i quali sarebbe una
ragione immensa di dolore se soccombessi a
un letto ignobile.
Elegia 3.17
Estne tibi, Cerinthe, tuae pia cura puellae,
Quod mea nunc vexat corpora fessa calor?
A ego non aliter tristes evincere morbos
Optarim, quam te si quoque velle putem.
At mihi quid prosit morbos evincere, si tu
Nostra potes lento pectore ferre mala?
Non senti, o Cerinto, una compassionevole
preoccupazione per la tua amata, perché la febbre
ora strazia il mio corpo debole? Ah certamente
non vorrei guarire dalla mia malattia infelice se
non sapessi che anche tu lo desideri alla stessa
maniera! Perché mai dovrei guarire dal male, se
con cuore apatico puoi sopportare la mia
malattia?
Elegia 3.18
Che io non sia per te,o mia luce,ormai il tuo
amore incontenibile
E mi sembra che io sia stata in questi ultimi
tempi incosciente
Se sono caduta in qualche errore nell’età più
fertile,
Della quale riconosco di essermi pentita,
più del fatto di averti abbandonato la scorsa
notte,
desiderando di celare la mia passione.
Ne tibi sim, mea lux, aeque iam fervida cura
Ac videor paucos ante fuisse dies,
Si quicquam tota conmisi stulta iuventa,
Cuius me fatear paenituisse magis,
Hesterna quam te solum quod nocte reliqui,
Ardorem cupiens dissimulare meum.
Ipazia di Alessandria
Non sono poi tante le donne che hanno avuto in passato (e purtroppo anche nel presente) la
possibilità di distinguersi in vari campi, tra i quali c’è senza dubbio la scienza, considerata fino a
non molto tempo fa un appannaggio esclusivamente maschile. Molte donne hanno dovuto
pagare con la vita questa loro passione in quanto era vista come una colpa per la quale
vergognarsi poiché una donna non poteva permettersi si superare o addirittura screditare il
lavoro di un uomo. Fra queste donne c’è certamente Ipazia, vissuta ad Alessandria d’Egitto tra
la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C. C’è da dire che però Ipazia non si avvicinò da sola agli
studi scientifici, ma fu esortata dal padre Teone, che lo rende noto nell’intestazione del III libro
del suo commento al “Sistema matematico di Tolomeo” dove scrive “Edizione controllata dalla
filosofa Ipazia, mia figlia.”Ma Ipazia, oltre ad essere una grande filosofa e studiosa era anche
insegnante e difatti “Introdusse molti alle scienze matematiche”, come ci dice Filostorgio, colto
storico ecclesiastico del V secolo. Addirittura pare esistessero opere autografe, purtroppo
scomparse nel tempo. Infatti Ipazia, particolarmente dedita all’astronomia, compì numerose e
interessanti scoperte riguardanti gli astri, che riportò in un libro chiamato “Canone
astronomico”. Un’altra disciplina a cui Ipazia era molto interessata è la filosofia. Da Socrate
Scolatico (teologo, avvocato e storico della Chiesa nell’Impero Romano d’Oriente) viene definita
come la terza caposcuola del Platonismo, dopo Platone e Plotino. Riassumendo, il Platonismo è
una dottrina filosofica insegnata da Platone per primo in una scuola fondata nel 387 a.C. poco
fuori dalle mura di Atene e chiamata Accademia dal nome dell’eroe Accademo che aveva
donato agli ateniesi il terreno dove si trovava la scuola. Per Platone il “Tutto esistente” è diviso
in due mondi: quello idee, perfetto, immutabile ed eterno e quello della materia, fragile e
corruttibile. Tornando ad Ipazia, i suoi elogi più belli sono stati tessuti da Pallada (grammatico
di fede pagana vissuto tra il IV e il V secolo) in uno dei suoi epigrammi, che dice: “Quando ti
vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti
verso il cielo è rivolto ogni tuo atto Ipazia, sacra bellezza delle parole,astro incontaminato della
sapiente cultura.”Il senso dell’attività di Ipazia si concentra nel terzo verso, che indica sia
l’amore per l’astrologia che la tensione filosofica di Ipazia. Bisogna però dire che è sbagliato
considerare scienza e filosofia due discipline separate, infatti Ipazia era maestra di
neoplatonismo, nel quale confluivano anche matematica e geometria. Ipazia morì nel 415 d.C.
per assassinio e dopo la sua morte e i primi ad occuparsi della sua biografia furono gli storici
ecclesiastici Socrate Scolastico e Filostorgio ma quando completarono le loro opere molte delle
persone implicate nell’omicidio erano ancora vive e quindi esse non poterono essere pubblicate,
saranno poi rese pubbliche circa ottant’anni dopo da Damascio di Damasco.
Egeria
Nell’anno 1884 lo studioso italiano Gamurrini, trovando nella biblioteca della Fraternità di S.Maria in Arezzo il
manoscritto Pellegrinaggio ad loca santa, lo attribuì ad una certa Silvia o Silvania, abitante della Gallia, sorella o
cognata di Ruffino d’Acquitania. L’itinerario, scritto tutto in latino, contiene nelle sue 44 pagine il frammento di un
avvincente viaggio. Durante l’intera durata del pellegrinaggio, la donna racconta alle sue “sorelle” tutte le sue
imprese, cammini attraverso lontani deserti, incontri con i monaci, colloqui con i vescovi delle città che toccava, le
interessantissime cerimonie a cui aveva assistito a Gerusalemme. Molti studiosi hanno cercato di risalire al motivo di
questo interessante viaggio portato avanti da questa nobildonna, ma purtroppo le notizie che ci sono pervenute non
riescono a risolvere il quesito di questo viaggio alla scoperta di nuove terre. Nel 1903 un frate benedettino, Dom
Fèrotin, trova delle coincidenze con il testo dei viaggi di una pia donna di cui parla l’Abate Valerio, che viveva in
Galizia nel VII secolo. Proprio l’Abate Valerio fa per primo il nome di Egeria. Il nome della nobildonna appare in
diverse lettere dell’Abate e viene scritto in diversi modi: Eteria, Echeria, Eeheria, Seteria, Etheria, Aethera, Eitheria. La
forma scelta da Dom Fèrotin è Eitheria, che in francese significa celeste. Sono state fatte diverse ipotesi dagli studiosi
riguardo la provenienza della donna, ma Gamurrini, ritenendo Egeria sorella o cognata di Rufino, pensava che
provenisse dalla Gallia. Invece, Dom Fèrotin e Leclercq erano convinti che provenisse dalla Galizia. Egeria, durante il
suo lungo viaggio, attraversò Palestina, Egitto, Fenicia, Mesopotamia e Arabia; parte del suo viaggio si pensa che
l’abbia compiuto in compagnia di altra gente, invece la seconda parte del viaggio da sola. Tale ipotesi si può ricavare
dal fatto che il suo diario inizia con verbi al plurale e termina al singolare. Lo scritto è incompleto, poiché mancano
alcuni passi importanti riguardanti la partenza e il viaggio dalla sua terra di provenienza al Sinai. L’unica parte che ci
è pervenuta è divisa in due sezioni:
1. Dal capitolo I al capitolo XXIII, i viaggi;
2. Liturgie di Gerusalemme.
Nella prima sezione sono raccontati i quattro pellegrinaggi verso il monte Sinai con ritorno a Gerusalemme, il monte
Nebo, Idumea, la Mesopotamia con ritorno a Costantinopoli. Il tutto è arricchito con varie indicazioni topografiche e
geografiche.
Ac sic ergo et ibi gratias Deo agentes iuxta
consuetudinem perexivimus iter nostrum.
Item euntes in eo itinere vidimus vallem
de sinistro nobis venientem
amenissimam, quae vallis erat in gens,
mittens torrentem in Iordanem infinitum.
Et ibi in ipsa valle vidimus monasterium
cuiusdam fratris nunc id est monachi.
Tunc ego, ut sum satis curiosa, requirere
coepi, quae esset haec vallis, ubi sanctus
monachus nunc monasterium sibi ferisse;
non enim putabam hoc sine causa esse.
E così, ringraziando Dio come d’abitudine, continuammo il
nostro cammino. Durante il percorso vedemmo a sinistra
un’amenissima valle, grande, con un torrente che si
gettava nell’immenso Giordano. E in quella valle
vedemmo un monastero di un fratello, cioè di un monaco.
Allora io, che sono abbastanza curiosa, iniziai a chiedere
che valle fosse quella dove il santo monaco si era costruito
il monastero; infatti pensavo che ci fosse un motivo ben
preciso.
Baudonivia
In una realtà altomedievale in cui erano sicuramente presenti personalità
dedite alla scrittura, poche erano quelle che lo facevano di professione.
Tuttavia Baudonivia o Baldonivia fu una di queste. Parliamo di una
donna, francese, cresciuta in un monastero, quello di S. Croce di
Poitiers, in cui le monache conoscendo le doti di Baudonivia la incitano
a scrivere un libro sulla vita della Santa e della regina Radegonda,
un’impresa difficile che tuttavia affronta manifestando in tale racconto
anche i suoi più personali desideri di donna e la volontà di una pace
tesa al raggiungimento dell’unità francese che in quel periodo era
ancora un lontano traguardo.Il personaggio di Radegonda affascina
molto Baudonivia, rapita piccolissima da re Clotario I che la porta con
sé a corte con l’intento di istruirla e l’obiettivo di sposarla, senza però
fare i conti con la volontà della donna stessa che mai avrebbe accettato
il matrimonio con un uomo violento come Clotario.Per questo, forse in
segno di ribellione, comincia a comportarsi come una serva e ad
aiutare chi aveva più bisogno di lei (prigionieri, condannati a morte,
pellegrini ecc.). All’uccisione del fratello per mano del marito,
Baudonivia prende coraggio: lascia il castello e il re definitivamente,
pur sapendo che la legge allora dava diritto al marito, in questi casi, di
uccidere la moglie ricoprendola di fango.Pensa così di dedicarsi alla vita
monastica, ma le viene negata perché non era concesso ad una donna
sposata. Questa la storia di Baudonivia, una donna che non si è mai
arresa e che si è avvicinata a Dio, divenendo Santa, nonostante le varie
avversità, perché Cristo abitava già in lei.
Cum lectio legebatur, illa sollicitudine pia animarum nostrarum
curam gerens, dicebat: 'Si non intellegitis quod legitur, quid
est, quod non sollicite equiritis speculum animarum
vestrarum?' Quod etsi minus pro reverentia interrogare
praesumebatur, illa pia sollicitudine maternoque affectu, quod
lectio continebat, ad animae salutem praedicare non cessabat.
Quando si leggeva la lectio, ella, prendendosi cura con pia
sollecitudine delle nostre anime, diceva: “ Se non capite ciò che viene
letto, perché non interrogate sollecite lo specchio delle vostre
anime?”. E anche se non si osava porre domande a causa della
reverenza, ella non smetteva di predicare ciò che la lectio conteneva,
per la salvezza dell’anima, con pia sollecitudine e affetto materno.
Rosvita
Di Rosvita non si hanno molte notizie e per qualche tempo si è pensato anche che fosse
stata inventata da Conrad Celtis, colui che l’aveva scoperta. E’ probabilmente nata
nel 935 e morta dopo il 373. Lei era una canonichessa,donna che a differenza delle
suore doveva solo rispettare i voti di castità e obbedienza. Era di una nobile
famiglia, ma non si sa di preciso quando entrò nel convento di Gandersheim: alcuni
ipotizzano che sia stata educata fin da piccola dalle suore, altri dicono che entrò in
convento solo in età adulta (ipotesi, quest’ultima, che sembra la più attendibile),
infatti Rosvita fu istruita nella sua corte da Raterio e nel monastero da Gherberga,
madre badessa che la giudò e alla quale dedicò il suo libro di poesie. Rosvita aveva
una buona conoscenza dei classici: dal suo stile evinciamo il fatto che abbia letto
l’Eneide, le Georgiche, le Egloghe e le Metamorfosi; ha letto e studiato anche autori
cristiani come Boezio e Sant’Agostino.
L’opera di Rosvita si divide in 3 libri:
1. Dedica a Gherberga e prefazione, otto leggende sacre dette anche poemetti
agiografici.
2. Prefazione e commedie in prosa.
3. Gesta Ottonis (poemetto sulle gesta di Ottone I prima dell’ascesa al trono) e i
Primordia cenobii Ganceshemensis (2 poemetti storici in esametri leonini).
Salve, regalis proles carissima stirpis,
Gerbirg, illustris morbus et studiis.
Accipe fronticula, dominatrix alma, serena,
Quae tibi purganda offero carminula,
Eius et incultos degnante dirige stichos,
Quam doctrina tua instruit egregia;
Et, cum sis certe vario lassata labore,
Ludens dignare hos modulos legere,
Hanc quoque sordidolam tempta purgare
camenam
Ac fulcire tui flore magiterii,
Quo laudem dominae syudium supportet
alumnae
Doctricique piae carmina discipulae.
Salve, famosissima discendente di stirpe reale, o Gherberga, di
illustri comportamenti e studi, ricevi questa piccola copertina e le
poesiole che ti offro da correggere. Correggi con degnazione questi
rozzi versi di quella che è stata istruita dalla tua eccelsa sapienza ed
essendo stanca per i vari impegni, leggi le mie parole per divertirti e
tenta di migliorare la musa imperfetta e di abbellirla con il fiore
della tua magistralità affinchè lo studio della tua aluna porti lode
alla superiora e i versi della discepola portino lode alla pia maestra.
Francesca Caccini
Francesca Caccini, nota come la Cecchina, nacque a Firenze nel 1587,
primogenita di Giulio Caccini. Sotto la guida del padre intraprese lo
studio di canto, liuto, clavicembalo e composizione, a cui affiancò
una solida preparazione in ambito letterario, come si ricava da
testimonianze coeve che sottolineano le sue doti di poetessa. Iniziò
la carriera di cantante, dapprima insieme ai membri della sua
famiglia, con i quali formava il “concerto Caccini”; in seguito,
spiccate qualità artistiche le aprirono una strada di incontrastato
successo come solista. La prima implicita testimonianza di un
impiego presso la corte medicea risale al 1602 e documenta
l’esecuzione nel duomo di Pisa di musiche a tre cori dirette da
Giulio Caccini, che aveva con sé la moglie e le tre figlie, ma alcune
fonti già segnalano la presenza di Francesca ai festeggiamenti per
le nozze di Caterina de’ Medici ed Enrico IV di Francia, celebrate nel
1600. La popolarità della famiglia Caccini si propagava da Firenze
in tutta Italia e fino oltre le Alpi, tanto che i reali francesi chiesero
a Ferdinando I de’ Medici di inviare loro il “concerto” al completo.
Francesca, insieme al padre e alla sorella Settimia, soggiornò a
Parigi per circa sei mesi e solo il mancato permesso da parte della
corte fiorentina le impedì di rimanere al servizio di Enrico IV.
Ritornata in Italia, entrò ufficialmente a servizio dei Medici nel
1607 e vi restò per circa un ventennio, affermandosi come
insegnante, cantante e compositrice. In virtù della fama di virtuosa
si esibì anche al di fuori della Toscana in lunghe tournees, al
termine delle quali rientrava però a Firenze, costretta da un vincolo
professionale ereditato dalla tradizione familiare che le imponeva
di rimanere presso i Medici.
In linea con una politica di sfarzosa ostentazione e
promozione culturale della corte medicea, Francesca
musicò libretti d’opera e feste teatrali, delle quali è
difficile chiarire la struttura musicale, data
l’approssimazione terminologica nella definizione di
simili intrattenimenti e la scarsezza delle testimonianze
superstiti. Nel repertorio teatrale possiamo annoverare Il
ballo delle zigane, un balletto rappresentato a palazzo
Pitti nel carnevale del 1615, del quale Francesca curò
anche l’allestimento, e il più noto La liberazione di
Ruggiero dall’isola di Alcina, ispirato alle vicende
dell’omonimo personaggio ariostesco. La messa in scena
fiorentina del 1625 in occasione della visita del futuro re
di Polonia Vladislao IV colpì tanto favorevolmente l’ospite
che in seguito egli volle riproporre lo spettacolo dinanzi
alla sua corte con una compagnia di artisti italiani; nel
1682 La liberazione di Ruggiero dall’isola di Alcina
divenne così la prima opera italiana rappresentata
all’estero. La produzione di Francesca Caccini comprende
anche un ricco repertorio di pezzi per voce sola e basso
continuo, che cercano di approfondire la sperimentazione
delle possibilità della voce umana attraverso la ricca
ornamentazione della linea melodica; analoga cura fu
riservata alla scelta dei testi, grazie anche alla
fondamentale collaborazione con Michelangelo
Buonarroti il Giovane. Dopo il ritiro dalla vita musicale
della città, le notizie della presenza della Caccini a Firenze
si fecero sempre più scarse, fino a scomparire attorno al
1640, anno probabile della morte.
Anna Maria Mozart
Wolfgang le fece anche omaggio di un brano musicale, nel giorno
del suo onomastico del 1776: il Divertimento in Re Maggiore per
Oboe, Corni ed Archi KV 251, "Nannerl Septett". E non solo: la
incoraggiò a comporre musica, attività nella quale
evidentemente Nannerl aveva provato a cimentarsi. In una
lettera dall'Italia del 7 luglio 1770, Mozart le scrisse:"Sono
stupefatto! Non sapevo fossi in grado di comporre in modo così
grazioso. In una parola, il tuo Lied è bello. Ti prego, cerca di fare
più spesso queste cose."Evidentemente però Nannerl non seguì il
consiglio del fratello, e se anche lo seguì, della sua musica non è
rimasta traccia. Nessuna sua composizione è stata conservata e
anche quel misterioso Lied si è perso chissà dove.Nannerl Mozart
sposò nel 1784 il Barone Johann Baptist von Berchtold zu
Sonnenburg e si trasferì con lui a Sankt Gilgen, un villaggio a 6
ore di carrozza da Salisburgo. Ebbe un figlio maschio, Leopoldl
("piccolo Leopold"), e due femmine, Jeanette e Marie Babette.
Dovette rallentare le attività musicali e divenne una madre di
famiglia, occupandosi dei propri figli e anche di quelli del marito,
nati da ben due precedenti matrimoni. In seguito alla prematura
scomparsa di Wolfgang (1791), però, Nannerl diede un contributo
di notevole importanza alla promozione della sua figura di
musicista, collaborando con i suoi biografi, autenticando le sue
composizioni e incentivandone la pubblicazione. Rimasta vedova
nel 1801, Nannerl tornò a Salisburgo e riprese alacremente
l'insegnamento del pianoforte. Morì quasi ottantenne e negli
ultimi anni della sua vita ebbe la consolazione di instaurare un
rapporto affettuoso, materno, con suo nipote Franz Xaver
Wolfgang Mozart, uno dei due figli di Amadeus. Oggi riposa nel
cimitero di Salisburgo accanto a Johann Michael Haydn, il fratello
di Franz Joseph Haydn, a sua volta musicista e compositore.
Maria Anna Walburga Ignatia Mozart (Salisburgo, 30 luglio 1751 –
Salisburgo, 29 ottobre 1829) è stata una pianista austriaca.Era la
sorella maggiore di Wolfgang Amadeus Mozart, la figlia di Leopold
Mozart e di Anna Maria Pertl. In famiglia la chiamavano "Nannerl"
(come dire "Nannina" o "Nannarella") e con questo vezzeggiativo è
passata alla storia. Come suo fratello, Nannerl Mozart rivelò un
precoce talento musicale: da bambina si esibiva al suo fianco, al
clavicembalo e al fortepiano, durante le tournées organizzate dal
padre. Avendo riscontrato le straordinarie qualità dei suoi figli,
infatti, Leopold Mozart li portò fin da piccoli a suonare in molte città
europee, tra le quali Vienna e Parigi.Durante questi viaggi, sia
Wolfgang che Nannerl si ammalarono gravemente a più riprese,
anche di malattie mortali come il vaiolo e il tifo. Fu Nannerl quella
che corse il maggior pericolo: nel 1764 all'Aja, in Olanda, si ammalò
di bronchite e le sue condizioni divennero in poco tempo così gravi
che le fu somministrata l'estrema unzione. Guarì grazie
all'interessamento della principessa di Nassau-Weilburg, sorella di
Guglielmo V d’Orange, che le mandò il medico di corte. Nannerl era
di fibra forte: sopravvisse anche alla tisi, che contrasse alcuni anni
dopo.La sorella di Mozart divenne un'eccellente pianista e
un'insegnante di musica molto apprezzata. Wolfgang aveva un'alta
opinione del suo talento e della sua competenza, e le sottoponeva
d'abitudine le proprie partiture per averne un parere; compose
inoltre alcuni pezzi per pianoforte a quattro mani, e per due
pianoforti, espressamente per suonarli in coppia con lei. È questo il
caso, ad esempio, del Concerto per due pianoforti e orchestra K 365.
Fanny Mendelssohn
Fanny Cäcilie Mendelssohn Bartholdy, in seguito, da sposata, Fanny
Hensel (Amburgo, 14 novembre 1805 – Berlino, 14 maggio 1847),
è stata una pianista e compositrice tedesca. Fu sorella del più
noto compositore Felix Mendelssohn; entrambi erano nipoti del
filosofo ebreo Moses Mendelssohn. Fanny Mendelssohn nacque
ad Amburgo, prima figlia del banchiere Abraham Mendelssohn
(figlio del filosofo Moses Mendelssohn, che più tardi cambiò il
nome della famiglia in Mendelssohn Bartholdy) e della moglie
Lea, nipote dell'imprenditore Daniel Itzia. Fanny ebbe la
possibilità di usufruire degli stessi insegnamenti dati al fratello
Felix, condividendo numerosi insegnanti, fra cui Zelter. Come
Felix (che nacque nel 1809), Fanny mostrò preococemente una
grande abilità nel comporre musica. I frequenti ospiti del salotto
di casa Mendelssohn, negli anni intorno al 1820, fra i quali
c'erano Ignaz Moscheles e Sir George Smart, erano meravigliati
dal talento dei due giovani fratelli Mendelssohn. Tuttavia, fu
limitata dai pregiudizi del tempo nei confronti delle donne,
pregiusizi sostenuti, pare, anche dal padre che tollerava, più che
supportare, la sua attività di compositrice. Egli le scrisse nel
1820: 'La musica forse diventerà la sua (di Felix) professione,
mentre per te può e deve essere solo un ornamento'. Il fratello
Felix, invece, la supportava sia come compositrice che come
artista, anche se era cauto (probabilente per ragioni familiari)
sull'idea che lei pubblicasse le sue opere a proprio nome.
Lui comunque la aiutò ad arrangiare un certo numero di
componimenti che lei pubblicò a suo nome, e lei in cambio
aiutò lui con delle critiche che lui considerava molto
costruttive. Nel 1829, dopo un corteggiamento durato vari
anni, Fanny sposò il pittore Wilhelm Hensel, che
incoraggiava la sua produzione artistica. In seguito, le sue
opere erano sempre suonate insieme a quelle del fratello
durante i concerti che si tenevano nella casa di famiglia, a
Berlino. Il suo debutto in pubblico al piano avvenne nel
1838, quando si esibì sulle note dell'opera del fratello,
Piano Concerto No. 1. Morì nel 1847 a causa di
complicazioni in seguito ad un ictus avvenuto mentre
provava un'opera del fratello, 'The First Walpurgis Night'.
In anni recenti, la sua musica è diventata nota grazie ad
esecuzioni di sue opere durante dei concerti e alla
pubblicazione di CD da parte di etichette quali Hyperion e
CPO, oltre che a ricerche condotte sulla creatività musicale
femminile, di cui è uno dei pochi esemplari dell'inizio del
XIX secolo.
Le sorelle Brönte
Le sorelle Bronte, da sempre, rappresentano un caso veramente inspiegabile nella
storia della letteratura, pur densa di episodi singolari e di eventi irripetibili.
Quando si dice che la letteratura è una questione genetica: o forse nella loro
storia c'è molto di più? Fatto sta che tutte e tre le immortali sorelle Bronte,
Anne, Emily e Charlotte riuscirono a raggiungere risultati letterari
notevolissimi soprattutto per l'epoca in cui vissero e per di più quasi
contemporaneamente, diventando scrittrici affermate, e dando vita a dei
capolavori unici e irripetibili ancora oggi godibilissimi e considerati a pieno
titolo valide ed attuali fonti di ispirazione per centinaia di romanzi e film
generati da essi ad anni luce di distanza. Ma come si spiega allora questo
insolito e straordinario avvenimento letterario? Le sorelle Bronte vissero
tutto l'arco della loro vita, tranne brevi parentesi che per loro
rappresentavano sgradevoli esili forzati da cui presto fare ritorno, in una casa
desolata con il cimitero in fondo al giardino, permeandosi dei simboli sacri e
delle lapidi grigrie lambite solo dal vento dell'est, tuttavia la morte per loro
non era qualcosa di orrendo, bensì costituiva l'inizio e la fine di ogni cosa. E
proprio la morte rappresentò il tema dominante della loro stessa esistenza,
andando a costituire anche nelle loro opere un punto di riferimento
costantemente presente. In questo ambiente crebbero alimentando segrete
passioni, nella solitudine e nel silenzio, trovando nella passione letteraria una
valida fuga dalle preoccupazioni quotidiane legate alla ricerca di un lavoro, di
una stabilità e di una indipendenza economica, trovando in essa sollievo alle
morti premature dei loro cari, alle continue difficoltà e all'imminente rovina
che ormai gravava sulla famiglia.
Jane Austen
Nata a Steventon nel 1775 e morta a Winchester nel 1817. Era figlia di un pastore anglicano, George
Austen, visse per venticinque anni a Steventon con sei fratelli e la sorella Cassandra. Ben poco di
certo si sa della sua vita e non si conoscono episodi degni di particolare nota; Jane non lasciò mai
la sua famiglia e rimase nubile fino alla fine dei suoi giorni; dopo la morte i suoi fratelli distrussero
gran parte delle lettere e delle carte private che le erano appartenute.
Il nipote, J. E. Austen-Leigh, ne scrisse una biografia, pubblicata nel 1870 col titolo di Memorie; in
esso Austen viene presentata come una signorina esemplare, presa dalla vita domestica e dedita
solo incidentalmente alla letteratura. Orgoglio e pregiudizio: l’impossibilità di emancipazione: Il
più celebre romanzo della scrittrice britannica Jane Austen, fu scritto tra il 1796 e il 1797
originariamente con il titolo First impressions e poi pubblicato anonimamente nel 1813.I temi
principali del romanzo sono l’orgoglio di classe di Mr Darcy che crede di non poter ricevere alcun
rifiuto e il pregiudizio di Miss Elizabeth Bennet che crede invece di sapere e di conoscere una
persona da ciò che si dice di lei. E’ una storia d’amore, poetica, ironica e intelligente i cui
personaggi sono caratterizzati nei comportamenti e nella psicologia in maniera dettagliata e
precisa. Romantica senza essere melensa e dolce senza sciocchi sentimentalismi. Differenze di
classe, satira delle vanità e debolezze della vita domestica osservate da uno spirito arguto e
implacabile. E’ un racconto davvero splendido che non può mancare nella biblioteca di un
appassionato lettore.
George Eliot
George Eliot, pseudonimo di Mary Anne Evans George
Eliot, pseudonimo di Mary Anne Evans (22 novembre
1819.22 dicembre 1880), è stata una scrittrice
britannica, una delle più importanti dell'epoca
vittoriana. I suoi romanzi sono ambientati
prevalentemente nella provincia inglese e sono
famosi per il loro stile realista e la loro perspicacia
psicologica. Ha usato uno pseudonimo maschile per
essere sicura che le sue opere fossero valutate
seriamente e senza pregiudizi, nonostante anche
all'epoca numerose autrici pubblicassero liberamente
i propri lavori sotto il loro vero nome. Eliot preferì
usare lo pseudonimo anche per difendere la propria
vita privata dal giudizio pubblico e quindi evitare
scandali riguardanti la relazione extraconiugale con
George Henry Lewes.
Artemisia Gentileschi
Artemisia nasce a Roma l'8 luglio del 1593, figlia di Prudenza Montoni, che morì
quando la figlia aveva 12 anni, e Orazio Gentileschi, artista molto noto all'epoca.
Fin da piccola si dimostra la più dotata dei sei figli del pittore e viene avviata dal
padre alla pittura, nonostante fosse l' unica figlia femmina. Grazie al mestiere
del padre avrà modo di frequentare fin dall'infanzia i più influenti artisti della
Roma barocca. Nel 1612 Orazio chiede ad Agostino Tassi, col quale stava
affrescando il Palazzo del Quirinale, di dar lezioni di prospettiva alla figlia. Egli
però violenta Artemisia e fa i suoi comodi per un anno finchè il Gentileschi non
decide di denunciarlo, probabilmente più per vendicarsi di sgarri professionali
che non per lo stupro fine a sè stesso. Il processo si svolge a porte aperte e
naturalmente lo scalpore e la curiosità nati intorno alla violenza subita dalla
giovane devono aver pesato ulteriormente sulla già non facile condizione di
Artemisia, che si trasferisce a Firenze dopo essere stata costretta a sposare
Antonio Stiattesi. Tassi riesce a non ricevere punizioni dal tribunale grazie alla
protezione della famiglia Borghese, a cui apparteneva anche il papa in carica,
Paolo V. In Toscana, dove si fa chiamare col vero nome di famiglia, Lomi, il
talento della giovane è molto apprezzato ed entra nelle grazie della
Granduchessa Cristina de Medici e del Gran Duca Cosimo II. Artemisia è la prima
donna ammessa, nel 1616, alla fiorentina Accademia del Disegno. Ma se in
questo periodo la sua carriera procede con successo non si può dire lo stesso
della vita privata: il marito la lascia e lei dovrà; crescere da sola le figlie,
Prudentia e una bambina più piccola di cui non si sa quasi nulla, ambedue più
tardi avviate alla carriera artistica. Nel 1620 lascia Firenze per tornare a Roma. In
seguito raggiunge il padre a Genova dove incontra Antonie Van Dyck ed è
probabile che i due si influenzino artisticamente a vicenda. Si trasferisce a
Venezia per un breve periodo, poi nuovamente a Roma e nel 1630 è a Napoli e
nel 1637 a Londra dove lavora il padre, per ritornare nella città partenopea 9
anni dopo, dove muore nel 1652.
Giovanna Garzoni
Giovanna Garzoni rappresenta una singolare figura di artista, nota per le sue pregevoli miniature e soltanto di recente apprezzata
per aspetti non meno importanti della sua creatività, come la pittura, la ritrattistica o, addirittura, l'illustrazione scientifica.
Nacque ad Ascoli Piceno forse da famiglia originaria di Venezia, e crebbe in un ambiente artistico (quella della madre fu una
famiglia di orafi), guidata nelle prime esperienze del disegno dallo zio Pietro Gaia, seguace di Palma il giovane. Abbiamo
pochissime notizie sui primi anni ascolani, la stessa data di nascita fu rilevata in una "sacra famiglia" datata 1616 "anno suae
aetatis XVI", ora scomparsa. Da Ascoli si trasferì a Venezia, forse indirizzatavi dallo zio, e qui la sua limitata produzione fu
caratterizzata da soggetti sacri che evidenziano una chiara influenza del Palma, tanto da non escludere contatti con la sua
bottega. Nel 1630 si trasferì a Napoli al servizio della famiglia del Vicerè, ed iniziò la sua carriera di ritrattista, che le dette
subito discreta notorietà, tanto da essere chiamata alla corte del duca di Savoia Amedeo I per interessamento della moglie,
Cristina di Francia. A Torino restò pochi anni, fino al 1637, ma fu un periodo molto intenso, che ne decretò definitivamente la
fama come miniaturista e ritrattista. Di quel periodo molte opere realizzate per la corte sabauda, soprattutto i ritratti dei
duchi, che rivelano le sue qualità e la sua tecnica. Per quanto legata a stilemi del tardo manierismo, nelle sue opere la
Garzoni espresse in tutta originalità tecniche di dosaggio del colore tali da dare al ritratto ed ai soggetti una luminosità ed
una vivacità decisamente particolari. A Torino fu anche in contatto con un ambiente culturale aperto alle influenze
internazionali, soprattutto quelle francesi, e le sue opere ne risentirono fortemente. Al periodo torinese vanno fatte risalire le
sue prime nature morte, veri esempi di incrocio di tecniche ed influenze: nelle composizioni la Garzoni seppe mixare con
sapiente scelta artistica le influenze fiamminghe e lombarde, poi imitata da quel Monfort che possiamo considerare come il
suo erede naturale a Torino. La parentesi torinese si chiuse nel 1637. Dopo alcuni viaggi in Europa (forse Londra e Parigi),
l'artista si stabilì a Firenze dove, in contatto con Cassiano del Pozzo, fu tentata dall'esperienza artistica che caratterizzerà la
seconda parte della sua vita. Alle nature morte affiancò vasi di fiori, opere che hanno tramandato la sua abilità nel miniare e
riprodurre splendide composizioni. A Firenze realizzò anche l'erbario figurato, testimonianza di una probabile vicinanza
all'ambiente dei Lincei, che farà della Garzoni un illustratore scientifico importante ma sui generis: alla perfezione della
riproduzione ed all'indagine della pianta non sacrificò la personale interpretazione della luce, del dosaggio dei colori, della
disposizione dell'immagine. Dopo alcuni anni al servizio dei Medici , nel 1650 si trasferì definitivamente a Roma, dove rimase
fino alla morte, frequentando l'Accademia di San Luca alla quale lasciò un taccuino con una serie di sue miniature. Miniò e
disegnò fino alla fine, rispondendo anche ad una costante e fedele committenza, testimonianza della notorietà raggiunta che,
sicuramente, ne fece una protagonista della Roma del '600. A Roma morì nel febbraio del 1670.
Frida Kahlo
Selvaggia e passionale come il suo paese d’origine, il Messico, violenta e dolcissima come l’attaccamento alla vita che la
caratterizzò, visionaria e realistica come i suoi quadri, Frida Kahlo ( 1907 -1954) è sicuramente una delle più grandi artiste
contemporanee, a lungo misconosciuta ma recentemente scoperta dalla critica. Immobilizzata sin dall’età di diciassette anni,
in seguito alla poliomielite e a un grave incidente automobilistico, Frida partecipò attivamente alle vicende rivoluzionarie del
suo paese, trovando infine nella pittura lo strumento più versatile per esprimere la sua disperata vitalità. Allieva, moglie e
musa di Diego Rivera, ebbe contatti fecondi e a volte burrascosi, con molti protagonisti dell’arte europea tra le due guerre –
Duchamp, Breton, Picasso, Kandiskij, tra gli altri- lasciando a tutti il ricordo di un artista tormentata e inconfondibile, di una
personalità straziata e indimenticabile. Per Frida, la verità era da ricercarsi non tanto nella propria vita, quanto, piuttosto
nell’affermazione del proprio io. Il soggetto che analizzò più compiutamente fu se stessa. Tra il 1926, anno in cui dipinse il suo
primo lavoro, e le sue ultime opere del 1954, anno in cui morì, la Kahlo produsse più di cinquantacinque autoritratti, tra
immagini individuali e quadri più elaborati: un numero spropositato, se si considera che la sua intera produzione conta
centoquarantatrè dipinti noti. Ma la “verità” di Frida non consisteva semplicemente nella trascrizione di una vicenda
biografica: la Kahlo trasformò le sue esperienze di vita ricorrendo a un simbolismo personalissimo,
che tuttavia, trascendeva le questioni private per rivolgersi ad argomenti di carattere universale.
Il complesso immaginario di Frida derivava da fonti indigene che ritornano nella sua opera insieme alle suggestioni della pittura
coloniale di origine europea; inoltre, l’artista mescolò abilmente immagini del simbolismo cristiano e di quello azteco,
rivalutandone allusioni e metafore che si colorano di nuove interpretazioni. La Kahlo è stata venerata per la sua resistenza
proto- femminista ai limiti patriarcali, è stata mitizzata per la sua costante ricerca introspettiva, che contrastava con l’arte
“pubblica” predominante nel periodo in cui visse. In Messico e tra le comunità ispaniche degli Stati Uniti, la Kahlo è diventata
una figura culto. Gli autoritratti di Frida determinarono una frattura nella storia dell’arte, capovolgendo le aspettative
inerenti alla rappresentazione del femminile. Ironicamente, l’artista è sia il soggetto che l’oggetto del suo sguardo spietato e
sottile. La pittrice non rifuggiva dal dipingersi in una maniera decisamente realistica e poco femminile, evidenziando i suoi
sottili baffetti, rappresentando se stessa in modo insolente con in mano una sigaretta e lo sguardo deciso, o vestendosi in
modo anticonvenzionale. Negli autoritratti, il volto maschera della Kahlo si oppone con decisione e in modo perturbante al
senso di angoscia che ne deriva. Quando la pittrice afferma: ”Ho dipinto la mia realtà”, non indica semplicemente il fatto di
avere attinto dalla propria vita, ma, piuttosto, di aver ricostruito se stessa nei suoi dipinti.
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